Lo Stato da un punto di vista storico

 

 

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Nascita ed affermarsi del modello di stato nazionale

La crisi del modello di stato nazionale e l'inizio del processo di integrazione europea

La classificazione delle forme di stato e la classificazione delle forme di governo

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Il suddito feudale ha una posizione diversa dal suddito dello stato assoluto

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: La "Polis" non possedeva il concetto di democrazia moderna (rappresentativa)

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Gli antichi non riuscirono a risolvere il problema della legittimazione all'esercizio del potere

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Incapacità delle società antiche di regolare la lotta politica

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: La visione gerarchica della società nel pensiero antico e le sue conseguenze politiche

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Nel medioevo non esisteva l'idea di comunità di stati liberi e indipendenti

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: L'autorità dello stato moderno è accentrata rispetto alla società feudale

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Nella società feudale erano preminenti i rapporti di forza

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Sviluppo di una fiscalità di tipo moderno

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Lo stato moderno ha col territorio un rapporto diverso dallo stato medioevale

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Società in cui era assente il monopolio della forza fisica da parte di una autorità impersonale

La creazione dello "spazio statale". Il concetto di "nazione" nel Cinquecento.

Il feudalesimo primitivo. Il feudo

Lo "stato feudale" e lo stato patrimoniale

Le sorti dell'impero in età tardo-medioevale e moderna

Lo stato assoluto

Lo stato per ceti

Lo stato personale

Lo stato di polizia

Lo stato inglese del 1500-1600

Lo stato moderno e contemporaneo in generale

La rivoluzione francese. Lo stato liberale

Lo stato sociale

Lo stato socialista

Altri tipi di stato

Differenze tra Stato assoluto, Stato liberale e Stato democratico-sociale contemporaneo

Evoluzione delle relazioni internazionali tra gli stati contemporanei

Concentrazione del potere politico nelle mani del Parlamento elettivo

Nel corso dell'800 si afferma l'idea moderna di nazione e di stato nazionale

Lo stato moderno e contemporaneo si differenziano dallo stato assoluto per il principio democratico

Caratteristiche e sviluppi della democrazia nello stato contemporaneo: democrazia di partiti e democrazia partecipativa

Il principio di legalità dello stato moderno

Il principio di costituzionalità degli stati contemporanei

Limitazioni dei poteri dello Stato ottocentesco e novecentesco

La autorità statale moderna è una persona giuridica e non una persona fisica

Separazione definitiva e rigorosa tra Stato e Chiesa con lo stato moderno

Nello stato moderno si accresce la separazione tra stato e società civile

Nello stato moderno si conquista la eguaglianza formale di fronte alla legge

Nello stato moderno sono riconosciuti i diritti fondamentali dei cittadini

Il "suddito" si trasforma in "cittadino"

Con lo stato moderno ottocentesco si affermano i principi lavorista e contrattualista

La tripartizione dei poteri dello stato ottocentesco

Gli stati moderni sono stati costituzionali

Potenziamento della tutela giurisdizionale negli stati contemporanei

Sviluppo dell'autonomia e del decentramento nello stato contemporaneo

Il pluralismo dello stato contemporaneo

La affermazione dei diritti sociali e del "Welfare State"

Lo stato monoclasse si trasforma in stato pluriclasse

Declino del diritto consuetudinario. Regolamentazione tramite norme giuridiche di ambiti prima riservati alla consuetudine o al costume

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nascita ed affermarsi del modello di stato nazionale

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I perché della integrazione europea sono molteplici, ma in gran parte sostanzialmente riconducibili come conseguenze a quel fenomeno conosciuto sotto il nome di "crisi degli stati nazionali". L'idea di stato nazionale deriva dalla fusione dei concetti di stato e nazione, che nel linguaggio corrente sono identificati, mentre nel linguaggio scientifico, ad es. della filosofia della politica, sono da tenere ben distinti. Per stato, come noto, si intende l'organizzazione della vita collettiva di un popolo stanziato su un territorio, la cui caratteristica principale è il monopolio del potere coattivo. Laddove si ha uno stato, dunque, non esiste una situazione di anarchia: vi è un insieme di norme, leggi, strumenti che organizzano razionalmente, civilmente i rapporti tra gli individui, in modo che possano svilupparsi alla luce della certezza: in modo cioè che ciascuno sappia cosa si debba fare e abbia la sicurezza di aspettarsi dagli altri un determinato comportamento. Senza questa sicurezza vivremmo nel caos e in una condizione selvaggia di natura, dove non è possibile nessun sviluppo. Lo sviluppo civile ed economico presuppone una razionale organizzazione dei rapporti tra le persone. Questa organizzazione è caratterizzata dall'avere validità entro un territorio specifico, e dal monopolio del potere coattivo. Lo stato detiene in altre parole il monopolio legittimo dell'uso della violenza per imporre il rispetto dei suoi comandi. Queste caratteristiche fondamentali dello Stato moderno sono riassunte nel concetto di sovranità. Lo stato moderno si dice sovrano in quanto non è costituito da un potere superiore, non riconosce nessun potere sopra di sé tale da limitare la sua sovranità: sopra uno stato sovrano non esiste nessun potere superiore di tipo a sua volta sovrano. Lo stato sovrano si è formato tra la fine del medioevo e il 1600. ha poi subito una serie importante di trasformazioni successive. Comunque mantiene tuttora i caratteri originari che sono stati indicati: tutti gli stati attuali sono stati sovrani. "Sovrani" dal punto di vista giuridico: perché dal punto di vista economico e politico la situazione può essere completamente diversa, e può mancare totalmente l'autonomia e la capacità di autodeterminazione dello stato stesso. La integrazione europea si è sviluppata attraverso la limitazione progressiva della sovranità statale; si può vederla come un processo in cui gli stati hanno trasferito alla comunità una serie di poteri perché svolgesse, in modo più soddisfacente, determinati compiti. Ad esempio, ormai da 30 anni la politica agricola è fatta dalla Comunità Europea; il commercio estero, le dogane, sono gestite dalla Comunità Europea. Col trattato di Maastricht si prevede che anche la sovranità monetaria, il potere di gestire la moneta, passerà dagli stati nazionali alla Comunità. L'idea di nazione nasce dalla fine del 700, a partire dalla rivoluzione francese, e prosegue nell'ottocento, ad opera di filosofi come Herbert, Rousseau, Mazzini, Renan, come reazione al razionalismo e cosmopolitismo illuministici. Si basa sulla convinzione che esistano elementi comuni a un gruppo di persone, che identificano tale gruppo rendendolo diverso: lingua,religione, storia, usi, costumi, folclore, tradizione, cultura, territorio. Nel corso dell'ottocento ci si spinge ad affermare che ogni nazione avrebbe un territorio elettivo naturale, dei confini naturali: le Alpi per l'Italia, il Reno tra Francia e Germania, i Pirenei tra Francia e Spagna, ecc. Si arriva alla fine ad affermare la comunità di sangue: ogni nazione sarebbe una comunità di sangue, con una precisa identità razziale, e quindi ogni comunità dovrebbe essere etnicamente pura e incontaminata. Da qui le aberrazioni razziste dell'Europa nella prima metà del nostro secolo. Questa idea di nazione, che ha avuto un grosso successo nel corsodell'ottocento, è falsa: non sono in realtà mai esistite nazioni di questo tipo.  Comunque, secondo la convinzione comune all'epoca, lo stato nazionale, derivante dall'incrocio tra stato e nazione, è la forma naturale di aggregazione sovrana: ad ogni nazione deve corrispondere uno stato, in base al principio cosiddetto di nazionalità, e cioè  una autonoma organizzazione della propria vita collettiva. La Grecia si costituisce in stato nazionale dal 1921 al 1929, attraverso una lotta contro l'Impero turco; seguiranno la Serbia, la Moldavia e la Valacchia, che con la loro unione daranno vita alla Romania, poi la Bulgaria, il Belgio, che si separa dall'Olanda, l'Italia, la Norvegia, che si stacca dalla Svezia. In tal modo i precedenti stati territoriali si trasformano in stati nazionali,e questo processo di organizzazione dell'Europa in stati nazionali raggiungerà il culmine con la dissoluzione, dopo la prima guerra mondiale, di tre grandi imperi o stati multinazionali: l'Impero austro-ungarico, l'Impero turco e l'Impero russo. Questa dissoluzione genera altri stati nazionali in base al principio, che ha grande successo alla conferenza nazionale di Parigi, di autodeterminazione dei popoli (principio che del resto viene richiamato ancora oggi da svariatissime etnie a scopi secessionisti: croati, ceceni, sloveni, abhkazi, ecc.). Nascono, dalla disgregazione dell'Impero austro-ungarico,l'Austria, l'Ungheria, la Cecoslovacchia, l'Estonia, la Lettonia, mentre dalla disgregazione turca si formano tutti gli attuali stati mediorientali: Siria, Giordania, Arabia saudita, Iraq, e, sia pure per breve tempo, Armenia. L'Europa è alla fine frammentata in tanti stati nazionali divisi da confini, barriere doganali, barriere protezionistiche, fino ad arrivare, in casi estremi, alla autarchia, cioè  alla autosufficienza che rifiuta tendenzialmente rapporti con il resto del mondo.

 

 

 

La crisi del modello di stato nazionale e l'inizio del processo di integrazione europea

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Perché il modello dello stato nazionale è oggi in crisi? Le radici di tale capovolgimento di tendenza vanno ricercate nella rivoluzione industriale. La rivoluzione industriale ha cambiato in modo profondo tutti gli aspetti del vivere umano, ma quella che più ci interessa qui è la trasformazione del modo di produzione e la serie di conseguenze da questa innescate. L'aumento delle capacità produttive ha portato con sé l'allargamento dei mercati: un modo di produzione industriale richiede infatti mercati più vasti da cui importare e verso cui esportare. A sua volta, l'estendersi dei mercati ha costituito il presupposto per l'affermarsi di una economia di scambio a livello globale: certamente i traffici e gli scambi sono esistiti in tutte le civiltà umane, ma solo con la rivoluzione industriale possiamo dire che essi sono divenuti il pilastro fondamentale dei rapporti economici. Negli ultimi 150 anni essi crescono vertiginosamente, generando una ulteriore conseguenza: la interdipendenza. Ogni paese che si avvia verso la rivoluzione industriale aumenta progressivamente la sua dipendenza dal mercato mondiale da cui deve importare ciò che non ha e verso cui deve esportare ciò che possiede in eccedenza. Rivoluzione industriale significa anche enorme sviluppo dei mezzi di trasporto. Quelli che fino a 150 anni fa erano gli unici mezzi di trasporto disponibili, vale a dire il cavallo, la navigazione a vela, lo spostamento a piedi, sono stati soppiantati da ferrovie e motori a scoppio, motori che,applicati ai natanti e agli aeromobili, hanno provocato l'enorme sviluppo soprattutto della navigazione marittima, con conseguente caduta verticale dei costi di trasporto. Se in precedenza trasportare uomini e merci era estremamente costoso, successivamente sarà economico e soprattutto molto più rapido. Tutto questo facilita e incrementa evidentemente gli scambi. La rivoluzione industriale si accompagna ad uno sviluppo sino ad allora ignoto dei mezzi di comunicazione e di informazione: telefono, telegrafo, radio,telematica, mass-media. Aumenta la cultura ed aumenta lo scambio delle idee. Tutti questi fatti conducono ad un fenomeno la cui comparsa può datarsi dalla fine dell'800, ma che si accentua nel '900 soprattutto con la recente rivoluzione tecnologica: la globalizzazione o interdipendenza globale. Il mondo diventa sempre più piccolo, fino a potersi definire un "villaggio globale", vale a dire un mondo interdipedente, dove i problemi diventano sempre più problemi sovranazionali e internazionali. In un società umana interdipendente, se uno stato fa delle scelte, queste producono effetti nel resto del mondo: ad esempio le decisioni sul tasso di sconto della Bundesbank (la banca centrale tedesca) producono effetti che si risentono in tutto il resto del mondo; come pure le decisioni della sua omologa americana, la Federal Reserve; o le crisi della borsa di Tokio o New York. La stessa disoccupazione giovanile europea ha origine nel basso costo del lavoro (30-40 volte inferiore) che il sud-est asiatico offre alla industria manifatturiera. Il taglio della foresta amazzonica e in genere l'inquinamento locale ha ripercussioni mondiali. Se una centrale nucleare esplode ne risulta inquinata tutta la terra. Anche il sottosviluppo è un fatto che non può più essere ignorato dai paesi ricchi, perché provoca grandiosi flussi migratori,con la conseguenza che gli abitanti di tali paesi debbono convivere con individui appartenenti a nazioni e culture radicalmente diverse dalla propria. Come conseguenza di tutti questi cambiamenti, uno stato nazionale diventa incapace di risolvere problemi diventati ormai più grandi di lui: di dimensione continentale o mondiale. Un esempio ne è l'inquinamento, nei cui confronti uno stato è impotente se esso arriva da oltre confine: uno stato nazionale come l'Italia può emanare leggi che proibiscano l'uso dell'energia nucleare per i rischi che ne derivano,ma se i paesi limitrofi utilizzano centrali nucleari, un guasto a tali centrali causerebbe comunque gli effetti negativi che si vuole evitare. La crisi dello stato nazionale deriva precisamente da questa contraddizione tra organizzazione politica dell'Europa in tanti stati sovrani da un lato, e interdipendenza derivata dallo sviluppo economico e sociale, che crea problemi comuni, che richiede mercati più vasti, in cui lavoratori, capitali, merci,possano circolare. Questa crisi arriva al suo punto di svolta con la seconda guerra mondiale,quando anche i vincitori, come Inghilterra o Francia, debbono constatare di uscire sconfitti sul piano storico: i veri vincitori sono le superpotenze extraeuropee, Stati Uniti e Unione Sovietica, che si spartiscono l'Europa in zone di egemonia esclusiva, in "aree di influenza", come si dice. Le decisioni di politica mondiale non sono più prese a Parigi, Londra o Berlino, ma a Washington e a Mosca. Crolla il sistema europeo degli stati, in cui l'Europa aveva un ruolo mondiale. A seguito di ciò, i paesi europei decidono di mettere risorse in comune per garantire lo sviluppo delle condizioni di vita dei cittadini e l'uso razionale delle stesse. Negli anni '50 nascono la CECA (1951, Trattato di Parigi), la CEEe l'EURATOM (1957, Trattati di Roma). I paesi fondatori delle Comunità Europee furono Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, cui si aggiunsero nel 1973 Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca; nel 1981 la Grecia; nel 1986 Spagna e Portogallo; nel 1995 l'Austria, la Finlandia e la Svezia. Altri paesi entreranno nei prossimi anni: hanno fatto domanda la Turchia (che però si prevede debba ancora aspettare per diverso tempo, visto che la sua ammissione provocherebbe una invasione di lavoratori turchi in Europa), Malta, Cipro, Svizzera, mentre stanno per fare domanda Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania). Si prevede che dai 15 stati attuali si passerà a 18 se non addirittura a 25 stati nel 2000.  Secondo alcuni il processo di integrazione europea, soprattutto a livello politico, contribuirà a indebolire ulteriormente il ruolo degli stati nazionali, mentre saliranno alla ribalta le realtà locali, le cosiddette "piccole patrie": aree dallo sviluppo socio-economico omogeneo che piuttosto che con le aree limitrofe rinsalderanno i propri vincoli con aree, anche distanti, aventi i medesimi caratteri. Ad esempio Milano e il suo hinterland stringeranno rapporti con aree simili del centro Europa in misura maggiore che con altre zone italiane. Questo porterà a sviluppare la vita politica ed amministrativa locale, nel senso di una maggiore autonomia, anche fiscale, di politiche economiche, della istruzione, ecc. Il "collante" che eviterà rischi secessionistici rimarrà la appartenenza alla Comunità Europea, con le sue politiche di intervento e solidarietà a favore delle aree depresse o meno sviluppate. Non si dimentichi che secondo molti studiosi l'esistenza di aree con gradi molto diversi di sviluppo rende necessario colmare almeno in certa misura i differenziali di reddito con una politica compensatoria e fiscale redistributiva, in modo da evitare, tra l'altro, il pericolo dello scatenarsi di flussi migratori incontrollati dalle zone più povere alle zone più ricche. Un sistema del genere viene adottato in tutti i paesi più avanzati: in particolare in Germania esistono degli importanti meccanismi di redistribuzione del reddito tra Laender economicamente più progrediti e Laender meno sviluppati.

 

 

 

La classificazione delle forme di stato e la classificazione delle forme di governo

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Si possono classificare sia le forme di stato sia le forme di governo. Per "forma di stato" si intende il tipo di rapporti tra gli elementi costitutivi dello stato (popolo, territorio e autorità) e in particolare fra autorità e cittadini e fra autorità e territorio. La classificazione delle forme di governo classifica i vari tipi di autorità dello stato in base al numero e al tipo degli organi supremi dello stato e ai rapporti intercorrenti tra di loro, in relazione alla distribuzione fra loro del potere politico, in particolare tra Capo dello Stato, Governo, Parlamento e Ordine giudiziario. Non c'è accordo tra gli studiosi sull'uso delle definizioni di "stato moderno" e "stato contemporaneo". Per alcuni anche le monarchie assolute sono "stati moderni"; per altri lo stato moderno nasce con la Rivoluzione francese. Nel seguito di queste dispense, converremo di chiamare "stato moderno" quello nato con le rivoluzioni di fine Settecento, sviluppatosi nell'Ottocento e conclusosi con la prima guerra mondiale, e "stato contemporaneo" lo stato del periodo successivo e ancora in via di trasformazione.

In alcune frasi, "stato moderno" indicherà sia lo stato ottocentesco che lo stato democratico-sociale del novecento. L'uso dell'uno o dell'altro significato risulterà chiaro dal contesto. Per le monarchie nazionali dal XVI al XVII secolo parleremo di "stato assoluto". Quando vorremo parlare di tutti e tre i tipi di stati (monarchie assolute, stato ottocentesco, stato democratico sociale del novecento) parleremo di "stati dell'età moderna".  La parola "stato" va riservata, secondo la maggior parte degli studiosi, a quelle organizzazioni politiche nate in età moderna dalla dissoluzione dell'impero, a cominciare dalle grandi monarchie nazionali del XVI secolo. E' tuttavia possibile trovare nella letteratura politica e giuridica la parola "stato" utilizzata per indicare fenomeni politici non appartenenti all'età moderna. Così, si parla di "stato medioevale" o "regno medioevale", "monarchia medioevale" per indicare i regni e i feudi più grandi e relativamente stabili soprattutto del tardo medioevo. Taluni definiscono "stati" gli imperi dell'antichità (romano, persiano ecc.). Altri definiscono "stati" certi imperi extraeuropei di epoca successiva, come l'impero Han in Cina. Altri parlano di "stati" in riferimento alle "polis" greche. Altri ancora estendono la parola "stati" fino a comprendervi tutte le forme di aggregazione politica dall'antichità ad oggi, e parlano così di "stati gentilizi" (per indicare i gruppi o "gentes" indoeuropee che dettero origine ai gruppi etnici latini, greci, germanici ecc.), "stati patrimoniali" e "stati territoriali". L'uso estensivo e al limite fortemente generico della parola "stato" non è però da incoraggiare, ed è stato segnalato allo studente unicamente per completezza di informazione. "Stato" nel senso proprio del termine è l'organizzazione politica territoriale tipica dell'età moderna. Sono "stati" nel vero senso del termine lo stato assoluto, lo stato liberale ottocentesco e lo stato democratico sociale del novecento, lo stato dittatoriale di destra (nazionalsocialista) e lo stato dittatoriale di sinistra (collettivista) oltre che altre forme tipiche dell'età moderna. Per "stato costituzionale" si intende lo stato dotato di una costituzione che precisa rigorosamente, per iscritto, (fa eccezione la costituzione inglese, che è in gran parte non scritta)i principi affermatisi con le rivoluzioni della fine del Settecento, sia pure integrati successivamente con istanze "sociali". Tali principi prevedono la partecipazione democratica alla vita politica ed efficaci forme di limitazione dell'autorità dello stato nei confronti del cittadino: a) principio democratico, b) riconoscimento dei diritti fondamentali, c) principio di legalità d) principio della divisione dei poteri pubblici. Altri scrittori usano, in senso analogo, il termine "Stato di democrazia classica o occidentale"per designare gli stati costituzionali che si susseguono a partire da quelli nati con le rivoluzioni liberali, fino ad arrivare allo "Stato (democratico) sociale" dei giorni nostri. Negli stati di democrazia classica, il valore politico fondamentale è rappresentato dall'eminente dignità di ogni persona umana e solo per potenziare le molteplici possibilità insite nella medesima e per agevolarne la fattiva operosità in seno alla società, è stata istituita e potenziata l'organizzazione statale. Il termine "Stato autoritario", "Governo autoritario" presenta notevoli oscillazioni di significato nella letteratura giuridica. Nel suo senso più ristretto viene utilizzato ad indicare le dittature di destra del nostro secolo (nazionalsocialista, fascista, salazariana, franchista ecc.).

In un senso appena più ampio include anche gli stati socialisti, definiti "stati autoritari di sinistra" in contrapposto agli "stati autoritari di destra" di cui si è parlato. In un senso più ampio indica le forme di stato contemporanee prive di una reale democrazia, includendo le dittature militari dei paesi in via di sviluppo, le repubbliche islamiche prive di libertà democratiche ecc.

In un significato generalissimo indica tutti i regimi non democratici della storia caratterizzati dall'assenza del parlamento e delle elezioni popolari o, quando questi istituti rimangono in vita,per la loro riduzione a pure procedure cerimoniali e dall'indiscusso predominio del vertice dell'esecutivo. In tale significato sono compresi il dispotismo orientale, l'impero romano, le tirannie greche, le signorie italiane, le monarchie assolute e quelle costituzionali di tipo prussiano, i sistemi totalitari, le oligarchie modernizzanti o tradizionali dei paesi in via di sviluppo, il cesarismo dei napoleonidi ecc. Vi sono due tipi di dittature: quella "commissariale", sorta per affrontare momenti di crisi e di transizione e destinata poi ad estinguersi, e quella "costituzionale", stabile e permanente. "Stato dittatoriale" e "stato totalitario" non coincidono necessariamente: il totalitarismo è la forma più esasperata di stato dittatoriale, in cui il controllo dello Stato sulla vita dei privati diviene completo. Dittature come quella giacobina di Robespierre non costituiscono stati totalitari. Secondo alcuni studiosi lo "stato socialista", basato sulla attuazione dei principi del marxismo è da classificare tra gli stati autoritari, in quanto volto ad attuare la "dittatura del proletariato"; secondo altri studiosi sono da distinguere "stato socialista" e "stato autoritario",che è unicamente di destra. Quando uno Stato sociale, con la sua burocrazia, tende a sovrapporre la sua volontà a quella dei privati su importanti questioni economiche si parla di "Stato dirigista". Diversi studiosi parlano poi di "stati in via di sviluppo" per indicare quelle forme di stato nate non di rado dalla decolonizzazione nati ad imitazione della democrazia classica o socialista, ma che ben presto hanno sviluppato deviazioni e particolarità rispetto a questi modelli, dovute ad elementi tribali, religiosi ecc. Il termine "Stato di diritto", se usato in contrapposto a "stato sociale", indica lo stato liberale ottocentesco. Per gli stati socialisti si usa anche il termine di "Stati di democrazia marxista"

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Il suddito feudale ha una posizione diversa dal suddito dello stato assoluto

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Nello stato feudale il rapporto tra i sudditi e il sovrano era mediato dai rapporti personali e dalla presenza di corpi intermedi. Il sovrano non aveva modo di rivolgersi direttamente al singolo, ma doveva contrattare con la sua corporazione o con il suo signore, al quale il singolo era unito da un rapporto personale. Inoltre, certe categorie di sudditi "non esistevano" giuridicamente: gli "inermes" (i contadini, i servi della gleba, i borghesi non appartenenti a corporazioni) non avevano diritti significativi, non contribuivano alla difesa del regno e le carte dei diritti medioevali consideravano solo i ceti nobiliari, le città e le corporazioni. Costoro erano piuttosto "possedimenti"del monarca che "sudditi" nel vero senso del termine. La trasformazione fu lenta e, nel corso del periodo assolutistico, parziale.

A poco a poco si delineò un rapporto diretto, tra sudditi e Sovrano (di comando da parte sua; di lealtà e obbedienza da parte dei sudditi), al posto della catena di fedeltà personali tipica della piramide feudale. Sin dal XIII secolo il Re si rivolge direttamente con il bando a tutti i sudditi, indipendentemente da vincoli feudali. In breve conquisterà, sia pure a prezzo di una spartizione con le assemblee elettive, il potere di emanare leggi generali che si rivolgono direttamente ai sudditi, scavalcando il rapporto gerarchico feudale.  Gradualmente aumentò il coinvolgimento di tutti i sudditi nella vita dello stato. Nel XIII secolo anche gli "inermes" iniziarono a partecipare alla guerra. Con lo sviluppo della burocrazia ampi strati della borghesia furono ammessi alla gestione degli affari dello Stato: anche i ceti intermedi nel XV-XVII secolo delle campagne e delle città l'opportunità di partecipare al lavoro di governo come giudici e amministratori. Lo stato europeo del XVI secolo era lungi dall'essere una democrazia, ma era anche lungi dall'essere un sistema dispotico, dominato da un monarca e da alcuni suoi seguaci. La politica doveva essere spiegata e giustificata alle migliaia di membri dei ceti dominanti; le debite procedure di diritto dovevano essere sempre rispettate, tranne che in casi eccezionali. Infine, mutò anche l'atteggiamento del suddito: suo punto di riferimento principale, oggetto della sua fedeltà, diviene lo Stato, al posto della corporazione, della famiglia, della comunità locale. Lo stato era divenuto una necessità della vita, aveva ottenuto la fedeltà prevalente dei suoi sudditi.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: La "Polis" non possedeva il concetto di democrazia moderna (rappresentativa)

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La società antica non possedeva un concetto moderno di democrazia, specie di democrazia rappresentativa. Il concetto greco di democrazia era sotto molti aspetti più radicale del nostro: per esempio, Aristotele (filosofo greco nato a Stagira nel 384-383 a.C. e morto nella Calcide nel 322 a.C.) dice che eleggere i magistrati è un modo di procedere oligarchico, mentre è democratico tirarli a sorte. Nelle democrazie radicali, l'assemblea dei cittadini era al disopra della legge, ed era pienamente libera di decidere ogni questione. I tribunali ateniesi erano composti di un gran numero di cittadini scelti mediante sorteggio e non guidati da nessun giurista. Né Platone (filosofo greco nato ad Atene nel 428-427 a.C. e morto ad Atene nel 348-347 a.C.) né Aristotele pensano alla rappresentanza. La "Polis" non riesce ad unire il concetto di democrazia con quello di rappresentanza.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Gli antichi non riuscirono a risolvere il problema della legittimazioneall'esercizio del potere

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Gli antichi non riuscirono a risolvere il problema della legittimazione all'esercizio del potere, cioè  a definire quale potere fosse da considerare incontestato e "legittimo" e quali fossero le regole per il suo passaggio da un individuo ad un altro. Negli stati dell'epoca moderna, il potere legittimo è fondato su una chiara idea della sovranità del popolo che elegge i suoi rappresentanti o della sovranità ereditaria di origine divina. Niente del genere era riconosciuto nell'antichità. Platone e Aristotele sostenevano che dovessero legittimamente governare "i più saggi". Ma non vi era alcun accordo sul modo di riconoscere i più saggi e su ciò che poteva costituire la base del loro potere (elezione popolare, investitura divina, eredità dinastica ecc.). Come conseguenza, nessun capo politico godeva di una autorità perfettamente legittima agli occhi di tutti, edera continuamente esposto alle accuse di tirannia e di potere personale da parte di altri pretendenti. A Roma accadeva la stessa cosa col potere imperiale, la cui giustificazione era incerta e confusa e che alla fine si doveva appoggiare sul controllo dell'esercito. Questo finì col creare un clima di guerra civile generalizzata che fu uno dei fattori del crollo dell'Impero. Solo con le monarchie nazionali del secolo XVI divennero stabili, certe e non più contestate le regole della successione dei sovrani, in base a principi dinastici ed ereditari, eventualmente convalidata dalla investitura da parte della Chiesa.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Incapacità delle società antiche di regolare la lotta politica

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Il pensiero politico antico ha una carenza fondamentale che già si manifesta in Platone e in Aristotele: non concepisce i rapporti tra le classi in termini di regole del gioco tra i partiti, che sono visti, più che come associazioni lecite, come fazioni incontrollabili che lottano per interessi particolari in opposizione al bene comune. In sostanza, il pensiero antico non riesce a costruire una valutazione positiva degli interessi particolari e della loro dialettica all'interno della collettività. Né Platone né Aristotele pensano ad un equilibrio dei rapporti tra le classi in termini di regole del gioco tra i partiti, trasformabili da fazioni in associazioni volontarie istituzionalizzate, volte ad organizzare la rappresentanza. Questo dipende dal fatto che non si è pienamente realizzato il monopolio della forza da parte dell'autorità, ma anche dalla peculiare mentalità dell'uomo antico. I pensatori greci hanno una devozione religiosa e patriottica alla città, al "bene comune". Tale bene comune poteva essere inteso e perseguito solo dai più saggi. La promozione di interessi individuali e collettivi da parte di gruppi di cittadini qualsiasi (come sono oggi i nostri partiti) era sempre vista come faziosa e contraria al bene comune. Questa concezione arriva fin sulle soglie dell'età moderna. Solo con il liberalismo, l'individualismo e l'utilitarismo del Settecento e dell'Ottocento sarà riconosciuta la legittimità degli interessi individuali e dei partiti che se ne fanno portatori. Le vicende politiche greche sembravano confermare, agli occhi dei filosofi,la valutazione negativa del conflitto di interessi: esse offrivano lo spettacolo di una continua e sanguinosa lotta tra aristocrazia e popolo, in cui la prevalenza di una componente non costituiva un momento normale di pacifica alternanza alla guida della Polis, ma la negazione e la distruzione fisica dell'avversario e la presa di potere incondizionata da parte del vincitore.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: La visione gerarchica della società nel pensiero antico e le sue conseguenze politiche

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Un'altra ragione per cui il pensiero greco non riesce a raffigurarsi una attività politica fondata sulla contrapposizione di interessi e sulla necessità dell'accordo di cittadini aventi pari importanza, deriva dalla particolare visione greca dell'universo, di tipo religioso. Tutto era governato dalla "Dyké", o "giustizia". In base ad essa ogni persona e ogni cosa ha un suo preciso posto e una sua precisa funzione nel Cosmo. La teoria è legata alla idea del Fato e della Necessità. Una specie di legge impersonale, superiore perfino agli dèi, punisce l'"hybris" (= la rottura violenta dell'ordine: incesto, parricidio, omicidio, tradimento ecc.) e ristabilisce l'ordine eterno che l'aggressore cercava di violare. Noi oggi siamo portati ad identificare "giustizia" con "democrazia". Per Platone e in genere per un greco, questa identificazione non era affatto ovvia né scontata. Questo porta ad una accettazione della ineguaglianza che ripugna molto al pensiero moderno. La concezione greca della società è tipicamente gerarchica: esistono individui atti al governo e individui che non possono che essere governati. Per un greco ciascuno ha una sua sfera, superare la quale è "ingiusto".

Alcuni, in virtù del loro carattere o delle loro attitudini, hanno una sfera più larga degli altri, e non è ingiusto se essi godono una parte maggiore di felicità o di potere. Così, non solo non ci sono obiezioni allo schiavismo o alla superiorità dei mariti e dei padri sulle mogli e sui figli, ma si sostiene che le cose più apprezzabili sono (per loro stessa natura) destinate a pochi: agli uomini magnanimi e ai filosofi. Si finisce col considerare che la maggioranza degli uomini è solo un mezzo per render possibile la esistenza di pochi governanti e saggi. Per Aristotele gli uomini che lavorano per vivere non debbono avere diritto di cittadinanza. Se l'obiettivo è la buona comunità piuttosto che il buon individuo, anche prescindendo dalla disparità di qualità personali, non tutti possono avere la posizione di "primi violini". Il potere e la proprietà saranno di necessità inegualmente distribuiti.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Nel medioevo non esisteva l'idea di comunità di stati liberi e indipendenti

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Se da un lato il primo embrione di una idea di coesistenza pacifica di formazioni politiche è fornito dalla società medioevale (dove, all'interno dell'impero, convivevano città, feudi e regni), tuttavia la società medievale non aveva sviluppato l'idea tipicamente moderna della comunità degli stati sovrani e indipendenti: comuni, feudi, corporazioni si consideravano pur sempre sudditi di un unico Imperatore: alla unità in Cristo e nel Papa per quel che riguardava la religione, corrispondeva l'unità politica sotto l'Imperatore. E' interessante confrontare la Guerra dei cent'anni tra Francia e Inghilterra con la prima guerra mondiale. Mentre con la Guerra dei cent'anni il Re inglese rivendicava la Francia come preda di guerra, nessun paese vincitore della prima guerra mondiale si sarebbe sognato di annettersi uno degli stati sconfitti. In una economia statica come quella feudale, l'unico modo del Signore per migliorare il suo status sociale e la sua ricchezza era annettersi nuove terre.

La guerra di conquista e di aggressione era un modo naturale, agli occhi dei medioevali, non solo per migliorare la propria posizione all'interno della società, ma per dirimere controversie e ottenere riparazione dalle offese. Con la guerra dei 30 anni cessa l'idea feudale, tipica dello stato patrimoniale e dinastico, della guerra di annessione e di conquista e della guerra come strumento di composizione delle liti. La guerra assumerà sempre di più una funzione difensiva, di tutela da parte dello Stato del proprio territorio, e il principe ricercherà la crescita del proprio prestigio e potere promuovendo la crescita economica e culturale entro un territorio definito. Lo stato moderno, che nasce dal trattato di Westfalia, convive con altre società analoghe in seno alla comunità internazionale; tanto che il trattato segna anche il sorgere del diritto internazionale.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: L'autorità dello stato moderno è accentrata rispetto alla società feudale

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Nella società feudale, a differenza che nello Stato moderno, l'autorità non era accentrata: feudi, comuni, corporazioni detenevano tutti una parte di potere, creavano propri ordinamenti giuridici, e amministravano. Nessun potere sovrano era in grado di imporsi ai numerosi poteri particolari. Col nascere di assemblee rappresentative variamente chiamate ("Parlamenti", "Diete", "Stati generali", "Corti" ecc.) fu possibile raccogliere il consenso delle varie classi sociali e i poteri precedenti furono costretti a ruotare intorno ad un unico centro di potere di cui il Re era l'elemento principale.

Iniziò in tal modo la concentrazione della politica. Alla nascita dello Stato ci fu una tendenza, mano a mano che si acquisivano delle contee, a porvi a capo dei funzionari legati al sovrano non da rapporti di scambio ma da rapporti di gerarchia. Sebbene con lo Stato moderno si sia fatto un grande passo in avanti, nella fase detta dello "Stato per ceti" il potere, anche se concentrato geograficamente e in mano ad un numero ridotto di persone (i componenti delle assemblee e il monarca) era tuttavia ancora diviso tra la Corona e una serie di altre istanze, rappresentative delle varie classi, corporazioni e città.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Nella società feudale erano preminenti i rapporti di forza

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Sebbene esistesse un complicatissimo sistema di regole giuridiche che determinavano la posizione dei feudatari rispetto all'Imperatore e agli abitanti dei feudi, nella società feudale contavano assai di più i puri e semplici rapporti di forza. L'idea di preminenza della legge si sviluppa di pari passo con l'idea di preminenza del Sovrano assoluto nei grandi stati nazionali.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Sviluppo di una fiscalità di tipo moderno

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Si sviluppa una fiscalità moderna, basata quasi esclusivamente sulle entrate di diritto pubblico in contrapposto alle entrate patrimoniali, con una netta separazione tra il fisco e il patrimonio personale del monarca. Le crescenti spese fecero ricorrere alle finanze dei sudditi, mentre secondo la tradizione medioevale il re poteva trarre i propri mezzi finanziari solo dalle terre di sua proprietà. Aumentarono le imposte indirette (dogane, pedaggi) e furono istituite le imposte dirette. Lo stato moderno ha cominciato a svilupparsi nel momento in cui i progressi della tecnologia militare hanno reso insostenibile il finanziamento degli eventi bellici per gli organismi politici precedenti, cioè  gli stati feudali.

Qualora si pensi che una cotta di maglia (all'intorno del XVI secolo) pesava da sola quindici chili e costava l'equivalente di una piccola fattoria e che la corazza vera e propria arrivava in certi casi a pesare sessanta chili ed era proporzionalmente più costosa, o che un cavaliere necessitava di uno o due scudieri per l'equipaggiamento e l'appoggio e di cavalcature supplementari per loro, si può facilmente vedere che solo una società strutturata come la monarchia nazionale francese poteva essere in grado di mettere in campo una forza del genere. Sarebbe un po' come aspettarsi al giorno d'oggi che singoli cittadini possano formare l'esercito del proprio paese schierandosi con un carro armato tipo Patton personale o un cacciabombardiere Phantom personale. La struttura finanziaria degli stati feudali si basava sul patrimonio personale del Signore e sui tributi, cioè  su apporti contrattati, di natura straordinaria o comunque non ricorrente, forniti da vassalli, o genericamente signori minori e altri membri della società. Diventava necessaria una struttura in grado di assicurare introiti maggiori,più sicuri e ricorrenti,quali quelli ottenibili appunto da un sistema di imposte e tasse. La loro esazione richiede la costituzione di un corpo specializzato, che non è però sempre e necessariamente pubblico agli inizi.

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Lo stato moderno ha col territorio un rapporto diverso dallo stato medioevale

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I confini dei regni medioevali erano molto incerti e fluttuanti. Come si è già detto, in un'economia statica come quella medioevale, i nobili potevano incrementare la propria ricchezza appropriandosi di feudi altrui. Per questo i regni e le dinastie medioevali furono mobili da un capo all'altro del continente. Anche molti degli imperi della storia non avevano in realtà una piena natura territoriale. Imperi come quelli dei Maya avevano un carattere di semi-stabilità, perché il nomadismo rimase per lungo tempo esigenza insopprimibile delle stesse popolazioni più organizzate e progredite, specie per ragioni demografiche e di mutamento climatico o di esaurimento delle risorse. Solo nei luoghi dove le terre erano più fertili si crearono nell'antichità dei veri imperi territoriali. Gli stati moderni definirono i confini come linee militari, politiche,fiscali. I confini non sono più facilmente attraversabili. Cessano i legami confinari ad es. tra Inghilterra e Francia con la Guerra dei cento anni,conclusasi con la sconfitta delle mire inglesi sul continente. Cessa la mobilità geografica della nobiltà. Si afferma l'idea della territorialità della obbligazione politica, specie attraverso le nuove forme di leva e di fiscalità. Vedi comunque quanto detto sugli elementi dello stato in generale

 

 

 

Differenze tra lo stato dell'età moderna e le forme politiche che lo hanno preceduto: Società in cui era assente il monopolio della forza fisica da parte di un’autorità impersonale

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Nell'epoca moderna, lo stato spoglia i privati della possibilità di esercitare la forza fisica e riserva questo potere ad una organizzazione separata dal resto della società. Nelle società primitive attuali e del passato, la forza viene esercitata da tutto il gruppo e anche dai singoli. Se poi in qualche società il potere si concentra in una famiglia, in un capo, in un gruppo , questa concentrazione non giunge mai a costituire un apparato stabile che permanentemente domina sulla società, perché i singoli e gli altri gruppi mantengono sempre abbastanza armi e forza fisica da poter competere, se necessario, con i primi. Nello Stato assoluto, invece, il monopolio della forza fisica è così radicale che i due terzi degli eserciti erano composti da milizie mercenarie,per timore di armare i sudditi (in pratica i contadini). Nella società feudale non esiste il monopolio della forza fisica in mano al sovrano o feudatario maggiore: ciascun feudatario ha, in fatto e in diritto,una sua propria forza armata, tale che anche i feudatari minori, alleandosi, possono contrastare il potere del feudatario maggiore, e tale che i feudatari maggiori hanno un potere talvolta addirittura superiore a quello del Re o dell'Imperatore. L'esercito feudale era un insieme di "reparti" che rispondevano ciascuno solo al proprio Signore, cosicché l'unità di comando era assicurata solo dall'accordo dei feudatari maggiori. Inoltre, esisteva il diritto di guerra privata, per cui ciascun Signore rivendicava il diritto di farsi giustizia da sé e poteva muovere guerra ad un altro Signore. L'"ordalia" o "giudizio di dio"era una forma di ricorso alla violenza privata per risolvere controversie. Nelle città stato greche non esisteva un apparato particolare separato dalla comunità cittadina il quale monopolizzava la forza dopo averne spogliato icittadini: detentori del potere erano questi stessi cittadini. E infatti non esisteva burocrazia, né esercito permanente, ma tutti i cittadini erano armati (ed obbligati ad armarsi a loro spese secondo le diverse categorie) e tutti insieme formavano l'esercito nei momento in cui era necessario combattere. Ad Atene, addirittura, durante il periodo democratico, tutte le cariche pubbliche venivano esercitate a turno da tutti i cittadini mediante sorteggio. Nell'Impero romano il potere militare e la possibilità di usare la forza si era concentrato in un esercito professionale comandato dall'Imperatore, ma questo fatto non è mai riuscito a trasformarsi nell'idea e nella pratica per cui il potere sovrano spetta ad un apparato particolare separato rispetto alla società.

 

 

 

La creazione dello "spazio statale". Il concetto di "nazione" nel Cinquecento.

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Lo Stato dell'età moderna crea uno "spazio comune" molto più integrato della società feudale e degli imperi antichi, e molto più vasto della "polis" greca, dove prevalgono la legge e le regole e sviluppa l'embrione di una coscienza nazionale. Si afferma come idea suprema di giustizia e di ordine nei confronti della quale i singoli svilupperanno un senso di fedeltà e di appartenenza più forte dei legami con le altre organizzazioni tradizionali. I grandi imperi asiatici (il cosiddetto "dispotismo asiatico") non uniscono il territorio con la stessa pienezza dello Stato moderno. In esso si hanno molte comunità agricole autosufficienti, che tutte insieme dipendono da un potere centrale che assicura la indispensabile regolamentazione delle acque, le opere pubbliche di grandi dimensioni e la difesa verso l'esterno, compiti che nessuna singola comunità può assolvere. L'Imperatore e il suo apparato centrale hanno solo quel tanto di potere necessario ad assolvere tali compiti, e non esercitano invece poteri sovrani in materie che riguardano più specificamente la vita delle singole comunità agricole, che in linea di principio sono mondi autosufficienti e indipendenti l'uno dagli altri e dal centro. Gli imperi dell'Antichità basavano la propria identità sulla figura e il potere dell'Imperatore: i legami fra le varie parti del territorio e della popolazione sono dovuti semplicemente al fatto di avere uno stesso Sovrano e limitati scopi comuni. L'Impero romano nasce come raggruppamento, unificato militarmente, di precedenti Regni e città, che mantengono una autonomia fortemente differenziata tra di loro. La maggior parte dei compiti che oggi svolge lo Stato moderno erano svolti dalle singole comunità locali, diverse per consuetudini, cultura,nazionalità, che si riconoscevano collegate tra loro e all'Impero solo da limitati interessi comuni di difesa, di ordine e di culto pubblico: tutte queste parti non vengono considerate come articolazioni di un unico Stato, ma parti differenziate sottoposte ad un comando centralizzato essenzialmente militare e fiscale. Non per caso per lungo tempo la cittadinanza romana non viene estesa a tutte le popolazioni ricomprese nell'Impero, e anche quando ciò accade (nel 212 d.c. con Caracalla, e neanche allora completamente) è per ragioni pratiche, non per creare un unico popolo di cui il potere centrale si sente e si riconosce espressione. Ma queste forme di solidarietà limitata, alle soglie dell'età moderna,costituivano un vincolo per lo sviluppo economico e sociale, e ben presto lasciarono il posto ad una solidarietà nazionale, alla idea di uno "spazio comune" coincidente con la nazione. Lo Stato moderno, rispetto alla "Polis", raggruppa non solo la popolazione di un unico centro urbano, ma anche l'intero gruppo (dei greci, dei latini...) che possiede lingua e costumi identici. Rispetto al periodo medioevale raggruppa non solo l'ambito circoscritto ed isolato del feudo, ma, dati i nuovi rapporti economici e sociali e il miglioramento delle vie e dei mezzi di trasporto, una unità più vasta. Rispetto agli Imperi dell'Antichità, i legami fra le varie parti del territorio e della popolazione sono molto più forti (identità nazionale e di leggi, solidarietà politica, economica e sociale) e non dovuti semplicemente al fatto di avere uno stesso Sovrano e limitati scopi comuni. Al caos, all'anarchia e alla frammentazione medioevale lo Stato nazionale sostituisce l'idea di uno "spazio comune", economico, politico, sociale, dove non esistono barriere linguistiche, commerciali, di interessi locali ai rapporti sociali, economici, politici; dove i conflitti sono risolti in via pacifica attraverso la mediazione del Sovrano e della sua legge; dove la solidarietà e gli interessi comuni prevalgono sulle differenze di ceto e di religione; dove il punto di riferimento dell'individuo non è più la famiglia, il signore, la comunità locale o la corporazione, ma lo Stato; dove è possibile la collaborazione pacifica dei singoli. In tal modo, gli stati europei cumularono i vantaggi degli imperi (forza militare, libertà delle comunità locali) con quelli delle "polis" (unità di traffici e culturale, solidarietà comune). Lo spazio comune è anzitutto uno spazio comune politico, dove i conflitti pubblici tra i soggetti vengono risolti dalla mediazione del Sovrano e della sua legge. Lo spazio comune è uno spazio giuridico, dove i conflitti privati tra i soggetti vengono risolti con leggi e procedure uniformi. Lo spazio comune è uno spazio economico, anche se si dovrà attendere le rivoluzioni borghesi per una sua piena attuazione. La rivoluzione francese portò a completamento la formazione di uno spazio economico unitario: riunificò legislativamente la Francia, cioè  creò un unico mercato regolato da leggi uniformi per tutto il territorio francese; abolì tutte le unità di misura locali e le sostituì con unità di misura universali e razionali (quelle che usiamo ancora oggi); liberò la proprietà dai vincoli che ne impedivano la circolazione, distruggendo e redistribuendo le grandi proprietà della Chiesa e feudali a milioni di contadini. La richiesta dei commercianti al Colbert, (ministro di Luigi XIV, Re Sole) che chiedeva loro cosa potesse fare il Sovrano per favorire i traffici fu "laissez faire, laissez passer". Lo spazio comune costituito dallo Stato, è anche un fatto mentale,psicologico: in precedenza il sacrificio supremo era compiuto per la famiglia,il Signore, la Comunità o la fede religiosa, non per lo Stato. Nel corso del XIII secolo la fedeltà si sposta dalla Chiesa, alla famiglia,alla Comunità locale, al Re, e poi si sposterà alla figura astratta dello Stato. E' dallo Stato che il suddito si aspetta protezione e aiuto; è allo Stato che egli guarda perché siano fissati i suoi diritti e i doveri; è allo Stato che egli guarda perché gli sia resa giustizia; è allo Stato che va la sua fedeltà e il suo aiuto militare ed economico; il più alto dovere di ogni suddito divenne la conservazione e la prosperità dello Stato. La identità etnica, storica, culturale all'interno dell'Europa era fino a quel momento labile. Fino alla guerra dei 100 anni la lingua parlate dalle classi elevate inglesi, usata a Corte e nei tribunali era il francese: gli antichi legami di parentela tra le dinastie regnanti avevano infatti reso omogenei, dal punto di vista culturale e linguistico, i ceti dirigenti dei due paesi. Durante la guerra, però, il francese fu sentito inevitabilmente la lingua dei nemici e alcune ordinanze regie intervennero prontamente per abolirne l'uso. In un'Europa che assomigliava sempre più a una torre di Babele,a un groviglio di idiomi incomprensibili, la lingua era, in effetti, il carattere che prima e meglio di ogni altro serviva a distinguere una nazione. Il fenomeno della diffusione della coscienza nazionale si colorò anche di elementi religiosi. La crisi del Papato durante il Grande scisma favorì la formazione delle chiese nazionali. L'emergere di tutti questi elementi di coscienza nazionale, globalmente considerati, rappresenta un fatto nuovo nella storia europea. Perché maturi questa coscienza "statale" prima che "nazionale" una comunità umana deve stabilizzarsi nello spazio e nel tempo: solo dalla fine delle invasioni barbariche questo fu possibile. Con il senso di identità poterono nascere le istituzioni rappresentative. Solo in una nazione con un forte senso di identità cento uomini possono rappresentare la nazione e quindi possono sorgere Parlamenti. Non si deve tuttavia trarre la conclusone che in questo periodo esistessero "nazioni" nel senso moderno del termine, quale esso si è venuto a formare dopo la Rivoluzione francese. Anzitutto accanto al termine "nazione" indicante grossomodo l'insieme dei grandi Regni a carattere nazionale, permanevano accezioni più limitate del termine; in Francia, per esempio, si continuò a parlare di "Nazione borgognona" o "Nazione piccarda" mentre con "Nazione anglica"s'intendeva spesso, in modo indifferenziato, non solo gli Inglesi, ma anche i Tedeschi, gli Scandinavi, i Polacchi ecc. La fedeltà allo Stato per lungo tempo avrà i caratteri non del nazionalismo,ma dell'umanitarismo: quello stesso umanitarismo che faceva cantare a Virgilio le glorie dell'Impero di Augusto, età di pace e di prosperità: lo Stato offriva una pace e una sicurezza più grandi, possibilità per una vita confortevole maggiori che non le vaghe associazioni di comunità: oggi, senza pensarci, tutti noi ci appoggiamo fortemente allo Stato più che a qualsiasi altro vincolo. Oggi una persona può vivere senza famiglia o altri vincoli, protetta solo dallo Stato. Agli inizi la fedeltà allo Stato poteva apparire determinante e dominante senza essere particolarmente intensa, visto che anche le fedeltà alle altre istituzioni (Impero, papato) erano labili. Il papa non ottenne alcun appoggio in Francia quando si oppose alla tassazione della Chiesa da parte del Monarca. La Francia veniva ormai vista dai suoi sudditi come la terra della civiltà e della giustizia ed esaltata come nazione promessa. La Chiesa e l'Impero avevano perso il loro ruolo di supremi arbitri a favore del Monarca. Al centro di questo "spazio comune" sta la Corona e la sua legge. L'idea del Re come "fountain of justice" ("toute justice emane du Roi") e della legge come mezzo per fissare la posizione di ciascuno furono molto importanti. Il Sovrano,con le sue leggi e con le sue Corti di giustizia, contrapposte alle Corti baronali, si pone come fonte e garante dell'ordine. La legge e le sentenze del Sovrano fissano in maniera certa e sicura i più vari rapporti, che il Medioevo aveva lasciato incerti e indeterminati: le posizioni dei sudditi; l'assetto dei rapporti politici e sociali e in particolare la ripartizione della proprietà della terra, fonte principale di ricchezza e potere; la divisione tra potere spirituale e potere temporale; la divisione del potere politico tra Re e nobili; la posizione delle Città libere e molto altro ancora. La Corona diviene arbitra della vita associata. A mano a mano che vengono fissati rigorosamente gli ambiti di autorità dei vari gruppi politico-sociali essi rivendicano il loro diritto di partecipare mediante gli istituti della rappresentanza (assemblee di ceto) al processo di creazione del nuovo ordinamento giuridico (stato per ceti). Il diritto romano fornì solide basi a questa azione legislatrice, e il concetto di Stato patrimoniale fu anch'esso essenziale, almeno agli inizi, per questo assetto con al centro il Sovrano: laddove il Sovrano riuscì a rivendicare effettivamente a sé, nei confronti dei feudatari, il proprio dominio eminente sulla terra e le persone, venne naturale chiedere a lui di dirimere le controversie e di fissare le posizioni e i diritti degli individui. La Chiesa aveva introdotto, nel Medioevo, l'idea che vi è stretta relazione tra legge e giustizia. Il Monarca nazionale toglie all'Imperatore il privilegio esclusivo di emanare leggi universali, lui che poteva unicamente vincolare i propri vassalli, e ne fa uno strumento di costruzione dello Stato. Questo ruolo del Re affonda le sue radici nella concezione medioevale del Sovrano come "judex" ("giudice") che in teoria dovrebbe limitarsi a garantire l'applicazione del diritto vigente (romano o consuetudinario), ma ha anche il dovere di modificarlo secondo i canoni e gli ideali della giustizia. Nell'uno che nell'altro caso egli non crea ad arbitrio: sia che applichi norme scritte,sia che scriva norme non scritte, egli attinge al diritto naturale, alla Giustizia, a principi eterni ed immutabili. Col tempo, la legislazione del monarca viene vista piuttosto come opera puramente umana, la legge diviene uno strumento di costruzione di quell'opera umana che è la "Polis", lo Stato. Si può parlare, in riferimento a tutto ciò, sin dagli inizi dell'età moderna,di "stato di diritto", non nel senso liberale ottocentesco, ma nel senso più generico che la legge fu uno strumento fondamentale per la costruzione dello spazio comune statale, per fissare regole e posizioni. Si può parlare anche - in un senso diverso e più generico rispetto a quello illuministico - di "stato razionale", in cui si afferma il binomio giustizia-ragione. La società medioevale era caratterizzata da incongruenze,regole incerte, sovrapposizioni di potere, rapporti ambigui. I rapporti di potere medioevali erano confusi e fonte di continue guerre. Le posizioni di potere si intrecciavano inestricabilmente: un Re poteva essere contemporaneamente, a causa di un suo feudo, feudatario rispetto ad un altro Reo all'Imperatore; oppure una stessa persona poteva essere contemporaneamente feudataria di due diversi Re o feudatari maggiori. Lo stesso avveniva per i rapporti territoriali. I Regni e le nazionalità non erano esattamente definite. Un Regno era incluso in un altro come suo vassallo.

I sentimenti nazionali erano incerti. Le stesse istituzioni religiose, dopo la Riforma, mostrarono la loro debolezza come elemento unificatore e ordinatore della vita associata. Per un lungo periodo divennero fonte di confusione delle coscienze e di lotte settarie. Lo Stato assoluto incarna, di fronte a tutto ciò, una istanza di ordine e di razionalità superiore, che sostituisce le regole della ragione umana a quelle della tradizione, del costume, della fedeltà religiosa. Con i disordini religiosi sullo scorcio del 16° secolo in Francia, la scuola dei "politiques", giuristi e scrittori politici, porta avanti il discorso di un Sovrano assoluto legittimato in termini puramente funzionali, di efficienza e di ordine. Lo Stato assoluto razionalizza il potere e il suo esercizio. Razionalizza - ovviamente per quanto gli è possibile - la burocrazia, le leggi, l'esercito, il fisco. Dal XVI al XVIII secolo, la monarchia continuò a definire le posizioni di ciascuno non solo con la sua opera giurisdizionale, ma anche legislativa ed amministrativa: facendo della razionalità il suo punto di forza, giunse spesso a sacrificare posizioni e diritti tradizionali in vista della produzione di nuove risorse e dell'affermazione, quindi, di nuovi diritti. La semplice costruzione di strade, che comportava massicci espropri, mostra la razionalità del Sovrano all'opera. Lo sviluppo completo dello "spazio comune" si avrà con gli stati democratico-sociali contemporanei, dove il principio di solidarietà è eretto a base dei rapporti sociali, politici ed economici.

 

 

 

Il feudalesimo primitivo. Il feudo

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Un primo tentativo di costruire uno stato fu attuato con l'impero carolingio, ma ben presto gli ufficiali del Re divennero capi indipendenti di comunità locali. La frammentazione del potere politico è uno degli aspetti del feudalesimo primitivo. Il feudalesimo tende ad apparire quando lo sforzo di conservare una unità politica relativamente ampia risulta superiore alle risorse economiche e spirituali di una società. Questo fenomeno si ripetè , sia pure in scala ridotta, con il cosiddetto "secondo feudalesimo" del 1300, ma anche in secoli successivi, di fronte alla recessione economica, alle carestie, alla guerra e alla peste portò ad una rinascita del potere baronale e alla tendenza di ogni dipartimento a trasformarsi in corporazione autonoma. Dopo la "rinascita carolingia" del IX secolo, la società piombò rapidamente nella disgregazione e nel caos. Nell'anno mille la frammentazione era così estesa che sarebbe stato impossibile trovare qualcosa di simile ad uno stato Il sistema feudale nacque appunto dalla disgregazione dell'organizzazione dell'impero carolingio. Il feudo è un istituto per effetto del quale il concessionario di un immobile, detto vassallo,prestava giuramento di fedeltà e si sottometteva al signore superiore (al vertice, l'imperatore) concedente, che gli assicurava protezione e immunità da determinati servizi e prestazioni. Queste deleghe divennero ben presto ereditarie e trasmesse di padre in figlio, come le terre, le case, i servi. I castelli presupponevano la presenza di forze militari stabili, che esercitavano un potere coercitivo (detto "banno") sulle popolazioni contadine e più in generale su tutti coloro che non portavano armi e che quindi non contribuivano alla difesa del territorio. Queste forze svolgevano anche funzioni di polizia ed erano strumento della giustizia signorile, che veniva amministrata da adunanze di seguaci del signore (dette "placiti") presiedute dal signore stesso o da un suo rappresentante. Forti di questa supremazia militare, i signori riscuotevano anche dazi e pedaggi lungo i ponti, le strade o nei mercati, obbligavano i contadini a utilizzare a pagamento il mulino,il forno, il frantoio di loro proprietà. Essi si spingevano fino ad esigere abusivamente il versamento di vere e proprie tasse. Spesso si trattava non di una concessione del sovrano, ma di un vero e proprio impossessamento illegale, cui si tentava di dare una parvenza di legittimazione con una pura finzione legale,accampando concessioni regie o simili: in realtà, nell'epoca di grande anarchia che si registrò intorno al Mille, i forti si erano impossessati di quanta terra potevano conservare e su quella si erano costituiti padroni assoluti dei deboli, ai quali concedevano di vivere a patto che coltivassero il suolo in buona parte per conto del signore. Nel XII secolo il feudo ottenne la prima sistemazione secondo i principi romanistici. Fondato su un contratto bilaterale, rientrò definitivamente nella categoria dei diritti reali su cosa altrui.

Il vassallo era titolare di un diritto di usufrutto ereditario e perpetuo sul beneficio,condizionato all'adempimento di determinati obblighi (fedeltà, divieto di provocare danni all'onore,alla persona e al patrimonio del concedente), mentre il Signore era titolare di un vero e proprio diritto di proprietà sulla terra infeudata. Nel secolo XIII si parlerà di "dominio diretto" del Signore e "dominio utile" del vassallo. Gli obblighi dei vassalli furono col tempo convertiti in tributi (pagati nel caso di nuove investiture, rinnovazione dei titoli, riscossione di imposte ordinarie o straordinarie). Così, mentre il vassallo si occupava di svolgere nella sua circoscrizione tutte le funzioni pubbliche (o alcune di esse) i concedenti avevano la garanzia di ricevere entrate patrimoniali.

 

 

 

Lo "stato feudale" e lo stato patrimoniale

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Lo stato patrimoniale fu la forma di organizzazione dello stato immediatamente precedente (e non successiva, come afferma il libro di testo) a quella dello stato personale. Lo stato patrimoniale è la forma tipica della monarchia o stato feudale, ma non si identifica unicamente con lo stato feudale, in quanto anche le monarchie assolute nella loro prima fase (XVI secolo) presentano forti elementi della concezione patrimoniale del potere, tanto da poter essere considerate, per certi loro aspetti, un prolungamento dello stato patrimoniale in età moderna. Gli aspetti patrimoniali sono ancora molto forti agli inizi dello stato assoluto (XVI secolo). Non c'era ancora una chiara distinzione tra finanze del e finanze dello Stato. Lo stato, a cominciare dal territorio statale, era proprietà (o patrimonio) del re. I regni (territori e abitanti) potevano essere portati in dote nel matrimonio tra re e principi e gli stati si accrescevano o si riducevano attraverso la politica matrimoniale. L'unione dei vari domini era estrinseca, non basata su una identità nazionale, di lingua ecc. ma solo sulla persona del signore, che aveva ereditato i vari domini. Ancora l'impero absburgico, che riuniva sotto Carlo V e i suoi successori i vari possedimenti ricevuti dal monarca nella forma della successione ereditaria di diritto privato,presenta in questo chiari caratteri patrimoniali. Progressivamente, questi elementi scompaiono ad uno ad uno. In particolare, tende ad attuarsi una separazione sempre più netta tra i beni personali del sovrano (destinato al suo uso privato) e i beni dello stato (destinati a un uso pubblico). Con lo stato di polizia spariscono anche gli ultimi residui dello stato patrimoniale, che già era pressoché estinto con il trattato di Westfalia, che consacrò ufficialmente l'avvento dello stato moderno. Gli studiosi parlano di "stato feudale" o "stato medioevale" o di "monarchia medioevale"principalmente in riferimento ai grandi regni o ai grandi feudi del tardo medioevo (secoli XIII-XV).

Nel tardo medioevo era difficile distinguere i regni indipendenti dai grandi feudi. Persino i re di Francia si ritennero per lungo tempo feudatari dell'Imperatore. Talvolta il termine è usato per designare un qualsiasi feudo medioevale. In realtà, come fanno giustamente notare altri studiosi, riguardo la sua forma pura tardomedievale, ancora vicina all'istituto del feudo, non può parlarsi di vero "stato", perchè  in tale tipo di ordinamento mancano quelli che sono gli elementi costitutivi dello stato. In esso esistono sì un popolo e un territorio ma essi non rappresentano gli elementi costitutivi dell'ordinamento bensì solo i suoi presupposti materiali. Elemento fondamentale per l'identificazione del regno è unicamente il signore: sovente egli si sposta da un paese all'altro in cerca di nuovi domini, e gli elementi territoriali e personali del suo regno cambiano continuamente. Inoltre, e questo è il lato più importante, all'ordinamento a regime patrimoniale, manca il carattere della "politicità": tale ordinamento non cura né si prefigge il raggiungimento di interessi generali, ma solo cura la difesa di interessi di carattere patrimoniale e privatistico. Il sovrano rivendica come facenti parte del proprio patrimonio le terre assoggettate al suo potere e gli uomini che le coltivavano. La posizione di sovrano è considerata ancora come un "beneficium",fonte di entrate patrimoniali, disponibile da parte del titolare, che poteva alienare il suolo e la popolazione, con atto tra vivi o "mortis causa". Tutto questo non toglie che anche nel tardo medioevo non vi sia qualche esempio di stato in senso moderno, burocratico, accentrato, come il "Regnum Siciliae" riformato da Federico II nel XIII secolo. Ma si tratta di casi eccezionali. Lo "stato feudale" è caratterizzato dalla coesistenza nell'ambito di un più vasto territorio sottoposto al "dominio eminente" di un feudatario maggiore, di una molteplicità di "feudi" sotto la preminenza di signori forniti all'interno di poteri sovrani e legati, fra loro e con il maggiore, da patti o accordi analoghi a quelli degli odierni stati federali. Le monarchie medievali costituivano un amalgama instabile di sovrani feudali e di re per diritto divino: non è ancora chiaramente sviluppata l'idea di una sovranità moderna, svincolata dalla gerarchia di potere medioevale. Il ruolo del sovrano feudale alla testa della gerarchia dei vassalli e legato ad essi da patti personali di scambio fu, in ultima analisi, il fattore dominante di questo modello monarchico. Il dominio si inquadrava in uno schema di tipo privatistico-patrimoniale. In quanto teoricamente vassallo dell'imperatore, il re aveva un diritto reale sui propri domini. In quanto re indipendente aveva il dominio diretto, che era una proprietà della terra, mentre il suo vassallo aveva il dominio utile, che era un usufrutto della terra. Guardato nel suo ordinamento interno, ogni feudo era perciò caratterizzato dalla mancanza di una chiara distinzione fra situazioni di diritto privato e situazioni di diritto pubblico. Era il possesso privato della terra e delle persone (spesso servi della gleba) da parte del signore che determinava l'ambito del potere statale di tipo patrimoniale sicché le vicende delle popolazioni viventi sul territorio seguivano le sorti dei mutamenti subiti da quest'ultimo. Il signore feudale non era però un sovrano assoluto di tipo moderno: egli poteva assumere qualità di sovrano proprio perché inserito in un'organizzazione che comportava il rispetto di regole. Così pure inesatto è il ritenere che in questo stadio non esistessero diritti pubblici subiettivi dei cittadini, dovendosi invece ammettere necessariamente la pretesa di questi ad invocare un qualche intervento dell'autorità nella risoluzione delle controversie insorte fra loro (sia pure al solo fine di porre un minimo di ordine nelle forme di lotta fra privati, cui si affidava tale risoluzione, per es. il duello). Certo, i diritti dei singoli che non fossero nobili non trovano nello stato feudale forme di garanzia al di fuori del "potere di dispensa" che il sovrano concedeva caso per caso dall'applicazione della legge. Al principio dell'epoca feudale, il ruolo di feudatario impose limiti assai ristretti alla base economica della monarchie. Di fatto, il sovrano feudale dell'epoca era costretto a trarre i propri redditi in primo luogo dalle terre in suo diretto possesso come privato feudatario. I censi provenienti dalla riserva dovettero inizialmente essergli pagati in natura, quindi - in maniera crescente - in denaro. In aggiunta a questa entrata principale, egli godeva normalmente di taluni privilegi finanziari connessi alla sua sovranità territoriale: "incidenze" feudali soprattutto e "aiuti" speciali da parte dei vassalli, connessi alle investiture dei feudi; gabelle signorili risose lungo le strade o i mercati; tributi forniti dalla Chiesa in caso di necessità; proventi della giustizia regia sotto forma di ammende e confische. Era poi possibile ricorrere a prestiti da parte di mercanti e di banchieri. Ma proprio perché l'ordine politico ed economico era fuso in una catena di obblighi e doveri personali, non vi fu mai alcuna base legale per imposizioni economiche generali da parte del monarca, al difuori della gerarchia delle sovranità mediate. L'idea di una tassazione universale,così importante nell'impero romano, scomparve del tutto nel medioevo. Nessun sovrano feudale poteva fissare ad arbitrio le imposte: per aumentarle, ogni governante doveva ottenere il consenso di corpi riuniti a tale scopo.  Il continuo e incalzante bisogno di somme considerevoli al di là dei redditi tradizionali spinse quasi tutte le monarchie medievali a convocare di quando in quando gli stati del regno al fine di riscuotere le imposte. La convocazione degli stati divenne sempre più frequente e importante nell'Europa occidentale a partire dal XIII secolo, quando i compiti del governo feudale erano oramai divenuti più complessi e comportavano uno sforzo finanziario più impegnativo. In nessun luogo,tuttavia, gli stati ottennero di venir convocati regolarmente e in modo affatto indipendente dalla volontà del sovrano, e la loro periodicità variava quindi enormemente da un paese all'altro e all'interno dei singoli paesi. Tali forme di convocazione erano una conseguenza inevitabile della struttura feudale.

 

 

 

Le sorti dell'impero in età tardo-medioevale e moderna

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Dalla lotta per le investiture dell'XI secolo l'autorità dell'impero esce gravemente minata, di fronte ad un crescente prestigio della Chiesa, che appoggia non di rado le monarchie nazionali contro l'imperatore. Pur risolvendo il problema delle investiture il concordato di Worms aveva lasciato del tutto aperta la lotta per il primato nel mondo cristiano. Lo scontro tra guelfi e ghibellini proseguì fino alle soglie dell'età moderna. Nel XII secolo lo sviluppo dei comuni del centro e del nord e dei regni normanni al sud eclissarono il potere imperiale germanico in Italia. Enrico VI, successore del Barbarossa, riuscì per un breve lasso di tempo, a riunire sotto la sua corona i domini dell'Italia, che comprendevano i comuni (che avevano fatto formale atto di sottomissione al Barbarossa con la pace di Costanza) e il Regno di Sicilia, e della Germania, ma questa compagine si sfaldò rapidamente. Nel XIV secolo la decadenza dell'impero germanico appare irrimediabile. La Germania, comel'Italia, si avvia a divenire una realtà frammentata in principati. L'ultimo tentativo di far rivivere l'impero fu quello della monarchia absburgica. Carlo V, erede di estesissimi domini, potè  sembrare per un breve tempo agli uomini della sua epoca l'imperatore designato dalla provvidenza, ma ben presto il sogno imperiale si infranse contro le resistenze degli stati nazionali. Ferdinando II cercò di trasformare l'impero in una monarchia assoluta ma mancò l'obiettivo. Non solo le grandi monarchie si dimostrano meglio capaci, rispetto all'Impero, di accentrare il potere e di badare agli affari civili, ma riescono a stringere efficaci forme di accordo con la Chiesa, con cui l'Impero rimarrà invece irrimediabilmente in conflitto.

 

 

 

Lo stato assoluto

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Lo sviluppo del cannone in bronzo fece, per la prima volta nella storia, della polvere da sparo l'arma bellica vincente e rese anacronistici i castelli dei baroni. In tal modo la guerra e il potere non poterono che essere a dimensione statale, di monarca, e non più di signore locale. Le milizie dei comuni, che erano state un fattore decisivo di supremazia militare nel XIII e XIV secolo, sono ora facilmente sbaragliate dalle truppe professionali che i regni riescono a mettere in campo. Il sovrano creò una burocrazia per i tribunali e le gabelle. Non potendo sfruttare i vincoli vassallari per farsi fornire un adeguato supporto tributario, fu costretto a creare una sua struttura di esattori fiscali. Resosi conto che le corti di giustizia non solo fornivano denaro, ma servivano anche a limitare e disgregare il potere dei baroni, potenziò l'apparato di funzionari ad esse preposti. Le monarchie assolute introdussero gli eserciti permanenti, una burocrazia permanente, un sistema fiscale esteso a livello nazionale, la codificazione scritta del diritto e la legislazione uniforme e le prime basi di un mercato unitario. La formazione delle monarchie assolute fu resa possibile dalle strutture feudali preesistenti, che crearono una solida base e una legittimazione per il potere del grande feudatario prima e del sovrano nazionale poi. Paradossalmente, laddove le condizioni sociali erano più avanzate, come in Italia, dove si era avuto un grande sviluppo del capitale mercantile e del modello cittadino, il tentativo di unificazione nazionale, il cui più grande episodio si ebbe con la guerra di conquista peninsulare di Federico II, fallì. Laddove invece esso riesce a completarsi, la nobiltà viene gradualmente svuotata del suo potere e assorbita nell'apparato burocratico facente capo al sovrano, insieme a funzionari di estrazione borghese. I ceti perdono gradualmente di influenza e svanisce il loro ruolo politico. La teoria della sovranità come potere supremo che non conosce limiti nè  all'interno né all'esterno dello stato, viene giustificata, dai teorici dell'assolutismo, come espressione della volontàdivina, ma con una precisa funzione terrena: quella di garantire l'ordine, la sicurezaa, la pace. Lo stato assoluto si presenta così come la risposta ai disordini del periodo feudale e più tardi a quelli causati dalle guerre di religione. Si può definire assolutismo come quella forma di governo in cui il detentore del potere esercita quest'ultimo senza dipendenze o controlli da parte di altre istanze, superiori o inferiori. Il sovrano è l'immagine di Dio in terra, agente della sua provvidenza a cui è affidata la cura degli interessi generali dei suoi sudditi. Egli ha ereditato dalla dissoluzione dell'impero la pienezza dei poteri dell'imperatore sulla sua terra: "rex in regno suo est imperator". Non riconosce altri sopra di sé: "rex superiorem non recognoscens". A poco a poco la sua figura si spersonalizza in quella della "Corona", che viene trasmessa secondo precise regole dinastiche ed ereditarie,assicurando continuità e stabilità al potere e allo Stato che su esso si fonda. La legge del sovrano ha valore per tutti i sudditi (a differenza delle pretese del signore feudale, che vincolavano unicamente i vassalli a lui immediatamente inferiori): "quod principi placuit legis habet vigorem".

Il sovrano non è soggetto alla legge ("rex legibus solutus") da lui stesso creata, e col "potere di dispensa" può pure esentare un qualsiasi altro suddito, città, corporazione ecc. dalla sua osservanza. Il sovrano "assoluto" è però tutt'altra cosa dal sovrano dotato di autorità "senza limiti". In primo luogo il fatto che il sovrano sia "legibus solutus" indica autonomia da qualsiasi limite legale esterno, tranne che dalle norme poste dalle leggi naturali e divine (Bodin), oltreché, quasi sempre, dalle "leggi fondamentali del regno", e cioè  le consuetudini e in particolare le posizioni tradizionalmente acquisite dai ceti (almeno nella fase iniziale della monarchia), dalle promesse e dai patti che il re ha stretto con i sudditi e infine dalla ragion di stato. L'assolutismo non è quindi tirannide. In confronto al despotismo, l'assolutismo trova nella legge naturale e divina dei limiti, non trova in elementi magico-sacrali e religiosi la propria identificazione positiva, la propria legittimazione ultima. Si tratta allora di un regime politico costituzionale nel senso che il suo funzionamento è comunque sottoposto a limiti e regole prestabilite) non arbitrario (in quanto il volere del monarca non è illimitato) e soprattutto amatrice secolare, profana. Non si deve neanche pensare allo stato assoluto come a uno stato totalitario nel moderno senso della parola. Il totalitarismo consiste nella totale identificazione di ogni soggetto con l'intero corpo politico organizzato, ma ancor più con l'organizzazione stessa di quel corpo. E ciò può avvenire o attraverso la smisurata espansione del polo autoritario, che ingloba il singolo come meccanismo, o attraverso l'assolutizzazione della presenza individuale, in una continua e globale partecipazione dell'uomo alla politica. C'è l'assoluta politicizzazione della vita individuale. Oltre a non disporre dei mezzi tecnici per un capillare controllo della popolazione, non è neppure questo lo scopo che lo Stato assoluto si propone. Esso, piuttosto, rivendica a sé l'interezza del potere politico, ma non è interessato a ingerirsi, oltre una certa misura, negli affari privati dei cittadini.

 

 

 

Lo stato per ceti

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La prima forma di stato dell'epoca moderna fu quella detta dello "Stato per ceti", che costituisce la prima fase dello stato assoluto. Taluni studiosi propongono di identificare "stato assoluto" e "Stato per ceti", ma questo significa negare la significativa evoluzione tipica delle forme mature di assolutismo. "Ceto" o "Stato" è un termine che nell'Europa medievale e moderna definisce la condizione giuridica di un gruppo nella società; riconosciuta e fatta valere nei confronti sia degli altri ceti sia dell'autorità pubblica, essa attribuisce al ceto uno specifico ruolo politico, a differenza della "classe", che è una nozione esclusivamente sociologica. Il suo esempio più noto furono le corporazioni di mestiere o le arti che svolsero un importante ruolo nella vita politica dei comuni medioevali. Ma per "ceti" o "stati" si intendono più in genere tutti i corpi intermedi che si frapponevano tra lo stato e il cittadino: Nobiltà, Clero, Terzo Stato, città, corporazioni di arti e mestieri. I rapporti tra le autorità del centro e quelle della periferia si esprimono in assemblee rappresentative di ceto che assolvono alla funzione di esprimere il consenso dei contribuenti più autorevoli al gettito di un donativo da accordare al sovrano, con la possibilità, in cambio, di rendere pubbliche le osservazioni dei sudditi sull'andamento del governo. Si tratta di istituzioni molto diffuse, conosciute con nomi diversi (Commons, Etats, Cortes, Stande ecc.). Lo stato per ceti deriva dalla trasformazione di strutture medioevali. In esso il potere è diviso fra il Principe e i corpi intermedi. La definizione di "sudditi" era limitata: gli stati del regno rappresentavano tradizionalmente la nobiltà, il clero e gli elettori delle città e risultavano organizzati vuoi direttamente in un sistema basato su tre corti di giustizia, vuoi in una struttura bicamerale (nobili/non nobili) leggermente diversa: il Parlamento in Inghilterra, gli Stati Generali in Francia, i "Landtage" in Germania, le "Cortes" in Castiglia e Portogallo, il "Riksdag" in Svezia e così via. Nel medioevo il ruolo dei ceti era molto esteso: oltre il loro ruolo primario in quanto strumenti regolatori del gettito fiscale essi svolgevano un'altra funzione di capitale importanza:costituivano la rappresentanza collettiva di uno dei principi più profondi della gerarchia feudale all'interno della nobiltà, il dovere del vassallo di fornire al suo sovrano non solo l'"auxilium" (aiuto materiale) ma anche il "consilium": vale a dire il suo diritto di dare il proprio parere solenne negli affari di particolar peso e importanza riguardanti i due contraenti del patto feudale.

L'aiuto era subordinato al "consiglio" dei ceti medesimi e spesso da un controllo sulla gestione delle somme riscosse, che si tramutava sostanzialmente in una vera e propria amministrazione diretta da parte dei ceti della riscossione stessa. Con lo sviluppo degli stati la prerogativa di cui godevano i baroni venne gradualmente estesa alle nuove assemblee fino a formare una parte importante della tradizione politica della nobiltà nel suo complesso che, come è ovvio, dominava ovunque gli stati. I ceti ottenevano anche di esercitare i più alti uffici amministrativi che via via sorgevano ad accompagnare la crescita della dimensione statale. In Austria ai ceti era affidato il compito dell'arruolamento militare. Il massimo dello stato per ceti si ha nella prima metà del '500. Fino ad allora, il sovrano medioevale non aveva gran bisogno di convocazioni degli Stati Generali. Risparmiava sulle spese burocratiche utilizzando la burocrazia della Chiesa (i nobili erano analfabeti: in Spagna i contratti venivano da essi firmati con una croce accanto alla quale era la dicitura: "non sa scrivere, perché è nobile").  Successivamente si creò una burocrazia laica straordinariamente numerosa e gaudente, che perseguiva i propri interessi personali di casata e di classe, e anche le spese militari lievitarono. I nobili, che oramai disponevano della cultura necessaria, occuparono l'amministrazione e gli stati generali venivano convocati abbastanza frequentemente. Le truppe venivano guidate da nobili. I sovrani regnanti dovevano, in generale, riconoscere i loro nobili come forze indipendenti,cui accordare la considerazione propria del loro rango: nei rapporti col sovrano erano ancora visibili le tracce della simmetrica piramide medioevale. Fu soltanto nella seconda metà del Cinquecento che i primi teorici dell'assolutismo cominciarono a diffondere quelle concezioni del diritto divino che sollevavano il potere regio totalmente al disopra degli obblighi di fedeltà reciproca e limitata tipici del concetto medievale di sovranità.

Bodin fu il primo e il più rigoroso di essi. Nel corso del Seicento lo stato per ceti declinò. Gli ultimi stati generali in Francia prima della rivoluzione si tennero nel 1614; le ultime Cortes furono adunate in Castiglia nel 1669; l'ultimo Landtag bavarese ebbe luogo nel 1669 mentre in Inghilterra si verificò una interruzione dell'attività parlamentare dal 1629 alla guerra civile. Le enormi spese belliche resero insufficienti le entrate tributarie tradizionali; la pressione fiscale sulle masse aumentò; i Re ricorsero a prestiti o alla vendita di titoli e di benefici; questo causò l'ingresso della borghesia nell'amministrazione e nell'appalto delle imposte e dei prestiti, ed emarginò la nobiltà. Molti nobili maturarono un forte senso dello stato e rifiutarono di avere a che fare con le tradizionali clientele. La nobiltà, dopo numerose rivolte nobiliari locali nel 1600, nel 1700 fu riammessa alla gestione del potere come ministri del Re assoluto, fino alle rivoluzioni borghesi. Dal secolo XVI si assiste ad una specializzazione di funzioni: la politica al principe, le funzioni economiche ai corpi. Questi in cambio della sicurezza e dell’ordine interno ed esterno rinunciano alle proprie prerogative politiche e a condizionare l'opera del principe, che diviene così sovrano assoluto e sviluppa un'organizzazione burocratica per amministrare e governare il territorio direttamente dipendente da lui. In Inghilterra, i ceti sopravvissero fino alla rivoluzioni della fine del Seicento: diversamente dagli stati generali francesi il parlamento inglese non è mai stato dimesso, trasformandosi in strumenti di governo e di bilanciamento del potere sovrano. Si può dire che in Inghilterra non si sviluppò mai uno stato assoluto, e che le leggi e il potere venivano gestite dal Re e dai suoi baroni prima, e dal Re e dai rappresentanti della borghesia e della nobiltà poi.

 

 

 

Lo stato personale

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Si suole indicare lo stato personale come quello in cui la posizione e il ruolo del sovrano è sintetizzato dal celebre detto di Luigi XIV (Re Sole): "L'etat c'est moi" ("Lo stato sono io"). Lo stato personale corrisponde storicamente alla prima fase della creazione dello "spazio comune"statale, quando il ruolo del Re, rispetto agli organi elettivi, è determinante nel fissare le regole e le posizioni. Nello stato personale la persona del Re si considerava cosa pubblica. Ogni avvenimento che la riguardava, la nascita, la morte, il matrimonio, la procreazione ecc. era un avvenimento di stato e di identificava pienamente con lo stato. La volontà personale del Re era la volontà dello stato. Non è esatto però dire che nello stato personale non c'è una concezione della sovranità come un potere-dovere da esercitare per il bene della collettività (concezione pubblicistica del potere sovrano). In questa fase, è vero, mancano garanzie dei limiti posti al potere del Re. Ma il potere di dispensa, se non eliminato. è integrato o surrogato dal principio della "ragion di stato" cioè  da un'esigenza di pubblico interesse, assunta a giustificazione della sospensione o deroga disposta dal sovrano del vigore delle norme giuridiche. Mentre alla certezza del diritto si contribuisce anche con l'introduzione di distinzioni formali fra i vari atti generali emananti dal Re, secondo la diversa loro efficacia. La stessa frase "Lo stato sono io" è di interpretazione piuttosto complessa. Ne indichiamo qui di seguito i vari significati. 1) In un primo significato indica la concentrazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) nelle mani del sovrano e il fatto che di conseguenza qualsiasi autorità del regno deriva la sua posizione e legittimazione da quella originaria del sovrano. 2) La frase vuole anche dire, probabilmente, che c'è piena identificazione tra la volontà personale del sovrano con la volontà del potere che regge lo stato: ma non nel senso che il sovrano è libero di perseguire i suoi fini egoistici e personali in contrapposto al bene comune, bensì nel senso che la volontà illuminata del sovrano è in ogni momento conforme al bene comune. Come dice Jean Bodin, un giurista dell'epoca, il sovrano "è l'immagine di Dio in terra" e, a somiglianza del Papa, la sua volontà è ispirata da Dio e volta sempre al bene dello stato.  3) La frase vuole significare che oggetto del dominio è un'entità, come lo stato, distinta dal patrimonio di lui. 4) La frase vuol indicare il fatto che solo la volontà e le leggi di colui che è al di sopra delle parti, degli interessi egoistici e particolari dei sudditi può essere considerata l'autentica volontà dello Stato, cioè  dell'organismo creato per promuovere imparzialmente il bene comune. 5) La frase vuol anche dire che il Re è, come abbiano visto la "fountain of justice", il pilastro dello stato di diritto. 6) La frase potrebbe alludere anche al fatto che le varie parti del regno, anche se separate da consuetudini, dialetti, vicende diverse, erano però unificati e accomunati dal fatto di essere tutti patrimonio del Re, ereditati dinasticamente (allo stesso modo che Carlo V accomunava sotto il suo scettro domini in ogni parte del mondo). Si tratta di un residuo della concezione patrimoniale di stampo medievale. Ma si tratta anche del riconoscimento del fatto che l'insieme di feudi, ceti,città, corporazioni trovano la loro unità di stato nella sottomissione al potere sovrano del Re, che dai particolarismi locali eleva l'edificio dello Stato. 7) La frase potrebbe indicare il fatto che la sovranità e l'autorità statale promanano dalla figura del re investito per volontà divina.

 

 

 

Lo stato di polizia

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Lo stato di polizia si attua nel tardo settecento. Federico II di Prussia, Giuseppe II in Austria, Leopoldo in Toscana ricercano, nell'opera di governo, la pubblica felicità e il benessere dei sudditi: lo stato di polizia non si fonda più su una ragione di stato autosufficiente, ma sui fini di benessere collettivo che è dovere del sovrano perseguire e il sovrano di conseguenza non è titolare di una signoria assoluta sui beni e sulle persona,e ma è egli stesso funzionario dello stato, suddito primo dell'ordinamento di questo. Lo stato di polizia presenta quindi elementi di novità tanto rispetto ai residui feudali, quanto rispetto ai principi assolutisti: affranca la proprietà terriera da oneri e pesi di varia natura,semplificandone così il regime; vieta al sovrano la vendita dei beni patrimoniali dello stato; offre tutela giurisdizionale ai cittadini contro gli atti di gestione dello stato (distinti da quelli di imperio e comprensivi di tutte le violazioni di diritti patrimoniali), abilitandoli a rifarsi sul fisco; regola le attività economiche e industriali sulla base non solo delle proprie esigenze finanziarie, ma delle dottrine del mercantilismo e dei compiti che queste gli assegnano. Lo stato di polizia corrisponde al periodo dell'assolutismo illuminato. Nell'assolutismo illuminato si ammetteva che lo stato restasse certamente assoluto, purché fosse sottomesso alla ragione (la ragione illuminata) che deve governare tutto. Se lo stato è un agente della ragione,sarà legittimamente forte e autoritario: grazia al suo assolutismo, infatti, si faranno delle riforme concrete dettate dalla ragione, necessarie al progresso, conformi alla felicità terrena degli individui, capaci di modificare le circostanze socio-economiche. Con lo "Stato di Polizia" si pongono le basi per un intervento paternalistico che proseguirà nello "stato interventista" o "stato del benessere" del nostro tempo. Il carattere di tale intervento è di governare per gli interessi del popolo, ma senza la partecipazione del popolo: "tout pour le peuple, rien par le peuple". Si accentua il carattere pubblicistico del rapporto tra sovrano e stato (sicché anche il sovrano è sottoposto alla legge).

 

 

 

Lo stato inglese del 1500-1600

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L'Inghilterra non conobbe l'assolutismo. Il suo parlamento saltuariamente si riunì fino alla fine del Seicento, sebbene solo a partire da tale data, con le rivoluzioni borghesi, divenne un reale strumento rappresentativo e non un occasionale strumento di opposizione al sovrano. Durante l'epoca assolutistica delle altre monarchie il sovrano inglese non riuscì mai a superare il principio dello scambio di origine feudale nei confronti del Parlamento. Si può dire che il potere di fare le leggi fosse equamente diviso tra sovrano e parlamento, e che la amministrazione era fondata sull'apporto indispensabile dei nobili locali, cui il re si appoggiava pesantemente. In Inghilterra si ebbe da subito una larga osmosi tra nobiltà e ceti agricoli e ceti imprenditoriali (usciti spesso dalle medesime famiglie) che non creò la spaccatura tra ceti nobiliari e ceti borghesi e contadini che in Francia dette origine alla rivoluzione. Inoltre, le consuetudini erano molto più forti in Inghilterra che altrove, e limitarono fortemente il sovrano. In queste condizioni, il tentativo della dinastia Stuart, all'inizio del Seicento, di instaurare l'assolutismo, fallì rapidamente.

 

 

 

Lo stato moderno e contemporaneo in generale

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Lo stato moderno è un fenomeno nuovo, diverso da tutte le forme politiche precedenti. Caratteristiche dello stato moderno sono la costituzionalità, la giuridicità, la rappresentatività ed anche la democraticità. Per costituzionalità si intende una costituzione che stabilisca la separazione dei poteri e la garanzia dei diritti.

 

 

 

La rivoluzione francese. Lo stato liberale

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La rivoluzione francese introdurrà il principio di legalità (per cui ogni potere dello stato deve fondarsi sulla volontà del parlamento), la necessità di parlamenti elettivi come fondamento di legittimità di tutto lo stato; la divisione dei poteri; l'esercito permanente di leva;il principio di selezione della burocrazia professionale per concorso. Abolirà tutti i vincoli feudali sulla terra e le persone, rendendo ciascuno libero di svolgere una qualsiasi attività. Le novità dello stato liberale sono: a) il nuovo substrato sociale (la borghesia al posto della nobiltà); b) la nuova legittimazione del potere statale che diviene ora rappresentativo e, in funzione di ciò, di derivazione elettorale; c) il principio di libertà riferito non più a gruppi sociali ma a singoli liberi dallo stato e liberi dai ceti e dalle corporazioni; d) il ruolo neutrale dello Stato, arbitro dei conflitti di interessi che attraversano la società. La disciplina costituzionale dell'economia si riduceva ai principi assai semplici della massima garanzia per la proprietà e la libertà d'impresa, mentre il settore pubblico dell'economia era programmaticamente limitato a quanto appariva indispensabile per assicurare le generalissime finalità politiche di difesa e di ordine della collettività.

 

 

 

Lo stato sociale

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Il passaggio da un'azione amministrativa attuata tramite gli strumenti di diritto pubblico a un'azione amministrativa attuata tramite gli strumenti di diritto privato è da ricollegarsi al passaggio dalla concezione dello stato liberale a quella dello stato sociale, e con il conseguente accrescersi dei compiti che l'ordinamento attribuisce ai pubblici poteri.

Lo Stato sociale non si limita a garantire le libertà e ad assicurare il metodo democratico,dovendo invece operare incisivamente sui rapporti sociali, per garantire il raggiungimento di quelle finalità di promozione del progresso civile, di perequazione delle posizioni, di eguaglianza sostanziale, che si pongono come fini fondamentali dello Stato contemporaneo. Ha natura solidarista e interventista e propone una concezione profondamente diversa della libertà, della eguaglianza e della democrazia. La nostra Costituzione afferma il principio solidarista; l'eguaglianza non solo come garanzia di pari forza formale di fronte all'ordinamento giuridico, ma come compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini; si impegna ad interventi penetranti per assicurare la diffusione del benessere e la protezione delle categorie più deboli. Per questo tipo di Stato, compiutamente sviluppatosi nel secondo dopoguerra, si parla di "stato sociale", "stato democratico-sociale", "stato del benessere", "welfare state". Il termine "stato assistenziale" indica invece una degenerazione e una errata attuazione dei principi dello Stato sociale. I fini dello Stato vengono identificati non più solo nella garanzia delle condizioni per l'autonomo sviluppo della società, ma in un compito attivo di trasformazione dell'assetto economico-sociale (interventismo), sia pure rispettando alcuni limiti, sia di metodo (legalità) sia di contenuto (mantenimento del mercato e dell'attività economica privata). Sul piano dei rapporti autorità-libertà, il garantismo liberale è confermato e anzi perfezionato, anche in relazione alla crescente presenza dello Stato nella società. Lo Stato tuttavia non pretende più una posizione di neutralità formale nei conflitti di interessi che attraversano il corpo sociale, ma assume un suo attivo ruolo di composizione dei conflitti e volta a volta de rafforzamento o di limitazione delle diverse posizioni economiche e di potere in vista di (e in base a) obiettivi di giustizia. L'assunzione da parte dello Stato di nuovi compiti di intervento nella società conduce all'affermazione, accanto alle tradizionali libertà "negative" di nuovi "diritti sociali" (al lavoro, all'istruzione, alla sicurezza sociale), il cui contenuto non consiste più in una pretesa all'astensione da ingerenze dei pubblici poteri nella sfera dei singoli,bensì in una pretesa a positivi interventi, a prestazioni, da parte dei medesimi poteri pubblici. Le costituzioni democratico-sociali impegnano i poteri pubblici ad intervenire attivamente a modificare l'assetto sociale ed economico impiegando a tal fine non solo strumenti che si traducono in un ampliamento delle possibilità dei singoli (ad esempio organizzando un sistema di erogazioni economiche in vista di finalità di sicurezza sociale o la prestazione di servizi pubblici, come nel campo dell'istruzione o della sanità); ma anche, necessariamente, strumenti che si traducono in sacrifici di altre posizioni individuali: dalla forma classica del prelievo tributario, che seguendo l'espansione della spesa pubblica raggiunge dimensioni prima sconosciute, a forme di limitazione, di divieto, di vincolo, di regolazione di attività specie economiche. La diversa ripartizione del carico fiscale (di cui ad esempio è espressione il principio di progressività dei tributi, per cui il loro prelievo cresce più che proporzionalmente all’entità della ricchezza dei singoli) e degli oneri e dei vincoli imposti, da un lato, dai benefici erogati direttamente o indirettamente dallo Stato,dall'altro lato, realizzano una redistribuzione della ricchezza secondo un modello deliberatamente diverso da quello che risulterebbe dal gioco spontaneo delle forze economiche dei singoli e dei gruppi. Si comprende allora in questo quadro, perché le costituzioni democratico-sociali prevedano limitazioni anche incisive delle classiche libertà economiche. La proprietà e la libertà di impresa cessano di far parte del catalogo dei diritti "sacri e inviolabili" per venire limitate e variamente disciplinate a fini sociali. Nello Stato sociale la limitazione e la disciplina dell'attività economica privata divengono estremamente più articolate e complesse che nello Stato liberale; il settore pubblico dell'economia assume dimensioni assai più rilevanti, assorbendo una quota crescente, intorno alla metà, del complessivo reddito prodotto; lo Stato assume anche funzioni imprenditoriali, e diviene supremo regolatore dell'attività economica. Nelle società che formano il sostrato dello Stato sociale non solo esistono forti disomogeneità sociali e culturali, ma è ammessa e riconosciuta la possibilità che gruppi e forze sociali diversi per fini ed interessi partecipino alla vita delle istituzioni politiche e concorrano a determinare gli obiettivi dell'azione dei pubblici poteri. Ciò da un lato porta ad un riconoscimento delle varie forme di organizzazione sociale (fra cui sindacati e partiti) che esprimono i fini e gli interessi delle diverse articolazioni della collettività, superando così fra l'altro l'ispirazione individualistica delle costituzioni liberali, che si fondavano su un rapporto diretto e non mediato fra individui e Stato; dall'altro lato comporta nuovi problemi anche nell'organizzazione dei poteri pubblici, connessi fra l'altro all'esigenza di realizzare una effettiva rappresentanza nelle istituzioni, dell'articolazione del corpo sociale (integrando la forma semplice della rappresentanza nazionale nel Parlamento e all'altra esigenza di realizzare efficaci garanzie per i vari gruppi e specie per le minoranze (con conseguente limitazione del puro principio democratico maggioritario).

 

 

 

Lo stato socialista

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E' ispirato alla ideologia e filosofia marxista secondo l'interpretazione leninista e in generale datane dai governanti dell'URSS. Lo stato è una sovrastruttura creata per mantenere i rapporti economici esistenti. Lo stato capitalista è lo strumento di dominazione della classe borghese. Lo stato socialista è lo strumento creato per abbattere le strutture economiche, sociali (la divisione in classi) e giuridiche dello stato capitalista. Il passaggio dallo stato capitalista alla società socialista si realizzerà attraverso tre forme successive di stato: a) lo stato socialista (in cui i mezzi di produzione e di ricchezza sono di proprietà comune e c'è la dittatura del proletariato fino alla eliminazione della distinzione in classi della società); b) lo stato di tutto il popolo (quando sono ormai scomparse tutte le differenze di classe); c)la società comunista vera e propria (nella quale le strutture coercitive dello stato e del diritto dovrebbero essere eliminate, venendo a costituirsi in loro vece adeguati organismi di semplice autogoverno sociale). Il principio dello stato socialista è: "da ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro". Il principio della società comunista è "da ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni"

 

 

 

Altri tipi di stato

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Lo "Stato composto" è costituito dalla riunione stabile di più stato unitari, i quali tutti insieme formano una specie di "super-stato" che avrebbe come popolo e territorio i popoli ed i territori dei singoli stati che lo compongono, mentre avrebbe un proprio governo ed un proprio ordinamento distinti (almeno in parte) dai governi e dagli ordinamenti dei singoli stati ed anzi a questi, in certo senso, sopraordinati. Unico esempio moderno è lo stato federale (USA, URSS, Argentina, Brasile, Svizzera ecc.) essendo ormai scomparse le unioni di vassallaggio in cui uno degli stati membri (il cosiddetto "Stato suzerain") aveva una particolare posizione di supremazia sugli altri (per esempio la Turchia nel vecchio Impero Ottomano). Lo "stato regionale" non è uno stato federale, ma uno stato unitario particolarmente decentrato. La "confederazione" non è uno stato ma un organismo comune agli stati confederati, di natura internazionale, attraverso il quale questi agiscono per il perseguimento di finalità comuni. Gli stati federali, a differenza delle confederazioni, sono un'unione di natura costituzionale.

 

 

 

Differenze tra Stato assoluto, Stato liberale e Stato democratico-sociale contemporaneo. Completamento del processo di spersonalizzazione dell’autorità centrale.

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Nel passaggio dallo Stato assoluto allo Stato di polizia l'apparato di potere, già spersonalizzato ai gradi più bassi, si spersonalizzò anche al vertice: il Sovrano iniziò a definirsi "primo servitore dello Stato". Per un lungo periodo, però, la spersonalizzazione degli uffici non escludeva il potere personale del Re. La sua volontà era infatti abilitata a sovvertire le procedure ordinarie e sovrapporsi alle decisioni di qualsiasi ufficio. Quando era suo interesse fare un'eccezione nell'applicazione di una legge, a favore o contro questo o quel suo suddito, il Re poteva sovvertire l'ordinaria attività degli uffici. Coesistevano, insomma, aspetti diversi: lo Stato, spersonalizzato ai livelli inferiori, aveva al vertice il potere personale del Re. Solo tra il XVIII e il XIX secolo, questa posizione fu superata, Anche il Re divenne un funzionario statale, il cui primo e esclusivo dovere era di agire nell'interesse oggettivo dello Stato. Si teorizzò la ragion di Stato per esprimere questo interesse, superiore a quello di qualunque persona fisica, compresa la persona del Re. La sintesi di questa visione è nella celebre frase di Federico II di Prussia, che si definiva "il primo servitore dello Stato". Lo Stato poteva allora considerarsi un'organizzazione impersonale, che non coincideva più con nessuna persona fisica, nemmeno con quella del Re. Tutti coloro che agivano per lo Stato, dal più umile impiegato al Re, erano divenuti funzionari.

 

 

 

Evoluzione delle relazioni internazionali tra gli stati contemporanei

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Gli stati contemporanei, molto più che gli stati del secolo scorso, ammettono limitazioni della propria sovranità allo scopo di costituire organizzazioni sopranazionali dotate di poteri forti e rigettano la guerra come tipica espressione del non riconoscimento dell'indipendenza e dei diritti degli altri stati. Secondo l'art. 5 della Costituzione, "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente,in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". Questa apertura internazionale degli stati contemporanei è in parte anche dovuta alla cosiddetta "crisi degli stati nazionali", che si trovano a fronteggiare problemi risolvibili solo su scala più ampia, continentale o mondiale.

 

 

 

Concentrazione del potere politico nelle mani del Parlamento elettivo

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Sui molteplici limiti dell'assolutismo, vedi anche il quadro sull'assolutismo nell'ambito dell'evoluzione delle varie forme di stato. Lo Stato ottocentesco e contemporaneo, se da un lato può sembrare più decentrato di quelli che lo hanno preceduto, dall'altro però è caratterizzato da una maggiore forma di accentramento del potere politico. Nello stato assoluto, specie in quello per ceti, era presente tutta una serie di centri di potere limitantesi reciprocamente (Corona, Stati generali, Chiesa, Parlamenti delle singole città, Corporazioni), sia pure accentrati geograficamente (nella capitale) e sotto l'influenza predominante del Sovrano. Inoltre, il sovrano è moralmente obbligato a rispettare il diritto divino e il diritto naturale. Stati e principati, che pure operarono con costanza plurisecolare (dal quattordicesimo al diciottesimo secolo) per la centralizzazione, non smisero mai di trovarsi di fronte le vecchie corporazinoi feudali. Queste, trasformatesi in veri e propri ceti (i nobili, i mercanti, i banchieri) si dettero un'organizzazione politica attraverso le diete territoriali, difesero le rispettive giurisdizioni, giunsero ad infiltrare e spesso a conquistare l'apparato burocratico,costruito dai sovrani proprio per sbarazzarsi di loro, facendo valere il principio dell'"incolato",e cioè  il principio secondo cui i funzionari degli uffici decentrati dovevano essere del posto. Si aggiunga a questo che i sovrani, quando non avevano altro modo di procurarsi entrate, le ricavavano dalla vendita delle cariche pubbliche, sino a creare così nuovi strati di funzionari, o nobiliari o comunque di potentati locali. Nel corso dell'Ottocento si viene, al posto di tutto questo, ad affermare il Parlamento come centro unico di decisione politica e di creazione di norme giuridiche, che concentra nelle sue mani un potere di cui in passato nessun monarca aveva potuto disporre. L'esperienza di Robespierre e del giacobinismo mostra che il potere del popolo attraverso l'assemblea rappresentativa può essere altrettanto assoluto di quello di un monarca. Si usa parlare, in proposito, di "assolutismo democratico". La consapevolezza di tale potere è ben espressa nel tradizionale detto inglese: "Il Parlamento può fare qualunque cosa, tranne trasformare col suo decreto un uomo in donna".

 

 

 

Nel corso dell'800 si afferma l'idea moderna di nazione e di stato nazionale

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Lo Stato, nel corso dell'800 viene a combinarsi con la "nazione" dando vita a quella forma detta "stato nazionale". L'idea di Stato nazionale deriva dalla fusione dei concetti di Stato e nazione,che nel linguaggio corrente sono identificati, mentre nel linguaggio scientifico, ad es. della filosofia della politica, sono da tenere ben distinti.  L'idea di nazione nasce dalla fine del '700, a partire dalla Rivoluzione Francese, e prosegue nell'Ottocento, ad opera di filosofi come Herbert, Rousseau, Mazzini, Renan, come reazione al razionalismo e cosmopolitismo illuministici. Si basa sulla convinzione che esistano elementi comuni a un gruppo di persone, che identificano tale gruppo rendendolo diverso: lingua, religione, storia,usi, costumi, folclore, tradizione, cultura, territorio. Nel corso dell'Ottocento ci si spinge ad affermare che ogni nazione avrebbe un territorio elettivo naturale, dei confini naturali: le Alpi per l'Italia, il Reno tra Francia e Germania, i Pirenei tra Francia e Spagna, ecc. Si arriva alla fine ad affermare la comunità di sangue: ogni nazione sarebbe una comunità di sangue, con una precisa identità razziale, e quindi ogni comunità dovrebbe esere etnicamente pura e incontaminata. Da qui le aberrazioni razziste dell'Europa nella prima metà del nostro secolo.

 

 

 

Lo stato moderno e contemporaneo si differenziano dallo stato assoluto per il principio democratico

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Nello Stato moderno si afferma il principio della sovranità popolare in contrapposto a quella fondata sul diritto divino o sulla trasmissione dinastica. Prevalgono inoltre gli organi parlamentari ed elettivi. Negli stati moderni il principio democratico si sostituisce al principio assolutistico. Per "democrazia" si intende il "governo del popolo", la coincidenza tra governanti e governati. La parola "democrazia" ha una lunga storia, e risale ai pensatori della Grecia antica. Per Aristotele "democrazia" indicava il governo di tutto il popolo riunito in assemblea o mediante cariche assegnate "democraticamente" per sorteggio. Questo tipo di democrazia, detta "democrazia diretta", era ancora ritenuta dai pensatori liberali del Settecento e dell'Ottocento come la vera ed autentica democrazia (Rousseau considerava la democrazia rappresentativa inglese come una "schiavitù"). Ma contemporaneamente essi notavano che la lunga evoluzione storica dai comuni e dai parlamenti dei baroni agli stati nazionali aveva reso impossibile la democrazia diretta e necessario l'esercizio del potere popolare a mezzo di rappresentanti.  "Democrazia" non coincide con "rappresentanza". Agli inizi dello Stato moderno si ebbe "rappresentanza" senza "democrazia": il popolo attraverso i ceti, gli Stati generali ecc. "rappresentava" i suoi interessi "davanti" al Re, che era l'unico a detenere il potere di governo e non rispondeva ai sudditi, ma, a seconda dei casi e delle epoche, a Dio, alla Legge naturale, alla Nazione, al Potere Spirituale ecc. Ancora nella prima metà del nostro secolo un esponente dell'estrema destra come Charles Maurras (1868-1952) si scandalizzava che nell'era democratica "governo" e "rappresentanza" fossero confusi in un solo soggetto: il popolo. Si può anche avere "democrazia" senza "rappresentanza" (democrazia diretta). Il carattere degli stati moderni è proprio quello di unire il concetto di "democrazia" con quello di "rappresentanza" Negli stati moderni, a differenza che nelle epoche precedenti, troviamo poi un concetto di rappresentanza parzialmente diverso rispetto al passato. Nelle epoche precedenti, la rappresentanza non si collegava così strettamente alle "elezioni" da parte del popolo. Né era intesa come "rappresentanza politica", ma piuttosto come "rappresentanza di interessi". Inoltre la rappresentanza, che in passato era occasionale, diviene nello stato moderno stabile. In linea di principio, si può avere rappresentanza senza elezioni (da parte di un ambasciatore nominato dal Re, di Baroni riuniti in parlamento senza essere stati eletti dai vassalli, ecc.),elezioni senza rappresentanza (i cardinali eleggono il Papa, ma questi non è il rappresentante dei cardinali e comunque non risponde di fronte ad essi del suo operato), rappresentanza con elezioni.

Nel Seicento si poteva dire che il Re "rappresentava" gli interessi di tutti i sudditi; nello stato fascista si poteva dire che il "Duce" "rappresentava" gli interessi della nazione e godeva del consenso e dell'appoggio della collettività (concezione "sostanziale" della rappresentanza). Ma nello stato moderno le elezioni divengono uno strumento importante e insostituibile di controllo politico, accanto alla separazione dei poteri e al principio di legalità: si adotta una definizione "formale" o "funzionale" o "procedurale" della rappresentanza che la identifica con la esistenza di procedure elettive che consentono ai governati di designare i governanti: nessuna vera rappresentanza senza elezioni. La prassi politica e giuridica ha conosciuto diversi tipi di rappresentanza: la rappresentanza giuridica, nelle due forme della rappresentanza di volontà e della rappresentanza necessaria; la rappresentanza di interessi; la rappresentanza politica; la rappresentanza organica. La "rappresentanza organica" è il rapporto che lega l'organo alla persona cui esso appartiene. La "rappresentanza di volontà" o "mandato imperativo" o "rappresentanza-delega" è quella forma di rappresentanza giuridica di diritto privato che lega una persona capace di agire ad un mandatario che agisce in suo nome e per suo conto; il rappresentante è revocabile e normalmente riceve istruzioni su come comportarsi riguardo ai singoli affari che è incaricato di trattare, istruzioni da cui non può discostarsi; il rappresentante può in ogni momento sostituirsi a lui. Nella rappresentanza necessaria il rappresentato è incapace di agire e quindi il rappresentante non è scelto dal rappresentato.  Nella "rappresentanza di interessi" il rappresentante è collegato ad un particolare gruppo sociale (professionale ecc.) ed è incaricato della cura dei suoi interessi, che non sono interessi generali (e cioè  della nazione) ma interessi collettivi (cioè  comuni ed esclusivi dei membri del gruppo).

Normalmente non è vincolato da precise istruzioni: fin dal medioevo la dottrina della "plenitudo potestatis" dava ai baroni e agli ecclesiastici eletti nei parlamenti piena autonomia nel contrattare col Re le prestazioni monetarie o personali che questi richiedeva. Le corporazioni delle arti e dei mestieri e i Parlamenti medioevali o dello stato per ceti realizzavano una rappresentanza di interessi. Nella rappresentanza politica il rappresentante ha una autonomia simile a quella del rappresentante di interessi, con la differenza che deve curare interessi generali e non interessi collettivi del gruppo che lo ha scelto. Sia la rappresentanza politica che la rappresentanza di interessi, che costituiscono entrambe forme della cosiddetta "rappresentanza fiduciaria", riguardano non un singolo rappresentato, come è possibile nella rappresentanza giuridica, ma una intera collettività di rappresentati. Nello stato feudale e poi assoluto (stato per ceti) i nobili, laici ed ecclesiastici, e in seguito anche gli inviati delle città libere, diversamente vincolati secondo i luoghi e i tempi ai gruppi sociali da cui desumevano il mandato, tutelavano presso il sovrano gli interessi dei ceti sociali politicamente attivi, realizzando la rappresentanza di interessi o quella di volontà. La rivoluzione francese proibì ogni forma di organizzazione per ceti e pose il principio che i deputati non rappresentavano le province in cui erano eletti, bensì la nazione in generale. Questo principio, detto del "divieto di mandato imperativo", si trova in tutte le costituzioni successive fino alla nostra (art. 67: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato"). Il divieto di mandato imperativo non toglie che esista un collegamento tra le idee politiche dei rappresentanti e dei rappresentati, tanto che si parla anche di "rappresentanza di opinioni". Tale collegamento, però, dà luogo unicamente alla cosiddetta "responsabilità politica" che consiste nella possibilità di non essere rieletto alla scadenza del mandato. Si è parlato di procedure elettive tipiche della rappresentanza negli stati moderni. Più precisamente si parla di "rappresentanza competitiva" o di "democrazia competitiva" per indicare la possibilità di individui e di gruppi (specie nello stato contemporaneo pluralista) in concorrenza tra loro di lottare per la conquista del consenso popolare. La "rappresentanza competitiva" o "democrazia competitiva" prevede un insieme di condizioni entro cui esercitare i diritti politici:a) il massimo organo politico cui è assegnata la funzione legislativa, deve essere composto di membri eletti direttamente o indirettamente con elezioni di primo o di secondo grado, dal popolo; b)accanto al supremo organo legislativo debbono esservi altre istituzioni con dirigenti eletti, come gli enti dell'amministrazione locale o il capo dello stato; c) elettori debbono essere tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzioni di razza, religione sesso, censo ecc. d) tutti gli elettori debbono avere voto eguale; e) tutti gli elettori debbono essere liberi di votare secondo la propria opinione formatasi quanto è più possibile liberamente cioè  in una libera gara di gruppi politici che competono per formare la rappresentanza nazionale; f) debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di avere delle reali alternative (esclusione ad es. della lista unica); g) sia per le elezioni dei rappresentanti sia per le decisioni del supremo organo politico vale il principio della maggioranza numerica, anche se possono essere stabilite diverse forme di maggioranza secondo criteri di opportunità non definibili una volta per sempre; h) nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, in modo particolare il diritto di diventare, a parità di condizioni, maggioranza; i) l'organo di governo deve godere della fiducia del Parlamento oppure del Capo del potere esecutivo a sua volta eletto dal popolo. La democrazia competitiva non è l'unico tipo di democrazia basata sul potere del popolo. Essa si contrappone alla dittatura democratica che è il regime della democrazia senza limiti, ove il potere popolare può tutto, anche combattere ferocemente le minoranze. La dittatura democratica può dunque definirsi il regime dell'oppressione delle minoranze ad opera della maggioranza. Le dittature democratiche si basano su una concezione del popolo non pluralista ma monolitica: il popolo come insieme di individui con gli stessi interessi, la stessa cultura, le stesse idee politiche ecc.

Coloro che ne hanno di diversi sono fuori dal popolo, sono considerati dei traditori, e quindi possono (e devono) essere eliminati Pertanto, non ci può essere né pluralità di partiti, né libere elezioni tra candidati di orientamento diverso, né libertà di discussione politica. Il più noto esempio storico di dittatura democratica il regime giacobino in Francia, quando (1792-93) l'intero potere era esercitato da un gruppo di uomini (il comitato di salute pubblica presieduto da Robespierre) che combatteva, in nome del popolo e fino all'annientamento, coloro che dissentivano dalla rivoluzione. Non dissimili concezioni si trovano nei paesi dell'Est che si ispirano al marxismo-leninismo. Il popolo è la classe operaia, intesa come unità, e tutto ciò che si differenzia viene represso in nome della democrazia proletaria. Anche nelle "democrazie islamiche" si trova qualcosa del genere, dove l'unità del popolo è fondata sulla comune appartenenza alla medesima fede religiosa. Negli stati moderni abbiamo tre varianti della rappresentanza competitiva, a seconda che questa realizzi la sola rappresentanza della maggioranza (sistemi maggioritari), ovvero la rappresentanza relativa delle minoranze (sistemi a rappresentanza relativa delle minoranze) ; ovvero la rappresentanza assoluta delle minoranze (sistemi proiettivi o proporzionali). Il primo e il terzo sistema sono ispirati a concezioni diverse della rappresentanza politica: la rappresentanza di tipo "tutorio" o "psicologica" e la rappresentanza "descrittiva" o "sociologica" o "proiettiva". Nella rappresentanza di tipo tutorio la funzione degli elettori è quella di designare i migliori,lasciando poi ad essi la individuazione dei fini e dei mezzi dell'azione politica. Nella rappresentanza sociologica si tende a fare dell'organo elettivo una proiezione delle varie posizioni presenti nella società civile. E' indubbio che la nostra Costituzione volle una rappresentanza essenzialmente proiettiva. Nel linguaggio politico contemporaneo si parla di "democrazia sostanziale" (governo per il popolo) in contrapposto a "democrazia formale" (governo del popolo). Come una democrazia formale può favorire una minoranza ristretta di detentori del potere economico e quindi non essere un governo per il popolo pur essendo un governo del popolo, così una dittatura politica può favorire in periodi di trasformazione rivoluzionaria, quando non sussistono le condizioni per l'esercizio di una democrazia formale, la classe più numerosa dei cittadini, e quindi essere un governo per il popolo, pur non essendo un governo del popolo. La democrazia formale indica un certo insieme di mezzi, come le regole procedurali descritte indipendentemente dalla considerazione dei fini; la democrazia sostanziale indica un certo insieme di fin, qual è soprattutto il fine dell'eguaglianza non soltanto giuridica ma anche sociale se non economica, indipendentemente dalla considerazione dei mezzi adoperati per raggiungerli. Talvolta (ma non necessariamente) per ottenere democrazia sostanziale occorrerebbe sacrificare la democrazia formale. Tipico del principio democratico attuato negli stati moderni è, come si è detto, la separazione del popolo dal governo (democrazia rappresentativa): i governati sono considerati idonei a sceglierei governanti ma non a governare. Altro principio caratteristico della democrazia dello stato moderno è il fatto che essa si attua solo nei riguardi del potere legislativo: gli organi del potere esecutivo e del potere giudiziario e l'organo di controllo della costituzionalità delle leggi (Corte Costituzionale) non sono elettivi. Vi sono elementi che rendono la rappresentanza politica irrimediabilmente differente dal mandato:a) solo pochi cittadini trasformano i propri interessi in domande politiche; b) pochi hanno posizioni meditate, coerenti e ferme sulla maggioranza delle questioni politiche; c) pochi si tengono in contatto con i rappresentanti; d) solo pochi, votando, si rendono conto di esprimere domande o scelte riguardo corsi di azione politica; e) il rappresentante è vincolato alla volontà o all'interesse dell'elettore? [ad esempio: se l'elettore è un fumatore, il rappresentante dovrà votare contro il fumo (interesse dell'elettore) o a favore del fumo (volontà dell'elettore)?]; f) i rappresentati sono numerosi e possono non esprimere domande, volontà e interessi univoci; g) Se ci si vuole appellare alle maggioranze, queste sono mobili su singole questioni. Il rappresentante si rifarà alla maggioranza elettorale o alle maggioranze su singole questioni? h) il rappresentante si confronta con gruppi più che con individui i) il rappresentante ha a che fare più che con i rappresentati con gli altri rappresentanti che ne condizionano il comportamento, al di là delle spinte provenienti dai rappresentati (ad esempio ha a che fare con la disciplina di partito o gli interessi di partito); i) non si tratta di un solo affare, ma di una molteplicità di temi e di azioni nel corso degli anni; l) C'è una superiorità dello status del rappresentante rispetto al rappresentato, che rende difficile credere che sia questo a dare gli impulsi e le direttive al rappresentante.

 

 

 

Caratteristiche e sviluppi della democrazia nello stato contemporaneo: democrazia di partiti edemocrazia partecipativa

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Nello stato contemporaneo, compare la rappresentanza mediata dai partiti politici. Mentre nello stato ottocentesco i partiti erano unicamente del "clubs" di deputati, cosicché il rapporto politico era secondo lo schema elettori eletti partiti, nello stato contemporaneo il rapporto diviene elettori partiti eletti ed i partiti - ormai divenuti di massa - acquistano una importanza essenziale per la formazione dei programmi politici e per la mediazione politica. Una democrazia sarà tanto più pienamente attuata quanto più trasparente è la gestione del potere democratico (e la informazione su di esso); quanto più estesa è la base elettorale; quanto più numerosi sono gli organi rappresentativi a tutti i livelli (regionale, comunale, provinciale) e in tutte le sedi (organi elettivi nella scuola, negli ospedali ecc.). Le democrazie contemporanee si muovono lungo queste linee di sviluppo. In particolare, la nuova frontiera della democrazia contemporanea è costituita dalla creazione di organi elettivi all'interno di poteri e strutture che in precedenza erano rigidamente burocratici,composti da funzionari professionali e informati al rapporto di gerarchia.  Dopo il 1968 (periodo di accese contestazioni e di movimenti studenteschi e operai) c'è stata una tendenza ad ammettere la partecipazione dei cittadini alla gestione delle istituzioni. Gli organi collegiali nella scuola, le assemblee di quartiere ecc. sono esempi di questo tipo di democrazia che, pur senza essere democrazia diretta, avvicina ulteriormente i governanti e i governati. Per indicare questo sviluppo della democrazia, che comprende anche la possibilità che gruppi di pressione, sindacati, enti pubblici e privati facciano sentire la loro voce mediante colloqui col Governo, audizioni parlamentari ecc. si parla di "democrazia semidiretta o partecipativa".

 

 

 

Il principio di legalità dello stato moderno

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In base al principio di legalità l'apparato dello stato può esercitare solo quei poteri che trovano un loro fondamento nella legge del Parlamento, e cioè  nella espressione della volontà popolare volta a volta maggioritaria. In passato, nelle monarchie assolute, in forza del principio per cui il potere del re derivava da Dio (e quindi, comunque, non da altri uomini o corpi collettivi), i singoli poteri esercitati dal sovrano riposavano sulla libera determinazione dello stesso sovrano (almeno in linea di massima,poiché la realtà era più complessa). Successivamente, con le monarchie non più assolute ma costituzionali (e cioè  limitate dalla costituzione e quindi dal Parlamento rappresentativo), la legge del parlamento fu concepita come limite del potere sovrano, cosicché a parte alcune materie riservate alla legge e cioè  al Parlamento (in particolare i diritti di libertà e il diritto di proprietà) in ogni altro campo, se non esisteva la legge, il potere del Re (e del governo) poteva espandersi liberamente. Addirittura per certi periodi in certi paesi si sostenne che alcune materie erano riservate al sovrano, simmetricamente alla riserva del Parlamento, cosicché l'universo dei possibili interventi legislativi dello stato veniva diviso in tre settori: quello riservato al Parlamento, quello riservato al sovrano, e quello in cui prevaleva la legge sul sovrano (ma se non c'era la legge si manteneva il potere del Re). Oggi ha prevalso nettamente il principio già affermato con le rivoluzioni americana e francese, per cui ogni potere dello stato deve fondarsi sulla legge del Parlamento, e dove non c'è legge non c'è potere statale.

 

 

 

Il principio di costituzionalità degli stati contemporanei

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Negli stati contemporanei, al di sopra della legge ordinaria del Parlamento, esistono norme di rango costituzionale che non possono essere modificate se non con un procedimento "aggravato". Si parla di "costituzioni rigide" e di "principio di costituzionalità" per indicare questa ulteriore limitazione del potere del Parlamento. Speciali organi, come la Corte Costituzionale, sono destinati al controllo di legittimità delle leggi del Parlamento. Inoltre, non tutte le norme della costituzione possono essere modificate: esistono delle regole non modificabili neanche dal Parlamento, come quella sulla forma repubblicana, contenuta nell'art. 139 della nostra Costituzione ("la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale") o come quelle che definiscono "inviolabili" (cioè  non modificabili da nessuno) la libertà personale e quella di domicilio.

 

 

 

Limitazioni dei poteri dello Stato ottocentesco e novecentesco

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Rispetto allo stato assoluto, via via che il potere dello stato diveniva più accentrato e più incisivo, si sono affinati e moltiplicati i mezzi per limitarlo a favore della libertà degli individui. Sono tipiche forme di limitazione del potere dello stato ottocentesco: a) il principio di legalità; b) il riconoscimento di diritti inviolabili dell'uomo; c) il principio della separazione dei poteri; d) il principio "laico", che sottrae allo stato, per ridimensionarne il potere, le sfere della vita religiosa, della vita economica e della vita sociale in genere; e) il principio democratico che fa valere la sovranità popolare attraverso la rappresentanza politica Nello stato contemporaneo il processo di limitazione del potere dello Stato prosegue ulteriormente attraverso varii mezzi: a) Rigidità della costituzione; b) Giustizia costituzionale; c) Democrazia semidiretta o partecipativa; d) tribunali amministrativi, tributari e simili, che proteggano il cittadino nei confronti di soprusi dello stato.

 

 

 

La autorità statale moderna è una persona giuridica e non una persona fisica

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Nello Stato moderno, a differenza di quello assoluto, l'autorità è quasi dovunque una persona giuridica di cui le persone fisiche sono solo gli organi (lo Stato apparato si può anche definire Stato-persona).

 

 

 

Separazione definitiva e rigorosa tra Stato e Chiesa con lo stato moderno

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Con la pace di Westfalia del 1648 vennero riconosciute in Germania le confessioni protestanti accanto alla cattolica. Restava però in vigore il vecchio principio "cuius regio eius religio" che obbligava i sudditi a seguire la religione dei loro Principi; l'unico miglioramento riguardava la possibilità per il suddito dissidente per motivi religiosi, di emigrare senza subire la confisca dei beni. Il principio di tolleranza religiosa affermatosi nel corso dei Seicento e del Settecento costituì certamente un grande passo avanti, ma era appunto tolleranza e cioè  assenza di persecuzione violenta e sistematica, ma non eguaglianza tra i diversi culti: vi era un culto ufficiale e la tolleranza degli altri culti entro i limiti e le condizioni poste dallo Stato.  Successivamente si è affermato nella coscienza dominante di molti paesi il principio che la religione è un fatto essenzialmente privato, separato comunque dalla economia e dalla politica. In tutte le democrazie occidentali si è affermata la regola per cui tutte le confessioni religiose sono eguali rispetto alla libertà di professare apertamente la propria fede, di fare propaganda e di esercitare il culto in privato e in pubblico.

 

 

 

Nello stato moderno si accresce la separazione tra stato e società civile

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Col mercantilismo (XVII-XVIII secolo) vi era ancora commistione tra stato e società civile.

Creazioni tipiche del mercantilismo furono le compagnie coloniali, le manifatture regie, le corporazioni rette dallo stato, i dazi protezionistici. Il mercantilismo era una teoria dell'intervento dello stato nel meccanismo dell'economia, nell'interesse comune dalla prosperità di questa e della potenza di quello. L'assolutismo patrocinò le imprese coloniali e le compagnie di commercio, mediante spedizioni nel Mar bianco, alle Antille, in Louisiana e nella baia di Hudson. Vi erano poi minute leggi che regolavano il commercio dei cereali, allo scopo di evitare accaparramenti e carestie, ma che spesso raggiungevano l'effetto contrario. A partire dallo stato liberale ottocentesco di accentua la separazione fra Stato e società civile, tra potere politico da un lato e potere economico e culturale dall'altro. Lo Stato può intervenire in campo economico ma solo per correggere le imperfezioni del mercato o attraverso gli stessi strumenti che usano i privati (impresa pubblica, partecipazioni statali ecc).

 

 

 

Nello stato moderno si conquista la eguaglianza formale di fronte alla legge

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Nello stato ottocentesco esiste una perfetta uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini; nello Stato assoluto nobili, clero, terzo Stato avevano diritti e privilegi differenti; inoltre in molti stati era tollerata la schiavitù.

 

 

 

Nello stato moderno sono riconosciuti i diritti fondamentali dei cittadini

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A partire dalla fine del settecento, sulla scia del giusnaturalismo, vengono riconosciuti ai cittadini inviolabili diritti fondamentali.

 

 

 

Il "suddito" si trasforma in "cittadino"

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Dovunque, nell'Ancien Régime, il peso della fiscalità ricadeva sui poveri. Le classi superiori erano esenti. Non v'era alcuna idea di "cittadino" in termini giuridici, sottoposto al fisco proprio in quanto membro della nazione. Per lungo tempo i rappresentanti inviati agli stati generali, alle "cortes" ecc. sono quelli di classi esenti dai tributi. Non c'è correlazione tra il contributo materiale che il suddito dà allo Stato e la sua partecipazione politica. Con l'affermazione del principio democratico proprio dello Stato ottocentesco si parla di cittadini e non più di sudditi: il popolo è riconosciuto come detentore della sovranità e partecipa,sia pure indirettamente, al suo esercizio. Questo comporta per tutti, oltre che l'acquisto di diritti, anche quello di doveri, come quello di contribuire finanziariamente alle spese dello stato e di svolgere il servizio di leva: mentre gli eserciti dei secoli precedenti erano ancora largamente formati da mercenari (per oltre due terzi), gli eserciti nazionali dell'ottocento sono formati da cittadini.

 

 

 

Con lo stato moderno ottocentesco si affermano i principi lavorista e contrattualista

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A partire dall'ottocento si affermano i principi lavorista e contrattualista. Non esistono più vincoli perpetui, di carattere feudale, sulle persone e sulle cose: ciascuno si procura quanto glia bbisogna cedendo o sfruttando ciò che possiede (beni, lavoro) senza possibilità di profittare ingiustamente dei beni e del lavoro altrui, come i nobili dell'"Ancien Regime" (principio lavorista). Non esistono più posizioni fisse e definite, di carattere ereditario all'interno della società: ciascuno può determinare la propria posizione attraverso lo strumento del libero accordo.

Si esprime sovente tutto questo parlando di una evoluzione "dallo status (ruolo fisso ed ereditario)al contratto (ruolo liberamente determinato dall'individuo con la scelta della professione, dei rapporti associativi ecc.)" Il modello contrattualista serve anche ad interpretare gli obiettivi, la organizzazione e i limitidello Stato e dei suoi poteri: nelle opere di Hobbes (1588-1679), di Rousseau (1712-1778) e di Locke (1632-1704) lo Stato è visto come un patto tra soggetti liberi per sostituire un vantaggioso accordo reciproco allo Stato di natura. In base al modello contrattualista il popolo diviene il punto di riferimento dell'attività politica.

 

 

 

La tripartizione dei poteri dello stato ottocentesco

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Negli stati contemporanei si è venuta stabilendo una separazione (tripartizione) tra i massimi poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) che garantisce il loro reciproco controllo. Il pensiero liberale afferma la tripartizione dei poteri anche in un altro senso: secondo i liberali il potere politico deve essere separato (cioè  in mani diverse) dal potere economico e dal potere ideologico-culturale. La loro riunione nelle stesse mani minaccerebbe la stessa vita democratica dello Stato.

 

 

 

Gli stati moderni sono stati costituzionali

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Gli stati successivi alla rivoluzione francese posseggono un testo scritto che stabilisce in modo chiaro e dettagliato il modo di funzionamento dell'autorità, sancisce i diritti fondamentali del cittadino e stabilisce la separazione dei poteri.

 

 

 

Potenziamento della tutela giurisdizionale negli stati contemporanei

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Nello Stato contemporaneo è assicurata una efficace tutela giurisdizionale anche nei confronti degli atti dell'autorità e la piena indipendenza della magistratura. Stabilisce tra l'altro la Costituzione all'art. 111: "Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge".

 

 

 

Sviluppo dell'autonomia e del decentramento nello stato contemporaneo

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Nello Stato contemporaneo, in contrapposto all'accentramento ottocentesco, si è avuto uno sviluppo sia dell'autonomia sia del decentramento. Dice l'art. 5 della Costituzione: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua, nei servizi che dipendono dallo stato, il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento". Per il significato di tali termini,vedi quanto detto altrove in questa dispensa.

 

 

 

Il pluralismo dello stato contemporaneo

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Il pluralismo riconosce la esistenza e la legittimità di molteplici gruppi sociali e riconosce legittima la esistenza di tutte le diversità sociali. Non si esclude che lo stato possa limitare,anzi si esige che lo stato intervenga a limitare le diseguaglianze e a correggere le storture, ma con il limite che ogni intervento non deve distruggere il pluralismo, cioè  non deve eliminare nessuno dei gruppi che ne fanno parte. I diritti dei singoli si trasferiscono anche in capo ai gruppi. La concorrenza tra singoli,propria della società liberale, diventa ora anche concorrenza tra gruppi, I diversi gruppi organizzati entrano in concorrenza l'uno con l'altro, su ogni terreno, dando vita a forme moderne di corporativismo. Dice l'art. 2 della Costituzione che "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Di qui il nuovo ruolo dello Stato, la sua funzione attuale più rilevante: non più il garante esterno della ordinata lotta di concorrenza entro la società, ma il mediatore universale tra i diversi gruppi, il soggetto il cui scopo essenziale e principale è continuamente ricomporre gli interessi dei diversi gruppi sociali in modo da ottenere un generale accordo il più vasto possibile.

Tipica dello stato sociale è la rappresentanza degli interessi collettivi, che supera l'idea dello stato come escludente pressioni di interessi particolari. Nascono i sindacati e i partiti moderni,che non sono più club di deputati, ma gruppi collettivi che fanno valere la loro volontà nei confronti dello stato che diventa mediatore. Rientrano nel pluralismo la famiglia, la scuola, le associazioni, le chiese, i sindacati, i partiti, le regioni, ecc. Più sono i gruppi sociali, maggiore è la garanzia che nessuno di essi sopravanzi gli altri. Vi sono oggi due interpretazioni del pluralismo: pluralismo conflittuale e pluralismo organico. Il pluralismo conflittuale si basa sull'idea che i vari gruppi sociali sono in concorrenza tra di loro e che, purché vengano rispettate alcune regole del gioco, tale concorrenza è benefica (paesi anglosassoni e scandinavi). Il pluralismo organico è guidato dalla idea della necessaria cooperazione e collaborazione dei gruppi in nome del bene comune, piuttosto che sul conflitto e la competizione (Germania e Italia). Il pluralismo di cui si è parlato sinora, che valorizza le formazioni intermedie, è detto "pluralismo istituzionale".  Il pluralismo istituzionale si differenzia sia dal principio individualistico proprio dello Stato ottocentesco, sia dal pluralismo dello stato per ceti (su cui vedi altrove in queste dispense). Per l'individualismo liberale ottocentesco, non vi era e non vi poteva essere alcun diaframma tra l'individuo e lo Stato. Da qui lo sfavore e talvolta la persecuzione nei confronti delle formazioni sociali intermedie (in Veneto, nell'Ottocento, i prefetti giungevano a proibire le processioni religiose; a Torino gli oratori salesiani di Don Bosco non furono graditi alla prefettura; ovunque l'associazionismo operaio veniva represso; ecc.). Nello stato per ceti, invece, il pluralismo comportava una differenza di "status" tra persona e persona e un ostacolo al pieno affermarsi della sovranità statale e delle libertà economiche. Accanto al pluralismo istituzionale si parla anche di "pluralismo ideologico" che sostiene, in contrapposizione a totalitarismo (stato dittatoriale che dirige ogni aspetto della vita del singolo e nel quale la persona vive per lo stato e non lo stato è creato per il singolo) o a integralismo (propugnazione di un'unica vera religione che dà i precetti per ogni aspetto della vita individuale e collettiva, escludendo ogni altra religione o ideologia politica), l'affermazione dell'opportunità o della doverosità che le autorità consentano o favoriscano l'espressione e la divulgazione di unapluralità di opinioni, di credenza e di concezioni del mondo, anche se diverse tra loro e da quella professata dalla maggioranza dei cittadini o dalle autorità stesse. Esiste ovviamente anche il pluralismo religioso.

 

 

 

La affermazione dei diritti sociali e del "Welfare State"

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Negli stati contemporanei si afferma il principio della solidarietà, della uguaglianza sostanziale, delle garanzie materiali minime necessarie per sviluppare la propria personalità e competere alla pari con gli altri. Lo Stato si fa inoltre carico dei problemi della disoccupazione e dello sviluppo economico.

 

 

 

Lo stato monoclasse si trasforma in stato pluriclasse

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Lo Stato pluralista è anche pluriclasse: a partire dalla fine dell'Ottocento lo Stato, in precedenza a suffragio limitato e monoclasse (borghese), diviene uno Stato pluriclasse a suffragio universale. Conquistano l'accesso al Parlamento anche le classi proletarie, sino ad allora escluse dal gioco politico. Questo modifica il significato di molte istituzioni dello stato monoclasse ottocentesco: dal principio di legalità al principio di rappresentanza politica. Determina la nascita dei partiti di tipo contemporaneo e dà impulso alla nascita del "Welfare State".

 

 

 

Declino del diritto consuetudinario. Regolamentazione tramite norme giuridiche di ambiti prima riservati alla consuetudine o al costume

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Sparisce, negli stati dell'Europa continentale, il diritto consuetudinario e si afferma la norma scritta e il codice. La produzione di nuove leggi diventa un fenomeno normale e in continua intensificazione. Persino il principio della certezza del diritto ne risulta quasi attenuato: oggi,in alcune materie, non si ricerca più la certezza e l'irretroattività, quanto piuttosto la non-arbitrarietà. Questo ad esempio è vero in campo fiscale, dove le norme si avvicendano con una rapidità turbinosa. Nello Stato moderno si tende a regolare mediante il diritto aree che in passato erano state regolate da consuetudini sociali, da principi morali ecc. (ad es. il codice dei diritti dei minori ecc.) Mentre nelle forme di Stato del passato una vasta serie di rapporti veniva affidata alle regole sociali, di costume, familiari, morali ecc. col tempo lo Stato è intervenuto sempre più a fondo a regolare tali ambiti con regole giuridiche. Tipico esempio ne è la famiglia: fino ai nostri tempi rispettata come "società naturale" con la quale il legislatore badava a non interferire, oggi, con le leggi sull'adozione, sull'intervento del giudice in caso di disaccordo dei coniugi, sul divorzio e la separazione, sul codice dei diritti dei minori, le norme dello Stato sono penetrate estesamente anche in questo ambito.