TANTRISMO DELLA MANO SINISTRA E SACRIFICI UMANI

 

 

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INDICE

 

 

un documentario della bbc

 

il volto benevolo del buddha

 

qualche dubbio

 

ciò che è sepolto viene alla luce

 

il quadro inizia a cambiare: sacrifici umani in india e cina

 

negare l'evidenza: il caso degli anasazi di mesa verde.

 

un buddhismo pacifico sempre e ovunque?

 

e in tibet? una storia che parte dai tantra

 

il buddhismo tantrico arriva in tibet

 

il "periodo della grande tenebra"

 

il rito della "liberazione compassionevole" nelle dottrine buddhiste

 

il mito del soggiogamento di rudra

 

il "rito di liberazione" (sgrol bo) nel tantrismo tibetano: fantasia o realtà?

 

le testimonianze storiche si accumulano

 

due sconvolgenti ritrovamenti a dunhuang

 

la descrizione del rito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

un documentario della bbc

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Circa dieci anni fa, un documentario della BBC descriveva l'effetto del buddhismo sulla società tibetana del VII secolo: l'evoluzione dal Tibet medievale e violento al Tibet mistico conosciuto dagli occidentali a partire dall'Ottocento. I tibetani - vi era detto - erano un popolo straordinariamente bellicoso e violento, dedito alle guerre, che pregiava la morte eroica sul campo di battaglia e disprezzava i vecchi e i deboli. Attraverso una serie di guerre sanguinose, mettendo in campo formidabili eserciti di centinaia di migliaia di uomini avevano esteso il loro dominio fino a comprendere intere regioni dell'Asia dell'ovest, dell'Asia centrale e dell'Asia del sud. Ma poi - prosegue il documentario - l'arrivo del buddhismo trasformò questo paese violento e selvaggio in un paese che rinunciò per sempre la violenza e all'aggresione dei paesi circostanti e divenne un centro di irradiazione di misticismo, civiltà e conoscenza religiosa per tutte le regioni circostanti.

 

 

il volto benevolo del buddha

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Oggi il Buddhismo, incluso quello tibetano, è universalmente considerato sinonimo di fede benevola e non-violenta, di dottrina dell'amore universale. Il grande pubblico accomuna sotto un'unica sigla il buddhismo hinayana e mahayana dei vari paesi del sud dell'Asia, il buddhismo tibetano, il buddhismo zen giapponese e il buddhismo coreano dei paesi del nord. Non fa distinzione tra il primo mahayana indiano della scuola madyamika e il mahayana tantrico del settimo secolo, che è quello che penetrò nel Tibet.

A tutti viene attribuito lo stesso atteggiamento di non-violenza e sollecitudine nei confronti delle creature, di lotta alle superstizioni religiose. Il volto del buddhismo tibetano è quello del Dalai Lama in esilio a Dharmasala, in India, che compare nei media come l'esponente di un credo illuminato minacciato dalla barbarie militarista della Cina.

 

 

qualche dubbio

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Tralasciando ciò che si trova nei libri degli scrittori coloniali inglesi dell'Ottocento, accusati di falsificare l'evidenza storica per giustificare la conquista dei civilizzatori britannici, da tempo le autorità cinesi avevano denunciato il rinvenimento di prove archeologiche e documentarie inoppugnabili di sacrifici umani nel Tibet medievale e degli inizi dell'era moderna. Ma vista la loro posizione di aggressori dichiarati del territorio e della civiltà tibetana, queste affermazioni non erano state tenute in alcuna considerazione.

Altre voci discordanti esistevano. In una manciata di siti internet anglosassoni collegati ad organizzazioni missionarie cattoliche o protestanti, si potevano leggere informazioni di tipo alquanto diverso da quelle ufficiali sul rapporto del buddhismo con la violenza e le pratiche magiche. Anch'esse considerate invenzioni della propaganda cattolica.

E tuttavia, anche nell'ambito più ponderato e spassionato della ricerca universitaria, lontano dalle luci della ribalta, qualcosa si stava muovendo. Storici, antropologi ed archeologi erano venuti gradualmente modificando le idee su cui poggia la ricostruzione del documentario della BBC su almeno quattro punti fondamentali: a) la diffusione delle pratiche dell'uccisione sacrificale di esseri umani in India e Cina; b) la presenza di pratiche violente nel tantrismo; c) il rapporto del buddhismo storico con la violenza; d) la ricostruzione storica di periodi sino ad allora poco conosciuti della storia tibetana, in particolare nelle zone più selvagge e periferiche.

Ciò che cominciava ad emergere era un quadro alquanto più sinistro di quello dei documentari edulcorati e delle pagine patinate di riviste come National Geographic. Ma la svolta fondamentale, che doveva raccogliere i frutti di questo lavoro collettivo di revisione, doveva arrivare pochi anni più tardi.

 

 

ciò che è sepolto viene alla luce

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Nel 2011, Jacob P. Dalton, allora professore presso il Dipartmento di Studi Religiosi dell'università di Yale, diede alle stampe The Taming of Demons, che porta come eloquente sottotitolo: Violence and liberation in Tibetan Buddhism, un libro che, riunendo tutte le fonti storiche note e altre sino ad allora ignote, faceva per la prima volta conoscere al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, uno dei riti più tenebrosi e meno conosciuti del tantrismo tibetano: lo sgrol ba, o "rito di liberazione" mediante omicidio rituale.

Ciò che rende il libro di Dalton straordinario - e che gli ha reso possibile penetrare così a fondo nei rituali segreti del tantrismo - è una serie di documenti, da lui pubblicati in appendice, rimasti seppelliti per più di mille anni nelle caverne dei mille Buddha, vicino a Dunhuang. In una delle grotte è venuta alla luce una intera biblioteca di testi tantrici, pochissimi dei quali al momento attuale catalogati e tradotti, risalenti a quella che nella storia tibetana è considerata l'età demoniaca per eccellenza, l'Epoca della Grande Tenebra, un periodo di estrema violenza e caos politico e religioso che va dalla metà del IX secolo fin alla fine del X secolo, di cui non era sopravvissuto alcun documento scritto. E' tra questi documenti che Dalton ha rinvenuto non una, ma ben due descrizioni dettagliate della uccisione rituale di un essere umano.

Per districarsi nel complesso simbolismo della violenza tantrica, e afferrare il quadro concettuale che la giustifica, Dalton ha potuto avvalersi dell'aiuto di un erudito buddhista, Khenpo Pema Sherab, superiore del monastero buddhista di Namdroling in India.

In tal modo, egli è riuscito a dare finalmente senso a tutta una serie di fonti testuali e storiche precedenti, sparse in note marginali dei lavori degli orientalisti e praticamente non utilizzate, e a collocarle in un contesto coerente, illuminando la filosofia che ne è alla base e i legami con le idee del tardo buddhismo indiano dei Mahayoga Tantras.

Sia la convincente ricostruzione di una coerente dottrina della "violenza compassionevole" entro il cui quadro i documenti storici si collocano in maniera perfetta, sia le fonti testuali dirette scoperte a Dunhuang conducono ad una sola, inoppugnabile conclusione: nel corso dell'Età Oscura del Tibet emersero numerosi nuovi rituali tantrici di magia nera, tra cui quelli che impiegavano il sacrificio umano, e questi riti sono stati realmente praticati per diversi secoli a partire da quel momento.

Nell'ultimo paragrafo di questa nota storica troverete la dettagliata descrizione del rito così come è emersa dopo mille anni dalle caverne di Dunhuang.

Se credete, potete concludere questa lettura con i manoscritti di Dunhuang, saltando tutti i paragrafi seguenti, dedicati al tema generale dei rapporti tra buddhismo, tantrismo, e violenza.

 

 

il quadro inizia a cambiare: sacrifici umani in india e cina

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Nonostante una schiacciante evidenza archeologica e testuale, l'indologia ufficiale, fino a tempi recentissimi, era fermamente attestata sulla linea della negazione in toto dell'esistenza di sacrifici umani nel subcontinente indiano. Ancora nel 1996, G. Flood scriveva, in un autorevole manuale di indologia: "Esisteva anche il sacrificio umano (purusamedha) modellato sul sacrificio del cavallo, ma le vittime umane erano liberate dopo la loro consacrazione senza subire alcun danno fisico. Anche se il sacrificio umano è considerato nei Veda il sacrificio più importante, non è certo che sacrifici umani abbiano mai avuto luogo. Possediamo bensì testi che si riferiscono al sacrificio umano nelle tradizioni indiane, ma non è certo che una tale pratica sia mai stata attuata, o non piuttosto sia rimasta una metafora o una mera possibilità"

In realtà, sotto altari e altre strutture religiose dei tempi vedici più antichi gli archeologi continuano a rinvenire una quantità che uno di essi ha definito "sconvolgente" di resti umani di individui sacrificati per l'erezione, come ancora recentemente è avvenuto negli scavi di Kusambi, nello stato dell'Uttar Pradesh.

Nell'Aitareya-Brahmana e nel Satapatha-Brahmana, testi appartenenti ai Veda delle origini, è descritto in dettaglio come innalzare un altare per sacrificare i "cinque animali", le cui teste vengono poste intorno ad esso: "l'uomo, o grande animale (maha-pashu) è sacrificato a Visvakarman, il cavallo a Varuna, il toro a Indra, l'ariete a Tvastr e la capra ad Agni". I corpi decapitati venivano gettati nella cava di argilla da cui viene tratto il materiale di costruzione della struttura, mentre le teste venivano spalmate di burro o cosparse di cenere e successivamente conservate.

Solo dalla età vedica tarda al sacrificio umano viene sostituito il sacrificio di altri animali o il sacrificio in effigie. Un esempio particolarmente impressionante di sacrificio in effigie, che mostra quello che in epoca arcaica dovesse essere la procedura di un reale sacrificio umano è stato scoperto nel corso di una serie di scavi condotti tra il 1988 e il 2000 presso due altari sacrificali risalenti al III secolo d. C. a Mansar, nel distretto di Maharashtra, nell'India nord-orientale. Sotto uno dei due altari, quello a forma di falco, è stato trovato un uomo di argilla raffigurato con la testa violentemente spaccata, orientata verso occidente, le gambe verso oriente. Un anello con un foro per infilare una corda passa attorno al torace e una lampada di terracotta è posta accanto al corpo. Due recipienti sono posti in corrispondenza delle ginocchia e un rozzo serpente di ferro è posto con la testa accanto ad un piede. Gli studiosi ritengono che si tratti della simulazione di una uccisione legata ad un rito di costruzione.

In India non avveniva niente di diverso dai paesi limitrofi, anche di grande civiltà: La Cambridge History of Ancient China del 1999 dice che in Cina sono state scoperte innumerevoli tracce archeologiche di sacrifici umani. Contrariamente a quel che si crede, esiste in Cina una considerevole letteratura sul cannibalismo rituale. L'ultimo episodio scoperto risale addirittura al 1983, ed è stato tenuto nascosto dalle autorità del regime fino a tempi recenti. Una lite tra due leader locali era sfociata nella violenza quando uno dei due era stato catturato, appeso ad un albero, sacrificato ritualmente e divorato dai partecipanti. Questo aveva scatenato una identica rappresaglia e dato inizio ad un ciclo di assassinii e cannibalismo rituali che le autorità faticarono non poco a far cessare.

 

 

negare l'evidenza: il caso degli anasazi di mesa verde.

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Antropologi ed archeologi non sono nuovi a questo tipo di negazione dell'evidenza, per una malintesa etica del politically correct che rende tabù gettare discredito su minoranze oppresse dal colonialismo occidentale come gli abitanti dell'India o quelli del nordamerica, specialmente su argomenti come la schiavitù e presunti riti religiosi aberranti, come appunto il cannibalismo e i sacrifici umani, bollati come invenzioni dei funzionari coloniali per giustificare la "missione civilizzatrice" dell'invasore. Particolarmente istruttiva al riguardo è la storia dei ritrovamenti di Mesa Verde.

La storia ha degli antefatti: nelle caverne preistoriche francesi occupate dagli uomini di Neanderthal tra 100.000 e 120.000 anni fa, insieme ad ossa animali furono trovate ossa umane. Ma la cosa interessante era che le ossa umane recavano gli stessi identici segni di uso di uno strumento affilato, probabilmente un coltello di selce, per separare la carne commestibile dalle ossa di quelli rinvenuti sulle ossa di bisonte e di altri animali oggetto di caccia.

Negli anni Settanta, in un sito archeologico nei pressi di Mesa Verde, nel sudovest del Colorado, furono rinvenute ossa umane appartenenti ad indiani Anasazi, gli antenati delle tribù Hopi e Zuni. Il sito era stato occupato in un periodo databile tra il 1130 e il 1150 d. C., durante un ciclo climatico di estrema siccità. Un archeologo dell'Università del North Carolina a Chapel Hill pubblicò su un giornale accademico la notizia del ritrovamento dei resti umani di almeno 35 tra adulti e bambini, con le identiche tracce che rivelavano che erano stati uccisi e macellati per farne del cibo. In prossimità delle ossa erano stati trovati degli utensili di pietra su cui le analisi confermarono la presenza di sangue umano. Un vaso di ceramica dello stesso sito conteneva quelli che furono identificati come tessuti umani. Nonostante questo, la maggioranza degli antropologi continuò a contestare la versione dell'omicidio cannibalistico e a sostenere ostinatamente che i tagli sulle ossa fossero stati causati da abrasione geologica o da animali selvatici. Fino al momento in cui fu scoperto un coprolito (escremento fossile) che gli esami biochimici confermarono contenere tracce di proteine umane digerite. A quanto pareva, dopo che sette persone del gruppo dei prigionieri furono macellate, cotte e mangiate in una angusta stanza sotterranea, uno di coloro che avevano partecipato al banchetto si accovacciò sul pavimento della stanza e defecò. Questo troncò ogni polemica: la mioglobina dei muscoli umani non poteva essere entrata nell'apparato digerente dell'individuo in questione se non per via di ingestione, visto che altri test mostrarono che lo stomaco non aveva ricevuto altri pasti nelle precedenti diciotto ore.

Qualche volta gli archeologi non possono voltare la testa dall'altra parte, come molti di loro desidererebbero.

 

 

un buddhismo pacifico sempre e ovunque?

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Gli studiosi di storia delle religioni asiatiche sono divenuti sempre più consapevoli, nell'ultimo decennio, del fatto che anche religioni come il buddhismo, se poste in contesti storici e sociali particolari, possono incorporare forme estreme di violenza ritualizzata.

A partire dal 1970, anno in cui Paul Demiéville, in una raccolta di articoli sul buddhismo pubblicata dalla prestigiosa Editrice Brill, scrisse un saggio su "Le bouddhisme et la guerre", erano apparsi sporadicamente articoli e libri che avevano iniziato ad esplorare con cautela il tema della violenza nel buddhismo, ma si erano solo limitati a porre le premesse per un lavoro ancora tutto da fare. Nel 1999 Robert Linrothe pubblicò il suo pionieristico Ruthless Compassion: Wrathful Deities in Early Indo-Tibetan Esoteric Tradition. Nel 2010 compare Buddhist Warfare di Jerryson e Juergensmeyer; nel 2006 Zimmerman, Hui Ho e Pierce pubblicano Buddhism and violence, dove, accanto alla retorica buddhista del suicidio si tenta di esplorare, sia pure nel quadro di una trattazione eterogenea, il tema dell'omicidio nel buddhismo tibetano.

A nessuno può sfuggire, in riferimento al buddhismo, l'ossimoro insito nella definizione di "monaco guerriero". Non erano ignoti i collegamenti tra il buddhismo zen in Giappone e quella che doveva divenire l'etica del samurai degli eserciti feudali giapponesi, il bushido. Parecchi monasteri dell'Asia dell'est, in particolare Cina, Corea e Giappone, impiegavano monaci guerrieri, molti dei quali altamente addestrati, per la protezione del monastero e per garantire il rispetto dei suoi diritti politici ed economici. A differenza di ordini monastici come i Templari in Occidente, che proteggevano la cristianità da pericoli esterni, essi erano impiegati nelle guerre tra monasteri per questioni di dottrina e di difesa dei diritti. Già presenti in epoca pre-moderna, in epoca moderna queste guerre tra monasteri divennero numerose e di estrema violenza, specie in periodi in cui una autorità centrale era assente o debole.

Nel Giappone medievale è ben nota e studiata la figura dei sohei o monaci-guerrieri, detti anche "gli artigli e le zanne del Buddha", che avevano incarnato una lunga tradizione di violenza settaria tra monasteri e giocato una parte importante nelle rivalità tra i signori locali.

La pratica della auto-immolazione violenta, che gettò il mondo in stato di shock con le immagini del monaco vietnamita Thich Quang Duc in fiamme dopo essersi cosparso di benzina nella piazza centrale di Saigon, l'11 giugno 1963, rientrano in una tradizione buddhista di suicidio rituale per mezzo del fuoco di cui si trovano tracce storiche a partire dalla cina del IV secolo dell'era volgare, e le cui radici lontane possono essere ricondotte alle origini del buddhismo Mahayana.

La prima delle sei perfezioni del bodhisattva, il dana o virtù del dare, riecheggia il termine dana con cui è noto il sacrificio vedico. In alcune cronache, il bodhisattva si auto-mutila (si cava gli occhi per darli ad un mendicante cieco) o auto-immola (si dà in pasto ad una tigre affamata che ha dei piccoli da nutrire) a beneficio di altri esseri viventi.

Altri tipi di riti violenti di auto-liberazione non sono sconosciuti al buddhismo. All'inizio del 2015 ha destato scalpore la scoperta, entro una statua cinese di buddha di legno, carta e lacca, custodita presso il Drents Museum di Assen, in Olanda, del cadavere di un monaco assiso nella posizione del loto. Il procedimento per cui i monaci si facevano sigillare vivi entro statue è noto e descritto in un antico documento cinese: allo scopo di prepararsi alla morte per auto-imbalsamazione, per i primi 1000 giorni il monaco cessava di assumere cibo al difuori di noci, semi, frutta, bacche, e si stremava con esercizi fisici allo scopo di consumare tutto il grasso corporeo. Poi, per i successivi mille giorni, il cibo veniva ulteriormente ridotto, e consisteva solo di corteccia d'albero e radici. Al termine di questo secondo periodo il monaco beveva un decotto velenoso ottenuto col midollo dell'albero di Urushi, che causava vomito e veloce perdita dei fluidi corporei, fungendo anche da agente antisettico contro insetti e batteri che avrebbero potuto attaccare il cadavere dopo la morte. Finalmente dopo sei anni di questi impressionanti preparativi, il monaco si faceva sigillare in un sarcofago poco più largo del suo corpo, ed entrava in uno stato meditativo che sarebbe durato fino alla sua morte per inedia. Seduto nella posizione del loto, egli disponeva di un tubo per l'aria e di una campanella. Ogni giorno avrebbe suonato la campanella per segnalare che era ancora vivo. Quando la campanella avesse smesso di suonare, il tubo per l'aria sarebbe stato rimosso e il cadavere sarebbe stato definitivamente sigillato nel suo involucro.

Cronache cinesi e giapponesi riportano che centinaia di aspiranti suicidi per auto-mummuficazione tentarono il procedimento, e almeno dodici di loro sono conosciuti per aver raggiunto lo scopo e sono conservati in statue-sarcofago.

 

 

e in tibet? una storia che parte dai tantra

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Ci si poteva chiedere a questo punto se in un contesto selvaggio, isolato e semicivilizzato come il Tibet medievale questi semi di violenza, che erano germogliati persino in paesi asiatici di antica civiltà non avessero generato dei frutti analoghi. Ed in effetti, come vedremo, è stato proprio così. Ma per poter capire come questo sia potuto avvenire dobbiamo ripercorrere il cammino che il buddhismo ha fatto prima di penetrare in questo paese, e parlare del tantrismo.

Il tantrismo, un insieme di testi, idee religiose, pratiche magiche e meditative e riti centrati sul culto della Shakti, la sposa o aspetto femminile di Shiva, la divina energia che sostiene il macrocosmo e che il praticante cerca di canalizzare nel microcosmo rappresentato dal suo corpo, si è sviluppato in India a partire dal V secolo d.C. ed ha rappresentato un fenomeno pan-religioso indiano, che ha investito sia l'induismo tradizionale, dando origine allo shivaismo tantrico, allo shaktismo e al visnuismo Pancharatra, sia il Buddhismo Mahayana, all'epoca prevalente in India rispetto al Buddhismo Hinayana tipico delle scuole del sud (Birmania, Ceylon, Siam). Il Buddhismo tantrico vide la luce a metà del settimo secolo e i principali testi tantrici apparvero nell'India settentrionale nel settimo e ottavo secolo. Essi proclamavano di avere la stessa autorità e provenienza dei sutras del Canone Pali, cioè di essere la parola del Buddha, ma dei Buddha metafisici Vajrasattva, Vajradhara, Vajrapani o di altri Buddha cosmici.

E' nella sua forma tantrica, col nome di Vajrayana ("veicolo del diamante" o "veicolo della folgore") che il Buddhismo penetrò in Tibet.

I tantrikas, coloro che praticavano il tantrismo, erano circondati, in India e in Tibet, da un alone di fosche leggende, che parlavano di riti magici, di pratiche orgiastiche, di riti necromantici celebrati nei cimiteri, con utilizzo di fluidi ed escrezioni corporee come urina, seme, feci. Molti di essi dimoravano nei cimiteri, tra i cadaveri e gli avvoltoi e gli sciacalli che se ne nutrivano. Il famoso maestro Mahayana Atisa dice con disprezzo che la loro dieta "era quella di un macellaio: carne, alcol e aglio".

I tantrikas dell'India e del Tibet avevano una fama sinistra di adepti delle arti della magia nera. La stessa natura segreta degli insegnamenti, che si raccomandava di trasmettere con la massima cautela, contribuiva a proiettare una immagine misteriosa e inquietante. Gli abitanti dei villaggi e i Maharaja li chiamavano per effettuare riti di esorcismo, di divinazione e di morte contro i propri nemici. Non di rado questi riti venivano compiuti in effigie, ma grazie alla magia tantrica la coscienza della vittima veniva catturata nell'effigie con le arti della magia nera e il rituale portava alla morte o a gravi danni fisici e mentali per la persona in carne ed ossa. Fino a non molto tempo fa era estremamente dibattuto tra gli studiosi se questi riti di "liberazione" fossero praticati su persone reali.

I tantrici praticavano il rovesciamento dei principi: nel gruppo più tardo ed estremo delle opere tantriche indiane, i Mahayoga Tantras, la trasgressione tantrica raggiunge il suo zenith. Scritte nella seconda metà dell'ottavo secolo, vi si trova l'affermazione che nessuno può attingere lo stato di bodhisattva se non ha rinnegato i cinque precetti buddhisti dell'ahimsa ("astensione"): astensione dall'uccidere una creatura; astensione dal furto; astensione dai rapporti sessuali; astensione dalla falsa parola; astensione dalle bevande inebrianti.

La stragrande maggioranza di fonti storiche relative ai sacrifici umani in India in tempi moderni è legata ai culti tantrici, in particolare di divinità come Kali.

Già William Crooke, uno dei grandi conoscitori delle tradizioni viventi dell'India del suo tempo, nel suo Introduction to the Popular Religion and Folklore of Northern Indian del 1894 riportava uno schiacciante numero di citazioni testuali e di documenti etnografici che attestano la presenza di sacrifici umani in India, specialmente alla dea Durga (una delle incarnazioni di Kali) nelle sue varie forme e ai demoni e alle divinità locali che gli abitanti dei villaggi placavano con simili riti. In un libro successivo scrive: "Così diffusa è la memoria di queste pratiche, che quando gli ingegneri inglesi costruiscono un ponte o le strutture di un porto o altra opera civile, la popolazione locale è impaurita perché pensa che essi abbiano bisogno di procacciarsi vittime da sacrificare per i riti di fondazione, e la notte si chiude in casa ed evita di avvicinarsi ai cantieri".

Gli studiosi si sono ultimamente convinti che gran parte degli episodi documentati di uccisione rituale di persone in India sia da ricondurre a riti sacrificali legati al tantrismo, in particolare a quello predicato nei Mahayoga Tantras. Asko Parpola, professore emerito all'Università di Helsinki, esperto a livello mondiale della cultura della Civiltà della valle dell'Indo, facendo il punto della questione in una recente raccolta di articoli sul tema dei sacrifici cruenti nelle principali religioni, dopo una analisi attenta ed equilibrata delle fonti storiche e documentarie, afferma senza mezzi termini che "il sacrificio umano e il culto dei teschi si sono mantenuti fino all'epoca moderna ("to the present day") nell'India orientale, nella venerazione del Tantrismo Shakta per Durga, Kali e le divinità ad esse collegate".

 

 

il buddhismo tantrico arriva in tibet

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Il Tibet medievale degli inizi del VII secolo, sebbene circondato da paesi buddhisti, in virtù del suo isolamento geografico, non conosceva praticamente il Buddhismo, che non vi fu ricevuto fino al 640 d. C. ad opera di Padmasambhava ed altri maestri tantrici.

Nel momento in cui Padmasambhava intraprendeva il suo viaggio missionario, il Tibet era all'apogeo della sua potenza politica e militare, con l'impero Pugyal, che durò dal VII al IX secolo. Mettendo in campo eserciti di 200.000 uomini, conquistò un territorio che si estendeva dai confini del Kashmir ad ovest ai bordi della regione cinese del Sichuan ad est, a nord fino alla regione degli Uighur e a sud fino a tutto il Nepal e ai confini dell'Assam. Pesanti sconfitte furono inflitte alla Cina della dinastia Tang, e l'imperatore si vide costretto a dare in sposa all'imperatore Songtsän Gampo una delle figlie, la principessa Wencheng. Successivamente Songtsän sposò anche la principessa nepalese Bhrikuti. La storia attribuisce proprio a queste due principesse, di fede buddhista, l'introduzione di questa religione nel paese. A questo scopo fu chiamato un famoso maestro indiano della setta tantrica Yogacara, Padmasambhava, che da Nalanda arrivò nel 747 in Tibet, e supervisionò la creazione di numerosi monasteri.

 

 

il "periodo della grande tenebra"

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Il Tibet ricevette il Buddhismo in due ondate successive, separate da quella che i tibetani avrebbero definito in seguito "l'età oscura e tenebrosa dei demoni". Dopo la partenza di Padmasambhava, il cui soggiorno fu peraltro brevissimo (dodici anni), per un secolo e mezzo, dall'842 al 986 d.C., a seguito del collasso dell'impero Pugyal, il Paese piombò in un periodo di caos politico e religioso da cui non è sopravvissuto nessun documento scritto o cronaca orale. L'inizio di questo periodo è segnato da un evento catastrofico per le sorti della religione buddhista, che aggiunse al caos politico il caos religioso: il re Lang Darma rinnegò il buddhismo, riportò al potere i preti del culto sciamanico Bon e procedette a chiudere i monasteri e a perseguitare i monaci. Fu ucciso in modo violento da un tantrika, Lhalung Pelgyi Dorje, fatto che operò da elemento scatenante. Da quel momento la violenza eruppe incontrollata in Tibet, a tutti i livelli della società. In una cronaca del XII secolo, Il Pilastro del Testamento, questo periodo di oscurità viene descritto sotto forma di profezia apocalittica: "Entro tre generazioni giungerà un potere un re col nome di una Bestia. La legge del Dharma si estinguerà completamente… Tutto il popolo del Tibet, seguendo questo Re sarà destinato a finire nei più profondi inferni. Per più di un secolo non si udrà risuonare la retta parola. Il Paese verrà avvolto da un mantello di tenebra e così rimarrà per cinque generazioni, finché la scintilla del dharma non verrà riaccesa". Il periodo del grande buio veniva paragonato al periodo finale del Kaliyuga della tradizione indiana, tradizione che era conosciuta anche in Tibet

Fu un periodo di frammentazione feudale, in cui esplosero violentissime le faide, le guerre e le rivalità locali, feudali e religiose, che la corte Pugyal aveva sino a quel momento tenuto sotto controllo. L'ortodossia buddhista, su cui la corte aveva pure attentamente vigilato, svanì lasciando il posto alla completa anarchia religiosa e dottrinale. La chiusura dei monasteri vide il proliferare di monaci-maghi erranti che si insediavano nei villaggi, di innumerevoli comunità tantriche eretiche, di faide religiose. L'esercizio della violenza e della magia nera divennero non solo mezzi per conquistare ascendente sulla popolazione locale e guadagnare discepoli, ma anche strumenti per la sopravvivenza personale in periodi in cui la vita umana si era ridotta a valere molto poco.

Fu un periodo di profonda mutazione delle dottrine religiose ortodosse, in cui gli insegnamenti tantrici vennero sviluppati in modo autoctono e fusi con la religione Bon. Il buddhismo tibetano successivo, pur formalmente negandolo, risentirà profondamente degli sviluppi che si ebbero in questo periodo.

Laurence Austin Waddell, che citeremo ancora per il suo importante libro sul Buddhismo del Tibet, ci dà la misura della contaminazione del buddhismo tibetano con le tradizioni autoctone quando ci informa che, ancora al tempo in cui scrive (fine Ottocento) "ogni monastero ortodosso in Tibet - persino le sette riformate più rigoriste - ospita tra i suoi monaci uno stregone Bon che tiene nel massimo conto… Vicino Lahasa ci sono centri in cui i costoro insegnano ai monaci le loro arti… Si racconta che lo stesso Quinto Dalai Lama assunse uno di questi grandi stregoni al suo servizio e lo fece entrare nell'ordine".

Fu in questo contesto che le pratiche più oscure e tenebrose presero piede, tra cui la "cerimonia di liberazione" (sgrol ba) è l'esempio più impressionante di rituale violento incorporato entro un quadro buddhista.

 

 

il rito della "liberazione compassionevole" nelle dottrine buddhiste

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Tra le idee che vennero sviluppate nel Buddhismo mahayana indiano c'è quella della "liberazione" degli esseri viventi, in particolare degli uomini con mezzi violenti: la cosiddetta "violenza compassionevole", incarnata in una particolare figura di Buddha, i Buddha heruka o Buddha vendicatori.

In una narrazione del canone Pali è raccontata la seguente storia. Il Buddha aveva lasciato i suoi monaci per un lungo periodo di ritiro e meditazione, e quelli, abbandonati a se stessi, cominciarono a sperimentare un intenso disgusto per l'impurità del proprio corpo. Pregarono un confratello, Migalandika, di ucciderli, liberandoli del peso della carne. Migalandika commette gli omicidi ma poi, all'atto di lavare il coltello nel fiume, sente rimorso per ciò che ha fatto; tuttavia una divinità della corte del demone Mara lo rassicura e incoraggia con queste parole: "Ciò che hai fatto è bene, o uomo santo. Hai acquistato gran merito liberando coloro che non erano ancora stati liberati dall'esistenza". Migalandika, ingannato da queste parole e perso ogni rimorso, si dà ad uccidere i propri compagni. Ben sessanta monaci ogni giorno per due intere settimane vengono sgozzati da lui. Il Buddha, finalmente di ritorno dal suo ritiro, chiede ad Ananda dove essi siano, e saputo ciò che è successo, riunisce i monaci e li rimprovera aspramente, dichiarando che il suicidio è vietato dalle regole del sentiero buddhista, esattamente come la soppressione di un qualsiasi altro essere vivente.

Ma nessun studioso nega che già nel buddhismo Mahayana è ammesso per un Bodhisattva trascendere ogni trasgressione morale purché mantenga il voto di agire disinteressatamente per la salvezza degli esseri. In questo caso l'uccisione di persone poteva essere giustificata. In un testo Mahayana è detto che Buddha, in una vita precedente, officiò un sacrificio umano di massa, e tuttavia rimase puro.

Questa etica della "uccisione compassionevole" è illustrata in un famoso testo Mahayana degli inizi dell'era volgare, l'Upayakausalya-Sutra,  dove un capitano che in realtà è un bodhisattva scopre sulla sua nave un rapinatore che progetta di uccidere tutti i passeggeri. Così facendo il rapinatore danneggerebbe il loro karma, e quindi il bodhisattva compie l'atto di uccidere ritualmente il rapinatore anche per evitare che il suo karma di macchi di un tale atto criminale.

Asanga, il grande monaco indiano del IV secolo, fondatore della scuola Mahayana cittamatra, che vuole rappresentare un temperamento della scuola Madyamika di Nagarjuna, dichiara che il bodhisattva può uccidere una persona per motivi compassionevoli, in particolare per prevenire il compimento da parte sua di atti che macchierebbero il suo karma e lo condannerebbero all'inferno.

Nel suo commentario al Yogacarabhumi, (Gli stadi della pratica Yoga) egli si spinge più in là in questa dialettica pericolosa, dichiarando espressamente che se uccidere con intento compassionevole è meritorio, non uccidere è in questi casi una mancanza, quindi un peccato che macchia il karma.

Queste concezioni vennero portate alle estreme conseguenze nel buddhismo tantrico. I Tantra, con la loro enfasi sui rituali di magia ed esorcismo, trassero semplicemente le logiche conseguenze di queste idee che al tempo del loro nascere "erano ampiamente accettate in seno al Buddhismo Mahayana esoterico" (parole di uno studioso).

Il Mahayoga Tantra afferma che, "puro di intenzioni e preoccupato unicamente del benessere di tutti gli esseri, il bodhisattva può uccidere per ridurre la sofferenza del mondo".

Il "rito di liberazione" fa per la prima volta la sua comparsa in un testo tantrico del X secolo, l'unico conosciuto dedicato interamente al culgo della dea Kali, il Kalika Purana. Nel 1799 W. C. Blaquiere, un magistrato che lavorava a Calcutta, destò sensazione negli ambienti colti occidentali traducendo e pubblicando uno dei capitoli di questa opera, il Rudhiradhyaya o "Capitolo del sangue", che è l'unica descrizione nota anteriore ai ritrovamenti di Dunhuang di un rito di sacrificio tantrico umano reale in tutti i dettagli.

 

 

il mito del soggiogamento di rudra

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Il modello per questa cerimonia di "liberazione" è fornito dal mito centrale dei testi tantrici, quello del soggiogamento del demone Rudra ad opera dei Buddha vendicatori, a cui è ricollegata la stessa nascita dei Tantra. Essi sarebbero le scritture segrete che conferiscono ai seguaci del dharma i poteri necessari per contrastare Rudra e la sua coorte demoniaca nell'età del Kali-Yuga. E' per questo scopo che nel tempo del pericolo sono apparsi sulla Terra.

Presso la religione induista, Rudra (lett. "Urlatore") è una delle deità pre-vediche più antiche. Compare per la prima volta nel Rig Veda, in cui viene descritto come il Deva della tempesta, della caccia, della morte, della natura e del vento. Rudra è la forma primordiale di Śiva, l'aspetto divino preposto alla distruzione, ed è anche un nome di Śiva nello Śiva sahasranama (La ripetizione dei 1000 nomi di Śiva).

Il mito del soggiogamento di Rudra appare nel testo tantrico Sutra del Compendio delle Intenzioni, un testo fondamentale della scuola Nyingma, caratterizzata da una forte componente di magia e stregoneria.

Il mito descrive l'apparizione sulla Terra di un grande demone, Rudra o Mahesvara, detto anche il Nero Liberatore, che, a capo di una coorte di centomila spiriti malvagi, inflisse innumerevoli sofferenze all'umanità, perseguitò gli uomini retti che praticavano il dharma, e ne pervertì gli insegnamenti, minacciando l'estinzione della dottrina. L'assemblea dei bodhisattva decise allora di mandare sulla terra i terribili Buddha vendicatori (Buddha Heruka o sri Heruka). I Buddha apparvero essi stessi in forma demoniaca, attaccarono il castello di teschi in cui dimorava Rudra con la sua moglie-demone, circondato dai suoi accoliti, e in una terribile battaglia lo sconfissero, uccisero e risuscitarono come divinità al servizio del bene, col nome di "Signoria Nera" (Legden Nakpo) vincolandolo con un giuramento ad essere da allora in poi il protettore del buddhismo e il custode del dharma. Rudra, a sua volta, convocò la sua coorte di demoni e fece loro un discorso sulla retta via del dharma sulla quale essi avrebbero dovuto procedere, convertendoli.

 

 

il "rito di liberazione" (sgrol bo) nel tantrismo tibetano: fantasia o realtà?

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La setta Gelukpa, a cui appartiene il Dalai Lama, è effettivamente quella che professa la maggiore aderenza agli insegnamenti del grande buddhismo mahayana classico, ma non è l'unica presente nel Tibet. Il buddhismo tibetano comprende come rami principali le sette Nyingma, Kargyu, Sakya (caratterizzate dall'abito rosso) e la setta Gelugpa, quella del Dalai Lama (caratterizzata dal vestito giallo), ma altre sette meno note sono nate e sparite nel corso dei secoli. Molti maestri sorsero e crearono le loro comunità tantriche.

Per capire quanto le pratiche e le idee delle altre sette del buddhismo tantrico tibetano possano differire da quella del Dalai Lama dobbiamo considerare come l'Età Oscura ebbe effetti devastanti sull'ortodossia del clero buddhista e sulla corretta trasmissione degli insegnamenti e dei precetti dell'Illuminato. Ne è prova eloquente un fatto riportato in una antica cronaca cinese: nel 1042 il re Jangchup Ö invitò il maestro indiano Atisa (982-1074) per ricevere i retti insegnamenti del Mahayana. Atisa, che promosse la rinascita del buddhismo e fondò la setta Kadampa, rimase sconvolto dalla bassa qualità delle fonti scritte di cui disponevano i monaci tibetani, e paragonò i lama che traducevano e insegnavano le scritture indiane a dei "cani". In realtà, ancora per lungo tempo dopo la fine dell'età oscura la confusione religiosa regnò nel Tibet.

Un'altra ondata di caos e di pratiche magiche investì il Tibet con l'inizio delle invasioni mongole, che durarono ad intervalli fino al XVII secolo. Nel 1642 il Tibet fu completamente conquistato e i Mongoli investirono il Dalai Lama della setta Gelukpa come supremo reggente, dando al Paese la struttura politica che è durata fino all'invasione cinese. Durante i periodi più convulsi e sanguinosi del conflitto, le pratiche tantriche riemersero con forza, e furono utilizzate su grande scala a scopo bellico, per annientare con la magia nera gli eserciti o i capi nemici.

Oltre a questi fattori negativi per la corretta trasmissione delle dottrine buddhiste, gli studiosi più recenti hanno individuato altri motivi per procedere con cautela quando si parla della "adesione del Tibet ad un buddhismo rigoroso". Il Tibet è, per sua natura geografica molto frammentato. Nelle selvagge e isolate regioni periferiche, fuori del controllo delle autorità civili e religiose centrali, per ammissione degli stessi tibetani, oscure pratiche tantriche e Bon perdurarono fino al 19° secolo.

 

 

le testimonianze storiche si accumulano

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La serie di documenti di cui si parlerà alla fine di questa nota storica, è stata scoperta, pubblicata o tradotta solo in tempi recentissimi. Si tratta di documenti di tale importanza che "stanno rivoluzionando la nostra comprensione della storia religiosa dell'Asia" (Jacob Dalton, Università di Yale).

Tra di essi, in particolare, quelli scoperti nelle caverne dei mille Buddha, vicino a Dunhuang, hanno suscitato grande scalpore tra gli studiosi delle dottrine tantriche. Dopo più di un secolo di accanite dispute, è ormai dissipato ogni dubbio sulla realtà dei sacrifici umani da parte di alcune comunità tantriche del Tibet.

Già da tempo, per la verità, si era venuta accumulando al riguardo tutta una documentazione storica, relegata nelle note a pié di pagina nelle opere degli orientalisti o liquidata frettolosamente come innocuo folklore o invenzione di funzionari coloniali o di missionari protestanti, che qui di seguito viene sunteggiata.

Nell'età oscura del Tibet erano già comparsi numerosi scritti in cui si elencavano le cinque categorie di persone che potevano essere legittimamente eliminate. Queste categorie presto divennero dieci, quindici, moltiplicando il numero di casi in cui l'omicidio compassionevole era consentito. Le persone che secondo queste liste peccavano contro il karma erano preda dei demoni, demoni essi stessi, e quindi andavano trattati con gli stessi metodi che i Buddha vendicatori avevano utilizzato con Rudra: la morte violenta e liberatoria.

In un documento trovato nella caverna di Dunhuang è detto testualmente: "Riguardo l'attività della liberazione: ci sono cinque tipi di cause che possono giustificare questo tipo di rito: (1) Nei confronti di qualcuno che ha deprecato gli insegnamenti della via del Mahayana; (2) Nei confronti di qualcuo che insulta un uomo di nobile nascita; (3) Nei confronti di qualcuno che entra nell'ordine senza ricevere i sacramenti; (4) Nei confronti di chi professa una dottrina errata; (5) Nei confronti di chi costituisce un pericolo per la preservazione degli insegnamenti della via del Mahayana. La liberazione di tali esseri dovrebbe essere portata a termine come atto di grande compassione"

Si conoscono innumerevoli pitture, danze e rappresentazioni letterarie del rito di liberazione, anche se tutte parlano di "effigi" della persona da "liberare". Nondimeno, gli storici sanno molto bene che in molti casi l'impiego di una "effigie" è l'indizio di una evoluzione a partire da riti che venivano eseguiti sull'oggetto "reale".

In un'opera immediatamente successiva all'Età Oscura, La lampada per gli occhi in contemplazione, all'inizio del X secolo, il grande maestro tantrico Nupchen Sangye Yeshe, che ebbe fama di sommo esperto di magia nera, dichiara che, "in un'epoca come la nostra, piena di malfattori e di Signori crudeli e ingiusti, di monaci che hanno rinnegato i loro voti o pervertito la dottrina, la violenza e la liberazione dalla vita sono l'unico mezzo da utilizzare nei loro confronti".

Nel 1980 è stata scoperta una serie di editti emessi alla fine dell'XI secolo dall'imperatore tibetano Yeshe Ö per restaurare la religione e la legge nel paese, ed in essi parla esplicitamente delle pratiche della "liberazione dalla vita" (gson sgrol) di esseri umani che - dice l'editto - erano estremamente diffuse nel Paese e attivamente praticate dai tantrikas, gruppi di eretici tantrici.

A conferma di quanto descritto negli editti di Yeshe Ö, una cronaca poco nota del X secolo descrive come il Tibet, sotto il suo regno, venne gettato nel terrore dalle gesta dei "diciotto monaci-predoni". Si trattava di un gruppo di monaci tantrici, che aveva studiato sotto la guida del famigerato maestro indiano Prajnagupta, dediti alla magia nera con l'impiego di sacrifici umani. Essi rapivano le vittime, le legavano con paletti al rreno, e le sgozzavano in onore delle "Sette Madri-Demone", le daikini, a capo delle quali c'era la terribile demonessa nera Kongla-demo.

Nel 1895 il tenente del British Army in Asia Laurence Austin Waddell, durante il suo soggiorno ai in Sikkim, in una delle selvagge regioni di confine del Tibet, aveva pubblicato The Buddhism of Tibet or Lamaism, with its Mystic Cults, Symbolism and Mythology and in its relation to indian buddhism, dove si trovava un capitolo espressamente dedicato a "Sorcery and Necromancy". Nella prefazione egli afferma di essersi avvalso dell'opera di numerosi informatori e viaggiatori di tutte le regioni del Tibet, e non esita a dichiarare il Lamaismo "only thinly and imperfectly varnished over with Buddhist symbolism, beneath which the sinister growth of poly-demonist superstition darkly appears".

Proprio negli stessi anni il monaco buddhista Rigdzin Garwang, del monastero di Jamior Gön nella provincia di Nyarong, scrive un'opera sui Pericoli dei sacrifici di sangue, che conferma parola per parola le affermazioni di Austin Waddell. La provincia di Nyarong, esattamente come il confine settentrionale del Sikkim, in cui si trovava Waddell, era tra le regioni più remote e meno civilizzate, posta tra le montagne ai confini della Cina. Rigdzin Garwang denuncia la straordinaria diffusione dei sacrifici di sangue, alludendo anche a casi di rituali tantrici o Bon di sacrificio umano.

Le testimonianze di Waddell e di Rigdzin Garwang non sono isolate. I tibetani stessi erano consapevoli di questo stato di cose. Possiediamo numerose cronache tibetane che parlano di violenza e sacrifici di sangue, umani ed animali, nelle isolate regioni di confine, ben oltre il periodo dell'Età Oscura. Gli studiosi ammettono che le cronache cinesi che parlano della introduzione del buddhismo in queste zone intorno al XIV sono inaffidabili. Evidenze storiche inoppugnabili fissano l'inizio della conversione su larga scala delle regioni di confine del Tibet nel XVI e XVII secolo. In alcune regioni si succedettero ondate di propagazione missionaria del buddhismo e di ritorno in massa agli originari riti Bon, che dettero luogo ad oscure forme di sincretismo.

Il culto Bon, che in Tibet precedette l'avvento del buddhismo, ha lasciato numerose vestigia archeologiche di sacrifici di sangue. Sotto i caratteristici tumuli sacrificali sono state trovate ossa di animali di ogni tipo: cavalli, capre, cani, agnelli, e recentemente gli archeologi cinesi hanno reso noto di aver trovato evidenze inoppugnabili di sacrifici umani.

L'etnologa Mary Slusser ha compilato una lista di resoconti storici degli ultimi due secoli, inclusi i racconti di viaggio di numerosi viaggiatori occidentali, che attestano la pratica del sacrificio umano in Nepal, in particolare nella valle di Katmandu, durante tutto il diciottesimo e diciannovesimo secolo. In particolare viene riportata la testimonianza del famoso esploratore, zoologo e botanico Francis Hamilton, che soggiornò nel Bengala dal 1794 al 1815.

Nel 1949 il giornalista americano Lowell Thomas, mentre stava viaggiando in una località isolata e sinistra del Tibet centrale dovette fare sosta presso due stupa che vi erano stati eretti, perché gli uomini che lo accompagnavano potessero fare riti propiziatori ai demoni del luogo. "Il tempietto più grande, racconta Waddell, conteneva un'urna di rame. Gli uomini gli raccontarono che anni prima, durante la costruzione dello stupa, nell'urna fu versato il sangue di due bambini di otto anni, maschio e femmina, sacrificati ritualmente da un prete Bon, e i loro corpi furono posti all'interno del monumento"

 

 

due sconvolgenti ritrovamenti a dunhuang

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Ma l'evento di gran lunga più importante per una revisione radicale dell'interpretazione di queste fonti è il caso della "caverna della biblioteca" di Dunhuang.

Nel 1907 l'esploratore inglese Sir Aurel Stein portò alla luce un grande deposito di manoscritti e pitture che era rimasto nascosto per quasi un millennio nelle caverne dei mille Buddha, vicino all’oasi di Dunhuang, lungo l'antica via della seta. Resosi conto dell'importanza enorme della scoperta, Stein caricò quanti più manoscritti poté su cammelli e riuscì a portarli a Londra. Pochi mesi dopo il sinologo francese Paul Pelliot, avendo udito del ritrovamento, organizzò una seconda spedizione alle caverne di Dunhuang e riportò indietro la maggior parte dei manoscritti rimasti. E' circa un secolo che questi manoscritti giacciono negletti in due collezioni, la collezione Stein presso la British Library di Londra e la collezione Pelliot alla Bibliothèque Nationale di Parigi. I rotoli sono scritti in una varietà di lingue - khotanese, tibetano, uighur, cinese, indiano - e solo di recente è iniziata la loro digitalizzazione e traduzione, che sta rivoluzionando la nostra comprensione della storia religiosa dell'Asia.

I documenti di Dunhuang confermano la presenza in Tibet di pratiche tantriche orgiastiche che prevedevano la consumazione di fluidi corporei. Altri testi descrivono in dettaglio la pratica di magia nera per vincolare un demone al proprio servizio, costringendolo ad ingerire il proprio seme per ottenerne lo stato di asservimento.

Ma la scoperta più sconvolgente riguarda ben due documenti, trascritti in un codice del decimo secolo, che espongono in dettaglio la cerimonia dell'assassinio rituale di un essere umano. Non ci possono essere equivoci circa il fatto che il rito non è effettuato "in effigie", sia perché si parla di un "corpo" e non di una immagine, sia perché si parla di emissione di sangue da parte della vittima e del suo cranio spaccato. Si tratta degli unici altri due documenti scoperti dopo la pubblicazione nel 1799 del Rudhiradhyaya o "capitolo del sangue" del Kalika Purana che descrivono un effettivo e reale sacrificio umano.

I documenti contengono passaggi oscuri e simbolici, destinati a trasmettere dettagli che avrebbero destato raccapriccio in un lettore ordinario, ma che un lettore esperto nelle conoscenze tantriche avrebbe facilmente decifrato ed eseguito, e che sono - come si vedrà - ancora più impressionanti della cerimonia in sé.

Per più di mille anni i manoscritti sono rimasti sepolti in una caverna, probabilmente nascosti da un gruppo di tantrikas che voleva sfuggire alla persecuzione delle autorità religiose o semplicemente mettere in salvo la propria biblioteca in un periodo di violenze in cui quasi ogni comunità monastica del Tibet era minacciata di estinzione fisica.

Entrambi i manoscritti di Dunhuang si rifanno direttamente e innegabilmente, come dimostra una analisi del linguaggio e dei simboli, alla più violenta e trasgressiva delle scritture tantriche indiane conosciute: il Guhyasamja Tantra, che fa parte dei famigerati e aborriti Mahayoga Tantras.

Questo rito fa parte della terza categoria dei riti tantrici previsti dal Mahayoga: esistono i riti di pacificazione, i riti di illuminazione, i riti di coercizione, e i riti di violenza. Questi ultimi devono essere compiuti contro persone, in effigie o in presenza reale, solo con lo scopo puro di giovare a tutti gli esseri. A questo fine il rito può essere legittimamente rivolto, prosegue il Mahayoga, "contro coloro che disprezzano la parola del Buddha e dei suoi legittimi interpreti; contro coloro che sono intimamente malvagi e pieni di odio, coloro che agiscono in modo da recare danno ai tre gioielli: il gioiello blu (il dharma), il gioiello giallo (il Buddha), il gioiello rosso (il Sangha); contro coloro che sono immorali o sofistici; contro coloro che recano danno ad un guru". "Questi riti", prosegue il Mahayoga, "recano il proprio massimo beneficio alla vittima, la cui cessazione dell'esistenza determina la cessazione del karma negativo, che tanto più ne beneficia quanto maggiori sono le sofferenze che le vengono inflitte nella cerimonia".

Il rito, ammoniscono i manoscritti di Dunhuang, è pericolosissimo, perché il minimo errore può avere effetti esattamente opposti, macchiare il karma e inviare in un ciclo infinito di reincarnazioni infernali sia la vittima che gli officianti. Essi saranno condannati a vagare senza fine per i reami del samsara.

Il manoscritto è datato intorno al X secolo, cioè nel pieno della "età tenebrosa" della storia del Tibet. Tra i motivi che ne hanno ritardato così a lungo la traduzione e divulgazione c'è anche il fatto che due delle parti - quella iniziale e finale - sono a Londra, mentre la parte intermedia è a Parigi.

Eccone di seguito la descrizione - piuttosto impressionante - come appare nei manoscritti segreti di Dunhuang.

 

 

la descrizione del rito

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Un basso altare triangolare è elevato dopo la consacrazione del sito, e la vittima vi viene immobilizzata, con il volto rivolto ad occidente, la tradizionale direzione della terra celeste del Buddha Amitabha, a cui il rito farà giungere l'"oggetto di compassione" (così è chiamata nel testo la vittima).

Intorno all'altare viene tracciato un mandala speciale, il "mandala della giusta vendetta" con terra nera e cenere ricche di materie impure e fecali, prese da un cimitero. Fiori rossi e neri sono gettati su questa terra una volta che il mandala è completato. Tutti i partecipanti al rito indossano vesti rosse, il colore di Rudra, o blu, spruzzate di acqua o di sangue.

L'officiante procede a fare le "offerte minori" alle divinità (frutta e focacce) e vengono fatti potenti scongiuri e invocazioni per neutralizzare tutte le forze avverse che potrebbero provocare il fallimento del rito e per propiziare le forze favorevoli.

Poi tutti coloro che non hanno le qualifiche per partecipare al rito devono lasciare il luogo ove esso si svolge.

Viene tracciato un cerchio esterno. L'officiante sigilla lo spazio rituale rendendolo impervio alle forze demoniache con la visualizzazione di un padiglione di diamante indistruttibile che circonda l'altare e coloro che vi sono intorno. 

Danzando intorno all'altare e recitando dei mantra, l'officiante visualizza se stesso nella forma che il Buddha Heruka assunse per combattere il demone Rudra: un corpo mostruoso di colore viola, coperto da una pelle umana, con enormi ali nere, tre volti terrificanti e sei terribili arti, ciascuno recante un'arma micidiale, che si erge su una immensa pila di carni semidivorate e putrefatte.

Nella sua mente discende allora uno stato di furia violenta, la furia dello sri heruka, nel quale dovrà compiere il rito. Il suo occhio destro è il sole che incenerisce, il suo occhio sinistro è la luna da cui sgorgano le acque dell'apocalisse, la sua risata satanica distrugge qualsiasi carne che sia manifestazione di un karma impuro. Entrando nello stato di giusta ira per i peccati altrui, in particolare della vittima, e di compassione per il suo stato miserabile, egli purifica la sua intenzione ed evita conseguenze karmiche negative che potrebbero venirgli dall'atto sacrificale: tutto ciò che farà sarà giusto e puro, compiuto con retta intenzione.

La vittima da purificare, piena di peccati e preda dei demoni, viene visualizzata/assimilata al demone Rudra, che il Buddha Heruka uccise in modo violento e fece risorgere come Bodhisattva.

Poi l'officiante invita le sette madri demoniache, le daikini o sette potenti raksas, dette anche sette sorelle a manifestarsi e prendere parte al rito.

A loro volta, coloro che assistono al rito si assiedono ai margini del mandala, vestiti con vesti tinte di rosso e spruzzate di acqua o sangue, e visualizzano se stessi nella forma delle sette madri: Kundrakma, la demonessa nera che è il loro capo, Kuntu Zang, la bianca, Kunselma e Yeshe Chok, dal colore pallido della carne fatta a pezzi, Dronma, di colore giallo, O Chakma, di colore rosso, Yudronma, di colore blu. Essi impersonano la coorte delle divinità avide di sangue tenute a bada da potenti giuramenti fatti al momento della soggezione di Rudra, ma autorizzate a banchettare col corpo del sacrificato, in quanto impuro e peccatore.

Officiante e partecipanti recitano all'unisono il mantra "om-rulu-rulu-hum-bhyo-hana-hana-hum-phat".

Le aperture corporee della vittima sono sigillate con segni magici tracciati con una pasta di semi velenosi e di mostarda bianca, e su di esse l'officiante, per impedire che l'anima, al momento del sacrificio, sfugga verso reincarnazioni inferiori e garantire la sua "liberazione", pronuncia e visualizza cinque sillabe mistiche: la sillaba "om" sulla testa; la sillaba "hrih" sulla lingua; la sillaba "hum" sul cuore, la sillaba "d-rang" sulle parti impure; la sillaba "a" sulla pianta dei piedi. Questo ha anche la funzione di impedire alla vittima di reincarnarsi e vendicarsi di coloro che l'hanno uccisa.

Il sigillo delle aperture - viene detto in uno dei due manoscritti di Dunhuang - può anche avvenire mediante attività sessuale sul corpo dell'"oggetto di compassione", penetrandole o eiaculandovi. Questo consente all'officiante di attingere allo stato di "suksma vajra" o "stato del vajra sottile", che è lo stato necessario per effettuare il rito.

Talvolta viene nominato il nome del ricco benefattore della setta, i cui desideri saranno esauditi dal rito di liberazione.

Avendo così purficato l’oggetto di compassione, poco prima dell'uccisione viene visualizzato sopra la testa della vittima un pugnale tantrico di colore blu scuro, il vajra, l'arma simbolica del sacrificio, e viene pronunciata la sillaba "krong", che attiva l'arma e la rende capace di tagliare la vittima in mille pezzi (dissolvere la sua realtà corporea e karmica). L'ultima visualizzazione è quella di Kalaratri, la "Signora della morte", la dea nera con i capelli impastati di sangue, che brandisce un'ascia, assisa sulla gola della vittima.

Immaginando di brandire l'ascia della dea, che dà al suo braccio armato per il sacrificio "la potenza di mille lame", recitando il mantra segreto della distruzione e della liberazione, omesso nel testo (probabilmente era trasmesso oralmente) l'officiante procede quindi alla decapitazione. Viene usata un'ascia con la lama di ferro, materiale collegato all'elemento demoniaco, o un kartari, un grande coltello rituale a forma di mezzaluna con l'impugnatura posta nel mezzo della concavità opposta alla convessità del taglio.

Secondo una pratica comune nei sacrifici animali in India e Nepal, le arterie recise vengono immediatamente bloccate, poi riaperte in modo che il sangue irrori le labbra del Buddha (impersonato dall'officiante) e delle divinità demoniache soggiogate della corte di Rudra (impersonate dagli astanti assisi ai margini del mandala sacro). In un altro passo è detto che "la irrequieta mente (citti) del sacrificato è l'offerta sacrificale per le divinità".

Il sangue viene ingerito dai partecipanti al rito o posto sulle loro labbra, una pratica attestata in Tibet già dal tempo della stele del tempio di Jockhang, che riporta il trattato sino-tibetano dell'821 e il rito che lo accompagnò, officiato dai preti dell'imperatore tibetano Trisong Detsen.

Sul piano rituale, col sangue fuoriesce lo spirito della vittima, che con questo si identifica, e che viene ritualmente ingerito nello "stomaco di diamante delle divinità" ed "espulso dall'apertura mistica alla sommità del loro capo nel paradiso del Buddha Amitabha". In tal modo l'officiante ha aiutato la vittima ad eseguire il rituale di liberazione pho ba, di espulsione dell'anima in paradiso dalla sommità del capo, che i monaci Vajirayana eseguono al momento della propria morte. La testa viene scagliata violentemente nel mandala come una sorta di offerta, e la posizione che assume serve a divinare la buona riuscita del rito. Se la testa si spacca e il cervello fuoriesce dal cranio, oppure essa non cessa di tremare a lungo, si ha il segno più fausto, le divinità del mandala hanno gradito l'offerta e la vittima è stata "liberata" e si trova nella terra dei Bodhisattva. Al culmine della cerimonia viene recitato il mantra segreto del Buddha vendicatore: "om rulu rulu hum hana hana hum phat".

Seguono a questo punto le istruzioni, che qui non sono riportate, per le operazioni di conclusione del rito.