MANIFESTO CONTRO IL LAVORO
▸ Prefazione del curatore della antologia
▸ Il lavoro nel pensiero greco (Giovanni Reale)
▸ Elogio
dell'ozio (Bertrand Russell)
▸ Il sapere "inutile"
(Bertrand Russell)
▸ L'uomo "compiutamente spostabile" (Elémire Zolla)
▸ Divisione e specializzazione del
lavoro moderno (Konrad Lorenz)
▸ Il mito del lavoro nel mondo
contemporaneo (Julius Evola)
▸ Assente il
padre (James Hillman)
▸ Manifesto per un mondo senza lavoro
(Ermanno Bencivenga)
▸ Lettera contro il lavoro (Charles Bukowski)
▸ L'orrore economico (Viviane
Forrester)
▸ L'SOS di un lavoratore cinese nel regalo della festa
▸ E per finire: un racconto noir di Stanley Ellin (ovvero: cosa può diventare a volte un
lavoro)
prefazione del curatore della antologia
La
Nutella è sana? Pare di no, secondo una corte americana, che, su denuncia di
una casalinga, ha trovato mendace lo slogan secondo cui si tratterebbe di
"un pasto sano per i bambini", e ha condannato l'azienda ad un
pesante risarcimento. A quanto pare, i "grassi vegetali" indicati tra
gli ingredienti comprenderebbero famigerati oli tropicali dannosissimi per la
salute.
Ma
cosa c'entra questo con la valutazione - positiva o negativa - del lavoro nella
nostra società? Ebbene, c'entra.
E'
un modo provocatorio di iniziare un pamphlet
basato sulla tesi che gli aspetti negativi del lavoro sono innumerevoli e poco
noti - o meglio taciuti in una cultura come la nostra, ufficialmente
lavorocentrica e panlavorista.
Se
- come denunciava il Manzoni nel suo Saggio
Contro Bentham - alla base di un sistema economico si pone la
sollecitazione indiscriminata dei bisogni e desideri individuali - necessari o
voluttuari o persino dannosi o peccaminosi - come mezzo per garantire un
adeguato livello di domanda e di occasioni di lavoro, è da riconoscere che una
buona parte delle attività che il coscienzioso lavoratore svolge in epoca
moderna è inutile se non dannoso.
Chi
scrive ricorda ancora i pranzi domenicali conclusi con un vassoio di dieci
pasticcini della "Premiata Pasticceria Piemontese Fresia", su cui noi
bambini ci gettavamo sotto lo sguardo amorevole di nostra madre.
Oggi
quasi tutti i dietologi denunciano l'epidemia silente di diabete che colpisce
coloro che hanno iniziato a mangiare i dolciumi delle Premiate Pasticcerie
sparse in tutta Italia e che hanno avuto la sfortuna di un metabolismo troppo
fragile per reggere gli shock insulinici che ci regalavano le domeniche, le
colazioni ricche di biscotti e marmellate, il pane con la Nutella.
Le
panetterie, le fabbriche di biscotti, le fabbriche di trasformazione dei
cereali sfornano giornalmente masse di pane, dolci, pasta superiori di molti
ordini di grandezza alle necessità dell'alimentazione quotidiana. Recentemente
il giornalista scientifico Gary Taubes ha pubblicato il best-seller How we get fat and what to do about it
per denunciare un fatto noto a tutti i dietologi degli anni '50 ma dimenticato
con effetti rovinosi negli anni del boom economico: che pane, pasta e farinacei
producono eccesso di insulina e sono - essi e non i grassi - la principale
causa di obesità in Occidente. Un altro libro che ha fatto epoca, Pure, white and deadly, di John Yudkin,
metteva in guardia, sin dagli anni Settanta, dal consumo di saccarosio, lo
zucchero impiegato universalmente, dagli yoghurt alle merendine alle bibite,
che gli studi scientifici vengono confermando come principale causa
dell'epidemia di diabete che ha colpito l'Occidente dopo la seconda guerra
mondiale.
Le
industrie di trasformazione dei latticini sfornano tonnellate e tonnellate di
creme, formaggi grassi, maionesi, burro, mascarpone, dessert ricchissime di
grassi saturi. Già uno studio degli anni Settanta sulle autopsie dei giovani
americani al disotto dei venticinque anni (molti dei quali morti in Vietnam)
rivela che le loro arterie a diciotto anni recano le fat strikes, cioè delle striature di grasso dovute al consumo di
simili alimenti, destinate con l'età ad occludere i vasi sanguigni.
Un
altro aneddoto di gioventù: in un paese dove stavo soggiornando arrivò una
comunità hippie dedita alla meditazione e al lavoro manuale. Il macellaio del
paese andò speranzoso ad offrire una fornitura settimanale di carne, ma quelli
risposero no, grazie, siamo vegetariani e siamo sanissimi. Il macellaio ne fu
scandalizzato: "ma così non si dà lavoro alle persone!". Anche qui, i
dietologi denunciano come inutile ed estremamente dannoso il consumo di almeno
la metà della carne che gli italiani hanno ingurgitato a partire dagli anni
Sessanta per compensare le privazioni della guerra (e dell'anteguerra).
Questo
discorso sui lavori dannosi andrebbe ripetuto per i night-clubs, dove lavorano
rispettabilissimi camerieri; per le discoteche, dove lavorano onestissimi
barman e buttafuori; per le fabbriche di patatine e bibite, dove lavorano
alacri magazzinieri; per le fabbriche di armi dove lavorano eccellenti
artigiani; per le fabbriche di additivi dove lavorano rispettabili chimici; per
le case di produzione di film pornografici, dove lavorano onesti tecnici del
suono e cameramen; per le fabbriche di sigarette e di superalcolici, dove
lavorano irreprensibili impiegati; eccetera, eccetera.
Ma
a parte il fatto, rilevato in questa nota di apertura, che la celebrazione del
lavoro, tipica della nostra epoca di mercato, abbraccia innumerevoli attività
dannose per il prossimo, la questione è un'altra: ha senso esaltare il lavoro
come l'attività più nobile dell'uomo, se il lavoro non c'è più, è in via di
estinzione?
La
globalizzazione c'entra solo in parte: non è solo l'operaio cinese che ruba il
lavoro a quello occidentale, ma anche il fatto che due secoli di ininterrotto
progresso della tecnica e di costanti miglioramenti dei processi produttivi
hanno fatto sì che per produrre la quantità di beni e servizi necessaria alla
popolazione mondiale sia sufficiente impiegarne un'infima minoranza.
Come
nota Viviane Forrester, la cibernetica, trascurata dalla politica, venne
introdotta nell'economia quasi distrattamente, senza riflessioni né secondi
fini, come un semplice strumento, in un primo momento utile, ben presto
indispensabile. Le sue conseguenze avrebbero dovuto risultare benefiche, quasi
miracolose. Hanno avuto effetti disastrosi, per non dire apocalittici.
Secondo
le previsioni del sociologo Luciano Gallino, tra non molto vivremo in un mondo
dove solo una persona su dieci lavorerà - e perdipiù in modo prevalentemente
precario. E gli altri?
Gli
altri, come dice il filosofo Ermanno Bencivenga nel suo recente libro Manifesto per un mondo senza lavoro,
devono reinventare la loro vita e il loro tempo libero.
Ma
intanto essi costituiscono un problema sociale sempre più preoccupante. Gli
stati occidentali hanno varato imponenti programmi di riqualificazione, corsi
su corsi finalizzati in realtà a tenere impegnati coloro che il lavoro non
riusciranno più a trovarlo, fornendogli modeste indennità. Presto anche in
Italia arriverà un assegno di alcune centinaia di euro ai disoccupati, col
quale, come negli altri paesi d'Europa, i giovani (e i meno giovani) dovranno
sopravvivere, sposarsi, mettere al mondo figli.
Si
inventano lavori ad hoc per dare
qualche soldo a questa folla di disoccupati. Il Giappone ha bloccato la grande
distribuzione, in modo che anziani e meno anziani possano sopravvivere
precariamente gestendo piccoli negozi; impone ai benzinai l'assunzione di
apprendisti. In tutti gli altri paesi si è obbligati a certificare
periodicamente impianto elettrico, impianto di riscaldamento, conformità
termica dell'alloggio e quant'altro in modo da dar lavoro a schiere di
idraulici, elettricisti e architetti disoccupati.
Si
invitano le persone a diventare "imprenditori di se stessi", che è
quanto dire ad arrangiarsi, esaltando la libertà del lavoro autonomo, che è
quanto dire la bellezza di non avere prospettive di impiego.
La
verità, per un numero sempre crescente di persone, è che esse non hanno, per il
sistema capitalistico una utilità apprezzabile, una ragione di vivere diversa
da quella di consumatori, essendo inutili come lavoratori; ma non possono
svolgere il ruolo di consumatori perché non hanno reddito.
La
questione del lavoro è diventata simile alla monacazione forzata delle fanciulle
nobili del Cinque-Seicento: perché uno solo possa avere l'eredità (nel nostro
caso il posto di lavoro), gli altri devono togliersi di mezzo, sparire. Chi
scrive ricorda ancora il proprio vicino di casa, le cui cinque sorelle furono
costrette dal padre ad entrare in convento per poter lasciare a lui il patrimonio.
Le
rivendicazioni e le pressioni dei disoccupati, servono ormai solo a rendere la
vita impossibile e precaria agli occupati, con la minaccia di una loro
sostituzione, un memento della loro
assoluta rimpiazzabilità.
Coloro
che lavorano sono dunque privilegiati? Non si direbbe proprio.
A
cominciare dal fatto che il sostegno economico a pensionati e disoccupati
finisce per gravare sulle spalle di chi lavora, per far aumentare la pressione
fiscale su quei pochi che hanno un'occupazione. Già oggi, in molti paesi
europei, compresa l'Italia, i contributi per mantenere pensionati e disoccupati
ammontano al 33% del salario lordo, ma se, più correttamente, li rapportiamo al
reddito netto, arriviamo al 50%.
Il
lavoro oggi non è sereno, è minato alla base, corroso dalla paura del
licenziamento. Perché si può perdere il lavoro da un giorno all'altro. E si ha
paura perché la conseguenza è assurda, spropositata: essere buttato per strada,
sul marciapiede.
I
lavoratori sono odiati, spesso disprezzati perché si accontentano di poco e
così facendo "rubano il lavoro agli altri". Sono denunciati coloro
che hanno il posto fisso: devono diventare precari perché sulla possibilità
della loro rovina si basa la possibilità della sopravvivenza di altri, la loro
speranza di lavorare.
La
tendenza è ad aumentare il tempo di lavoro degli occupati fino a 10 ore al
giorno e oltre: che si tratti del piastrellista o del mobiliere o
dell'idraulico in gamba, i cui servizi, in un mondo di mestieri manuali
negletti o mal imparati sono richiestissimi; oppure dell'infermiere o del
dipendente di Auchan che accumula turni su turni; o del bancario a cui viene
chiesto di fermarsi dopo le cinque per ricaricare il bancomat o inviare gli
assegni della giornata alla stanza di compensazione.
Si
assiste qui ad un formidabile paradosso: in un mondo in cui il numero di ore necessario
per produrre tutto ciò che serve si è drasticamente ridotto, e ciascuno, se
tutti dovessero prendere parte al processo produttivo, dovrebbe lavorare al
massimo qualche ora al giorno per una manciata d'anni, si penalizzano e persino
criminalizzano coloro che osano andare in pensione con trent'anni di anzianità.
Invece
di orari sadici, sarebbe certamente più giusto che tutti partecipassero al
lavoro (e al suo frutto), e che ciascuno fosse libero di svolgere la quantità
di lavoro che gli abbisogna per avere il necessario, senza per questo rischiare
il licenziamento o la pensione da fame, a meno di non scendere molto al disotto delle ore che
attualmente vengono svolte. Ma questo non è possibile neanche accettando
decurtazioni: persino il part-time al 50% è negato, razionato dappertutto.
Nuovi
tipi di fenomeni associativi, di organizzazioni che mettano in comune i beni e
i servizi, nuovi modelli di consumo, che consentano di vivere con meno,
guadagnando in libertà e in arricchimento personale, dovrebbero essere attuati,
e sono stati preconizzati (vedi il brano di Ermanno Bencivenga) come
conseguenza inevitabile della pauperizzazione che deriva dalla globalizzazione,
ma per ora non sono stati neanche tentati, rimangono sulla carta.
In
un mondo dove ad un concorso si presentano cinquemila persone per venti posti,
le pretese nei confronti dei lavoratori, soprattutto per gli impieghi
medio-alti, tendono a diventare assurde. Il lavoratore deve occupare sempre più
tempo per acquisire abilità utili ai soli fini della selezione. Una volta
venivano richiesti buon italiano e buona volontà. Ora un aspirante ad un lavoro
che non sia infimo deve conoscere almeno due lingue alla perfezione (con
relativa certificazione), deve avere all'attivo centinaia di ore di corsi
post-scolastici di informatica, di gestione, sulla sicurezza, e quant'altro.
Il
lavoratore viene assoggettato ad una valutazione permanente, ad un monitoraggio
costante, che aggiunge allo stress della esecuzione dei compiti quello di una
sorveglianza che sta diventando asfissiante.
I
dipendenti dei supermercati e dei locali autorizzati all'uso di telecamere
trascorrono sotto lo sguardo implacabile dell'obiettivo l'intera giornata
lavorativa. L'ultima trovata, che elude le norme anti-mobbing, è semplice,
geniale e definitiva: scatenare l'utente contro il lavoratore. Il cameriere di
una catena di pizzerie, stanco a fine turno non sparecchia velocemente il
tavolo del nuovo cliente? Arriva subito il reclamo. A questo scopo tutti devono
portare, come altrettanti cani vaccinati,
il cartellino di riconoscimento, che facilita l'identificazione del
colpevole e la redazione delle statistiche di produttività. Hai appena concluso
un colloquio o una seduta in chat con l'operatrice di un call-center? Ti viene
subito chiesto di valutare la sua efficienza su una scala da uno a dieci.
Non
è chi non veda quanto paradossalmente ciò sia in sintonia con l'inno della
nuova sinistra: "dare accesso ai cittadini alla gestione pubblica locale!".
E' ciò che auspica con toni ispirati Norberto Bobbio ne Il futuro della democrazia. Si moltiplicano i consigli dei
genitori, i questionari sulla soddisfazione dell'utente, i tribunali dei
diritti del malato. Come se non bastassero le assicurazioni a istigare i
pazienti a far causa ai sanitari per evitare di pagare i premi concordati.
All'orizzonte,
al posto dei tradizionali bastone e carota, sta la minaccia ultima, quella del
licenziamento per insoddisfazione dell'utenza: e non semplicemente, si faccia
attenzione, il licenziamento degli inefficienti,
ma il licenziamento dei meno efficienti.
Tolti di mezzo quelli, si spera di trovarne altri che si affaccendino più
alacremente, in una specie di ballo di San Vito universale.
L'OCSE
e le altre istituzioni economiche e finanziarie internazionali benedicono la
figura del lavoratore flessibile, con
orari arbitrari, occupazione part-time ma disponibilità permanente,
trasferibile qua e là nelle varie unità produttive o all'estero, con contratto
a termine mensile o addirittura settimannale, che accetta temporanee
decurtazioni di salario, contratti di apprendistato con compensi simbolici e
quant'altro.
Qualche
tempo fa si leggeva su un quotidiano nazionale, la cronaca della giornata di
uno di questi giovani "flessibili": la mattina, lavoro in una
cooperativa di servizi come taglia-erba; il pomeriggio clown-animatore di
feste; la sera, simulatore di orgasmi in un call-center erotico per
omosessuali. Sempre precario. Sempre sottopagato. Ancora a casa con i genitori,
per motivi economici. Evviva la varietà.
Diceva
Gustav Meyrink in un suo famoso racconto, Bal
Macabre (il titolo si intona singolarmente al soggetto di questa
introduzione) che di cinquant'anni, dieci li ruba la scuola; venti li divora il
sonno; dieci sono gli affanni; cinque sono anni di pioggia. Di questi, quattro
li passiamo in pena per il domani. Quanti ne restano?
Noi
potremmo parafrasare: cosa rimane della vita di un lavoratore che si alza alle
sette, parte alle otto, arriva alle otto e mezzo, lavora fino alle sei con una
pausa pranzo di un'ora e un extra di mezz'ora, ritorna per le sei e mezzo, si
lava, mangia e deve dormire sette ore? Teoricamente dalle otto di sera alla
mezzanotte. Già così sarebbe la vita di un vampiro, seppellito di giorno ed
attivo di notte, se non si dovesse detrarre anche il tempo per le faccende
domestiche, la cura dei figli, i litigi con la moglie, le pulizie, ma
soprattutto il tempo maledetto-benedetto passato in santa pace davanti alla
televisione o su internet.
Non
ci si deve pertanto stupire che il lavoratore non legga (un tempo si sarebbe
aggiunto: e non scriva, ma oggi…), non faccia sufficiente esercizio fisico e non
dorma a sufficienza - uno studio americano recente mostra che negli ultimi
vent'anni hanno perso un'altra ora di sonno.
Non
abbia tempo per acquisti ragionati - persino il budget alimentare soffre per la
spesa fatta di fretta dopo il lavoro senza poter girare in cerca dei prodotti
più economici e salutari, confrontando prezzo e qualità.
Non
mangi razionalmente e si rovini la salute con pasti consumati di fretta a base
di poco salutari tramezzini e brioches piene dei famigerati "grassi
vegetali" di cui sopra.
Non
abbia il tempo per coltivare il rapporto con i figli, o col partner, o con gli
amici. Non abbia il tempo per coltivare
la propria spiritualità con letture, incontri, ritiri ecc.
Non
abbia il tempo di farsi analisi mediche e cure. Non ha il tempo da passare a
contatto con la natura
Non
abbia il tempo per hobby che arricchiscano la persona, per frequentare corsi di
scrittura, palestre di arti marziali, lezioni universitarie, concerti, lezioni
universitarie, eccetera.
Non
c'è tempo neanche per le cure estetiche minime, se è vero che la media che una
donna lavoratrice inglese passa in bagno o in sedute depilatorie, di trucco o
di acconciatura è di venti minuti al
giorno. E così via. Sembrerebbe quindi vero quello che dice Charles
Bukowski: chi lavora diventa più brutto.
Chi
lavora non ha neanche il tempo per il lutto - non gliene è concesso. Muore il
partner, il padre, la madre, un caro amico? Il lavoratore ha tre, quattro
giorni per "sistemare gli affari di famiglia", in altre parole per
sistemare la faccenda, farla sparire in modo che non intralci l'attività produttiva.
Egli è un "professionista", gli viene ricordato, e i professionisti
non permettono che le vicende personali influiscano sul lavoro. In altre
parole, non si può mostrare depresso, non può lamentarsi, il suo rendimento
lavorativo non deve subire flessioni. Deve fare - metaforicamente e letteralmente
- buon viso a cattiva sorte.
Anche
la decrescita demografica col conseguente invecchiamento della popolazione sono direttamente riconducibili al lavoro,
onnipresente e asfissiante. Se lavori non hai il tempo per fare figli: a parte
le considerazioni economiche, se moglie e marito lavorano è impossibile
l'organizzazione pratica della crescita di una prole numerosa.
Il
brano di Elémire Zolla, qui riportato, insiste giustamente sul fatto che oggi
l'uomo è "compiutamente spostabile", accetta la privazione di tutto
ciò che è autentico e in cambio riceve una vita artificiale. Il lavoro è solo
una delle voci di una lunga lista di cose che ci sono state tolte e rimpiazzate
con la moneta cattiva.
I
cibi sani e naturali ci sono stati tolti in cambio di patatine, sottilette e
pasti precucinati. Il contatto con i genitori, o almeno il rapporto con la
madre ci è stato tolto perché entrambi i coniugi sono assenti per lavoro. Il
contatto con la natura ci è stato tolto: veniamo allevati nel centro delle
città, in cubi di cemento irradiati dalla televisione, e i delfini, ormai in
via di estinzione per il colera suino, li vediamo saltare felici solo nei
videogiochi.
L'istruzione
di qualità, quella con i precettori personali, che si possono vedere dietro al
giovane nobile nei ritratti del Sei-Settecento, è stata sostituita dal sistema
delle scuole pie inaugurato nei quartieri poveri del Settecento: decine e
decine di alunni chiassosi e un solo insegnante, reclutato oggi con i metodi di
reclutamento dei mozzi delle baleniere o dei soldati di Federico II, vale a
dire a casaccio, per l'esigenza di riempire i ranghi di un corpo docente
mostruosamente gonfiato dall'istruzione di massa. Per decenni si sono assunti
insegnanti con corsi abilitanti, in flagrante violazione del fondamentale
principio dell'articolo 97 terzo comma della Costituzione: "agli impieghi
nella pubblica amministrazione si accede mediante concorso"
Marx,
nel delineare la storia della proletarizzazione, contrapponeva il lavoratore
medievale e dei primi tempi moderni, proprietario dei mezzi di produzione e organizzatore
della propria attività, al lavoratore espropriato, pauperizzato e alienato del
mondo contemporaneo, fagocitato da processi produttivi che specializzazione e meccanizzazione
rendono a lui estranei e incomprensibili.
Il
lavoro ha subìto la subdola e silenziosa trasformazione-equivocazione in
"impiego". Il "mestiere" è attività gratificante ed entro
limiti apprezzabili autonoma. L'"impiego" è attività al servizio del
profitto, nella quale il valore estetico, la significatività, la creatività, l'ingegnosità
- tradizionali attributi del "lavoro ben fatto" - vengono sostituiti
dal canone dell'utilità economica per il datore di lavoro, dal criterio del profitto.
E' inutile e sconsigliato che l'impiegato
di sportello tenti di mostrarsi premuroso e sollecito con i clienti - questo
potrebbe rallentare il servizio. E' inutile che il giovane assunto dalla casa
editrice scriva una presentazione colta e intelligente per il risvolto di
copertina di un libro: se non è senzazionalistica non fa vendere. E' inutile
che l'insegnante della scuola privata dedichi tempo alla cultura e alla
preparazione di lezioni istruttive: l'imperativo è la promozione, o la preparazione
per l'esame di stato. E' inutile che l'addetta alle televendite si soffermi ad
ascoltare il giudizio del cliente o eserciti le arti della persuasione perché
(come testualmente ha detto allo scrivente una televenditrice di surgelati) è
la quantità di chiamate telefoniche che conta: su 100 chiamate è
statisticamente certo che cinque o sei risulteranno in un acquisto, quindi si
deve concludere al più presto la chiamata con l'utente titubante.
In
una scena istruttiva di un film degli anni '70 l'indimenticabile Tognazzi, nei
panni di un professore di inglese disoccupato, viene incaricato di tradurre un
romanzo di uno scrittore americano contemporaneo. Qualche giorno dopo la
consegna della traduzione viene convocato dalla responsabile editoriale e
rimproverato: ha tradotto - correttamente - l'espressione "to shake the
hands" come "stringersi la mano", ma "scrollare le
mani", secondo la dirigente, è più incisivo, pittoresco, in ultima analisi
farebbe vendere meglio. Al professore di inglese viene consigliato di trovarsi
un impiego altrove per "maturare un adeguato bagaglio di esperienze
nell'editoria" in vista di una chimerica riassunzione.
La
logica economica si sostituisce dovunque alla gestione razionale: nella scuola
si istituisce la settimana corta per motivi economici (tenere chiusi gli
istituti il sabato); si semplificano i programmi per motivi economici (meno ore
da pagare), si abbreviano le ore di insegnamento e si propone l'eliminazione di
un anno delle superiori per motivi economici (idem come sopra). Di motivi
didattici neanche l'ombra. Ed esempi simili si possono trovare un po' dappertutto.
Tra
le altre cose, lo ripetiamo, il lavoratore non legge. Non può farlo. Glie ne
manca il tempo. E se lo avesse, dovrebbe leggere per aggiornare le sue
conoscenze tecniche, perché ormai si vive in un'epoca di "aggiornamento permanente",
dove chi non lo fa non riesce a tenersi o a trovare un lavoro in perenne
cambiamento. I paesi industrializzati sono colpiti da un'epidemia di scarsa
lettura, Italia in testa: nel nostro paese si leggono 0,6 libri l'anno per ogni
persona in età da lettura.
Si
dà la colpa alla scuola dell'esistenza di tanti semi-analfabeti, ma forse la
verità è un'altra, e la diagnosi di
malfunzionamento della scuola andrebbe rivista. Come si può pretendere che
parli e scriva correttamente l'italiano un lavoratore che da studente ha letto
solo i libri consigliati dall'insegnante - di solito non più di quattro-cinque
l'anno - e imparato le regole grammaticali senza metterle in pratica, e da
lavoratore non ha neanche il tempo di dare una scorsa al giornale? Forse è il
lavoro, e non la scuola colpevole della ignoranza e dell'analfabetismo diffuso
nella nostra società.
La
lettura è uno dei mezzi attraverso i quali la specie umana ha conseguito il suo
formidabile successo evolutivo: il punto di forza della nostra razza è infatti
il passaggio delle conoscenze: non appena un membro ha appreso qualcosa di
utile, questa viene resa disponibile agli altri membri attraverso la
comunicazione orale o scritta o l'imitazione. Il superlavoro sta danneggiando
uno dei meccanismi di trasmissione della cultura e delle conoscenze.
E
in un mondo complesso come il nostro, leggere e apprendere è essenziale. Madri
che non sanno distinguere una vitamina da una aspirina, per quanto
benintenzionate sono pericolose per i figli; padri che non sanno nulla di
psicologia infantile e adolescenziale; pazienti a cui vengono nascosti i
pericoli dei farmaci, e che non leggono neanche il bugiardino; utenti che
ignorano pregi e difetti dei prodotti; e così via all'infinito. Ma chi lavora
non ha tempo di leggere e di informarsi.
Ma
torniamo al quadro delle condizioni odierne di lavoro.
Nelle
grandi organizzazioni i lavoratori sono scoraggiati dal prendersi permessi per
malattia o cure mediche anche importanti, come interventi chirurgici: lo
facciano durante le ferie annuali. Le lavoratrici sono scoraggiate dal fare
figli.
Si
assiste a questo paradosso: che i soldi per acquistare i beni che la società
produce sono posseduti solo dai pochi privilegiati che lavorano, ma questi non
hanno il tempo materiale per consumare questi beni, e finiscono per accumularli
inutilmente.
Quali
soldi, poi? Gli stipendi e i salari sono francamente, o stanno rapidamente
divenendo miserabili. Un garzone di macelleria è fortunato a guadagnare 800
euro lavorando otto ore al giorno; un responsabile di filiale Esselunga o
Carrefour, in cambio di dieci ore al giorno, di orari impossibili e
responsabilità a non finire non arriva a guadagnare 2500 euro al mese. Un
ingegnere guadagna ormai come un impiegato del passato, e questo solo quando ha
finito di essere sfruttato nello studio in cui fa anni di apprendistato
semigratuito.
Lavorare
per arricchirsi? Quando mai. Una volta un lavoratore, investendo
giudiziosamente, poteva sperare di raggiungere una buona posizione economica.
Oggi rimane povero com'era. Al massimo - non sempre - arriva ad acquistare la
casa. In Giappone i mutui si passano di padre in figlio. Da noi pauperizzano
un'intera vita, dimezzando il reddito. E anche chi paga l'affitto, non va
lontano: a Milano si lavora col reddito dimezzato dalle spese di alloggio, pur vivendo
in cinque in un appartamento.
"Il
lavoro nobilita l'uomo", si dice(va). E tuttavia ammettiamolo: moltissimi
lavori sono terribilmente ripetitivi: operai al tornio; cottimisti che devono
sfornare quantitativi giornalieri di giocattoli montati e minuteria metallica;
impiegati che devono smaltire ad nauseam
pratiche pensionistiche; camerieri che smaltiscono sempre le stesse
ordinazioni; gelatai e macellai che ripetono gesti sempre uguali; e tanti,
tantissimi altri. Proprio dell'uomo è apprendere cose nuove, laddove per molti
il lavoro è il luogo della ripetizione infinita, della mortificazione
dell'istinto insito nella nostra specie a imparare e sperimentare.
Innumerevoli
sono le patologie legate al lavoro, a cominciare dalla depressione. Chissà
perché e chissà come, mancano gli studi che con ogni probabilità rivelerebbero che
il lavoro è la principale causa di depressione nelle società capitalistiche
avanzate. Non si può spiegare altrimenti i numeri elevatissimi - milioni - di
depressi nella nostra società se con una condizione comune: e quale condizione
più comune del lavoro ingrato e sottopagato?
La
depressione da lavoro è un tipo chiamato depressione
esogena o reattiva, che sopravviene in un individuo psichicamente sano in condizioni di stress o vicende personali
eccessivamente dolorose. Ma oggi va di moda la cura farmacologica della
depressione: psicologi e psichiatri fanno cioè finta di credere che il tipo
prevalente sia la depressione endogena,
derivante da uno squilibrio biochimico. E non di rado sono i farmaci che
somministrano, deprimendo il sistema nervoso, a scatenare le sindromi che si
vuole curare. Chi non ci crede può controllare su internet nella lista degli
effetti collaterali degli antidepressivi più potenti o largamente utilizzati.
Congiura
del silenzio? Di questo tipo di patologie (infortuni professionali a parte), si
parla pochissimo. A partire dall'Ottocento, quando i cappellai impazzivano per
l'uso del mercurio nella concia del feltro o i minatori morivano con i polmoni
ridotti a masse fibrose dall'asbestosi o dalla silicosi, si sono venuti
moltiplicando i lavori pericolosi per la salute.
Il
livello di mortalità prematura (prima dei 65 anni) varia a seconda delle
categorie sociali, e mette in evidenza una netta gerarchia. Il tasso di
mortalità prematura degli operai dipendenti è 2,7 volte più alto di quello dei
quadri superiori e delle professioni liberali e 1,8 volte più alto di quello
dei quadri intermedi e dei commercianti. (Fonte: Inserm, SC8, in INSEE Première, febbraio 1996)
Per
ogni caso medico-giudiziario che porta alla luce i decessi dovuti a sostanze o
lavorazioni prima ritenute innocue (come ad esempio l'amianto) ce ne sono
numerosi altri di cui non si conosce nulla.
Alla
peggio, si delocalizza: se alla Pirelli, negli anni Sessanta, tutti sapevano
che il reparto "Nero Pirelli", dove gli pneumatici diventavano
prodotto finito, era una sentenza di malattia o morte, oggi questo lavoro è
fatto da un lavoratore ucraino o pakistano.
Per
non parlare degli "infortuni professionali" i quali, essendo appunto
"professionali", cioè inscindibilmente legati alle lavorazioni,
continueranno a mietere vittime nonostante tutte le misure di sicurezza adottate
e adottabili.
Puoi
mettere quanto vuoi il cartellino "attenzione, dispositivo laser"
accanto ad una sorgente ad alta potenza, ma non impedirai che un lavoratore
stanco, a fine turno, guardi il laser in un momento di disattenzione. Il padre
dello scrivente, impiegato durante l'ultima guerra nella fabbricazione di
bombe, ha visto un compagno preso dai macchinari e stritolato in pochi secondi.
Lui stesso ha rischiato di fare la stessa fine quando un lembo della manica si
è impigliato in un ingranaggio, e solo una prontezza e una forza sovrumana gli
hanno consentito di tirarsi via strappando di netto il tessuto ed evitando una
morte certa. Ha minacciato di licenziarsi ed ha ottenuto di essere destinato ad
un altro reparto.
Tutti
lavorano. Gli stipendi non bastano più e le donne sono entrate massicciamente
nel mondo del lavoro. Questo "panlavorismo" ha prodotto fenomeni
bizzarri o sconosciuti in epoche precedenti: gli "uomini casalinghi";
i bambini o i neonati abbandonati per ore nell'appartamento da genitori single
e accuditi da fratellini poco più grandi; gli adolescenti che dopo la scuola
trascorrono le ore in una casa vuota fino alla sera; i preti-lavoratori, che,
più calvinisti di Calvino, cercano Dio tra un tornio e una pressa idraulica. I
genitori che, tornati a casa da una giornata di lavoro, vogliono solo che i
figli "non rompano" e sono disposti a pagarli perché non diano noia.
Anche
l'università, una volta sede di attività creativa, è diventata un "lavoro": devi fare
il tutor o pubblicare, non importa
cosa. Così si moltiplicano gli scavi inutili delle facoltà di archeologia, gli
articoli scientifici sulla "funzione della vista stereoscopica durante il
salto dei gerbilli" o sulle "somiglianze tra la sintomatologia
amorosa e quella della psicosi autistica" o sulle "parti del corpo su
cui si fissa lo sguardo della donna al primo incontro con un potenziale
partner", e via cazzeggiando.
Il
famoso filosofo della scienza Karl Popper racconta che, nel periodo in cui
"lavorava" presso una prestigiosa università australiana, fu
convocato dal consiglio di facoltà e rimproverato aspramente per aver
pubblicato la sua opera fondamentale Logica
della scoperta scientifica. L'accusa si fondava sul fatto che "le sue
ore di lavoro appartenevano all'università", e tra le sue incombenze non rientrava
la scrittura di libri.
Il
premio Nobel Richard Feynman, il geniale creatore della fisica quantistica,
lamentava che durante i periodi più creativi non avesse nessun tipo di
facilitazione: era un "lavoratore pagato", e quindi doveva continuare
a perdere ore preziose in lezioni o incombenze di tipo burocratico - per quanto
cercasse di consolarsi dicendosi che la disciplina del lavoro quotidiano in
qualche modo evitava che si astraesse troppo.
"Oggi,
per fortuna le cose, laggiù, sono cambiate" commenta Popper nella sua
autobiografia. Ma non poi così tanto.
Tutti
rincorrono il lavoro. I pensionati hanno uno o più lavori. Gli statali si
procurano il doppio o il triplo lavoro. Persino i poveri sono costretti a
lavorare: negli Stati Uniti è universalmente diffuso il fenomeno dei working poors, persone escluse dalla
competizione per un lavoro che assicuri una casa e vitto giornaliero, che
tuttavia, se non vogliono morire di fame o di freddo devono procurarsi un pasto
o un rifugio con lavori occasionali e sottopagati.
Nessuno
viene escluso dalla corsa al lavoro, nella nostra società democratica,
inclusiva ed egualitaria. Coloro che non lo potranno mai ottenere sono
costretti comunque ad inseguirlo facendo corsi di riqualificazione, dimostrando
all'ufficio di collocamento di aver passato la giornata alla ricerca di un impiego,
saltando da un colloquio all'altro, partecipando a concorsi che non vinceranno
mai, per mantenere il precario rispetto di se stessi e degli altri.
Il
lavoro viene imposto persino ai malati mentali: ergoterapia, ovvero "terapia del lavoro", individuale o
di gruppo: come i carcerati che devono sgobbare nelle cucine o nelle
lavanderie, i degenti sono "incoraggiati" a coltivare ortaggi per la
mensa, fare le pulizie, aiutare nella preparazione dei pasti o nei reparti,
anziché godersi in santa pace una partita a carte o fare attività artistiche.
Il
mito del lavoro è alla base della scolarizzazione coatta di massa: si esce e
non si trova nulla, allora occorre tenere nella scuola i giovani, espropriarli
del proprio tempo il più a lungo possibile, privarli delle ore di libertà
dell'adolescenza perché "non si perdano" (dove?) e "si
integrino" (come?).
Quali
sono le motivazioni per questa imposizione universale del lavoro? Si diceva un
tempo che l'ozio è il padre di tutti i vizi. Oggi si può parafrasare dicendo
che il tempo libero è il padre di tutte le ribellioni. Il tempo libero fa paura
ai politici. Cinque, dieci, quindici milioni di persone libere di fare attività
politica, di leggere, informarsi, dibattere, denunciare, sono un incubo per la
classe dirigente.
Per
quanto instupiditi dal calcio, dalla televisione, dai cento canali satellitari,
dal porno, dai videogiochi, dalle interminabili e inutili sedute di chat su
internet, dalle conversazioni telefoniche idiote e senza fine, dalle vacanze vuote,
finalizzate alla tintarella e al dolce far niente, si può dire, prendendo a
prestito la frase di Stendhal su Julien Sorel in seminario, che una minoranza
di costoro ha ancora l'aria di pensare,
perciò è pericolosa.
Ma
non è facile convincere la gente a "tenersi occupata" - se non nello
svolgimento di un lavoro, quantomeno nella sua ricerca frenetica. Vista la
bassa qualità e retribuzione di ciò che è disponibile, non lavorare e prendere
un assegno di povertà, per quanto misero, è diventata agli occhi di molti un'opzione
gradevole.
Sin
troppo: si cerca di distogliere le persone dal gravare sull'assistenza sociale,
perché, come spiega in uno dei brani qui riportati Viviane Forrester citando un
economista statunitense, questo non assicura una pronta risposta dei lavoratori
alle necessità erratiche e mutevoli di forza-lavoro delle economie avanzate.
Persino
la vita del musicista di strada, dell'hippie girovago che fa occasionali
lavoretti, dell'iscritto ad agenzie di lavoro interinale che lavora un mese sì
e tre no, abbandonando il datore di lavoro dopo aver raggranellato quattro
soldi, è diventata per certuni una alternativa valida all'irregimentazione di
una intera vita, una scelta che permette di sperimentare una libertà completa,
assolutamente sconosciuta al salariato.
Vengono
lanciati gli allarmi. Il lavoro è ormai diventato così sgradevole e precario
che la piccola criminalità è un'alternativa allettante. A Napoli e altrove i
giovani disertano le occupazioni da 500 euro al mese finanziate da fondi
pubblici o comunitari a favore dello lo spaccio di droga o dell'attività di manovalanza
per la criminalità organizzata.
In
una lettera ironica al Giornale di
Vittorio Feltri una casalinga disoccupata, impossibilitata a pagarsi le cure del
dentista, notando che il vicino,
trafficante di droga, rientrava la sera in Maserati, si domandava se era
possibile ottenere un permesso temporaneo di spaccio. Chissà, forse non è lontano
il giorno in cui, accanto ai parcheggi e ai posti in autobus riservati ai
disabili, avremo delle zone di prostituzione o di spaccio riservate alle
casalinghe o ai lavoratori con debiti.
Nelle
grandi organizzazioni sta prendendo piede il modello giapponese: lavoro dalle
otto di mattina fino alle nove di sera, poi - senza tornare a casa - cena di
lavoro con gli altri dipendenti e il capufficio, dove si considera una mancanza
di rispetto andarsene prima delle undici. Niente ferie - al massimo un breve
viaggio-premio ogni trent'anni - e niente pensione: la tua sussistenza è
assicurata solo se riesci a far assumere tuo figlio dalla ditta presso cui sei
stato impiegato. Perché questo avvenga, devi aver lavorato senza discutere per
cinquant'anni, altrimenti sarai punito dalla vergogna della sua mancata
assunzione.
Come
risultato, Tiziano Terzani racconta che la metropolitana di Tokyo è piena di
relitti umani che non hanno potuto o voluto resistere a questi ritmi e -
ripudiati dalle proprie famiglie - si sono dati ad una vita errabonda e
precaria di lavori occasionali. Li si ritrova, tutte le mattine, presso i
cantieri della periferia, dove cercano un ingaggio per la giornata per potersi
permettere una scodella di riso e una tazza di sake.
Agli
occhi di un forzato del lavoro dei nostri tempi la vita di un nobile degli
inizi del secolo scorso, o quella descritta da Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo, sembra incredibile, aliena: una vita di occasioni sociali, viaggi,
duelli, crociere, ritiro nella tenuta di campagna, otia letterari e artistici.
Un'anziana
nobildonna romana raccontava allo scrivente e ad altri stupefatti uditori la
giornata di un conte emiliano di sua conoscenza, che passava la vita a nutrire
le centinaia di uccelli rari o in via di estinzione che ospitava per conto
dell'Istituto Ornitologico Italiano.
Tra
le donne è diventato di moda lavorare e descrivere quanto si sia occupate e
quali compiti impegnativi si fronteggino. Imperativo è diventare dottoresse e
passare 10 ore al giorno nel reparto, con reperibilità ventiquattro ore su
ventiquattro, sette giorni su sette. Ambitissimo è l'empireo delle ricercatrici
universitarie con attività ospedaliera, dove non hai più neanche la vita
privata per sposarti e consumi gli anni in fugaci rapporti sessuali sul lavoro.
A
farla breve, se non puoi rispondere ad un invito al bar aprendo un'agenda scritta
anche nei margini, vuol dire che sei uno fuori dal giro, un penoso attardato da
compiangere, insieme a quelli che portano ancora i marsupi attorno ai fianchi
come i frati cercatori, a quelli che non hanno l'ascella depilata, a chi ha
ancora gli occhiali bifocali al posto delle lenti a contatto cosmetiche. Non
sei "in", non sei "cool" come si definisce oggi una
persona in gamba.
Figli?
Neanche a parlarne, finché si è giovani: per moltissime donne viene prima la
"realizzazione personale", il "riscatto sociale" e il
raggiungimento "dell'indipendenza economica e personale" dopo secoli
di sottomissione, l'"attuazione dell'eguaglianza tra i sessi", anzi
"la dimostrazione delle superiori capacità del sesso femminile".
Dice
di queste donne manager, scienziate, commercialiste, architette Vittorino
Andreoli nel suo recente libro I segreti
della mente, che, a quarant'anni, improvvisamente consce che il proprio
orologio biologico ticchetta inesorabile verso la menopausa, ne concepiscono
uno col primo sconosciuto che incontrano, per colmare questo vuoto nella loro
vita
Di
quanti divorzi, di quante situazioni di crisi coniugale è responsabile il
lavoro? Non si sa. Il tema delle molestie sessuali è ampiamente esplorato,
mentre quello dei rapporti sessuali consenzienti, delle relazioni
extraconiugali, dalle scappatelle alle infedeltà che conducono al divorzio,
passa sotto silenzio. In un mondo dove trionfa il superlavoro e dove la parte
migliore dell'esistenza viene spesa in azienda, lontano dagli occhi del coniuge,
e si torna a casa per trascorrere qualche ora con un marito o una moglie sempre
più estranei, è in realtà naturale che le famiglie siano insidiate dalla
tentazione sottile di fare del proprio partner nel lavoro anche partner nella
vita.
Si
levano alti i lamenti del maschio sulla perduta femminilità del gentil sesso - ad
intonarli è niente meno che Francesco Guccini nell'indimenticata canzone Donne
con le gonne.
Tornando
sul tema della frenesia lavorativa della nostra società: anche le vacanze sono
diventate, più che una attività di ricreazione dello spirito e del corpo, un'improba
corvée. Una volta i veri ricchi
soggiornavano al'estero per uno o due anni. Oggi le vacanze mordi-e-fuggi
richiedono programmazione, disciplina, dura attività fisica, shopping
compulsivo per scovare i souvenir migliori
da esibire agli amici.
Anche
nelle palestre si "lavora" infaticabilmente e ossessivamente al
proprio fisico per acquistare quell'ambito aspetto da bistecca ormai tipico
degli attori americani senza più eccezioni. Come rimproverare costoro, visto
che persino il divino Giorgio Armani esibisce enormi bicipiti da settantenne
palestrato, che esplodono dalla t-shirt che ormai sembra diventata il suo logo?
Le
amicizie, le cene con amici, le uscite con i figli al campo scout: tutto
annullato, immolato sull'altare del lavoro. Per fare più soldi.
Soldi
per fare più figli? Per avere la benedizione di una famiglia numerosa? No, i
figli diminuiscono, le aumentate entrate servono per garantire all'unico
sofferto parto della lavoratrice telefonini, moto, auto, viaggi, abbigliamento
e lussi che meno di cent'anni fa erano impensabili persino per un possidente
inglese o francese o europeo in genere.
La
Chiesa, esaltatrice dei mansueti, è la grande santificatrice del lavoro. Le
encicliche sociali insegnano che "mestiere" viene da
"ministerium", e quindi, esercitando un mestiere si presta un
servizio alla collettività. Siamo evidentemente in pieno clima ecumenico, stringiamo
la mano a Calvino e alla sua visione del lavoro redditizio come modo di onorare
dio e segno della sua benedizione.
Ai
danni si uniscono le beffe: il maschio iperlavoratore con reddito medio non
trova alcuna simpatia presso il sesso femminile: quello ricco, con un lavoro di
prestigio che produce un reddito annuale a sei zeri è apprezzato dal gentil
sesso, ma quello che si spacca la schiena a gestire una piccola pizzeria, un
autolavaggio, una copisteria è considerato un partner gretto ed avido, freddo e
distante, che non esce mai la sera, meritevole persino di tradimento coniugale,
di cui le mogli, lasciate sole per necessità, hanno ampie occasioni.
Per
gli impiegati di reddito modesto questa non è una sorte infrequente. Ne sanno
qualcosa gli insegnanti maschi, assolutamente snobbati, nella scelta
matrimoniale, dalle colleghe femmine. Le quali, in un paese sottosviluppato
come l'Italia, dove le manager e le scienziate sono mosche rare, si
considerano, in quanto lavoratrici e intellettuali, il top dell'evoluzione della specie. Come compagno non accettano
niente di meno di un prestigioso professionista, mentre guardano con disprezzo al
maschio pari-grado che è rimasto incastrato in un mediocre impiego.
Fare
buon viso a cattiva sorte, questa è la parola d'ordine: se non sei nato con un
patrimonio personale che ti consente di affrancarti dal lavoro, sarà buona norma
vederne i lati positivi e negarne i lati negativi, predicare a sé e agli altri
l'etica del lavoro. Si leva il coro universale contro l'inattività e la noia
della pensione: "sono una persona attiva, non mi potrei mai vedere a
vegetare come pensionato".
L'etica
protestante di Max Weber trionfa. Il mito del lavoro è una delle ragioni per
cui vengono guardati male pensionati ed anziani, che "non fanno
nulla", "vegetano", "vivono a sbafo degli altri",
eccetera.
Persino
il famoso James Hillman, lo psicologo degli archetipi e del destino
individuale, il pensatore scomodo e controcorrente, nel brano riportato in
questa antologia arriva a dire che alla domanda angosciata del bambino di oggi:
"Papà, dove sei? Sei tornato?" va risposto senza sensi di colpa:
"No, piccolo, papà è a pranzo con i colleghi, come è giusto che sia",
perché, come sostiene, "il suo posto è altrove" e " il suo
valore fondamentale per la famiglia consiste nel mantenere i contatti con
l'altrove" (qualsiasi cosa esso sia).
Le
alternative al lavoro sono negate: l'otium
di cui parla Bertrand Russell in uno dei brani qui riportati, la vita del
possidente, qualsiasi altra vita. Ci
si potrebbe chiedere come fa, una persona che ha sempre avuto bisogno di
lavorare per vivere, a stabilire come ci si senta a non lavorare, ad avere un
patrimonio di tempo libero e risorse economiche sufficienti a sfruttarlo.
Si
denigra ciò che non si conosce, anzi, peggio, come dice Charles Bukowski, si
guarda con malanimo e ostilità chi osa lamentarsi delle condizioni di lavoro.
Non
si deve confessare neanche a se stessi che talvolta si ha l'impressione essere
un cane alla catena: festività infrasettimanali - importanti momenti di
incontro collettivo - abolite; vacanze di qualche settimana al massimo,
concesse col contagocce, nei periodi che fa comodo all'azienda, e con arcigna
riluttanza; permessi per analisi mediche mendicati e centellinati; certificati
di malattia lesinati dal medico della mutua; visite fiscali che costringono a
casa i convalescenti; orari rigidi, che ti vogliono sul posto di lavoro alle
otto, non un minuto più tardi (per gli insegnanti c'è addirittura il reato di
abbandono di minore), non importa se il giorno prima ti sei preso una
sacrosanta sbronza per festeggiare un amico che si sposa, hai fatto le ore
piccole e vorresti rimanere a letto a poltrire in sacrosanta pace; manovre
clandestine per farsi coprire sul lavoro perché si ha bisogno di assistere un
congiunto anziano in ospedale. E si potrebbe proseguire all'infinito.
Un
altro aneddoto dai ricordi dello scrivente. Scompartimento ferroviario, due
giovani bancari in viaggio verso Firenze per vedere il derby Fiorentina-Milan
parlano di un collega. "Tutto sommato Fredo mi sta simpatico, cerca solo
di non farsi coinvolgere troppo dal lavoro" dice uno dei due, e prosegue:
"quando ci somministrano i questionari di valutazione barra sempre le
crocette per escludere disponibilità per lavoro all'estero, extra orario,
trasferte e quant'altro. Alla fine della giornata lo senti mormorare a mezza
voce 'bastabastabasta…', non vede l'ora di ritornare a casa e starsene in santa
pace". Risposta del compagno: "Io invece non lo sopporto". "E
perché mai?". "Perché è presuntuoso,
la pensa diversamente da noi, crede che noi sbagliamo a lavorare
quanto lavoriamo".
Si
lavora (e ci si vanta di aver lavorato) quarantacinque, cinquant'anni,
cinquantacinque anni e più: la nostra società spinge ad arrivare fino ai settanta,
ponendo come alternativa una pensione miserabile e decurtata, la dipendenza dai
propri figli, il ridimensionamento drastico delle proprie abitudini di consumo.
Una
massa senza riposo di lavoratori anziani affolla cubicoli, aule, banconi, cucine,
sportelli pubblici, piccole botteghe. Insegnanti settuagenari entrano in classi
superaffollate di alunni incontrollabili; lavoratori di fonderia di
sessant'anni sono costretti a trasportare oggetti pesanti per tutta la
giornata; montatori di carrozzerie precocemente invecchiati continuano a
spaccarsi la schiena per avvitare pesanti sportelli a ritmi rigorosamente
monitorati; commessi incanutiti sono bloccati in piedi dietro un bancone fino
alla sera, con la luce sadica del neon sparata negli occhi, la pelle delle mani
che prude insopportabilmente per gli immancabili guanti di lattice.
Avremmo
bisogno del famoso lanternino di Diogene per cercare di nuovo l'uomo vero,
quello non ridotto a puro lavoro.
Dove
siano finite le magnifiche sorti e progressive, le splendide promesse di lavoro
dimezzato o azzerato dall'inarrestabile progresso tecnologico (lasciando stare
le profezie di colonie su marte, viaggi interstellari, modificazioni positive
del clima, sconfitta delle malattie e prodigi di chirurgia estetica per tutti)
nessuno lo sa.
Così,
protratto fino ai limiti della senescenza, il lavoro porta via il tempo
migliore della nostra vita, dandoci in cambio frustrazioni, monotonia,
alienazione. E al momento della pensione, la fregatura della vecchiaia, in
agguato dietro le immagini non veritiere di pensionati felici dalle dentiere
smaglianti che ci promettono la felicità dalle pubblicità dei fondi di
investimento.
In
una società in cui la medicina ha sconfitto la mortalità perinatale e grazie a
cure e farmaci la vita non discrimina più alla nascita l'organismo sano da
quello malato, non tutti possono realisticamente attendersi una terza età sana
e vitale. Per molti il declino è molto rapido.
Non
poche persone, a sessantacinque anni, scoprono che la salute ormai è scomparsa,
che non si hanno più le energie fisiche e mentali (né i soldi) per viaggiare,
leggere, scrivere, dedicarsi ad un hobby, ad una attività sportiva. I dati
parlano chiaro: ad ottant'anni, cioè dopo soli dieci anni dalla pensione, la
maggior parte delle persone sono morte, e già prima di quel momento il declino
fisico procede velocissimo. L'insonnia prosciuga le forze, l'incontinenza e i
pannoloni impediscono di partecipare a viaggi organizzati, le malattie
invernali costringono a letto, gli occhi che bruciano impediscono di leggere,
il cortisone per i problemi articolari e gli altri medicinali instupidiscono,
la memoria funziona sempre peggio.
E
tutto questo, quando non si sia stati già
falciati dall'epidemia silenziosa degli infarti, dell'ipertensione,
delle depressioni invalidanti, delle sindromi da affaticamento cronico.
Raccontava a chi scrive, qualche anno fa, un membro della nobiltà che si è data
agli affari, un conte romano, che per le avventure galanti non c'è luogo
migliore delle navi da crociera americane: piene di avvenenti vedove
statunitensi e inglesi i cui mariti, precocemente stroncati dal superlavoro,
hanno lasciato piene di soldi e vogliose di divertirsi.
Eppure
tutti sanno dell'esistenza, nella nostra società, di persone che non hanno
fatto in vita loro un solo giorno di lavoro produttivo - o ben pochi - secondo
l'accezione corrente. Scalatori che hanno passato la vita a conquistare tutti
gli Everest del mondo; navigatori che non si sono occupati d'altro che di
competizioni e di regate; scrittori di successo che hanno abbandonato il lavoro
in età relativamente giovane; grandi sportivi che anche quando svolgevano un
lavoro pubblico non hanno fatto un'ora di turno su una pantera dei carabinieri
o una gazzella della polizia, sempre in permesso per attività agonistiche;
persino cassintegrati che hanno passato gli ultimi lustri prima della pensione senza
altro obbligo (udite, udite) che quello di non lavorare.
Se
si ritiene che il lavoro sia la scelta di vita più etica, perché non ci si
scandalizza, ma al contrario si ammirano - o quantomeno invidiano - costoro?
Come
che sia, non ad uno di questi fortunati passa per l'anticamera del cervello di
dedicarsi ad un lavoro nella comune accezione del termine. Segno che il
non-lavoro non deprime né annoia: tutt'altro. Molti di costoro si sentono anzi
nobilitati dal fatto che "inseguono una passione, realizzano un
sogno", come ha dichiarato di recente una scalatrice italiana di ritorno
dalla conquista dell'ennesima cima, in procinto di partire di nuovo per
conquistarne un'altra.
E
costoro hanno pure l'improntitudine di finire nei libri di storia dello sport,
nel Guinnes dei primati, di ottenere riconoscimenti, coppe, targhe, monumenti
commemorativi, mentre l'umanità normale vive e muore nell'oscurità di un lavoro
mediocre.
Intendiamoci,
il lavoro è utile e necessario. Lavorare va a vantaggio di tutti. Ma ai lavori
non creativi, ripetitivi, alienanti, eccessivamente stressanti e scarsamente
gratificanti che caratterizzano la vita di troppe persone possono applicarsi
solo aggettivi del tipo:
"necessario" e "utile", "rispettabile" e simili,
non certo aggettivi come "stimolante" o "desiderabile",
"creativo", "arricchente" e simili.
E
ci sono lavori che, pur potendo esserlo - stimolanti, desiderabili o creativi -
però, portati all'eccesso o pagati miserabilmente nella società odierna, cessano di esserlo, di
rappresentare una espressione e un arricchimento della personalità per diventare
un peso e un gravame.
E'
certamente il caso di dedicarsi ad un lavoro creativo e stimolante - e sono
rari - o altrimenti non nascondersi la verità: la maggior parte degli altri opprime.
Il
lavoro è il destino connaturato all'uomo, come proclamava Hegel? E' ben noto
che nelle società di cacciatori-raccoglitori, la ricerca delle prede e le
attività di sussistenza non occupano più che poche ore al giorno, il resto
essendo dedicato alle danze, al gioco, all'esplorazione, alla socialità. Uno
etologo amico di Konrad Lorenz ha commentato una volta, che la frenesia del
lavoro è unica tra tutti gli animali, e può essere considerata un carattere
degenerativo.
Ma
il lavoro non è comunque deposito di valori essenziali per la civiltà?
Lo
è sicuramente stato; ma oggi si potrebbe polemicamente mostrare come si stia
trasformando o rischi di trasformarsi in un valore
negativo. Come argomenta perspicacemente Viviane Forrester, il mito del
lavoro è oggi utilizzato per giustificare la mancanza di futuro, la
marginalizzazione della vita di milioni di persone.
Se
lavorare è l'unica dignità, è giusto far finta che chi non lavora non abbia
diritto a nulla. Il lavoro come unica misura di ciò che riceviamo dalla
società, come criterio di ripartizione della ricchezza è diventato inaccettabile, una finzione
crudele e disumana.
E
che dire, oggi, della famosa "etica del lavoro"? Cosa ne rimane, se
le imprese non solo non hanno bisogno di lavoro, ma neanche di lavoro
qualificato? Sempre più spesso i neoassunti
non sanno fare nulla, a cominciare dal leggere e scrivere, ma pare che alle
grandi imprese va bene così, purché paghino poco quel poco che ottengono.
Cosa
ne rimane se, sempre più spesso, lavorare significa lavorare per una impresa
che non ricambia il tuo impegno, che ti tradirà, dandoti il benservito alla
prima occasione? Lo sanno bene i lavoratori americani, giapponesi, inglesi,
francesi, tedeschi, che hanno dato trent'anni della loro vita all'azienda e ne
ricevono in cambio una lettera di licenziamento. Oggi va addirittura di moda
licenziare i manager pubblici più anziani, buttando a mare il loro patrimonio
di professionalità. E perché? perché costano troppo, e dei giovani sprovveduti
sono pagati meno e sono più sfruttabili.
Il
lavoro incarna o esprime valori sempre positivi? Continuiamo la nostra analisi.
In
nome del lavoro per noi o i nostri figli si impedisce di lavorare a carcerati e
ad immigrati. Il lavoro standardizzato nelle organizzazioni anonime ci priva
della nostra unicità e indispensabilità. Il lavoro produce ingiusta
discriminazione degli anziani a favore dei giovani, genera conflitto tra
generazioni.
Il
lavoro, come è illustrato in uno dei brani di Bertrand Russell, discrimina la
cultura "utile" da quella "inutile", promuovendo
l'abbandono di quest'ultima. Non è difficile trovare esempi. Nell'insegnamento
odierno delle lingue si assiste alla discriminazione a favore della lingua
parlata a danno di quella scritta. Un giovane sarà preparato a spedire una
breve lettera o a ricevere una telefonata: non sarà però opportuno che impari
il lessico necessario a tradurre da solo Dickinson o Milton, a leggere un'opera
filosofica o letteraria.
Il
lavoro, nota Bertrand Russell, propaganda il mito del "sapere utile",
quello che ti fa trovare lavoro, del sapere funzionale alle grandi
organizzazioni. Non solo il lavoratore dunque, ma chi abbraccia l'ideologia del
lavoro, si prepara ad entrare nel mondo del lavoro, non saprà più chi è
Mallarmé, chi è Rabelais, chi sono Proust e Goethe. Il lavoro, la sua
infaticabile ricerca, la sua preparazione, mettono a rischio la cultura.
Sorge
un orribile dubbio. Che il lavoro sia la negazione della cultura?
Ci
sarà pure una ragione per cui università, amministrazioni pubbliche e aziende
private concedono come ambito fringe
benefit l'anno sabbatico o periodi di libertà dal lavoro.
Ci
sarà pure una ragione per cui è provato da innumerevoli studi statistici che le
famiglie con i genitori più scolarizzati - che hanno tempo o comunque
inclinazione a svolgere più attività intellettuali della media delle persone -
sono quelle i cui figli hanno risultati migliori perché vi si respira un'aria
di cultura.
Vittorini
discuteva sulla cultura dei lavoratori. E raccontava di metalmeccanici che si
dedicavano alla seconda, alla terza lettura di Giambattista Vico dopo
otto-dieci ore di fabbrica. Questi forzati della cultura, che resistono
disperatamente al potere inglobante del lavoro esistono: medici che scrivono i
racconti tra un turno e l'altro di ospedale, architetti che si addormentano su
Guerra e pace; bancari che studiano filosofia kantiana. Ma con quale fatica!
E
con quali prospettive? Non c'è cultura a buon mercato. Il mito dell'istruzione
facile ha favorito la rimozione di questa semplice verità: che il lavoro
impedisce di godere delle gioie della cultura, quella vera. Tutti, una volta
sapevano (e l'Ariosto ce lo ricorda nelle lettere in cui maledice il tempo
sottrattogli dai servigi al suo protettore) che il non-lavoro è il presupposto
della cultura. L'abito talare ha da sempre attirato gli intellettuali, proprio
per la possibilità che offriva e offre di divenire un uomo di eleganza e di
cultura, esentato dal lavoro manuale.
Da
sempre un tappezziere che sa tutto su come evitare che i tessuti facciano le
grinze, un medico che conosce la differenza tra dieci tipi di sfumature su una
radiografia, un montatore di infissi che conosce tutte le maniere per prevenire
le infiltrazioni da umidità, sono i più richiesti, i più lodati. Per ottenere
questo hanno dovuto sacrificare lunghi anni dedicati all'apprendimento
dell'arte.
Ma
per farsi questa esperienza enciclopedica, che ci fa apprezzare la persona,
battergli sulle spalle, congratularci con lui, richiedere la sua opera, non si
deve perdere tempo a leggere Mallarmé, Proust, o, dio ci scampi, le 1580 pagine
del Mondo come volontà e rappresentazione
di Schopenhauer.
E
questo anche senza contare le invettive polemiche di Don Milani che nella sua
scuola di Barbiana vilipendeva la cultura alta, chiedeva a gran voce una scuola
vicina ai fatti della vita quotidiana dei suoi ragazzi, cioè dell'agricoltura.
Nei
tempi andati non c'era tempo libero. E non solo perché il lavoro dipendente era
sottopagato e i suoi orari prolungati, ma anche perché per imparare una
professione, un mestiere qualsiasi, occorreva impiegare tutto il proprio tempo.
Spinoza
torniva le lenti ed affermava che questo gli dava agio di pensare. Manzoni
consigliava ad un giovane con ambizioni letterarie, avviato suo malgrado al
commercio, di profittare del contatto con i più vari tipi umani. Ma questo
armistizio miracoloso tra lavoro e cultura è faccenda di pochi casi.
Karl
Popper racconta di essere stato un pessimo ebanista (in gioventù era stato
apprendista falegname), e veniva costantemente rimproverato dal suo maestro,
perché, distratto dalle riflessioni, combinava continui pasticci.
Lo
scrivente ha sentito con le proprie orecchie un capufficio scusare gli errori
di scrittura di una dattilografa e commentare: "probabilmente in quel
momento stava pensando"
Studente-lavoratore? Forse è una
contraddizione in termini. Fra l'altro, la cultura nasconde, agli occhi del
datore di lavoro, il pericolo supremo: intravedere un mondo di pensiero, di
godimenti intellettuali che potrebbe distrarre, attrarre, e, dio non voglia,
sedurre definitivamente colui che per un attimo distolga gli occhi dal lavoro.
Una
grande impresa multinazionale aveva provato, non molti anni orsono, a far
frequentare ai dipendenti corsi di storia, letteratura e filosofia, per vedere
se sarebbe aumentata la produttività. L'esperienza, per quanto se ne sa, non è
stata ripetuta. E forse non a caso. Il commento di uno dei partecipanti era
stato: "ora che so cosa mi sono perso, non mi farò più privare di tutto il
mio tempo dall'azienda".
Notiamo
anche questo: che il lavoratore che non ha avuto il tempo di farsi una cultura,
non potrà purtroppo mettere in atto l'aureo consiglio di Cicerone: in vecchiaia
dedicarsi agli studi è fonte di infinito diletto.
Il
lavoro, una volta fattore di integrazione e inclusione, è diventato fattore di esclusione. Un gioco
in cui la minima distrazione, il minimo errore, il minimo lasciarsi andare,
possono precludere l'ottenimento dell'agognato impiego. Negli Stati Uniti - ma
ormai dappertutto - se hai la fedina penale sporca per un errore di gioventù
parti già svantaggiato. Se ti fai distanziare nei test scolastici perdi colpi
nella corsa all'impiego già dalla prima adolescenza. Se sei straniero, hai meno
possibilità di competere. Se non hai una laurea prestigiosa sei già destinato
agli impieghi di second'ordine.
Il
lavoro, oggi, in troppe occasioni si dimostra lesivo della dignità delle
persone. Si assiste ad una regressione ai tempi anteriori alle conquiste del
Sessantotto e dello Statuto dei lavoratori, quando il datore di lavoro
esercitava una autorità tirannica e umiliante.
Leggiamo
di lavoratori invitati a farsi tatuare il logo dell'impresa - in cambio di
incentivi economici, come se la proposta in sé non fosse già obbrobriosamente
offensiva. Di lavoratori USA nel settore della ristorazione costretti per
contratto ad andare a socializzare tra i tavoli, come mostrato nel romanzo Cuore di panna di Andrea de Carlo. Di lavoratori
della scuola in balia di giovani teppisti in classi sovraffollate di trenta e
più persone. E si può continuare a lungo.
Il
lavoro che tende a perdere tutte le protezioni, ad allinearsi sempre più ai
modelli di sfruttamento del Terzo Mondo, diventa ormai il luogo, l'occasione
dell'inciviltà, del potere brutale esercitato dall'uomo sull'uomo.
Un
segnale? L'Inghilterra che si rifiuta di sottoscrivere, agli inizi del nuovo
Millennio, la Carta sociale europea,
che assicura ai lavoratori le tutele fondamentali. La Francia che per
accogliere Eurodisney sospende le tutele normative. I lavoratori malati col
salario decurtato. La fedeltà all'azienda ricambiata col freddo cinismo dei
licenziamenti di massa. I diritti sindacali calpestati. Il lavoro diventa una
palestra di cattiveria e di astuzia, dove il datore cerca di sfruttare con ogni
mezzo e il lavoratore di sottrarsi con ogni mezzo.
Quello
che le civiltà tradizionali assicuravano, un "posto nella società",
sia pure modesto, un ruolo di piccolo vassallo, di contadino di un monastero,
di servitore da generazioni di una famiglia nobile, di membro ereditario di una
gilda, di appartenente ad una famiglia di militari, con l'etica del lavoro
occorre meritarselo. Non si rifletterà mai a sufficienza sull'assurdità di 3000
persone che devono dimostrare di meritare
il diritto al lavoro. Ci troviamo di
fronte ad una autentica demolizione di valori di civiltà che credevamo ormai
saldamente acquisiti.
Il
titolare di uno studio di ingegneria replicava di recente con un consiglio
cinico alle lamentele di un giovane tirocinante che non riusciva a tirare
avanti con la misera gratifica: "per risparmiare, non paghi l'affitto,
fanno così tutti quanti". Bella palestra di civiltà.
Si
è già notato che il lavoro è diventato così sgradevole e precario da spingere
molti alla criminalità, come una volta spingeva le donne di Parigi a fare
quella che era chiamata con spirito la "nona ora di lavoro", cioè a
prostituirsi.
Evasione
fiscale del lavoratore, sottrazione di beni pubblici, furti di benzina da parte
di ferrovieri additati al pubblico ludibrio, insegnanti che sgomitano per gite
scolastiche gratis dissestando l'anno scolastico, e mille altre abiezioni. E'
risaputo che i disoccupati parigini si sono coalizzati per frodare l'azienda
metropolitana di trasporti creando un "fondo multe" a cui attingere
nel caso in cui si venga scoperti senza il biglietto, che non viene mai pagato.
Ciò
che l'economista statunitense Edmund S. Phelps deplora soprattutto, è che
"i disoccupati si dedicano ad attività clandestine: chiedono l'elemosina,
spacciano droga, si danno ai piccoli traffici della strada. La criminalità
aumenta. Attraverso questa rete, in una certa maniera, hanno creato un loro
personale 'Stato Assistenziale"'. Tutto questo produce chiaramente
disordine, e trattiene Phelps dal condannare il sistema di protezione sociale
europeo, il cui vantaggio, dal suo punto di vista, è di evitare il grado di
delinquenza creato dalla sua assenza negli Stati Uniti, ma il cui torto sta nel
tendere "a ridurre le motivazioni di ricerca del lavoro" .
Il
libro Freakonomics, che a dispetto
del suo titolo è uno stimolante e acuto testo di economia scritto da un
professore dell'Università di Chicago e da un giornalista del New York Times,
racconta una storia sorprendente, ed emblematica.
All'inizio
degli anni '90 Sudhir Venkatesh, un dottorando in sociologia alla Chicago
University, si recò nei sobborghi più poveri e degradati della città per un
lavoro sul campo non privo di rischi: intervistare i membri di una gang che
spacciava crack per descriverne la struttura e il funzionamento. Con sua enorme
sorpresa, quando chiese di parlare con il boss del quartiere, si trovò faccia a
faccia con un giovane afroamericano non ancora trentenne, laureato in una
università di ottimo livello, che si era lasciato alle spalle un lavoro di
addetto al marketing di una azienda di forniture per ufficio. Mettendo a frutto
le sue capacità manageriali di livello universitario J.T., così si chiamava il
capo della gang, guadagnava molto di più di quel che un lavoro salariato
avrebbe mai potuto offrirgli.
Il
lavoro è il luogo della lotta tra poveri, dell'indifferenza brutale verso i
popoli del Terzo Mondo, "che ci tolgono il pane". E' ormai il luogo
della rottura della solidarietà sociale, della lotta tra nuclei familiari per
la sopravvivenza, del predominio della logica del clan.
Troppo
spesso è anche il luogo dell'ipocrisia: nei colloqui di lavoro dove si simula interesse ed entusiasmo per scavalcare un
altro che forse è più motivato ma meno propenso a fingere; sul luogo di lavoro,
dove le donne sono troppo spesso tentate di utilizzare le "armi
femminili"; nello staff, dove trionfa l'adulazione interessata, la
piaggeria verso il capo.
In
ultima analisi, una palestra di individualismo, un luogo dove si afferma la
filosofia "o si domina o si è dominati": dove manager, presidi,
dirigenti pubblici e privati tirannici impongono le loro scelte, il loro
progetto e la loro visione a centinaia di altre persone che non la condividono,
a dispetto del fatto che, in quanto attori del processo produttivo, avrebbero
il diritto di partecipare a quello decisionale.
Lungi
dall'essere luogo di apprendimento di saperi, oggi il lavoro precario è il
luogo della non-professionalità, dell'approssimazione: chi ha interesse a
dedicare tempo ed energie per apprendere bene un lavoro che si cambia tanto
spesso? Diceva in proposito, con acuta premonizione, Viviane Forrester:
"Si immagina il grado di professionalizzazione di questi impiegabilizzati, il grado di interesse
che potranno portare per il loro lavoro, il progresso, l'esperienza che
potranno acquisirvi. La qualità di pedina intercambiabile, di nullità
professionale che sarà loro assegnata".
Considerazioni
puntualmente confermate negli articoli dei corrispondenti dei giornali italiani
negli USA, che parlano di una vera e propria folla di giovani impiegati di
uffici pubblici, aziende, studi professionali, che non sanno fare o fanno male
il proprio lavoro.
Gli
antichi filosofi greci, come scrive Giovanni Reale in uno dei brani qui
riportati, non attribuivano perlopiù alcuna rilevanza sociale e morale al
lavoro come lo intendiamo oggi, anzi disprezzavano il lavoro manuale. Essi
privilegiavano l'attività intellettuale, che distinguevano in tre tipi: praxis, attività intellettuale che
ricerca il sapere per il perfezionamento morale; poiesis, tipica delle scienze che ricercano il sapere in vista del
fare e del realizzare; theoria,
l'attività più elevata, che ricerca il sapere per se medesimo ed appaga la
spinta innata dell'uomo a conoscere. Il lavoro non poteva che togliere tempo
alle attività più elevate, per le quali, guarda caso, ancor oggi si evita di
utilizzare tale termine.
Come
nota Julius Evola in un altro brano, l'improprietà del termine
"lavoro" per descrivere molte delle attività umane più importanti è
lampante. A cominciare dalla filosofia, che i Greci si sarebbero indignati a
sentir qualificare "lavoro".
Non
è qualificabile come "lavoro" l'attività politica; né l'arte della
guerra, che in passato era l'occupazione principale della nobiltà; né la
ricerca scientifica o l'attività universitaria in genere; né l'attività
dell'architetto, dell'esploratore, del critico d'arte; né l'attività
dell'attore, del cantante, del danzatore, del musicista, del direttore
d'orchestra; né l'attività dell'artigiano o dello chef di genio che creano
capolavori; né quella del fondatore di grandi organizzazioni industriali,
culturali o politiche; né lo scrivere, il dipingere, il comporre o qualsiasi
altra attività artistica; né la filosofia; né l'insegnamento da parte di un
maestro di vita o di pensiero; né l'hobby con cui si arricchisce la propria
personalità; né la cura del corpo, l'attività fisica e sportiva praticata per
diletto o per la salute; né lo sport agonistico; né il viaggiare per conoscere
altre civiltà e ampliare i propri orizzonti; né l'occuparsi del prossimo
disinteressatamente; né l'attività di chi si dedica al perfezionamento
spirituale proprio o altrui; né gli uffici della vita religiosa; e molto,
moltissimo altro, incluso il caso delle donne che abbandonano l'attività
professionale per dedicarsi alla cura dei figli, attività che non è
considerabile in alcun modo "lavoro". E' un dato di fatto che tutto
ciò che costituisce la sfera più elevata delle attività umane non rientra
lessicalmente nel concetto di "lavoro".
Non
è forse un caso se la strada di molti artisti e filosofi passa per il
non-lavoro, la marginalità, le ristrettezze economiche: Gustav Meyrink, Vincent
Van Gogh, Thomas Mann, Emile Zola, Arthur Machen, René Descartes, Ugo Foscolo,
Karl Marx sono solo alcuni dei tanti che hanno barattato il lavoro e la
sicurezza economica con la libertà che esso non può offrire.
Albert
Einstein raccontava, del periodo in cui viveva stentatamente come impiegato
dell'ufficio brevetti di Berna, che nei suoi Gedankenexperimente (esperimenti simulati) poneva orologi
dappertutto, ma non aveva neanche i soldi per comprarsene uno reale.
A
queste considerazioni introduttive i brani riportati nella presente antologia
ne aggiungono molte altre, interessanti e degne di meditazione.
Se
ne augura a tutti buona lettura.
il
lavoro nel pensiero greco (giovanni reale)
Agli antichi
filosofi rimane estranea la concezione del lavoro, inteso nella sua accezione moderna,
e quindi nella sua rilevanza sociale e morale. Il lavoro manuale viene
addirittura nettamente disprezzato: basti pensare al ruolo subalterno che la
classe degli operai e dei commercianti ha nello Stato ideale di Platone, oppure
nella politica di Aristotele, il quale, nello sforzo di giustificare razionalmente
l'istituto della schiavitù, considera lo schiavo addetto al lavoro manuale
come strumento animato.
Verso una
certa rivalutazione del lavoro, si muovono, invece, alcuni Sofisti - come ad
esempio Ippia, ohe si propone come fine il raggiungimento di una autarchia
tecnica, e, in una prospettiva etica, anche i Cinici, che considerano la
fatica, anche fisica, come esercizio necessario per raggiungere il dominio di
sé ed il disprezzo dei piaceri, e quindi per conseguire la virtù.
Una
valutazione decisamente positiva del lavoro si trova in Musonio Rufo, che
ritiene l'esercizio dell'agricoltura il mezzo più conveniente per il filosofo
per guadagnarsi da vivere.
Anche negli
Scettici (sia in quelli antichi che in quelli più recenti) si trovano spunti
che interessano il nostro problema: Pirrone compie con assoluta indifferenza i
lavori servili disprezzati dalla comune opinione, perché li considera, se non
positivi, almeno indifferenti come tutto il resto, e, in ogni caso, in questo
modo, si affranca dal comune modo di sentire. Sesto Empirico, infine, riconosce
la necessità di apprendere ed esercitare un'arte, traendo questa norma dalla
osservazione della vita comune e delle sue concrete esigenze.
La nozione di prassi
Per Aristotele prassi (πραξις) è quell'azione che parte dal
soggetto e torna al soggetto, ossia l'azione
morale, che, come tale, si distingue dalla poiesis o produzione, azione, che produce qualcosa al di fuori del soggetto (donde la distinzione di
scienze pratiche e di scienze poietiche). In senso generale, prassi indica l'agire ed il fare degli uomini, come
atteggiamenti distinti dalla contemplazione.
L'inferiorità della prassi rispetto alla contemplazione è tematica in quasi
tutti i filosofi greci.
La classificazione delle attività di pensiero
Aristotele ha distinto le scienze
in tre grandi branche: a) scienze teoretiche, cioè scienze che ricercano il
sapere per se medesimo; b) scienze pratiche, cioè scienze che ricercano il
sapere per raggiungere attraverso esso la perfezione morale; c) scienze
poietiche o produttive, vale a dire scienze che ricercano il sapare in vista
del fare, cioè allo scopo di produrre determinati oggetti. Le più alte per
dignità e valore sono le prime, che sono costituite dalla metafisica, dalla fisica,
(in cui è inclusa la psicologia) e
dalla matematica). La più alta delle
scienze teoretiche è la metafisica.
La filosofia come bisogno primario dello
spirito umano
Sommerso com'è da tanti altri
problemi, perché mai l'uomo deve proprio porsi anche il problema di comprendere
l'universo? Non è forse, questo, un problema di lusso? Peggio - potrà forse
pensare qualche lettore d'oggi - non è per avventura un problema sorpassato,
reso irrimediabilmente arcaico dalle nuove scienze, e, dunque, oggi non più
proponibile?
Anche la risposta a questo
interrogativo ci viene da Aristotele, il quale, nel fornirla, sfruttò a fondo
il messaggio dei suoi predecessori. Proprio in apertura della Metafisica egli scrive:
Tutti gli
uomini per natura desiderano il sapere.
Concetto, questo, espresso anche
nel Protrettico nel modo seguente:
L'esercitare
la sapienza e il conoscere sono desiderabili per se stessi dagli uomini: non è possibile
infatti vivere da uomini senza queste cose.
Il « desiderio» di conoscere si iscrive,
dunque, nell'essere stesso dell'uomo, rivelandosi, in tal modo, come qualcosa
tolto il quale la natura stessa dell'uomo viene compromessa.
E si badi: non si tratta solamente
di un generico desiderio di conoscere, ma proprio di un desiderio di
raggiungere quel particolare tipo di conoscere di cui sopra abbiamo detto.
Che il desiderio di conoscere sia
un tratto essenziale della natura dell'uomo risulta evidente dal fatto che
tutti traiamo diletto dalle sensazioni, e, in particolar modo, dalla vista, per
il motivo che essa è quella che ci fa conoscere di più. E come fra le varie
sensazioni amiamo più di ogni altra la vista perché ci fa conoscere di più,
così, analogamente, fra le varie forme di conoscere che sono ulteriori alla
sensazione, apprezziamo maggiormente quelle che ci fanno conoscere di più.
Oltre la sensazione, infatti, ci sono la memoria, l'esperienza e poi anche la
scienza. Ma tutti gli uomini apprezzano più l'arte e la scienza che non
l'esperienza, anche se colui che ha esperienza talvolta (o spesso) si muove più
speditamente nella sfera dell'attività pratica rispetto a colui che possiede la
scienza. Questo si verifica per il motivo che l'esperienza ci fa conoscere
solamente il che delle cose, ossia i fatti e certi loro nessi empirici, mentre
la scienza ci fa risalire al perché dei fatti, ossia alla causa ed al principio
che li determinano. E, ancora, fra le scienze, noi apprezziamo di più quella
che è in grado di farci conoscere non alcune cose soltanto, ma tutte le cose,
o, meglio, non le cause di alcune cose soltanto, bensì le cause di tutte le
cose, ossia la «sapienza », quella sapienza che abbraccia appunto l'intero
universo.
Questo desiderio di conoscere
nell'uomo si esprime in modo particolare nel sentimento della meraviglia.
Già Platone scriveva:
È proprio
del filosofo questo: di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha
il filosofare che questo esser pieno di meraviglia.
E Aristotele, riprendendo e
svolgendo questo concetto, precisa:
Gli uomini
hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia:
mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più
semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porre problemi
sempre maggiori, come i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del
sole e degli astri e i problemi riguardanti l'origine dell'intero universo.
La filosofia come contemplazione
Una volta spiegata l'origine, è
facile spiegare anche il fine, ossia lo scopo della filosofia secondo i Greci.
Se l'origine del filo-sofare è un bisogno di conoscenza e di sapere, il fine
dovrà essete appunto l'appagamento, o, quantomeno, il tendere all'appagamento
di questo bisogno, come già s'è detto, e, dunque, il conoscere ricercato e
conseguito per se stesso e non per scopi ulteriori. Insomma il fine è il
conoscere per il conoscere o, come dicevano i Greci, il theorein, il conoscere come puro atteggiamento contemplativo del
Vero.
Anche per comprendere a fondo
questo punto il paragone con le scienze particolari risulta illuminante. Le
tecniche e le scienze particolari sono dirette, di norma, alla realizzazione di
scopi empirici e alla attuazione di fini prammatici ben precisi. Esse hanno
indubbiamente anche un valore conoscitivo; tuttavia, questo non è in primo
piano, in quanto, appunto, non costituisce il loro fine, che, come abbiamo
detto, consiste nella produzione di determinati vantaggi di ordine pratico (per
la medicina il guarire, per l'architettura il costruire, e cosi di seguito).
Poiché, dunque, il raggiungimento di scopi pratici è essenziale per le scienze
particolari, esse non valgono tanto di per sé quanto piuttosto (o almeno
prevalentemente) nella misura in cui sono in grado di mandare ad effetto i
medesimi. Per contro, la filosofia vale proprio per la sua teoreticità, ossia
appunto per la sua carica e la sua valenza conoscitiva.
La tradizione antica riconosceva
già nell'atteggiamento del primo dei filosofi greci, ossia di Talete, questa
cifra teoretica. Anzi, Aristotele riconosceva una certa carica teoretica negli
stessi creatori di miti teogonici e cosmogonici, in quanto i miti rispondono
(sia pure a livello fantasticopoetico) a quello stesso bisogno da cui nasce la
filosofia, vale a dire alla meraviglia.
Ma ecco un passo di Platone in cui
proprio Talete è proposto come simbolo della «vita teoretica »:
Socrate
- [ ... ] di queste e simili ciarle [che riguardano le piccolezze e le
meschinità della vita quotidiana] il filosofo non sa niente più di quel che
sappia, come si dice, quanti bicchieri d'acqua ha il mare. E neppure sa di non
saperle; ché non se ne tiene lontano per aver fama di uomo singolare. E il vero
è che il suo corpo soltanto si trova nella città e ivi dimora, ma non la sua
anima; la quale tutte codeste reputandole cose da poco e anzi da nulla, e
avendole in dispregio grande, trasvola, come dice Pindaro, da ogni parte, e ora
scende giù nel profondo della terra, ora ne misura la superficie, ora sale su
nel cielo a mirare le stelle, e tutta quanta investiga in ogni punto la natura
degli esseri, ciascuno nella sua universalità, senza mai abbassare se stessa a
niente in particolare di ciò che le è vicino.
Teodoro
- Che cosa vuoi dire, o Socrate, con questo?
Socrate
- Quello stesso, o Teodoro, che si racconta anche di Talete, il quale, mentre
stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una
sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le
cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e
tra V piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può ben applicare egualmente
a tuttti coloro che fanno professione di filosofia. Perché il filosofo in
verità non solo non si avvede di chi gli è presso, né del vicino di casa che
cosa faccia, ma nemmeno, si può dire, se è uomo o altro animale; ma se si
tratti invece di ritrovare che cosa l'uomo è, e che cosa alla natura dell'uomo,
a differenza dagli altri esseri, conviene fare e patire, egli adopra in codesto
ogni suo studio. Mi capisci ora, Teodoro? o no?
Analogo atteggiamento la tradizione
antica riferiva a Pitagora e ad Anassagora, come leggiamo in un frammento del Protrettico di Aristotele:
Quale è
mai, allora, lo scopo in vista del quale la natura e Dio ci hanno generati?
Interrogato su questo, Pitagora rispose: «l'osservare il cielo », ed era solito
dire di essere uno che speculava sulla natura e che in vista di questo scopo
era venuto al mondo. E dicono che Anassagora, interrogato su quale fosse lo
scopo in vista del quale uno poteva desiderare di essere stato generato e di
vivere, rispose alla domanda: «l'osservare il cielo e gli astri che stanno
intorno ad esso, e la luna ed il sole », come se non stimasse degne di nessun
valore tutte le altre cose.
È appena il caso di rilevare che il
« cielo » e il « mondo », in questo contesto, significano l'universo.
La concezione platonica, poi, è
espressa in maniera paradigmatica già nel Teeteto
sopra letto, ma gioverà riferire ancora un passo, tanto breve quanto efficace,
della Repubblica:
E i veri
filosofi [ ... ] chi sono per te? Quelli che amano contemplare la verità.
E con la contemplazione della
Verità Platone intende la contemplazione dell' Assoluto.
In Aristotele la disinteressata
contemplazione come cifra del filosofare è espressa, oltre che in una pagina
esemplare della Metafisica, già sopra
letta (nonché in celebri pagine dell'Etica
a Nicomaco), in un frammento del Protrettico,
che mette conto di riportare:
Il cercare
che da ogni scienza derivi qualche cosa di diverso e che essa debba essere
utile, è proprio di uno che ignora completamente quanto distino sin da
principio le cose buone e quelle necessarie: esse, in realtà, differiscono al
massimo. Quelle infatti, tra le cose senza di cui è impossibile vivere, che
sono amate per causa di altro, devono essere dette cose necessarie e concause,
mentre quelle che sono amate per se stesse, anche qualora non ne derivi nulla
di diverso, devono essere dette cose propriamente buone. Questo perché non è
possibile che una determinata cosa sia desiderabile per causa di un'altra,
quest'altra per causa di un'altra ancora e cosi si proceda all'infinito; ma ad
un certo punto ci si deve fermare. Sarebbe dunque del tutto ridicolo cercare da
ogni cosa un vantaggio diverso dalla cosa stessa e domandare: «quale vantaggio
dunque ne deriva a noi? », o «quale utilità? ». In verità, come noi diciamo,
chi facesse questo non somiglierebbe per nulla ad uno che sappia che cosa sia
bello e che cosa sia buono, né ad uno che distingua che cosa sia causa e che
cosa sia concausa.
Uno può
vedere che la nostra tesi è più vera di ogni altra, se col pensiero ci si porta
per esempio nelle isole dei beati. Là infatti non c'è bisogno di nulla, né si
ricava vantaggio da alcuna altra cosa, ma rimane soltanto il pensare e lo
speculare, il che anche ora noi diciamo essere vita libera. Ma se ciò è vero,
non sarebbe giusto che si vergognasse chiunque di noi, offrendoglisi
l'occasione di dimorare nelle isole dei beati, si trovasse per colpa sua
nell'impossibilità di farlo? Dunque non è disprezzabile il compenso che deriva
agli uomini dalla scienza, né è piccolo il bene che da essa deriva. Come
infatti nell'Ade, secondo quanto dicono i più sapienti fra i poeti, riceveremo
il premio della giustizia, cosi nelle isole dei beati, a quanto sembra, dovremo
ricevere il premio della sapienza.
Non c'è
quindi nulla di strano, se la sapienza non appare utile né vantaggiosa, poiché
non diciamo che essa è utile, ma che è buona, né è giusto desiderarla per causa
di altro, ma per se stessa. Noi infatti ci rechiamo ad Olimpia in vista dello
spettacolo stesso, anche se da esso non debba derivare niente altro - poiché lo
spettacolo stesso vale più di molto denaro -, e stiamo a guardare le
rappresentazioni dionisiache non per ricevere qualche cosa da parte degli
attori, ma anzi pagandoli, e preferiremmo molti altri spettacoli a molto
denaro. Allo stesso modo anche la speculazione sull'universo deve essere
stimata più di tutte le cose che sono considerate utili. Non è certamente
giusto, infatti, viaggiare con gran fatica allo scopo di vedere uomini che
imitano donne e servi, o combattono e corrono, e non ritenere doveroso
speculare, senza spesa, sulla natura degli esseri e sulla verità.
Filosofia e vita etico-politica
Solo di recente è stato messo in
luce che la greca «contemplazione» implica strutturalmente un preciso
atteggiamento pratico nei confronti della vita. Questo significa che la ϑεωρια
[theoria]
greca, non è solo una dottrina di carattere intellettuale e astratto, ma è
altresì, sempre, una dottrina di vita, o, per dirla in altra maniera, è una
dottrina che postula strutturalmente un inveramento esistenziale, e, di norma,
ad esso si accompagna.
Come è stato opportunamente
rilevato, dire che filosofia per i Greci significava riflessione razionale
sulla totalità delle cose è abbastanza esatto se ci si limita a questo. Ma se
vogliamo completare la definizione, dobbiamo aggiungere che, in virtù
dell'altezza del suo oggetto, questa riflessione implicava un preciso atteggiamento
morale e uno stile di vita che erano ritenuti essenziali sia dagli stessi
filosofi che dai loro contemporanei. Questo, in altre parole, significa che la
filosofia non era mai un fatto puramente intellettuale. È un errore altrettanto
grave sostenere che nel periodo classico lo stile di vita non aveva alcun
rapporto con la filosofia, quanto affermare che nel più tardo periodo
ellenistico-romano la teoria cedette alla prassi. Si può ammettere questo: nel
periodo più tardo c'è uno spostamento d'accento dagli aspetti teorici a quelli
pratici della filosofia, non ad opera di tutti ma almeno in alcuni casi. In
conclusione, nella filosofia greca più antica troviamo una teoria che implica
di necessità un certo atteggiamento morale e uno stile di vita; nella filosofia
greca più tarda troviamo, non sempre ma comunque con maggior frequenza del suo
contrario, un atteggiamento e uno stile di vita morali che di necessità
presuppongono una teoria.
Potremmo, insomma, dire che la
costante della filosofia greca è il theorein,
ora accentuato nella sua valenza speculativa, ora nella sua valenza morale, ma
sempre in un modo tale che le due valenze si implicano reciprocamente in
maniera strutturale. Del resto, una riprova di questo sta nel fatto, già
richiamato, che i Greci ritennero sempre vero filosofo solo colui che dimostrò
di sapere realizzare una coerenza di pensiero e di vita, e, quindi, colui che
seppe essere maestro non solo di pensiero ma anche di vita.
Riteniamo, tuttavia, che si possa
procedere ancora oltre queste conclusioni.
Intanto, che il confrontarsi con
l'assoluto e con l'universo comporti un distacco dalle cose che gli uomini
hanno comunemente in massimo pregio - come ad esempio la ricchezza, gli onori,
il potere e simìli - e dunque una vita di tipo, diciamo cosi, «ascetico», lo si
comprende agevolmente, dato che, contemplando l'universo, mutano
necessariamente tutte le usuali prospettive, e in quest'ottica globale muta il
significato della vita dell'uomo e una nuova gerarchia di valori si impone.
Ma il punto che stiamo discutendo
si chiarisce ancora di più, mettendo a confronto la «contemplazione» e la «
politica », concetti che per noi moderni paiono antitetici, e che, invece, i
filosofi greci agganciano fra loro in maniera essenziale, rivelando proprio in
questo la peculiare natura del loro theorein.
Di molti Presocratici le fonti
antiche attestano l'attività politica. Non si tratta della politica militante,
bensì della superiore attività del far leggi e del dar consigli alla Città. E
sempre le medesime fonti attestano espressamente che leggi e consigli dati da
questi filosofi furono buone leggi e buoni consigli. Fin qui, però, si tratta
di tradizione indiretta, che non ci permette di cogliere il nesso preciso
sussistente fra theoria e politica.
Anche i Sofisti, come sappiamo,
hanno mirato, con la loro filosofia, a fare opera politica. Tuttavia, dalle
testimonianze pervenuteci non appare, neppure in questo caso, quale fosse il
nesso fra le due attività
Ma già in Socrate questo nesso
emerge con tutta chiarezza. Socrate, come abbiamo visto, rinunciò alla politica
intesa come quotidiana prassi militante, ma comprese perfettamente e proclamò
che il suo filosofare costituiva una sorta di superiore attività politica, in
quanto essa era formatrice di coscienze morali nella misura in cui disvelava i
veri valori. L'aver guadagnato la chiara visione dell'universo dell'uomo come
psyché e l'aver visto nella psyché
ciò che nell'uomo è simile al divino, comportava, infatti, non solo una nuova
impostazione dell'esistenza individuale, quale egli in modo paradigmatico seppe
realizzare, ma anche un coinvolgimento degli altri, di tutti gli altri, e, al
limite, della Città intera. Platone vide in maniera lucidissima questa enorme
energia pratica della «sapienza» socratica, fino al punto di mettere in bocca a
Socrate medesimo l'affermazione:
Io credo di
essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte
politica e il solo tra i contemporanei che la eserciti.
Dal canto suo, nella Repubblica, Platone portò queste
premesse alle conseguenze estreme, giungendo ad additare nei filosofi divenuti
re (e nei re divenuti filosofi), e dunque proprio nella filosofia, la salvezza
dei governi e degli Stati, oltre che dei singoli uomini:
Né Stato né
Governo né uomo alcuno diventerà perfetto, prima che [ ... ] pochi e buoni
filosofi, che pure ora sono creduti inutili, non siano costretti per buona
sorte, lo vogliano o no, a prendersi cura dello Stato, e la Città non sia
costretta ad ubbidire loro, oppure nei figli dei re e dei potenti di adesso, o
in questi medesimi, non si accenda, per divina ispirazione, vero amore di vera
filosofia.
Su quali basi Platone afferma
questo?
Per il nostro filosofo, come
vedremo, il Bene è il fondamento di tutto: non solo dell'essere e del
conoscere, ma anche dell'agire privato e dell'attività pubblica:
Ecco quello
che a me sembra: nella sfera del conoscibile, ultima è l'Idea del Bene e solo a
stento può essere vista, ma, una volta vista, bisogna riconoscere che essa è
causa di tutte le cose giuste e belle, perché genera, nella sfera del Visibile,
la luce e il signore della luce, e, in quella dell'intelligibile, essendo essa
sovrana, produce la verità e l'intelligenza; e che a questa deve guardare colui
che vuole comportarsi in modo assennato nella vita privata e in quella pubblica.
Ma Platone dice ancora di più. Egli
giunge, infatti, a scoprire la ragione per cui la contemplazione ha valenza
pratico-politica. Chi ha il pensiero rivolto agli esseri - egli dice -, a
quegli esseri che permangono sempre identici e ordinati perfettamente, non si
lascia deviare dalle vane occupazioni degli uomini che riempiono gli animi di
invidia e di malanimo, ma piuttosto tende ad «imitare» quegli esseri e «a farsi
simile a loro quanto più è possibile». E, cosi facendo, ossia intrattenendosi
con ciò che è «ordinato e divino» il filosofo diventa egli stesso «quanto più è
possibile ordinato e divino». Di conseguenza, il filosofo non solo trasforma la
propria vita privata in questo modo, ma, qualora si rendesse necessario per lui
occuparsi della vita pubblica, tenderebbe a far diventare lo Stato medesimo,
quanto più è possibile, ordinato e divino, vale a dire strutturato secondo
virtù.
Insomma, la conoscenza dell'universo
e dell'assoluto, che per il nostro filosofo è il Divino e il Trascendente,
comporta anche l'imitazione del divino e l'assimilazione al Divino nel singolo
che lo contempla, e comporta, poi, anche il dovere di coinvolgere anche gli
altri in tale imitazione, appunto in dimensione politica.
Due punti particolari meritano
ancora di essere rilevati. Platone ha sottolineato, a più riprese, che la
conoscenza dell'universo comporta uno « scioglimento dalle catene», una «ascesa»
e addirittura «un rivolgersi con tutta la persona», ossia un cambiare vita, una
conversione.
Inoltre, egli ha anche
energicamente ribadito - e questo è stato di recente messo bene in luce - la
necessità che colui il quale ha visto l'assoluto, ritorni nella « caverna» a
«liberare », ossia a «convertire» gli altri, anche se questo dovesse costargli
il prezzo della vita, come accadde a Socrate.
Non meno esplicita è la
tematizzazione della potenza pratico-salvifica del «contemplare» nel Fedro. Le anime - si dice nel celebre
mito di questo dialogo - quando sono nell'aldilà al seguito degli Dei, ruotando
attorno ai cieli, giungono alla pianura della Verità, dove contemplano il puro
essere (il mondo delle Idee). E quanto più riescono a contemplare, tanto più,
reincarnandosi e ritornando sulla Terra, saranno ricchi di energie spirituali e
morali. I migliori uomini saranno quelli in cui albergano anime che più «hanno
visto », i peggiori quelli in cui albergano anime che meno «hanno visto».
Questo significa che la vita morale dipende in modo strutturale dal
contemplare: il « fare» è tanto più ricco quanto più lo è stato il
«contemplare».
Non pochi di questi concetti
ritornano anche nel Protrettico di Aristotele, del quale riportiamo la sezione
dedicata alla discussione intorno ai rapporti fra filosofia e vita pratica:
Tale
scienza è dunque speculativa, ma ci consente di essere artefici, in base ad
essa, di tutte le cose. La vista infatti non è artefice e produttrice di nulla,
poiché suo solo compito è il distinguere e il mostrare ciascuna delle cose
visibili. Essa tuttavia ci consente di agire per mezzo suo e ci è di
grandissimo aiuto in rapporto alle nostre azioni, poiché qualora fossimo
privati di essa, saremmo pressoché immobili. Allo stesso modo è chiaro che, pur
essendo questa scienza speculativa, tuttavia noi facciamo migliaia di cose in
base ad essa, scegliamo alcune azioni e ne fuggiamo altre, e in generale per
mezzo di essa acquistiamo tutti i beni.
E ancora nell'Etica Eudemia Aristotele proclama espressamente che la
«contemplazione di Dio» costituisce il «criterio di riferimento» per la vita
pratica.
Filosofia ed Eudaimonia
Eudaimonia,
la parola greca che noi traduciamo con felicità, significa, letteralmente,
avere un buon Demone protettore, dal quale dipende, come conseguenza, una vita
prospera.
Ma questo Demone fu ben presto
interiorizzato nella riflessione filosofica, e messo in stretto rapporto con
l'intimo dell'uomo.
È appunto questo il concetto che si
impone ad opera di Socrate e che successivamente domina incontrastato, per
tutto il corso della filosofia antica. È proprio il theorein, come attività conoscitiva e come attività morale, che
tempra l'anima e la fa diventare virtuosa, ossia buona. Ed è evidente che, se
il Demone è la nostra anima (o nella nostra anima), la bontà o virtù dell'anima
viene a coincidere strutturalmente appunto con la eu-daimonia.
Dunque, nella educazione e nella
formazione dell'anima e dello spirito dell'uomo, e quindi nella filosofia, che
più di ogni altra conoscenza forma l'anima, è riposta la felicità.
In un passo del Gorgia Platone fa
espressamente dire a Socrate che la felicità consiste nell'interiore formazione
e nella virtù:
Polo
- Evidentemente, o Socrate, neppure, del Gran Re dirai di sapere che è felice!
Socrate
- E direi semplicemente il vero, perché io non so come egli stia quanto a
interiore formazione e quanto a giustizia.
Polo
- Ma come? Tutta la felicità consiste in questo?
Socrate
- Secondo me, si, o Polo. Infatti io dico che chi è onesto e buono, uomo o
donna che sia, è felice, e che l'ingiusto e malvagio è infelice.
Ulteriori approfondimenti a questo
tema sono apportati da Aristotele, il quale rileva che, dal momento che il
vivere è legato al piacere, ne consegue che alla forma più alta di vita che è
l'attività pensante dell'anima, la quale nel modo più alto si esplica appunto
nel filosofare, è legato il piacere più alto, e quindi la felicità.
Nell'Etica a Nicomaco, poi, come
vedremo 59, viene dimostrata a fondo la tesi che il culmine della felicità sta
nella contemplazione. Il Dio stesso di Aristotele è autocontemplazione.
Nell'età ellenistica il nesso fra
filosofia e felicità viene ulteriormente accentuato. Del resto, una filosofia
che si proponga di essere un'arte del vivere, una via che conduce alla
atarassia, alla pace dell'anima, non può non porre nella felicità il proprio telos.
Un testo di Epicuro valga come
esempio per tutti:
Nessuno,
mentre è giovane, tardi a filosofare, né, mentre è vecchio, si stanchi di
filosofare: infatti, per acquistare la salute dell'animo, nessuno è immaturo o
troppo maturo. E chi dice che non è ancora venuta l'età del filosofare, o che è
già passata, è come se dicesse che non è ancor giunta l'ora di essere felici, o
che è già passata.
L'arte nella Grecia classica aveva
quasi interamente ignorato il mondo del lavoro manuale; e l'arte ellenistica se
ne era occupata solo in forma di sentimentale pittura di genere, in cui erano
raffigurati il povero che desta compassione o i contadini intenti al duro
lavoro, non per dare un quadro oggettivo e naturale della realtà. Tuttavia
l'antichità romana ne trasse una varietà quasi inesauribile di tipi figurativi.
Accanto alle figurazioni puramente descrittive dei mestieri, che rimangono
solidamente ancorate alla realtà in un modo tipicamente romano e ci mostrano
contadini e artigiani intenti al loro lavoro quotidiano, ci sono le
rappresentazioni ellenistiche che mitologizzano giocosamente questa concreta
realtà, facendo lavorare putti; e ci sono, infine, innumerevoli pietre tombali
sulle quali l'occupazione del defunto è indicata raffigurando non i gesti, ma,
emblematicamente, gli arnesi del suo lavoro. Talvolta questi emblemi del lavoro
possono trasformarsi nelle operazioni del lavoro stesso, come si vede in un
vetro dorato su cui la figura di un armatore navale è circondata da piccole
scene della vita di cantiere. Talvolta anche, se pure non di frequente,
incontriamo rappresentazioni che realmente "personificano" un
mestiere, come lo specchio etrusco (strettamente legato alle lastre tombali
emblematiche) che presenta un eros alato circondato daglii arnesi del
falegname: per così dire, "lo spirito della falegnameria".
L'umanesimo italiano riaffermò un
ideale che era nato nell'antichità classica ma che poi era andato offuscandosi
nel Medioevo; pià ancora, lo esaltò come criterio per un modo di vivere
sostanzialmente mutato. Si trattava dell'ideale della vita speculativa, in cui
la "sovranità dello spirito umano" sembrava realizzarsi quasi
integralmente: infatti solo la vita
speculativa si fonda sulla fiducia in sé e l'auttosufficienza di un
processo di pensiero che rappresenta la sua propria giustificazione. Il
Medioevo, è vero, non aveva mai dimenticato le gioie della vita dedita alla
ricerca e alla conoscenza, e anche l'espressione vita contemplativa aveva continuato ad essere tenuta in
considerazione; ma ciò che con questa espressione si intendeva era qualcosa di
diverso dall'ideale classico della "vita speculativa". Diverso in
quanto si trattava del valore della vita
contemplativa in sé e senza tenere conto del suo fine. Il pensatore medievale
non meditava per essere padrone di sé, ma per avvicinarsi a Dio, per cui la sua
meditazione trovava un senso e una giustificazione non in sé ma nel fatto di
stabilire un rapporto con la divinità; e se non si dedicava a
"contemplare", ma usava la sua ragione scientificamente egli si
poneva consapevolmente nel solco di una tradizione che sulla base di tutto
quanto il suo metodo, fondamentalmente mirava a ciò che è al di là
dell'individuo; la sua specifica funzione era quella di erede e trasmettitore,
di critico e mediatore, di discepolo e insegnante, e nessuno pensava che
dovesse essereil creatore di un mondo intellettuale incentrato su di lui. Non
era molto diverso, di fatto, dal contadino e dall'artigiano i quali occupavano
anch'essi il posto loro assegnato, nell'ordine universale, da Dio: il dotto
medievle (in quanto distinto dall'"aristocratico" umanista
rinascimentale, conspevolmente appartato dal volgo) non si considerava un
essere diverso e superiore. In entrambi i casi, quindi, il pensatore medievale
non apparteneva a se stesso ma a Dio, o direttamente, come avveniva nella contemplazione
di Lui, o indirettamente, come avveniva nell'adempimento di un servizio
ordinato da Lui e regolato tradizionalmente e ieraticamente. Se non adempiva a
queste due condizioni, era del diavolo, poiché chiunque non meditava né
lavorava cadeva vittima del vizio dell'acedia,
dell'accidia, che portava a tutti gli altri tipi di peccato. Si potrebbe dire
che el Medioevo l'idea di ozio non esisteva. l'otium classico aveva un valore specifico e poteva perfino produrre
valori anch se (o forse perché ) esternamente era la stessa cosa che
l'inattività; era quindi contrapposto come di "di genere diverso" sia
alla fatica del contadino o del soldato che all'improduttivo edonismo del
fannullone. Parimenti, la vita del filosofo classico, chel'umanista rinascimentale
aspirava ad imitare, non si colloca tra la vita
activa e la vita voluptuaria ma
al di là di entrambe. In certamisura sta al di là del bene e del male, molto
diversamente dal percorso, che era rivolto a Dio, dei teologi e mistici
medievali; e si può comprendere perché il Rinascimento, per distinguere il modo
di vita ora riscoperto, del philosophus
classico da quello del religiosus
medievle, abbia abandonato l'espressione tradizionale vita contemplativa (che coi secoli aveva finoto con il significare
semplicemente contemplatio Dei) ed
abbia coniato una nuova espressione, che, risalendo al di là del Medioevo,
riafermava l'antica idea delpensiero e della ricerca autosufficienti: si tratta
di vita speculativa sive studiosa,
contrapposta a vita contemplativa sive
monastica. Il nuovo ideale trovò espressione concreta in un tipo d'uomo
ignoto al medioevo, l'homo literatus o
Musarum sacerdos, che nella vita pubblica
e privata era responsabile solo di fronte a se stesso e al suo spirito. Tutta
una branca della letteratura fu dedicata all'elogio della vita speculativa. A questa furono devoti il Poliziano e Lorenzo de'
Medici e ad essa reseroomaggio le camaldulenses
disputationes del Landino, e fu la motivazioneprincipale della famosa
orazinoe di Pico della Mirandola, De
hominis dignitate. Nell'opera di Durer possiamo vedere come la nozione
medievale della viziosa "accidia" ceda più tardi, nella Melencolia I, all'idea umanistica di una
meditazione che non tanto sfugge all'attività quanto se la lascia alle spalle.
elogio
dell'ozio (bertrand russell)
Come molti uomini della mia
generazione, fui allevato secondo i precetti del proverbio che dice « l'ozio è
il padre di tutti i vizi ». Poiché ero un ragazzino assai virtuoso, credevo a
tutto ciò che mi dicevano e fu cosi che la mia coscienza prese l'abitudine di
costringermi a lavorare sodo fino ad oggi. Ma sebbene la mia coscienza abbia
controllato le mie azioni, le mie opinioni subirono un processo rivoluzionario.
lo penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano
derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa; insomma,
nei moderni paesi industriali bisogna predicare in modo ben diverso da come si
è predicato sinora. Tutti conoscono la storiella di quel turista che a Napoli
vide dodici mendicanti sdraiati al sole (ciò accadeva prima che Mussolini
andasse al potere) e disse che avrebbe dato una lira al più pigro di loro.
Undici balzarono in piedi vantando la loro pigrizia a gran voce, e naturalmente
il turista diede la lira al dodicesimo, giacché era un uomo che sapeva il fatto
suo. Nei paesi che non godono del clima mediterraneo, tuttavia, oziare è una
cosa molto più difficile e bisognerebbe iniziare a tale scopo una vasta
campagna di propaganda. Spero che, dopo aver letto queste pagine, l'YMCA si
proponga di insegnare ai giovanotti a non fare nulla. Se ciò accadesse davvero,
non sarei vissuto invano.
Prima di esporre i miei argomenti
in favore dell'ozio, vorrei eliminarne uno che non mi sento di accettare.
Quando una persona ha mezzi sufficienti per vivere e tuttavia pensa di assumere
un impiego qualsiasi (di insegnante o di segretario, ad esempio), si usa dire
che tale persona toglie il pane di bocca agli altri e compie perciò un'azione
malvagia. Se tale argomento fosse valido, basterebbe che tutti stessero in ozio
perché ogni stomaco fosse pieno di pane. La gente che parla così dimentica che
di solito gli uomini spendono quel che guadagnano, e spendendo danno lavoro
agli altri, cioè mettono nelle loro bocche, spendendo, tanto pane quanto gliene
tolgono guadagnando. Il vero malvagio, da questo punto di vista, è il
risparmiatore. Chi mette i propri risparmi nella calza nega al prossimo
possibilità di guadagno. Se invece li investe, la faccenda diventa meno ovvia e
il discorso cambia.
Uno dei metodi più diffusi per investire i risparmi consiste nel darli
in prestito a qualche governo. Considerando il fatto che la maggior parte dei
governi civili spende un'altissima percentuale del denaro pubblico per pagare i
debiti delle guerre passate e preparare le guerre future, chi presta quattrini
allo Stato si trova press'a poco nella posizione di quell'infame personaggio di
Shakespeare che prezzolava assassini. Insomma le abitudini economiche dell'uomo
moderno hanno un solo risultato pratico, quello di aumentare il potenziale
bellico dello Stato al quale egli presta i suoi risparmi. Ovviamente sarebbe
meglio che li spendesse, sia pure ubriacandosi o giocando d'azzardo.
Mi si obietterà che la cosa è ben
diversa quando i risparmi vengono investiti nell'industria. Se l'industria va a
gonfie vele e produce qualcosa di utile, tutto bene. Ma di questi giorni molte
industrie falliscono. Ciò significa che buona parte della fatica umana, che
avrebbe potuto produrre qualcosa di piacevole, è stata sprecata per produrre
macchine inoperose che non servono a nessuno. L'uomo che vede sparire i suoi
risparmi in una bancarotta ha danneggiato gli altri oltreché se stesso. Se
avesse speso i propri quattrini, supponiamo, nell'offrire splendide feste ai
suoi amici, avrebbe fatto un gran piacere non soltanto a costoro, ma anche al
macellaio, al pasticcere e al fornitore di liquori. Invece (è ancora una
supposizione) li ha investiti in una impresa destinata a stendere una rete di
rotaie in una cittadina che non ha bisogno di tram, e ha così contribuito a
deviare una certa quantità di lavoro in un canale che non giova a nessuno. Ciò
nonostante, quando sarà in miseria per colpa di quel pessimo investimento,
tutti lo considereranno vittima di una sventura immeritata, mentre l'allegro
prodigo, che ha speso filantropicamente il suo denaro, sarà disprezzato come un
incosciente e uno scervellato.
Ma questa è soltanto una premessa.
lo voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca
grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità
si trova invece in una diminuzione del lavoro.
Prima di tutto, che cos'è il
lavoro? Vi sono due specie di lavoro: la prima consiste nell'alterare la
posizione di una cosa su o presso la superficie della terra, relativamente a
un'altra cosa; la seconda consiste nel dire ad altri di farlo. La prima specie
di lavoro è sgradevole e mal retribuita; la seconda è gradevole e ben
retribuita, ed anche suscettibile di infinite variazioni. Per esempio, non
soltanto vi sono persone che danno ordini, ma anche persone che danno consigli
circa gli ordini che bisogna dare. Di solito due gruppi organizzati di uomini
danno simultaneamente due tipi di consigli opposti: ciò si chiama politica.
Questo genere di lavoro richiede un talento particolare che non poggia sulla
profonda conoscenza degli argomenti sui quali bisogna esprimere un parere, ma
sulla profonda conoscenza dell'arte di persuadere gli altri con la parola o con
gli scritti, cioè la pubblicità.
In tutta Europa, seppur non in
America, vi è una terza classe di persone, molto più rispettate dei lavoratori
delle due categorie. Costoro sono i proprietari terrieri, i quali riescono a
far pagare ad altri il privilegio di esistere e di lavorare. I proprietari
terrieri sono oziosi, e ci si potrebbe perciò aspettare che io ne tessa gli
elogi. Purtroppo il loro ozio è reso possibile soltanto dal lavoro degli altri;
dirò di più: il loro smodato desiderio di godersi i propri comodi è l'origine
storica del vangelo del lavoro. L'ultima cosa al mondo che essi si augurino è
di vedere imitato il loro esempio.
Dall'inizio della civiltà fino alla
rivoluzione industriale, un uomo poteva, di regola, produrre con molto lavoro
un po' più di quanto fosse necessario al mero sostentamento di se stesso e
della sua famiglia, sebbene sua moglie lavorasse almeno quanto lui e i suoi
figli cominciassero a lavorare appena l'età glielo consentiva. Questo esiguo
margine non rimaneva però a chi lo produceva, ma veniva incamerato dai
guerrieri e dai preti. In tempi di carestia non era possibile produrre più del
minimo indispensabile, ma guerrieri e preti pretendevano la loro parte come
sempre, col risultato che molti lavoratori morivano di fame. Questo sistema
restò in vigore in Russia fino al 1917 (e da allora, taluni membri del partito
comunista sono riusciti ad assicurarsi lo stesso privilegio dei guerrieri e dei
preti) e sussiste ancora in Asia; in Inghilterra, nonostante la rivoluzione
industriale, fiorì anche nel periodo delle guerre napoleoniche e fino a cento
anni fa, quando una nuova classe di manufatturieri andò al potere. In America
si estinse con la rivoluzione, fuorché negli Stati del Sud, dove perdurò fino
alla guerra civile. Naturalmente un sistema praticato per tanti secoli ha
lasciato una profonda impronta sui pensieri e sulle opinioni degli uomini.
Molte idee che noi accettiamo ad occhi chiusi a proposito delle virtù del
lavoro derivano appunto da tale sistema e non si adattano più al mondo moderno
perché la loro origine è preindustriale. La tecnica moderna consente che il
tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi
privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una
comunità. L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha
bisogno di schiavi.
È ovvio che, nelle comunità
primitive, i contadini lasciati liberi non si sarebbero privati dei prodotti in
eccedenza a favore dei preti e dei guerrieri, ma avrebbero prodotto di meno o
consumato di più. Dapprima fu necessaria la forza bruta per costringerli a
cedere. Ma poi, a poco a poco, si scopri che era possibile indurii ad accettare
un principio etico secondo il quale era loro dovere lavorare indefessamente,
sebbene una parte di questo lavoro fosse destinata al sostentamento degli
oziosi. Con questo espediente lo sforzo di costrizione prima necessario si
allentò e le spese del governo diminuirono. Ancor oggi, il novantanove per
cento dei salariati britannici sarebbero sinceramente scandalizzati se gli si
dicesse che il re non dovrebbe aver diritto a entrate più cospicue di quelle di
un comune lavoratore. Il concetto del dovere, storicamente parlando, è stato un
mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per
l'interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al
potere riescono a nascondere anche a se stessi questo fatto, convincendosi che
i loro interessi coincidono con gli interessi dell'umanità in senso lato. A
volte ciò è verissimo; i proprietari di schiavi ateniesi, ad esempio,
impiegarono parte del loro tempo libero in modo da apportare un contributo di
capitale importanza alla civiltà, contributo che non sarebbe stato possibile
sotto un sistema puramente economico. L'ozio è essenziale per la civiltà e nei
tempi antichi l'ozio di pochi poteva essere garantito soltanto dalle fatiche di
molti. Tali fatiche avevano però un valore non perché il lavoro sia un bene, ma
al contrario perché l'ozio è un bene. La tecnica moderna ci consente di
distribuire il tempo destinato all'ozio in modo equo, senza danno per la
civiltà.
La tecnica moderna infatti ha reso
possibile di diminuire in misura enorme la quantità di fatica necessaria per
assicurare a ciascuno i mezzi di sostentamento. Ciò fu dimostrato in modo
chiarissimo durante la guerra. A quell'epoca tutti gli uomini arruolati nelle
forze armate, tutti gli uomini e le donne impiegati nelle fabbriche di
munizioni, tutti gli uomini e le donne impegnati nello spionaggio, negli uffici
di propaganda bellica o negli uffici governativi che si occupavano della
guerra, furono distolti dal loro lavoro produttivo abituale. Ciò nonostante, il
livello generale del benessere materiale tra i salariati, almeno dalla parte
degli alleati, fu più alto che in qualsiasi altro periodo. Il vero significato
di questo fenomeno fu mascherato mediante prestiti, il futuro alimentasse il
presente. Il che, naturalmente, non era possibile; un uomo non può mangiare una
fetta di pane che ancora non esiste. La guerra dimostrò in modo
incontrovertibile che, grazie all'organizzazione scientifica della produzione,
è possibile assicurare alla popolazione del mondo moderno un discreto tenore di
vita sfruttando soltanto una piccola parte delle capacità di lavoro generali.
Se al termine del conflitto questa organizzazione scientifica, creata per
consentire agli uomini di combattere e produrre munizioni, avesse continuato a
funzionare riducendo a quattro ore la giornata lavorativa, tutto sarebbe andato
per il meglio. Invece fu instaurato di nuovo il vecchio caos: coloro che hanno
un lavoro lavorano troppo, mentre altri muoiono di fame senza salario. Perché?
Perché il lavoro è un dovere e un uomo non deve ricevere un salario in
proporzione di ciò che produce, ma in proporzione della sua virtù che si
esplica nello zelo.
Questa è l'etica dello Stato
schiavistico, applicata in circostanze del tutto diverse da quelle che le
diedero origine. Non c'è da stupirsi se il risultato è stato disastroso.
Facciamo un esempio. Supponiamo che, a un certo momento, una certa quantità di
persone sia impegnata nella produzione degli spilli. Esse producono tanti
spilli quanti sono necessari per il fabbisogno mondiale lavorando, diciamo,
otto ore al giorno. Ed ecco che qualcuno inventa una macchina grazie alla quale
lo stesso numero di persone nello stesso numero di ore può produrre una
quantità doppia di spilli. Il mondo non ha bisogno di tanti spilli, e il loro
prezzo è già cosi basso che non si può ridurlo di più. Seguendo un ragionamento
sensato, basterebbe portare a quattro le ore lavorative nella fabbricazione
degli spilli e tutto andrebbe avanti come prima. Ma oggigiorno una proposta del
genere sarebbe giudicata immorale. Gli operai continuano a lavorare otto ore,
si producono troppi spilli, molte fabbriche falliscono e metà degli uomini che
lavoravano in questo ramo si trovano disoccupati. Insomma, alla fine il totale
delle ore lavorative è ugualmente ridotto, con la differenza che metà degli
operai restano tutto il giorno in ozio mentre metà lavorano troppo. In questo
modo la possibilità di usufruire di più tempo libero, che era il risultato di
un'invenzione, diventa un'universale fonte di guai anziché di gioia. Si può
immaginare niente di più insensato?
L'idea che il povero possa oziare
ha sempre urtato i ricchi. In Inghilterra, agli inizi dell'ottocento, un
operaio lavorava di solito quindici ore al giorno e spesso i bambini lavoravano
altrettanto (nella migliore delle ipotesi dodici ore al giorno). Quando degli
impiccioni ficcanaso osarono dire che tante ore erano forse troppe, gli fu risposto
che la sana fatica teneva lontani gli adulti dal vizio del bere e· i bambini
dai guai. Quand'ero piccolo, cioè poco dopo che gli operai di città
conquistarono il diritto di voto, la legge istituì certe giornate festive, con
grande indignazione delle classi ricche. Ricordo di aver udito questa frase
dalla bocca di una vecchia duchessa: «Ma che se ne fanno i poveri delle
vacanze? Tanto loro devono lavorare ». Oggigiorno la gente parla con minore
franchezza, ma questo modo di ragionare sussiste ed è fonte di una grande
confusione economica.
Consideriamo per un momento
apertamente e senza superstizioni l'etica del lavoro. Ogni essere umano, per
necessità, consuma nel corso della sua vita una certa quantità del prodotto
della umana fatica. Supponendo, come lo suppongo io ora, che la fatica sia in
sostanza ben poco piacevole, è ingiusto che un uomo consumi più di quel che
produce. Naturalmente egli può produrre servizi utili anziché beni materiali,
facendo il medico, ad esempio, ma in ogni caso deve dare qualcosa in compenso
di vitto e alloggio. Fino a questo punto, ma fino a questo punto soltanto, amo
mettiamo che il lavoro è un dovere.
Non insisterò sul fatto che in
tutte le società moderne, al di fuori dell'URSS, molta gente riesce a
risparmiarsi anche questo minimo di lavoro, in particolar modo coloro che
ereditano quattrini o sposano i quattrini. Non penso però che il fatto che
questa gente se ne stia senza far nulla sia dannoso quanto il credere che i
salariati debbono spezzarsi la schiena lavorando o morire di fame.
Se il salariato lavorasse quattro
ore al giorno, ci sarebbe una produzione sufficiente per tutti e la
disoccupazione finirebbe, sempre che si ricorra a un minimo di organizzazione.
Questa idea scandalizza la gente perbene, convinta che i poveri non sappiano
che farsene di tanto tempo libero.
In America molti uomini lavorano
intensamente anche quando hanno quattrini da buttar via; costoro, com'è
naturale, si indignano all'idea di una riduzione dell'orario di lavoro; secondo
la loro opinione l'ozio è la giusta punizione dei disoccupati; in effetti gli
secca di vedere -oziare i propri figli. Ma, cosa strana, mentre vorrebbero che
i figli maschi lavorassero tanto da non aver il tempo di diventar persone
civili, non gli importa affatto che la moglie e le figlie non facciano nulla
dalla mattina alla' sera. L'ammirazione snobistica per i disutili, che nella
società aristocratica si estende ad ambedue i sessi, nella plutocrazia è
limitata alle donne, in contrasto sempre più stridente col buon senso.
Bisogna ammettere che il saggio uso
dell'ozio è un prodotto della civiltà e dell'educazione. Un uomo che ha
lavorato per molte ore al giorno tutta la sua vita si annoia se all'improvviso
non ha più nulla da fare. Ma, se non può disporre di una certa quantità di
tempo libero, quello stesso uomo rimane tagliato fuori da molte delle cose
migliori. Non c'è più ragione perché la gran massa della popolazione debba ora
soffrire di questa privazione; soltanto un ascetismo idiota, e di solito
succedaneo, ci induce a insistere nel lavorare molto quando non ve n'è più
bisogno.
Nella nuova fede che regge il
governo in Russia vi sono molte cose assai diverse dai tradizionali
insegnamenti dell'Occidente, mentre alcune cose sono rimaste immutate.
L'atteggiamento delle classi governative (specialmente di quelle che si
occupano della propaganda educativa), nei riguardi della dignità del lavoro, è
quasi identico all'atteggiamento che le classi governative di tutto il mondo
hanno sempre assunto nei riguardi dei « poveri onesti». La propaganda rimette
in valore l'operosità, la sobrietà, lo spirito di sacrificio, la volontà di
lavorare molte ore al giorno per indiretti vantaggi, persino la sottomissione
all'autorità; infatti l'autorità rappresenta ancora il volere del rettore
dell'universo, che tuttavia ha cambiato nome e si chiama ora materialismo
dialettico.
La vittoria del proletariato in
Russia ha molti punti in comune con la vittoria del femminismo in certi altri
paesi. Per secoli gli uomini hanno ammesso che le donne fossero più sante di
loro e le hanno consolate per la loro inferiorità affermando che la santità era
più desiderabile del potere. Alla fine le femministe decisero che volevano e
santità e potere, giacché le pioniere credevano sì a tutto ciò che gli uomini avevano
detto circa i pregi della virtù, ma non credevano affatto a ciò che essi
avevano detto circa lo scarso valore della supremazia politica. Qualcosa del
genere accadde in Russia a proposito del lavoro manuale. Per secoli, i ricchi e
i loro sicofanti avevano intessuto elogi degli « onesti attrezzi di lavoro» e
della vita semplice, professando una religione secondo la quale i poveri hanno
molte più probabilità dei ricchi di entrare nel regno dei cieli. Avevano
cercato insomma di far credere ai lavoratori manuali che vi è una certa forma
di abilità nell'alterare la posizione della materia nello spazio, così come gli
uomini avevano cercato di far credere alle donne che vi era una certa forma di
nobiltà nella loro schiavitù sessuale. In Russia tutta questa retorica sul
lavoro manuale è stata presa molto sul serio, col risultato che il lavoratore
manuale è onorato colà più che in qualsiasi altro paese. Ma quelli che sono, in
sostanza, appelli reoiualisti, vengono però lanciati con altri scopi: essi
debbono infatti assicurare la collaborazione di operai indefessi per compiti
speciali. Il lavoro manuale è un ideale proposto a tutti i giovani e sta alla
base di ogni insegnamento etico.
Può darsi che per il momento ciò
sia anche un bene. Un paese immenso, zeppo di risorse naturali, è in attesa di
sviluppo e può far conto soltanto su pochissimo credito. In tali circostanze è
necessario un durissimo lavoro
che probabilmente sarà largamente compensato in seguito. Ma che cosa accadrà
quando tutti potranno star bene senza lavorare molto?
In Occidente
vi sono parecchi modi per affrontare il problema: non abbiamo mai tentato di
instaurare la giustizia economica, cosicché una larga parte della produzione
totale viene assorbita da una piccola minoranza della popolazione, che spesso
non lavora affatto. Poiché manca un controllo centrale della produzione,
produciamo una massa di cose che nessuno vuole. Manteniamo in ozio una certa
percentuale di persone perché possiamo fare a meno di loro grazie
all'eccessivo orario di lavoro di chi ha un impiego. Quando questi metodi si
rivelano insufficienti scoppia una guerra, cosi molta gente è impegnata a
fabbricare esplosivi ed altri li fanno esplodere, come se fossimo bambini che
hanno appena scoperto i fuochi artificiali. Combinando in modo diverso tutti
questi elementi riusciamo a mantener viva la nozione che una buona dose di'
duro lavoro manuale spetti giustamente a ogni uomo medio.
In Russia,
grazie a una maggiore giustizia economica e al controllo della produzione, il
problema deve essere risolto diversamente. La soluzione più razionale sarebbe
questa: non appena sia possibile soddisfare i bisogni più elementari,
bisognerebbe ridurre gradualmente le ore di lavoro, stabilendo via via con una
votazione popolare se a un certo punto i cittadini desiderano più tempo
libero o più beni di consumo. Ma dopo aver tanto predicato la virtù del duro
lavoro, è difficile che le autorità possano proporre un paradiso dove si
fatichi poco e ci si riposi molto. È più probabile che esse trovino
continuamente nuovi sistemi per dimostrare che il tempo libero deve essere sacrificato alla produzione. Ho
letto recentemente che gli ingegneri russi stanno studiando un progetto per
riscaldare il mar Bianco e le coste settentrionali della Siberia costruendo
.u~a grande diga sul mar di Kara. Un progetto meraVIglIoso, ma che potrebbe
ritardare il benessere proletario di una generazione, mentre il nobile lavoro
manuale avrà modo di esplicarsi tra i ghiacci e le tormente dell'Artico. Se una
cosa del genere si attuasse, la « virtù» del lavoro manuale finirebbe con l'essere
considerata fine a se stessa anziché un mezzo per stabilire certe condizioni in
cui il lavoro non sia più necessario.
Il fatto è che
il modificare e spostare la materia, seppure, entro certi limiti,
indispensabile alla nostra esistenza, non è assolutamente uno degli scopi della
vita umana. Se lo fosse, un qualsiasi. manovale dovrebbe essere considerato
superiore a Shakespeare. A questo proposito siamo stati indotti a un equivoco
da due ragioni. La prima è la necessità di gabbare i poveri, che ha indotto i
ricchi, per migliaia di anni, a predicare la dignità del lavoro, mentre dal
canto loro essi si comportavano in modo ben poco dignitoso sotto questo
aspetto. L'altra è la. gioia che ci procurano le macchine e la soddisfazione
che proviamo nel vederle operare straordinari cambiamenti sulla faccia della
terra. Direi che né l'una né l'altra esercitano un grande fascino sul comune
lavoratore. Se gli chiedete qual è, secondo lui, la miglior parte della sua
vita, è improbabile che vi risponda: «Sono felice quando mi applico al lavoro
manuale perché sento di compiere uno dei più nobili compiti dell'uomo e perché
mi piace sapere che l'uomo può far molto per trasformare questo
pianeta. E vero che il mio corpo ha un certo bisogno di riposo che io devo pur
soddisfare in qualche modo, ma non sono mai tanto felice come quando, al
mattino, riprendo in mano gli attrezzi di lavoro ». Non ho mai sentito un
operaio dire una cosa del genere. Egli considera il suo lavoro al modo giusto,
cioè come un mezzo necessario per procurarsi il sostentamento, e trova invece
maggior gioia e soddisfazione nelle ore di riposo.
Bisogna però dire che, mentre un
po' di tempo libero è piacevole, gli uomini non saprebbero come riempire le
loro giornate se lavorassero soltanto quattro ore su ventiquattro. Questo
problema, innegabile nel mondo moderno, rappresenta una condanna della nostra
civiltà, giacché non si sarebbe mai presentato nelle epoche precedenti. Vi era
anticamente una capacità di spensieratezza e di giocosità che è stata in buona
misura soffocata dal culto dell'efficienza. L'uomo moderno pensa che tutto deve
essere fatto in vista di qualcos'altro e non come fine a se stesso. Le persone
più serie, ad esempio, condannano l'abitudine di andare al cinema e ripetono di
continuo che tale abitudine spingerà i giovani su una cattiva strada. Però
tutto il lavoro necessario per fare i film è rispettabile appunto in quanto è
un lavoro, e in quanto frutta quattrini. La convinzione che le attività
auspicabili siano quelle che fruttano quattrini ha messo tutto sottosopra. Il
macellaio che ti procura la carne e il fornaio che ti fornisce il pane sono
persone degne di lode, perché guadagnano; ma se tu ti accontenti di assaporare
il cibo che essi ti hanno procurato, sei una persona frivola, a meno che tu non
intenda accumulare forze per lavorare. In altre parole, si ritiene che
guadagnare quattnru sia un'ottima cosa e spenderli un vizio. Il che è assurdo,
giacché si tratta dei due aspetti di una medesima transazione. Si potrebbe
allora sostenere che le chiavi sono un bene e le serrature un male. Il merito
insito nella produzione di beni sta unicamente nel vantaggio che si ottiene
consumandoli. L'individuo, nella nostra società, lavora per un profitto, ma lo
scopo sociale del suo lavoro sta nella consumazione di ciò che egli produce. Il
divorzio tra l'individuo e lo scopo sociale della produzione rende invece molto
difficile per gli uomini avere le idee chiare in un mondo dove assicurarsi
profitti è un incentivo all'operosità. Pensiamo troppo a produrre e troppo poco
a consumare. Ne deriva che diamo troppo poca importanza al godimento delle
"gioie più semplici, e non giudichiamo la produaione in base al piacere
che dà al consumatore.
Quando propongo che le ore
lavorative siano ridotte a quattro, ciò non implica che il tempo libero
rimanente debba essere impiegato in frivolezze. Intendo semplicemente dire che
quattro ore di lavoro al aiomo dovrebbero poter assicurare a un uomo il necessario
per vivere con discreta comodità, e che per il resto egli potrebbe disporre del
suo tempo come meglio crede. In un sistema sociale di questo genere è
essenziale che l'istruzione sia più completa di quanto lo è ora e che miri, in
parte, ad educare e raffinare il gusto in modo che un uomo possa sfruttare con
intelligenza il proprio tempo libero. Non alludo qui a quel genere di
occupazioni che si usano definire « intellettuali ». Le danze folcloristiche,
ad esempio, sono praticate soltanto da pochi gruppi di volenterosi, ma gli
impulsi che le fecero nascere debbono pur sempre esistere nella natura umana. I
piaceri della popolazione urbana sono diventati soprattutto passrvi: sedersi in
un cinema, assistere a una partita di calcio, ascoltare la radio e cosi via.
Questa è la conseguenza del fatto che tutte le energie attive si esauriscono
nel lavoro. Se gli uomini lavorassero meno, ritroverebbero la capacità di
godere i piaceri cui si partecipa attivamente.
In passato vi era una piccola
classe di persone quasi oziose e una vasta classe di lavoratori. La prima
godeva dei vantaggi che non sono nemmeno contemplati dalla giustizia sociale,
ed era di conseguenza prepotente, godeva di scarse simpatie e doveva inventare
delle teorie per giustificare i propri privilegi. Questi fattori diminuirono in
modo rilevante la sua eccellenza; ciò nonostante si può dire che essa contribuì
in modo quasi esclusivo a creare quella che noi chiamiamo civiltà -. Fu questa
classe che coltivò le arti e scopri le scienze, che scrisse libri, inventò
sistemi filosofici e raffinò i rapporti sociali. Persino la campagna per la
liberazione degli oppressi parti generalmente dall'alto. Senza una classe
oziosa, l'umanità non si sarebbe mai sollevata dalla barbarie.
Il sistema dell'ereditarietà, che
permetteva all'aristocrazia di tramandare di padre in figlio privilegi senza
doveri, implicò tuttavia un notevole spreco. Nessuno dei membri di quella
classe aveva imparato ad essere operoso, e tutti, presi nel complesso, non
erano eccezionalmente intelligenti. Tra loro poteva si nascere un Darwin, ma
sull'altro piatto della bilancia stavano decine di migliaia di gentiluomini di
campagna che non avevano mai fatto nulla di più ingegnoso che cacciare la volpe
o punire i bracconieri. Attualmente le università dovrebbero produrre in modo
sistematico ciò che la classe aristocratica produsse accidentalmente e quasi
per caso. Ciò rappresenta un bel passo avanti, ma ha i suoi inconvenienti. La
vita universitaria è cosi diversa dalla vita reale in senso lato che chi vive
in un milieu accademico finisce col non . rendersi più conto delle
preoccupazioni e dei problemi degli uomini e delle donne comuni; inoltre il
modo di esprimersi dei professori universitari è tale da impedire che le loro
opinioni abbiano l'influenza che meriterebbero sul grosso pubblico. Un altro
svantaggio è che nelle università gli studi sono disciplinatissimi, e l'uomo
che segua una linea originale di ricerca riKhia di venire scoraggiato. Le
istituzioni accademiche dunque, sebbene utili, non riescono a proteggere
adeguatamente gli interessi della civiltà in un mondo dove al di fuori delle
mura universitarie tutti sono troppo occupati nel perseguimento di scopi
utilitari.
In un mondo invece dove nessuno sia
costretto a lavorare più di quattro ore al giorno, ogni persona dotata di
curiosità scientifica potrebbe indulgervi, ogni pittore potrebbe dipingere
senza morire di fame, i giovani scrittori non sarebbero costretti ad attirare
su se stessi l'attenzione con romanzacci sensazionali per procurarsi
l'indipendenza necessaria alla produzione di opere geniali (che poi non
scriveranno più perché, al momento buono, ne avranno perso il gusto e la
capacità). Gli uomini che nel corso del lavoro professionale si siano
interessati all'economia o ai problemi di governo, potrebbero sviluppare le
loro idee senza quel distacco accademico che dà un carattere di impraticità a
molte opere degli economisti universitari. I medici avrebbero il tempo
necessario per tenersi al corrente dei progressi della medicina, e i maestri
non lotterebbero disperatamente per insegnare con monotonia cose che essi hanno
imparato nella loro giovinezza e che, nel frattempo, potrebbero essersi
rivelate false.
Soprattutto ci sarebbe nel mondo
molta gioia di vivere invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia. Il
lavoro richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo
libero, e non tanto pesante da esaurirci. E non essendo esausti, non ci
limiteremmo a svaghi passivi e vacui. Almeno l'uno per cento della popolazione
dedicherebbe il tempo non impegnato nel lavoro professionale a ricerche di
utilità pubblica e, giacché tali ricerche sarebbero disinteressate, nessun
freno verrebbe posto alla originalità delle idee. Ma i vantaggi dI chi dispone
di molto tempo libero possono risultare evidenti anche in casi meno
eccezionali. Uomini e donne di media levatura, avendo l'opportunità di condurre
una vita più felice, diverrebbero più cortesi, meno esigenti e meno inclini a
considerare gli altri con sospetto. La smania di far la guerra si estinguerebbe
in parte per questa ragione, e in parte perché un conflitto implicherebbe un
aumento di duro lavoro per tutti. Il buon carattere è, di tutte le qualità
morali, quella di cui il mondo ha più bisogno, e il buon carattere è il risultato
della pace e della sicurezza, non di una vita di dura lotta. I moderni metodi
di produzione hanno reso possibile la pace e la sicurezza per tutti; noi
abbiamo invece preferito far lavorare troppo molte persone lasciandone morire
di fame altre. Perciò abbiamo contin~ato a sprecare tanta energia quanta ne era
necessaria prima dell'invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma
non c'è ragione per continuare ad esserlo.
il
sapere "inutile" (bertrand russell)
Francesco Bacone, un uomo che salì
alla più alta fama tradendo i suoi amici, asseriva, senza dubbio in base a
personali esperienze, che «sapere è potere». Ciò tuttavia non vale per tutto il
sapere. Sir Thomas Browne avrebbe voluto scoprire che cosa cantano le sirene,
ma anche se fosse riuscito a scoprirlo, ciò non glI avrebbe permesso di
assurgere dalla posizione di magistrato a quella di alto sceriffo della sua
contea. La categoria del sapere che Bacone aveva in mente era quella che noi
chiamiamo scientifica. Dando grande rilievo all'importanza della scienza, egli
seguiva la tradizione degli arabi e dell'alto medioevo, secondo la quale il
sapere poggiava soprattutto sull'astrologia, sull'alchimia, sulla farmacologia,
che erano tutte branche della scienza. Era considerato uomo colto chi, avendo
seguìto questi studi, fosse riuscito ad acquìstare poteri magici. All'inizio
dell'undicesimo secolo, papa Silvestro II fu universalmente creduto un mago in
combutta col diavolo soltanto perché leggeva molti libri. Prospero, che ai
tempi di Shakespeare era una creatura di pura fantasia, rappresentò ciò che per
secoli fu considerato il prototipo dell'uomo colto, almeno per quanto
riguardava i suoi poteri magici. Bacone credeva (e con ragione, come sappiamo
ora) che la scienza potesse fornire una bacchetta magica molto più potente dI
quanto l'avessero mai sognata i negromanti dei tempi antichi.
Il Rinascimento, che giunse
all'apice in Inghilterra ai tempi di Bacone, provocò una rivolta contro il
concetto utilitario del sapere. I greci avevano acquistato grande familiarità
con Omero, e lo. conoscevano come noi ora conosciamo le canzonette in voga,
perché ne apprezzavano i versi e non perché si sentissero impegnati in
un'attività culturale. Ma gli uommi del sedicesimo secolo non potevano nemmeno
cominciare a capirlo senza aver prima assorbito una considerevole dose di
erudizione linguistica. Essi ammiravano l greci e non volevano negare a se
stessi quelli che furono i loro piaceri; cercavano perciò di imitarli, sia. leggendo
i classici sia in altri modi meno confessabili. Il farsi una cultura durante il
rinascimento, fu una parte della joie de vivre, così come il bere o
l'amoreggiare. E ciò valeva non soltanto per la letteratura, ma anche per
materie più impegnative. Tutti conoscono la storia del primo contatto di Hobbes
con Euclide: aprendo per caso un libro egli vide il teorema di Pitagora e
esclamò: « Perdio, è impossibile », e comincio a leggere a ritroso la
spiegazione finché, giunto agli assiomi, ne fu convinto. Nessuno può dubitare
che quello fu per lui un momento di grande voluttà, per nulla turbata dal
pensiero che la geometria sia una scienza utile per misurare i campi.
È vero che il rinascimento sfruttò
in modo pratico la conoscenza delle lingue antiche in rapporto con la teologia.
Uno dei primi risultati del rinnovato amore per il latino classico fu il
discredito in cui caddero certi decreti falsificati e la donazione di
Costantino, Le inesattezze che furono scoperte nella Vulgata e nella Bibbia dei
Settanta fecero sì che il greco e l'ebraico diventassero bagaglio
indispensabile nell'equipaggiamento dialettico dei preti protestanti. I
principi della Grecia e della Roma repubblicana furono invocati per
giustificare l'opposizione dei puritani agli Stuart e dei gesuiti ai monarchi
che avevano rifiutato obbedienza al papa. Ma questo fu un effetto più che una
causa del rinnovato amore per la cultura classica che era sorto in Italia circa
un secolo prima di Lutero. Il motivo principale del Rinascimento fu il diletto
dello spirito, la restaurazione di una certa ricchezza e libertà nell'arte e
nella speculazione che erano andate perdute, finché ignoranza e superstizione
avevano bendato gli occhi della mente.
Si scoprì che i greci avevano
dedicato parte della loro attenzione non soltanto ad argomenti letterari o
artistici, ma anche alla filosofia, alla geometria e all'astronomia. Tali studi
erano perciò rispettabili, mentre altre scienze rimanevano in predicato. La
medicina, è vero, acquistava particolare dignità grazie ai nomi di Ippocrate e
di Galeno; ma poi era caduta nelle mani degli arabi e degli ebrei mescolandosi
inestricabilmente con le arti magiche. Di qui la dubbia reputazione di uomini
come Paracelso. La chimica era ancor più sospetta, e divenne rispettabile
soltanto nel diciottesimo secolo.
Fu cosi che una buona conoscenza
del greco e del latino, sommata a qualche nozione di geometria e forse di
astronomia, fini con l'essere considerata il bagaglio culturale più adeguato
per un gentiluomo. I greci disprezzavano ogni applicazione pratica della
geometria, e soltanto nel periodo della decadenza sfruttarono l'astronomia per
scopi astrologici. Durante il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, in linea
di massima, si studiò la matematica con il disinteresse ellenico, mentre furono
trascurate le scienze che si erano degradate per i loro rapporti con la
stregoneria. Durante il diciottesimo secolo vi fu un graduale processo di orientamento
verso una concezione più ampia e più pratica del sapere, processo che si
accelerò improvvisamente con la rivoluzione francese e con l'invenzione delle
macchine, giacché la prima inferse un terribile colpo alla cultura
aristocratica mentre la seconda forni nuovi e stupefacenti mezzi
all'ingegnosità di chi non era gentiluomo. Durante questi ultimi
centocinquant'anni gli uomini si sono posti con sempre maggior impegno il
problema della «inutilità» del sapere e hanno finito col credere sempre più fermamente
che l'unica forma di conoscenza che valga la pena di possedere è quella
applicabile a una qualche branca della vita economica della comunità.
In paesi come la Francia e
l'Inghilterra, dove vige un sistema di educazione tradizionale, il punto di vista
utilitario del sapere ha prevalso solo parzialmente. Per esempio, nelle
università vi sono ancora professori di cinese che leggono classici cinesi ma
ignorano le opere di Sun Yat-sen, il creatore della Cina moderna. Vi sono
ancora uomini che conoscono la storia antica cosi come è stata narrata da
scrittori dallo stile purissimo, cioè fino ai tempi di Alessandro in Grecia e
di Nerone in Roma, ma rifiutano di studiare la storia del periodo seguente,
molto più importante, perché gli scrittori del tempo erano letterariamente
inferiori. Anche in Francia e in Inghilterra tuttavia la vecchia tradizione sta
morendo, e nei paesi più moderni, come la Russia e gli Stati Uniti, è morta del
tutto. In America, ad esempio, le commissioni per l'istruzione hanno stabilito
che nella corrispondenza d'affari si usa un massimo di millecinquecento parole
e propongono perciò che tutti gli altri vocaboli siano eliminati dal curriculum
scolastico. L'inglese basilare, invenzione britannica, si spinge anche più in
là, e riduce il vocabolario indispensabile a ottocento parole. Il concetto
della lingua parlata come di un qualcosa suscettibile di valore estetico sta
estinguendosi, mentre subentra la convinzione che l'unico scopo delle parole
sia quello di fornire informazioni pratiche. In Russia il perseguimento di
scopi pratici è condotto in modo ancor più tenace che in America: tutto ciò che
si insegna nelle scuole deve servire ovviamente a qualcosa. L'unica eccezione è
fornita dalla teologia: qualcuno deve pur esaminare le sacre scritture negli
originali, e almeno pochi professori sono incaricati di studiare filosofia per
difendere il materialismo dialettico contro gli attacchi dei metafisici
borghesi. Ma via via che si rinsalderà l'ortodossia marxista, anche questa
piccola breccia sarà colmata.
Ormai il sapere, ovunque, comincia
ad essere considerato non come un bene in sé o come un mezzo per creare
un'ampia e umanistica visione della vita in generale, ma semplicemente come un
ingrediente dell'abilità tecnica. Ciò fa parte di un più vasto movimento di
integrazione di una società che è stata plasmata dalla tecnica scientifica e
dalle necessità belliche. Oggigiorno l'economia e la politica sono molto più
interdipendenti che non nei tempi andati, e perciò l'uomo è indotto dalla
pressione sociale a vivere nel modo che il suo prossimo giudica utile. Gli
istituti di educazione, salvo quelli destinati alle persone molto ricche o (in
Inghilterra) quelli che la tradizione ha reso invulnerabili, non hanno la
possibilità di spendere il loro denaro come meglio credono, ma debbono
dimostrare allo Stato che essi mirano a uno scopo utile insegnando l'efficienza
e istillando la lealtà agli alunni. Questa è una parte, una rotella di quello
stesso movimento che ha portato al servizio militare obbligatorio;
all'organizzazione dei boy scouts e dei partiti politici, e al rinfocolamento
della passione politica promosso dalla stampa. Ora siamo tutti più consci
dell'esistenza dei nostri concittadini di quanto non lo fossimo un tempo e, se
di temperamento virtuoso, siamo anche più ansiosi di giovare alla loro causa, o
almeno di far sì che essi giovino alla nostra. Non ci piace pensare che
qualcuno possa godersi pigramente la vita, per quanto raffinata sia la qualità
del suo godimento. Sentiamo che tutti debbono far qualcosa per collaborare alla
grande causa (quale che sia), tanto più che molti uomini cattivi operano contro
questa causa e bisogna fermarli. La nostra mente non può mai oziare per
acquistare cognizioni che non siano quelle utili alla conquista di un qualcosa
che noi consideriamo importante.
Ci sarebbe molto da dire circa un
punto di vista cosi strettamente utilitario dell'educazione. Non c'è il tempo
sufficiente per imparare tutto prima di cominciare a guadagnarsi la vita e
indubbiamente il sapere «utile» è molto utile. Ha fatto il mondo moderno. Senza
di esso non avremmo macchine o automobili o aeroplani; 'bisogna aggiungere che
non avremmo nemmeno la pubblicità e la propaganda moderna. La scienza moderna
ha apportato un miglioramento immenso alla salute pubblica, e al tempo stesso
ha scoperto come si possano sterminare intere città coi gas venefici. Tutto ciò
che è caratteristico del nostro mondo a paragone coi tempi passati ha la sua
origine nel sapere «utile», Nessuna comunità finora ne possiede abbastanza, e
indubbiamente la scuola deve continuare a impartirlo.
Bisogna anche ammettere che buona
parte dell'educazione umanistica tradizionale era idiota. I ragazzi sprecavano
molti anni per imparare la grammatica latina e greca senz'essere, alla fine, capaci
o desiderosi di leggere un autore latino o greco. Lo studio delle lingue
moderne è preferibile, sotto ogni punto di.vista, allo studio delle lingue
morte. Non soltanto esse sono più utili, ma consentono di acquistare una
maggiore. cultura in minor tempo. Per un italiano del quindicesimo secolo, il
latino e il greco erano indispensabili giacché praticamente tutto quel che
valesse la pena di essere letto era scritto in queste due lingue o in italiano.
Ma da quei tempi in poi ogni lingua moderna si è creata una magnifica
letteratura, e lo sviluppo della civiltà è stato cosi rapido che la conoscenza
dell'antichità si rivela meno utile per la comprensione dei nostri problemi di
quanto non lo sia la conoscenza delle nazioni moderne e della loro storia relativamente
recente. Il punto di vista di un insegnante legato alla tradizione, ammirevole
ai tempi in cui rinasceva l'amore per la cultura, divenne via via sempre più
ristretto, giacché fini con l'ignorare ciò che il mondo aveva fatto dopo il
quindicesimo secolo. Non soltanto la storia e le lingue moderne, ma anche la
scienza, se insegnata come si deve, contribuisce alla cultura. È perciò
possibile sostenere che l'educazione dovrebbe avere scopi diversi dalla utilità
diretta, senza con ciò difendere il curriculum tradizionale. Utilità e cultura,
se esaminate con larghezza di vedute, sono molto meno incompatibili di quanto
appaiano agli occhi degli accaniti sostenitori dell'una o dell'altra.
A parte i casi in cui cultura e
utilità diretta possono fondersi, vi è anche l'utilità indiretta, di varie
specie, implicita nel possesso di un sapere che non contribuisce alla
efficienza tecnica. Penso che si potrebbe por riparo ai più grossi guai del
mondo moderno se si incoraggiasse un sapere di questo genere, mitigando invece
la corsa sfrenata alla specializzazione professionale.
Quando l'attività cosciente si
concentra tutta su un unico scopo, ne risulta, per la maggior parte delle
persone, uno squilibrio accompagnato da una qualche forma di disturbo nervoso.
Gli uomini politici che erano a capo della Germania durante la guerra commisero
gravi errori (per esempio la campagna dei sottomarini che portò l'America a
schierarsi dalla parte degli alleati); errori che qualsiasi persona fresca di
mente, esaminando per la prima volta la questione, avrebbe evitato, ma che i
tedeschi non intuirono nemmeno perché si erano concentrati troppo sul medesimo
problema senza mai prendersi una buona vacanza. Lo stesso fenomeno si verifica
sempre quando gli uomini si sottopongono a un prolungato sforzo che paralizza
gli impulsi spontanei. Gli imperialisti giapponesi, i comunisti russi, i
nazisti tedeschi hanno tutti in comune l'intenso fanatismo di chi vive in un
mondo mentale troppo chiuso e pensa esclusivamente a certe mete da raggiungere.
Se queste mete sono importanti e raggiungibili quanto i fanatici lo suppongono,
i risultati possono essere meravigliosi; ma nella maggior parte dei casi i
paraocchi del fanatismo li inducono a non tener conto di qualche potente forza
avversa, oppure a considerarla come opera del demonio da controbattere con il
terrore. Gli uomini, come i bambini, hanno bisogno di giocare, cioè hanno
bisogno di periodi di attività senza altro scopo che il godimento momentaneo.
Bisogna dunque trovare piacere e interesse in faccende che non hanno rapporto
col lavoro.
Gli svaghi delle moderne
popolazioni urbane tendono sempre più ad essere passivi e collettivi, e
consistono nell'osservazione inattiva dell'abile attività di altri.
Indubbiamente questi svaghi sono meglio di nulla, ma sarebbero assai più
piacevoli se la popolazione, grazie all'educazione, avesse una gamma di
interessi molto più intelligenti non connessi col lavoro. Una efficiente
organizzazione economica, permettendo alla umanità di beneficiare della
produttività delle macchine, dovrebbe portare a un graduale aumento del tempo
libero, e molto tempo libero può essere noioso per chi non abbia attività molto
intelligenti. Una popolazione che lavori poco, per essere felice deve essere
istruita, e l'istruzione deve tener conto delle gioie dello spirito, oltre che
dell'utilità diretta del sapere scientifico.
L'elemento culturale
nell'acquisizione del sapere, quando è bene assimilato, forma il carattere dei
pensieri e dei desideri di un uomo, inducendoli a volgersi, almeno in parte,
verso oggetti impersonali, e non soltanto verso faccende di immediato interesse
per l'uomo stesso. Si è accettata con troppa facilità l'idea che quando un uomo
ha acquistato determinate capacità grazie all'istruzione, le userà in un modo
socialmente benefico. Il concetto strettamente utilitario dell'educazione
ignora la necessità di dare un indirizzo alle intenzioni dell'uomo oltre che
alle sue capacità. Nella natura umana non educata vi è una considerevole
crudeltà che si manifesta in molti modi, piccoli e grandi. I ragazzi a scuola
tendono a maltrattare il nuovo venuto o chi indossa abiti non convenzionali.
Molte donne (e non pochi uomini) infliggono sofferenze atroci con dei maligni
pettegolezzi. Gli spagnoli si divertono alle corride, gli inglesi si divertono
cacciando e pescando. Gli stessi impulsi crudeli prendono forme più gravi nella
caccia agli ebrei in Germania e al kulaki in Russia. Tutti gli imperialismi
trovano pretesti per questi atti di crudeltà che in tempo di guerra vengono
santificati come la forma piu alta di pubblico dovere.
Ora mentre dobbiamo ammettere che
anche persone di grande cultura sono a volte crudeli, lo sono molto meno
spesso, credo, delle persone la cui mente è un terreno da dissodare. Lo scolaro
prepotente in classe ha raramente un profitto superiore alla media. Quando si
verifica un linciaggio, i suoi promotori sono invariabilmente uomini di crassa
ignoranza. E ciò non perché coltivando la mente si sviluppino sentimenti
umanitari, sebbene possa anche essere cosi; ma perche la cultura ci suggerisce
svaghi diversi dal tormentare il nostro prossimo, e mezzi diversi dalla
prepotenza per affermare la nostra personalità. Le due cose più desiderate da
tutti sono il potere e l'ammrrazione. Gli uomini ignoranti possono ottenerle,
di regola, soltanto con mezzi brutali, che implicano la conquista della
supremazia fisica. La . cultura dà all'uomo forme di potere meno dannoso e
mezzi più meritori per attirare l'ammirazione. Galileo fece più di quanto
qualsiasi monarca abbia mai fatto per cambiare il mondo, e il suo potere fu
incommensurabilmente superiore a quello dei suoi persecutori. Egli non aveva
perciò alcun bisogno di diventare un persecutore a sua volta.
Forse il vantaggio più importante
del sapere «inutile» è che esso induce a un abito contemplativo della mente.
C'è nel mondo troppa faciloneria, non soltanto perché si agisce spesso senza
adeguata riflessione, ma anche perché si agisce a volte anche quando la
saggezza consiglierebbe di non agire. La gente dimostra la propria indole in
queste faccende in molti modi strani. Mefistofele dice al giovane studente che
la teoria è grigia ma l'albero della vita è verde, e tutti citiamo la frase
come se fosse un'opinione di Goethe e non ciò che, secondo Goethe, il diavolo
avrebbe dovuto dire a uno studente. Amleto è considerato un terribile monito
contro il pensiero non accompagnato dall'azione, ma nessuno si accorge che
Otello è un monito contro l'azione non accompagnata dal pensiero. Professori
come Bergson, per una sorta di snobismo verso l'uomo pratico, rinnegano la
filosofia e dicono che la vita nella sua forma migliore dovrebbe somigliare a
una carica di cavalleria. Dal canto mio, penso che l'azione vale di più quando
deriva da una profonda comprensione dell'universo e del destino umano, e non da
qualche selvaggio e romantico impulso di sproporzionata autoaffermazione.
L'abitudine di trovar piacere nel pensiero anziché nell'azione è una
salvaguardia contro la leggerezza e l'eccessivo amore del potere, un mezzo per
conservare la serenità nella sventura e la pace della mente tra i crucci. Una
vita limitata dagli interessi personali finisce col diventare, presto o tardi,
insopportabilmente penosa. Soltanto spalancando le finestre su un cosmo più
ampio e meno frenetico possiamo tollerare gli aspetti più tragici
dell'esistenza.
L'abito contemplativo della mente
ha una vasta gamma di vantaggi che vanno dal più banale al più profondo.
Prendiamo ad esempio le seccature minori, come la presenza delle mosche o il
fatto che si perda il treno o l'esser costretti a vivere accanto a un socio
d'affari sempre di malumore. Guai del genere sono ben poca cosa se si rifletta
sull'eccellenza dell'eroismo o sulla transitorietà dei mali umani, e tuttavia
l'irritazione che provocano rischia di distruggere il buon carattere di molta
gente e la gioia di vivere. In tali occasioni si può trovare un'ottima
consolazione in qualche elemento del sapere che ha rapporti reali o fantastici
con la seccatura del momento o che, anche se rapporti non ne esistono, serve a distrarre
il corso dei nostri pensieri. Quando siamo aggrediti da una persona pallida di
rabbia, è piacevole ricordare quel capitolo del Trattato delle passioni di
Descartes intitolato: «Perché coloro che impallidiscono per la rabbia sono da
temersi più di coloro che arrossiscono». Quando ci si spazientisce per le
difficoltà che intralciano la cooperazione internazionale, conviene ricordare
il santo re Luigi IX, il quale prima di imbarcarsi per la crociata si alleò col
Vecchio della Montagna, descritto nelle Mille e una notte come l'oscura origine
di ogni umana malvagità. Quando la rapacità dei capitalisti si fa opprimente,
ci si può consolare rammentando che Bruto, quel raro esempio di repubblicana
virtù, prestò quattrini a una città al tasso del quaranta per cento e assoldò
un esercito privato per assediarla quando vide che non pagava gli interessi.
Le nozioni curiose non soltanto
rendono gradevole ciò che è sgradevole, ma rendono altresì più gradevole ciò
che già lo è. Ho gustato le pesche e le albicocche molto più di quanto le
gustassi prima, da quando ho saputo che si cominciò a coltivarle in Cina agli
inizi della dinastia Han; e che i cinesi presi in ostaggio dal grande re
Kaniska le introdussero in India, da dove si diffusero in Persia giungendo
nell'impero romano nel primo secolo della nostra èra. Tutto ciò mi rese quei
frutti più dolci.
Circa cent'anni fa, alcuni
filantropi bene intenzionati fondarono delle società per «la diffusione del
sapere utile» col risultato che la gente cessò di apprezzare il delizioso gusto
del sapere «inutile». Aprendo a caso l'Anatomia della malinconia del Burton, un
giorno in cui mi sentivo incline a tale stato d'animo, appresi che esiste una
«sostanza malinconica» e che, mentre taluni pensano sia prodotta da tutti e
quattro gli umori, «Galeno ritiene che sia prodotta da tre soltanto, escludendo
il flegma o pitùita, e la sua giusta asserzione è sostenuta con calore da
Valerio e Menardo nonché da Fuscio, Montalto e Montano. Infatti (essi dicono)
come può il bianco diventare nero?» Nonostante questo inoppugnabile argomento,
Ercole di Sassonia e Cardario, Guianerius e Laurentius sono (riferisce Burton)
di parere opposto. Placata da queste riflessioni storiche, la mia malinconia,
fosse dovuta a quattro umori oppure a tre, si dissipò. Come un rimedio per il
troppo zelo, potrei immaginare pochi mezzi più efficaci di un corso su tali
antiche controversie.
Mentre i piaceri modesti della
cultura hanno il loro valore perché alleviano le seccature modeste della vita
pratica, i meriti più importanti della contemplazione sono in rapporto con i
mali più gravi dell'esistenza: la morte, la sofferenza e la crudeltà, e la
cieca marcia delle nazioni verso un inutile disastro. Coloro che non traggono
più conforto dalla religione dogmatica hanno bisogno di un surrogato perché la
vita non diventi arida e dura e colma di una volgare autoaffermazione. Il mondo
è ora zeppo di gruppi rabbiosamente concentrati in se stessi, ciascuno incapace
di considerare la vita umana nel suo insieme, ciascuno smanioso di distruggere
la civiltà piuttosto che arretrare di un passo. Una istruzione tecnica non
riuscirà mai a fornire un antidoto a tanta ristrettezza di vedute. L'antidoto,
in quanto riguarda la psicologia individuale, lo si può trovare soltanto nella
storia, nella biologia, nell'astronomia, in tutti quegli studi che, senza
intaccare il valore della personalità, consentono all'individuo di vedere se
stesso nella giusta prospettiva. Ciò che occorre non è questa o quella nozione
specifica, ma una cultura che permetta di comprendere gli scopi della vita
umana in generale: arte e storia, familiarità con le vite di personaggi eroici,
una certa idea della posizione accidentale ed effimera dell'uomo nel cosmo, il
tutto illuminato con emozione e orgoglio da ciò che è caratteristicamente
umano, la capacità di vedere e di sapere, la capacità di sentire in modo
magnanimo e· di pensare con coscienza. È dalle vaste percezioni sommate
all'emozione impersonale che sgorga direttamente la saggezza.
La vita, che fu sempre colma di
sofferenza, è più dolorosa ora che nei due secoli precedenti. Il tentativo di
sfuggire al dolore spinge gli uomini a occuparsi di cose banali, a ingannare se
stessi, a inventare vasti miti collettivi. Questi palliativi momentanei
finiscono, a lungo andare, col creare nuove fonti di sofferenza. L'infelicità
privata e pubblica può essere dominata soltanto da un processo in cui volontà e
intelligenza agiscono concordi: è compito della volontà rifiutarsi di chiudere
gli occhi davanti al male o di accettare una soluzione che non ha contatti con
la realtà, ed è compito dell'intelligenza capire il male, porvi un rimedio se è
possibile o, in caso contrario, renderlo sopportabile considerandolo sotto i
suoi vari aspetti, accettandolo come inevitabile e rammentando tutto ciò che
esiste al di fuori di quel male, in altre regioni, in altre età e negli abissi
dello spazio interstellare.
l'uomo
"compiutamente spostabile" (elémire zolla)
Per intendere il misticismo occorre
non solo sgombrare la mente dal catalogo degli stereotipi, ma anche ricostruire
l'antica condizione, lo stato da cui nasceva ogni misticismo, cioè il mondo
anteriore alla rivoluzione scientifica. Oggi l'uomo è diventato compiutamente,
usa dire Bertrand de Jouvenal, spostabile; il suo ambiente d'altro canto è
fungibile rispetto a quasi ogni altro sicché egli è naturalmente disposto ad un
ascetismo capovolto: per natura, ormai, egli rinuncia ai massimi beni profani:
la propria terra come ente inconfondibile, la salubrità dell'aria, un ruolo
sociale non angosciante, un lavoro sensato, costumie oggetti d'uso che abbiano
uno stile, cibi schietti. A compenso dell'ascesi, della rinuncia a questi
conforti egli però non riceve beni spirituali, sibbene i materiali che si
possano per caso produrre in serie; all'ascesi egli deve adeguarsi per forza (i
fanciulli non possono comunque aggirarsi imparando e sbrigando faccende nella
bottega o nel campo, non possono giocare per la strada sorvegliati dalla
comunità né bagnarsi nel torrente, né allevare gli ultimi nati, poiché il padre
deve lavorare in fabbrica o in ufficio, abitare in un alveare fra estranei,
rinunciare alle acque che non siano piscine pubbliche, limitare le nascite; il
padre che ravvisi nel nido d'infanzia o nel collegio o nella banda di coetanei
forme di esilio o nella solitudine una forma di carcerazione per i suoi figli
soffre; se invece giudiziosamente si accieca, vivrà soddisfatto
nell'infelicità). Gli unici a poter trarre un vantaggio dall'ascesi sono i
perfettamente spostabili, che riescono a crearsi falsi bisogni che verranno
soddisfatti. L'allenamento a questo nuovo ordine comporta istinti repressi,
fiacchi, l'uomo spostabile regredisce di qua dalle passioni. Il mistico le
trascendeva. C'è una somiglianza fra i due, proprio perché sonoi contrari l'uno
dell'altro: non sono asserviti ai beni naturali della terra né l'uno né
l'altro. Coloro che hanno osato percorrere la strada indicata dalle opere
mistiche nei tempi moderni hanno dovuto prima criticare la condizione
sradicata, hanno trovato cioè un ostacolo in più, un ulteriore grdino della
scala, una mediazione aggiunta alla catena di mediazioni trdizionali. Per
trascendere il mondo bisogna che il mondo ci sia, per attingere il
soprannaturale è necessario che ci si
rappresenti il naturale. Perciò le due mediazioni attualmente preliminari a
ogni conoscenza mistica saranno prima la critica del bisogno falso, del consumo
coatto, della repressione della natura, poi la configurazione della propria
vita nell'ordine anteriore alla modernità. Si vede questo movimento duplice in
ogni mistico moderno, come premessa delle sue conoscenze: la storia di
Kierkegaard è nota. Prima di lui Hölderlin dovette anzitutto criticare il mondo
dal quale "sono fuggiti gli dèi", e quindi riplasmare la sua lingua
depurandola affinché diventasse espressiva e non miseramente comunicativa. Dopo
egli ebbe in dono le passioni robuste e solenni che lo legarono d'amore a
Diotima: da queto punto poté partire per la via tracciata, in tempi
immemorabili, verso le conoscenze mistiche, che gli furono largite fino alla
follia. Herman Melville prima compie una critica simila a quella di Marx in Redburn, poi riacquista nozione delle
passioni, infernali e purgatoriali in Omoo
e White Jacket, e infine queste
trascende nel viaggio iniziatico di Moby
Dick. Emily Dickinson, nella solitudine può misurare la piena esensioine
degli empiti passionali, e poi trascenderli. I quaderni mistici di Kafka non
sarebbero stati scritti se egli prima non avesse incenerito il mondo
burocratizzato. Robert Musil mostrò come sia orrido ogni impulso mistico che
non abbia subito prima il lavacro della doppia mediazione: "Se oggi
qualcuno vuol chiamare fratelli gli uccellini, non deve fermarsi a queste
piacevolezze, ma esser pronto a gettarsi nella stufa, a infilarsi nel terreno
attraverso una conduttura elettrica o a guazzare nelle fogne già per un
lavandino", è datto nell'Uomo senza
qualità. Così non ci potrebbe essere La
connaissance surnaturelle di Simone Weil senza La condition ouvrière. Pasternak doveva comprendere come "quel
che era metaforico è diventato reale" e allontanarsi da ogni tratto
moderno, per esporsi alla terribile furia delle passioni e trascenderle infine
secondo i canoni della liturgia in un modoche, fosse anche soltanto oscuramente
avvertito da coloro che l'hanno esaltato per equivoco, dovrebbe renderlo un worst seller.
divisione
e specializzazione del lavoro moderno (konrad lorenz)
Konrad Lorenz, ne Il declino dell'uomo, dice a proposito
della divisione del lavoro che "la camicia di forza della specializzazione
limita l'individuo e rende il mondo terribilmente noioso. Sono fermamente
convinto che lo 'svuotamento di senso' del mondo del quale Viktor Frankl ha
parlato in modo così persuasivo sia in gran parte conseguenza della
specializzazione. Infatti se non si è più in grado di abbracciare l'universo
come un tutto, non si reisce più a percepirne la bellezza, né a interessarsi ad
esso.
il
mito del lavoro nel mondo contemporaneo (julius evola)
Nessun orientamento di Destra è concepibile senza una
decisa presa di posizione contro il mito del "lavoro" e del
"lavoratore" e contro l'aberrante culminazione di questo mito dei
tempi ultimi, costituito dal concetto di "Stato del Lavoro".
Non occorre dire che, come sempre, qui per Destra
intendiamo la vera Destra, non la Destra economica e capitalistica, comodo
bersaglio delle forze sovvertitrici, bensì la Destra definita da valori
politici, gerarchici, qualitativi, aristocratici e tradizionali, custode
dell'idea del vero Stato.
Vi è chi può
obiettare che una tale Destra nel giuoco delle attuali forze politiche
italiane, e fors'anche europee, è inesistente. Però già nelle correnti che
almeno si dicono "nazionali" la profonda degradazione inerente a quel
mito dovrebbe essere sentita e dar luogo ad una naturale reazione. Invece
troppo spesso si indulge in un equivoco che comporta inevitabilmente
l'acquiescenza al gergo e alle ideologie della parte opposta. Ma è così: non
bruciare incenso dinanzi alla classe lavoratrice, non vedere la quintessenza di
ogni politica non retrograda e non "reazionaria" nel mettersi al
servizio di essa e nell'andar incontro alle sue sempre più impertinenti
"rivendicazioni", e così via, sembra effettivamente oltrepassare la
dose di coraggio fisico e morale di cui dispone la gran parte di coloro che
oggi, da noi, fanno la politica.
Peraltro, anche di recente l'indulgere alle accennate
ideologie si è verificato in margine a correnti nazionali. Il concetto di
"Stato del Lavoro", sia pure abbellito per l'occasione con la
qualifica addirittura di "nazionale", è stato proposto allo studio e
alla discussione di ambienti giovanili Su di un altro piano, esso è stato
innalzato a simbolo "rivoluzionario", quasi che la Costituzione
vigente non cominciasse con la solenne proclamazione che l'Italia "è una
repubblica fondata sul lavoro" per cui è evidente che l'accampata istanza
"rivoluzionaria" può essere concepita solo sulla direzione
radicalistica propria a marxismo, socialismo e comunismo (movimenti dove il
mito del lavoro e dello Stato del lavoro è veramente a casa sua), non sulla
direzione di un rigetto del sistema vigente, di una rivoluzione ricostruttrice
e restauratrice della gerarchia naturale dei valori e delle dignità.
A dire il vero, ci dà quasi noia tornare su simili
argomenti: nel riguardo la nostra presa di posizione risale al già abbastanza
lontano 1934, quando uscì la prima edizione della nostra Rivolta contro il
mondo moderno, e da allora non ci siamo stancati di denunciare ideologie del
genere. E' vero che anche nel fascismo del Ventennio in certi ambienti
sindacalisti e "pancorporativi" si erano affacciate tendenze
analoghe, ma esse restarono sempre marginali e inoperanti. Mussolini si rifiutò
sempre di concepire lo stato fascista come un mero Stato del lavoro; affermò il
primato della politica e di superiori valori rispetto all'economia; le stesse
corporazioni, che organizzavano e disciplinavano le forze del lavoro e della
produzione, egli le concepì come mezzi e non come fini.
Nemmeno ebbe seguito la stortura che, verso la fine del
Ventennio, rappresentò la formulazione, da parte di Giovanni Gentile, del
cosiddetto "umanesimo del lavoro" sullo sfondo di un "senso
della storia", interpretato proprio al modo degli ideologi di sinistra:
dopo l'emancipazione dello spirito umano, "celebratasi" col
Rinascimento e con l'umanismo di quel tempo, la rivoluzione liberale avrebbe
rappresentato una seconda conquista; ma l'ulteriore progresso sarà
l'"umanesimo del lavoro" con l'"etica del lavoro", la
riconosciuta spiritualità e dignità del lavoro e tutto il resto. La convergenza
con la filosofia marxista della storia non avrebbe potuto essere più precisa, e questo
"umanesimo" gentiliano faceva il paio col "vero umanesimo"
marx-leninista e con tutto ciò che si legge nella costituzione sovietica circa
il lavoro inteso non come un dovere imposto sadicamente a tutti ma anzi come un "onore".
D'altra parte, si sa di tutte le correnti di un
cattolicesimo "illuminato" e non retrogrado che oggi stanno
mettendosi su si una non molto diversa linea inneggiando all'"ascesa della
classe lavoratrice". Le tappe del progresso umano secondo il cattolico
Maritain sono esattamente le stesse di quelle concepite dal Gentile. La
culminazione della storia, per tutti costoro, è la "civiltà del
lavoro" e la mistica del "lavoratore", nuovo soggetto della
storia.
Non occorre dire che dal punto di vista tradizionale le
tappe di questo presunto progresso corrispondono rigorosamente a quelle di una
graduale degradazione e involuzione che, peraltro, ha colpito anche il tipo
degli ideali, dei valori, delle vocazioni predominanti e, in genere, della
civiltà. Infatti è ovvio che il passare da civiltà che gravitano su valori
spirituali e trascendenti a civiltà il cui centro era costituito soltanto dai
valori, sia pure degni, propri ad una aristocrazia guerriera e, da questa, alla
civiltà capitalistica e industrialistica basata sull'economia,
sull'organizzazione materiale, sul danaro e il guadagno, e, infine, lo
spostamento terminale verso una società avente per centro e mito il puro lavoro
e il lavoratore .. è ovvio che questo processo non può venire concepito che come
un processo regressivo.
La generalizzazione del significato della parola
"lavoro" è una caratteristica della fase finale di questa
regressiore. Essa può dire una sola cosa: che tende a concepire sotto le specie
di quelle attività inferiori, alle quali soltanto si può applicare
correttamente il termine "lavoro", ogni altra attività, tanto da
degradarla e riportarla allo stesso comune denominatore. E' ciò che avviene, ad
esempio, quando ci si mette a parlare di "lavoratori intellettuali",
di "lavoratori del braccio e della mente" onde mascherare l'assurdità
di concepire una società e uno stato in funzione esclusiva di
"lavoro" e di "lavoratori". Un simile abuso deve venire
denunciato. Si deve dire che il lavoro è lavoro, e basta. E' un non senso
applicare il termine di "lavoratore" – per non dire addirittura
"operaio" – all'inventore, all'artista creatore, al pensatore, al
condottiero, al diplomatico, al sacerdote, allo scienziato, perfino al grande
organizzatore e capitano d'industria. L'attività di tutti costoro non la si può
definire come un "lavoro", né essi possono essere inclusi come che
sia nella "classe lavoratrice". Anzi noi non chiameremmo
"lavoratore" nemmeno il contadino nella misura in cui non sia il
bracciante salariato ma colui che è ancora fedele alla terra e la coltiva per
tradizione e per un interesse che non si esaurisce nella pura idea del provento
(per questo, oggi il tipo di un tale contadino, conformemente al
"progresso sociale", sta per sparire).
Però non si può contestare che, parallelamente
all'accennata generalizazione abusiva del termine "lavoro", si è
verificata nei tempi ultimi una degradazione effettiva che in certi settori la
conferma. Stanno, infatti, divenendo "lavoro" non poche attività che
fino a ieri avevano un assai diverso carattere. Ad esempio, si possono ben
chiamare "lavoro" nel senso più bruto certe forme di sports e di
allenamento sportivo.
Il fatto che secondo la tradizione biblica (a cui,
altrimenti, ad esempio, quando s'insorge ostinatamente contro il controllo
delle nascite, ci si tiene così attaccati) il lavoro fu concepito in stretta
connessione con la caduta dell'uomo e come una specie di espiazione, quindi
come nulla che si possa glorificare, i cattolici di oggi volentieri lo
dimenticano. E' noto il valore negativo attribuito anche dall'antichità
classica al lavoro nel senso proprio e legittimo, ossia materiale: labor poté
equivalere quasi a sofferenza e a pena, e il verbo laborare poté significare
"soffrire" – laborare ex capite in latino voleva dire, ad esempio, soffrire di mal di testa.
Reciprocamente, il termine otium, in antitesi a labor e negotium, spesso fu
usato dai classici per designare non la fannullaggine ma il tempo dedicato ad
attività non materiali, intellettuali, a studi, alla letteratura, alla speculazione
e simili; mentre otium sacrum figurò nella stessa terminologia religiosa e
ascetica, associato all'attività contemplativa. Qui non sappiamo resistere alla
tentazione di citare un proverbio spagnolo: el hombre que trabaja pierde un
tiempo muy precioso, cioè "l'uomo che lavora (in senso proprio) prde un
tempo assai prezioso". Perdere questo tempo prezioso – perché meglio
utilizzabile – può essere una necessità, una triste necessità. Ma il punto
fondamentale dovrebbe essere il rifiuto di fare di tale necessità una virtù e
esaltare una società in cui essa sia la chiave di volta.
In ogni visione sana e normale della vita il lavoro deve
essere considerato come un semplice mezzo di sostentamento nel caso di esseri
non qualificati per svolgere una attività di un genere più alto. Lavorare come
fine in sé e oltre quanto occorre pel proprio mantenimento è una aberrazione
– e proprio il "lavoratore"
dovrebbe capirlo: l'"eticità del lavoro", l'"umanesimo del
lavoro", il "lavoro come onore"
tutte le altre chiacchiere non sono che mezzi per mistificarlo e per
meglio saldare le catene che lo legano al meccanismo della
"produzione" divenuta quasi un processo autonomo. Già in altra
occasione abbiamo citato questo aneddoto: in un paese asiatico un imprenditore
europeo, constatando lo scarso impegno degli indigeni nel lavoro pensò di
raddoppiare le mercedi. La conseguenza fu che subito gli indigeni si misero a
lavorare la metà delle ore di prima, dato che ora così avevano già quanto loro
bastava. Se il clima del "progresso sociale", dell'oltrepassamento a
tutti i costi della propria condizione, del moltiplicarsi artificiale dei
bisogni non facesse apparire come deprecabile un tale atteggiamento, proprio il
prevalere di esso in strati sociali inferiori (e anche non inferiori) tornati
alla normalità sarebbe uno dei mezzi più efficaci per fermare il "gigante
scatenato", cioè l'economia, il parossismo produttivo che sta diventando
il destino dell'umanità "civilizzata".
Tornando un momento all'antichità classica, oltre a otium
nel senso dianzi chiarito, un altro termine faceva da antitesi a labor: opus,
"opera". Propriamente, solo allo schiavo si addiceva il labor, l'uomo
libero compiva delle "opere", donde il termine latino opifex che
evidentemente a questa stregua non può tradursi con "operaio" nel
senso moderno. Ora, lo Spengler ha indicato un mutamento assai significativo
quando ha rilevato che mentre l'uomo moderno tende a "Lavorare"
perfino quando "opera" – crea, agisce, compie – l'uomo tradizionale
dava un carattere di "opera" perfino a ciò che poteva essere in una certa misura, un lavoro. Peraltro,
questo carattere qualitativo si era mantenuto fino a ieri, nel quadro
dell'artigianato tradizionale. Il paradosso è che l'esaltazione del lavoro e la
tendenza a ridurre lo Stato ad un mero Stato del lavoro, il lavoro si è sempre
più squalificato, ha perduto e ha dovuto perdere in vastissimi settori il
carattere personale e qualitativo di "opera", tanto da scendere
sempre più in basso lungo la scala delle attività degne di un uomo libero,
esercitate non per pura necessità o per la sola prospettiva del provento.
Correlativamente, si è avuta la degradazione del tipo del
"lavoratore" divenuto il "membro cosciente" della
"classe lavoratrice", il "venditore di lavoro"
organizzatosi nei sindacati, che pensa soltanto in termini di
"salario", di "rivendicazioni" e di "interessi della
categoria" senza nessun riguardo pel bene generale, senza obbedire più a
nessun movente disinteressato e nobile, a valori di fedeltà, di dedizione, di
intima adesione (del resto, è difficile che ciò gli sarebbe ancora possibile,
inserito, come è, in un sistema privo di senso, meccanico, anodino). E proprio
presso questo basso livello del lavoro e del lavoratore di oggi ci si mette a
bandire lo "Stato del Lavoro", a parlare della "nazione sociale
che i realizza nello Stato del Lavoro, sintesi degli ideali della nuova
generazione (!!!)".
Dottrinalmente è ovvio che uno Stato del Lavoro è la pura e
semplice negazione del concetto tradizionale di Stato. Il carattere regressivo
di quegli sviluppi chela storiografia marxista vuol presentare come un
progresso è già evidente se si considera il modello che via via si è scelto per
lo Stato. Quando al tramonto delle civiltà basate su valori spirituali e
aristocratici il potere effettivo passò nelle mani della borghesia
capitalistica e mercantilistica, il fondamento dello Stato fu riportato proprio
al principio di tale casta, cioè al contratto (il contrattualismo,il
"contratto sociale"), concetto che naturalmente implica quello del
vantaggio materiale e esclude ogni fattore veramente etico e ogni nesso
organico. "Governare" così è divenuto sinonimo di
"gestire", come in una impresa o in una amministrazione privata – e
non stupisce che negil Stati Uniti invece di "governo" si parli
proprio di "amministrazione" (l'amministrazione Eisenhower,
l'amministrazione Kennedy). Poi si è scesi più in basso: il modello non è più
nemmeno l'azienda o società creata col
contratto ma addirittura la fabbrica socializzata e razionalizzata. Questo è l
livello a cui, idealmente, appartiene il concetto di "Stato del
Lavoro".
La guida sicura per giudicare delle forme politiche è data
dalla concezione della gerarchia delle varie facoltà in ogni uomo degno di
questo nome – per la naturale analogia esistente fra l'essere individuale e
quel grande organismo che è lo Stato. Tutta l'estensione, lo sviluppo
quantitativo che in un certo tipo di civiltà le attività materiali, il
"lavoro", la produzione, l'economia possono avere, non dovrebbero
impedire il chiaro, costante riconoscimento del loro luogo gerarchico,
corrispondente appunto a quello delle funzioni materiali di un organismo
individuale, le quali debbono stare al servigio di una vita superiore. Solo a
questa condizione può esistere un ordinamento normale. Il vero Stato incarna
quei principi, qui poteri, quelle funzioni che nell'uomo corrispondono
all'elemento centrale e sovrano destinato a dare un senso superiore alla vita,
ad avviare verso fini, esperienze e tensioni trascendenti la sfera puramente naturalistica
e fisica. Se si nega allo Stato l'autonomia propria ad un potere e ad una
autorità sopraelevati, se ne nega la stessa essenza, e di esso non resterà più
che una caricatura, qualcosa di meccanicistico, di disanimato, di opaco
sovrapposto ad una esistenza collettiva non meno svuotata. Il primato dato
politicamente alla "società" (abbiamo indicato poco fa l'analogia tra
tale concetto e quello di "società" nel senso commerciale e
aziendale) è la prima fase di questa negazione. La fase ulteriore è certamente
quella caratterizzata dallo "Stato del Lavoro", col singolo pensato
unicamente come il "cittadino lavoratore". Come dicemmo, essa ha per
modello la fabbrica a regime socializzato e collettivizzante.
Non occorre dire che l'aggiunta "nazionale" –
"Stato nazionale del Lavoro" –
è un puro mendace orpello. Il "lavoro" nel senso moderno non ha
nessun carattere "nazionale", non ha patria; svuotato delle sue
valenze qualitative e tecnicizzato, esso è uguale dappertutto, popolo, razza e
perfino sesso non vi portano vere differenze. Ma se con l'epiteto
"nazionale" si volesse indicare la nazione come un fine
sopraordinato, è evidente che bisognerebbe cominciare col restituire al
concetto di nazione un significato superiore, indisgiungibile dall'ideale del
vero Stato: significato che naturalmente non può venirgli dal mondo del lavoro,
tale mondo essendo solo quello dei mezzi. Pertanto l'uso di quella formula
ibrida – "Stato nazionale del Lavoro" – tradisce senz'altro
l'incapacità di pensare in modo chiaro, incapacità a cui, a sua volta, non è
estraneo un cedimento – conscio o inconscio – di fronte alle suggestioni e alle
ideologie delle sinistre e della "classe lavoratrice".
Come si vede, in ogni caso sussiste un equivoco che lascia
le porte aperte all'avversario. In tutta questa problematica si dovrebbe aver
finalmente il coraggio di pensare a fondo, senza confusioni, chiamando le cose
col loro vero nome. Ripetiamo,o, dunque. il lavoro è lavoro, e basta. La classe
lavoratrice è solo una parte inferiore (oggi, qualitativamente, più che mai –
per le ragioni indicate). La prolificazione senza simili che, dato il tipo
attuale, materiale, di civiltà , essa ha nel mondo di oggi e la sua possibilità
di esercitare pressioni sovvertitrici e spesso apertamente ricattatorie non
mutano in alcun modo il significato subordinato ad essa proprio in una
gerarchia normale. Nei gradi superiori ed essenziali di questa gerarchia né
"lavoro" né "lavoratori" possono avere qualcosa da fare. Se
vogliamo dare spunti per utili riflessioni e discussioni alla gioventù ancora
sana, è in base a queste visuali che bisogna darli. Ci sono già abbastanza
"aperture a sinistra" altrove perché anche in campo
"nazionale" ci si debba mettere quasi a fare la concorrenza sullo
stesso piano,anche se l'intento fosse solo "profilattico", come
nell'infelice avventura e nel pretesto accampato dal
"centro-sinistra" attuale. L'appello ad un coraggio intellettuale e
ad un vero spirito rivoluzionario (più esattamente: controrivoluzionario, perché
la vera rivoluzione oggi può essere solo rivolta contro il sistema politico e
ideologico dove imperano proprio le idee qui stigmatizzate) è, a tale riguardo,
una esigenza veramente categorica.
assente
il padre (james hillman)
«Papà, dove sei? Sei tornato?». No,
piccolo, papà è a pranzo con i colleghi. Dove è giusto che sia, come sosterrò
tra poco. Il suo posto è altrove, come spiegherò tra poco, perché il suo valore
fondamentale per la famiglia consiste nel mantenere i contatti con l'altrove.
Quando lo vediamo nei telefilm e
negli spot pubblicitari, Papà è un po' uno stupidotto. Non è molto al
corrente, rimane sempre spiazzato. Secondo i critici contemporanei del ruolo
paterno, si fa apposta a farlo apparire un po' stupido perché questa immagine
indebolita serve a intaccare il potere e il formalismo ingessato della
società patriarcale, rende più paritarie le relazioni tra i sessi e sfuma le
differenze gerarchiche tra padri e figli. Di conseguenza, le mogli sono dipinte
come più pratiche e presenti a se stesse e i figli come più aggiornati ed
esperti delle cose del mondo. Papà è un brav'uomo, ma un filino tonto.
La mia tesi è che sotto ci sia
dell'altro, non solo un cambiamento delle convenzioni sociali e un ammorbidimento
del padre patriarcale. La commedia rappresentata sugli schermi televisivi ha un
sottile intreccio secondario, non privo di fondamenti. Forse il vero compito di
Papà è proprio quello di non capire niente di marche di caffè, di candeggianti
e di merendine o di come affrontare le cotte della pubertà; forse la sua
ottusità dimostra che dawero quello non è il suo mondo. Il suo mondo non
compare sullo schermo perché è tra le quinte, altrove, ed è invisibile. Papà
deve tenere un piede in un altro spazio, un orecchio sintonizzato su altri
messaggi. Non deve perdere la sua vocazione né dimenticare i suoi obblighi nei
confronti del desiderio del cuore e dell'immagine che egli incarna.
Beninteso, questi obblighi non
riguardano soltanto gli uomini; ma sono gli uomini a essere definiti «assenti».
Perciò il nostro compito psicologico è quello di esplorare tale assenza al di
là delle solite accuse di abbandono, «lavorodipendenza», incapacità colposa di
relazione, mancato mantenimento dei figli, doppia morale, egocentrismo
patriarcale, che, assai giustamente, vengono rivolte a molti padri.
Per secoli i padri sono stati
assenti: in paesi lontani a combattere campagne militari; sul vasto mare, per
anni di fila, come marinai; via da casa come mandriani, esploratori, cacciatori
di pelli, cercatori d'oro, messaggeri, prigionieri, trafficanti, ambulanti,
negrieri, pirati, missionari, emigranti. La settimana lavorativa una volta
era di settantadue ore. Inoltre il costrutto «ruolo paterno» presenta facce
estremamente diverse a seconda dei paesi, delle classi, delle occupazioni e
delle epoche storiche. Soltanto oggi l'assenza è così ignominiosa e definita
una condotta delinquenziale e addirittura produttrice di delinquenza. Come male
sociale, il padre assente è l'uomo nero dell'èra socialterapeutica, questo
periodo storico che vuole curare le cose che non comprendiamo.
L'immagine paterna convenzionale,
di un uomo al lavoro, che rincasa all'imbrunire, che guadagna il pane,
mantiene la famiglia premuroso del suo benessere non solo materiale e dedica ai
figli un tempo di qualità, è un'altra fantasia della superstizione parentale. È
un'immagine che non potrebbe essere più lontana dalla sua base statistica. Già
nel 1993, negli Stati Uniti, solo pochissime famiglie rientravano nel modello
del marito-padre che lavora e mantiene la famiglia, formata dalla moglie-madre
casalinga e dai loro due figli. Tutti gli altri americani vivono in modo
diverso. La tendenza statistica dei padri, dunque, è di non realizzare questa
immagine, così come quella delle donne è di non realizzare l'immagine di
moglie-madre casalinga. Se l'espressione «i valori della famiglia» significa
due genitori che vivono insieme con i loro figli biologici nella loro casa,
bisogna ammettere che tali valori hanno ben poco a che vedere con il modo in
cui vivono di fatto gli americani.
[ … ]
Un figlio «felice»: mai, in nessun
tempo e in nessun luogo, questo è stato il fine che i genitori si sono
proposti. Un figlio industrioso, che si renda utile; un figlio malleabile; un
figlio sano; un figlio ubbidiente, ben educato; che si tenga lontano dai guai;
un figlio timorato di Dio; un figlio da godere: tutte queste sottospecie, sì.
Ma la superstizione parentale ha fatto cadere i genitori nella trappola di
dover fornire, insieme alle scarpe, ai libri di scuola, alle vacanze con il
bagagliaio carico da scoppiare, anche la felicità.
manifesto per un mondo senza lavoro (ermanno
bencivenga)
Uno
spettro si aggira per il mondo: la disoccupazione.
Semina
disagio in giovani parcheggiati in scuole inutili ad affinare competenze per un
mercato che non può assorbirle; annichilisce la stima e il rispetto di sé in
persone mature e ancora valide ma non più necessarie ad aziende costantemente
in fase di «ristrutturazione» e non più in grado di competere con successo per
i pochi posti disponibili; atterrisce e ricatta chi ancora il lavoro ce l'ha,
costringendolo a patti vergognosi; fa esplodere di incontenibile rabbia chi il
lavoro non l'ha mai avuto e vede il treno della vita passargli accanto senza
poterci mai salire, senza poter alzare gli occhi con decoro di fronte ai propri
figli o senza poterli mai avere, quei figli.
La
risposta dei governi a questa tragedia (quando c'è: quando non si associano
all'interesse delle multinazionali, che della situazione profittano ricavandone
manodopera a bassissimo costo e spacciando poi il risultato per sviluppo
tumultuoso e fiorente) è quella miope di sempre: escogitare forme più o meno
plausibili di crescita dell'occupazione, intesa come occupazione produttiva,
cioè come produzione di merci che dovranno essere consumate. È una risposta
inadeguata e insostenibile: il consumo è motivato dal bisogno o dallo spreco, ma
chi ha bisogno spesso non ha risorse per consumare e chi ha risorse spesso non
ha bisogno di quel che viene prodotto. Si tratta allora di incoraggiare lo
spreco, il che vuol dire, nella maggior parte dei casi, mascherarlo da bisogno.
Porzioni sempre più rilevanti del budget di un'impresa sono investite per
convincere il pubblico, stoltamente, che ha bisogno di oggetti che nemmeno
immaginava di poter utilizzare e che esistono all'unico scopo di essere
acquistati. Lo spreco ha evidenti conseguenze distruttive sull' ambiente
naturale: l'aria si fa irrespirabile, la temperatura aumenta, il clima va
incontro a trasformazioni di portata biblica. Ma quel che è peggio è che tutti
questi disastri sono inutili: la tecnologia rende la produzione sempre più
efficiente e sazia i bisogni, veri o presunti che siano, con un impiego sempre
minore di lavoro umano. Quindi, per quanto efficace sia la pubblicità
nell'indurre nuovi bisogni, lo spettro della disoccupazione non verrà
esorcizzato e anzi si presenterà in modo sempre più angoscioso. Il motivo è
permanente, non temporaneo; essenziale, non accidentale; necessario non
fortuito. Un numero crescente di esseri umani è ridondante, non serve a nulla e
non si sa che cosa farsene. Potrebbe essere eliminato senza conseguenze. (E, fra
parentesi, «è colpa loro», perché non sono abbastanza volenterosi e
intraprendenti: alla pena già assegnata si fa così corrispondere una
responsabilità fittizia.)
Altri
fantasmi analoghi incombono, e tutti impartiscono, a chi ha occhi per vedere,
la stessa drammatica lezione. Negli Stati Uniti, Paese guida dell'attuale
modello di sviluppo e più perspicuo punto di osservazione per stabilire quel
che ci aspetta, dodici milioni e mezzo di persone (una persona ogni
ventiquattro) fanno uso di droghe illegali, alimentando un'industria carceraria
che ha superato i sei milioni di «clienti» (in Italia, per dare un'idea
dell'ordine di grandezza, i carcerati sono circa settantamila, poco più
dell'uno per mille della popolazione contro il due per cento americano). Il
numero appena citato di drogati rappresenta peraltro un miglioramento rispetto
a qualche anno fa, ma solo perché è cresciuto in modo stratosferico quello
delle persone che abusano di sostanze medicinali; già nel 2009 c'erano stati
(sempre negli Stati Uniti) più morti per tale abuso che per incidenti stradali.
E c'è forse gran differenza tra i drogati chimici, provvisti o meno di ricetta
medica, e gli altri? Non sono gli altri assuefatti a droghe altrettanto
potenti, quando si consideri il tempo che trascorrono ogni giorno davanti alla
televisione o allo schermo di un computer, o comunicando banalità ad «amici»
che spesso non hanno mai incontrato? Non è forse vero che tutti stanno
gridandoci con il loro silenzio (perché sono attività condotte in silenzio - il
silenzio di uno zombie) un giudizio disperato su sé stessi? Non stanno forse
dicendoci che, anche per quelli fra loro che sono «occupati», una parte
cospicua della vita non ha alcun uso o funzione e può essere buttata via senza
rimpianti? Anche per i più fortunati è solo una questione di proporzioni: il
loro tempo, quel poco o tanto di opportunità vitale che è stato loro concesso,
non è del tutto inutile ma lo è in notevole misura. Molti sembrano capire
questa tragica morale, e infatti si contano a decine di milioni i malati di
depressione, piaga del nostro tempo, buco nero che inghiotte ogni nostro
progetto, ogni nostra fiducia, ogni nostra gioia.
L'immagine
evocata da tali spettri è quella di un'umanità giunta al capolinea, che non sa
più per che cosa e su che cosa impegnarsi e sta quindi procedendo tanto
inconsapevolmente quanto irresistibilmente alla propria sistematica
distruzione: una mandria di lemming che si è scoperta in soprannumero e ha
intrapreso una corsa sfrenata verso il baratro più vicino. E l'immagine si
riflette, arricchendosi di dettagli ancora più inquietanti, nei venti di guerra
e di strage che qua e là agitano il pianeta. Collocati nella prospettiva della
nostra storia rissosa e omicida, questi ulteriori fantasmi ci parlano di una ciclicità
perversa: di una specie che non ha mai saputo far meglio che purgarsi della
propria zavorra con ricorrenti, generazionali massacri e che oggi, con una
zavorra tanto più ingombrante' ha bisogno di massacri tanto più radicali. Così
i conti, orribilmente, tornano e tutto quadra: con feroce sarcasmo, nel momento
stesso in cui sembriamo aver più capacità di conservare la salute e prolungare
la vita, ci troviamo di fronte a uno spaventoso esubero di esseri umani e
dunque, dopo averli salvati uno alla volta dal vaiolo e dalla difterite, dal
tetano e dall'ipertensione arteriosa, siamo costretti a liberarcene in un modo
o nell' altro, meglio se a mucchi. Con i cannoni e le bombe intelligenti dove è
possibile e, dove invece gli scrupoli di superficie si fanno più scomodamente
avvertire, annegandoli nella stolidità e nell'idiozia e rendendoli così unici
responsabili della propria distruzione fisica, mentale e morale. Ha ucciso più
indiani il whisky delle armi (anche se è chiaro che le armi possono sempre
tornar buone).
[
… ]
Sto
auspicando una rivoluzione copernicana, intendo suggerire che il «problema»
della disoccupazione e quelli (per me collegati) dell' abuso di droghe e della
violenza razziale e terroristica non possono essere «risolti» con brillanti e
originali proposte di ingegneria sociale: che è necessario un nuovo modo di
pensare a noi stessi, una nuova concezione generale di quel che siamo e
dobbiamo essere. Anche la disoccupazione non è una malattia ma un sintomo, né
più né meno delle conclusioni scettiche humiane sul principio di causalità:
affrontarla con successo significa trasformarla in un fulcro archimedeo intorno
al quale far ruotare il mondo e quindi vedere tutto il mondo (in questo caso,
le condizioni in cui ci troviamo e le attività che svolgiamo) alla sua luce.
Alla luce di un essere che non ha bisogno di occupazione, nel senso in cui
questa parola è comunemente intesa, per trovare la propria dignità. Anzi, che
essenzialmente non ha proprio bisogno: che non trova nel bisogno la propria identità.
[
… ]
A
fondamento e giustificazione delle storture che stiamo esaminando c'è una
teoria degli esseri umani, di che cosa sono e come funzionano. La teoria è
fondata sul concetto di bisogno, che è quanto dire, in senso oggettivo, di
mancanza e, in senso soggettivo, di dolore. Secondo la teoria, è destino
dell'uomo e della donna che si aprano periodicamente nel loro essere altrimenti
quieto e sonnolento dei vuoti e che questi vuoti li tormentino finché non siano
stati colmati, finché l'oggetto di cui si era tutt' a un tratto spalancata
l'esigenza non sia in loro possesso e non sia lecito ritornare a dormire.
Supponiamo
che in me si manifesti e rimanga insoddisfatto uno di questi bisogni: ho fame,
per esempio, e non ho nulla da mangiare. Si creerà così in me anche un bisogno
secondario di aiuto: che cioè qualcun altro mi procuri il cibo che mi manca.
Ma, se quest' altro è un essere umano, perché mai dovrebbe uscire dall'inerzia
per aiutarmi? L'unico modo per scuoterlo è far leva su un suo bisogno
insoddisfatto: avere a disposizione qualcosa che gli manca e che egli è
disposto a scambiare con il cibo da me agognato. Dopo di che, tutti e due
ripiomberemo nell'inerzia che è per entrambi (in questo modello) il piacere
supremo: la completezza, il suturarsi di ogni fessura, l'acquietarsi di ogni
esigenza. E ci rimarremo finché non si spalancherà un altro vuoto e non si
riproporrà lo stesso imbarazzo.
[
… ]
Non
è tanto l'inutilità degli oggetti a costituire un problema. Come vedremo, nel
modello alternativo che intendo proporre ci sarà ampio e significativo spazio
per attività gratuite. Ma è un problema la falsa coscienza che a tale
produzione è associata: l'idea cioè che di questi oggetti inutili non si possa
fare a meno. La malafede può essere spesso efficacemente nascosta sotto i
grandi numeri: in una società composta non di dieci ma di dieci milioni di
persone è possibile convincersi che ci sarà sempre bisogno di scarpe o ceste o
martelli. È facile passare «inavvertitamente» da un insieme molto numeroso a un
insieme infinito (l'unico in cui la convinzione avrebbe senso), soprattutto se
la cosa ci conviene. Ma è un alibi esile e poco convincente: l'operaio di
un'industria automobilistica che sforna centinaia di macchine al giorno non può
non rendersi conto, specialmente quando guida per strade intasate o cerca
affannosamente un parcheggio in terza fila, che la quota di macchine necessarie
è stata raggiunta da tempo e sarebbe possibile mantenerla con una produzione
molto ridotta, quindi da un lato lui stesso è inutile e dall' altro la pretesa
indispensabilità che darebbe sostanza alla sua «dignità di lavoratore» è una
menzogna.
[
… ]
L'essere
umano non è questo: non è un termostato destinato a mantenere per sempre fissi
certi parametri, una creatura per cui l'attività è solo una penosa digressione
verso l'ambita quiete fetale, una struttura tendenzialmente passiva pronta ad
animarsi solo quando è sottoposta a stimoli non richiesti e non graditi.
Èinvece quell'attività stessa, l'attività è la sua essenza; in essa, non nel riposo,
trova la sua gioia e il suo piacere, una gioia e un piacere che si arrestano
quando si arresta l'attività, lasciando, invece che estasi, solo stanchezza e
tedio.
Fin
qui sono d'accordo con Aristotele, che caratterizza l'eudaimonia, il bene
supremo per gli esseri umani, come il piacere associato a un' attività. Quel
che intendo aggiungere ha a che fare con la natura di questa attività. Un
essere umano, per me, è una struttura dialogica e teatrale: una molteplicità di
ruoli in costante confronto e contatto reciproco, che costantemente imparano
gli uni dagli altri come superare i propri punti ciechi, come elaborare le
proprie intuizioni, come affrontare le proprie difficoltà. E la conversazione
che continuamente si svolge fra tutte le voci che lo costituiscono, e che
continuamente arricchisce e approfondisce le risorse di ciascuna di esse.
I
termini «dialogo» e «voci» non vanno intesi come limitati a un ambito verbale
o, peggio ancora, intellettuale di esistenza. (Semmai, sono invece incline a
far leva su questi termini per ridefinire la nozione di intellettualità in modo
che ci entrino anche le mani e i piedi, oltre che la bocca e la mente.) Un
certo modo di piallare il legno o schiacciare la frizione, di battere a
macchina o comporre alla tastiera di un computer o suonare il piano, sono voci
e fra loro si svolge un dialogo quando mosse e atteggiamenti integrali all'uno
interagiscono con mosse e atteggiamenti integrali all'altro: quando (senza che
necessariamente sia pronunciata alcuna parola o evocato alcun pensiero) emerge
quel che a parole si potrebbe esprimere come un «Perché no?», un suggerimento
trasversale che una pratica dà all' altra, e quest' altra lo prende sul serio e
magari un po' finisce per cambiare, in un gioco di estrapolazioni e di intrecci
senza fine.
Se
un essere umano è come l'ho descritto, allora la socialità gli è essenziale,
perché è per suo tramite che egli sviluppa la sua natura e diventa quel che è.
Nella quiete fetale non ci sono che potenzialità irrealizzate, che rimarranno
tali finché dalla quiete non si uscirà e non si comincerà ad avere contatti
significativi con altri esseri umani, con altri repertori di voci e serbatoi di
competenze. Tradizionalmente, questo processo di attualizzazione ha luogo
durante l'infanzia e l'adolescenza, quando un certo numero di modelli s'imprime
sul comportamento di un individuo. Poi si arresta e l'individuo deve mettere a
profitto ciò che ha acquisito. Tale scansione sembra inevitabile, necessaria;
ma si tratta appunto di una delle antiche (apparenti) necessità che dobbiamo
avere il coraggio di mettere in discussione. Lo richiede la rivoluzione
copernicana di cui ho parlato, quella che dobbiamo compiere per superare (non
risolvere) il «problema» della disoccupazione.
[
… ]
Nella
visione tradizionale, la disoccupazione è un fatto negativo (come dice la
parola stessa, profondamente imbevuta di teoria), da affrontare ed eliminare
sostituendole il suo opposto, il fatto positivo dell' occupazione. Ma se
rovesciamo questa prospettiva e questo implicito giudizio di valore potremo
gettare sull'intero contesto una luce nuova, che ci faccia vedere la
disoccupazione endemica (e l'abuso di droghe, e la televisione, e la violenza
immotivata e indiscriminata) come l'affiorare (finalmente! e con tutte le
sofferenze del caso) della nostra vocazione, del nostro stesso essere. Il
concetto invocato da tutti questi fenomeni ha ricevuto finora per motivi
accidentali scarsa attenzione e adesso, in circostanze mutate, tenta di
imporsi, salvo che noi continuiamo a leggerlo e a trattarlo con gli occhi e gli
strumenti di sempre.
Sto
parlando del tempo libero, ossia dell' autentico tema della nostra epoca. E ne
sto parlando, sarà bene ripeterlo, non perché la nostra epoca abbia creato
questo tema, ma perché per la prima volta ce ne ha presentato il significato
essenziale. Quale potrebbe essere il tempo in cui quel che siamo si realizzerà
più direttamente? Non sarà forse quello in cui siamo più liberi di essere noi
stessi: il nostro tempo libero, appunto?
[
… ]
Secondo
l'antropologia tradizionale cui mi oppongo i bisogni sono parte costitutiva del
nostro essere. Il tempo libero, allora, è un' appendice superflua, un
ghirigoro, uno svolazzo gratuito, un errore in senso etimologico: nel senso
cioè del risultato di un errare, di un andare a spasso, senza meta, senza
scopo, senza utilità. Che vuole anche dire: senza dignità, perché m questo
modello hanno dignità solo le cose utili, le cose che soddisfano un bisogno.
Donde la profonda mancanza di dignità del tempo libero, abbandonato in pratica
all'indolenza e all'idiozia e dimenticato nella teoria anche da quei pensatori
che più hanno contribuito a rivoluzionare società e individui.
[
… ]
Nella
nuova antropologia che sto proponendo, sono i bisogni a costituire una
distrazione. Tanto continua e invadente da nascondere per millenni con grande
efficacia la vera natura del nostro essere e da renderla irriconoscibile anche
quando il progresso tecnologico ce l'ha messa davanti agli occhi, ma comunque
una distrazione: un problema, questo sì, da risolvere il più presto possibile
per poterei quindi dedicare a noi stessi, cioè alla crescita di quella
molteplicità, di quella diversità, di quel dialogo che noi siamo e che con il
suo crescere ci porterà a sviluppare e articolare la nostra umanità.
[
… ]
Parliamo
invece di normalissimi padri e madri di famiglia regolarmente occupati (e
sobri). La loro vita media si sta allungando e così, all' altra estremità della
fase produttiva, si spalanca una seconda infanzia anche più lunga della prima.
Che cosa ci sta dicendo questo fenomeno? Quale lezione fa di tutto per
offrirci? Che d'ora in avanti il valore e la dignità di una vita umana si
decideranno soprattutto in base al valore e alla dignità del suo tempo libero.
Che forse, anzi, è sempre stato così; ma adesso finalmente avere valore e
dignità non è più un lusso per pochi. O almeno non è necessario che lo sia.
Possiamo
rifiutarci di usare questa opportunità e continuare a pensare al tempo libero
come a un'escrescenza insignificante cui non prestare soverchia attenzione; cui
riservare i rimasugli più scalcinati della nostra attenzione e del nostro
impegno, della nostra energia e inventiva. Ci prendiamo un sacchetto di
patatine e il telecomando e ci guardiamo tutti i programmi sul campionato di
calcio. Oppure possiamo prendere a prestito la strategia del bambino: giocare
anche da adulti come fa lui, imparando. Ampliando cioè il cast della nostra
recita, aggiungendovi sempre nuovi ruoli e personaggi, sviluppando questi
personaggi in tutte le loro potenzialità.
Le
due antropologie che si stanno confrontando qui sono perfettamente allineate
con queste due diverse tendenze. Secondo l'una, è l'adulto (tradizionalmente
inteso) a dirci la verità sul bambino. Il bambino non capisce il bisogno, non
si rende conto delle spiacevoli esigenze della vita, di quelle spiacevoli
esigenze che sono la vita. Occorre fargli capire, farlo maturare,
irreggimentare il suo istinto ludico in un' attività funzionale. Secondo
l'altra, è il bambino invece a dirci la verità sull' adulto. Perché il bisogno
è estrinseco, alieno, non è quel che siamo: impone un'interruzione nella
costruzione di quel che siamo. E, appena termina l'interruzione e possiamo
riprendere le fila della nostra vita (perché la settimana lavorativa ha
termine, perché siamo andati in pensione), appena possiamo agire in libertà, il
bambino riemerge, pronto a giocare come una volta e ad apprendere come una
volta attraverso il gioco. La divisione della vita umana in una fase
preparatona e una fase produttiva, in cui la prima riceve il suo valore e
significato dal servizio che presta alla seconda, non è dunque un destino
inevitabile: è frutto di un certo modo di vedere le cose, e di vedere noi
stessi, ma quel modo non è l'unico e alle sue conseguenze è possibile sfuggire.
[
… ]
Si
è parlato tanto di pensioni nel nostro Paese, per anni: l'aumento dell'età
necessaria per conseguire tale beneficio, gli scandali dei baby pensionati e
delle pensioni d'invalidità. Non è un caso, perché su questo tema si scontrano
schizofrenicamente tendenze opposte dell' attuale modello di sviluppo. Da un
lato una società che ha come suo valore fondamentale la produzione non può non
dissociarsi con fermezza da chiunque voglia sfuggire troppo presto e troppo
facilmente ai suoi compiti produttivi. Dall' altro però è difficile trovare
qualcosa di utile da fare per tanta gente; dunque una soluzione abbastanza
ovvia è mandare qualcuno a casa (e mantenerlo; altrimenti questa mossa
equivarrebbe a una condanna a morte). In una società che ponga invece il tempo
libero al centro dell'interesse e veda la produzione come strumentale a un suo
uso valido e creativo (non viceversa), il pensionato non sarebbe un estraneo o
una fonte di disagio; tutti, anzi (ecco il paradosso!), dovremmo ragionare un
po' da pensionati per tutta la vita, imparare a ragionare così.
[
… ]
Vedremo
allora un filo rosso unire la nostra infanzia, in cui sperimentazione e gioco
sono goduti con l'incoscienza dell'istinto, a tutte le varie isole di libertà
della nostra esistenza matura, in cui dovremmo educarci a giocare con
cognizione di causa, per emergere infine all' altro estremo, nella nostra
seconda infanzia, come esseri umani pienamente consapevoli di questa attività
fine a sé stessa e del suo valore.
[
… ]
Non
ho obiezioni da fare al concetto generale di scambio. Tutt' altro: lo scambio è
socializzante; il mercato, oltre a soddisfare i nostri (veri o presunti)
bisogni, ci unisce rendendoci interdipendenti, facendoci incontrare e trattare
gli uni con gli altri. Nel caso estremo (e, come ho detto, molto istruttivo)
degli Stati Uniti, in cui the art of the
deal è il modello dichiarato di ogni attività umana, le persone, e in
particolare i giovani, non hanno letteralmente nessun altro modo di trovare
compagnia che incontrarsi in un centro commerciale (un costume ormai arrivato
anche in Italia). È deprecabile che sia così, che non ci siano altre forme di
socializzazione; ma visto che è così non possiamo che rallegrarci se il centro
commerciale adempie anche a questo compito.
Dunque
non è lo scambio in sé il problema: è invece il tipo di scambio cui l'economia
moderna ha ristretto il suo interesse. Per chiarire quel che intendo, torniamo
alla definizione di merci e denaro di due pagine fa: «oggetti che fungono
soltanto da termini di uno scambio». Siccome ho già indicato di non approvare
la centralità di merci e denaro, c'è chiaramente qualcosa in questa definizione
che intendo respingere. Secondo l'interpretazione regressiva suggerita poc'
anzi, dovrebbe essere lo scambio; ma ho appena dichiarato che non è così. Qual
è allora il mio obiettivo polemico? Sono gli oggetti; è il limitare lo scambio
a uno scambio di oggetti.
Lo
scopo di un' economia illuminata è il comune benessere: il ben essere, cioè,
della comunità. Ma in che cosa si traduce questo ben essere, in che cosa può
tradursi visti i limiti strutturali dell' economia moderna? Nella distribuzione
(equa, si presume) fra i membri della comunità di un certo numero di oggetti.
Il ben essere, insomma, non è altro per l'economia moderna che un ben avere. E
questo perché l'essere dell'uomo che è protagonista di quell' economia è stato
a sua volta ridotto a un avere: si estende tanto quanto il suo raggio
d'influenza e di controllo, quanto l'ambito di oggetti di cui può disporre
secondo la sua volontà.
[
… ]
In
questa forma di vita, la gioia che testimonia l'accresciuta pienezza dell'
essere si manifesta tutta insieme nell'istante dell'acquisizione, nel momento
in cui si può gridare «È mio!». La sua concentrazione in questo singolo istante
le conferisce un'intensità estrema, una natura quasi di scossa elettrica. Ma
appena l'istante è passato anche la gioia è passata: siamo gli stessi di prima,
vuoti come prima, con un oggetto (probabilmente inutile) in più.
[
… ]
Che
cosa succederebbe se non riducessimo l'essere all' avere, se invece che intorno
a oggetti inerti e passivi lo costruissimo intorno a un' attività di costante
ricerca, sperimentazione e confronto? E, per tornare al tema da cui eravamo
partiti, quali scambi sarebbero appropriati a questa diversa concezione dell'
essere umano?
Uno
scambio di oggetti è un gioco a somma zero, in cui se uno vince l'altro perde,
anzi uno può vincere solo quel che l'altro perde. Il risultato più equo di un
gioco simile è un pareggio: una situazione in cui non perde nessuno ma anche (e
qui sta il problema) nessuno vince. Se, prima di uno scambio tra A e B, A ha un
certo valore V e B ha un certo valore W (il che vuol dire, in questo modello: A
possiede oggetti di valore V e B possiede oggetti di valore W), l'esito migliore
(più giusto) che possiamo aspettarci è che dopo lo scambio A continui ad avere
valore V e B continui ad avere valore W. Il meglio che possa accadere è che
tutto rimanga com' era: qualsiasi variazione nelle condizioni iniziali sarebbe
iniqua. (Ammettendo per amor di discussione che le condizioni iniziali fossero
eque; se non lo erano, uno scambio non alla pari potrebbe essere necessario per
riequilibrarle.)
[
… ]
È
solo quando l'essere non si riduce all'avere che diventa davvero possibile
vincere insieme. Supponiamo che io sappia il latino e tu l'analisi matematica.
Entrambe queste conoscenze aggiungono una voce (intesa nel senso che ho
spiegato prima) al nostro repertorio. lo posso pensare al mondo in assenza di
articoli, in una lingua in cui «uomo», «l'uomo» e «un uomo» sono esattamente la
stessa espressione e quindi non c'è una differenza netta e radicale tra un
concetto e i suoi esempi. Tu sei in grado di tradurre vasche che si riempiono
d'acqua e palloncini che esplodono in funzioni continue, limiti ed equazioni
differenziali. Per ciascuno di noi, la voce che abbiamo a disposizione è parte
preziosa della nostra persona, fa di noi qualcosa di più, che è di più, che ha
un essere più articolato e complesso. E adesso immaginiamo di investire i
prossimi due anni in un progetto di educazione reciproca. Ci troviamo tutte le
sere, una volta a casa mia e una volta a casa tua, e ci insegniamo l'un l'altro
l'analisi matematica e il latino. Sarà faticoso, ma non più di quanto lo siano
lavorare a una catena di montaggio, affettare prosciutti in un supermercato o
andare in giro vendendo polizze di assicurazione, e probabilmente sarà molto
meno noioso.
A
un certo punto entrambi sentiremo che siamo in grado di muoverci da soli nel
nuovo elemento, che la nuova voce ha cominciato a parlare dentro di noi. Non
saremo diventati degli esperti, ci sarà ancora molto che dobbiamo imparare, ma
potremo cominciare a procedere senza stampelle, senza aiuto esterno; potremo
continuare la nostra educazione in prima persona. A questo punto ci lasciamo:
lo scambio è finito. Quale ne è il
risultato? Che entrambi sappiamo l'analisi matematica e il latino, entrambi
abbiamo quel che l'altro aveva (o era), ma senza che l'altro abbia perso nulla
di suo.
[
… ]
Uno
scambio di questo genere mantiene, anzi accentua, la sua funzione
socializzante. Non si tratta più di un incontro effimero fra estranei, che
diventano momentaneamente interessati l'uno all' altro per ripiombare subito,
appena si è realizzato il trasferimento di proprietà, nella reciproca
indifferenza. È invece un sodalizio esteso nel tempo, che promuove una
familiarità ad ampio raggio e consente una comunicazione e un' educazione a più
livelli, perché quando si sta tanto insieme si farà viva in ciascuno più di una
voce. La socializzazione permessa dal mercato può essere considerata un caso
limite di quest'esperienza più vasta: il contatto si riduce a un istante privo
di dimensioni perché i due esseri che entrano in contatto sono a loro volta
punti privi di dimensioni e di struttura, puri centri di forza essenzialmente
identici l'uno all' altro (perché identicamente puntiformi) e distinguibili
soltanto attraverso quel che non sono e che per caso si trova in loro possesso.
Tornando al bambino che gode dei regali di Natale con un orgasmo immediato e
subito spento, pensate a che differenza farebbe se il regalo fosse invece una
gita fatta insieme, un pomeriggio passato insieme a leggere storie, o a
scriverne.
Quel
che avevo giudicato apprezzabile nello scambio di merci e denaro (lo scambio basato
sull' avere) è dunque presente in misura ancor più rilevante in questo scambio
di abilità e conoscenze (uno scambio basato sull'essere). Inoltre, come abbiamo
visto, quel che viene così scambiato rimane a disposizione di tutti i
partecipanti, nessuno è costretto a farne a meno. Il prossimo passo (che è
implicito in tutto quel che ho detto, ma occorre esplicitare) consiste nell'
attribuire valore decisivo a queste abilità e conoscenze, e all' attività, all'
essere, in cui si esprimono e si sviluppano, togliendolo invece agli oggetti,
che d'ora in avanti avranno valore solo in quanto inseriti in un' attività,
indispensabili al dispiegarsi di una conoscenza e così via - cioè solo in modo
strumentale. Questo passo trasformerà radicalmente il nostro ambiente etico:
quel che conta per noi, nell' ambiente, saranno gli altri repertori di abilità
e di conoscenze cui abbiamo accesso e soprattutto gli altri esseri umani da cui
possiamo imparare qualcosa (eventualmente, per chi abbia affinato notevoli
capacità di evocazione, anche gli altri esseri umani assenti cui abbiamo
accesso mediante un testo). E l'economia diventerà la disciplina che gestisce
in modo razionale il nostro rapporto con questo ambiente (perlopiù) umano.
[
… ]
La
disoccupazione endemica dei Paesi occidentali non è un problema nello stesso
senso in cui lo sono gli esercizi in un libro di fisica: una domanda cioè cui
trovare risposta sulla base della teoria enunciata nel libro. È invece un'
anomalia, un sintomo che quella teoria si sta scontrando con suoi limiti
costitutivi. Finché l'essere di uomini e donne sarà identificato con il
possesso e il controllo di oggetti e gli scambi che hanno valore per gli esseri
umani saranno limitati a scambi di oggetti, fondati sul bisogno che gli esseri
umani ne hanno, sarà inevitabile scontrarsi con la finitezza delle umane
risorse e degli umani bisogni; quindi inevitabilmente molti esseri umani si
troveranno privi di ogni valore, ridotti a non-persone superflue, da eliminare
nel modo più indolore possibile. Per superare questo «problema» occorre
cambiare paradigma: ridefinire l'essere di uomini e donne in termini di
attività, più precisamente di un' attività di articolazione e sviluppo di
molteplici abilità e conoscenze, e dichiarare che gli scambi di queste abilità
e conoscenze sono quelli che hanno valore per gli esseri umani. Che cosa
succede al problema della disoccupazione in questo nuovo paradigma? Molto
semplicemente, sparisce, non perché tutti siano occupati nel vecchio senso ma
perché essere occupati in quel senso non è più di importanza fondamentale,
perché un' occupazione nuova ha preso il sopravvento e, come risultato, tutti
siamo perpetuamente occupati nell' educarci, nel potenziare il nostro ben
essere - inteso stavolta in modo non riduttivo.
[
… ]
In
America (ancora una volta) i mezzi di comunicazione trattengono visibilmente il
fiato quando si avvicina Natale, perché si solleva per tutti un interrogativo
angoscioso: quante cose inutili si compreranno? Oltre il cinquanta per cento
degli acquisti annuali si bruciano in quelle poche settimane; decine di
migliaia di esercizi commerciali, semivuoti in qualsiasi altro periodo, si
giocano in quel momento la propria sopravvivenza. Se la gente non compra è
finita.
Queste
ridicole perversioni fanno parte del tentativo costante di trasformare
l'insieme dei nostri bisogni, stiracchiandolo in modo inverosimile, in un
insieme infinito. Nella nuova antropologia che ho proposto, tali sforzi penosi
non sono necessari, perché l'insieme di conoscenze e abilità che ognuno di noi
può acquisire è di fatto potenzialmente infinito.
[
… ]
Ho
cominciato con una teoria metafisica circa l' essenza dell'uomo (e della
donna); poi, inserendo il concetto di valore (valorizzando cioè quell'essenza,
approvando il suo indefinito crescere e potenziarsi), sono passato all'etica. A
questo livello, dunque, la mia posizione è la seguente: è bene che ciascun
essere umano occupi la maggior parte possibile del proprio tempo (della propria
vita) nell'arricchimento costante di quel repertorio di voci che costituisce la
sua natura, ossia nell' apprendimento costante di nuove abilità e conoscenze,
quindi è bene per lui (o lei) partecipare il più possibile a scambi di abilità
e conoscenze con altri esseri umani. Gli oggetti e gli scambi fra oggetti vanno
considerati strumentali al conseguimento di tale scopo. Ma questa ingiunzione
etica non può essere seguita con successo a livello puramente individuale, ed è
così che dall' etica passiamo necessariamente alla politica.
[
… ]
Uno
Stato esiste per molte ragioni: per garantire la sicurezza dei cittadini, per
facilitarne la produzione e i commerci, per aggregare le loro risorse in
progetti d'interesse comune. Ma la ragione fondamentale della sua esistenza, il
suo compito definitorio, la sua vocazione è promuovere il loro sviluppo etico:
agire in modo che essi diventino (e vogliano diventare) gli esseri umani
migliori possibile. L'autorità che fonda uno Stato gli è conferita dall'impegno
che ciascun cittadino assume nei suoi confronti, dunque uno Stato che non
faccia del suo meglio per procurare il ben essere dei cittadini sta tradendo la
fonte stessa della sua autorità e sta così dichiarando la sua inconsistenza e
inettitudine
Nella
tradizione liberale degli ultimi due secoli questa tesi è stata regolarmente
osteggiata, sostenendo che lo Stato non può avere funzioni educative: che il
suo compito è quello minimale di fornire certi servizi e lasciare campo libero
all'iniziativa e ai valori individuali.
[
… ]
Uno
Stato che dichiari di non impegnarsi sul piano educativo educherà lo stesso:
educherà al nulla. Evitando di prendere posizione a favore di qualsiasi
concezione sostanziale della natura e del bene degli esseri umani, favorirà
implicitamente una riduzione di questa natura e questo bene al minimo comun
denominatore, il che è quanto dire: a una natura e a un bene umani totalmente
privi di contenuto.
[
… ]
Ogni
Stato è consono a un certo tipo umano, lo valorizza e ne favorisce così la
diffusione; in ogni Stato prospera il tipo umano a esso consono. Lo Stato
liberale, con il suo ideale educativo vuoto, è perfettamente consono al tipo
umano vuoto che ho descritto nel secondo capitolo: un individuo dall' esistenza
puntiforme, privo di dimensioni e di struttura, il cui essere si riduce a un
avere e il cui benessere si riduce alla continua acquisizione di oggetti alieni.
Se è questo tipo umano che scegliamo di valorizzare, se è su questo che
decidiamo di fondare la nostra etica, lo Stato liberale riceverà la sua
giustificazione dalla nostra scelta; ma occorre difendersi dalla subdola
menzogna di chi pretende che non sia necessaria alcuna scelta, che tale Stato
possa essere giustificato con un semplice colpo di bacchetta magica.
Sulla
base della nostra antropologia e della nostra etica, troveremo autorevole un
certo tipo di Stato, quello che fa fiorire al meglio nei suoi cittadini gli
aspetti cui assegniamo valore. Se la nostra antropologia concepisce gli esseri
umani come ciascuno incline a una specifica attività e la nostra etica
attribuisce il massimo valore al fatto che ciascuno svolga con completa
dedizione l'attività cui è naturalmente incline, lo Stato cui daremo il nostro
assenso sarà affine alla repubblica platonica. Se la nostra antropologia
concepisce gli esseri umani come instabili unioni di un' anima immortale con un
corpo mortale e la nostra etica attribuisce il massimo valore al fatto che
l'anima rimanga esente da ogni contaminazione con le attività e i desideri del
corpo, il nostro Stato ideale sarà una specie di comunità monastica, votata al
sacrificio e all' ascesi. Se la nostra antropologia concepisce gli esseri umani
in termini di teoria dei giochi, come dotati
di un certo numero di preferenze e come tesi unicamente a soddisfare
queste preferenze a spese degli altri concorrenti, e la nostra etica si riduce
ad affermare che chi vince ha sempre ragione, il nostro Stato «liberale»
somiglierà a un casinò «senza fini di lucro»: si eliminino tutti gli ostacoli
affinché i giocatori possano affrontarsi al riparo da ogni distrazione.
[
… ]
Ecco
dunque una formulazione il più possibile limpida e netta della politica in cui
culminano l'antropologia e l'etica dei capitoli precedenti. Esistono bisogni
irrinunciabili per gli esseri umani: il cibo, per esempio, una casa, dei
vestiti, la gestione della salute e degli handicap. Lo Stato deve fare in modo
che questi bisogni siano soddisfatti; in particolare deve garantire la
produzione degli oggetti necessari per la loro soddisfazione. Ma questi bisogni
non costituiscono l'essenza dell'umanità; non ne fanno nemmeno parte. Sono
invece condizioni necessarie perché tale essenza possa realizzarsi; lo sviluppo
del modo d'essere umano comincia solo quando tacciono i bisogni. Lo Stato deve
consentire a tutti i cittadini la realizzazione della loro essenza; il lavoro
necessario per la soddisfazione dei bisogni va inteso come una corvè di
carattere strumentale e va suddiviso equamente. Stabilito di comune accordo
quanto di questo lavoro sia richiesto, ognuno farà la sua parte. E la farà, si
badi bene, non in quanto produttore di merci destinato a ricevere un compenso
in denaro che possa a sua volta essere scambiato con altre merci e così via: in
questo Stato non ci saranno merci, perché non saranno gli oggetti a essere
scambiati, dunque non ci sarà neanche denaro.
Già
oggi, con la settimana lavorativa a quaranta ore, siamo tutti disoccupati la
maggior parte del tempo Quando il lavoro necessario fosse diviso fra tutti,
l'entità di tale disoccupazione aumenterebbe; le prestazioni d'opera richieste
dalla comunità occuperebbero una minima parte del tempo disponibile a ognuno.
Ma il compito dello Stato non finirebbe qui; anzi, si può dire che sia qui che
cominci. Perché a questo punto lo Stato dovrebbe (cioè tutti noi, insieme,
dovremmo) rivolgere la sua (la nostra) attenzione a un uso davvero umano del
tempo rimasto: del tempo libero.
Da
questo punto in avanti, lo Stato va concepito come un gigantesco istituto di
ricerca, con le seguenti funzioni fondamentali:
(1)
incoraggiare lo scambio di abilità e conoscenze diverse;
(2)
facilitare il contatto fra persone di abilità e conoscenze affini e favorire la
formazione di gruppi d'interesse che perseguano l'articolazione, il
perfezionamento e lo sviluppo di una particolare abilità o conoscenza;
(3)
aggregare gruppi d'interesse fra loro compatibili intorno a progetti comuni;
(4)
mantenere costantemente aperto un laboratorio di idee cui chiunque possa
contribuire e da cui spesso emergeranno i progetti aggreganti di cui al punto
(3); (5) provvedere le infrastrutture necessarie per un'efficace realizzazione
di (1)-(4).
Chiuderò
con una serie di commenti esplicativi su (1)-(5). .
(1)
La divisione del lavoro è forse il concetto più ampiamente condiviso nella
filosofia della politica; è fondamentale per le proposte di autori peraltro
diversissimi, quali per esempio Platone e Adam Smith. Sembra esserci qualcosa
di irresistibile nell'idea che ciascuno svolga l'attività per cui è «tagliato».
Io rinnego quest'idea, e con essa la divisione del lavoro: è d'importanza
decisiva, per quel che penso gli esseri umani siano e debbano essere, che
ciascuno faccia molte cose per cui non è tagliato. La divisione del lavoro si
accorda a perfezione con una concezione della vita umana come strumentale a
qualcos'altro: qualcosa che non è quella stessa vita. Tutti vogliamo che i
nostri strumenti siano efficienti: che i nostri coltelli taglino, le nostre
biro scrivano, le nostre lampadine si accendano. Se pensiamo a un essere umano
come a uno strumento, lo vogliamo altrettanto efficiente, vogliamo anzi che sia
il migliore strumento possibile per la sua funzione: sicuro, rapido,
disinvolto, anche elegante. Se così non fosse, gli preferiremmo qualcun altro.
Compreremmo un' altra biro.
Ma
un essere umano è un fine e non un mezzo; il suo fine è sé stesso, e se «sé
stesso» vuol dire ricchezza e diversità, confronto e dialogo, allora egli
realizzerà il suo fine anche imparando voci che non gli vengono naturali, che
per quanti sforzi faccia non supereranno mai il livello di un imbarazzato
balbettio. Anzi, realizzerà meglio il suo fine imparando voci così, perché la
diversità sarà esaltata dal suo sforzo e imbarazzo, perché sforzo e imbarazzo
chiariranno senza possibilità di malintesi che si tratta di voci altre, diverse
da quella che gli viene naturale, e insieme che quest' altro, questo diverso
sono parte di lui. Mi è sempre capitato di imparare di più dalle cose che
faccio male, anzi potrei dire che imparo solo finché una cosa la faccio male:
quando eventualmente comincio a farla bene non imparo più nulla. li che ovviamente
non farà differenza per chi ritenga che imparare non sia il valore
determinante: che invece tale valore sia funzionare. Ma ho già affermato più
volte che per me non è così.
[
… ]
(2) Nell'economia di mercato, una delle
funzioni fondamentali dello Stato è quella di costruire, conservare e
proteggere canali che permettano lo scambio di merci e denaro. Nella nuova
economia proposta qui, gli scambi continuano a svolgere un ruolo essenziale;
dunque lo Stato continua ad avere il compito di costruire, conservare e
proteggere canali adeguati. Ma non ci sono più merci e denaro, quindi si
scambiano entità diverse, quindi i canali hanno una diversa struttura. Ancora
una volta, questa diversità può essere espressa nel modo più chiaro indicando
il rovesciamento di valori in atto. Tanto nel vecchio quanto nel nuovo sistema,
i canali devono permettere sia il trasporto (di oggetti) sia la comunicazione;
ma nel vecchio sistema il trasporto è il valore dominante e la comunicazione
gli è funzionale (ci devono essere un servizio postale, linee telefoniche e
quant'altro perché si possano ordinare e consegnare delle merci), mentre nel
nuovo è esattamente l'inverso. Qui si tratta innanzitutto di rendere
reciprocamente accessibili delle persone perché possano mettere in comune
(comunicarsi) le loro esperienze, e talvolta mettere in comune queste
esperienze sarà impossibile senza trasportare oggetti (o magari le persone
stesse). Un gruppo di attori che scopra un comune interesse nel recitare
Shakespeare non potrà praticarlo senza trovarsi fisicamente nello stesso posto
e senza convogliare in quel posto costumi e scene; ma il trasporto degli
oggetti va inteso come condizione necessaria per l'aspetto davvero qualificante
della situazione - il perseguimento e sviluppo del comune interesse per
Shakespeare.
Si
notino inoltre due cose. Primo, viaggi in capo al mondo spesso non saranno
necessari. Lo sono nel modello corrente, con il suo mito del perfetto
strumento: l'esperto, lo specialista, il tecnico. Oggi ci sembra impossibile
fare della musica senza invitare il celeberrimo maestro X o discutere di
biologia senza l'esimio professor Y, così X e Y continuano a girare
vorticosamente di qua e di là offrendo perlopiù delle due l'una: o prestazioni
che il pubblico non è in grado di apprezzare (perché non è a quel livello)
oppure banalità che il pubblico avrebbe potuto scoprire da solo. E i costi
aumentano a dismisura. I gruppi d'interesse di cui sto parlando, invece,
avrebbero spesso una dimensione locale e approfondirebbero un problema o un
progetto finché, eventualmente, non si arrivasse al punto di poter usare con
profitto, su un argomento specifico, l'esperienza di qualcuno che ne sa di più,
e solo allora diventerebbe opportuno un viaggio.
Secondo,
questo riunirsi di persone con interessi affini (in un gruppo di lettura, una
filodrammatica di quartiere, un coro, un torneo di calcio o di boccette) è
complementare all' allargamento delle prospettive di cui si è discusso sopra in
(1), ed entrambi gli aspetti sono indispensabili. L'allargamento non deve
essere superficiale: in ogni caso si deve cercare di andare il più a fondo
possibile, o la voce che si apprende non avrebbe peso e non darebbe un
contributo significativo alla propria «conversazione», e anche
l'approfondimento (come l'allargamento) della propria personalità è uno scopo
che si persegue al meglio insieme.
(3)
Se il bene dell'uomo è un' attività, i cittadini del mio Stato ideale non
potranno limitarsi a trasmettersi contenuti; i contenuti stessi che verranno
trasmessi non saranno che istruzioni potenziali per un' azione pratica, per
un'esperienza che coinvolga tutto il loro corpo e tutte le loro energie.
Nell'economia di mercato domina sempre più la concezione di una cultura
costituita da pacchetti informativi: ancora una volta merci, insomma, da
scambiare come ogni altra merce e accumulare come ogni altra forma di capitale.
Sarebbe possibile descrivere l'economia che sto proponendo come culturale:
centrata sulla produzione e sullo scambio di cultura. Ma questa descrizione va
intesa correttamente: la cultura che ha corso qui non si può comprare e
vendere, si può solo vivere. Leggere insieme Shakespeare è già un modo di
partecipare in prima persona (certo più che assistere a una commedia), ma
recitarlo lo è ancora di più; studiare insieme la biologia molecolare o il
latino è senz' altro un comportamento attivo, ma non quanto fare piccoli
esperimenti di laboratorio o comporre esametri. Senza contare che recitare è il
modo migliore di leggere e sperimentare è il modo migliore di studiare. Abilità
e conoscenze devono essere costantemente messe in pratica in progetti, in
attività specifiche e concrete, e lo Stato deve (tutti noi dobbiamo) sostenere
questo sviluppo: invitare costantemente ognuno (inclusi noi stessi) a passare
dal dire al fare.
(4)
Nell'economia di mercato, i bisogni dominano il mondo delle idee quanto ogni
altro. Se vi viene in mente un'associazione suggestiva, un'ipotesi fantasiosa,
e cercate di pubblicarla, di offrirla cioè al pubblico, di condividerla con
altri, cosicché questi altri possano a loro volta ricamarci sopra, la risposta
è sempre la stessa: «Dammi un motivo per cui dovrei starti a sentire». Un
motivo per cui, cioè, ho bisogno di starti a sentire, non posso fare a meno di
starti a sentire, soffrirei se non ti stessi a sentire. Nella maggior parte dei
casi, motivi del genere non sono disponibili, dunque l'idea sarà considerata
inutile e i canali della comunicazione le verranno negati.
Nel
mio Stato ideale, tutte queste strane idee verrebbero religiosamente conservate
e messe a disposizione del pubblico. Senza conferire a nessuno marchi o
brevetti, sia ben inteso, perché non si tratta di merci e nessuno ne è il
padrone. Pubblicare tornerebbe a essere, come era nel Medioevo, una forma di
generosità; e ciascuno di noi sarebbe incline a mostrarsi generoso perché, in
cambio del suo piccolo contributo all'immaginario collettivo, si troverebbe a
disporre delle immense risorse di quell'intero immaginario.
(5)
Gli attori hanno bisogno di un teatro, i musicisti di strumenti, gli scienziati
di laboratori; anche i partecipanti a un gruppo di lettura hanno bisogno di una
stanza, un tavolo e qualche sedia. Per fornire queste infrastrutture ai gruppi
d'interesse, lo Stato dovrebbe dunque promuovere la realizzazione di molti
altri oggetti, oltre a quelli deputati a soddisfare bisogni. Si notino però i
due punti seguenti.
Primo,
si tratterà di una produzione funzionale ai progetti esistenti e in generale
limitata. Se c'è bisogno di sei tuniche per rappresentare un dramma, o di
cinque provette per portare a termine un test, si produrranno sei tuniche e
cinque provette; poi basta (per il momento; più avanti potrebbero servirne
ancora). Ci sarà chi ribatte che questo è un modo poco efficiente di produrre:
che ciascuna tunica costerebbe di meno se ne producessimo a migliaia.
Osservazioni così mi ricordano una storia che lessi su Topolino quando avevo
otto o nove anni: Pippo va al supermercato per comprare una scatola di fagioli
e torna con una montagna di scatole. Topolino gli chiede che cosa ha combinato
e Pippo risponde: «Se compri venticinque scatole te ne regalano una». Mettiamo
pure che una tunica costi meno se ne produciamo mille; ma se a noi ne servono
sei che cosa ce ne facciamo delle altre novecentonovantaquattro? Non è forse
vero che questa sovrapproduzione causa a sua volta dei costi: di inventario, di
pubblicità (per convincere la gente a comprare più tuniche), eventualmente di
distruzione delle tuniche rimaste inutilizzate?
Secondo,
anche in questo tipo di produzione la divisione del lavoro andrebbe ridotta al
minimo. Incoraggiamo gli attori a cucirsi le tuniche, gli scienziati a
fabbricarsi le provette. Come sempre accade quando il lavoro non è diviso, si
produrranno così meno tuniche e meno provette; ma quel che ci interessa non è
il numero di oggetti che realizziamo, è la ricchezza della nostra persona, è la
nostra umanità, e un attore che indossa una tunica che ha cucito lui stesso ha
imparato a parlare con almeno due voci diverse.
[
… ]
risposte a possibili obiezioni
Su
queste cose molti avranno da obiettare: fra loro ci sono alcune delle stesse
voci che parlano dentro di me, alcune delle persone che ho incontrato e con cui
ho discusso le mie idee, e alcuni fra quelli che mi leggono. D'ora in avanti,
dunque, darò loro la parola; formulerò le loro obiezioni e le mie risposte.
Nessuna risposta sarà definitiva, tutte anzi genereranno ulteriori domande e
queste domande, e le risposte che io stesso o altri saremo in grado di fornire,
potrebbero estendere la conversazione ben al di là dell'ambito di questo lavoro
[
… ]
obiezione:
La mia posizione è quella tipica di
un occidentale viziato; anzi, di un membro particolarmente viziato di una
società occidentale. nella maggior parte del mondo (inclusa buona parte
dell'area in cui vivo) mancano il cibo, l'acqua potabile, vaccini per le malattie
infantili. Perché allora speculare su comeeal limite» i bisogni primari
scomparirebbero? Perché costruire un'antropologia sul tempo libero, sull'uso
gratuito delle proprie risorse, quando la grande maggioranza del genere umano è
priva di quanto essa considera indispensabile? Non è un lusso colpevole, un
invito analogo a quello di maria antonietta: «se il popolo non ha pane, che
mangi brioche!»?
Cominciamo
con l'indebolire questa obiezione introducendo un sospetto: si morirebbe forse
di più nel Terzo Mondo (incluso il Terzo Mondo di casa nostra) se noi tutti che
facciamo parte del Primo Mondo ci occupassimo di attività fini a sé stesse e
provviste di una loro dignità invece di cercare il nostro destino nell'
acquisto indiscriminato di beni di consumo? O non è forse vero che quelli che
ci raccontano queste storie, e vogliono farci sentire in colpa perché diamo
peso al nostro essere in mezzo alle generali sofferenze, sono persone che delle
sofferenze altrui se ne fregano e usano il nostro senso di colpa (agitando lo
spettro dell' emergenza) per metterei in difficoltà e continuare a fare i
propri comodi? Questa mossa sarebbe coerente con la strategia pubblicitaria più
comune: se volete vendere un deodorante o una bibita mostrate a tutti un corpo
perfetto, convinceteli che manchi loro qualcosa se il loro corpo (come è assai
probabile) non somiglia al modello e quindi offritevi di risolvere con il
vostro prodotto il disagio che a questo punto ciascuno sente nei propri
confronti. Ma consumare a più non posso è tanto poco una risposta ai mali
dell'umanità quanto a quelli di ogni suo membro e chi suggerisce altrimenti ha
qualcosa da nascondere (o da vendere).
Si
può andare anche più in là, in una direzione più positiva. Quando scrivevo per
l'Unità, uno dei miei corrispondenti, Piero Leone di Roma, si espresse nel modo
seguente: «Per aumentare la quantità dei consumi indispensabili nel mondo è
necessario migliorare la qualità della vita nel Nord industrializzato». Per
«qualità della vita» non s'intende qui, ovviamente, una maggiore disponibilità
di oggetti ma invece una più alta intensità e partecipazione, un dialogo più
ampio e approfondito tra le varie componenti della propria persona. E l'idea di
Piero potrebbe forse essere articolata così: il consumismo basato
sull'antropologia dei bisogni è una tattica fondamentalmente distruttiva,
perché suggerisce di investire preziosi materiali ed energia in oggetti che
vengono quindi assegnati a singoli individui e che quegli individui (che li
usino o meno) hanno soprattutto il compito (il desiderio? il desiderio come
compito?) di mantenere sotto il proprio controllo - va benissimo se non li
usano mai, purché nessun altro li usi (senza un apposito permesso, che di
solito viene conferito allo scopo di ottenere ulteriori oggetti). (C'è qualcosa
di mortuario in questa pratica: prima investiamo preziose risorse nel far
crescere e sviluppare un corpo umano, poi lo chiudiamo in una cassa di zinco
perché i contatti con l'esterno siano ridotti al minimo, o meglio ancora lo
bruciamo perché non rimanga altro che fumo.) Se il vuoto del nostro essere non
ci legasse in modo nevrotico a oggetti inutili, se questi oggetti non
occupassero ossessivamente il fuoco della nostra attenzione e la nostra vita
non fosse più centrata su di essi (ma sulla propria qualità e struttura), li
lasceremmo andare più facilmente e quanti fra questi oggetti soddisfano bisogni
di altri sarebbero loro più facilmente accessibili.
Mettiamola
in termini elementari. Se ho già tre paia di pantaloni non ho probabilmente
bisogno di comprarne un quarto. Ma se non ho niente da fare, se il mio tempo
libero è vuoto, finirò magari per comprarlo. La soddisfazione derivante dall'
acquisto durerà ben poco; passato qualche minuto (o qualche ora) mi ritroverò
vuoto come prima, risucchiato nello stesso circolo vizioso. Nel frattempo avrò
consumato cotone, metallo (per le fibbie e cerniere), plastica (per i bottoni),
lavoro e macchinari per qualcosa che non mi serve. Moltiplicata per i milioni
di persone che, vuote come me, compreranno come me un quarto e un quinto paio
di pantaloni, questa operazione comporta uno spreco enorme di risorse. Se
ciascuno di noi suonasse invece la chitarra (ci vuole un sacco di tempo per
imparare a suonare bene la chitarra, e dopo non ci sono limiti a quanto tempo
si può passare a suonarla, provandone autentica gioia) o giocasse a dama o
preparasse il pesto (non con il frullatore, perché con mortaio e pestello, il
gusto è proprio diverso): quelle risorse non sarebbero sprecate e dunque altri
potrebbero usarle. (Se l'esempio vi sembra troppo elementare e banale, se
pensate che cotone e plastica non siano poi così indispensabili, riflettete su
quante risorse davvero preziose vengono gettate al vento per realizzare oggetti
di consumo: legno, acqua, petrolio, per non parlare del modo in cui questa
realizzazione deturpa l'ambiente in modo irreparabile.)
E
non è finita. Nelle condizioni attuali, buona parte del nostro tempo «occupato»
è spesa per acquisire cose inutili. Ho già osservato che, in uno Stato più umano,
le prestazioni d'opera richieste per la soddisfazione di bisogni sarebbero più
limitate. Ho notato anche che siamo esseri intrinsecamente sociali; che
l'altro, il diverso ci sono necessari per realizzare la nostra stessa natura.
Potrei aggiungere che ci sono tanto più necessari quanto più sono diversi: che
le voci più radicalmente altre sono quelle di cui abbiamo più bisogno nel
nostro dialogo. E possibile dedurre una conseguenza radicale da queste
osservazioni: che cioè uno Stato più umano tenderebbe necessariamente ad
allargare l'ambito di fruizione delle prestazioni d'opera dei suoi cittadini,
includendovi i cittadini di altri Stati.
Si
è spesso affermato che un sistema economico e politico non può prendere piede
finché ci sono al mondo nazioni rette da un altro sistema: che comunismo e
capitalismo, per esempio, saranno profondamente difettosi finché il mondo
intero non sarà comunista o capitalista. Quest' affermazione è basata su un
atteggiamento difensivo che sconfina nella paranoia: sull'idea cioè che il
nostro sistema non sia in fondo quello preferibile, che lo si possa preferire
solo se non esistono alternative. Una conclusione analoga può essere raggiunta
a proposito del mio sistema, ma per ben altri motivi. Chiunque lo scelga non
potrà esimersi dal contribuire a una sua estensione universale perché non potrà
non concludere che da tutti è possibile imparare e con tutti deve essere
possibile comunicare, quindi tutti devono essere messi nelle condizioni di
farlo. Sarà così con passione che i cittadini del mio Stato ideale decideranno
di investire parte delle loro prestazioni d'opera nella soddisfazione dei
bisogni di cittadini di altri Stati e gradualmente lo Stato diverrà uno
soltanto, non perché si è realizzata una dittatura, del proletariato o del
capitale, ma perché tutti sono coinvolti nella stessa conversazione.
[
… ]
obiezione:
Il mio ottimismo sulla natura umana
è tanto cieco e privo di fondamento che è difficile prendermi sul serio.
presuppongo che uomini e donne non desiderino altro che aiutarsi
reciprocamente; che una volta posti di fronte alla «razionalità» (se poi è
tale) del mio modello noti possano che accettarlo di buon grado; che ciascuno
di loro sia disposto a lavorare con gioia a progetti che arricchiscano la sua e
l'altrui personalità. ma queste sono favole. e ormai un luogo comune che le
basi più profonde del comportamento umano siano irrazionali e anche evitando di
immergerci nelle tenebre dell'inconscio come la mettiamo con il sentimento
(antico, perfettamente consapevole e assai diffuso) dell'invidia? Una persona
avida vuole avere per sé quel che ha un altro, e questo atteggiamento forse lo
potremmo spiegare appellandoci al modello acquisitivo dell'economia di mercato;
ma una persona invidiosa vuole che l'altro perda quel che ha (inclusa la sua
felicità) senza che necessariamente lei lo acquisti. il suo atteggiamento
insomma è soltanto distruttivo e maligno. come faremo a coinvolgere gente così
in progetti di interesse comune? Li interneremo? Li sottoporremo a un lavaggio
del cervello?
Nella
mia antropologia, questa obiezione ha un significato molto diverso che in
quella tradizionale. Chi continui a concepire gli esseri umani come
individuali, come inevitabilmente tesi alla realizzazione di un singolo
«programma» unitario e coerente, sarà incline a formulare per ognuno di loro un
giudizio altrettanto singolare e definitivo. La personalità di X sarà
caratterizzata come benevola e cordiale e quella di Y invece come invidiosa e
maligna, e sorgerà il problema di come limitare i danni prodotti da tipi come
Y. Ma per me un essere umano è molteplice, teatro di un dialogo tra voci
diverse e contrastanti, e il suo comportamento è frutto spesso instabile di
quel dialogo, determinato di volta in volta dalla voce che riesce meglio a
farsi sentire. Anche le persone dal comportamento più amichevole avranno alloro
interno voci perverse; queste sono ineliminabili e ascoltarle (invece di
censurarle) può essere molto utile per evitare di venirne feriti (o di ferire
altri). Non si tratta dunque di isolare quanto c'è di maligno nella natura
umana (o, in modo ancor più semplicistico, di isolare quei particolari esseri
umani che sono maligni), ma di gestire tali elementi in modo efficace.
Detto
questo, sono convinto che la strategia più efficace in proposito sia quella di
far appello in ciascuno a quanto c'è in lui (o lei) di benevolo. Per spiegare
quel che intendo, farò un esempio tratto dalla mia esperienza quotidiana di
insegnante: un esempio formulato nei termini semplicistici di un giudizio su
persone ma dal quale è possibile estrarre una morale indipendente da simili
giudizi.
Ci
sono professori che insegnano in modo difensivo. Non sto parlando di chi ruba
lo stipendio' ma di colleghi che, in tutta onestà, preparano e conducono un
corso preoccupandosi soprattutto degli studenti lazzaroni: di come impedire
loro di farla franca, di come costringerli a studiare. Questi colleghi evitano
di dare troppe spiegazioni, di offrire troppi strumenti pedagogici, di essere
troppo disponibili, perché credono sinceramente che molti ne approfitterebbero
e che dai profittatori occorra difendersi. Conseguono così un duplice
risultato: primo, che gli eventuali profittatori tengono l'intera classe in
ostaggio, condizionando le opportunità offerte a tutti gli altri, e, secondo, che
le pratiche dell'approfittare e del resistere alla profittazione si collocano
al centro dell' attenzione e, come sempre quando a una pratica si dà più
importanza, hanno le migliori occasioni per essere sviluppate ed elaborate nei
dettagli e per giustificare così in misura crescente il loro stesso essere al
centro dell'attenzione.
Assumere
invece che gli studenti seguano il corso perché hanno autentico interesse per
la materia, e rivolgersi loro (sulla base di questa premessa) con passione e
generosità, non significa rifiutarsi di riconoscere che ci siano i lazzaroni;
significa rifiutarsi di far dettare a questi ultimi il clima e la natura degli
scambi intellettuali che in quel corso si realizzeranno. E significa credere
che, meno tempo si passa e meno risorse si investono nell'articolare la
prospettiva di costoro, più questa stessa prospettiva verrà limitata nella sua
crescita e nell'influsso che ha su prospettive a essa contrarie.
Supponiamo
adesso che invece di rivolgerei a una classe ci stiamo rivolgendo a una
«singola» persona. Nonostante il carattere apparentemente individuale del
nostro interlocutore, anche in questo caso abbiamo a che fare con una folla. li
problema dunque è lo stesso: se adottare una strategia difensiva, tesa
soprattutto a' bloccare i personaggi maligni che si agitano in quella folla, o
invece una strategia di generosità, che non permetta loro di impostare i
termini della discussione ma continui invece con tenacia a perseguire un clima
di razionalità e collaborazione. E per questo identico problema la soluzione è
identica: anche qui la seconda strategia è più efficace.
Io
non credo insomma che la natura umana sia benevola; come ho già affermato,
anzi, non credo che essa sia nulla di definitivo. Ma credo che dar voce a
quanto c'è in essa di potenzialmente benevolo sia il modo migliore per
realizzare questa potenzialità: per farla crescere e gradualmente occupare una
parte sempre maggiore della conversazione. Nel disegnare una società possibile,
quindi, tanto quanto nel disegnare un corso, è a quella potenzialità che mi
rivolgo; e chi continua a rivolgersi al suo opposto non fa che contribuire con
il suo stesso comportamento (come del resto faccio io) a una verifica
prefabbricata delle proprie tesi.
Vuol
dire questo che elimineremo la malignità e l'invidia, che in una società come
quella che ho tratteggiato sarebbe assente la distruttività fine a sé stessa?
Neanche per idea. Ma vuol dire che, quando invidia e distruttività emergeranno
e supereranno una certa soglia di tollerabilità, le affronteremo con strumenti
contingenti di controllo, il cui carattere specifico dovrà essere deciso su
basi empiriche (talvolta potrà funzionare meglio l'isolamento, talaltra la
rieducazione), evitando in ogni caso di generalizzare questi incidenti a conclusioni
apocalittiche sulla natura umana. Perché sappiamo che il danno maggiore che gli
incidenti possono causare è proprio quello di farci trarre simili conclusioni e
fartene guidare nella nostra azione pratica.
Un'ultima
osservazione. Ho accennato sopra al fatto che le voci perverse non vanno
tacitate ma invece ascoltate, e che se lo faremo ne trarremo vantaggio. È
compatibile questo atteggiamento con quanto ho detto dopo: che cioè bisogna in
ogni caso evitare di lasciarsene influenzare, di accettare il loro stile nella
nostra conversazione?
Sì:
è compatibile. Una voce che esprima invidia e malignità dirà perlopiù qualcosa
di specifico: oggettiverà e razionalizzerà la propria perversione in una
pretesa di rivendicazione e di critica. Anche una voce così deve entrare in
circolo; ho già affermato che dal suo punto di vista ostile abbiamo molto da
imparare. Nietzsche sarebbe stato d'accordo: niente, avrebbe detto, vede più
chiaro della malevolenza. Perciò quando il nemico parlerà lo ascolteremo e,
senza batter ciglio, lo coinvolgeremo nel nostro compito costruttivo quali che
siano le sue intenzioni: lo ringrazieremo per il suo contributo e ne faremo
tesoro per sviluppare il nostro progetto. È possibile che questa risposta lo
esasperi, che riduca la sua malevolenza a uno stato sempre più diabolicamente
puro e incontaminato da pretese farisaiche; ma confido che accadrà di rado e in
ogni caso, prima che accada, avremo avuto modo di ricevere anche da lui
insegnamenti preziosi.
[
… ]
obiezione:
Ho presentato il programma di un
intellettuale: di una persona cioè che passa il suo tempo a leggere e scrivere
e studiare e arriva così a convincersi che queste siano le attività più
desiderabili per tutti. ma è un'ipotesi assurda: la maggior parte della gente
si annoierebbe a morte in una scuola a tempo pieno come quella del mio stato
ideale. tolta qualche sparuta eccezione, i ragazzi considerano l'apprendimento
come un peso e sono felici soprattutto quando riescono a liberarsene. né ci si
può aspettare che le cose andrebbero diversamente per gli adulti.
Sono
d'accordo con chi qualifica il mio programma come quello di un intellettuale,
ma non condivido il modo in cui questa qualifica viene solitamente intesa.
L'intellettualità, per me, è l'aspetto più specifico della nostra natura, la
vera e propria differentia del genere umano: è curiosità, interesse per quel
che non siamo ancora ma potremmo e vorremmo essere. È insomma un altro nome per
quella disponibilità al gioco, all' esplorazione e al confronto che ho posto al
centro della mia antropologia e della mia proposta etico-politica. Ma si noti
che non c'è nulla di necessariamente mentale in questa nozione di intelletto:
essa si applica al desiderio di impratichirsi di cucina indiana o di
pallacanestro tanto quanto allo studio della psicologia o del greco antico. Ci
sono buoni motivi per sottolineare l'importanza del mentale (ossia di attività
quali leggere, scrivere, parlare, pensare) in questo ambito: molte (altre)
attività (e molte persone) cui non abbiamo direttamente accesso possiamo raggi
un gerle attraverso mediazioni mentali. Occorre però stare attenti a non
confondere il mezzo con il fine, concludendo che siccome il mentale è uno
strumento così utile esso esaurisca le risorse dell'intellettualità.
Come
ogni altro aspetto della nostra vita, anche questa caratteristica definitoria
dell' animale razionale è vittima del feticismo del mercato: anche
quest'attività supremamente liberatoria viene trasformata in uno scambio di
merci. All'intellettualità subentra quel che chiamo intellettualismo (un nome
vale l'altro, ma in generale gli «ismi» denotano fenomeni di cristallizzazione,
di stasi), in cui l'interesse si concentra sul possesso di informazioni dotate
di un certo valore di mercato e suscettibili di essere barattate con altri
oggetti di pari valore di cui abbiamo bisogno. Espressione tipica del modello
intellettualistico è (perlopiù) la scuola: gli studenti hanno bisogno di far
propri contenuti che inizialmente appartengono agli insegnanti, gli insegnanti
vengono pagati per questo servizio e gli studenti riceveranno al termine dei
loro corsi un attestato che li garantirà in possesso dei contenuti richiesti.
Potranno quindi vendersi sul mercato come competenti in materia.
Il
tempo passato a scuola, dunque, è tanto poco fine a sé stesso quanto quello
passato in fabbrica o in ufficio: la sua finalità gli è esterna, verrà
raggiunta solo al termine degli studi. C'è da stupirsi allora se esso è vissuto
con disgusto e noia, né più né meno di qualsiasi altro tempo lavorativo che non
dia in sé e per sé nessuna soddisfazione ma la rimandi a quando il tempo stesso
sarà trascorso? Come ogni altra persona costretta a consegnare parte della sua
vita a un'istanza aliena con la promessa di riceverne un giorno una contropartita,
lo studente attenderà quel giorno e intanto si consolerà in tutti gli
intervalli che si aprono nel processo di espropriazione cui è soggetto: i fine
settimana, le vacanze di Natale, i «ponti».
L'aspetto
più grave della situazione, quello che viola maggiormente le sue vittime, è
costituito dal perverso legame che si viene a realizzare tra la scuola intesa
come mercato forzoso e fastidioso da un lato e molte delle aree più vitali
dell' attività umana dall' altro. Un ragazzo che, in modo del tutto
comprensibile, rifiuti la prima sarà anche portato a tenersi alla larga dalle
materie scolastiche. Guarderà con orrore alle lingue straniere, alla storia e
alla chimica perché sono associate a un'esperienza carceraria e si vedrà così
privato di straordinarie, e straordinariamente piacevoli, opportunità di
arricchire la propria persona. Nel suo tempo libero, quello stesso ragazzo
manifesterà spesso un desiderio di arricchimento: si abbandonerà con dedizione a
tutto quel che la scuola ha lasciato da parte e, nel vederlo appassionarsi a un
programma di computer, a un videogioco o a una disciplina sportiva, sarà
impossibile negarne la curiosità e l'intelligenza. Ma queste doti si trovano
troppe strade bloccate, troppe aree di sviluppo ridotte a terra bruciata e
sterile dall' appropriazione indebita di cui ho detto. L'intellettualismo,
insomma, non si limita a rubare spazio all'intellettualità (più tempo passiamo
al mercato, meno ne avremo per la costruzione di noi stessi), ma le si oppone
anche in modo diretto: fa di tutto per squalificarne l'esercizio.
Io
sono fiero di dirmi un intellettuale, ma devo subito aggiungere che ciò non mi
rende una persona speciale. L'intellettualità è una caratteristica di noi
tutti, della quale dobbiamo riprendere il controllo, che dobbiamo imparare a
praticare senza limiti e senza imbarazzo. Chi ha qualcosa da insegnarci in
proposito lo faccia in modo tale da metterei il più presto possibile in
condizioni di collaborare attivamente; il che non vuoI dire che tutti
diventeremo ugualmente bravi ma vuoI dire almeno che tutti staremo giocando,
non soltanto assistendo da spettatori al gioco altrui. Chi non è in grado di
insegnare in questo modo lasciamolo al suo destino, nella speranza che almeno
si diverta lui, ma evitando di valorizzare la competenza in quanto tale: la
competenza è una promessa, da realizzare nel proprio agire concreto e
nell'intensità, nella profondità, nella ricchezza di quell'agire. E,
soprattutto, evitiamo di ammirare quel che non capiamo solo perché non lo
capiamo: certo non si può capire tutto ma si può apprezzare solo quel che si
capisce e solo entro i limiti in cui lo si capisce, perché solo entro quei
limiti possiamo usarlo per crescere.
[
… ]
obiezione:
La mia sarebbe una società di
dilettanti, in cui i cittadini passerebbero la maggior parte del loro tempo a
svolgere attività per il puro gusto di suolgerle, senza nessuna preoccupazione
di raggiungere un determinato livello di efficienza e nessun impegno a continuare
nella stessa attività per un lungo periodo. Ma ci sono compiti che sarebbe
colpevole non assegnare a un professionista; vorremmo che fosse un dilettante a
operarci di ernia o di appendicite? Né basterebbero le prestazioni d'opera
richieste a ognuno per formare questi professionisti: la formazione di un
chirurgo richiede anni di dedizione pressoché assoluta. E, una volta che si
fosse così formato, sarebbe plausibile permettere che trascorresse le giornate
praticando lo sci d'acqua o il giardinaggio, quando tanti malati avrebbero
bisogno della sua opera?
Ogni
paradigma ha le sue anomalie: casi in cui la sua applicazione rivela delle
forzature, mentre magari un altro paradigma li risolve in modo perfettamente
naturale. Questa obiezione porta alla luce l'anomalia più grave del mio
paradigma: sarebbe desiderabile che servizi delicati e urgenti fossero eseguiti
in modo ottimale, non lasciati all'improvvisazione. Niente è più delicato e
urgente delle questioni di vita o di morte; in particolare, dunque, sarebbe
desiderabile che i servizi medici fossero gestiti da persone che controllano
con sicurezza le tecniche più avanzate. L'economia di mercato sembra garantire
l'esito voluto pagando a caro prezzo tali servizi e indirizzando così verso la
scelta della carriera medica un flusso costante di giovani intelligenti e
ambiziosi. Nella mia economia, invece, ci si dovrebbe fidare del fatto che un
numero sufficiente di persone provi genuino entusiasmo per la medicina e decida
di dedicarle un progetto di crescita dopo l'altro, e si tratta di eventualità
piuttosto incerte: tali cioè da non assicurare che i servizi richiesti siano
sempre disponibili.
Ci
sarebbe molto da dire su quanto l'apparenza di sicurezza fornita dall' economia
di mercato corrisponda a verità. Che a dedicarsi alla carriera medica siano
giovani intelligenti e ambiziosi non garantisce un buon servizio, se il motivo
per cui questi giovani fanno la loro scelta non ha nulla a che vedere con
l'interesse per la medicina (e per i pazienti) ma invece (per esempio) con
quello per un ampio lucro e una prestigiosa posizione sociale. Anzi l'economia
di mercato, offrendo questi «beni» come incentivi, finisce per favorire scelte
basate su di essi, generando una specie di selezione alla rovescia che invita
le persone sbagliate a occuparsi di questioni di vita o di morte. I risultati
sono sotto gli occhi di tutti: discriminazione nell'uso delle risorse mediche a
tutto vantaggio di chi può pagare, quote fissate arbitrariamente dalle
compagnie assicurative su quanto tempo e denaro investire nella cura dei
pazienti, scandali a ripetizione nella gestione degli ospedali e delle
industrie farmaceutiche.
Ma
il fatto che il paradigma alternativo ha i suoi problemi non risolve i miei. È
chiaro da dove provengano questi ultimi. Ho respinto la natura determinante
dell'urgenza, ho asserito che al limite non esistono bisogni primari, che anche
la vita e la salute dovranno talvolta cedere il passo davanti a un'ipotesi di
arricchimento; non c'è da stupirsi quindi se nei confronti di situazioni
normalmente considerate urgenti non ho a disposizione un atteggiamento semplice
e naturale. Trattandosi per me di un' anomalia, posso solo sperare di ridurre
la difficoltà, non di eliminarla; il che implica anche affrontarla con diversi
strumenti e considerazioni, piuttosto che con uno soltanto.
In
primo luogo, verrebbe a mancare nel mio sistema il bisogno che ciascuno ha ora
di dimostrare agli altri che hanno costantemente bisogno del suo contributo e
si ridurrebbero così di molto i bisogni, anche medici, più immediati:
sparirebbero, per esempio, le operazioni chirurgiche incoraggiate e talvolta
imposte all'unico scopo di garantirsi un intenso flusso di clienti. Il problema
non sarebbe tanto grave quanto può sembrare nella nostra situazione di medicina
(per chi se la può permettere) sovradimensionata e ipertrofica.
In
secondo luogo, quando tutti avessero come scopo principale della loro vita
l'allargamento dell' ambito della vita stessa, ossia delle conoscenze e abilità
che costituiscono questo ambito, c'è da aspettarsi che molti dedicherebbero
parte del loro tempo e della loro energia a una migliore comprensione del loro
corpo: di come funziona e di quali fattori ne promuovono la fioritura e la
decadenza. Ci sarebbero forse meno specialisti in materia ma la generale
consapevolezza di argomenti fisiologici e patologici sarebbe più ampiamente
condivisa. Molte più persone potrebbero così aiutare sé stesse e gli altri nella
gestione ordinaria di disturbi non troppo gravi. (Se pensate che questo
equivalga a ricevere un servizio di second'ordine, sarà bene notare che la
medicina commerciale del modello corrente sta andando nella stessa direzione:
in America un numero sempre maggiore di compiti di routine è assegnato alle
infermiere diplomate, lasciando ai medici solo i casi più seri. Il motivo in
questo caso è il profitto, ma non si tratta di una pratica irragionevole:
quando un mio figlio piccolo aveva l'influenza, non vedo perché dovesse essere
un augusto luminare a dirmi di dargli un'aspirina e fargli bere molti liquidi).
In
terzo luogo, la solidarietà nei confronti dei nostri simili e la simpatia che
proviamo per loro sono fra le motivazioni principali del nostro agire. Anche
nella situazione corrente, in cui tutto ci scoraggia dal perseguire attività
che non siano adeguatamente compensate in denaro, ci sono molti che scelgono di
realizzare sé stessi aprendo un ospedale nel Terzo Mondo o un ambulatorio di
quartiere per malati di Aids. Forse allora non dovremmo disperare che in una
situazione diversa, in cui il compenso in denaro non sia più un fattore
essenziale, un numero sufficiente di persone opti per questo tipo di
realizzazione.
Se
tutto questo non bastasse, si tratterebbe di pensare a opportuni incentivi. Una
persona che dedicasse a questo tipo di prestazione d'opera più tempo di quanto
ne venga richiesto agli altri membri della comunità potrebbe per esempio
ricevere maggiore assistenza per i suoi altri progetti. Il pericolo,
ovviamente, è che questa strategia inviti a dedicarsi all' attività medica per
i motivi sbagliati; ma nel caso di un' anomalia occorre spesso scegliere il
minore dei mali, e comunque il modello attuale è in condizioni anche peggiori
in proposito.
[
… ]
obiezione:
La mia proposta si concentra
sull'uso del tempo libero e passa sotto silenzio le attività produttive (quelle
cioè che soddisfano bisogni), qualificandole come semplici prestazioni d'opera.
Ma l'esito è tanto miope e repressivo quanto quello causato dal modello
corrente: mentre in quest' ultimo sono le attività fini a sé stesse a risultare
prive di valore e dignità, nel mio sono giudicate così le attività funzionali a
uno scopo necessario. ed è un esito altrettanto ingiusto. Forse che il lavoro
(tradizionalmente inteso: quello che l'uomo e la donna compiono con il sudore
della fronte per mantenere sé stessi e le loro famiglie) non è una componente
significativa della nostra natura? E' ragionevole allora fargli così poco
spazio, dargli così poca importanza, consegnarlo interamente nelle mani del
paradigma avverso?
Chi
vive ammazzandosi di fatica e non ha tempo per considerazioni astratte immagina
che i privilegiati siano liberi dal bisogno; è questo anzi che li rende
privilegiati ed è per questo che la loro esistenza è desiderabile, che chi non
è privilegiato (in generale) vorrebbe esserlo. Ma, se privilegiati del genere
esistono, non li ho mai incontrati: il bisogno, il concetto di bisogno, domina
la vita di (quasi?) tutti. Per molti, c'è la promessa di un premio dopo tante
fatiche: di un tempo finalmente liberato da occupare facendo quel che piace. Ma
questo tempo liberato tende ad allontanarsi sempre più in un futuro
indeterminato e forse irraggiungibile, e nella vita che concretamente si vive
esso non gioca alcun ruolo: compare al massimo come un alibi, un' evasione, un
elemento di malafede, al quale non si presta seria attenzione. (E siccome non
gli si presta attenzione, siccome i più non dedicano nessun impegno ad
articolare e approfondire la nozione di quanto hanno piacere a fare, quando
eventualmente quel tempo arrivasse non saprebbero come usarlo e lo
avvilirebbero asservendolo alle attività di più immediata e rudimentale
gratificazione - un sesso da militari in libera uscita, robuste mangiate e
bevute, droghe - o a quelle imposte dall'industria del divertimento - il golf,
appunto.) Nel frattempo, quel che dà valore alla vita di chiunque, quale che
sia il suo stato sociale, quel che gli permette di arrivare alla fine di una
giornata pensando di aver fatto qualcosa di valido, è sempre e soltanto quanto
di necessario ha realizzato. A questo punto è naturale fare di necessità virtù
e cercare proprio nel faticoso lavoro quotidiano il fondamento della vita umana
e del suo valore.
Non
penso affatto che le prestazioni d'opera siano squallide e vuote; penso invece
che abbiano un grande valore. Ma hanno questo valore per quanto ci liberano e
ci permettono di seguire le nostre varie vocazioni; quindi una vita che
consistesse solo in simili prestazioni (che fosse «occupata» solo in questo
senso) sarebbe disumana e ingiusta. Chiunque spenda in esse parte del proprio
tempo, contribuendo così a liberare il tempo altrui, acquista un profondo
merito nei confronti della comunità e l'unico modo per ripagare il debito è quello
di garantire anche a lui un tempo liberato e aiutarlo a farne l'uso migliore.
[
… ]
obiezione:
La mia mancanza di comprensione per
il lavoro produttivo non può esser ridotta a un semplice rovesciamento
dell'attuale gerarchia di valori. Non si tratta solo del fatto che questo
lavoro non viene considerato valido in sé ma solo in quanto libera tempo
autenticamente significativo: c'è anche il mio costante caratterizzarlo come
alieno, estraneo alla nostra natura. Il che è sbagliato: con la sua fatica e il
sudore della sua fronte, l' uomo lascia i propri segni in un modo
originariamente estraneo e proprio così lo umanizza, se lo rende più affine. E'
proprio questo sforzo a trasformare un ambiente puramente fisico in una
struttura che ci risponde e in cui possiamo riconoscerei; e di tutto ciò la mia
posizione non fa cenno. il risultato è un egocentrismo (o antropocentrismo) in
ultima analisi autodistruttiva, perché non c'è sviluppo davvero umano che non
coinvolga nel!' umanità tutto quel che la circonda.
Supponiamo
che io sia impegnato a piantare un certo numero di alberi, per proteggere una
casa dal sole o per consolidate una collina ed evitare frane. Mettiamo che
scelga querce e cipressi e li disponga in un elegante schema geometrico; al
termine dell' operazione, sarà ovvio a chiunque che quello non è più un terreno
selvaggio ma un giardino, in cui si riflettono la mia intelligenza e la mia
volontà. In esso mi si potrà ritrovare: ci sarà tanto di me in questo luogo
quanto nelle mie idee e nei miei ragionamenti.
Immaginiamo
adesso che mi si chieda perché ho agito così. La domanda non sarebbe neutrale,
esigerebbe non soltanto una spiegazione ma anche una giustificazione: mi
solleciterebbe a dar conto della ragionevolezza del mio comportamento. E qui
verrebbe fuori il contrasto che mi interessa. Comunque io la metta, rimane vero
che (a) ho adempiuto a un compito necessario e (b) nel farlo, ho reso
l'ambiente più mio (e forse ne. ho ricavato il piacere di un artista). Ma
secondo l'antropologia dei bisogni (a) è necessario e sufficiente per
legittimare la mia azione e la presenza di (b) e un arzigogolo superfluo,
gradevole magari ma del tutto inessenziale. Secondo la mia antropologia,
invece, anche se (a) ha costituito l'occasione iniziale per mettermi in moto, quando
entra in campo (b) di (a) si può fare a meno. A quel punto posso ritornare sui
miei passi e dire con serenità: piantare questi alberi è stato un modo di
esprimermi, sono contento che tale espressione abbia soddisfatto un bisogno ma
anche se non lo avesse soddisfatto non perderebbe nulla del suo valore.
In
generale, non penso affatto che il lavoro produttivo ci sia estraneo, né
sottovaluto il suo profondo effetto umanizzante nei confronti dell' ambiente.
Ma penso che ci sia estraneo (e tendo a sottovalutarne l'effetto umanizzante)
in quanto produttivo - ossia, per come sto usando la parola «produttivo», in
quanto soddisfa un bisogno. Siccome nessuno di noi può reprimere fino in fondo
la sua umanità, anche quando essa è ufficialmente negata, anche quando un'attività
è designata come soltanto necessaria, quella libertà che noi siamo, in cui si
manifesta il nostro essere, troverà il modo di trasparire e di volgere questo
fato indifferente e opaco in un' occasione di autonomia e creatività. Tutto
bene; eccetto che, nel considerare il risultato finale dell' operazione,
dovremmo evitare di commettere-un'ulteriore violenza nei nostri confronti
assegnando alla soddisfazione del bisogno il merito di quanto di significativo
abbiamo realizzato.
Se
la rivoluzione che auspico avesse successo e la distinzione che ho formulato
qui acquistasse fondamentale importanza, ne seguirebbe una tendenza a
valorizzare l'aspetto liberatorio di ogni attività e quindi anche (come ho già
accennato in precedenza) a spostare un' attività, appena possibile, dal rango
delle prestazioni necessarie a quello delle realizzazioni personali. Ci sono
senz' altro piacere e partecipazione nelle attività «utili» e, se solo non
fossimo continuamente distratti dal (meta)bisogno di dimostrare a noi stessi e
ad altri che quel che facciamo è assolutamente indispensabile, riusciremmo di
buon grado ad ammettere che pitturare una cancellata o lucidare un paio di
scarpe sono scuse gradite per metterei alla prova, per manifestare alcune tra
le abilità e conoscenze che fanno parte del nostro teatro privato.
lettera
contro il lavoro (charles bukowski)
A vent'anni dalla morte - il 9
marzo 1994 - Charles Bukowski è stato celebrato ovunque: su tutti i giornali ma
anche da scrittori e editori.
Da segnalare, tra tutti, Il Sole bacia i belli (raccolta di
interviste edita da Feltrinelli), Una
torrida giornata d'agosto (poesie edite da Guanda) e la biografia di
Roberto Alfatti Apetitti Tutti dicono che
sono un bastardo (Bietti editore). Noi ricordiamo lo scrittore - capace
come pochi di cambiare l'immaginario collettivo dei lettori degli anni '70 e
'80 e oggi diventato un'icona grazie alla modernità della sua scrittura - con
un inedito. Si tratta di una lettera che Bukowski scrisse al suo primo editore:
lo stesso che lo portò al successo con la pubblicazione di Post Office nel 1971, la storia di un postinoubriacone tra i
bassifondi di Los Angeles ed il primo in cui apparve Herny Chinaski, detto
"Hank". Il libro fu un vero caso editoriale: elogiato dalla critica
soprattutto per la capacità di Bukowski nel ritrarre i suoi personaggi come
"frammenti di persone che si trascinano avanti. Non individui completi,
con delle aspirazioni, realizzati o in viaggio verso l'integrità" e Los Angeles
come "La più grande città
dell'universo, il posto più pieno di sopravvissuti al gioco della vita,
un posto dove uno può sfuggire agli altri abbastanza a lungo per restare
sano". E in questa lettera del 1986, quando era al culmine del successo,
Bukowski scrive proprio un inno contro la vita insensata a cui ci riduce, molto
spesso, il lavoro, ma soprattutto l'"etica" del posto fisso, la paura
dell'avvenire da disoccupati. Una lettera, purtroppo, di una modernità
sconcertante: sembra scritta oggi, ma risale, invece, agli anni dell'edonismo
reaganiano quando anche in America sembrava che tutto splendesse. Solo adesso
abbiamo capito che era solo luce riflessa.
(Gian Paolo Serino su La Stampa del 2 aprile 2014)
Non penso che faccia male, delle
volte, ricordare da dove si è partiti.
Tu conosci i luoghi da dove
provengo. Non come quelli che cercano di scriverci sopra o di farci un film.
Raccontano il mondo del lavoro come vogliono loro: si dimenticano che non c'è
più nessuna pausa pranzo gratuita, tanto che molti dipendenti, pur di mantenere
il proprio lavoro, salvano anche il pasto. Gli straordinari non sono ormai
quasi più registrati correttamente e, se ti lamenti, c'è sempre un altro babbeo
pronto a prendere il tuo posto.
Quel che fa più male è la costante
diminuzione di umanità in coloro che combattono per tenersi il lavoro perché
temono un'alternativa ancora peggiore. Sono corpi con teste ubbidienti e piene
di paura. La luce finisce per abbandonare i loro occhi. La voce s'imbruttisce.
E il corpo. I capelli. Le unghie. Le scarpe. Tutto va in quella direzione.
Quando ero giovane non riuscivo a
credere che le persone potesser desiderare di rinunciare alla propria vita per
ridursi a vivere in quelle condizioni. E da vecchio, non riesco ancora a
crederci. Perché lo fanno? Per il Sesso? La TV? Per un'automobile acquistata a
rate? O per i figli? Per bambini che faranno le stesse cose che fanno loro?
All'inizio, quando ero molto
giovane e passavo da un lavoro all'altro, ero abbastanza stupido per redarguire
i miei compagni di lavoro: "Ehi, il capo può venire qui da un momento
all'altro e sbatterci tutti fuori, ti rendi conto?".
Loro avrebbero potuto almeno
guardarmi. Ma stavo dicendo qualcosa che non volevano che entrasse nella loro
testa. Ora nel settore dell'industria ci sono tanti licenziamenti e ogni giorno
vengono buttate fuori centinaia di migliaia di persone che rimangono intontite:
"Ci lavoravo da 35 anni…" "Non è giusto…" "Io non so
cosa fare…"
Gli schiavi non sono mai pagati
abbastanza da poter essere liberi: solo quanto basta per sopravvivere e tornare
al lavoro. Io ho visto e capito tutto questo. Perché gli altri no? Mi sono reso
conto che la panchina del parco poteva essere un posto altrettanto buono, o
anche diventare un alcolizzato. Perché non arrivare lì da solo, prima che mi ci
mettano gli altri? Perché aspettare?
Ho sempre scritto con disgusto
contro tutto questo, ed è stato un sollievo riuscire a mantenere la merda fuori
dal mio sistema. E ora che sono arrivato ad essere un cosiddetto scrittore professionista,
dopo aver sprecato i primi 50 anni di vita dietro tanti lavori, ho scoperto che
ci sono anche altre cose disgustose nel sistema.
Ricordo che una volta, lavorando
come imballatore per un'azienda che produceva lampade per illuminazione, uno dei
miei colleghi improvvisamente adetto: "Non sarò mai libero!".
Uno dei capi stava camminando da
quelle parti e si lasciò sfuggire una dolce risata, godendo del fatto che
questo tizio fosse stato intrappolato per tutta la vita.
Ho avuto fortuna a tirarmi fuori da
quei luoghi, non importa quanto tempo ci è voluto, quando è successo è stato
come una specie di gioia, il jolly del miracolo. Ora scrivo da una vecchia
mente e un vecchio corpo, ben oltre il momento in cui la maggior parte degli
uomini avrebbero mai pensato di iniziare un'impresa del genere, ma ora mi sento
in dovere con me stesso di continuare, e quando le parole incominceranno a
venir meno e avrò bisogno di essere aiutato a salire le scale e non sarò più in
grado di distinguere un merlo da una graffetta, una parte di me ricorderò
sempre (non importa quanto sarò andato lontano) come sarò arrivato qui.
Non aver sprecato del tutto la
propria vita mi sembra una degna realizzazione, almeno per me.
Il Tuo vecchio Hank.
l'orrore
economico (viviane forrester)
Tutti quanti noi viviamo immersi in
un'illusione magistrale, in un mondo scomparso che ci accaniamo a non voler
riconoscere come tale, e che false politiche e politici bugiardi pretendono di
perpetuare. Milioni di destini sono sconvolti, annientati da questo
anacronismo, frutto di ostinati stratagemmi rivolti a consacrare come
imperituro il più sacro dei nostri tabù: quello del lavoro.
Sul lavoro, stravolto sotto la
forma perversa di "impiego", si fonda in effetti la civiltà
occidentale, che a sua volta domina l'intero pianeta. Sono confusi a tal punto
l'uno con l'altra che nel momento stesso in cui il lavoro si volatilizza, il
suo radicamento, la sua evidenza non vengono mai ufficialmente messi in
discussione, e tanto meno viene discussa la sua necessità. Non è forse il
lavoro a governare, in linea di principio, qualsiasi tipo di distribuzione
della ricchezza, e di conseguenza qualsiasi forma di sopravvivenza? Ora questo
lavoro oggi non è più che un' entità priva di qualsiasi sostanza.
[ … ]
In quale sogno si vuole farci
restare, raccontandoci di crisi al termine delle quali dovremmo finalmente
uscire dalle nostre angosce? Quando prenderemo coscienza del fatto che non ci
troviamo in presenza di una crisi, o di più crisi, bensì di una vera e propria
mutazione? E non della mutazione di una società, ma di quella, assolutamente
brutale e totale, di un'intera civiltà? Noi partecipiamo di una nuova era,
senza riuscire ancora ad avvistarla. Senza voler ammettere e senza renderei
conto che l'era precedente è ormai scomparsa. Non possiamo dunque celebrarne il
lutto, e passiamo i nostri giorni a mummifÌcarla. A darla per vitale e attuale,
rispettandone i riti che appartengono a una dinamica ormai finita. Perché mai
questa proiezione permanente di un mondo virtuale, di una società sonnambula,
devastata da problemi fittizi - dato che l'unico problema reale è che questi
problemi non sono più tali, ma sono invece diventati la norma della nostra
epoca, insieme inaugurale e crepuscolare, di cui non vogliamo prendere
coscienza?
[ … ]
Ed ecco quindi le medicine dolci,
la antiche e vetuste farmacopee, le chirurgie crudeli, le trasfusioni di ogni
tipo (di cui beneficia soprattutto chi gode di buona salute). Ecco i sermoni
tranquillizzanti, il catalogo delle ridondanze, il fascino consolatorio dei
ritornelli che coprono il silenzio severo, implacabile, dell'incapacità; li
ascoltiamo ipnotizzati, riconoscenti di essere distratti dal terrore del vuoto,
cullati al ritmo di chiacchiere familiari senza senso.
Ma, dietro a queste mascherate, durante tutto
il corso di questi sotterfugi ufficializzati, di queste pretese
"operazioni" di cui si conosce in anticipo l'inefficacia, di questo
spettacolo che mandiamo giù pigramente, pesa la sofferenza umana, quella sì
reale, scolpita nel tempo, in quel tempo che costruisce la vera Storia,
perennemente occultata. Sofferenza irreversibile delle masse sacrificate, cioè
di coscienze a una a una torturate e negate.
Della "disoccupazione" si
parla dappertutto e continuamente. La parola, però, è oggi priva del suo reale
significato, perché descrive un fenomeno diverso da quello, ormai obsoleto, che
pretende di indicare. E ci intrattengono, al proposito, con faticose promesse,
il più delle volte bugiarde, che lasciano intravedere irrisorie quantità di
impieghi acrobaticamente lanciate sul mercato (in saldo); percentuali ridicole
rispetto ai milioni di individui esclusi oggi dal mondo del lavoro salariato e
che, a questo ritmo, continueranno a esserlo ancora per decenni. E allora, in
che condizione reale si trovano oggi questi individui, la società, il
cosiddetto "mercato del lavoro"?
[ … ]
Milioni di persone, dico bene di
persone, messe tra parentesi, hanno diritto - per un periodo indefinito, forse
anche per un periodo che non avrà altro limite se non la morte - alla miseria,
o comunque alla minaccia più o meno prossima della stessa, spesso alla perdita
di un tetto, a quella di una qualsivoglia considerazione sociale e persino
della loro stessa autostima. All'angoscia di un'identità precaria o
definitivamente naufragata. Al più vergognoso dei sentimenti: la vergogna.
Perché ognuno si ritiene (è incoraggiato a ritenersi) padrone fallito del
proprio destino, laddove invece è stato solo un numero messo dal caso dentro
una statistica.
[ … ]
Il fenomeno attuale della
disoccupazione non è più quello che questa parola indica, ma è senza tenerne
conto, in funzione di un passato distrutto, che si pretende comunque di trovare
delle soluzioni al fenomeno e, cosa peggiore, di giudicare i disoccupati. La
forma contemporanea di ciò che continuiamo a chiamare disoccupazione non è, di
fatto, mai stata studiata, mai definita, e di conseguenza mai presa in reale
considerazione. Non è mai veramente in questione ciò che normalmente si
definisce come "disoccupazione" e "disoccupati"; anche
quando questo problema sembra essere al centro delle preoccupazioni sociali, il
fenomeno reale rimane, al contrario, occultato.
Un disoccupato, oggi, non è più
l'oggetto di un accantonamento provvisorio, occasionale, che riguarda solo
alcuni settori della produzione; ha oramai a che vedere con una generale
implosione, con un fenomeno paragonabile alle onde anomale, ai cicloni o ai
tornadi, che non risparmiano nessuno, ai quali nessuno può resistere. Subisce
una logica planetaria che presuppone la soppressione di ciò che noi chiamiamo
lavoro, o più esattamente dei "posti di lavoro".
Però - e questo "sfasamento" ha
conseguenze crudeli - il sociale e
l'economico continuano a proporsi ancora come il frutto degli scambi conseguenti
al lavoro, laddove quest'ultimo è sparito. I senza lavoro, vittime di questa
scomparsa, sono trattati e giudicati con gli stessi identici criteri che si
adottavano quando i posti di lavoro abbondavano. Vengono dunque colpevolizzati
di esserne privi, e abbindolati, addormentati da un cumulo di promesse bugiarde
che annunciano come vicinissimo il ritorno di quest' abbondanza, e come assai
prossima la riparazione di congiunture sfortunate e contrattempi.
Ne consegue la marginalizzazione
impietosa e passiva del numero immenso, ogni giorno in crescita, di quelli che
cercano lavoro, i quali, ironia della sorte, per il fatto stesso di non averlo,
sono entrati a far parte della norma contemporanea; norma che non viene
riconosciuta come tale, nemmeno dagli stessi esclusi dal lavoro, al punto che
sono proprio loro i primi (ci si prende cura che sia così) a viversi come
incompatibili con una società di cui invece, senza saperlo, sono i prodotti più
naturali. Vengono portati a considerarsi indegni di questa società, e
soprattutto responsabili della loro situazione, che giudicano degradante (in
quanto degradata) e persino riprovevole. Si accusano di ciò di cui sono le
vittime. Si giudicano con lo sguardo di quelli che li giudicano, sguardo che
fanno proprio, che li vede colpevoli, e che li induce poco alla volta a
interrogarsi su quali incapacità, quale predisposizione personale al
fallimento, quale cattiva volontà o quali errori li abbiano portati al punto in
cui si trovano. Su di loro incombe il biasimo generale, malgrado l'assurdità di
questo tipo di accuse o autoaccuse. Si rimproverano - e li si rimprovera - di
vivere una vita di miseria o di esserne minacciati. Una vita spesso
"assistita" (al di sotto, del resto, di una soglia di tollerabilità).
I rimproveri che gli si fanno, che essi stessi
si fanno, riposano sulla nostra percezione sfasata della congiuntura presente,
su vecchie opinioni già senza fondamento in passato, oggi più che mai
ridondanti,. retoriche e assurde; senza alcun, legame con il presente. Tutto
questo - e non vi è nulla d'innocente - li porta a provare questa vergogna, a
sentirsi in qualche modo indegni, ciò che poi li conduce a tutti i tipi di
sottomissione. L'obbrobrio scoraggia in loro qualsiasi tipo di reazione che non
sia una mortificata rassegnazione.
[ … ]
Da questo sistema emerge nonostante
tutto una domanda essenziale, mai esplicitamente formulata: "Bisogna
meritare di vivere per averne il diritto?". Soltanto una infima minoranza
vanta questo diritto d'ufficio, ed è una minoranza da sempre provvista di poteri
eccezionali, di proprietà e di privilegi considerati quasi naturali.
Quanto al resto dell'umanità, le
occorre, per "meritare" di vivere, di dimostrarsi "utile"
alla società, o quanto meno a quella parte che la governa e domina: l'economia
che ogni giorno di più si confonde con gli affari, vale a dire l'economia di
mercato. In cui "utile" equivale quasi sempre a
"redditizio", vale a dire vantaggioso per il profitto. In altre
parole che si può "impiegare" ("sfruttare" sarebbe di
cattivo gusto!).
Questo merito - questo diritto di vivere, anzi
- passa dunque dal dovere di lavorare, di avere un impiego, che diventa così un
diritto imprescrittibile senza il quale il sistema sociale non sarebbe altro se
non un enorme e generalizzato assassinio.
Ma che ne è di questo diritto di
vivere quando non opera più, quando viene impedito di compiere quel dovere che
permette di accedervi, quando diventa impossibile quello che pure viene
imposto? Tutti sanno oggi che quegli accessi al lavoro sono permanentemente
vietati, chiusi dall'imperizia generale, dall'interesse di alcuni, o dal senso
della Storia - il tutto ben nascosto sotto il segno della fatalità. E allora, è
normale o quanto meno logico continuare a imporre quello che non c'è? È legale
pretendere una cosa che non esiste come condizione necessaria alla
sopravvivenza?
[ … ]
Così seguiamo degli strani
percorsi! Non si sa se è più ridicolo o sinistro che, di fronte a una perpetua,
incurabile e crescente penuria di posti dilavoro, in Francia si continui a
imporre a ognuno dei disoccupati che si contano a milioni - e questo, ogni
giorno lavorativo di ogni settimana, ogni mese, ogni anno -la ricerca
"effettiva e permanente" di quel lavoro che ormai non c'è più. Di
obbligarlo a passare ore, giorni, settimane, mesi, talvolta interi anni, a
proporsi ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno, invano, bloccato in
anticipo dalle statistiche. Insomma: farsi derubare ogni giorno lavorativo di
ogni settimana, ogni mese e a volte ogni anno costituisce forse un impiego, un
mestiere, una professione? Si tratta di uno "status", di un lavoro, o
magari di un apprendistato? È un destino plausibile? Un'occupazione
ragionevole? Un impiego.del proprio tempo davvero raccomandabile?
[ … ]
A colpi di rifiuti, di risposte
negative, tutto questo non appare soprattutto come una messa in scena per
convincere questi postulanti della loro nullità? Per inculcare nel pubblico
l'immagine della loro sconfitta e divulgare l'idea (falsa) della
responsabilità, colpevole e punita, di quegli stessi che pagano l'errore
generale o la decisione di alcuni, l'accecamento di tutti, incluso il loro? A
dare spettacolo del loro "mea culpa" al quale, peraltro, essi
aderiscono? Vinti.
[ … ]
È così che si mettono le basi per
una società di schiavi ai quali solo la schiavitù conferisce uno statuto. Ma a
questo punto perché occuparsi degli schiavi se il loro lavoro risulta
superfluo? Allora, come una specie di eco rispetto alla domanda che galleggia
più in alto, eccone un' altra che si ha paura di ascoltare: è utile vivere se
non si è vantaggiosi per il profitto?
E qui spunta l'ombra, l'annuncio o
la traccia di un vero e proprio crimine. Perché non è cosa da niente che tutta
una popolazione (nel senso che danno al termine i sociologi) venga portata in
silenzio da una società lucida e sofisticata all' estremo limite della
vertigine e della fragilità: ai confini della morte, e qualche volta persino
oltre. E non è cosa da niente anche il fatto di spingere a cercare, a mendicare
un lavoro, e non importa quale né a quale prezzo (cioè al più basso possibile),
quelle stesse persone che poi il lavoro renderà schiavi. E se tutti quanti non
si daranno anima e corpo a sollecitarlo, per quanto vanamente, l'opinione
pubblica resterà comunque convinta che dovrebbero farlo.
Ma ancora è niente, per quellìche
detengono il potere economico, vale a dire il Potere, avere ai piedi quei
rompiscatole che ieri contestavano, rivendicavano, combattevano. Quale dolcezza
nel vederli implorare le stesse cose che ieri vituperavano, e che oggi
considerano come il sacro Graal. Così come è niente poter manovrare a proprio
piacimento gli altri che, provvisti di un salario e di una posizione, non si
lamenteranno, troppo preoccupati di perdere ciò che hanno conquistasto, così
raro, prezioso e precario, e terrorizzati di dover raggiungere la coorte
immensa dei "miserabili".
A vedere come si prendono e si
buttano via uomini e donne in funzione di un mercato del lavoro erratico,
sempre più immaginario e virtuale, paragonabile alla pelle di zigrino del
racconto di Balzac, un mercato da cui tutta questa gente dipende, da cui
dipende la loro vita ma che non dipende da loro; a vedere come già, così
frequentemente, non li si prende più né li si prenderà mai, e come allora
vegetano, soprattutto i giovani, in una vacuità senza limiti, considerata
degradante, e come li si disprezza per questo; a vedere come, di conseguenza,
la vita li maltratta e viene aiutata a maltrattarli; a vedere che al di là
dello sfruttamento degli uomini c'era di peggio: l'assenza di qualsiasi
sfruttamento -, come non dirsi che, non più sfruttabile, non più nemmeno
sfruttabile, la massa, diventata inutile, può solo tremare, e deve tremare
dentro di essa ogni suo componente?
[ … ]
Questo "insieme" di
uomini e donne rappresenta anche, non dimentichiamolo, una base elettorale e
una fetta di mercato da cui discende un altro tipo di "interesse",
che porta i politici a mobilitarsi sui problemi del lavoro e della disoccupazione,
diventati di routine; a ufficializzare questi falsi problemi, o quanto meno
problemi mal posti; a occultare qualsiasi constatazione del reale, fornendo a
breve termine sempre le stesse risposte anemiche a problemi fittizi. Non che li
si voglia esentare - per l'amor del cielo - dal trovare delle soluzioni sia
pure parziali, sia pure precarie. Ma i loro bricolage hanno soprattutto come
effetto quello di conservare in vita dei sistemi che si affannano a far finta
di funzionare, anche male, e di restituire vitalità e forza a giochi di potere
e gerarchie, essi stessi superati.
[ … ]
E se ci succedesse da un giorno
all' altro di non essere più in democrazia? Questo "eccesso" (che non
farà che aumentare) non rischierebbe di essere formulato?
"Pronunciato", e quindi consacrato ufficialmente? Cosa potrebbe
succedere se il "merito", da cui dipenderebbe più che mai il diritto
a vivere, e il diritto di vivere stesso fossero messi in questione, gestiti da
un regime autoritario?
[ … ]
La priorità va dunque al profitto,
al profitto originale, una specie di "big bang". Solo dopo aver
garantito e dedotto la parte degli affari - quella dell' economia di mercato -
vengono (sempre di meno) presi in considerazione gli altri settori, tra i quali
i cittadini. Prima il profitto, in funzione del quale tutto è stato istituito.
È soltanto in seguito che ci si occupa delle briciole di quelle famose"
creazioni di ricchezza" senza le quali, ci viene fatto capire, non ci
sarebbe niente, neppure quelle briciole che d'altra parte diminuiscono a vista
d'occhio - né alcun'altra riserva di lavoro, o di risorse.
"Dio ci salvi dall'uccidere la gallina
dalle uova d'oro", diceva la mia vecchia tata che proseguiva sulla
necessità dell' esistenza di ricchi e di poveri. "Di ricchi ce ne saranno
sempre. Senza di loro, mi dici come farebbero i poveri?" Una vera
politica, la mia tata Beppa, una grande filosofa! Aveva capito tutto.
La prova: siamo ancora qui ad
ascoltare, sordi a quello che realmente stanno tramando, le moine bugiarde di
quei poteri che la mia tata venerava. Poteri che fanno moine e mentono sempre
di meno, tanto hanno inculcato i loro postulati e i loro "credo"
nelle masse planetarie ormai anestetizzate. A che pro spendere ulteriori
energie per persuadere coloro che un'interminabile propaganda ha ormai, se non
convinto, almeno disarmato?
Propaganda efficace e che ha saputo
recuperare, non è cosa da nulla, numerosi termini positivi, seduttivi, che ha
giudiziosamente fatto propri, deviato, assoggettato. Guardate questo mercato
libero di fare del profitto; questi piani sociali incaricati, in realtà, di
cacciare dal lavoro, e con la minima spesa, uomini e donne, da quel momento
privati di mezzi di sussistenza e talvolta di un tetto; lo Stato assistenziale,
quando fa finta di riparare timidamente ingiustizie flagranti, spesso disumane.
E, fra le tante espressioni, quegli assistiti che devono sentirsi umiliati
della loro condizione (e lo sono), quando non sarà mai ritenuto
"assistito", e dalla culla allatomba, l'erede di una fortuna.
[ … ]
I detentori del potere della nostra
epoca sono diventati quello che Robert Reich chiama dei "manipolatori di
simboli" o, se si preferisce, degli "analisti di simboli", che
non comunicano, o comunicano poco, nemmeno con l'antico mondo dei "padroni".
Che se ne dovrebbero fare, loro, di tutti questi" dipendenti" così
costosi, iscritti alla Previdenza sociale, così incerti e irritanti rispetto
alle macchine pure e dure, ignorate da qualsiasi protezione sociale, per
definizione manovrabili, economiche e prive di emozioni equivoche, di lamenti
aggressivi, di desideri pericolosi? Macchine che aprono una nuova epoca, che
magari è la nostra, ma nella quale non ci è consentito l'accesso.
[ … ]
Una quantità sempre crescente di
esseri umani non è già più necessaria al piccolo numero che, plasmando
l'economia, detiene il potere. Una folla di esseri umani si ritrova così,
secondo la logica imperante, senza una ragionevole ragione di vita in questo
mondo nel quale sono comunque nati.
Per ottenere la facoltà di vivere,
per averne i mezzi, dovrebbero poter rispondere ai bisogni delle reti che
governano il pianeta, a quelli dei mercati. Il fatto è che non ci rispondono -
o piuttosto sono i mercati che non rispondono più alla loro presenza e non
hanno bisogno di loro. O di pochissimi e di sempre di meno tra loro. La loro
vita dunque non è più "legittima", ma solo tollerata. Fastidiosa, la
loro presenza in questo mondo viene loro consentita per pura mansuetudine, per
sentimentalismo, per riflessi antichi, per rispetto nei confronti di ciò che
per tanto tempo è stato giudicato sacro (almeno teoricamente). Per paura dello
scandalo. Per i vantaggi che ne possono ancora derivare ai mercati. Per i
giochi politici, per le scommesse elettorali fondate sull'impostura secondo la
quale sarebbe in corso una "crisi" provvisoria che ognuno dei campi
avversi pretende di poter risolvere.
[ … ]
Quella che si può misurare oggi è
l'ampiezza della progressione delle potenze private, dovuta in gran parte a
quella delle prodigiose reti di comunicazione, di scambi istantanei, ai fattori
di ubiquità che ne derivano e che, per prime, queste potenze private hanno
sfruttato, per abolire le distanze di spazio e di tempo - e non è cosa da
niente! - a proprio vantaggio.
[ … ]
Esse cavalcano le istanze politiche
e non devono tener conto di nessuna etica bolsa, di nessun sentimento. Al
limite, nelle più alte delle loro sfere, là dove il gioco diventa
imponderabile, non sono neppure più chiamate a rispondere di successi o di
insuccessi, e non hanno altra posta in gioco se non loro stesse e queste
transazioni, queste speculazioni interminabilmente ripetute, senz' altro scopo
che il loro stesso movimento.
[ … ]
Questi gruppi economici privati,
multinazionali, dominano dunque sempre di più i poteri dello Stato; lungi dall'
esserne controllati, li controllano e formano, in breve, una specie di nazione
che, fuori da qualsiasi territorio, da qualsiasi istituzione governativa,
comanda sempre di più le istituzioni dei diversi paesi, le loro politiche,
spesso per tramite di organizzazioni considerevoli come la Banca Mondiale, il
Fondo Monetario Internazionale, o l'Organizzazione di Cooperazione e Sviluppo
Economico.
[ … ]
Ecco dunque l'economia privata
lasciata come mai prima in tutta libertà - quella libertà che ha tanto
rivendicato e che si traduce in deregolamentazione legalizzata, in anarchia
ufficiale. Libertà accompagnata da tutti i diritti, da tutte le concessioni.
Senza briglie, satura delle sue logiche una civiltà che sta per finire e di cui
essa accelera il naufragio.
[ … ]
Secondo l'uso secolare, agisce qui
un principio fondamentale: per un individuo senza funzione non c'è posto,
nessuna possibilità di accesso evidente alla vita, o per lo meno alla sua
prosecuzione. Ora le funzioni scompaiono oggi irrevocabilmente, ma questo
principio perdura, benché non possa più, ormai, organizzare le società, ma solo
distruggere lo statuto degli esseri umani, deteriorare delle vite o addirittura
decimarle.
[ … ]
Dopo tutto, diranno alcuni, in
questo contesto di globalizzazione, di dislocazione territoriale, di
deregulation, perché alcuni paesi dovrebbero continuare a essere privilegiati:
non stiamo andando verso l'''equità''?
Siamo seri. Lo scandalo è che,
lungi dal vedere le zone disastrate uscire dal disastro e raggiungere le
nazioni più prospere - come si era creduto di poter credere - si assiste
all'insediamento del disastro in società fino a oggi in espansione e del resto
ancora ricche come prima, ma nelle quali i modi di acquisizione del profitto si
sono trasformati. Hanno progredito, diranno alcuni. Come minimo questi modi si
affermano nella direzione di una accresciuta capacità di appropriazione a senso
unico, concentrata su un numero di beneficiari sempre più ristretto, mentre la
presenza attiva giudicata necessaria, e di conseguenza retribuita, degli altri
attori diminuisce.
[ … ]
La china è vertiginosa. Le angosce
del lavoro perduto si vivono a tutti i livelli della scala sociale. A ciascuno
di essi, vengono percepite come una prova disastrosa che sembra profanare
l'identità di chi la subisce. È immediatamente lo squilibrio e - a torto -
l'umiliazione, presto il pericolo. I quadri dirigenti possono soffrirne almeno
quanto i lavoratori meno qualificati. Sorprendente scoprire con che rapidità si
può perdere posizione e come la società diventa severa, come non c'è più o
quasi più rimedio una volta che la si è persa. Tutto vacilla, si chiude e si
allontana. Tutto diventa più fragile, persino la casa. La strada si avvicina.
Sono ben poche le forze che non si ha diritto di esercitare contro chi non ha
più "mezzi". Soprattutto i mezzi per essere risparmiato e per non
appartenere a una terra di nessuno.
[ … ]
Quale correlazione ragionevole può
mai esserci, per esempio, tra perdere un lavoro e farsi espellere dalla
società, ritrovarsi in mezzo alla strada? La punizione non è in alcun modo
commensurabile con il motivo proposto, dato per evidente. Che venga trattato
come un delitto il fatto di non poter pagare, di non poter più pagare, di non
riuscire a pagare, è già di per sé sorprendente, se ci si pensa. Ma essere così
punito, buttato per strada, se non si è più in grado di pagare l'affitto perché
non si ha più lavoro, quando il lavoro fa dappertutto manifestamente e
ufficialmente difetto, oppure perché l'impiego che vi è stato attribuito è
pagato troppo poco rispetto al prezzo aberrante di appartamenti troppo rari,
tutto questo ha del demenziale o del deliberatamente perverso. Tanto più che un
domicilio sarà richiesto per conservare o trovare quel lavoro che costituisce
l'unica condizione per poter ritrovare un domicilio.
[ … ]
Assenza di razionalità? Alcuni
esempi:
Esonerare dai rimproveri le caste
privilegiate, dirigenti, per una volta trascurate, ma accusare alcuni gruppi
svantaggiati di esserlo meno di altri. Di essere, insomma, meno maltrattati.
Considerare così il maltrattamento come il modello sul quale bisognerebbe
allinearsi - considerare, in una parola, la norma il fatto di essere
maltrattato.
Considerare poi dei privilegiati,
in qualche modo dei profittatori, quelli che mantengono ancora un lavoro,
sebbene sottopagato; e dunque la norma il fatto di non averne. Indignarsi
dell'''egoismo'' dei lavoratori, questi satrapi che recalcitrano all'idea di dividere
il loro lavoro, sebbene sottopagato, con quelli che non ne hanno per niente, ma
non ampliare questa esigenza di solidarietà fino alla divisione dei patrimoni o
a quello dei profitti - cosa che ai nostri giorni sarebbe giudicata idiota,
obsoleta, e soprattutto molto maleducata.
Laddove è invece assolutamente
conveniente e anche raccomandato inveire contro i "privilegi" di
quegli habitués degli alberghi di lusso che sono, per esempio, i ferrovieri,
cui è toccata una condizione di pensionamento più accettabile di altre,
vantaggio talmente ridicolo in confronto ai privilegi senza limiti, mai rimessi
in discussione, che aggiudicano a se stessi come naturali i veri privilegiati!
Molto in voga anche l'obbrobrio gettato su quei pericolosi predatori, quei celebri
plutocrati, operai o impiegati che osano chiedere che gli si aumentino gli
stipendi, segnali già di per sé sospetti di fasti spudorati. Un esercizio
illuminante consiste nel paragonare sullo stesso giornale la quantità
dell'aumento richiesto - che sarà ferocemente discusso, rivisto verso il basso,
talvolta rifiutato - con, alla rubrica gastronomica, il prezzo presentato come
ragionevole di un solo pasto al ristorante: solo tre o quattro volte l'aumento
mensile richiesto!
Un esempio ancora: gli sforzi da
lungo tempo intrapresi per montare una parte del paese contro l'altra,
dichiarata vergognosamente privilegiata (statali, funzionari di base) senza mai
prendere in considerazione quelli che privilegiati lo sono davvero, se non per
designarli come "forze vive della nazione". E presentare queste
"forze vive", questi dirigenti delle multinazionali, come unici
capaci di assumersi dei rischi, avventurieri impazienti di mettersi senza sosta
e senza fine in pericolo, preoccupati continuamente di mettere in gioco ... non
si sa bene che cosa, mentre i nababbi che fanno i tramvieri, i paruenus
patentati dipendenti delle Poste prosperano scandalosamente in tutta sicurezza.
[ … ]
Quanto agli usurpatori che si
abbandonano senza vergogna alla garanzia del posto fisso, la loro immunità dal
panico suscitato dalla precarietà, dalla fragilità, dalla sparizione di quegli
stessi posti, rappresenta un pericolo scandaloso. C'è di peggio: essi
rallentano l'asfissia del mercato del lavoro. Ora, asfissia e panico sono le
mammelle dell' economia nella sua fiorente modernità, e le migliori garanzie di
una "coesione sociale".
[ … ]
La leggerezza, il fremito di un
destino, il suo carico di speranza e di paura, questo è quello che viene
rifiutato, che si rifiuta a una quantità di giovani, ragazze e ragazzi, ai
quali è impedito di abitare la società che viene loro imposta come l'unica possibile
- anche l'unica rispettabile, l'unica autorizzata. L'unica proposta, ma
proposta come un miraggio, poiché, unica lecita, essa è loro vietata; unica
valida, li respinge; unica a circondarli, resta per loro inaccessibile. Si
fanno evidenti i paradossi di una società fondata sul "lavoro", vale
a dire sul posto di lavoro, laddove il mercato del lavoro non soltanto vacilla
ma scompare.
[ … ]
Il razzismo e la xenofobia
esercitati contro i giovani (o contro gli adulti) d'origine straniera possono
servire a distogliere dal vero problema, quello della miseria, della penuria.
Si riporta la condizione di "escluso" a problemi di differenza di
colore, di nazionalità, di religione, di cultura, che non avrebbero niente a
che vedere con la legge dei mercati. Mentre sono i poveri, come sempre e da
sempre, a essere esclusi. In massa. I poveri e la povertà. Anche se si istigano
poveri contro poveri, oppressi contro oppressi e non contro gli oppressori,
contro ciò che opprime, è proprio quella condizione che viene presa di
mira,vessata, ripudiata. Raramente si è visto, a nostra conoscenza, un emiro
espulso, "impacchettato" in un charter!
[ … ]
Da questi ripudiati, da questi
emarginati gettati in un niente sociale, ci si aspettano nonostante tutto
condotte da buoni cittadini destinati a una vita civica di doveri e di diritti,
laddove a loro è stata tolta qualsiasi possibilità di compiere qualsiasi
dovere, e i loro diritti, già estremamente ridotti, vengono volentieri
calpestati. Che tristezza allora, che delusione vederli infrangere le norme del
saper vivere, le regole di buona creanza di coloro che li scartano, li
scuotono, li disprezzano d'ufficio. Non vederli sposare le buone maniere di una
società che manifesta così generosamente la sua allergia alla loro presenza, e
li aiuta a vedersi fuori gioco!
[ … ]
Pensare non è una cosa che si
impara, è la cosa meglio distribuita che ci sia al mondo, la più spontanea, la
più organica. Ma è quella da cui si è più distolti. Pensare si può disimparare.
Tutto concorre allo scopo. Abbandonarsi al pensiero richiede persino dell'
audacia, quando tutto vi si oppone, e primi fra tutti, noi stessi. Impegnarvisi
richiede qualche esercizio, come dimenticare gli epiteti che lo spacciano per
austero, arduo, ripugnante' inerte, elitario, paralizzante e di una noia senza
limiti. Come smascherare i trucchi che fanno credere alla divaricazione tra
intelletto e visceralità, tra pensiero ed emozione. Ci si arriva, e somiglia
maledettamente alla salvezza! Tutto ciò può permettere a ognuno di diventare,
nel bene e nel male, un essere umano a pieno diritto, autonomo, quale che sia
il suo ruolo sociale. Che la cosa non venga affatto incoraggiata non stupisce.
Perché niente è capace di
mobilitare come il pensiero. Lungi dal rappresentare una triste rinuncia, è
invece l'azione nella sua quintessenza. Non esiste attività più sovversiva. Più
temuta. Anche più diffamata, e non è un caso, né una cosa strana: il pensiero è
politico. E non solo il pensiero politico. Tutt'altro. li solo fatto di pensare
è politico. Da cui la lotta insidiosa, sempre più efficace, condotta oggi, come
mai prima, contro il pensiero. Contro la capacità di pensare.
La quale, invece, rappresenta e
continuerà a rappresentare sempre di più la nostra sola salvezza.
[ … ]
Aver letto Mallarmé presuppone aver
acquisito certe facoltà che possono portare a certe capacità e, di conseguenza,
ad avvicinarsi a certi diritti. Facoltà di non rispondere al sistema nei soli
termini riduttivi che offre e che annullano qualsiasi contraddizione. Facoltà
di denunciare la versione demenziale del mondo all'interno della quale ci
vogliono immobilizzare, e della quale i poteri si lamentano di doversi fare
carico, quando sono loro ad averla deliberatamente instaurata.
Ma per meglio irreggimentare, asservire,
e questo da qualsiasi parte stiano i poteri, si distoglie l'organismo umano
dall' esercizio arduo, viscerale, pericoloso del pensiero, si rifugge dalla
precisione tanto rara, dalla sua ricerca, per manovrare al meglio le masse.
L'esercizio del pensiero, riservato ad alcuni, preserverà il loro dominio.
[ … ]
Presso questi "giovani",
questi abitanti giovani dei quartieri che chiamiamo "difficili" (ma
che sono piuttosto quelli nei quali tenta di vivere gente in grande difficoltà)
non sono i nomi delle mitragliatrici, è il vuoto che prende il posto del nome
di Mallarmé. Il vuoto, e 1'assenza di qualsiasi progetto, di qualsiasi
avvenire, di qualsiasi felicità quanto meno avvistata, della minima speranza,
ma che un certo sapere potrebbe compensare, suscitando anche un qualche piacere
a percorrere queste strade che portano al nome di Mallarmé.
Non sogniamo!
Eppure, l'unico lusso di questi
ragazzi, di queste ragazze, non è quel tempo libero, che potrebbe consentire,
tra 1'altro, delle incursioni in queste regioni piene di vitalità? Ma che
invece non consente niente, dato che sono incatenati all'interno di un sistema
rigido, vetusto, che impone loro precisamente quello che loro rifiuta: una vita
legata al salario e dipendente da esso. Quella che viene chiamata una vita
"utile". L'unica omologata e che loro non condurranno, perché è
sempre meno percorribile per gli altri, e non lo è più per loro. Il suo
fantasma però li imprigiona in un'esistenza governata dal vuoto che suscita la
sua assenza.
Un peso grande, molto grande
all'interno della lugubre povertà delle periferie.
Esiste, al polo opposto, quel mondo
ricco, effervescente, piacevole, ma deprezzato, forse anche lui in via di
sparizione (è vero che lo è sempre stato, è una delle sue caratteristiche), non
il mondo del jet-set , ma un mondo di ricerca, di pensiero, di umorismo, di
passione. li mondo dell' ... intelletto, parola rifiutata con un disprezzo
deliberato, concertato, incoraggiato dalla società - basta pensare alle
strizzatine d'occhio complici dei più mediocri imbecilli i quali,
pronunciandola come un insulto, prevedono connivenze premurose e sghignazzi
immediati. Non c'è nulla di innocente.
Mondo dell'intelletto al quale
molti di questi giovani senza lavoro sarebbero adatti quanto gli altri, se ne
possedessero le chiavi. Anzi, a dire il vero, più adatti di altri, poiché
dispongono di più tempo, quel tempo che potrebbe essere libero ma che diventa
vacante, vuoto da spararsi, tempo di vergogna e di perdita, velenoso, laddove
si tratta invece del più prezioso dei materiali. Quando grazie a lui le loro
vite potrebbero essere vissute in pieno.
[ … ]
La strada dei posti di lavoro si
chiude, l'insegnamento potrebbe almeno darsi come scopo quello di offrire a
queste generazioni a cavallo fra due ere una cultura capace di dare un senso
alla loro presenza nel mondo, alla loro semplice presenza umana, permettendo
loro di acquisire un panorama delle possibilità offerte agli uomini, un'
apertura sui campi della conoscenza. E, dunque, delle ragioni di vivere, delle
strade da percorrere, un senso ritrovato alloro dinamismo immanente.
Ma piuttosto che preparare le nuove
generazioni a un modo di vivere che non passerebbe più attraverso il lavoro
(diventato praticamente inaccessibile), ci si sforza al contrario di farli
entrare in quel luogo intasato che li rifiuta ottenendo come risultato di
trasformarli in esclusi rispetto a ciò che non esiste neanche più. In infelici.
Sotto il pretesto di prendere di
mira un avvenire che era accessibile solo in un contesto ormai superato, ci si
intestardisce a trascurare, a respingere quello che, nei programmi, non gli era
stato consacrato, ma a conservare quello che si immagina necessario per
aspirare a un avvenire già scomparso. Poiché questi giovani non hanno niente,
gli si toglie tutto, e per primo quello che sembra gratuito, un inutile lusso,
e che riguarda la cultura: quel che resta della sfera dell'umano, l'unica cosa
per la quale questi gruppi in numero incommensurabile, banditi dal mondo
economico, hanno ancora una vocazione.
La tendenza è, al contrario, di
pensare che non li si prepara abbastanza - e non abbastanza direttamente -
all'ingresso nelle imprese che non li vogliono, alle quali non sono più
necessari, ma per le quali si vorrebbe "formarli", e per nient'altro.
Ci si tormenta (o almeno si pensa che si dovrebbe) nell' ossessione di andare
verso un maggiore "realismo", che poi è in verità il massimo del
"sogno", della finzione. E ci si dà un unico scopo, al quale ci si
rimprovera di non tenere a sufficienza: inserire al più presto gli studenti in
un mondo del salario che non esiste più. Si pensa che si dovrebbero sfrondare
un po' alla volta le materie, i piani di studio insufficienti a far entrare
scolari, liceali, studenti universitari direttamente nel mondo del lavoro. Ci
si raccomanda di mirare in maniera esclusiva all"'inserimento
professionale" che, naturalmente, non si realizzerà. Questo viene chiamato
essere" concreti" .
Alcuni giovani (senza virgolette),
quelli delle famiglie frequentabili, saranno iniziati al pensiero; saranno
chiamati a conoscere, ammirare le opere artistiche, letterarie, scientifiche e
altre, di coloro che entrano nella categoria molto ben accetta, insomma, dei
"fornitori" delle loro famiglie.
Ma, rileveranno molto saggiamente
alcune anime sagge, queste cose assolutamente superflue, perché insegnarle
anche a della gente inutile? È ragionevole dal punto di vista economico? E
perché fornire a costoro i mezzi per rendersi conto della loro situazione, per
soffrirne di più, per criticarla, quando stanno così tranquilli? È meglio
sistemarli più tardi, rafforzarli nella loro condizione di "cercatori di
lavoro" , occupazione che li manterrà buoni come angioletti per un bel po'
di tempo.
[ … ]
Nazionale o invitata a diventarlo,
e presumibilmente benintenzionata, l'impresa si vede offrire mille sovvenzioni,
agevolazioni, possibilità di contratti vantaggiosi di modo che possa assumere
personale. E non sposti altrove il lavoro. Benevola, l'impresa accetta. Non
assume. Sposta il lavoro all' estero o minaccia di farlo se tutto non si svolge
a suo gradimento. La disoccupazione cresce. Si ricomincia.
[ … ]
È sempre stato prevedibile che
l'aiuto all'impresa non avrebbe creato posti di lavoro, o per lo meno li
avrebbe creati in misura infinitamente inferiore rispetto alle proporzioni
profetizzate. Dieci o quindici anni fa, sviluppare questo ragionamento sarebbe
stato audace, le prove erano ancora poche. E diventato lampante! Non di meno si
persevera.
[ … ]
Intanto, le imprese beneficiate
continuano a sbarazzarsi in massa dei loro dipendenti, ed è cosa d'ogni giorno.
Le "ristrutturazioni" abbondano, con risonanze vigorose e
costruttive, ma che comprendono innanzitutto i famosi "ammortizzatori
sociali", cioè quei licenziamenti programmati che cementano oggi
l'economia. Perché scandalizzarsi al pretesto che in realtà destrutturano
intere vite, famiglie, e annullano ogni saggezza politica o economica? Dobbiamo
denunciare anche tutti quei termini ipocriti, scellerati? Pubblicarne un
dizionario?
Ripetiamolo: la vocazione delle
imprese non è di essere caritatevoli. La perversità consiste nel presentarle
come le "forze vive" che seguirebbero innanzitutto imperativi morali,
sociali, tesi al benessere generale, mentre devono seguire un compito, un'
etica, certo, ma che gli comandano di fare profitti, cosa in sé perfettamente
lecita, giuridicamente inappuntabile. Già, ma ai nostri giorni, a torto o a
ragione, l'occupazione rappresenta un fattore negativo, fuori mercato,
inutilizzabile, nocivo al profitto! Nefasto.
[ … ]
I mercati dei derivati sono oggi
più importanti dei mercati classici. Ora, questa nuova forma di economia non
investe più, punta. È diventata una scommessa, ma una scommessa priva di una
vera posta in gioco, dove non si punta tanto su valori materiali e nemmeno su
scambi finanziari più simbolici (ma ancora indicizzati alla fonte, per quanto
lontana, su attivi reali) quanto piuttosto su valori virtuali, inventati
all'unico fine di alimentare i loro stessi giochi. Consiste in scommesse sulle
trasformazioni di affari che ancora non esistono, che forse non esisteranno. E,
da lì, su giochi intorno a titoli, debiti, tassi di interesse e di cambio,
privati di qualsiasi senso, relativi a proiezioni del tutto arbitrarie, vicine
alla fantasia più sfrenata e a profezie di ordine parapsichico. Consiste
soprattutto in scommesse sui risultati di tutte quelle scommesse. Poi sui
risultati delle scommesse su quei risultati, ecc.
[ … ]
Questi mercati non danno luogo a
nessuna "creazione di ricchezza", a nessuna produzione reale. Non
hanno bisogno neppure di localizzazioni immobiliari. Non impiegano personale,
perché basta qualche telefono e qualche computer per maneggiare i mercati
virtuali. Ora, su questi mercati, che non implicano il lavoro altrui, che non
sono produttori di beni reali, le imprese (tra gli altri) investono, sempre più
spesso, porzioni sempre più consistenti dei loro utili, perché il profitto che
ne deriva è più rapido, più consistente che altrove, ed è per consentire giochi
neofinanziari di questo tipo, di gran lunga più fruttuosi, che finiscono molto
spesso le sovvenzioni, i vantaggi concessi perché le imprese assumano
personale!
[ … ]
Società in pieno sviluppo, in
attivo, licenziano in massa, lo sappiamo. Non c'è niente di più vantaggioso,
secondo gli specialisti. Tanto più che per questo non si offrono loro meno
"aiuti per l'occupazione", senza chiederne conto, senza obbligarle in
nessun modo ad assumere come previsto. A malapena si suggerisce loro (con il
successo che si può immaginare!) di non adoperare questi regali incondizionati
unicamente a fini lucrativi. Cosa pensate che facciano?
[ … ]
Mentre le nazioni e le loro classi
politiche sembrano così disperate per la disoccupazione e si proclamano
ardentemente mobilitate contro di essa, che le ossessiona giorno e notte,
l'OCSE pubblica in un rapporto un punto di vista più... sfumato: "Per
ottenere un certo adeguamento dei salari, occorrerà un livello più alto della
disoccupazione congiunturale", vi si dichiara.
Sempre nello stesso spirito
fraterno e conviviale, si precisa, come si fornirebbe in una rubrica di posta
la ricetta per attirare e tener stretti l'uomo o la donna della propria vita:
"La prontezza dei lavoratori nell' accettare lavori poco retribuiti
dipende in parte dalla relativa generosità dei sussidi di disoccupazione ... È
il caso, in tutti i paesi, di accorciare la durata dei diritti quando è troppo
lunga o di rendere più restrittive le condizioni d'ammissione". Questo sì
che è parlare.
[ … ]
La Banca Mondiale va diritta allo
scopo, senza complimenti né circonlocuzioni: "Una maggiore flessibilità
del mercato del lavoro - a dispetto della sua cattiva reputazione, poiché la
parola è un eufemismo per dire diminuzioni dei salari e licenziamenti - è
essenziale a tutte le regioni che intraprendano la strada delle riforme
profonde." Il Fondo Monetario Internazionale rincara: "Non bisogna
che i governi europei permettano ai timori suscitati dalla ricaduta della loro
azione sulla ripartizione dei guadagni di frenare il loro slancio verso una
riforma di fondo dei mercati del lavoro. Il loro ammorbidimento passa per un
ripensamento totale del sussidio di disoccupazione, del salario minimo legale e
delle disposizioni a tutela dell' occupazione."
[ … ]
D'altronde, "molti dei nuovi
lavori sono a bassa produttività [ … ]. Non sono suscettibili di sviluppo a
meno di non essere accoppiati con un salario molto basso". Ma questo
riguarda una gamma infinitamente più vasta di lavori, e quindi "una
proporzione importante di salariati resterà senza lavoro, a meno di rendere i
mercati del lavoro più flessibili, in particolare in Europa". Come
volevasi dimostrare.
[ … ]
Ecco la situazione negli Stati
Uniti, descritta da Edmund S. Phelps, noto economista, scrittore, professore
alla Columbia University, un moderato che analizza senza passione i vantaggi e
gli inconvenienti dei diversi modelli di reazione economica al fenomeno della
disoccupazione. Ecco, innanzi tutto, i vantaggi delle ristrutturazioni che,
grazie all'"insicurezza che viene a pesare sui lavoratori, consentono ai
datori di lavoro di ridurre il costo dei salari, e di creare dei posti di lavoro
[ ... ] in particolare nelle attività di servizio [che non sono] soltanto mal
pagate, ma precarie".
Ecco poi, sempre descritto da
Phelps, l'uomo dei sogni dell'OCSE: "Il salariato americano che perde il
lavoro deve imperativamente ritrovare un posto al più presto possibile. I
contributi di disoccupazione rappresentano solo una parte minima del suo
salario di partenza. E gli verranno versati per un massimo di sei mesi. Non
saranno completati da alcun tipo di aiuto sociale (alloggio, scuola ... )
Insomma, si ritrova privo di tutto, e vive solo dei propri mezzi." (Ci si
domanda quali! ) "Deve rapidamente trovare e accettare un lavoro, anche se
non corrisponde a quello che cerca."Il problema è che "per i
lavoratori senza specializzazione è spesso difficile trovare un lavoro, per
quanto mal pagato".
Ciò che Phelps deplora soprattutto,
è che "questi disoccupati si dedicano allora ad attività clandestine:
chiedono l'elemosina, spacciano droga, si danno ai piccoli traffici della
strada. La criminalità aumenta. Attraverso questa rete, in una certa maniera,
hanno creato un loro personale 'Stato Assistenziale"'. Tutto questo
produce chiaramente disordine, e trattiene Phelps dal condannare il sistema di
protezione sociale europeo, il cui vantaggio, dal suo punto di vista, è di
evitare il grado di delinquenza creato dalla sua assenza negli Stati Uniti, ma
il cui torto sta nel tendere "a ridurre le motivazioni di ricerca del
lavoro" .
Ed eccoci al punto di partenza.
Tuttavia (e il salariato americano, "motivato" a morte e "privo
di tutto" ne sa qualcosa), Phelps non ignora che non c'è una pletora di
posti di lavoro, che non ce n'è una moltitudine, e che le peggiori privazioni,
la ricerca più accanita non bastano a ottenere nemmeno un quarto d'ora di
lavoro. Sa che la disoccupazione è un fatto endemico, permanente. Che essere
"motivato" a cercare del lavoro significa quasi sempre non trovarne.
Che a questa ricerca disperante e disperata si dedicano innumerevoli
disoccupati con tutto quel che costa in francobolli, telefonate, spostamenti,
il più delle volte per non ottenere neppure una risposta. D'altronde, data
l'evoluzione demografica, occorrerebbe, per creare o ricreare una situazione
decente sul pianeta, inventare un miliardo di nuovi posti di lavoro nei
prossimi dieci anni, mentre invece il lavoro scompare! Phelps deve sapere che
il problema non è motivare a cercare un lavoro, ma consentire che se ne trovi
uno, poiché rappresenta l'unico schema previsto di sopravvivenza. Ha mai
pensato all' alternativa: cambiare lo schema?
Ma cercare lavoro deve far parte
delle pie occupazioni! Perché, che si sappia, la ricerca di lavoro non crea
lavoro! Con tutti i "motivati" che ci si affannano e tutti quelli
che, durante queste vane ricerche, lo sognano come il sacro Graal, lo si saprebbe!
Con tutti quelli che accettano lavori quasi sempre precari e che quindi
permettono loro di riprendere ben presto questa ricerca tanto raccomandata -
lavoretti, contratti a termine, stages, contratti di formazione-bidone, e altri
surrogati di lavoro nei quali si fanno sovente sfruttare -, con tutti coloro
che crollano, per non aver trovato niente, se la domanda "motivasse"
la creazione di posti di lavoro, ne avremmo pure avuto una qualche eco!
Ma è davvero a cercare posti di
lavoro introvabili che si viene "motivati"? E proprio quella la posta
in gioco? Non sarà piuttosto quella di ottenere, per il poco lavoro ancora
necessario, un prezzo ancora più base so, il più vicino possibile al niente? E,
di conseguenza, ad aumentare l'insaziabile profitto? Non senza sottolineare, en
passant, la colpevolezza di vittime mai sufficientemente assidue nel mendicare
quel che viene loro rifiutato e che, d'altra parte, non esiste più.
[ … ]
Ricordiamoci come Phelps, un
moderato, dimostrava che se si cerca ad ogni costo "del lavoro"
divenuto inaccessibile, e se, nello stesso tempo, oltre a questa ricerca
penosa, oltre alla mancanza di risorse, oltre alla perdita (o alla minaccia di
perdita) di un tetto, oltre al tempo trascorso a farsi respingere, oltre al disprezzo
degli altri e la disistima di sé, oltre al vuoto di un futuro terrificante,
oltre al decadimento fisico dovuto alla penuria all'angoscia, oltre alla coppia
e la famiglia indebolite, spesso scoppiate, oltre la disperazione - se, oltre a
tutto questo, ci si ritrova costretti a un'"insicurezza " ancora
maggiore, questa volta tecnicamente prevista, se ci si ritrova senza aiuto o
(al limite) con un aiuto calcolato per essere insufficiente, o ancora più
insufficiente, si sarà pronti ad accettare, sopportare, subire qualsiasi forma
di lavoro, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione. Perfino a non trovarne
affatto.
Ora, la sola ragione che possa
"motivare" chi ne dispone a offrire il poco lavoro che ancora può
distribuire, è poterselo procurare ai prezzi stracciati accettati da
disgraziati messi con le spalle al muro dall"'insicurezza". Creare
lavoro, forse, ma creare prima di tutto questa insicurezza! O meglio ancora,
andare a cercarla dove si trova, in certi continenti.
Beninteso, in me.zzo alle masse di
cui si sarà progettata a sangue freddo l'insicurezza, sarà soltanto una magra
percentuale di individui che beneficierà di questi lavori al ribasso che non li
faranno uscire dalla miseria. Per tutti gli altri, resterà l'insicurezza. E il
suo corteo di umiliazioni, privazioni, pericoli. L'abbreviazione di alcune
vite.
Il profitto, lui, ne avrà tratto
profitto.
[ … ]
In alcuni punti del pianeta, la
"motivazione" al lavoro è arrivata al culmine. La penuria, l'assenza
di qualsiasi forma di protezione sociale portano il costo della mano d'opera e
del lavoro a quasi niente. Un paradiso per le aziende, un sistema di sogno al
quale si aggiunge quello dei paradisi fiscali. Le nostre "forze
vive", dimenticando volentieri che sono quelle "della Nazione",
non esitano, in gran parte, a precipitarsi, a ridarsi la carica laggiù.
Da cui quelle dislocazioni che
producono rovine, tolgono brutalmente i posti di lavoro agli abitanti di intere
località, distruggono a volte una regione, impoveriscono la nazione. L'impresa
involata verso altri cieli non pagherà più le tasse nei luoghi che abbandona,
ma saranno lo Stato, le collettività lasciate a terra che dovranno finanziare
la disoccupazione che l'impresa avrà creato - vale a dire dovranno finanziare
le scelte che l'impresa avrà fatto a proprio esclusivo vantaggio e a loro
detrimento! Un finanziamento a lungo termine, poiché, per i licenziati
diventati disoccupati in un modo così arbitrario, non sarà possibile ritrovare
rapidamente lavoro in settori geografici e professionali così disastrati, e
difficile addirittura riuscire a ritrovarlo del tutto.
Quanto alla fuga di capitali fuori
da qualsiasi circuito fiscale, priverà di risorse le strutture economiche e
sociali dello Stato truffato. Forse sarà un'illusione ottica, ma si ha come la
vaga impressione che i possessori di "ricchezze" evase non siano
altri che... le ammirevoli "forze vive" della nazione danneggiata!
[ … ]
Abbasso gli immigrati che entrano,
buona fortuna ai capitali che escono! È più facile prendersela con i deboli che
arrivano, o che sono già arrivati, magari anche da molto tempo, che con i
potenti che disertano!
[ … ]
I paesi occidentali chiudono dunque
gelosamente le loro frontiere terrestri alla "miseria del mondo", ma
lasciano scappare attraverso percorsi virtuali le ricchezze alle quali i loro
cittadini impotenti, disinformati, immaginano di avere ancora diritto, quelle
che credono ancora di possedere e di dover difendere, ma che lasciano fuggire
senza particolarmente emozionarsi.
Non sono gli immigrati che riducono
una massa di salariati ormai in via di sparizione, ma piuttosto, fra gli
abitanti delle terre meno privilegiate, coloro che non sono diventati
stranieri, che non sono emigrati ma che, restando nel proprio paese, lavorano a
prezzi (se prezzi li si può chiamare) da elemosina, senza protezione sociale,
in condizioni da noi dimenticate. Manna per i gruppi multinazionali, vengono
indicati ad esempio.
[ … ]
Bizzarra rivincita dei padroni,
dovuta al loro dinamismo, alloro senso del lucro, del dominio, ma anche allo
spirito d'iniziativa. Si arrangiano con tutto, trasportano e ricostituiscono
altrove eccessi di sfruttamento che la Storia aveva superato nei paesi più
industrializzati, e dei quali si era creduto di vedere l'inizio della scomparsa
anche altrove, in particolare in seguito alle decolonizzazioni.
Ma non si erano fatti i conti con
le tecnologie moderne sommate alla rarefazione drammatica dell'occupazione - di
cui sono largamente responsabili. La rapidità chiaroveggente dell'economia
privata nell'impadronirsi delle prodigiose capacità di ubiquità, di
sincronizzazione, di informazione che queste nuove tecnologie offrono, nel fare
uso di tempi e spazi corto-circuitati, consente gli sfarfalleggiamenti
dongiovanneschi, gli edonismi geografici delle imprese
inter-multi-transnazionali. E il neocolonialismo montante.
[ … ]
Così non ci troviamo più, per
esempio, a deplorare il sottopagamento di quella manodopera supersfruttata in
paesi di povertà assoluta, spesso colonizzati (fra le altre cose) dal debito;
ci troviamo a deplorare la sotto-occupazione che questo provoca da noi, e quasi
a essere gelosi di quei disgraziati, di fatto ricondotti, confermati in
condizioni sociali scandalose - cosa che noi sappiamo, ma la nostra
acquiescenza è senza limiti!
È normale, a proposito dell'
occupazione, deplorare che venga tolto all'uno quello che altrove viene
concesso all'altro. O rallegrarsi che venga attribuito all'uno quello di cui
l'altro, per conseguenza, sarà privato. "A Matignon - si legge per esempio
- si carezza la speranza di raggiungere l'obiettivo di impiegare due giovani ogni
tre assunzioni";' questo parte da una gran buona volontà, ma significa che
due disoccupati più anziani su tre resteranno disoccupati, dato che la quantità
di lavoro disponibile non aumenta, ma, al contrario, nella maggior parte dei
casi diminuisce. Lo stesso quando, aumentando la disoccupazione, ci si rallegra
nonostante tutto di veder diminuire contemporaneamente la percentuale dei
disoccupati di lunga durata; in questo caso, sono i giovani che avranno
ottenuto ancora meno posti di lavoro di quanti i tassi di disoccupazione
avevano potuto far loro temere.
[ … ]
A titolo individuale, i consigli
prodigati ai disoccupati negli organismi specializzati indicano come farsi
eventualmente assegnare un lavoro miracolosamente disponibile, che, perciò, un
altro non otterrà più. Che moltitudini di altri, piuttosto, non otterranno,
tanto sono numerosi i candidati al minimo posto, anche squallido. Questi
consigli, spesso gli unici che vengono offerti, corrispondono a
"trucchetti" per essere preferiti, scelti invece di un altro, al
posto di un altro. Poiché la massa salariale e il mercato
[ … ]
Da quanto tempo restiamo ciechi
anche di fronte a segnali evidenti! Le nuove tecnologie, l'automazione, per
esempio, prevedibili da lungo tempo e all' epoca vissute come altrettante
promesse, sono state prese in considerazione solo dal giorno in cui le imprese
le hanno usate e in cui, avendole utilizzate subito in maniera pragmatica, le
hanno integrate senza averci riflettuto, finché, grazie alla loro avanzata, non
se ne sono alla fin fine appropriate, per organizzarsi in funzione d'esse e
farne uso a nostre spese.
Sarebbe potuto andare altrimenti se
qualche politilogo avesse letto, sin dal 1948, i primi lavori di Norbert Wiener
(che è stato non solo l'inventore della cibernetica, ma un profeta
assolutamente lucido delle sue conseguenze) e se avesse saputo prenderli in
considerazione, rilevare quante folli speranze e quanti pericoli a lungo
termine implicavano.
[ … ]
La cibernetica, trascurata dalla
politica, venne dunque introdotta nell' economia quasi distrattamente, senza
riflessioni né secondi fini strategici, machiavellici, ma quasi
"innocentemente", con scopi pratici e senza teorie, più come un
semplice strumento, in un primo momento utile, ben presto indispensabile. Le
sue conseguenze, inserite stabilmente nelle nostre abitudini, avrebbero dovuto
risultare benefiche, quasi miracolose. Hanno avuto effetti disastrosi.
[ … ]
La liberazione dal lavoro
obbligato, dalla maledizione biblica, non doveva portare logicamente a vivere
più liberamente il proprio tempo, la propria capacità di respirare, di sentirsi
vivi, di attraversare emozioni senza essere così comandati, sfruttati,
dipendenti, senza dover sopportare tanta fatica? Non si era sperato, dalla
notte dei tempi, in una simile mutazione giudicandola un sogno impossibile,
desiderabile come nessun altro?
Questo passaggio da un ordine
dell'esistenza a quello che si instaura ai nostri giorni, e che rifiutiamo di
scoprire, sembrava un'utopia, ma, quando lo si pensava, era per immaginarlo
gestito dai lavoratori stessi, da tutti gli abitanti, e non imposto loro da
pochi, in numero infimo, che si sarebbero comportati da padroni di schiavi
ormai inutili, da proprietari di un pianeta che sarebbero stati i soli ad
amministrare, e che avrebbero gestito solo per sé, secondo i loro soli
interessi, dato che non sarebbero più stati necessari aiuti umani,
Non si sarebbe mai immaginato che
essere liberati dal fardello del lavoro sarebbe stata una catastrofe nel
peggior senso del termine. E che sarebbe accaduto inaspettatamente,
all'improvviso, come un fenomeno inizialmente clandestino. Non si sarebbe mai potuto
presagire neanche che un mondo capace di funzionare senza il sudore di tante
fronti sarebbe stato immediatamente (e ancora prima) preso da un raptus, e che
ci si sarebbe affannati come prima cosa a mettere con le spalle al muro, per
meglio respingerli, i lavoratori diventati superflui. Che questo si sarebbe
tradotto non nella capacità di tutti a meglio adoperare, apprezzare,
conquistare uno statuto di persone vive, ma in una coercizione ancora più
forte, portatrice di privazioni, di umiliazioni, di carenze, e soprattutto di
una schiavitù ancora maggiore. Nell'instaurazione sempre più manifesta di un'
oligarchia. Ma anche con la dichiarata improbabilità di qualsiasi alternativa.
Con la messa in atto generale di un'acquiescenza, di un consenso, che attingono
a dimensioni cosmiche.
Ciononostante, l'assenza, non tanto
di qualsiasi lotta, quanto di qualsiasi discussione critica, di qualsiasi
reazione, raggiunge oggi tali proporzioni, sembra così assoluta che i potenti,
non incontrando alcun ostacolo serio ai loro progetti così gravi, sembrano
quasi avere il capogiro di fronte alla calma piatta di un' opinione pubblica
assente, o che non si esprime, davanti al suo tacito consenso di fronte a
fenomeni radicali, di fronte ad avvenimenti - o piuttosto ad avventi - che si
scatenano con una vastità, una potenza, e una velocità fino a oggi inedite.
[ … ]
Lo Stato si sforza di trovare delle
soluzioni. Propone un innalzamento dei salari, ma i mezzi di cui dispone per
arrivarci, ottenerli, diventano subito stranamente evanescenti. Sogna di eterne
"formazioni" (questa volta per tutta la vita: "life long
education") e altri gadget di seconda mano. Ma pronuncia anche una parola
che, a quanto pare, suona nuova e destinata a un bell' avvenire: "impiegabilità",
che si rivela essere una parente molto prossima della flessibilità, e
addirittura una delle sue forme.
Si tratta, per il salariato, di
essere disponibile a tutti i cambiamenti, i capricci del destino, nel caso
specifico dei datori di lavoro. Dovrà essere pronto a cambiare lavoro senza
sosta (" come si cambia la camicia", avrebbe detto la tata Beppa).
Ma, a fronte della certezza di essere sballottato "da un lavoro
all'altro", avrà una "garanzia ragionevole" - vale a dire
nessuna garanzia - "di ritrovare un lavoro diverso dal precedente che ha
perso, ma che ha la stessa remunerazione". Tutto ciò straripa di buoni
sentimenti, ma essere mandati avanti e indietro da più o meno piccoli lavori a
lavori più o meno piccoli non ha niente di nuovo, e quanto alle "garanzie
ragionevoli" viene il sospetto che saranno ogni volta immediatamente
giudicate "irragionevoli", e non garantite. Si sarà comunque
inventato il nome di un gadget capace di distrarre le folle. Ricordiamocelo:
"impiegabilità".
La parola avrà successo. Si
immagina il grado di professionalizzazione di questi
"impiegabilizzati", il grado di interesse che potranno portare per il
loro lavoro, il progresso, l'esperienza che potranno acquisirvi. La qualità di
pedina intercambiabile, di nullità professionale che sarà loro assegnata. E non
si tratta in alcun modo di una vita di avventure contrapposta a un'esistenza da
travet, ma dell' accentuazione di una fragilità che li renderà ancora più
succubi. Con in più, rinnovata senza cessa, la preoccupazione di un
apprendistato, senza grandi possibilità di diventare competenti. Beninteso, non
si potrà parlare di un mestiere o di "mestiere". A ogni nuovo
tentativo, bisognerà informarsi, fare attenzione a non dispiacere a degli
sconosciuti, senza la speranza di farsi degli amici né di ottenere una
collocazione, uno statuto personale, foss'anche dei più infimi. Un
"posto" di lavoro, ancora meno. L'esistenza oscillerà senza fine tra
l'ossessione di non perdere troppo presto quel lavoro, per quanto
indesiderabile, indesiderato, e quella, avendolo perduto, di ritrovarne uno.
Ossessioni tali che, malgrado le ore di non-lavoro, non lasceranno spazio ad
altri investimenti, dato che questo modo di vivere, per quanto illeggiadrito da
una "garanzia ragionevole" , non ne proporrà e non ne consentirà.
Ci si potrà almeno rallegrare del
fatto che non sarà più possibile per i sindacati imperversare in questo tipo di
scenario. L'andare e venire permanenti, la brevità dei soggiorni in imprese di
cui non si ha il tempo di far proprio il funzionamento, dove si è solo di
passaggio, dove si è isolati, li renderanno inoperanti. Neanche più
ipotizzabili. Quanto agli accordi, alle riunioni, alle solidarietà, alle
contestazioni collettive, ai comitati di fabbrica, tutto vecchiume dimenticato!
C'è di meglio. Un'invenzione
geniale: il "lavoro a ore zero" (zero hour working), praticato in
Gran Bretagna. I dipendenti vengono pagati solo quando effettivamente lavorano.
Normale. Sì. Ma ... lavorano solo di tanto in tanto, e devono obbligatoriamente,
durante gli intervalli, aspettare a casa, disponibili e non pagati, di essere
chiamati dal loro datore di lavoro quando lui lo riterrà desiderabile, per il
tempo che riterrà opportuno! A quel punto bisognerà affrettarsi a mettersi al
lavoro per un tempo limitato.
Una vita di sogno! Ma che importa!
A permettersi tutto, si ottiene tutto. Si può anche fare qualsiasi cosa.
Lavoro, se non ce n'è più per tutti, è vero che ne resta ancora un po'. Ma per
poterne approfittare, bisogna non domandare l'impossibile, bisogna saper stare
al proprio posto: quello di senza posto.
[ … ]
Resta alla maggioranza un ultimo
ruolo da assolvere, eminente: quello di consumatori. Conviene a tutti: non
succede anche ai più disgraziati di mangiare, per esempio, delle tagliatelle dai
nomi famosi, più onorati dei loro stessi nomi? Delle tagliatelle quotate in
Borsa? Non siamo tutti gli attori potenziali, in apparenza molto sollecitati,
di questa "crescita" che dovrebbe contenere tutte le soluzioni?
Consumare, la nostra ultima ancora di
salvezza. La nostra ultima utilità. Siamo ancora buoni per questo ruolo di
clienti necessari alla "crescita" così portata alle stelle, così
desiderata, così promessa come la fine di tutti i mali, attesa con tanta
febbre. Ecco che cosa ci rassicura! Peccato che occorrerebbe, per sostenere
questo ruolo e questo rango, averne le possibilità. Ma ecco che cosa ci
rassicura ulteriormente: cosa non si farebbe per offrirci queste possibilità o
per difendere quelle che abbiamo? "Il cliente è sovrano", principio sacro:
chi oserebbe infrangerlo?
Ma allora, perché questo
impoverimento metodico, organizzato, che si dice razionale, e anche necessario,
e anche carico di promesse, e che si aggrava di giorno in giorno? Perché
tagliare quasi con rabbia, a decine di migliaia, nelle file dei potenziali
consumatori che dovrebbero rappresentare a loro volta le "galline dalle
uova d'oro" delle "forze vive della nazione", campionesse al
gioco delle "creazioni di ricchezze", e invece creatrici di tanta
povertà? L'economia di mercato si accanisce a segare il ramo sul quale pretende
di stare? Si autoaffonderebbe a colpi di "ristrutturazioni", di
flessibilità dei salari, di deflazione competitiva e altri progetti frenetici
per abolire le misure che permettono ancora ai più poveri di consumare un
tantino, sia pure poco? Lo fa per masochismo?
[ … ]
Se la ferocia sociale è sempre
esistita, aveva però dei limiti imperiosi, poiché il lavoro prodotto dalle vite
umane era indispensabile ai titolari della potenza. Non lo è più; è al contrario
diventato ingombrante. E questi limiti crollano. Riusciamo a capire che cosa
significa tutto questo? Mai l'insieme degli esseri umani è stato tanto
minacciato nella sua sopravvivenza.
Qualunque possa essere stata la
storia della barbarie nel corso dei secoli, fino a oggi l'insieme degli esseri
umani ha sempre beneficiato di una garanzia: era essenziale al funzionamento
del pianeta e alla produzione, allo sfruttamento degli strumenti del profitto,
di cui era parte. Altrettanti elementi che lo preservavano.
Per la prima volta la massa umana
non è più materialmente necessaria, e meno ancora economicamente, al piccolo
numero che detiene i poteri e per il quale le vite umane che si svolgono
all'esterno della propria ristretta cerchia non hanno interesse, né esistenza -
ce ne accorgiamo ogni giorno di più - se non dal punto di vista utilitaristico.
li rapporto di forze, finora sempre
latente, si annulla.
Scomparse le barriere. Le vite non
sono più di utilità pubblica. Ed è precisamente in funzione della loro utilità
relativa a un' economia diventata autonoma che sono valutate. Si intravede da
dove spunta il pericolo, ancora virtuale, ma assoluto.
Nel corso della Storia, la
condizione umana è stata spesso più vessata che ai giorni nostri, ma era da
parte di società che, per andare avanti, avevano bisogno di viventi. E di
viventi subalterni in grande numero.
Non è più così, È per questo che
diventa oggi così grave - in democrazia, in tempi in cui si hanno l'esperienza
dell' orrore e, come mai prima, gli strumenti per essere socialmente lucidi -
sì, così grave osservare l'espulsione inesorabile di coloro che non sono più
necessari, non agli altri uomini, ma a un'economia di mercato per la quale non
costituiscono più una fonte potenziale di profitto. E si sa che non lo
ridiventeranno mai.
L'obbrobrio nel quale li si tiene,
la punizione che viene loro inflitta e che sembra quasi naturale, la violenza
arrogante e disinvolta che devono subire, il consenso o l'indifferenza, la
passività di tutti - loro compresi - davanti al montare dell'infelicità,
potrebbero annunciare derive senza limiti, perché le masse molestate non sono
oramai più necessarie ai progetti di coloro che le tormentano.
[ … ]
Questo secolo ci ha insegnato che
niente dura, neppure i regimi più "cementati". Ma anche che tutto è
possibile nel campo della ferocia. Ferocia ormai in grado come mai prima di
scatenarsi senza freni; si sa che con le nuove tecnologie dispone di mezzi
decuplicati, a paragone dei quali le atrocità del passato sembrerebbero dei
timidi esercizi.
Come non pensare agli scenari
possibili sotto un regime totalitario che non avrebbe alcuna difficoltà a
"globalizzarsi", e che disporrebbe di strumenti di eliminazione di
efficacia, vastità e rapidità mai ancora immaginate: genocidio chiavi in mano.
Ma forse si penserà che è un
peccato non approfittare meglio di queste greggi di esseri umani; non
conservarli in vita a scopi diversi. Per esempio, come riserve di organi da
trapiantare. Scorte di esseri umani pronte, rifornimenti di organi cui si
potrebbe attingere a volontà, secondo i bisogni dei privilegiati del sistema.
Esagerato? Ma chi di noi urla di
indignazione scoprendo che in India, per esempio, dei poveri vendono i loro
organi (reni, cornee, etc.) per riuscire a sopravvivere per un po'? Lo si sa. E
ci sono dei clienti. Lo si sa. Succede oggi. Questo commercio esiste, e dalle
regioni più ricche, più "civili", ci si va a fare le compere e a buon
mercato. Si sa che in altri paesi questi organi si rubano - rapimenti,
assassinii - e che ci sono dei clienti. Lo si sa. Chi urla, se non le vittime?
Chi leva gli scudi contro il turismo sessuale? Unici a regire, i consumatori:
si precipitano. Lo si sa. E si sa che bisognerebbe attaccare non tanto gli
epifenomeni costituiti dalla vendita di organi umani o dal turismo sessuale, ma
il fenomeno che ne è all' origine: la povertà, di cui si sa, ripetiamolo, che
porta dei poveri a farsi mutilare a vantaggi? dei ricchi, al solo fine di
sopravvivere ancora un po'. E accettato. Tacitamente. E siamo in democrazia,
liberi, numerosi. Chi si muove, se non per chiudere un giornale, spegnere la
televisione, docile all'ingiunzione di restare fiducioso, sorridente, ludico e
beato (se non è già stato messo ai margini, vinto e vergognoso), mentre il
dramma, la gravità si consumano, invisibili, sotterranei e funesti, in un
mutismo quasi generale interrotto di tanto in tanto da chiacchiere che
promettono di guarire quello che è già morto?
l'sos
di un lavoratore cinese nel regalo della festa (da la stampa del 29 dicembre 2012)
Halloween: festa di mostri e streghe, di zombie e
"morti che ritornano", dolcetto
o scherzetto, e ogni tipo di raccapriccio addomesticato, per far finta
di spaventarsi a burle macabre senza doverne scontare le conseguenze. Per
questo la signora Julie Keith, una quarantaduenne dell'Oregon, l'anno scorso
era andata da Kmart ad acquistare delle lapidi di polistirolo, da utilizzare
come temibili giocattoli decorativi. Poi, fra i tanti addobbi, quello non
l'aveva scartato, aprendolo solo ora. Dentro, ha trovato una sorpresa: un
biglieto scritto a mano in un inglese claudicante interrotto da caratteri
cinesi, in cui viene chiesto aiuto denunciando le orribili condizioni di lavoro
in cui sono state prodotte le lapidi di polistirolo.
L'intera storia, comparsa sul quotidiano online "The
Oregonian", è sorprendente, ma ricca di particolari. Il messaggio, sulla
cui autenticità per ora non vi sono conferme, arriva da Shenyang, città del
nord della Cina nella regione del Liaoning, da Masanjia per l'esattezza, unità
n. 8, dove si troverebbe un campo di rieducazione tramite il lavoro.
Trattandosi di lavoro forzato, il salario corrisposto ai detenuti non è nemmeno
nei minimi previsti dalla legge cinese: "La gente qui è costretta a
lavorare 15 ore al giorno per 10 yuan al mese", ovvero poco più di un
euro.
"Se le è capitato di comprare questo giocattolo, la prego
di consegnare questa lettera all'Organizzazione Mondiale dei diritti Umani -
dice il biglietto - Migliaia di persone che vivono qui sotto la persecuzione
del Partito Comunista Cinese la ringrazieranno e ricorderanno per sempre".
Poi si legge che le persone nei campi di rieducazione sono migliaia, fra cui
anche molti seguaci del gruppo spirituale fuorilegge in Cina chiamato Falun
Gong, e che lì vengono scontate pene detentive fino a tre anni senza processo.
Tutte descrizioni che coincidono con quello che sappiamo del laojiao, la
rieducazione tramite il lavoro per l'appunto, una forma di pena amministrativa
che non richiede processo e dura fino a tre anni rinnovabili. I detenuti
ricevono una paga poco più che simbolica, e lavorano, in alcuni casi, in condizioni
terribili, senza giorni di riposo e con il rischio di essere sottomessi ad
abusi.
Importare manufatti prodotti da detenuti è illegale in
molti Paesi, tra cui gli Usa. Human
Right Watch - a cui la lettera dell'operaio cinese è stata consegnata - non è
in grado per ora di verificare la veridicità del manoscritto, anche se i
responsabili confermano che le
condizioni di lavoro descritte sono simili a quelle denunciate in altri campi
di lavoro cinesi.
Non è la prima volta che arriva un "messaggio nella bottiglia"
dalla Cina: nel 2008 un'operaia della Foxconn aveva dimenticato di cancellare
delle innocenti foto sorridenti, scattate per testare l'apparecchio.
L'acquirente, un inglese, era rimasto toccato dalla sorpresa, che aveva fatto
il giro del web - provocando una tale ondata di buoni sentimenti da far
sospettare che fosse una trovata pubblicitaria.
Non è questo il caso, che riporta invece alle mille denunce
di condizioni di lavoro intollerabili in Cina, non solo nei campi. Di recente,
del resto, il gruppo sindacale China Labour Bullettin, con sede a Hong Kong, ha
riportato che gli aumenti salariali del Guangdong, tanto sbandierati lo scorso
anno, non sono mai avvenuti a causa delle forti resistenze da parte dei
proprietari delle aziende.
"la
zampa di gatto", un racconto noir
di stanley ellin sui lavoratori licenziati…
Nulla distingueva l'una dall'altra le stanze della
pensione, tutte ugualmente sporche, col pavimento di linoleum e i letti di
ottone, ma il giorno in cui rispose all'avviso nella pagina della piccola
pubblicità, Mr. Crabtree dovette ammettere che la sua stanzetta aveva un
vantaggio sulle altre: il telefono pubblico nella saletta era proprio davanti
alla sua porta, e solo a tender l'orecchio, egli poteva trovarsi accanto allo
strumento immediatamente dopo il primo squillo.
Tenuto conto di questo, concluse la sua lettera non
soltanto con la firma, ma anche col numero del telefono. La mano gli tremò un
poco nel farlo; era un grosso inganno da parte sua, quello di pretendere
d'avere un telefono privato, ma il prestigio che pensava gliene sarebbe venuto,
poteva far pendere la bilancia in suo favore. A questo scopo, tremando, egli
sacrificò gli onorati principi di tutta una vita.
L'avviso in se stesso era stato un vero miracolo. Cercasi, diceva, per un lavoro continuato e modesto salario, sobrio, onesto, attivo impiegato
in pensione, preferibilmente quaranta-cinquantenne. Scrivere particolareggiata
mente. Cassetta 111; e Mr. Crabtree, rileggendolo ancora incredulo, si
domandava con un brivido di sgomento quanti suoi simili, tra i quaranta e i
cinquant'anni, in cerca di un lavoro continuato sia pure con salario modesto,
potevano aver letto quello stesso avviso, minuti o anche ore prima di lui.
La sua risposta poteva esser presa a modello per ogni
lettera di richiesta di impiego. L'età, quarantotto anni, la salute, eccellente.
Scapolo. Era stato impiegato in una sola ditta per trent'anni; aveva lavorato
fedelmente e bene; aveva un ammirevole attestato di servizio e puntualità.
Sfortunatamente la sua ditta era stata assorbita da un'altra più grande e
purtroppo molti impiegati anche capaci avevano dovuto esser licenziati. Ore di
lavoro? Particolare senza importanza. Voleva soltanto fare del buon lavoro,
indipendentemente dal tempo impiegato. Il salario? Una questione da lasciare
interamente al giudizio del datore di lavoro. Il suo salario precedente era
stato di cinquanta dollari la settimana, ma naturalmente c'era arrivato dopo
anni di buon lavoro. A disposizione per un'intervista in un momento qualsiasi.
Referenze verrebbero date in seguito. La firma. E poi, il numero del telefono.
E tutto questo era stato scritto e riscritto una dozzina di
volte, finché Crabtree aveva raggiunto la certezza che ogni parola necessaria
era stata scritta, che ogni parola era al suo giusto posto. Poi, con quella
calligrafia che aveva reso perfino i suoi libri mastri una cosa bella, aveva
copiato l'ultimo brogliaccio sulla carta finissima comperata allo scopo, e
l'aveva impostato. Dopo di che, chiedendosi se la risposta sarebbe venuta per
posta, per telefono o nient'affatto, Crabtree aveva passato due interminabili
settimane, piene di batticuore, fino al momento in cui rispose al telefono e
sentì il suo nome risuonare come il giorno del Giudizio universale.
"Sì," disse con voce squillante. "Parla
Crabtree! Ho scritto una lettera!"
"Calma, Mr. Crabtree, calma!" disse la voce. Era
una voce esile e chiara, che sembrava scegliere e assaporare ogni sillaba prima
di pronunciarla, ed ebbe un effetto istantaneo e raggelante su Crabtree che si
era aggrappato al telefono come avesse potuto spremerne benevolenza.
"Ho preso in considerazione la vostra domanda,"
continuò la voce con la stessa penosa ponderazione, "e ne sono molto
contento. Molto contento. Ma prima di considerare regolata la questione, voglio
che siano chiari i termini di impiego che vi offro. Avete nessuna contrarietà a
discuterne adesso?"
La parola impiego risuonò vertiginosamente nella testa di
Crabtree. "No," disse, "prego."
"Benissimo. Prima di tutto, vi sentite capace di
tenere il vostro ufficio da solo?"
"Il mio ufficio?"
"Oh, non abbiate timori circa la mole delle vostre
mansioni o delle conseguenti responsabilità. Si tratta di rapporti
confidenziali da redigere regolarmente. Avreste la vostra stanza col nome sulla
porta e, naturalmente, nessun controllo diretto sopra di voi. Questo spiega la
necessità di una persona estremamente degna di fiducia."
"Sì," disse Crabtree, "ma questi rapporti
confidenziali..."
"Il vostro ufficio verrà fornito di una lista di molte
importanti società. Riceverà in abbonamento un certo numero di giornali
finanziari che parlano spesso di quelle stesse società. Voi annoterete tali
referenze man mano che usciranno nei giornali e alla fine di ciascun giorno ne
farete la relazione e me la spedirete per posta. Devo aggiungere che tutto
questo non comporterà da parte vostra alcuna forma letteraria o teoretica.
Accuratezza, brevità, chiarezza: queste sono le qualità che dovranno avere le
vostre note. Comprendete?"
"Sì, certo," rispose Crabtree con fervore.
"Benissimo," disse la voce. "Le vostre ore
di lavoro saranno dalle nove alle diciassette, con un'ora di intervallo per la
colazione. Devo insistere su puntualità e diligenza, e spero sarete così
coscienzioso come se vi trovaste sotto il mio personale controllo in ogni
momento della giornata. Spero non vi sentirete offeso se mi dilungo su questi
particolari."
"Oh, no, signore!" disse Crabtree. "Io ...
"
"Perrnettetemi di continuare," disse la voce.
"Questo è l'indirizzo dove vi troverete da qui a una settimana, e il
numero della vostra stanza"... Crabtree che non aveva carta e matita sotto
mano, cercò freneticamente di ficcarsi i numeri in testa... "e l'ufficio
sarà del tutto pronto per voi.
"La porta sarà aperta, e troverete due chiavi nel
cassetto dello scrittoio: una della porta e una dell'armadio dell'ufficio. Nel
cassetto troverete anche la lista di cui vi ho parlato e i materiali occorrenti
per i vostri rapporti. Nell'armadio troverete una serie di periodici sui quali
potrete incominciare il vostro lavoro."
"Scusate," disse Crabtree, "ma quei
rapporti..." "Dovranno contenere ogni più piccolo particolare degno
d'interesse riguardante le società comprese nella lista, dalle transazioni di
affari ai cambiamenti di personale. E devono essere spediti a me tutti i
giorni, immediatamente dopo che avrete lasciato l'ufficio. È chiaro?"
"Soltanto una cosa," disse Crabtree. "A
chi... dove devo spedire i rapporti?"
"Domanda inutile," disse la voce bruscamente, con
grande spavento di Crabtree. "Al numero di cassetta che già conoscete,
naturalmente."
"Naturalmente," ripeté Crabtree.
"Ora," disse la voce con un piacevole ritorno al
tono ponderato di prima, "la questione del salario. Vi ho pensato molto,
poiché, come avrete visto, si tratta di tener conto di molti fattori. In
definitiva, però, ho deciso di lasciarmi guidare dall'antica massima: un buon
lavoratore vale il suo prezzo ... vi ricordate queste parole?"
"Sì," rispose Crabtree.
"E," continuò la voce, "di un cattivo
lavoratore si può facilmente liberarsi. Su questa base sono pronto a offrirvi
cinquantadue dollari la settimana. Siete contento?"
Mr. Crabtree guardò il telefono sbalordito, poi ritrovò la
voce. "Molto," disse con affanno. "Oh, molto, davvero. Devo
confessarvi che mai ... "
La voce l'interruppe bruscamente. "Ma questo è sotto
condizione, capite. Sarete ... per usare un termine piuttosto grossolano ...
sotto prova, finché non avrete dimostrato la vostra abilità. O il lavoro sarà
fatto alla perfezione, o il lavoro non ci sarà."
Crabtree si sentì tremare le gambe al solo accenno di
quella possibilità. "Farò del mio meglio," disse. "Farò
assolutamente del mio meglio."
"E guardate," la voce continuava implacabile,
"che do la massima importanza al modo col quale osserverete la natura
confidenziale del vostro lavoro. Non dovete parlarne con nessuno, e poiché la
continuità di detto lavoro e relativo salario stanno completamente nelle mie
mani, non ci saranno scuse per qualsiasi mancanza. Ho anche rimosso ogni
tentazione sotto forma di un telefono che non troverete sul vostro scrittoio.
Spero non vi sembrerà ingiusto che io sia contrario a quanto avviene di solito
negli uffici, dove gli impiegati perdono il loro tempo in oziose conversazioni
durante le ore di lavoro."
Dopo la morte della sua unica sorella avvenuta vent'anni
prima, non c'era un'anima al mondo che si sarebbe sognata di chiamare Crabtree
al telefono per qualsiasi genere di conversazione; ma si limitò a dire:
"No, signore, assolutamente no".
"Allora siete d'accordo su tutti i termini che abbiamo
discusso?"
"Sì, signore," disse Crabtree. "Qualche
altra domanda?"
"Una cosa sola," disse Crabtree. "Il mio
salario. Come ... " "Lo riceverete alla fine di ogni settimana,"
disse la voce, "in contanti. C'è altro?"
Nella mente di Crabtree c'era ora un vero guazzabuglio di
domande ma non gli riuscì di formularne nemmeno una. E prima di poterlo fare la
voce disse bruscamente:
"Buona fortuna, allora" ed egli sentì lo scatto
del telefono che il suo interlocutore aveva chiuso. Fu soltanto quando tentò di
fare altrettanto che si accorse che la sua mano aveva talmente stretto il
ricevitore che provò dolore a distaccarla.
Quando per la prima volta Mr. Crabtree si avvicinò
all'indirizzo che gli era stato indicato, non sarebbe stato molto sorpreso di
non trovare nemmeno l'edificio corrispondente. Ma l'edificio c'era,
rassicurante nella sua immensità, pieno di gente che si stipava negli ascensori
e, nelle sale e nei corridoi, gli camminava intorno senza curarsi minimamente
di lui. C'era anche l'ufficio, nascosto all'estremità di un corridoio obliquo,
su all'ultimo piano; Crabtree lo capì da una scaletta che dal corridoio stesso
conduceva a una botola aperta attraverso la quale si poteva vedere una fetta
grigia di cielo. La cosa più impressionante dell'ufficio stesso era la superba
targa di metallo sulla porta con le parole: Società dei Rapporti Crabtree.
Aperta la porta, uno si trovava in una stanza incredibilmente piccola e
stretta, resa ancora più piccola dalle massicce dimensioni del mobilio che la
riempiva. A destra, immediatamente vicino alla porta, vi era un gigantesco
schedario. Addossato strettamente a quello, ma così largo da utilizzare tutto
il resto della parete da quella parte, vi era un pesante scrittoio d'antico
stampo, con una sedia girevole davanti.
La finestra nella parete opposta s'accordava con il
mobilio. Era una finestra immensa, larga e alta, e il suo davanzale non
arrivava più in su delle ginocchia di Crabtree. Questi fu preso da una leggera
nausea quando per la prima volta vi s'affacciò e vide il vertiginoso abisso
sottostante, reso ancora più spaventoso dalle pareti cieche, senza finestre,
dell'edificio di fronte.
Gli bastò quell' occhiata sola; da allora Crabtree tenne la
parte inferiore della finestra ben chiusa, manovrando soltanto la parte
superiore a seconda dei suoi bisogni.
Le chiavi erano in un cassetto dello scrittoio; in un altro
trovò penna, inchiostro, una scatola di pennini, carta assorbente, e una mezza
dozzina di altri accessori più appariscenti che utili; una provvista di
francobolli a portata di mano; e, cosa più soddisfacente di tutte, una bella
quantità di carta da lettere, di cui ogni foglio portava l'intestazione:
Società dei Rapporti Crabtree, il numero dell'ufficio e l'indirizzo
dell'edificio. Felice della scoperta, Crabtree tracciò poche righe di prova con
dei magnifici ghirigori, poi, un poco spaventato dalla sua prodigalità,
stracciò accuratamente il foglio in minutissimi pezzi e li lasciò cadere nel
cestino della carta straccia ai suoi piedi.
Dopo di che, i suoi sforzi furono interamente dedicat~ al
lavoro. Lo schedario rivelò una terribile quantità di pubblicazioni che
dovevano essere esaminate riga per riga, e Crabtree non finiva mai di studiare
una pagina senza provare l'orribile sensazione di aver saltato un nome
corrispondente a uno compreso nella lista che aveva trovato, come gli era stato
promesso, nello scrittoio. Allora rileggeva tutta la pagina con la paurosa
sensazione di perdere del tempo prezioso, e sospirava quando arrivava in fondo
senza trovare quello che non aveva trovato la prima volta.
Spesso pensava che non avrebbe mai potuto esaurire la
mostruosa pila di periodici che aveva davanti. Ogni volta che tirava un sospiro
di sollievo per aver fatto qualche progresso, subito lo rattristava il pensiero
che la mattina dopo avrebbe trovato alla sua porta, con la distribuzione della
posta, nuovo materiale da aggiungere al mucchio.
C'erano tuttavia delle schiarite nella deprimente monotonia
di quel lavoro. Una era la compilazione del rapporto giornaliero, un compito
che Crabtree, con gran sorpresa, stava imparando ad amare; l'altra era il
puntuale arrivo ogni settimana della grossa busta contenente il suo salario
fino all'ultimo centesimo; ma questo piacere non era del tutto privo di una
qualche preoccupazione.
Mr. Crabtree apriva la busta, ne toglieva il denaro, lo
contava e lo riponeva accuratamente nel suo vecchio portafoglio. Poi
introduceva un dito esplorativo e tremante nella busta, timoroso di incontrare
una nota di licenziamento, come era accaduto in passato. Era sempre un brutto
momento, che lo faceva star male fino a che si immergeva di nuovo nel suo
lavoro.
Il lavoro fece presto parte di lui stesso. Non si dava più
la pena di guardare la lista; ogni nome si era fermamente impresso nella sua
mente, e nelle notti insonni riusciva ad addormentarsi semplicemente
ripetendosi alcune volte i nomi della lista. Uno di questi lo occupava in modo
particolare, sembrandogli che meritasse una speciale attenzione. La Società
Anonima Strumenti Perfetti stava certo attraversando un periodo burrascoso. Si
erano avuti drastici cambiamenti di personale, si era parlato di assorbimento
da parte di un'altra società, di gravi fluttuazioni sul mercato.
Piaceva a Mr. Crabtree scoprire che col passare delle
settimane ciascuno dei nomi sulla lista aveva assunto per lui una distinta
personalità. L'Unione era salda come una roccia, calma di fronte ai suoi
piacevoli successi; l'Universale, di grado più elevato, dedita a ricerche
scientifiche; e così via. Ma la Società Anonima Strumenti Perfetti era la
preferita di Crabtree, che qualche volta si era sorpreso nell'atto di darle
un'ombra più d'attenzione di quanto non meritasse. Allora si rimproverava
severamente: la più perfetta imparzialità doveva esser mantenuta, altrimenti...
La cosa avvenne senza alcun preavviso. Ritornava in ufficio
dopo la colazione, puntuale come sempre, quando, aperta la porta, seppe di
trovarsi faccia a faccia col suo principale.
"Entrate, Mr. Crabtree," disse la chiara, esile
voce, "e chiudete la porta."
Crabtree chiuse la porta e ristette muto e immobile.
"Devo essere una figura straordinaria," disse il visitatore con un
certo compiacimento, "per farvi tanto effetto. Sapete chi sono,
naturalmente?"
Gli occhi prominenti fissi e sbarrati su di lui, la bocca
larga e flessibile, il corpo tozzo e rotondo come una botte, lo fecero apparire
allo sguardo stupefatto di Crabtree come una rana ripugnante seduta comodamente
sull'orlo di uno stagno, con lui stesso nella sfortunata parte di una mosca
volteggiante lì presso.
"Ritengo," balbettò Crabtree, "che siate il
mio principale, signor ... signor ... "
Un pollice enorme s'allungò a solleticare scherzosamente le
costole di Crabtree. "Finché il salario viene pagato puntualmente, il nome
ha poca importanza, eh, Mr. Crabtree? Però, per convenienza, per voi sarò,
mettiamo, George Spelvin... Avete mai incontrato l' onnipresente Mr. Spelvin
nei vostri viaggi, Crabtree?"
"Temo di no," rispose Crabtree, sentendosi molto
infelice.
"Allora non siete un giocatore e questa è una gran
bella cosa. E credo di indovinare che non siete tipo da perdere il vostro tempo
con la lettura o col cinema."
"Cerco di tenermi al corrente con la lettura dei
giornali quotidiani," rispose fieramente Crabtree. "C'è molto da
leggere nei giornali, sapete, Mr. Spelvin, e non è sempre facile, tenendo conto
di tutto quel che ho da fare qui, trovare il tempo per altri diversivi.
Naturalmente se uno vuol tenersi al corrente."
Gli angoli della larga bocca si alzarono a formare quello
che Crabtree sperò fosse un sorriso. "Questo è precisamente quanto speravo
di sentire da voi. Fatti, Mr. Crabtree, fatti! Mi occorreva un uomo che avesse
un solo interesse nella vita, l'interesse dei fatti; e le vostre parole e la
diligenza che mettete nel vostro lavoro mi dicono che l'ho trovato in voi. Sono
molto soddisfatto, Mr. Crabtree."
Crabtree sentì pulsare piacevolmente il sangue nelle vene.
"Grazie. Grazie ancora, Mr. Spelvin. So che ce l'ho messa tutta, ma non
sapevo se ... Non volete accomodarvi?" E Crabtree cercò di far girare la
sedia nella posizione adatta, ma non vi riuscì, "L'ufficio è un po' piccolo.
Ma molto comodo," balbettò in fretta.
"Sono certo che va benissimo," disse Mr. Spelvin.
Fece un passo indietro finché si trovò con la schiena quasi a ridosso della
finestra e indicò la seggiola. "Ora vorrei che vi sedeste, Mr. Crabtree,
finché vi spiegherò la faccenda che mi ha spinto a venire fin qui."
Affascinato da quella mano autorevole, Crabtree si lasciò
cadere sulla seggiola e la girò finché si trovò di fronte alla finestra e alla
tozza figura che vi risaltava contro. "Se si tratta del rapporto di
oggi," disse, "temo che non sia ancora completo. C'era qualche nota
da prendere sulla Società Anonima Strumenti Perfetti. .. "
Mr. Spelvin fece segno che la cosa gli era completamente
indifferente. "Non sono qui per discutere di questo," disse
lentamente. "Sono qui per trovare la risposta a un problema che mi trovo a
dover affrontare. E conto su di voi, Mr. Crabtree, per aiutarmi a trovare
questa risposta."
"Un problema?" Crabtree sentì invadersi da
un'onda di benessere. "Farò tutto il possibile per aiutarvi, Mr. Spelvin.
Tutto il possibile."
Gli occhi sporgenti sondarono i suoi con aria annoiata.
"Allora, ditemi, Mr. Crabtree: ve la sentireste di
uccidere un uomo?"
"Io?" esclamò Crabtree. "Se me la sentirei
di... Temo di non aver capito bene, Mr. Spelvìn."
"Ho detto," ripeté Mr. Spelvin pronunciando accuratamente
ogni parola, "se ve la sentireste di uccidere un uomo."
L'espressione di Crabtree mutò di colpo. "Ma io, non
potrei; io non vorrei. Questo," proseguì, "vorrebbe dire assassinare
qualcuno!"
"Precisamente," disse Mr. Spelvin.
"Ma voi state scherzando," disse Crabtree,
tentando di ridere, ma riuscendo soltanto a trarre dalla gola contratta una
specie di singhiozzo. Anche quel pietoso tentativo fu troncato sul nascere
davanti a quella faccia di pietra. "Sono terribilmente spiacente, Mr.
Spelvin, terribilmente spiacente. Ma sapete anche voi che non è nelle
abitudini... non è il genere di cosa che... "
"Mr. Crabtree: nei giornali finanziari che consultate
con tanta passione, troverete il mio nome - proprio il mio nome - ripetuto
infinite volte. Ho lo zampino in molti affari, Mr. Crabtree, e mi vanno sempre
bene. Per usare gli aggettivi più espliciti, io sono tanto ricco e potente
quanto non potete immaginare nemmeno nei vostri sogni più fantastici... ammesso
che siate capace di sogni fantastici... e un uomo non raggiunge una posizione
simile sprecando il tempo a far dello spirito o passando la sua giornata in
compagnia di estranei. Il mio tempo è prezioso, Mr. Crabtree. Se non potete
rispondere alla mia domanda, dite di no e che sia finita!"
"Non credo di poterlo fare," disse Crabtree in
tono lamentoso.
"Potevate dirlo subito," disse Mr. Spelvin,
"e risparmiarmi questo momento di collera. A dire il vero, non pensavo che
avreste potuto rispondere alla mia domanda e se l'aveste fatto ne sarei stato deluso.
Vedete, Mr. Crabtree, io invidio profondamente la serenità della vostra
esistenza, dove questioni di questo genere non vengono nemmeno sfiorate.
Sfortunatamente io non sono in tale situazione. A un certo punto della mia
carriera ho commesso un errore, il solo errore che ha contrassegnato il sorgere
della mia fortuna. Questo errore attrasse, tempo addietro, l'attenzione di un
uomo tanto crudele quanto pericolosamente intelligente e da quel momento sono
stato in suo potere. Egli è, infatti, un ricattatore, un comune ricattatore che
ha finito col mettere un prezzo troppo alto alla sua merce e così ora è lui che
deve pagare."
"Intendete ucciderlo?" chiese Crabtree con voce
rauca. Mr. Spelvin alzò una mano grassoccia in segno di protesta. "Se una
mosca venisse a posarsi sul palmo di questa mano," disse severamente,
"non troverei la forza di chiudere le dita per farla morire. A essere
franco, Mr. Crabtree, io sono assolutamente incapace di un atto di violenza, e
se questo può essere una qualità ammirevole da molti lati, è diventata una cosa
imbarazzante adesso perché quell'uomo dev'essere ucciso senza fallo." Qui
Mr. Spelvin fece una pausa. "Né questo è un compito per un sicario. Se
ricorressi a uno di questa specie, certo cambierei un ricattatore con un altro,
e anche questo non è pratico." Mr. Spelvin fece un'altra pausa.
"Così, Mr. Crabtree, come potete vedere voi stesso, c'è soltanto una
conclusione da trarre da tutto questo: la responsabilità di annientare il mio
tormentatore riposa interamente su di voi."
"Su di me!" gridò Crabtree. "Ma io non
potrei mai... no, mai.
"Orsù," disse Mr. Spelvin bruscamente,
"calmatevi. Prima di andare a fondo sull'argomento, Mr. Crabtree, sia
chiaro che, ove rifiutaste di aderire alla mia richiesta, lasciando questo
ufficio oggi, voi lo lascereste per sempre. Non posso tollerare un impiegato
che non capisce la sua posizione."
"Non tollerate!" disse Crabtree. "Ma questo
non è giusto, proprio non è giusto, Mr. Spelvin. Ho lavorato
indefessamente." I suoi occhiali si appannarono. Se li levò con gesto
goffo, li pulì accuratamente, se li rimise sul naso. "E io dovrei rimanere
con un simile segreto. Non vedo, proprio non ci vedo chiaro. Ma questa,"
continuò allarmato, "è una faccenda che riguarda la polizia!"
Con orrore vide la faccia di Mr. Spelvin diventare d'un
rosso acceso, mentre la grossa persona cominciava a tremare di un riso convulso
che risuonò forte nella stanza.
"Perdonatemi," riuscì finalmente a dire Mr.
Spelvin quasi boccheggiando. "Perdonatemi, caro amico. Stavo semplicemente
cercando di rappresentarmi la scena in cui andreste alla polizia per denunciare
le incredibili richieste fattevi dal vostro principale."
"Dovete capirmi," disse Crabtree, "non sto
mica minacciandovi, Mr. Spelvin. È soltanto ... "
"Minacciare me? Mr. Crabtree, ditemi, quale relazione
credete ci sia tra noi agli occhi del mondo?"
"Relazione? lo lavoro per voi, Mr. Spelvin. Sono un
vostro impiegato. Io ... "
Mr. Spelvin sorrise amabilmente. "Che strana
illusione," disse, "quando tutti possono vedere che voi non siete che
un meschino piccolo uomo impiegato in un'altrettanto meschina impresa che non
può avere assolutamente alcun interesse per me."
"Ma voi stesso mi avete dato l'impiego, Mr. Spelvin!
Vi ho scritto una lettera in risposta al vostro annuncio!"
"È vero," disse Mr. Spelvin, "ma
sfortunatamente il posto era già occupato, come vi ho cortesemente spiegato
nella mia risposta. Sembrate incredulo, Crabtree, ma sappiate che la vostra
lettera e una copia della mia risposta sono al sicuro nei miei schedari, se per
caso la faccenda fosse tirata fuori."
"Ma questo ufficio! Questi mobili! Il mio
lavoro!"
"Mr, Crabtree, Mr. Crabtree," disse Mr. Spelvin
scuotendo gravemente la testa, "vi siete mai domandato da dove provenisse
il vostro salario settimanale? L'amministratore di questo immobile, i
fornitori, gli editori che vi mandano i loro giornali, non erano interessati
alla mia identità più di quanto lo foste voi. Sono d'accordo con voi, che è una
cosa un po' irregolare da parte mia farvi pervenire il salario in carta moneta
attraverso la posta, ma non abbiate timori per me, Mr. Crabtree. I pagamenti in
contanti sono l'oppio degli uomini d'affari."
"Ma i miei rapporti!" disse Crabtree che stava
cominciando a dubitare seriamente della propria esistenza.
"Ah, sicuro, i rapporti. Penso che l'intraprendente
signor Crabtree dopo aver ricevuto la mia risposta sfavorevole alla sua domanda
di impiego, abbia deciso di mettersi in affari per conto suo. E abbia quindi
iniziato un servizio di rapporti finanziari e tentato perfino di includere me
tra i suoi clienti! Ho rifiutato sdegnosamente, come potete immaginare (ho in
mio possesso il suo rapporto e una copia della mia risposta), ma egli ha
scioccamente persistito nei suoi sforzi. Scioccamente, dico, perché i suoi
rapporti sono perfettamente inutili per me; non ho alcun interesse in nessuna
delle società che egli va esaminando, e perché pensa che potrei averne supera
il mio comprendonio. Francamente, sospetto che quest'uomo sia un eccentrico della
peggior specie, ma poiché ho a che fare con molti tipi del genere, non me ne
curo e distruggo i suoi rapporti giornalieri non appena mi arrivano."
"Li distruggete?" disse Crabtree stupefatto.
"Non avete ragione di lagnarvi, spero," disse Mr.
Spelvin in tono annoiato. "Per trovare un uomo del vostro carattere, Mr.
Crabtree, era necessario da parte mia specificare che si trattava di un lavoro
difficile nella mia offerta d'impiego. lo mi conformo alla mia parte di
contratto provvedendolo per voi, ma non vedo che la sua destinazione finale vi
riguardi in qualche modo."
"Un uomo del mio carattere," ripeté debolmente
Crabtree, "commettere un assassinio?"
"E perché no?" La larga bocca si contrasse in un
ghigno. "Lasciate che vi illumini, Mr. Crabtree. Ho passato una piacevole
e profittevole parte della mia vita osservando i miei simili, come uno
scienziato studia gli insetti sotto vetro. E sono giunto a una conclusione, Mr.
Crabtree, a una conclusione tra tutte che ha contribuito a fare la mia fortuna.
Sono giunto alla conclusione che per la maggioranza degli uomini è la funzione
che conta, e non i motivi o le conseguenze. Il mio avviso sul giornale, Mr.
Crabtree, era calcolato per assicurarmi i servizi di un perfetto rappresentante
del tipo. Dal momento in cui avete risposto al mio avviso, fino a ora, avete
risposto anche alle mie aspettative: avete funzionato perfettamente, senza
pensare a motivi o conseguenze.
"Ora è entrato a far parte delle vostre funzioni
l'assassinio. Mi sono degnato di darvi una spiegazione dei suoi motivi; è
facile definirne le conseguenze. O continuate a funzionare come prima, o, per
dirla in poche parole, siete licenziato."
"Licenziato!" esclamò Crabtree amaramente.
"E che cosa importa un impiego all'uomo che è in prigione? O a un uomo
condannato a essere impiccato?"
"Andiamo," osservò Mr. Spelvin pacatamente;
"potete pensare che vi tenderei un'insidia che intrappolerebbe anche me?
Temo che siate un po' ottuso, caro il mio uomo. Se non lo siete, dovete
rendervi conto che la mia stessa sicurezza è legata alla vostra. E la garanzia
di questa sicurezza sta nientemeno che nella vostra continuata presenza in
questo ufficio e nella regolarità della vostra applicazione al lavoro."
"È facile parlare così quando, come voi, ci si
nasconde sotto un falso nome," disse Crabtree perfidamente.
"Vi assicuro, Crabtree, che la mia posizione nella
società è tale che la mia identità può essere scoperta con estrema facilità. Ma
devo rammentarvi che se voi aderiste alla mia proposta, sareste un criminale e
quindi vi converrebbe esser discreto.
"D'altra parte, se voi non aderite alla mia richiesta
- e avete in questo la più completa libertà di scelta - ogni accusa che
formulaste contro di me sarebbe pericolosa soltanto per voi. Il mondo, Mr.
Crabtree, ignora tutto sui nostri rapporti e anche delle mie faccende con quel
signore che mi sta ricattando e che ora deve essere eliminato. Né la sua morte
né le vostre accuse potrebbero toccarmi, Mr. Crabtree.
"Scoprire la mia identità, come vi ho detto, non
sarebbe difficile. Ma far uso di questa informazione, Mr. Crabtree, può
soltanto condurvi in una prigione o in un asilo di pazzi."
Crabtree sentì sfuggirgli l'ultimo resto di volontà.
"Avete pensato a tutto," disse.
"A tutto, Mr. Crabtree. Se siete entrato nel mio
schema, è stato soltanto per mettere in pratica il mio piano; ma molto molto
tempo ho lavorato a soppesare, misurare, valutare ogni parte di quel piano. Per
esempio, questa stanza, proprio questa stanza è stata scelta soltanto dopo una
lunga e faticosa ricerca, come rispondente alla perfezione per il mio scopo. Il
mobilio è stato scelto e disposto per favorire il mio scopo. Come? Ora ve lo
spiego.
"Quando voi siete seduto al vostro scrittoio, un
visitatore deve per forza occupare lo spazio dove sono io in questo momento
davanti alla finestra. Il visitatore è, naturalmente, il signore in questione.
Egli entrerà e starà qui con la finestra interamente aperta dietro di sé. Vi
domanderà una busta che un amico avrà lasciato per lui: questa busta," e Mr.
Spelvin ne gettò una sullo scrittoio. "Avrete messo la busta in un
cassetto dello scrittoio, la troverete e gliela darete. Poi, siccome è un tipo
molto metodico (so anche questo), metterà la busta nella tasca interna della
giacca e in questo momento una buona spinta lo scaraventerà dalla finestra.
L'intera operazione durerà meno di un minuto. Subito dopo," soggiunse Mr.
Spelvin con calma, "chiuderete del tutto la finestra e tornerete al vostro
lavoro."
"Qualcuno," mormorò Crabtree, "la polizia
... "
"La polizia," disse Mr. Spelvin, "troverà il
cadavere di un qualunque povero infelice che è salito dalla scala che è nel
corridoio, ha raggiunto il tetto e si è gettato di sotto. E questo lo verrà a
sapere perché nella busta riposta nella tasca interna della sua giacchetta non
vi è ciò che il signore in questione si aspettava di trovare, ma una nota
diligentemente scritta a macchina con la spiegazione della triste faccenda e
dei suoi motivi, molte scuse per ogni possibile noia recata (i suicidi hanno la
specialità delle scuse, Mr. Crabtree) e una patetica supplica per un funerale
sollecito e tranquillo. E," disse ancora Mr. Spelvin congiungendo
delicatamente le dita, "non dubito che lo avrà."
"E che cosa," disse Crabtree, "che cosa
succederebbe se non andasse tutto come dite voi; se l'uomo aprisse la lettera
non appena gliela avessi data? O ... qualche cosa di simile?"
Mr. Spelvin si strinse nelle spalle. "In questo caso,
il signore in questione se ne andrebbe semplicemente e tranquillamente e mi
verrebbe a cercare per discutere la faccenda. Rendetevi conto, Mr. Crabtree,
che tutti quelli dediti alla stessa attività del nostro amico, devono
aspettarsi qualche piccolo tentativo del genere, e, mentre è poco probabile che
li trovi di suo gusto, è difficile che si arrischi a far qualche cosa che
potrebbe distruggere la gallina che fa le uova d'oro. No, Mr. Crabtree, se si
avverasse la possibilità suggerita da voi, vorrebbe dire soltanto che dovrei
pensare a un'altra trappola e molto più ingegnosa di questa."
Mr. Spelvin trasse di tasca un pesante orologio, lo
consultò poi lo ripose con cura. "Non ho più molto tempo, Mr. Crabtree.
Non che io trovi noiosa la vostra compagnia, ma il mio uomo sarà qui tra poco,
e per quell'ora ogni particolare dev'essere nelle vostre mani. Tutto ciò che vi
domando è questo: quando arriva, la finestra dev'essere aperta."
Il signor Spelvin l'aprì del tutto e vi si affacciò un
momento, guardando compiaciuto l'abisso. "La busta sarà nel vostro
scrittoio." Aprì il cassetto, ve la fece cadere, e lo richiuse con forza.
"E al momento della decisione, siete libero di agire in un modo o
nell'altro."
"Libero?" disse Crabtree. "Avete detto che
mi domanderà la busta?"
"Ve la domanderà. Ve la domanderà certamente. Ma se
voi gli direte che non sapete nulla, se ne andrà tranquillamente e più tardi si
metterà in comunicazione con me. E questo, naturalmente, equivarrà alla notizia
delle vostre dimissioni dall'impiego."
Mr. Spelvin si avvicinò alla porta e si fermò con una mano
sulla maniglia. "Tuttavia," disse, "se non avrò più alcuna
comunicazione da lui, avrò la sicurezza che il vostro periodo di prova è finito
col più completo successo e che da ora in poi dovrete esser considerato un
capace e fedele impiegato."
"Ma i rapporti!" esclamò Crabtree. "Voi li
distruggete ... " "Naturalmente," disse Mr. Spelvin un poco
sorpreso.
"Ma voi continuerete il vostro lavoro e mi manderete i
rapporti come avete sempre fatto. Vi assicuro che non mi importa nulla che non
abbiano alcun significato, Mr. Crabtree. Fanno parte di un disegno e il vostro
conformarvi a questo disegno, come vi ho già detto, mi dà la migliore
assicurazione per la mia sicurezza."
La porta fu aperta e richiusa senza rumore, e Crabtree si
trovò solo nella stanza.
L'ombra dell'edificio di fronte si proiettava scura sul suo
scrittoio. Crabtree guardò l'orologio, non riuscì a leggere l'ora nella
crescente oscurità della stanza e si alzò per accendere la luce sopra la sua
testa. In quell'istante qualcuno bussò perentoriamente alla porta.
"Avanti," disse Crabtree.
La porta si aprì e apparvero due figure. L'una, un vivace
ometto, l'altra un massiccio poliziotto che troneggiava autorevolmente sul
compagno. L'ometto entrò nella stanza e, col gesto di un prestigiatore che
facesse uscire un coniglio da un cappello, trasse un astuccio dalla tasca, lo
fece scattare per mostrare lo scintillio di un distintivo, lo richiuse e lo
rimise in tasca.
"Polizia," disse l'uomo laconicamente. "Il
mio nome è Sharpe."
Mr. Crabtree s'inchinò gentilmente. "Sì?" disse.
"Spero di non disturbarvi," disse Sharpe
vivacemente.
"Soltanto qualche domanda."
Come se avesse aspettato queste parole, il grosso
poliziotto tirò fuori all'istante un grosso taccuino e un mozzicone di matita e
si preparò all' azione. Crabtree guardò il taccuino di sottecchi e poi il
piccolo Sharpe. "No," disse, "non mi disturbate affatto."
"Siete Crabtree?" chiese Sharpe, e Crabtree
trasalì, poi si ricordò del nome sulla porta.
"Sì," rispose.
Il freddo sguardo di Sharpe passò oltre ad abbracciare la
stanza con evidente disprezzo. "È questo il vostro ufficio?"
"Sì," rispose Crabtree.
"Siete stato qui tutto il pomeriggio?"
"Fin dalle tredici," disse Crabtree. "Vado a
far colazione a mezzogiorno e all'una sono di ritorno."
"Sta bene," disse Sharpe, e accennando dietro a
sé:
"Quella porta è rimasta mai aperta nel
pomeriggio?".
"È sempre chiusa mentre lavoro," rispose
Crabtree. "Perciò non avreste potuto vedere qualcuno salire la scaletta
del corridoio."
"No certo," rispose Crabtree, "non avrei
potuto vederlo." Sharpe guardò lo scrittoio, poi si passò pensieroso un
pollice sulla guancia. "Mi sembra che dallo scrittoio non possiate neppure
vedere qualcosa che potrebbe accadere fuori della finestra."
"No davvero," rispose Crabtree. "Non mentre
sono al lavoro."
"Allora," disse Sharpe, "avete sentito
qualcosa fuori della finestra questo pomeriggio? Qualcosa fuori del comune,
intendo dire."
"Fuori del comune?" ripeté Crabtree.
"Un grido. Qualcuno che gridava. O qualche cosa di
simile." Mr. Crabtree aggrottò la fronte. "Ma sì," disse,
"ho sentito. E non molto tempo fa. Sembrava un grido di sorpresa ... o di
spavento. E anche molto forte. È sempre tutto così tranquillo qui intorno che
non ho potuto fare a meno di sentirlo."
Sharpe si voltò a guardare il poliziotto che chiuse
lentamente il taccuino. "Questo chiude l'inchiesta," disse Sharpe.
"Quel tale, fatto il salto, un secondo dopo ha cambiato idea e così è
precipitato urlando per tutto il tempo. Bene," continuò voltandosi verso
Crabtree in uno slancio di confidenza, "mi sembra che abbiate diritto di
sapere che cosa è successo. Un'ora fa, qualcuno si è buttato giù dal tetto
sopra la vostra testa. Un caso chiarissimo di suicidio, con lettera esplicativa
nella tasca della giacca, ma noi ci teniamo a studiare tutti gli indizi
possibili."
"Sapete chi era?" chiese Mr. Crabtree.
Sharpe si strinse nelle spalle. "Uno dei tanti con
troppi fastidi. Giovane, di bell'aspetto, vestito bene. La sola cosa che non mi
quadra, è che uno che poteva permettersi di vestirsi così, potesse anche avere
tanti fastidi da non poterli sopportare."
Il poliziotto in uniforme parlò per la prima volta.
"La lettera che ha lasciato," disse, "pare quella di uno un po'
pazzo."
"Dovete per forza esser un po' matto per prendere
quella strada," disse Sharpe.
"Siete morto da molto tempo," disse il poliziotto
sentenziosamente.
Sharpe si soffermò sulla porta. "Mi dispiace di avervi
disturbato," disse, "ma sapete com'è. In ogni modo, voi siete stato
fortunato in certo qual modo. Due ragazze qui sotto l'hanno visto precipitare e
morire." Strizzò l'occhio e richiuse la porta dietro di sé.
Mr. Crabtree rimase a guardare la porta chiusa finché non
si dileguò il rumore dei passi pesanti. Poi si sedette avvicinando la sedia
allo scrittoio. Vi stavano sopra qualche giornale e fogli di carta in lieve
disordine; egli dispose i giornali in un mucchio diligente, in modo che tutti
gli angoli combaciassero perfettamente. Poi prese la penna, l'intinse nella
bottiglia dell'inchiostro e assicurò con l'altra mano il foglio davanti a sé.
La Società
Anonima Strumenti Perfetti, scrisse
accuratamente, dimostra una crescente
attività.