L’IMPERO OTTOMANO, 1300-1650

 

 

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CRONOLOGIA: L’IMPERO OTTOMANO NEL 1650

CRONOLOGIA: PRIMA DEGLI OTTOMANI

CRONOLOGIA: L’EMIRATO OTTOMANO: DAL TRIONFO AL DISASTRO, 1300-1402

CRONOLOGIA: L’EMIRATO OTTOMANO: LA GUERRA CIVILE E LA RIPRESA, 1402-1451

CRONOLOGIA: L’IMPERO OTTOMANO: CONQUISTA E CONSOLIDAMENTO, 1451-1512

CRONOLOGIA: L’APOGEO DELL’IMPERO, 1512-1590

CRONOLOGIA: IL PERIODO DEI GUAI PER GLI OTTOMANI, 1590-1650

CRONOLOGIA: DALL’ASSEDIO DI VIENNA AI GIORNI NOSTRI, 1683-1922

LA DINASTIA: RIPRODUZIONE E STRUTTURA FAMILIARE

LA DINASTIA: SUCCESSIONE

LA DINASTIA: LEGITTIMAZIONE

IL RECLUTAMENTO

IL PALAZZO: PALAZZI

IL PALAZZO: LA CASA

IL PALAZZO: IL CONSIGLIO IMPERIALE

LE PROVINCE: PROVINCE

LE PROVINCE: I SANJAK

LE PROVINCE: I FEUDI

LE PROVINCE: LE PROVINCE TRASFORMATE

LA LEGGE: COMUNITA’ LEGALI

LA LEGGE: LA LEGGE RELIGIOSA

LA LEGGE: COLLEGI, MUFTI E GIUDICI

LA LEGGE: LA LEGGE SECOLARE

L’ESERCITO: IL QUATTORDICESIMO SECOLO

L’ESERCITO: DAL 1400 AL 1590: LE TRUPPE

L’ESERCITO: 1400-1590: LE ARMI

L’ESERCITO: LA TATTICA

L’ESERCITO: DOPO IL 1590: LA RIVOLUZIONE MILITARE

LA FLOTTA: GLI OTTOMANI E IL MARE

LA FLOTTA: NAVI

LA FLOTTA: LA COSTRUZIONE DELLE NAVI

LA FLOTTA: GLI AMMIRAGLI

LA FLOTTA: CAPITANI E CIURME

LA FLOTTA: LE TRUPPE

LA FLOTTA: TATTICHE

QUALCHE CONCLUSIONE

 

 

 

 

 

 

CRONOLOGIA: L’IMPERO OTTOMANO NEL 1650

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  Nel 1650, l’Impero Ottomano occupava terre in Europa, Asia e Africa. In Europa, il territorio ottomano comprendeva molta parte della penisola Balcanica a sud dei fiumi Danubio e Sava e le terre dell’Ungheria centrale a nord. I principati di Transilvania, Valacchia, Moldavia e la Crimea, che giacevano tra l’Ungheria e il Mar Nero erano tributari del Sultano ottomano. In Asia l’Impero si estendeva ad est dal Bosforo al confine montuoso con l’Iran e a sud fino alle sorgenti del Golfo, e allo Yemen nel sud-ovest della penisola araba. In Africa le terre dell’Impero comprendevano parte del litorale occidentale del Mar rosso, la ricca provincia egiziana e gli avamposti semi-autonomi di Tripoli, Tunisi e Algeri. Nel Mediterraneo, Cipro e molte delle isole dell’arcipelago dell’Egeo erano ottomane. Entro il 1669 lo divenne anche Creta.

  Gli europei nel diciassettesimo secolo, come fanno ancor oggi, normalmente si riferivano all’Impero come “l’Impero Turco”, e si riferivano al suo popolo – o almeno alla popolazione musulmana – come “Turchi”. Queste designazioni sono, comunque, solo parzialmente corrette. La popolazione dell’Impero era eterogenea quanto a religione, linguaggio e struttura sociale. Come fede del Sultano e dell’élite di governo l’Islam era la religione dominante, ma le Chiese ortodosse greca ed armena mantenevano un posto importante nella struttura politica dell’Impero, e provvedevano alla numerosa popolazione cristiana che, in molte aree, superava quella musulmana. C’era anche una consistente popolazione di ebrei Ottomani. A seguito dell’arrivo di ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492, Tessalonica era diventata la città con la più numerosa popolazione ebrea del mondo. Al di fuori di questi gruppi principali c’erano numerose comunità cristiane e non cristiane, come i Maroniti e i Drusi nel Libano. I gruppi linguistici erano vari e si sovrapponevano allo stesso modo delle comunità religiose. Nella penisola Balcanica popolazioni di lingua slavonica, greca e albanese erano indubbiamente la Maggioranza, ma accanto ad esse c’erano consistenti minoranze di turchi e i valacchi, dall’idioma neolatino. In Anatolia, il turco era il linguaggio della Maggioranza, ma c’era anche un’area di lingua armena e greca e, ad oriente e a sud, di lingua curda. In Siria, Iraq, Arabia, Egitto e Nordafrica la gran parte della popolazione parlava dialetti arabi con, al disopra di loro, una élite che parlava turco. Comunque in nessuna provincia dell’Impero c’era un unico linguaggio. La struttura sociale dell’Impero era anche variata. L’economia dell’Impero Ottomano era quasi totalmente agricola, e la gloria dei sultani, come gli scrittori politici enfatizzavano di frequente, si basava sul lavoro dei contadini. Comunque, il tipo di agricoltura e allevamento, così come la struttura sociale dei villaggi e delle famiglie contadine, variava con differenti tradizioni e con le differenze  del terreno e del clima. In contrasto con i contadini, una parte della popolazione dell’Impero  conduceva una vita semi-nomade, una esistenza pastorale, spesso in contrasto  con i popoli stanziali e con i governanti. Tra questi gruppi c’erano i Beduini nei margini deserti dell’Arabia, Siria ed Egitto, i valacchi della penisola Balcanica e le tribù di lingua turca dell’Anatolia, della Siria del nord e dell’Europa sud-orientale.

  Verso la metà del diciassettesimo secolo l’élite politica e militare tendeva ad essere costituita da persone di discendenza albanese o caucasica (tipicamente, georgiani, abkhazi o circassi). Le figure legali e religiose che componevano lo staff dei collegi, delle corti di giustizia e delle moschee erano più di frequente turchi, nei Balcani occidentali bosniaci o, nelle province che parlavano arabo, arabi. L’Impero Ottomano era, in breve, multinazionale. Certi gruppi certamente  godevano un vantaggio nella competizione per gli uffici politici, e le rivalità tra fazioni etniche era un importante elemento nella politica ottomana. In principio, tuttavia, esistevano discriminazioni solo sul piano religioso. Solo i musulmani potevano ottenere cariche politiche o fare carriera nella burocrazia , ma anche qui una discendenza musulmana non era necessaria. Molti, se non la maggior parte di coloro che detenevano cariche politiche erano musulmani di prima o seconda generazione convertiti dal cristianesimo. Erano gli uffici giudiziari che erano appannaggio delle vecchie famiglie musulmane. Un vitale organo del governo,comunque, rimaneva aperto ai non-musulmani. Molti di coloro che si imbarcavano nella impresa rischiosa ma potenzialmente lucrativa dell’esazione delle tasse erano cristiani o ebrei.

  L’Impero Ottomano non era, dunque, esclusivamente islamico; né era esclusivamente turco. Piuttosto, era un Impero dinastico nel quale l’unica lealtà richiesta ai suoi molteplici abitanti era la fedeltà di suddito al Sultano. La lealtà richiesta a coloro che non avevano incarichi consisteva solo nel non ribellarsi e nel pagare le tasse, in denaro, in natura o sotto forma di servizi. Anche queste erano spesso negoziabili. Alla fin fine, era la persona del Sultano e non le identità religiose, etniche o di altro genere che tenevano insieme l’Impero.

  Nondimeno, non è del tutto errato riferirsi ai “ben protetti regni” (designazione tradizionale musulmana) del Sultano come all’”Impero turco”. Nel Seicento i circoli colti di Istanbul non si sarebbero identificati come turchi e spesso, in frasi come “Turchi di malaffare ” o “Turchi insensati” usavano la parola come insulto. Nondimeno, la lingua turca, in una forma rifinita e perfezionata era il linguaggio del governo e la lingua franca dell’élite. Un Visir poteva, per origini, essere albanese, Croato o Abkhazi, ma per quanto riguardava le occasioni ufficiali e in campo letterario usava il turco e non la sua lingua nativa. Come linguaggio del potere il turco aveva prestigio in tutto l’Impero. Inoltre, a dispetto della terminologia spregiativa che abbiamo visto, l’élite ottomana sembra abbia sempre considerato i turchi musulmani come i sudditi più fedeli e affidabili. L’insediamento di colonie turche nei Balcani aveva accompagnato la conquista ottomana nel quattordicesimo e quindicesimo secolo; e gli anni successivi alla conquista di Cipro nel 1573 avevano visto la deportazione forzata di turchi dall’Anatolia. I deportati non erano popolazioni tranquille nelle zone di origine, ma l’intenzione era di farne un nucleo di leali sudditi Ottomani. I sultani deportarono anche gruppi non turchi, come gli ebrei portati a Cipro dopo il 1573, per stimolare la vita commerciale dell’isola. Anche gli ebrei avevano una reputazione di sudditi fedeli.

  La ragione per il predominio della religione turca e la posizione importante anche se non privilegiata dei turchi risiede nelle origini dell’Impero e nella storia dell’Anatolia nei due secoli e mezzo che precedettero la fondazione di tale Impero.

 

 

 

CRONOLOGIA: PRIMA DEGLI OTTOMANI

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   La dinastia più importante e duratura nell’Anatolia pre-ottomana era stata quella dei Selgiuchidi di Rum, che avevano governato nell’Anatolia centrale per gran parte del dodicesimo e tredicesimo secolo. La dinastia si era estinta poco dopo il 1300.

   Le origini dell’Impero Ottomano risalgono a uno dei piccoli emirati formatisi nell’Anatolia occidentale durante la decadenza del sultanato selgiuchide di Rūm. Eponimo e fondatore dello stato e della dinastia ottomana è un Othman morto nel 1326; ma già suo padre Ertoghrul aveva cominciato a estendere in Bitinia il primitivo feudo presso Angora ricevuto dai Selgiuchidi.

  l’Impero Ottomano sorse intorno al 1300 nel nord-ovest dell’Anatolia, ad est della capitale bizantina, Costantinopoli. Era solo uno dei numerosi piccoli principati che erano emersi in Anatolia nelle ultime due decadi del tredicesimo secolo su un territorio che aveva in precedenza fatto parte dell’Impero bizantino. I signori di questi territori e i loro seguaci erano turchi musulmani, e la loro presenza in Anatolia indica non solo un cambio nella sovranità, ma anche un cambio nell’etnia e nella religione. Da Greca e cristiana quale era nell’undicesimo secolo, intorno al 1300 l’Anatolia era diventata principalmente turca e musulmana.

  Le origini di questo cambiamento risiedono nell’undicesimo secolo.  A metà del secolo una confederazione di tribù turche dalla Transoxiana conquistarono l’Iran, e nel 1055, occuparono Baghdad, stabilendola come la capitale della grande dinastia Selgiuchide. La conseguenza di questi eventi non fu semplicemente l’insediamento di un nuovo reggente a Baghdad, ma anche, con l’arrivo di turchi dall’Asia centrale, l’alterazione dell’equilibrio etnico del medio oriente. Molti di questi sopravvenuti turchi avrebbero colonizzato l’Anatolia.

  Una data conveniente per marcare l’inizio di questo fenomeno è il 1071. In quest’anno il grande Sultano selgiuchide sconfisse i bizantini a Manzikert nell’Anatolia orientale. Alla battaglia seguì il rapido collasso del dominio bizantino nell’Anatolia orientale e centrale e lo stabilirsi nei decenni successivi del governo di un ramo della dinastia Selgiuchide. L’area sotto la sovranità bizantina si ridusse al territorio nell’Anatolia occidentale, tra il mare Egeo e l’altopiano centrale. Il collasso  delle difese bizantine e la comparsa di una dinastia musulmana indubbiamente incoraggiarono l’immigrazione di turchi, come pure la geografia. Sembra che i turchi che avevano migrato dalla Transoxiana in Medio Oriente erano, principalmente, pastori seminomadi, e l’Anatolia era adatta al loro stile di vita. Le zone costiere del Mediterraneo e le pianure del nord della Siria fornivano un inverno dal clima mite, mentre in estate essi e le loro greggi avrebbero seguito il ritirarsi della neve fino ai pascoli alti dei monti Tauri e dell’altopiano anatolico. Furono forse più questi fattori che il collasso del dominio bizantino che incoraggiarono i primi immigrati turchi a penetrare in Anatolia. Molti, presumibilmente, abbandonarono la pastorizia e si insediarono in villaggi.

  I turchi indubbiamente erano un elemento importante dei regni dei Selgiuchidi di Anatolia. Essi comunque non facevano parte della classe dirigente. Il linguaggio del governo nel dodicesimo e tredicesimo secolo era il persiano, e c’era una netta divisione tra l’élite delle città che parlava persiano e i turchi nelle zone rurali. Sarebbero stati gli eventi del tredicesimo secolo che avrebbero elevato lo status politico delle popolazioni di lingua turca dell’Anatolia. Gli stessi eventi dovevano provocare anche la frammentazione politica dell’Anatolia e della penisola Balcanica che avrebbe reso possibile l’insediamento del principato che sarebbe poi diventato l’Impero Ottomano, oltre che favorirne la rapida espansione.

  La prima di queste crisi interessò la penisola Balcanica piuttosto che l’Anatolia. Nel 1204, l’esercito cristiano della quarta crociata conquistò Costantinopoli e stabilì nella città un imperatore latino. Con la capitale in loro possesso i leaders della crociata si divisero il territorio bizantino nella Grecia e l’arcipelago dell’Egeo, costringendo il governo bizantino all’esilio a Nikaia (Iznik) e confinando il territorio da esso governato all’Anatolia occidentale. Durante il corso del secolo, gli imperatori bizantini riconquistarono  alcune terre nella Grecia continentale e nel Peloponneso, ma l’area rimase comunque un mosaico di piccoli principati. Il più durevole beneficio della crociata andò a Venezia, che acquistò fortezze nel Peloponneso e nell’Egeo, la più importante delle quali era Negroponte (Evvoia) sulla costa orientale della Grecia continentale. Al tempo della invasione ottomana della penisola Balcanica nel quattordicesimo e quindicesimo secolo, i territori a nord erano diventati ugualmente frammentati. Per un po’ durante il quattordicesimo secolo essi trovarono unità politica sotto lo zar serbo Stefano Dusan (morto nel 1355), le cui terre comprendevano la Serbia oltre che gran parte della Macedonia, della Tessaglia, dell’Epiro e dell’Albania. Alla sua morte, comunque, i suoi successori divisero il territorio in piccoli principati. La stessa cosa avvenne in Bulgaria. Alla morte dello zar Alessandro nel 1371, le sue terre tra il Danubio e i monti Balcani furono divise tra tre principati distinti. Questa frammentazione della penisola Balcanica, che iniziò con la quarta crociata, era un fattore che sfruttarono più tardi i conquistatori Ottomani

  La quarta crociata, comunque, non sconvolse gli equilibri in Anatolia. L’imperatore bizantino mantenne il controllo della Anatolia occidentale e rimase in pace con il Sultano Selgiuchide ad oriente. Verso la metà del tredicesimo secolo, comunque, il sultanato selgiuchide subì una catastrofe. Nel 1243 un esercito mongolo – parte di una forza di invasione che entro il 1258 aveva conquistato Iran, Anatolia ed Iraq – sconfisse un esercito selgiuchide a Kösedağ e ridusse il Sultano alla condizione di vassallo. Da questo momento il suo signore era l’Ilkhan, il sovrano mongolo dell’Iran.

  La conquista mongola in quanto tale non intaccò il dominio bizantino nell’Anatolia occidentale. Fu, comunque, un fattore del collasso del dominio bizantino in quest’area. I mongoli erano un popolo di pastori, e necessitavano i pascoli dei territori selgiuchidi di nuova conquista, non solo per le loro greggi, ma specialmente per i cavalli che erano essenziali per il loro successo militare. Sembra verosimile, pertanto, che la competizione con i mongoli costrinse  molti pastori turchi a cercare nuovi territori ad occidente. Essi trovarono questi territori nella Anatolia bizantina, dove le valli dei fiumi conducevano giù dall’elevato altopiano al clima più dolce delle sponde dell’Egeo, una caratteristica che era adatta alle loro migrazioni estive e invernali. La migrazione turca verso occidente divenne più facile dopo il 1261.

  In questo anno, l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo riconquistò Costantinopoli. Era una vittoria, come poi si vide con infelici conseguenze. Una volta stabilito in Costantinopoli, l’imperatore usò le sue risorse contro i nemici ad occidente, ignorando l’apparentemente sicura frontiera dell’est. Nel momento in cui le fortezze bizantine e l’organizzazione militare caddero in abbandono, l’invasione dall’est divenne più facile e si verificò una migrazione turca, attraverso le difese crollate, in direzione del mare. Nell’ultima decade del tredicesimo secolo, l’Anatolia occidentale sperimentò  la stessa trasformazione nella sua composizione etnica che aveva sperimentato l’Anatolia centrale e orientale  nell’ultima decade dell’undicesimo secolo. Come nell’undicesimo secolo, questo cambio dell’etnia da principalmente greca a principalmente turca ebbe importanti conseguenze politiche

  Queste conseguenze politiche rifletterono in gran parte i cambiamenti politici in quello che una volta era il regno selgiuchide. Dopo il 1243, i sultani selgiuchidi persero il loro potere a favore dei governanti mongoli, e il loro territorio divenne un avamposto occidentale degli Ilkhan dell’Iran. Nel 1302, l’ultimo Sultano selgiuchide morì. La sua morte coincise con un periodo di indebolimento del controllo ilkhanide sull’Anatolia, e rese possibile per governatori locali, signori e banditi di stabilirsi come signori indipendenti. Così, all’inizio del quattordicesimo secolo,  ciò che era stata l’Anatolia selgiuchide e ilkhanide si frammentò in un caleidoscopio di principati. Il più grande, duraturo, e il più temuto come rivale dagli Ottomani era l’emirato di Karaman, nella Anatolia centro-meridionale, con la vecchia città di Konya, ex capitale dei Selgiuchidi, come città principale.

  Lo stesso fenomeno si produsse negli ex territori bizantini dell’Anatolia occidentale. Il dominio bizantino non sopravvisse all’immigrazione turca della fine del tredicesimo secolo e per il 1300 il dominio turco aveva rimpiazzato quello greco, con una serie diprincipati turchi stabilitisi sull’ex territorio dell’imperatore bizantino. Sulla costa meridionale, intorno ad Antalya, si stendeva il principato di Teke, A nord di Teke e verso l’interno c’erano i territori del principato di Hamid, intorno ad Isparta e il principato di Germiyan, con la sua capitale a Kütahya. All’estremità meridionale della costa egea si stendeva il principato di Menteshe. A nord di Menteshe c’erano Aydin e Saruhan, con Tire e Manisa come rispettive capitali. A nord di Saruhan, con la zona costiera in parte lungo i Dardanelli, c’era l’emirato di Karesi. A nord-ovest di Karesi, nella ex provincia bizantina di Bitinia, c’era l’emirato di Osman, il fondatore della dinastia ottomana. I suoi territori dovevano formare il nucleo dell’Impero Ottomano.

  Una caratteristica particolare distingueva i principati che erano emersi nei territori ex bizantini e selgiuchidi dalle entità politiche che avevano rimpiazzato. Ora i governanti e i loro seguaci, e non semplicemente i sudditi, erano turchi. Erano anche musulmani. Le moschee che costruirono durante il corso del quattordicesimo secolo testimoniano della loro fede, mentre i titoli altisonanti che adottarono nelle iscrizioni delle moschee mostrano il loro desiderio di emulare i sultani selgiuchidi e i governanti dell’antico mondo islamico. Nondimeno, i frammenti in lingua turca  che sopravvivono dall’Anatolia del quattordicesimo secolo suggeriscono che questi nuovi signori turchi erano “gente rozza e illetterata”, largamente ignorante dei principi della fede islamica di facciata che professavano.

  Questo era il mondo nel quale emerse il futuro Impero Ottomano: fortemente turco e di incerta fede islamica. Come l’Impero si espanse divenne sempre più multinazionale, sia nella popolazione dei sudditi che nel corpo politico. Allo stesso tempo, la fede islamica dei governanti, che si espresse attraverso l’adozione della legge islamica e l’imposizione del rituale formale islamico, divenne sempre più ortodossa. Nondimeno, l’uso del turco come linguaggio del governo e l’elemento turco della popolazione – entrambi riflessi delle origini dell’Impero – davano allo stato un carattere turco.

 

 

 

CRONOLOGIA: L’EMIRATO OTTOMANO: DAL TRIONFO AL DISASTRO, 1300-1402

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  La tradizione ottomana menziona Osman figlio di Ertughrul come il fondatore dell’Impero Ottomano, e riferisce di come egli si dichiarò sovrano indipendente a Karajahisar, un luogo che probabilmente corrisponde alla città bizantina di Malagina, nella bassa valle del fiume Sakarya. Questo è quanto nella narrazione tradizionale appare storicamente vero. Come Osman e i suoi seguaci arrivarono a stabilirsi in quest’area è materia di speculazioni, dal momento che i tardi resoconti Ottomani sono certamente mitici. E’ possibile  comunque che un disastro naturale fornì la prima spinta. A dispetto delle sue preoccupazioni riguardo il fronte occidentale, l’imperatore bizantino Michele VIII riorganizzò la sua frontiera e verso l 1280 aveva completato una serie  di fortificazioni lungo la riva del fiume. Ma, nella primavera del 1302 il Sakarya andò in piena e, come risultato delle inondazioni, cambiò il suo corso, rendendo inutili le nuove difese. E’ probabilmente questo evento che consentì agli uomini di Osman di attraversare il fiume e di insediarsi nella provincia bizantina di Bitinia.

  In pochissimo tempo, i razziatori turchi avevano raggiungo il mar di Marmara. Il cronista contemporaneo Pachymeres descrive come la notizia delle vittorie di Osman di diffuse e attrasse i turchi dalle altre aree dell’Anatolia occidentale sotto la sua bandiera e come la sua forza divenne forte a sufficienza per sconfiggere un esercito bizantino vicino a Nicomedia (Izmit), lasciando la Bitinia indifesa di fronte ai suoi raid. Dalla loro base nella valle del Sakarya, dove Osman aveva occupato le vecchie postazioni fortificate bizantine, i suoi uomini razziavano le campagne ad ovest, costringendo gli abitanti a rifugiarsi nelle città fortificate. Queste rimanevano sicure, dal momento che Osman ovviamente mancava delle capacità militari  per stringere un vero e proprio assedio: il suo assalto a Nikaia fallì. Al tempo della sua morte a metà degli anni ’20 del 1300, Nikaia, Prousas (Bursa), Nicomedia (Izmit) e Pegai non erano ancora cadute.

  Fu Osman a fondare l’Impero Ottomano e a dare il suo nome alla dinastia degli Ottomani – o Osmanli, ma fu sotto il suo figlio Orhan (1324?-1362) che il piccolo principato cominciò ad acquistare una fisionomia più stabile. Il territorio di Osman non comprendeva grandi città. Nel 1326, però, la città di Bursa cedette per fame e divenne, da quella data, la prima capitale degli Ottomani. L’anno successivo, a seguito di un terremoto che danneggiò le sue fortificazioni, gli uomini di Orhan occuparono la città bizantina di Lopadion (Ulubat), in direzione dei Dardanelli. Questi disastri persuasero l’imperatore Andronico III a guidare un esercito in Bitinia nel 1328, ma fu costretto a tornare indietro quando Orhan intercettò la sua avanzata a Pelekanon, a due giorni di marcia da Costantinopoli, impedendogli di proseguire. Con il percorso via terra tra la città e la Bitinia ora impraticabile, la caduta delle rimanenti città bizantine fu inevitabile. Nikaia fu la prima a cadere, nel 1331. Nicomedia seguì la stessa sorte nel  1337, riducendo il territorio bizantino in Asia a poche miglia ad est di Costantinopoli. L’espansione ottomana non fu solo a spese di Bisanzio. Nel 1345-46 Orhan si annetté l’emirato turco di Karesi, il cui territorio  lungo i Dardanelli forniva un punto di attraversamenti dall’Asia in Europa. Meno di dieci anni dopo, nel 1354, il figlio di Orhan, Süleyman Pasha occupò Ankara ad est del territorio di suo padre ma tale è l’oscurità del periodo che non è chiaro a chi strappò la città.

  Fu ancora Orhan che per primo stabilì una testa di ponte in Europa. Lo fece sfruttando una guerra civile a Bisanzio tra gli imperatori rivali Giovanni (VI) Cantacuzeno e Giovanni (V) Paleologo. Cantacuzeno cercò alleati tra i signori turchi dell’Anatolia occidentale e, nel 1346, strinse un patto con Orhan, dandogli in sposa sua figlia Teodora. La strategia ebbe successo e, nel 1347, Cantacuzeno entrò in Costantinopoli e si proclamò imperatore, con Giovanni V come co-reggente. Ma fu Orhan che guadagnò di più da questa situazione. Nel 1352, nel momento in cui la guerra infuriò di nuovo tra Giovanni V e il figlio di Cantacuzeno, Matteo, il padre chiese aiuto ad Orhan, garantendo alle sue truppe, guidate da Süleyman Pasha, una fortezza nella penisola di Gallipoli. Questo fu il primo territorio che gli Ottomani occuparono in Europa. Ulteriori conquiste scaturirono da un disastro naturale. Nel Marzo 1354, un terremoto distrusse le mura di Gallipoli e di altre città lungo i Dardanelli, che furono subito occupate da Süleyman, portando con sé coloni turchi dall’Anatolia.

  Nel 1354, Cantacuzeno abdicò, lasciando Giovanni V come solo imperatore.  Orhan non aveva legami familiari con Giovanni V, a dispetto della volontà dell’imperatore di formare un’alleanza matrimoniale, e così non era obbligato a restituire i possedimenti europei. Al contrario, continuò per un certo tempo a sostenere le pretese di Matteo Cantacuzeno al trono bizantino, mentre i suoi uomini razziavano e alla fine conquistavano gran parte della Tracia orientale. Nel 1359 o 1361 – la data non è chiara – Orhan catturò Dhidhimoteichon (Dimetoka), sgombrando il passaggio lungo la costa settentrionale dell’Egeo verso Tessalonica.

  Alla morte di Orhan nel 1362 il suo regno aveva acquisito i caratteri che dovevano distinguerlo fino al ventesimo secolo. Comprendeva terre sia in Asia che in Europa, città come insediamenti rurali; e il sovrano aveva costruito le prime moschee e istituzioni religiose che distinguevano il suo principato come una entità politica musulmana.

  Sembra, da un breve riferimento letterario, che il figlio di Orhan, Murad I (1362-1389), ascese al trono dopo una guerra civile. Per la fine degli anni ’60 del 1300 egli era comunque saldamente al potere e il suo regno in Anatolia e in Europa cominciò ad espandersi rapidamente. Ad est si annetté i principati turchi che si stendevano in un arco tra le sue terre nell’Anatolia nord occidentali ed Antalya sul mar Mediterraneo. Le cronache ottomane presentano queste annessioni come pacifiche. Murad avrebbe acquistato una parte del principato di Germiyan come dote a seguito del fidanzamento di una principessa Germiyanide con suo figlio, Bayezid. Avrebbe ottenuto tramite un acquisto Hamid, a sud di Germiyan. Di fatto, il matrimonio con la principessa e l’annessione di Hamid seguirono una campagna militare. Una cronologia del 1439-40 ci dice che nel 1375-6 “Gli eserciti Germiyanidi e tartari furono messi in rotta e furono conquistati Kütahya, alcune delle fortezze di Germiyan e il territorio di Hamid”. Ad est l’espansione portò Murad a contatto col più potente degli emirati anatolici, quello di Karaman, e questo contatto portò alla guerra. Nel 1387, per vendicare un precedente attacco Karamanide, Murad invase l’emirato e costrinse il signore di Karaman, Alaeddin Ali, a sottomettersi.

  Il controllo di Germiyan, Hamid e del territorio a sud diede a Murad il controllo di una rotta di traffico dalla sua capitale a Bursa fino ad Antalya e con tutta probabilità aumentò le sue ricchezze molto più di quanto aumentò le terre del suo reame, ma le sue conquiste europee furono meno spettacolari.

  Il suo regno, comunque, iniziò con una sconfitta che avrebbe potuto fermare del tutto le conquiste ottomane in Europa. Nel 1366 Amedeo di Savoia, il cugino dell’imperatore Bizantino Giovanni V, catturò Gallipoli sulla sponda europea dei Dardanelli, una conquista che avrebbe potuto consentire ai bizantini di bloccare il passaggio dei turchi attraverso gli stretti. Poi, nel 1369, l’Imperatore andò a Roma per procurarsi l’assistenza del Papa. Nondimeno, il successo bizantino fu temporaneo. La continua avanzata ottomana nella penisola Balcanica suggerisce che i rinforzi continuarono a traversare dall’Asia minore e nessun aiuto venne dall’Europa. Qualsiasi vantaggio i bizantini avessero posseduto lo persero di nuovo nel 1377, quando l’imperatore Andronico IV cedette Gallipoli a Murad in cambio del suo aiuto in una guerra civile contro suo padre e i suoi fratelli.

  La prima grande vittoria di Murad in Europa venne, probabilmente, nel 1369, quando forze turche occuparono Adrianopoli (Edirne). La città occupa una posizione strategica alla confluenza dei fiumi Maritsa e Tundzha, dando accesso alla Bulgaria centrale ed orientale, e alla Tracia occidentale. Fu dunque probabilmente il pericolo incombente per i territori che si stendevano a ovest di Edirne che motivò i due signori serbi di Macedonia a formare una alleanza contro Murad e ad attaccare le sue forze sul fiume Maritsa nel 1371. Entrambi persero le loro vite nella rotta che seguì e, nelle parole di una breve cronaca greca: “Da allora i musulmani cominciarono a invadere  l’Impero dei cristiani”.

  La pressione che queste forze musulmane esercitavano era sia politica che militare. Il regno dello zar di Bulgaria divenne vassallo di Murad a seguito del suo matrimonio, in data incerta, con Thamar, la sorella dello zar Sisman. La conquista della Tracia e della Macedonia, comunque fu mediante guerra. Raid turchi iniziarono immediatamente dopo la battaglia di Maritsa, con la gente di Tessalonica che sopportò il primo attacco nel 1372. Nello stesso anno, il papa Gregorio XI provò senza successo a formare un’alleanza antiturca, rimarcando come le colonie latine nella Grecia centrale e meridionale si trovassero sotto minaccia di attacchi Ottomani. Ciò che era cominciato con dei raid, portò ad una conquista permanente. Nel 1383 un’armata ottomana sotto il comando del Visir Hayreddin Chandarli catturò Serrai e assediò Tessalonica. Quattro anni dopo, nel 1387, la città cadde. Il blocco di Tessalonica, comunque, occupò solo una frazione delle forze di Murad. Verroia cadde probabilmente nel 1385-86, e Bitola  poco dopo, portando tutta la Macedonia del sud sotto il controllo ottomano entro il 1387. Per la fine degli anni ’80, i turchi avevano anche cominciato raid verso sud-ovest, nell’Epiro – nel 1386 Esau Buondelmonti, il despota dell’Epiro era vassallo di Murad – e verso sud, nel Peloponneso. Nel 1387, in risposta a un invito di Teodoro, il despota bizantino di Mistra, il signore turco Evrenos devastò i territori del Peloponneso, attaccando non solo i ribelli contro il despota, ma anche gli insediamenti Veneziani nella penisola. Nel mentre, a nord, l’espansione ottomana proseguiva in direzione della Serbia.

  Sofia cadde probabilmente nel 1385. Nish seguì nella primavera o estate dell’anno successivo, rendendo possibile a Murad di entrare nel territorio del signore serbo, il Principe Lazar. La sua invasione fu un fallimento. Lazar intercettò e bloccò l’avanzata di Murad a Pločnik, probabilmente nell’estate del 1386, e lo costrinse a ritirarsi. Per tre anni Murad non tornò in Serbia. La sua avanzata verso occidente aveva dato all’emiro di Karaman, Alaeddin Ali, l’opportunità di attaccare i suoi territori in Anatolia, e fu contro Karaman che Murad condusse la sua campagna nel 1387. Durante lo stesso anno lo zar bulgaro Sisman rinunciò alla sua alleanza con Murad, scatenando una campagna guidata dal Visir Ali Chandarli per sottometterlo. Nell’estate del 1388 Sisman aveva accettato di nuovo la signoria di Murad. Ma fu un altro evento del 1388 che richiamò Murad in Serbia l’anno seguente.

  Sembra probabile che il vassallo di Murad Giorgio Stracimirović Balšić chiese a Murad truppe per attaccare Tvrtko, re di Bosnia, e che Murad abbia risposto inviando un certo Shahin. Nell’Agosto del 1388, truppe bosniache misero in rotta gli uomini di Shahin a Bileća, vicino all’Adriatico e fu forse con l’intenzione di colpire definitivamente re Tvrtko che Murad marciò verso occidente nel 1389. Il suo percorso, comunque sia, lo condusse in Serbia e qui, il 15 Giugno 1389, si scontrò con l’esercito del principe Lazar a Kosovo Polje. L’esito della battaglia sembra essere stato una vittoria turca, dal momento che i turchi mantennero il terreno della battaglia, ma con grandi perdite. Sia Murad che Lazar persero la vita nella battaglia. Seguendo la tradizione ottomana, Bayezid, figlio di Murad, gli successe con un colpo di mano sul campo di Kosovo.

  Fonti del quattordicesimo secolo suggeriscono che Murad si dava modestamente il titolo di “emiro” e non ancora di “Sultano”. L’emirato the aveva stabilito sulla base di quanto ereditato da Orhan consisteva di una federazione di signori  sotto la sovranità ottomana. Le terre che aveva ereditato intorno a Bursa in Anatolia e le terre in Tracia intorno ad Edirne probabilmente caddero direttamente sotto il governo di Murad stesso o di persone nominate da lui. Dopo il matrimonio Germiyanide del 1375-76, gran parte dell’Anatolia ottomana cadde sotto il dominio di suo figlio, Bayezid. Il potere politico nella penisola Balcanica era ampiamente nelle mani di governatori musulmani locali , che questi fossero di origine turca, come Evrenos in Macedonia, o convertiti dal cristianesimo, come la famiglia Mihaloglu nella Bulgaria nord-orientale. In più, molti dei sovrani dinastici della penisola Balcanica, come Esau Buondelmonti di Ioannina, Giorgio Stracimirović di Zeta, Sisman e Ivanko in Bulgaria e l’imperatore bizantino e suo figlio Teodoro di Mistra erano vassalli di Murad. Gli dovevano un tributo e dovevano fornirgli truppe, ma in cambio ricevevano supporto contro i loro nemici. L’Impero Ottomano doveva mantenere una simile struttura fino a dopo il 1450.

  La notizia della morte di Murad a Kosovo aveva raggiunto l’Anatolia nei mesi successivi ed incoraggiò i principati confinanti a strappare territori Ottomani. Una fonte contemporanea menziona in particolare che Alaeddin di Karaman aveva riconquistato Beyşehir e che il signore di Germiyan aveva pure tentato di riprendersi le sue terre perdute. La risposta di Bayezid venne all’inizio del 1390. Entro Marzo di quell’anno aveva conquistato i tre principati delle coste egee dell’Anatolia – Saruhan, Aydin e Menteshe, ripreso Beyşehir dal principato di Karaman e in questa stessa campagna o in una successiva le terre che rimanevano al principato di Germiyan. Questa campagna, sebbene ampliò i territori di Bayezid, non assicurò la pace. Durante il suo corso, uno dei vassalli anatolici di Bayezid, Süleyman Pasha di Kastamonu, cambiò il suo vassallaggio da Bayezid a Burhaneddin, il signore di gran parte dell’Anatolia centrale, e la campagna successiva di Bayezid fu contro Süleyman Pasha, che si concluse con l’esecuzione di questi e l’annessione del suo regno. Successivamente Bayezid continuò verso est contro Burhaneddin, con l’esercito rafforzato dall’unirsi alle sue forze di signori del nord dell’Anatolia. Fu sconfitto a Çorumlu, ma evidentemente non in modo così serio da impedire la sua ulteriore avanzata. In Dicembre, comunque, il tempo, il terreno e gli eventi che si stavano verificando in Europa lo forzarono a ritornare ad ovest. Nel corso della campagna aveva annesso Kastamonu, e forse ottenuto la sottomissione dei signori dei clan del nord dell’Anatolia. L’esercito che conduceva era molto differente da quello dei primi due sovrani Ottomani. Egli aveva ora al suo seguito l’imperatore bizantino suo vassallo, Manuele II, con un contingente di truppe bizantine e anche, secondo una testimonianza di Manuele, contingenti serbi, Bulgari e albanesi.

  Nel 1392, la preoccupazone principale di Bayezid sembra sia stata riguardo la Serbia. Dopo la battaglia di Kosovo la Serbia fu minacciata di invasione dal regno di Ungheria dal nord e dagli Ottomani, dal sud e dall’est. Chiaramente doveva accettare la sovranità di uno dei due per proteggersi dall’altro. Una fazione in Serbia preferiva, sembra, Bayezid al re Sigismondo di Ungheria e per formalizzare questo accomodamento Bayezid sposò Olivera, la sorella del figlio e successore di Lazar Stefano Lazarević. Stefano divenne dunque vassallo di Bayezid. Nello stesso momento Bayezid affermò la sua sovranità su Giorgio Stracimirović di Zeta e Vlk Brankovic, signore di Priština. La preoccupazione successiva di Bayezid fu la Bulgaria.  Perché abbia dovuto invadere il territorio dello zar Sisman nel 1393 e catturare la sua capitale Tarnovo non è chiaro: Sisman aveva forse, per la seconda volta, rotto il suo vassallaggio nei confronti del signore ottomano. Questo era solo uno scontro preliminare. Due anni più tardi, probabilmente per prevenire le conseguenze di una alleanza antiturca tra il re Sigismondo di Ungheria e il Voivoda Mircea di Valacchia, Bayezid condusse il suo esercito a nord del Danubio e si scontrò con i valacchi in una battaglia violenta ma non decisiva. Al suo ritorno entrò a Tarnovo e giustiziò lo zar Sisman, esiliando gli altri membri della dinastia come governatori dell’Anatolia.

  L’affermazione della sovranità ottomana sulla Serbia, l’estinzione del regno dello zar di Bulgaria e l’invasione della Valacchia crearono una minaccia per il regno di Ungheria, che si estendeva a nord del Danubio. Di foronte a questo pericolo, il re Sigismondo rinnovò i suoi sforzi  per formare una lega anti-turca. Non era difficile trovare alleati tra quelli le cui terre Bayezid minacciava, il primo dei quali era l’imperatore bizantino Manuele II. Nel 1394, Bayezid aveva assediato Costantinopoli, e era divenuto evidente che la città non poteva sopravvivere senza assistenza da parte di poteri stranieri. La speranza principale dell’Imperatore era Venezia, i cui possedimenti nella parte continentale della Grecia soffrivano i raid turchi, e le cui fortezze dell’Egeo erano poste sotto attacco dalle navi di Bayezid a Gallipoli. Entro il 1396, Sigismondo, l’imperatore Manuele e Venezia si erano accordati per fornire truppe e navi per muovere guerra a Bayezid. Un più consistente contingente  venne dalla Francia e dalla Borgogna. Nel 1395 una tregua tra Francia e Inghilterra aveva reso disponibili di cavalieri franco-borgognoni per avventure altrove e un contingente sotto Giovanni di Nevers, il figlio del duca di Borgogna viaggiò verso l’Ungheria per unirsi alla crociata di Sigismondo contro Bayezid.

  Bayezid si scontrò con i crociati nel 1396 a Nicopoli sul Danubio in Bulgaria. La sua cavalleria leggera, che includeva un contingente sotto il comando di Stefano Lazarevic, manovrò più abilmente dei cavalieri occidentali pesantemente armati attirandoli entro una trappola e infliggendo loro una totale disfatta. I sopravvissuti che Bayezid non giustiziò furono tenuti prigionieri in attesa di riscatto. A seguito della sua vittoria, Bayezid rimosse l’ultimo signore bulgaro indipendente, Stratsimir di Vidin, consolidando il dominio ottomano dei territori a sud del Danubio. L’Ungheria, comunque, mentre esposta ai raid, non subì l’invasione che re Sigismondo evidentemente aveva temuto. Nel 1397 Bayezid condusse il suo esercito in Anatolia.

  La ragione della sua partenza dall’Europa per l’Asia era l’azione dell’emiro di Karaman, Alaeddin che, mentre Bayezid si scontrava con i crociati a Nicopoli, aveva attaccato e preso prigioniero il governatore generale dell’Anatolia. La risposta di Bayezid fu decisa. Nel 1397 invase Karaman, occupò Konya, la sua città principale, e giustiziò Alaeddin. Alaeddin era il suo fratellastro e, quando marciò a sud per assediare Larende sua sorella, la vedova di Alaeddin ordinò alla guarnigione di aprire i cancelli a Bayezid. Con la morte di Alaeddin e lo spostamento della sua vedova a Bursa, Karaman divenne territorio ottomano e una base per ulteriori conquiste nel nord-est. Questo coinvolse Bayezid in ulteriori conflitti con Burhan al-Din di Sivas, che aveva già incontrato nella sua prima campagna anatolica del 1391. Nel 1398, Bayezid espulse Burhan al-Din da Sivas, si annetté i piccoli principati  vicino alla costa del Mar Nero e poi, successivamente alla morte di Burhan al-Din, occupò Sivas. Subito dopo, probabilmente nel 1399, si impadronì di Malatya, a est di Sivas, un avamposto settentrionale del Sultano mamelucco del Cairo. Entro il 1401 egli era avanzato lungo la valle dell’alto Eufrate per impadronirsi di Erzincan dal suo signore, Taharten.

  Le ambizioni di Bayezid nell’Anatolia orientale ebbero una fatale conseguenza. Il periodo delle sue conquiste aveva coinciso con la crescita di un altro Impero ad oriente. Tra gli anni ’70 e il 1400 Timur, detto anche Tamerlano, aveva, partendo da umili origini, conquistato territori in Asia centrale, Russia meridionale, Iran e Azerbaijan, e al di fuori di questi creò un Impero di vassalli con capitale a Samarcanda. Entro il 1400 l’espansione di Timur verso occidente e l’espansione di Bayezid verso oriente vennero in conflitto. Il primo colpo giunse nel 1400, quando Timur saccheggiò Sivas. Nel 1401, condusse il suo esercito  in Siria, saccheggiando Aleppo, Homs, Hama, Baalbek e Damasco, ritornando a passare l’inverno del 1401-2 a Karabagh nel Caucaso. Dispute con Bayezid circa la fedeltà di vassalli fornirono a Timur una scusa per muovere guerra e, nel 1402, invase i territori di Bayezid accampandosi in Luglio fuori Ankara.

  La strategia di Timur era sia politica che militare, e sfruttava i fragili legami di vassallaggio dei soggetti di Bayezid in Anatolia. Nel 1390 i signori degli antichi emirati di Germiyan, Saruhan, Aydin e Menteshe avevano cercato la protezione di Timur dopo che Bayezid aveva annesso i loro territori. Egli ora piazzò questi uomini in posizioni eminenti nel suo esercito. Allo stesso tempo i suoi inviati avevano negoziato, con i capi tribali dell’Anatolia, le cui truppe combattevano con Bayezid, la diserzione sul campo di battaglia. Perdipiù, prima che la battaglia cominciasse, aveva occupato una posizione che controllava l’accesso agli approvvigionamenti d’acqua, conducendo gli uomini di Bayezid allo sfinimento prima della battaglia. La sua strategia ebbe successo. Quando la battaglia iniziò i cavalieri dei vecchi emirati, vedendo i loro vecchi capi nell’esercito di Timur disertarono. Così fecero, come stabilito, le truppe tribali. Quando questi uomini cambiarono fronte, le forze sotto i suoi figli Maggiore e minore, Süleyman e Mehmet, abbandonarono il campo, lasciando Bayezid con solo la sua guardia del corpo giannizzera e il contingente dalla Serbia di Stefano Lazarevic. La battaglia finì con Bayezid prigioniero di Timur. Bayezid morì un anno dopo, ancora in prigionia.

  Timur fece seguire alla battaglia una campagna di massacro e saccheggio nell’Anatolia occidentale, che durò fino alla estate del 1403. Egli morì nel 1405, durante i preparativi per una campagna contro la Cina.

 

 

 

CRONOLOGIA: L’EMIRATO OTTOMANO: LA GUERRA CIVILE E LA RIPRESA, 1402-1451

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   La campagna di Timur diffuse devastazione in Anatolia, specialmente all’ovest. Alterò anche la configurazione politica. Dopo la battaglia di Ankara, Timur ristabilì i vecchi emiri di Germyian, Saruhan, Aydin e Menteshe nei loro precedenti regni, e reinstallò la dinastia di Karaman, riducendo il dominio ottomano in Anatolia alla striscia di territorio che correva da Amasya ad est a Bursa e al mar di Marmara ad ovest. Timur non aveva toccato le terre ottomane nei Balcani, ma fu immediatamente dopo Ankara che i principi cristiani di quelle regioni – L’imperatore bizantino, Venezia, Genova e i Cavalieri di San Giovanni – forzarono il figlio di Bayezid a siglare un trattato a Gallipoli, cedendo Tessalonica all’Imperatore e facendo altre meno significative concessioni. Le stesse terre ottomane erano divise; il figlio Maggiore di Bayezid, Süleyman, governava in Europa, e il suo figlio più giovane, Mehmed, da Amasya fino a nord-est di Ankara . Un terzo figlio, Isa, tentò di stabilirsi nell’Anatolia occidentale. Un altro figlio, Musa, dopo che Timur lo ebbe liberato, venne sotto la custodia di Mehmet. Un altro, Mustafa, scomparve, con tutta probabilità prigioniero a Samarcanda. Mancando un accordo sulla successione a Bayezid, una guerra civile era inevitabile.

  Nel 1403 Süleyman era il più potente dei successori di Bayezid. Col trattato di Gallipoli aveva ceduto Tessalonica e qualche altro territorio,ma aveva ereditato i domini europei di suo padre intatti. Una alleanza che Sigismondo di Ungheria propose tra sé e Stefano Lazarevic di Serbia non si concretizzò mai. Invece, nel 1409 le forze di Süleyman assistettero il fratello di Stefano, Vlk Lazarevic e Giorgio Brankovic nel devastare il reame di Stefano e nello stabilirsi come sovrani nella Serbia del sud. L’azione di Süleyman lo rese signore  di tutti e tre i principati serbi. In Anatolia il principe Mehmed doveva fronteggiare una Maggiore opposizione al suo dominio. Dal campo di battaglia di Ankara si ritirò a Tokat, nel nord est, dove fronteggiò gli attacchi e le ribellioni dei signori locali e dei leader tribali. Fu solo quando ebbe allontanato questi pericoli  che potè spingersi verso ovest per sfidare il suo fratello Isa per il possesso dell’antica capitale Bursa. Isa non offrì significativa resistenza. Fuggì nel Karaman e “lì scomparve”. La fuga di Isa non pose fine ai guai di Mehmet. Nel 1404, sentendo al sicuro i suoi territori europei, Süleyman attraversò gli stretti verso l’Anatolia e, con le sue forze superiori, occupò Bursa, respingendo Mehmed ad Amasya e confinando il suo regno ai territori Ottomani ad est di Ankara. Per i successivi 5 anni Süleyman fu signore di parte dell’Anatolia occidentale e dei Balcani Ottomani.

  La mossa decisiva che Mehmet fece contro Süleyman era politica piuttosto che militare. Egli aveva in custodia il fratello, Musa, e nel 1409 lo liberò. Liberato dalla prigionia, Musa attraversò il Mar Nero per arrivare in Valacchia dove entrò in una alleanza matrimoniale col voivoda Mircea. Con le truppe fornitegli dal suo patrigno attraversò il Danubio in territorio di Süleyman e, in assenza di suo fratello, invase la Bulgaria orientale e la Tracia e occupò Gallipoli. Il risultato del successo di Musa era esattamente ciò che desiderava Mehmed. La necessità di ristabilire il suo dominio nei territori europei costrinse Süleyman a ritirarsi dall’Anatolia dell’ovest, consentendo a Mehmed di occupare i territori che aveva conquistato. La sua vittoria fu completa quando, nell’estate del 1410, l’Imperatore bizantino trasportò Süleyman e i suoi uomini attraverso gli stretti per confrontarsi con Musa.

  Süleyman rapidamente guadagnò una situazione di vantaggio, costringendo Musa a vivere “come un brigante sulle montagne”. Sei mesi dopo Süleyman era morto. La causa fu il suo alcolismo. All’inizio del 1411, Süleyman era in Edirne e mentre, per citare una breve cronaca greca, “si dilettava tra i cibi e beveva grandi coppe di vino, l’esercito di suo fratello si avvicinò. Süleyman ignorò tutti gli avvertimenti finché non fu troppo tardi. Quando la fazione di Musa occupò Edirne egli fuggì verso Costantinopoli. Gli uomini di Musa lo catturarono e lo strangolarono lungo la strada.

  Il regno di Musa fu breve. Egli fronteggiava l’ostilità non solo di suo fratello Mehmed in Anatolia, ma anche del despota serbo che devastò le sue terre nella valle della Morava, e dell’imperatore bizantino, che liberò il fratello di Süleyman, Orhan, per opporsi al suo dominio. Fu questo atto ostile che condusse Musa, brevemente e senza successo, ad assediare Costantinopoli nel 1411. Mentre fronteggiava questi nemici Musa soffrì della diserzione a favore di Mehmed di parecchi dei più potenti signori delle marche di frontiera, ufficialmente perché si era impadronito del loro denaro e dei loro possedimenti in uno sforzo, presumibilmente, di riempire le sue casse in un periodo in cui le incertezze della guerra e della politica avevano azzerato il gettito delle imposte. Nondimeno, nel 1411, egli sconfisse Mehmed e nell’anno seguente condusse rappresaglie contro la Serbia. Alla fine del 1412, quando Mehmed tentò di invadere per la seconda volta, condizioni atmosferiche disastrose lo forzarono a ritirarsi. Nel 1443, comunque, dopo aver ricevuto l’atto di amicizia di Lazarevic in Serbia e assicurando il suo confine occidentale con una alleanza matrimoniale col signore di Dulgadir, traversò il Bosforo per la terza volta. A Luglio sconfisse ed uccise suo fratello fuori delle mura di Sofia.

  La morte di Musa lasciò Mehmed I (1413-1421) come solo sovrano dei territori Ottomani in Europa e in Asia. La sua eredità, comunque, era fragile, con nemici determinati a distruggere i suoi frazionati domini. Il primo ad attaccare fu l’emiro di Karaman, che aveva cinto d’assedio Bursa già durante l’ultima campagna di Mehmed contro suo fratello. Quando i Karamanidi si furono ritirati dopo il ritorno di Mehmet in Anatolia, l’imperatore Manuele provò senza successo a negoziare con Venezia una sovvenzione contro i turchi. Quando il suo piano fallì, di nuovo rilasciò dalla prigionia il figlio di Süleyman, Orhan, con la speranza che, in alleanza con Mircea di Valacchia, egli trionfasse su Mehmet. Ma anche questo piano fu un fallimento, ma nel 1414 si presentò un’altra alternativa quando il capitano di una galea Veneziana prese a bordo l’inviato di un uomo che dichiarava di essere Mustafa, il figlio di Bayezid che era scomparso durante la battaglia di Ankara nel 1402. I Veneziani si rifiutarono di cooperare perché sostenere Mustafa avrebbe messo a rischio le loro relazioni con Mehmed. Mustafa,comunque, si doveva dimostrare utile per gli altri nemici di Mehmed.

  Questi, comunque, non agirono immediatamente, dando a Mehmed l’opportunità di vendicarsi dell’emiro di Karaman. Nel 1415 Mehmed assediò Konya, costringendone l’emiro a cedere le terre occidentali di Karaman che aveva preso agli Ottomani dopo la loro sconfitta ad Ankara. Da Karaman, Mehmed iniziò la pacificazione dei vecchi emirati dell’ovest dell’Anatolia, ristabilendo la sua sovranità ed annettendo Saruhan e parte di Aydin. Come governatore egli nominò Alessandro Sisman, un discendente della dinastia bulgara. L’anno 1415 fu quindi un anno di rinnovata avanzata ottomana.

  Nell’anno seguente, comunque, Mehmed fronteggiò tre crisi. La prima era la conseguenza dell’aggressione delle sue navi,che avevano cominciato ad attaccare i Veneziani ed altri insediamenti nell’arcipelago dell’Egeo. Nell’Aprile 1416, dopo che la diplomazia ebbe fallito, uno squadrone Veneziano distrusse la flotta ottomana fuori dei Dardanelli. La flotta ottomana non rappresentò più una minaccia fino al 1450. La seconda crisi si ebbe in Agosto, quando l’uomo che aveva contattato Venezia nel 1414 affermando di essere Mustafa, il fratello di Mehmed, si recò in Valacchia e, alla testa di una forza di turchi e di valacchi, attraversò il Danubio ed entrò nelle terre di Mehmed. L’invasione fallì. Mehmed sconfisse l’esercito di Mustafa, costringendolo a rifugiarsi presso la bizantina Tessalonica. Mehmed pose la città sotto assedio.

  Fu lì che fronteggiò la sfida più temibile alla sua sovranità, quando due rivolte scoppiarono simultaneamente, una nella Dobrugia, nel nord-est della Bulgaria, l’altra nella penisola di Karaburun, sul litorale Egeo dell’Anatolia che fronteggia Chio. Il leader della rivolta bulgara era Sheikh Bedreddin, un giurista e mistico che aveva servito come giudice militare di Musa in Rumelia tra il 1411 e il 1413. Il leader della rivolta nel Karaburun era Börklüje Mustafa, un derviscio carismatico. Le fonti ottomane plausibilmente affermano che i due uomini fossero in collusione. Entrambe le ribellioni erano la conseguenza dell’instabilità e insicurezza che avevano seguito  la sconfitta ottomana ad Ankara nel 1402. Resoconti Ottomani della ribellione sono di parte, ma interamente credibili nell’affermare che Bedreddin trovò gran parte del suo supporto in Dobrugia tra gli ufficiali e i tenutari di feudi che Musa aveva nominato durante il suo regno in Rumelia, e che Mehmed aveva allontanato prendendo il potere. Bedreddin, che appare aver aspirato al sultanato sulla base delle sua affermata discendenza dai Selgiuchidi, annunciò che, come Sultano avrebbe reintegrato gli spossessati nei loro possessi. La rivolta di Börklüje Mustafa aveva un differente carattere. Era, così risulta, una rivoluzione popolare millenarista centrata sulla persona di Börklüje che predicava, secondo lo storico greco Doukas, l’eguaglianza di musulmani e cristiani e la comunione della proprietà. I seguaci di Börklüje, secondo Doukas, erano “contadini ignoranti”.

  In Bedreddin ricorre il tema mistico del mistero della vita e della divinità del cambiamento, un tema popolare nelle zone di confine. “Ogni cosa è immersa in un processo di creazione e distruzione” scrisse Bedreddin, “non c’è un qui e un aldilà; ogni cosa è un singolo istante”.

  Entrambe le ribellioni fallirono. La rivolta in Dobrugia collassò quando un agente del Sultano catturò Bedreddin e lo portò di fronte al Sultano nel Serraglio dove, in accordo con la fatwa di un molla (insegnante della legge islamica) persiano fu impiccato nella piazza del mercato. La resistenza dei seguaci di Börklüje fu più forte. Essi sconfissero dapprima l’esercito di Sisman, il governatore di Saruhan, e poi quello di Ali Bey, un altro governatore ottomano nell’Anatolia occidentale. Fu solo quando Mehmed inviò un esercito sotto i comando di Bayezid Pasha che fu capace di sopprimere la ribellione. “Bayezid Pasha”, scrive Doukas, “uccise tutti coloro che incontrò sul suo cammino non risparmiando un’anima, giovani o vecchi, uomni o donne”. Börklüje Mustafa e i suoi dervisci furono portati ad efeso e giustiziati. A dispetto della sconfitta le memorie furono dure a morire e una setta che si rifaceva a lui sopravvisse nella Dobrugia per almeno due secoli dopo la sua morte.

  A beneficiare dei guai di Mehmet fu l’emiro di Karaman, che quando Mustafa invase i domini Ottomani in Europa, aveva razziato l’Anatolia ottomana fino a Bursa. Come rappresaglia nel 1417 Mehmed invase Karaman, giungendo con il suo esercito fino a Konya. Egli comunque si astenne dall’attaccare la città. Invece, nello stesso anno, guidò una seconda spedizione in Anatolia contro Isfendyaroghlu di Sinope, una campagna che gli lasciò il controllo di Kastamonu e delle sue miniere di rame, e confinò Isfendyaroghlu nei territori intorno Sinope. Tre anni più tardi in oscure circostanze, gli Ottomani occuparono anche la colonia genovese di Samsun sulla costa del Mar Nero. Le conquiste di Mehmed nei Balcani furono di portata eguale a quelle in Anatolia. Nel 1417, i Veneziani erano allarmati nell’apprendere che una forza ottomana aveva tolto Vlöre, sulla costa adriatica, a Rugina, la “Signora di Valona”, e temettero che navi ottomane potessero apparire nell’Adriatico per impadronirsi del commercio Veneziano. Invece, in quello stesso anno, Hamza Pasha conquistò Gjirokastër, la roccaforte del clan Zenevis. Vlöre e Gjirokastër insieme davano al Sultano un consistente territorio nel sud dell’Albania. Questo avvenne nel 1418. Lo stesso anno Mehmet guidò in persona una spedizione contro Mircea di Valacchia, forzandolo a sottomettersi e occupando le fortezze che controllavano i punti di attraversamento del Danubio.

  Nel 1421 Mehmet morì. Suo figlio, Murad II (1421-1451) non prese possesso di un regno indiviso. Per sfruttare le incertezze della successione, l’imperatore bizantino Manuele II liberò lo zio di Murad, Mustafa, dalla custodia in Tessalonica, e fu per vendicarsi contro l’imperatore per questo atto che nel 1422 Murad assediò Constantinopoli. L’assedio durò fino a Settembre, quando il Sultano si ritirò, non tanto per la resistenza bizantina, ma per un rinnovato conflitto dinastico.

  La causa fu l’apparire nell’Ottobre 1422 del suo fratello più giovane, Mustafa “il piccolo” e fu solo dopo la sua sconfitta che Murad poté volgersi contro i nemici esterni. Durante il tempo delle lotte di Murad con i due Mustafa, Drakul il voivoda di  Valacchia aveva attraversato il Danubio e invaso la Rumelia ottomana. Allo stesso tempo Isfendyaroghl di Sinope aveva riottenuto i territori a Kastamonu di cui Mehmet I si era impadronito. Dopo la morte del Mustafà più giovane Murad condusse personalmente il suo esercito a Kastamonu per riprendersi il territorio perduto e le sue miniere di rame, mentre un governatore di confine della Rumelia condusse una spedizione distruttiva nella Valacchia. L’esito di entrambe le campagne era di ridurre sia Drakul che Isfendyafoghlu al vassallaggio,con Murad che sposava una principessa Isfendyaride.

  Queste campagne restaurarono la stabilità nel regno di Murad, e entro venti anni egli aveva, con l’eccezione del Karaman e dell’alta valle dell’Eufrate, ripreso i territori persi dopo la Battaglia di Ankara. La perdita più importante in Europa in questo momento era Tessalonica e nel 1422 le forze di Murad attuarono un blocco intorno alla città. Un anno dopo i bizantini non poterono più sostenere gli assalti e cedettero Tessalonica a Venezia. Nello stesso anno, una serie di raid nel Peloponneso dal governatore locale Turahan ricordò ai cristiani firmatari del trattato del 1403 di Gallipoli che il loro vantaggio politico nei confronti degli Ottomani era evaporato.

  Mentre Tessalonica era sotto assedio, Murad diresse le sue forze contro gli emirati dell’Anatolia occidentale. Nel 1424 mandò un esercito contro Juneyd, il signore di Aydin, obbligandolo a rifugiarsi in una fortezza della costa e a cercare aiuto dai Veneziani a Tessalonica e dal Karaman. Questi sforzi fallirono. Con l’aiuto di navi genovesi gli assedianti Ottomani  catturarono la fortezza e giustiziarono Juneyd con la sua intera famiglia. Entro il 1425 Murad aveva in più annesso Menteshe, portando sotto il suo dominio tutta la costa Egea dell’Anatolia. Tre anni più tardi completò la sua conquista in Asia annettendo le aree montagnose fitte di boschi lungo la costa del Mar Nero ad est di Samsun e nel 1428, occupando Germiyan dopo la morte del suo ultimo signore dinastico.

  Durante questi anni l’assedio di Tessalonica continuò, spingendo i Veneziani a cercare alleati contro il Sultano. Quando ricevettero aperture dal duca di Atene, Antonio Acciajuoli, e da Teodoro, Despota di Mistra, i Veneziani procrastinarono. La loro speranza era per un’alleanza con il re Sigismondo di Ungheria. Questi piani non si materializzarono, anche se Sigismondo e Murad erano entrati in conflitto. La causa era la disputata signoria vassallare sulla Serbia. L’anziano Stefano Lazarevic aveva, così sembra, trasferito la sua lealtà dagli Ottomani a Sigismondo e aveva, perdipiù promesso di lasciare in eredità la fortezza danubiana di Golubats al re ungherese. Un’avanzata ottomana al confine della Serbia sembra abbia costretto Stefano ad una nuova sottomissione, ma nel 1427, il vecchio despota morì. Questo scatenò una guerra, con Sigismondo che si appropriava di Belgrado, e Murad che per ritorsione catturava Golubats. Il despota serbo Giorgio Brankovic si trovò stretto tra il sovrano di Ungheria e il Sultano.

  Nel 1430 era divenuto chiaro che Venezia non poteva aspettarsi alcun aiuto dall’Ungheria per terminare l’assedio di Tessalonica e in Marzo di quell’anno il Sultano stesso si accampò di fronte alla città. Alla fine del mese Tessalonica cadde a seguito di un assalto generale. Nel trattato che seguì Venezia cedeva la città e conveniva di pagare a Murad un tributo annuale per i possessi Veneziani in Albania. Lo stesso anno, gli Ottomani conquistarono Ioannina in Epiro. L’occasione fu la morte del despota Carlo Tocco nel 1429 senza eredi legittimi. Il despotato passò al suo nipote, Carlo II, un protetto del re angioino di Napoli. Murad chiaramente non desiderava vedere impiantata una ingerenza angioina in Grecia e trovò una ragione per cacciare Carlo II. Carlo I Tocco non aveva eredi legittimi, ma aveva avuto sei figli illegittimi che l’uno dopo l’altro avevano risieduto alla corte di Murad ed era su richiesta dell’ultimo, Ercole Tocco, che Murad mandò Sinan Pasha contro Ioannina nel 1430. Sinan Pasha occupò la città, ma invece di installare Ercole, la pose direttamente sotto il dominio ottomano. Successivamente razziò e devastò i domini di Carlo II ad Arta, per ricordare a tutti senza ombra di dubbio che egli regnava come un vassallo di Murad.

  Gli anni dopo il 1430 videro l’incerto stabilirsi del dominio ottomano in Albania centrale e meridionale. Questo cominciò con la presa dei territori a nord di Gjirokastër che appartenevano ai clan Arianit e Kastrioti, e poi una ribellione con successo degli sconfitti signori e un assedio albanese a Gjirokastër. La rappresaglia ottomana arrivò all’inizio del 1433, quando un esercito sotto il governatore Ali, figlio di Evrenos, entrò in Albania, eliminò l’assedio a Gjirokastër e “distrusse i domini di Giovanni Castriota”. Giovanni Castriota doveva continuare il suo governo a Krujë come vassallo ottomano, col suo figlio Giorgio – il famoso Scanderbeg – ostaggio presso la corte ottomana. Con buona parte dell’Albania sotto il suo controllo Murad successivamente estese il suo dominio alla Serbia, questa volta non con la forza, ma con un matrimonio. Nel 1435 sposò Mara la figlia del despota Giorgio Brankovic, stabilendo suo padre come vassallo.

  Il matrimonio fu il primo passo per la conquista della Serbia. A dispetto dello status protetto di vassallo di Brankovic, nel 1438 Murad condusse una campagna che prima catturò Borač nel nord della Serbia, per poi attraversare il Danubio e fare un raid devastante  nella Transilvania. Nel 1439 prese Zvornik e Srebrenica al confine con la Bosnia e, molto più importante, la fortezza di Smederovo sul Danubio, ponendo la Serbia settentrionale sotto il suo controllo. Il suo scopo finale, comunque, era il regno di Ungheria. Nel 1439, con la Serbia sotto il suo dominio e il suo confine orientale sicuro dopo aver sconfitto Ibrahim di Karaman nel 1437, era libero di agire. Il momento era propizio. Nel 1437, subito dopo la morte del re Sigismondo, una rivolta contadina aveva scosso l’Ungheria. Nel 1440 il successore di re Sigismondo, Alberto II, morì, lasciando un minorenne. Fu a questo punto che Murad attaccò, mettendo sotto assedio la fortezza strategica di Belgrado e mandando razziatori entro il regno.

  L’assedio di Belgrado fu un fallimento e la sconfitta segnò l’inizio di una crisi nel governo ottomano. Questa non era inizialmente evidente. La guerra civile in Ungheria per la successione a re Alberto permise a Murad di lanciare un nuovo raid nel 1441, e la guerra civile a Bisanzio gli permise di intervenire a sostegno del pretendente Demetrios. Demetrios, comunque, non riuscì ad assicurarsi il titolo imperiale e il signore di Transilvania Janos Hunyadi sconfisse l’incursione ottomana del 1441 e un’altra l’anno seguente. Queste piccole vittorie, insieme alla elezione di re Vladislav III di Polonia come Vladislav I di Ungheria chiaramente rialzarono il morale dei cristiani. Ma ciò che temeva di più Murad era una nuova alleanza per una crociata.

  Nel 1439, come prezzo per ricevere aiuti militari dall’Europa cattolica, l’imperatore bizantino Giovanni VIII aveva accettato l’unione delle chiese greca e latina sotto il primato di Roma. Papa Eugenio IV aveva un forte motivo per onorare la sua parte di contratto ed organizzare una crociata a favore dell’imperatore. La sua posizione come capo della Chiesa non era sicura, ma una crociata coronata da successo avrebbe reso la sua posizione inespugnabile. Né aveva difficoltà a ottenere supporto per il progetto. Soprattutto fu capace di coinvolgere re Vladislav il cui regno era sotto attacco da parte degli Ottomani. Anche Venezia, era pronta a partecipare, dato che una crociata riuscita poteva condurre alla rioccupazone di Tessalonica e all’acquisto di altri territori. Parimenti interessato era il duca di Borgogna: le credenziali di crociato potevano condurre al suo riconoscimento come re. L’altro signore deciso a partecipare era l’emiro di Karaman. Se l’emiro poteva attaccare Murad ad oriente e attirarlo in Anatolia, le galere Veneziane, borgognoni, pontificie e bizantine potevano bloccare il Bosforo e i Dardanelli e impedirgli di attraversare gli stretti per incontrare l’esercito ungherese quando sarebbe iniziata l’invasione dell’Europa.

  La difficoltà con questo piano era la coordinazione. Nel 1443, prima che la flotta alleata fosse pronta Ibrahim di Karaman attaccò i territori di Murad in Anatolia. Senza alcuna opposizione da parte dell’imperatore bizantino Murad attraversò per andare in Anatolia e lo costrinse alla sottomissione prima di ritornare ad Edirne. Qui apprese prima della morte del suo figlio favorito, Alaeddin, e poi, in autunno, dell’invasione. Un esercito ungherese sotto Janos Hunyadi era entrato e devastava la Serbia e avanzava verso Sofia, annientando o rigettando le forze musulmane sulla sua strada. Gli ungheresi avevano il vantaggio non solo della dimensione del loro esercito, ma anche della nuova tattica di battaglia consistente nel creare fortezze mobili con i carri e nell’usare l’artiglieria da campo che la cavalleria ottomana non era capace di avvicinare. Alla fine, a dispetto della diserzione della sua cavalleria, Murad e i suoi giannizzeri fermarono l’avanzata ungherese al passo di Zlatitsa nei monti Balcani. Col rigido inverno entrambi gli eserciti si ritirarono.

  Furono probabilmente gli orrori della guerra d’inverno che convinsero Murad e Vladislav a fare pace. Nell’estate del 1444 a Edirne i negoziatori concordarono una tregua di dieci anni tra Murad e Vladislav e la cessione di Smederevo, Golubats e altre fortezze a Giorgio Brankovic. In Agosto un inviato ottomano viaggiò fino in Ungheria per ratificarne i termini. Fu allora che Murad prese una decisione eccezionale. Rattristato senza dubbio dalla morte di Alaeddin e dagli eventi della guerra invernale e con tutti i suoi confini apparentemente sicuri abdicò a favore del suo figlio dodicenne, il principe Mehmed.

  Questa era un’opportunità che il papa non poteva lasciarsi sfuggire. Per consentire alla crociata di continuare assolse il re di Ungheria dal suo giuramento di tregua e nell’autunno del 1444 re Vladislav e Janos Hunyadi condussero l’esercito ungherese in una distruttiva marcia verso Varna, sulla costa bulgara del Mar Nero. Nella crisi, i Visir richiamarono Murad dal suo ritiro a Manisa. Questa volta, comunque, le flotte alleate bloccavano gli stretti. Il Sultano, comunque, scelse di attraversare il Bosforo e, come egli piazzò una batteria di cannoni sulla costa Asiatica i genovesi di Pera piazzarono una batteria dal lato europeo. Sotto la copertura di questi cannoni e su navi che i genovesi avevano fornito, il suo esercito attraversò gli stretti. Il 10 Novembre 1444 gli eserciti si incontrarono a Varna con i cannoni ungheresi che ancora una volta facevano fuggire la cavalleria ottomana. Comunque, in un momento cruciale,il re di Ungheria uscì dai ranghi, consentendo ad un giannizzero di farlo cadere da cavallo e ucciderlo. La morte del re decise la battaglia. La vittoria ottomana, a sua volta, assicurò che la penisola Balcanica largamente ortodossa cadesse sotto il dominio dei musulmani Ottomani piuttosto che della Ungheria cattolica.

  Da varna, Murad ritornò a Manisa, ma non ad un pacifico ritiro. Durante la crisi del 1443-44 costantino, il despota bizantino di Mistra si era impadronito di territorio musulmano nel sud della Grecia e stava continuando i suoi raid, mentre Giorgio Castriota, o Scanderbeg, aveva ripreso gli antichi domini dei Castrioti in Albania centrale. Comunque, fu una crisi nel 1446 che costrinse il Sultano ad uscire dal ritiro. Prima un incendio devastò Edirne. Poi, una ribellione dei giannizzeri, che il principe Mehmed non poteva controllare, terrorizzò la città, persuadendo il Gran Visir, Halil Chandarli, a richiamare Murad.

  Al suo ritorno al trono Murad si volse contro i vassalli ribelli. Nel 1447 invase il Peloponneso e ridusse Costantino alla sottomissione. L’anno successivo attaccò Scanderbeg in Albania ma a metà della campagna ricevette notizia che Janos Hunyadi aveva invaso nuovamente le sue terre con un esercito di ungheresi e valacchi. Abbandonando la campagna d’Albania, egli marciò a nord, e nell’Ottobre 1448 affrontò Hunyadi sulla piana di Kosovo. Dopo una battaglia di due giorni Hunyadi abbandonò il campo. L’eliminazione del pericolo ungherese lasciò Murad libero, nell’inverno del 1448-49, di catturare Arta, l’ultimo dei domini di Tocco sulla parte continentale della Grecia e, nel 1449 di attaccare Scanderbeg confinandolo nella fortezza di Krujë. Contro la fortezza comunque i suoi attacchi furono vani.

  Questa fu l’ultima campagna di Murad. Morì all’inizio del 1451.

 

 

 

CRONOLOGIA: L’IMPERO OTTOMANO: CONQUISTA E CONSOLIDAMENTO, 1451-1512

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  Nel 1450, l’Impero Ottomano era un importante potere locale, che dominava l’Anatolia del nord e dell’ovest e una larga parte della penisola Balcanica. In gran parte di quest’area, comunque, il Sultano  esercitava il suo potere attraverso vassalli o governatori semi-indipendenti. Nel contesto del medio oriente, il sultanato dei Mamelucchi del Cairo era probabilmente più potente e certamente più prestigioso. Come governanti delle città sante di Mecca, Medina e Gerusalemme, i sultani Mamelucchi potevano vantare il primo posto tra tutti i monarchi islamici. Nel contesto del sud-est europeo il regno di Ungheria ancora controbilanciava il potere ottomano. Quanto ai mari, la forza ottomana era trascurabile. Nel 1512, l’Impero Ottomano aveva acquisito  una capitale imperiale. I suoi territori sia in Anatolia che nella penisola Balcanica si erano espansi grandemente. Il potere dei governatori locali era diminuito, ed essi non erano più presenti nei consigli centrali dell’Impero. In Europa, a sud del Danubio, il Sultano governava attraverso le persone da lui nominate piuttosto che attraverso vassalli, sebbene le vecchie dinastie cristiane dell’area spesso vennero a far parte, dopo la conversione, delle élite governanti dell’Impero. In Anatolia, era solo ai confini che l’autorità del sovrano dipendeva ancora dalla fedeltà dei vassalli. Le istituzioni dell’Impero avevano anche cominciato a prendere la forma che sarebbe stata familiare nei secoli successivi. Al momento l’Impero godeva di una superiorità militare sui poteri confinanti – Ungheria a nord, il sultanato dei Mamelucchi  in Egitto e Siria, e la dinastia Safavide in Iran – ma sinora l’esercito ottomano non aveva dimostrato la sua superiorità in guerra. L’Impero era anche emerso come una potenza navale, ancorché di piccola scala.

  Al tempo della seconda ascesa al trono del principe Mehmed nel 1451 come Mehmed II (1451-1481) il suo obiettivo immediato era conquistare Costantinopoli. Per rendere dapprima sicuri i suoi confini, nel 1451 guidò  una campagna contro Karaman il cui emiro, alla morte di Murad, si era impadronitodi alcuni castelli alla frontiera ottomana. La campagna una volta ancora forzò Karaman ad accettare la sovranità ottomana. Allo stesso tempo Mehmed concluse trattati con Giorgio Brankovic di Serbia, e Janos Hunyadi, il reggente ungherese. Per rendere sicuri i suoi confini meridionali nel 1452 egli mandò il governatore Turhan a fare un raid contro i despoti bizantini del Peloponneso, Tommaso e Demetrio. Nello stesso anno, con i confini sicuri, cominciò a prepararsi per l’assedio costruendo un castello sul lato europeo del Bosforo, di fronte all’altro sul lato Asiatico, che Bayezid I aveva costruito durante l’assedio del 1394-1402. I cannoni dalle due fortezze impedivano il passaggio delle navi. Nella primavera del 1453 l’esercito di Mehmed si accampò di fronte alla doppia cinta di mura della città, mentre le sue navi si ancoravano nel Bosforo. I difensori furono capaci di respingere molti degli assalti, a dispetto del loro diminuito numero. Essi frustrarono i tentativi Ottomani di porre delle mine sotto le mura, o di usare torri di assedio per portare gli assalitori al livello dei bastioni. La flotta ottomana era incapace di impedire i rinforzi genovesi che provenivano dal mare, o di rompere lo sbarramento che bloccava l’ingresso del Corno d’oro, l’estuario che formava un fossato naturale da un lato delle mura della città. Alla fine, gli assedianti trasportarono le navi via terra dal Bosforo al Corno d’oro, ma di nuovo non infransero le difese. Ciò che alla fine determinò la fine vittoriosa dell’assedio era il potere dell’artiglieria ottomana contro le mura dal lato di terra . Il 29 Marzo, con i giannizzeri all’avanguardia, l’esercito di Mehmed entrò nella città attraverso una breccia nel muro e cominciò un saccheggio di 3 giorni. Il giorno dopo la conquista il Sultano entrò nella città. La ripopolazione e il restauro della metropoli semidistrutta fu una delle preoccupazioni principali del suo regno.

  La conquista di Costantinopoli diede all’Impero Ottomano una capitale nel punto dove si congiungevano i suoi territori europei ed Asiatici, sugli stretti che collegavano il Mar Nero al Mediterraneo. Era una città che godeva anche di una posizione speciale nella escatologia musulmana, e che era stata la sede dell’imperatore romano. Il prestigio imperiale, escatologico  e geografico della città innalzava  lo status del suo conquistatore sia nel mondo musulmano che nel mondo cristiano, ed è per la sua conquista che Mehmed II rimase famoso. Questo era però solo l’inizio della guerra incessante che contraddistinse il suo regno

  Dopo la caduta di Costantinopoli Mehmed si assicurò la resa di Pera, la città genovese che fronteggiava la capitale bizantina dall’altro lato del Corno d’oro. L’anno seguente egli attaccò la Serbia. In due campagne, nel 1454 e 1455, si impadronì di Novo Brdo e dei distretti delle miniere di argento della Serbia del sud, confinanti a nord col territorio del despota Giorgio Brankovic. Nel 1456, assediò la città ungherese di Belgrado, ma non ebbe successo. Le forze di Janos Hunyadi non solo respinsero l’attacco, ma arrivarono ad un soffio dal distruggere il campo ottomano. La vittoria salvò l’Ungheria da una invasione su grande scala, ma non impedì la estinzione finale della Serbia. Nel 1457, Giorgio Brankovic morì, e suo figlio Lazar subito dopo, lasciando il territorio esposto alla invasione da parte del re Mattia Corvino diUngheria o di Mehmed II. Mehmed fu il primo ad agire. Nel 1458, un esercito sotto il comando del Visir serbo Mahmud Pasha invase, e in virtù tanto dell’astuzia politica di Mehmed che della sua forza militare, catturò Golubats, Smederovo e altre fortezze chiave, portando la Serbia sotto il controllo ottomano, e stabilendo il Danubio come il confine tra Ungheria e l’Impero Ottomano.

  Le conquiste che il Sultano fece nell’area dell’Egeo durante lo stesso anno furono meno estese ma probabilmente più lucrative. La caduta di Costantinopoli aveva allarmato i sovrani latini dell’area, che a ragione temevano che i loro stessi possessi fossero ora minacciati. Venezia, in particolare, temendo per la sicurezza di Negroponte, aveva annesso le isole Sporadi del nord  per formare una linea di difesa a nord e, allo stesso tempo, avviò negoziati con Mehmed. Questi portarono ad un trattato che consentiva ai Veneziani di commerciare liberamente e di mantenere una colonia con un bailo a Istanbul.

  Furono piuttosto le colonie genovesi che furono attaccate. Nel 1455 Mehmed mandò una flotta che si impadronì dei due insediamenti genovesi di nuova Fokaia e vecchia Fokaia sulla costa anatolica, con un occhio senza dubbio alle miniere di allume del distretto. Poi, nel freddo del Gennaio 1456, lui stesso guidò un esercito ad Enez, una colonia genovese nella Tracia occidentale, costringendo il suo signore, Dorino Gattilusio, ad arrendersi cedendo Enez e il suo salgemma, insieme con le isole di Samotracia, Imbros e Limni. Questi attacchi erano chiaramente premeditati. La cattura di Atene, comunque, fu opportunistica. Nel 1451, il duca fiorentino di Atene, Nerio II Acciaiuoli, era morto, e sia il nipote di Nerio che il nuovo marito della sua vedova si rivolsero al Sultano per averne appoggio alle loro pretese sulla città. La risposta di Mehmed fu di inviare Turahanoghlu Ömer ad occupare Atene. In quel momento i poteri cattolici nell’Egeo erano così allarmati dall’aggressione di Mehmed che nel 1456 il papa Callisto III e il suo precedente datore di lavoro, re Alfonso di Aragona, misero insieme una flotta anti-ottomana che nel 1457 riconquistò Imbros e Limni.

  Il successo della flotta di Papa Callisto aveva già reso consapevole Mehmed del pericolo di un intervento latino in Grecia e nell’Egeo, quando la probabilità  di ulteriori azioni dei latini  aumentò con la prevista alleanza matrimoniale  tra la figlia di Demetrio Paleologo, uno dei despoti bizantini del Peloponneso, e un nipote di re Alfonso di Aragona. Nel 1458, Mehmed invase. Alla fine della campagna gran parte del Peloponneso era sotto il suo controllo,mentre Demetrio aveva concordato di sposare la sua figlia a Mehmed e di lasciare il Peloponneso, accettando in appannaggio delle terre in Tracia e le ricatturate isole di Imbros e Limni. Comunque, egli non si decise a fare la mossa. Invece, combatté con suo fratello Tommaso, provocando un altro attacco ottomano nel 1460. Per la fine dell’anno, tutto l’ex Peloponneso bizantino era nelle mani di Mehmed, Demetrio era partito per i suoi nuovi territori e Tommaso era fuggito a Roma. Solo le colonie Veneziane rimanevano indipendenti dal Sultano.

  I successivi obiettivi di Mehmed erano le enclavi indipendenti che rimanevano lungo le coste meridionali del Mar Nero, con montagne che le dividevano dal territorio ottomano a sud. La prima di queste fu la colonia genovese di Amasra, che soccombette senza combattere nel 1459. Due anni  dopo Mehmed lanciò una seconda campagna, mandando una flotta lungo la costa del Mar Nero, mentre egli guidava il suo esercito via terra. Il suo primo obiettivo era Sinope, il territorio di Isfendyaroghlu Ismail. Come ad Amasra, la flotta  dal mare e l’esercito sotto le sue mura lo persuasero ad arrendersi. In cambio di Sinope, ricevette terre vicino Bursa. Mehmed, nel mentre, continuò la difficile marcia verso Trabzon, una enclave greca sotto il dominio di un Imperatore dei Comneni, la dinastia che aveva governato a Costantinopoli prima del 1204. La caduta di Trabzon nel 1461 portò alla fine dell’ultimo vestigio dell’Impero bizantino.

  La successiva campagna del Sultano, nel 1462, fu contro il signore ribelle di Valacchia, Vlad l’impalatore, che aveva rifiutato di pagare il tributo al Sultano, ucciso il suo agente e terrorizzato i territori Ottomani in Bulgaria. La fuga di Vlad e la sottomissione della Valacchia  portò gran parte delle coste occidentali del Mar Nero sotto il controllo ottomano, facendo dell’Impero Ottomano il potere dominante nell’area, una posizione che Mehmed migliorò nello stesso anno con la costruzione di due fortezze presso i Dardanelli per controllare il passaggio delle nati tra esso e il Mediterraneo. Fu anche nel 1462 che Mehmed continuò la sua guerra contro i genovesi conquistando l’isola genovese di Lesbo e portandola sotto il diretto governo ottomano.

  Il suo successivo obiettivo fu il regno di Bosnia. Nel 1463 condusse il suo esercito verso occidente, e entro l’anno il regno era caduto. La prima grande fortezza a capitolare fu Bobovac, e da lì l’esercito procedette verso Travnik. Udendo che il re era fuggito a Jajce,il Sultano mandò Mahmud Pasha al suo inseguimento. Mahmud Pasha alla fine catturò il re Stefano a Kljuć e con la sua esecuzione, il vecchio regno di Bosnia si estinse. Mahmud Pasha continuò la campagna impadronendosi di parte delle terre del duca Stefano Vukčić-Kosača in Erzegovina. Le terre che rimanevano al Duca furono prese da Mehmed nel 1466. La conquista di Serbia, Bosnia ed Erzegovina ora portò il confine ottomano con l’Ungheria lungo la Sava, e a sud lungo il Vrbas fino all’Adriatico.

  Nel 1463, mentre la campagna di Bosnia utilizzò la Maggior parte delle risorse di Mehmed, la guerra scoppiò nel Peloponneso. All’inizio dell’anno, Turahanoghlu Ömer si era impadronito della città Veneziana di Argos, e questo fu l’incidente che portò il senato Veneziano, allarmato già da un po’ di tempo per le conquiste di Mehmed nel Peloponneso e l’Egeo a dichiarare guerra.

  Dapprima gli eventi sembrarono giustificare i calcoli Veneziani. Per la fine del 1463 Venezia aveva ripreso Argos, ocupato Monemvasia e guadagnato controllo di Maggior parte del Peloponneso. Nell’Egeo, la flotta Veneziana catturò Limni. Diplomaticamente, Venezia aveva costruito un’alleanza che includeva il re di Ungheria, il Papa, il duca di Borgogna e nell’est, i Karamanidi. Il coinvolgimento dell’Ungheria produsse immediati risultati. Al ritiro di Mehmed dalla Bosnia, il re Mattia Corvino invase e catturò la fortressa di Zvečaj e Jajce, e l’anno successivo una flotta Veneziana attaccò Lesbo. Nel 1464, comunque, i piani Veneziani collassarono. L’attacco a Lesbo non ebbe successo e, sebbene la spedizione del Sultano in Ungheria mancò di riprendere Jajce, il suo esercito sotto Mahmud Pasha frustrò un tentativo ungherese di catturare Zvornik. In quello stesso anno, l’emiro di Karaman morì, minando i piani Veneziani per un alleanza ad oriente. Morì anche il  papa Pio II, e con lui i piani per una crociata. Nondimeno, il Senato Veneziano rifiutò una proposta di pace da Mahmud Pasha, confidando forse nel fatto che un nuovo alleato ad oriente distruggesse il Sultano ottomano.

  Questi era Uzun Hasan, il signore dell’Impero Akkyunlu che durante il quindicesimo secolo era  asceso a divenire un grande potere in Iran, Iraq e Anatolia sud-orientale. Nel 1464 Uzun Hasan si era rivelato un nemico del Sultano ottomano. La causa delle ostilità fu la successione dell’emiro di Karaman, che era morto lasciando sei figli da una principessa ottomana e uno, Ishak, da una madre differente. Per bloccare la successione di un parente di Mehmed II al trono di Karaman, Uzun Hasan intervenne e pose Ishak come emiro. Allo stesso tempo mandò una ambasciata a Venezia, proponendo un’alleanza anti-ottomana. Venezia accettò questa proposta, lasciando Mehmed a fronteggiare un’alleanza di Venezia e dell’Ungheria ad ovest e Uzun Hasan ad est. Quando, nel 1465, egli preparò una spedizione punitiva per salvare la sua posizione, le sue truppe si rifiutarono di combattere. La guerra costante le aveva lasciate esauste e impoverite.

  Nondimeno, l’alleanza non produsse nulla. Invece, nel 1465, Mehmed mandò una piccola forza a Karaman e cacciò Ishak, piazzando il suo cugino, Pir Ahmed, sul trono. Con il pericolo sorto al suo confine orientale, nel 1466 il Sultano condusse una spedizione  ad ovest. Il suo obiettivo era Scanderbeg – Giorgio Castriota – che aveva rioccupato i domini di suo padre nel 1444, e da allora aveva resistito ai tentativi Ottomani di ricatturare le sue terre. Per laf fine del 1466, l’esercito di Mehmed l’aveva confinato nella fortezza di Krujë. Nell’inverno, comunque, egli venne in Italia e, avendo ottenute truppe del re Ferrante di Napoli, fu capace di rompere l’assedio di Krujë e ricatturare i suoi territori perduti. Nel 1467 Mehmed invase di nuovo l’Albania, costringendolo a fuggire. Egli morì nel 1468, lasciando Krujë a Venezia. I Veneziani erano, di fatto, i beneficiari della lotta di Mehmed in Albania, usando l’opportunità nel 1466 di impadronirsi dell’isola di Imbros e delle terre intorno ad Atene. La risposta di Mehmed era stata di cominciare la costruzione di una flotta, forse per attaccare Negroponte, ma il contrattacco di Scanderbeg nel 1467 minò questi piani

  Egli non attaccò neanche i Veneziani nel 1468. Invece, preparò una campagna in Asia, il cui scopo originario erano forse i territori del Sultano mamelucco di Siria. Venne fuori, però, che il suo cugino karamanide, Pir Ahmed si rifiutò di unirsi alla campagna o di agire come guida, frustrando ogni piano di attaccare i Mamelucchi, dal momento che Karaman si estendeva tra il loro territorio e i regni anatolici del Sultano. Invece Mehmed attaccò Karaman, occupando molti dei domini di Pir Ahmed a nord dei monti Tauri e nominando suo figlio Mustafa come governatore. Una seconda campagna nel 1469 consolidò la sua posizione.

  Come l’assenza di Mehmed impegnato in Albania aveva dato a Venezia l’opportunità di catturare Imbros e una parte dell’Attica, la campagna karamanide diede al capitano generale Veneziano Niccolò da Canal l’opportunità nel Luglio 1469 di razziare Enez sulla costa della Tracia. Questa volta, comunque, la rappresaglia fu rapida. Nel Giugno del 1470 una flotta, che un osservatore stimò in quattrocento navi, lasciò i Dardanelli, mentre il Sultano conduceva un esercito via terra. La destinazione di entrambe le forze era Negroponte, l’isola Veneziana di fronte alla costa orientale della Grecia. La flotta ottomana era troppo numerosa perché Canal potesse combatterla ed egli rimase un osservatore nel momento in cui le truppe ottomane attraversarono un ponte dalla terraferma, saccheggiarono l’isola e catturarono la sua capitale, Chalkis. Con la caduta di Negroponte, Venezia aveva perso il suo più importante centro strategico e commerciale nell’Egeo, ma questo non fu l’unico colpo subito. Dopo la conquista dell’isola, una forza ottomana sotto il comando di Hass Murad Pasha – un rampollo della dinastia imperiale bizantina, ricatturò molte delle fortezze del Peloponneso che Venezia aveva conquistato a partire dal 1463.

  Nondimeno, a dispetto di questi disastri, Venezia rigettò un’offerta di pace che Mehmed fece nel 1471, sperando senza dubbio che un’alleanza con Uzun Hasan avrebbe portato ad una vittoria sul Sultano. Il conflitto tra Mehmed e Uzun Hasan era invero inevitabile, la questione essendo chi doveva dominare Karaman. A dispetto delle campagne ottomane del 1468 e del 1469, uno dei principi karamanidi, Kasim, si era ribellato e, durante l’assedio ottomano di Negroponte, aveva attaccato Ankara. In risposta, nel 1471 e 1472 Mehmed  mandò due spedizioni  a Karaman, sottomettendo non solo il nord del paese, ma anche l’interno montuoso fino alla costa mediterranea. Fu durante la seconda di queste campagne che Uzun Hasan attaccò, sostenendo di voler reinstaurare il fuggitivo Pir Ahmed sul trono di Karaman, e Kizil Ahmed, figlio di Isfendyaroghlu Ismail, a Sinope. In coincidenza con questa incursione,i Veneziani fecero raid distruttivi contro i porti Ottomani di Antalya e Izmir. Il figlio di Mehmed, il principe Mustafa, respinse l’incursione degli Akkoyunlu,ma solo dopo che essa aveva causato gran danno e catturato la città di Kayseri.

  In previsione di un altro attacco degli Akkoyunlu in Anatolia, i Veneziani, all’inizio del 1473, organizzarono un sabotaggio dell’arsenale navale ottomano di Gallipoli che ebbe parziale successo e in estate sbarcarono artiglieria sulla costa del Mediterraneo, pronta per essere presa in consegna da agenti di Uzun Hasan. A favore dei Karamanidi essi conquistarono Silifke ai piedi dei monti Tauri. Nel frattempo, Mehmed preparò un esercito per combattere Uzun Hasan e marciò verso est. Nel loro primo scontro, sull’alto Eufrate, all’inizio dell’Agosto del 1473, gli Akkoyunlus sconfissero un distaccamento dell’esercito ottomano ma, in una battaglia vicino Bayburt, Uzun Hasan fuggì, terrificato dall’artiglieria ottomana. Egli non aveva bocche da fuoco e non aveva recuperato quelle che i Veneziani avevano lasciato sulla spiaggia del Mediterraneo.

  La scofitta di Uzun Hasan permise a Mehmed di attaccare gli alleati del Sultano Akkoyunlu. Nel 1474 diresse raid dalla Bosnia nella terraferma Veneziana e cominciò una campagna contro le fortezze Veneziane in Albania con un assalto a Shkodër (Scutari) nel nord del paese. L’assedio fallì, probabilmente per paura di un attacco ungherese. Nello stesso anno, Gedik Ahmed Pasha condusse una campagna contro l’ultima roccaforte karamanide nella catena dei Tauri. Nel 1474 l’emirato di Karaman era estinto.

  Venezia nel frattempo continuò a credere che sarebbe stato ancora possibile concludere una pace col Sultano o costruire un’alleanza anti-ottomana coinvolgendo i signori italiani, il Re di Polonia, il Re di Ungheria o il Granduca di Moscovia. Le speranze aumentarono all’inizio del 1475, quando Süleyman Pasha, il comandante ottomano all’assedio di Shkodër condusse i suoi esausti uomini in Moldavia per punire il suo reggente, Stefano, per non aver pagato il tributo dovuto al Sultano. Stefano mise in rotta l’esercito di Süleyman Pasha, infliggendo pesanti perdite e aumentando le speranze dell’ambasciatore Veneziano presso il Sultano di poter negoziare una pace. Tutto quello che ricevette fu una promessa che la flotta ottomana non avrebbe attaccato i Veneziani per sei mesi. Gli Ottomani mantennero questa promessa dal momento che nel 1475 la flotta salpò contro la città genovese di Caffa (Fodosiya) in Crimea. L’occasione fu una richiesta di aiuto del Khan tataro di Crimea, le cui terre circondavano Caffa e che ora, come risultato di una faida nella famiglia regnante, si trovava rifugiato nella città. La flotta, sotto Gedik Ahmed Pasha, catturò prima Caffa, e poi la città genovese di Tana (Azov) allo sbocco del Don, e altre fortezza in Crimea. Il khan rifugiato, Mengli Giray, fu reinstallato nel khanato ma come vassallo del Sultano ottomano.

  La cattura delle città genovesi in Crimea e la sottomissione del Khan tataro confermò la già dominante posizione di Mehmed nella regione del Mar Nero, e fu presumibilmente per rinforzare il suo controllo di quest’area che condusse il suo esercito nel 1476 in un inconcludente campagna contro il ribelle Stefano di Moldavia. Quando il suo esercito ritornò ad Edirne nell’Autunno, egli ebbe notizia che durante la sua assenza gli ungheresi avevano costruito tre fortezza tra il Danubio e la Morava per bloccare l’accesso a Smederovo. A dispetto di un minacciato ammutinamento, il Sultano proibì al suo esercito di sciogliersi e invece lo condusse attraverso la neve verso la Morava. I fossati dei forti erano ghiacciati e fu avvicinandosi passando sul ghiaccio per porre delle fascine contro le mura e minacciando di dare loro fuoco che gli attaccanti forzarono la guarnigione ad arrendersi e così scongiurarono la minaccia a Smederovo.

  Le campagne contro la Crimea, ma la Moldavia e le fortezze ungheresi avevano distolto risorse ottomane da Venezia. Nel 1477 comunque, il Sultano attaccò la citta Veneziana di Lepanto (Navpaktos) nel golfo di Corinto e la vecchia cittadella di Skanderbeg, Krujë. Entrambi gli assedi fallirono, ma lo stesso anno vide un raid nella terraferma Veneziana. Nel 1478, ci furono rinnovati assalti  in Albania, dove il primo posto a essere messo sotto assedio era Shkodër. Fu anche l’ultimo a cedere. Prima che il Sultano arrivasse presso la città in persona, si era assicurato la caduta di Krujë. Giunto a Shkodër si rese conto che la cittadella non sarebbe caduta se non si fosse prima impadronito dei luoghi intorno. A tal fine mandò distaccamenti per catturare Zhabljak, Drisht e Lezhë. All’inizio dell’autunno il corpo principale dell’esercito partì, lasciando Evrenosoghlu Ahmed a continuare il blocco. Tentativi Veneziani di mandare rinforzi a Shkodër fallirono.

  All’inizio del 1479 il senato Veneziano capì che non c’era altra scelta se non di fare la pace col Sultano. Gli sforzi di creare un’efficace alleanza anti-ottomana avevano fallito e Venezia da sola mancava delle risorse per continuare la guerra. In Gennaio prese la decisione di cedere Shkodër, e nei negoziati che seguirono , cedette l’isola di Limni e accettò di pagare un tributo annuale di 10.000 ducati d’oro. La ratifica del trattato nell’Aprile del 1479 portò alla fine quella guerra di sedici anni.

  Ma non portò alla fine le ambizioni di conquista di Mehmet. I suoi pensieri ora erano rivolti probabilmente all’invasione della stessa Italia, dal momento che l’obiettivo successivo furono le isole Ionie di Levkas, Cephalonia e Zante. Il signore di queste isole era Leonardo Tocco, la cui moglie era una nipote di re Ferrante di Napoli. La sua rimozione era pertanto necessaria se le truppe ottomane dovevano attaccare il regno di Ferrante nel sud dell’Italia. Nel 1479, comunque, Gedik Ahmed Pasha si impadronì delle isole e, l’anno successivo attraversò l’Adriatico verso Otranto, all’estremità d’Italia, dove catturò e occupò la fortezza. Mentre Gedik Ahmed operava in Italia, il Visir Mesih Pasha condusse un attacco contro Rodi, la roccaforte dei Cavalieri di San Giovanni, che li metteva in grado di predare le navi che passavano tra l’Egeo e il Mediterraneo. Uno scopo dell’attacco era forse di preparare la via per una invasione dei domini Mamelucchi di Siria e Egitto, una operazione che sarebbe stata più sicura se il suotano poteva controllare il corridoio marittimo tra Istanbul e la costa del levante e l’Egitto.

  L’assedio fu un fallimento. Nondimeno nel 1481 il Sultano condusse col suo esercito una campagna ad oriente, apparentemente contro i Mamelucchi. Dopo pochi giorni di marcia da Istanbul egli morì. Il suo esercito non lo rimpianse. Invece, i giannizzeri tornarono ad Istanbul e assoggettarono la città a parecchi giorni di saccheggio finché, come misura temporanea, il Gran Visir piazzò il nipote di Mehmet, Korkud sul trono.

  Alla fine del suo regno Mehmed aveva consolidato ed esteso il territorio ottomano fino a comprendere, in Europa, gran parte delle terre tra il Danubio e la Sava a nord e il Peloponneso a sud. In Asia minore egli aveva aggiunto ai domini Ottomani parti della costa del Mar Nero, la valle dell’alto Eufrate e il vecchio emirato di Karaman. Questi due blocchi di territori dovevano costituire, nei secoli successivi, il cuore dell’Impero Ottomano.

  Il regno del figlio di Mehmed II, Bayezid II (1481-1512) doveva mostrarsi molto differente dai trent’anni di incessanti conquiste di suo padre. Una delle ragioni era la personalità del nuovo Sultano. In contrasto con suo padre, che si diceva egli odiasse, a Bayezid chiaramente non piaceva la guerra. Invero alcuni sudditi lo criticarono sommessamente per la sua riluttanza a condurre un esercito in battaglia. Comunque c’erano anche ragioni sociali e politiche. Con la prosecuzione delle sue guerre Mehmed non solo aveva spinto all’esaurimento i suoi uomini, ma aveva anche messo a dura prova le risorse fiscali dell’Impero. Egli aveva levato imposte sui possedimenti dei contadini, aveva svalutato la moneta d’argento e aveva, in modo ancora più controverso incamerato alcune proprietà private o appartenenti a enti caritativi e le aveva redistribuite come feudi militari. Questa misura aveva suscitato tanto scontento che una delle prime misure di Bayezid fu di restituire le proprietà ai titolari originari. E da ultimo, la sopravvivenza e la prigionia in Europa di suo fratello Gem significava che i poteri europei tenevano un ostaggio che garantiva la non-aggressione di Bayezis contro l’occidente.

  Il regno del nuovo Sultano iniziò con una guerra civile tra Bayezid e Gem. Lo scontro terminò con la fuga di Gem che si affidò alla protezione dei Cavalieri di San Giovanni, prima a Rodi e poi in Francia, dove la sua presenza come ostaggio politico nelle mani dei cavalieri doveva dominare la politica estera di Bayezid nella prima metà del suo regno. Nel 1483 egli convenne di pagare un tributo annuale a Rodi per la sicurezza di Gem, trasferendo il suo pagamento a Roma quando, nel 1489, Gem fu dato in custodia al Papa. Questo accordo con i cavalieri e successivamente col Papa era di cruciale importanza per scongiurare il pericolo sia di una guerra civile sia di una guerra con l’Europa cattolica. Allo stesso tempo egli prese altre misure per assicurare la pace. Rifiutò di consentire a Gedik Ahmed Pasha di ritornare ad Otranto e ratificò nel 1479 un trattato con Venezia liberando i Veneziani dall’obbligo di versare un tributo. Nel 1483, dopo una serie di razzie e contro-razzie attraverso il confine, stipulò una tregua di 5 anni con Mattia Corvino re d’Ungheria. Nel 1490, egli stabilì di non attaccare Venezia, gli stati papali o Rodi. Queste misure, egli sperava, avrebbero assicurato che Ungheria, gli stati italiani e i Cavalieri di San Giovanni non usassero Gem come un’arma contro l’Impero Ottomano. Con questi mezzi egli sperava di rendere saldo il suo trono.

  La necessità di assicurare la pace con l’occidente non significava comunque assenza di guerra. nel 1483 il governatore generale della Rumelia invase e alla fine annetté l’Erzegovina e nell’anno seguente Bayezid guidò una spedizione contro la Moldavia. Il pretesto erano i raid del voivoda Stefano contro la Bulgaria, i suoi sforzi distaccare la Valacchia dal vassallaggio rispetto al Sultano e gli attacchi a navi ottomane fatti da pirati con basi nel delta del Danubio. L’esercito di Bayezid catturò prima Kilia e poi Akkerman, entrambi importanti centri commerciali. Stefano contrattaccò nel 1485 ma non riuscì a riprendere la fortezza, un fallimento che confermava il dominio ottomano sul Mar Nero. L’anno 1485 vide anche l’inizio della guerra contro i Mamelucchi.

  Un conflitto tra questi due imperi islamici era probabilmente inevitabile. L’annessione ottomana del Karaman aveva portato gli Ottomani e i Mamelucchi al confronto diretto, con i monti Tauri che formavano un confine mal definito tra i due poteri. la questione di chi dovesse assicurarsi la lealtà delle tribù turcomanne della regione doveva rivelarsi una fonte di conflitto tra di essi, come lo fu l’aiuto che Bayezid mando al sul vassallo Alaeddevle di Dulgadir, le cui terre erano a ridosso sia del territorio ottomano che del territorio mamelucco. Nel 1485 la guerra scoppiò quando Bayezid rigettò le proposte di pace mamelucche e il governatore generale di Karaman occupò Adana e Tarso nella Çukurova.

  Nell’anno seguente, i Mamelucchi rovesciarono questi successi. Un esercito memelucco ricatturò Adana e poi, nella battaglia che seguì, catturò il governatore generale dell’Anatolia, Hersekzade Ahemd Pasha, e altri notabili Ottomani. Fu forse questa sconfitta che incoraggiò le tribù turcomanne dei monti Tauri a sollevare una ribellione anti-ottomana intorno alla figura del pretendente al trono di Karaman. Il Gran Visir ottomano Daud Pasha fu in grado di reprimere questa ribellione nel 1487, ma la posizione ottomana era nondimeno divenuta precaria. Consapevole che i Mamelucchi cercavano alleati cristiani e tentavano al contempo di far sì che Gem venisse liberato, Bayezid preparò una nuova campagna per il 1488. IN questo anno, come Hadim Ali Pasha  condusse un esercito nella Çukurova, Hersekzade Ahmed Pasha – liberato dalla prigionia al Cairo – si preparò ad appoggiarla con una flotta. Anche questa spedizione fu un disastro, con i Mamelucchi che si assicurarono una grande vittoria nella pianura tra Adana e Tarso. Nello stesso anno, il vassallo di Bayezid, Alaeddevle di Dulgadir, defezionò passando ai Mamelucchi. Allora, in 1490, come i Mamelucchi posero assedio a Kayseri, Bayezid si preparò ad andare in guerra di persona. Questa minaccia, sembra sia stata sufficiente a persuadere i Mamelucchi, che non avevano mai posseduto le risorse per sfruttare il loro vantaggio militare, a negoziare. In base alla pace conclusa nel 1491, gli Ottomani rinunciarono alle loro pretese alla Çukurova e alle sue città, e fu ripristinato il confine anteguerra tra i due poteri.

  Con la fine della guerra contro i Mamelucchi, Bayezid sperava di trarre vantaggio dalla instabilità politica dell’Ungheria seguita alla morte di Mattia Corvino e dalla apparente volontà della guarnigione di Belgrado di defezionare a favore degli Ottomani. Quando arrivò a Sofia nel 1492, la crisi politica in Ungheria era cessata con l’intronamento di un nuovo re. Invece, egli mandò raid entro l’Ungheria e la Transilvania mentre conduceva un esercito in Albania per sopprimere la ribellione di Giovanni Castriota che, secondo la tradizione della sua famiglia, non aveva riconosciuto la signoria ottomana a partire dalla morte di Mehmed II. La spedizione non fu del tutto coronata da successo: la ribellione albanese  continuò fino a poco dopo il 1500. La spedizione ebbe comunque una imprevista conseguenza. Come l’esercito ritornò attraverso Prilep un derviscio “nudo”, a piedi scalzi e a capo scoperto tentò di assassinare Bayezid. Il terrorizzato Sultano ordinò – invano, come risultò poi – l’espulsione di tutti i dervisci di tale setta dai suoi regni e, cosa più importante, si ritirò in una certa misura dall’occhio del pubblico. L’incidente segnò uno stadio nel processo graduale di allontanamento dei sultani dal contatto con i propri sudditi.

  Tre anni più tardi, nel 1495, Bayezid fronteggiò la crisi che aveva temuto per 15 anni. Nel 1594 il re francese Carlo VIII invase l’Italia, catturò Roma e assunse la custodia di Gem. Nel Gennaio 1495, con Gem come sua più potente arma, annunciò una crociata contro i turchi,provocando panico ad Istanbul e il rafforzamento delle sue mura per ordine di Bayezid. Per proteggersi da attacchi da ovest Bayezid negoziò un trattato triennale con l’Ungheria e attese l’invasione.

  L’invasione non ebbe mai luogo. In Febbraio Gem morì e gli eventi forzarono Carlo ad evacuare l’Italia lasciando Bayezid in grado di trattare più liberamente con i poteri europei. Per cominciare, ignorò la tregua con l’Ungheria, permettendo alle truppe ottomane di catturare alcuni forti ungheresi in Bosnia. Rispose anche all’appello del suo grande nemico, Stefano il grande, quando il re Giovanni Alberto di Polonia, rifiutando di accettare la sovranità ottomana sulla Moldavia provò a rimpiazzare Stefano col suo fratello, Sigismondo. Su richiesta di Stefano gli uomini di Bayezid espulsero le truppe del re e nel 1498 razziatori Ottomani e tatari fecero una devastante razzia nella Polonia. Bayezid riaprì anche le ostilità con Venezia. Era consapevole, comunque, delle deficienze del potere navale ottomano: i successi che suo padre aveva ottenuto sul mare erano dipesi da una schiacciante superiorità nel numero di navi e uomini. Nel 1498, dunque, Bayezid aumentò le dimensioni della flotta e ingaggiò corsari sperimentati come capitani navali. La pirateria doveva essere, nei secoli successivi, la più importante scuola di arte della navigazione e di guerra navale per i marinai Ottomani e i corsari dovevano provvedere gli ammiragli Ottomani di Maggior successo. Fu Bayezid che stabili lo stretto legame tra pirateria e flotta imperiale ottomana.

  La pirateria da entrambi di lati fu anche una delle cause di frizione che condusse alla guerra con Venezia. Nel 1499, il rimpatrio del corpo di Gem dall’Italia e il suo pubblico funerale rimossero la paura sempre presente che voci della sopravvivenza del principe avrebbero potuto incoraggiare il dissenso e in questo anno, Bayezid dichiarò guerra. La prima vittoria ottomana venne alla fine di Agosto, con la caduta di Navpaktos nel golfo di Corinto. Allo stesso tempo il Sultano mandò razziatori in territorio Veneziano in Dalmazia e poi in Friuli, convincendo i Veneziani che avrebbero dovuto cercare di terminare la guerra con la diplomazia. Comunque, l’ambasciata preso Bayezid fallì  e nel 1500, essi soffrirono serie perdite con la caduta in Agosto delle fortezze costiere di Methoni, Koroni e Navarino nel Peloponneso.

  Queste perdite incentivarono una ulteriore attività diplomatica Veneziana. Alla fine di Maggio 1501 i negoziatori avevano costruito una tripla alleanza tra il papato, Venezia e l’Ungheria e, in aggiunta, persuasero i re di Francia e Spagna a contribuire alla guerra. Con l’aiuto di questi alleati Venezia cominciò a registrare delle vittorie. In Dicembre del 1500, con rinforzi spagnoli occupò Cefalonia. Nel 1501 una flotta congiunta franco Veneziana attaccò Mitilene, la principale fortezza di Lesbo ma non riuscì nell’intento. Tuttavia nel 1502,con l’assistenza armata del papato, Venezia conquistò l’isola di Lefkada, stabilendo almeno temporaneamente un dominio nelle isole Ionie con il controllo di Corfu, Lefkada, Cefalonia e Zakynthos. Bayezid, comunque,  compensò questa perdita con la cattura nello stesso anno del porto Veneziano di Dürres nell’adriatico.

  Entro il 1502 la guerra aveva mandato in rovina Venezia e poiché Bayezid aveva ottenuto i suoi obiettivi, egli era disposto a trattare la pace. In base al trattato del 1503, mentre manteneva i privilegi commerciali, Venezia abbandonò Methoni, Koroni, Navpaktos e Dürres e cedette Lefkada a Bayezid. nello stesso anno, il Sultano concluse una tregua di sette anni con l’Ungheria. La guerra aveva portato a Bayezid importanti guadagni territoriali in Grecia. Lo scontro con gli artiglieri francesi all’assedio di Mitilene aveva insegnato agli artiglieri Ottomani le tecniche di artiglieria più aggiornate. Soprattutto, aveva stabilito l’Impero Ottomano per la prima volta come potere navale.

  Il trattato del 1503 segnò l’inizio di un disimpegno ottomano dall’Europa che doveva durare fino al 1521. Nelle prime due decadi del sedicesimo secolo, furono gli eventi all’est che dovevano preoccupare di più i sultani. Il primo segno di questi guai fu una rivolta nel 1500 dei turcomanni Turgut e Varsak dei monti Tauri, raccolti intorno ad un pretendente karamanide. Il Gran Visir, Mesih Pasha, fu capace di sopprimera la rivolta senza molto impegno. Questo comunque era stato un incidente locale, laddove le future rivolte in Anatolia dovevano acquisire un carattere internazionale ben più pericoloso. La ragione per questo era lo stabilimento della dinastia Safavide in Iran

  La dinastia prende il suo nome dal suo antenato, Safiy al-Din, leader all’inizio del quattordicesimo secolo di un ordine religioso ad Ardabil sul mar caspio. Durante il corso del quindicesimo secolo la natura dell’ordine cambiò quando i discendenti di Safiy al-Din cominciarono a proclamarsi divini e, allo stesso tempo, adottarono le dottrine dell’islam sciita. Con la pretesa di divinità venne anche una pretesa di potere politico e un attivo programma di proselitismo non solo in Iran, ma anche in Siria, e soprattutto in Anatolia. I sostenitori più attivi dell’ordine Safavide erano le tribù torcomanne dell’Anatolia, molte delle quali migrarono in Iran. Fu il supporto di questi uomini, conosciuti come kizilbash (“testa rossa”) dal loro caratteristico copricapo, che portò lo Shah Ismail al potere a Tabriz nel 1501. Furono loro che combatterono negli eserciti che sconfissero i suoi nemici in Iran e Iraq. Nel 1501 Ismail si impadronì di Tabriz e di tutto l’Azerbaijan; nel 1503, sconfisse l’ultimo Akkoyunlus ad Hamadan e estese il suo governo all’Iran centrale e meridionale. Nel 1504 conquistò le province di Mazendaran e gurgan sul mar caspio. Tra il 1505 e il 1507 annetté Diyarbekir a nord della Sira. Nel 1508 conquistò l’Iran sud-occidentale e Baghdad. Shirvan seguì nel 1509, e Korasan nel 1510. Nel giro di dieci anni, dunque, Ismail aveva stabilito un’entità politica che era alla pari dell’Impero Ottomano quanto a risorse; che nella sua professione sciita professava una religione che era ostile al sunnismo dei sultani Ottomani; e il cui leader messianico reclamava la fedeltà di molte migliagia di sudditi del Sultano.

  La reazione di Bayezid a questo nuovo pericolo fu molto cauta. Quando Ismail chiamò a raccolta i suoi aderenti a Erzincan nell’Anatolia orientale prima del suo ingresso a Tabriz, Bayezid mandò un esercito sul suo confine occidentale ma non intervenne. Dopo che Ismail ebbe proclamato se stesso Shah nel 1501, Bayezid ordinò l’arresto dei simpatizzanti Safavidi nei suoi regni e la loro deportazione nel Peloponneso. Chiuse anche il suo confine orientale per quanto poteva fare. Comunque, dal momento che non fermò anche il traffico carovaniero i missionari Safavidi furono in grado di entrare nei suoi regni attraverso questa via. Bayezid cercava di non provocare guerra. Egli era pronto, nel 1505, a ricevere unì’ambasceria da Ismail che avanzò pretese su Trebisonda e protestò per i raid che l’allora governatore di Trebisonda, il figlio di Bayezid Selim, aveva effettuato in territorio safavide. Nel 1507, anche Bayezid consentì allo Shah Ismail di attraversare il suo territorio in una campagna contro Dulgadir, di nuovo semplicemente mandando un esercito al confine come precauzione.

  La timidezza di Bayezid di fronte al pericolo costituito dai Safavidi furono il prodotto sia della sua età che della sua infermità. Queste furono le cause di un’altra crisi nei suoi ultimi anni, la lotta per la successione tra i suoi figli , Korkud, Ahmed e Selim.

  Fu durante  il corso di questo conflitto, nell’Aprile del 1511, che una terrificante ribellione scoppiò a Teke, nella Anatolia sud-orientale, l’area sotto il governo del principe Korkud. Il suo leader era un certo Shah Kulu – “schiavo dello Shah” il cui padre era stato al servizio del nonno dello Shah Ismail, Sheikh Hayder. Alla morte di suo padre, Shah Kulu aveva mandato agenti per fare proselitismo alla causa safavide  nella parte orientale della Rumelia, mentre i suoi aderenti locali a Teke pretendevano, come riporta il principe Korkud che “egli è dio, egli è un profeta. Il giorno del giudizio sarà di fronte a lui. Chiunque non obbedisce a lui è senza fede”. Non furono solo i credenti che si unirono alla ribellione. Secondo dei resoconti, molti dei suoi seguaci erano cavalieri, che sostenevano che dei truffatori li avevano privati dei propri feudi lasciandoli indigenti. Di fronte alla ribellione Korkud si ritirò a Manisa mentre i ribelli sconfiggevano la forza che egli aveva mandato contro di loro e occupavano Antalya. La vittoria successiva dello Shah Kulu nella sua avanzata verso nord fu contro il governatore generale dell’Anatolia, Karagöz Pasha. Come Shah Kulu si avvicinò a Kütahya, Karagöz Pasha attaccò di nuovo ma, in un contrattacco, Shah Kulu lo sconfisse e lo uccise, impalandolo e – secondo quanto riportato dal principe Korkud a Bayezid – arrostendo il suo corpo. Da Kütahya avanzò fino a Bursa. Fu per una urgente richiesta da Bursa  che finalmente in Giugno il Gran Visir Hadim ali Pasha e il principe Ahmed condussero una forza contro i ribelli, forzando Shah Kulu a ritorarsi nel Karaman e poi a Sivas. Hadim Ali, nel frattempo, lasciò il principe Ahmed e si pose all’inseguimento con un piccolo distaccamento di giannizzeri. Lo scontro vicino Sivas fu l’ultima vittoria di Shah Kulu. Egli sconfisse e uccise Hadim Ali, ma sembra che egli stesso rimanesse ucciso, lasciando i ribelli senza un capo a fuggire attraverso il confne verso l’Iran.

  La ribellione di Shah kulu aveva screditato sia il governo di Bayezid sia le pretese alla successione di Korkud, che aveva abbandonato Teke ai ribelli e Ahmed, la cui caccia ai ribelli era stata senza apprezzabili risultati. E’ chiaramente con questa consapevolezza che Selim si ribellò. Nell’Aprile del 1512 entrò nella capitale e dodici giorni dopo Bayezid abdicò a suo favore. Il vecchio Sultano morì nel Giugno seguente.

  Il regno di Bayezid, a dispetto della guerra civile al suo inizio e alla sua fine e della sconfitta nella guera contro i Mamelucchi segnava uno stadio importante nell’evoluzione dell’Impero. Il fallimento ottomano conto i Mamelucchi aveva indotto il Sultano a migliorare le armi dei giannizzeri e a rendere più stretto il controllo dei cavalieri nelle province. La sua ricostruzione della flotta e il suo incoraggiamento dei capitani corsari aveva prodotto una flotta che eguagliava quella di Venezia e aveva esteso il potere navale ottomano nel Mediterraneo. Le sue conquiste, in paragone a quelle di suo padre erano limitate ma nondimeno significative, estendendo il controllo ottomano sul litorale del Mar Nero e del Peloponneso e pacificando l’Albania. Più importanti comunque furono le sue innovazioni istituzionali. Fu Bayezid che iniziò la sistematica codificazione della legge consuetudinaria ottomana che, essenzialmente, regolava i rapporti tra gli assegnatari di feudi e i contadini sulla loro terra e le obbligazioni militari di tali assegnatari. Fu così nel regno di Bayezid che ciò che quelle che oggi si definiscono “istituzioni ottomane classiche” ricevettero la loro “classica” formulazione.

 

 

CRONOLOGIA: L’APOGEO DELL’IMPERO, 1512-1590

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  La Prima preoccupazione di Selim I (1512-1520), dopo essersi assicurato il trono, fu di sconfiggere e uccidere i suoi fratelli. Il suo obiettivo successivo fu la distruzione dei Safavidi e dei loro seguaci entro il suo regno. La sua campagna iniziò con una investigazione nelle regioni dove Shah Kulu e ribelli di minor conto avevano reclutato seguaci e continuò con la esecuzione di capibanda e la rimozione di assegnatari di feudi che avevano agito slealmente. Poi preparò l’attacco allo Shah Ismail. La fonte immediata che lo provocò fu l’aggressione safavide a Tokat nel 1512, nonché il sostegno dello Shah Ismail al principe Ahmed nella guerra civile e il fatto che aveva dato rifugio, subito dopo, al figlio di Ahmed, il principe Murad. Selim ottenne anche, in una mossa che chiaramente definiva una nuova pretesa degli Ottomani di essere i difensori dell’islam sunnita, una fatwa che dichiarava Ismail e i suoi difensori eretici, la cui distruzione era non solo legittima, ma anche obbligatoria. Con questo appoggio legale per la sua azione, Selim lasciò Istanbul per intraprendere la campagna contro lo Shah Ismail.

  Nell’Agosto del 1514 l’esercito di Selim ottenne una schiacciante vittoria  a Chaldiran in Azerbaijan. La cavalleria safavide, come Uzu Hasan nel 1473, non poté resistere all’artiglieria dall’accampamento fortificato al centro della linea di battaglia di Selim. Da Childiran Selim marciò verso est e entrò a Tabriz con l’intenzione  di continuare la campagna il successivo anno. I gianizzeri comunque rifiutarono di passare l’inverno a Tabriz, costringendolo a ritirarsi ad Amasya.

  A dispetto di questo smacco Selim non abbandonò la guerra contro i Safavidi, ma nei due anni seguenti la battaglia di Chaldiran li espulse dal sud-est dell’Anatolia e da gran parte dell’Anatolia orientale e dell’Iraq del nord. Egli ottenne questo in parte attraverso la persuasione. Il suo inviato era un uomo di cultura curdo e notabile, Idris di Bitlis, che aveva servito inprecedenza sotto i sovrani Akkoyunlu. Nel 1515 Selim lo mandò ad assicurarsi la alleanza dei capi curdi dell’Anatolia del sud-est e del nord dell’Iraq, e per la fine dell’anno tutti eccetto uno avevano riconosciuto la signoria di Selim. Tra i capi curdi fedeli a Selim c’era Sharaf al-Din, che offrì la sua alleanza a Selim in cambio del riconoscimento dei suoi diritti ereditari come sovrano di Bitlis.

  Il comandante delle operazioni militari fu Biykli (“che porta i mustacchi”) Mehmed Pasha, il conquistatore di Bayburd e Kigi, che Selim aveva installato come governatore di Erzincan dopo la vittoria a Chaldiran. La prima azione di Mehmed Pasha nel 1515 fu di assediare l’importante fortezza di Kemah nell’alto Eufrate. Kemah cadde in Maggio e, all’incirca nello stesso momento, imbaldanziti dalle vittorie ottomane e dalla propaganda di Idris, gli abitanti di Amid (Diyarbakir) si ribellarono contro i loro governanti Safavidi. La risposta safavide fu di sottometterla ad un assedio che durò fino a Settembre, quando Mehmed Pasha arrivò con una numerosa forza curda e prese possesso della città. Da lì procedette a Mardin e prese la città, ma non la cittadella. Nell’estate del 1516, la sconfitta ad opera sua dell’ultimo esercito safavide che rimaneva in Anatolia condusse alla sottomissine di Sincar, Ergani, Siverek, Birecik e Urfa. Alla fine della guerra, la cittadella di Mardin capitolò, estinguendo completamente il dominio safavide nell’Anatolia del sud-est, e dando all’Impero Ottomano un esteso confine con il reame mamelucco in Siria.

  Per allora, Selim aveva anche esteso la sua sfera di influenza fino ad includere Dulgadir e la regione di Adana, la scena delle sconfitte ottomane nella guerra del 1485-90. A Dulgadir sfruttò una frattura tra i membri della dinastia regnante. Nel 1514 Allaeddevle di Dulgadir si era rifiutato di partecipare alla campagna di Chaldiran, ma il suo nipote ribelle, Ali, aveva combattuto con l’esercito ottomano e, come ricompensa Selim l’aveva nominato governatore di Kayseri, un distretto i cui territori confinavano con Dulgadir. Nel 1515, con l’assistenza  di un esercito ottomano sotto il governatore generale della Rumelia, ali attaccò e sconfisse Alaeddevle e, come riconoscimento della vittoria, Selim lo nominò reggente del principato. Nello stesso anno, Selim ottenne evidentemente la fedeltà di Ramazanoghlu Piri, il governatore ereditario di Adana, dal momento che lo nominò governatore ottomano di Adana e dei distretti circostanti.

  I territori delle dinastie Ramazanoghlu e Dulgadir avevano formato una zona cuscinetto tra Ottomani e Mamelucchi, e l’imposizione della sovranità ottomana su entrambi, insieme con l’occupazione ottomana di Diyabekir doveva certamente rendere tese le relazioni tra Selim e il Sultano mamelucco, Qansuh Ghawri, epersuadere Qansuh a ricevere favorevolmente una ambasceria che arrivò dallo Shah Ismail, proponendo un’alleanza contro il Sultano ottomano. Consapevole della possibilità di una alleanza malelucco-safavide, nel 1516 Selim si preparò a condurre una spedizione in oriente. In Giugno, egli lasciò Istanbul, congiungendosi con la parte principale dell’esercito ad Elbistan nel territorio di Dulgadir. Sembra che a questo punto Selim fosse incerto se procedere verso est contro Ismail o se attaccare i Mamelucchi in Siria. Alla fine fu l’azione del Sultano mamelucco che lo costrinse a prendere una decisioine. Temendo una invasione ottomana Qansuh aveva guidato il suo esercito dal Cairo ad Aleppo e aveva anche, come scoprì Selim, cercato aiuto presso lo Shah Ismail. Selim chiaramente  non poteva attaccare Ismail con una armata mamelucca al suo confine.

  All’inizio di Agosto, comunque, cominciò la marcia contro Qansuh. Il 24 Agosto gli eserciti  si incontrarono a Marj Dabiq, a nord di Aleppo, e, di nuovo sembra che sia stata la superiorità dell’artiglieria ottomana ad aver provocato la rotta dei Mamelucchi. Lamorte in battaglia del Sultano mamelucco e la fuga dell’esercito egiziano consentì a Selim di occupare la Siria quasi senza resistenza. All’inizio di Ottobre 1516 egli entrò a Damasco e, non essendovi alcuna truppa egiziana a nord della penisola del Sinai, nominò governatori Ottomani di Aleppo, Damasco, Tripoli, Gerusalemme e altri distretti della Siria, del Libano e della Palestina. A questo stadio sembra che non avesse ancora deciso di invadere l’Egitto. I pericoli dell’attraversamento del deserto del Sinai, e il pericolo di un attacco da Ismail  consigliavano cautela. Alla fine, comunque, le esortazioni di Khairbay, un ex comandante mamelucco del suo entourage, e l’azione del successore di Qansuh, Tumanbay, che scatenò un contrattacco a Gaza e giustiziò un ambasciatore ottomano condusse Selim ad abbandonare le sue cautele. All’inizio  del Gennaio del 1517 lasciò Gaza, attraversò il deserto col suo esercito e, alla fine del mese, sconfisse l’esercito di Tumanbay a Raydaniyya, fuori del Cairo. Rimase al Cairo fino alla fine dell’anno. Trascorse l’inverno del 1517-1518  a Damasco, pianificando una nuova campagna. Quando, tuttavia, l’esercito si riunì a Maggio sull’eufrate, esso si rifiutò di muoversi ulteriormente. Per la seconda volta le ambizioni di Selim avevano perso il contatto con  la capacità delle sue truppe.

  Egli tuttavia continuò a pianificare, ad estendere l’arsenale navale ad Istanbul e a preparare una grande flotta, la cui destinazione i Veneziani supposero fosse Rodi. Assunzione ragionevole dal momento che, fino a quando Rodi rianeva inpossesso dei cavanleri di malta, la rotta via mare tra Istanbul e le province di Egitto appena conquistate non sarebbe stata mai sicura. Questi preparativi navali segnarono uno stadio importante nell’emergere dell’Impero Ottomano  come potenza marittima, coincidendo, come essi coincisero, con un’espansione del territorio musulmano nel Mediterraneo occidentale. Questo fu il risultato di una impresa privata. Nella prima decade del sedicesimo secolo due fratelli, Hayreddin Barbarossa e Uruj, erano stati attivi come pirati  lungo le coste meridionali e occidentali dell’Anatolia, godendo della protezione del figlio di Bayezid, Korkud. L’esecuzione di Korkud da parte di Selim e la persecuzione dei suoi sostenitori nel 1513 costrinse i fratelli a fuggire nelle coste del Nordafrica, dove si stabilirono non semplicemente come pirati, ma alla fine come signori di Tunisi e Algeri. Nel 1519, comunque Hayreddin si trovò in una posizione difficile. Suo fratello era morto; sul continente egli frontggiava una opposizione politica locale; e sul mare fronteggiava il potere marittimo della Spagna. Egli quindi aveva bisogno di un protettore  e lo trovò nel Sultano Ottomano. Tunisi e Algeri divennero province ottomane semi-autonome, estendendo il potere del Sultano nel Mediterraneo occidentale e segnando l’inizio di un lungo conflitto con la Spagna.

  Selim morì nel 1520. Il suo regno di otto anni aveva raddoppiato le dimensioni dell’Impero che aveva ereditato agiungendo ad esso il precedente territorio safavide nell’Anatolia orientale e sud-orientale; tutti i territori dell’Impero mamelucco in Egitto, Siria, Libano, Palestina ed Hejaz; e in aggiunta Tunisi ed Algeri nel Nordafrica. L’acquisizione dai Mamelucchi delle tre città di Medina, Mecca e Gerusalemme diede ai sultani Ottomani la supremazia tra i monarchi musulmani e avallarono la pretesa di Selim di essere il solo difensore ell’ortodossia islamica contro l’eresia safavide. Comunque, a fronte di questa gloria ci fu anche un memento della forza della propaganda safavide e della opposizione al governo ottomano in Anatolia, specialmente tra i popoli tribali. Nel 1519 apparve nel’Anatolia centrale un ribelle ispirato alla religione chiamato Jelal, le cui pretese di divinità richiamavano quelle di Shah Kulu. Le truppe ottomane soffocarono l’insurrezionie solo con la più grande difficoltà.

  La successione a Selim I fu pacifica, dal momento che il suo unico figlio, Süleyman, non aveva fratelli che gli disputassero il trono. In Siria, comunque, egli fronteggiò subito una sfida, quando il governatore generale di daasco, Janbedi Ghazali, un ex mamelucco che si era aleato con Selim, si dichiarò sovrano indipendente. Una campagna condotta da Shehsuvaroghlu Ali di Dulgadir e dal governatore generale della Rumelia immediatamente soppressero la ribellione di Janberdi, mentre il nuovo Sultano si preparava per la sua prima campagna. Al momento della sua ascesa al trono egli mandò un ambasciatore al principe Lajos di Ungheria per rinnovare il trattato che suo padre aveva concluso con il re. Lajos, però, forse aspettandosi che Janberdi avesse la meglio, trattò con disprezzo l’ambasciatore. Nel 1521, dunque, Süleyman condusse la sua prima campagna contro l’Ungheria.

  L’obiettivo della spedizione era Belgrado e in Luglio il Sultano mandò il Gran Visir avanti con una piccola forza per assediare la città. Lui stesso, invece di andare dritto a Belgrado, assediò e catturò Šabac sulla Sava a ovest, mandando una forza armata attraverso il fiume a saccheggiare il territorio tra essa e il Danubio. Questa azione diversiva non aveva alcuno scopo, e se il Gran Visir non avesse disobbedito all’ordine di congiungersi con Süleyman a Šabac, è improbabile che Belgrado sarebbe caduta. Comunque, la città aveva una guarnigione di soli settecento uomini e, senza un’azione di soccorso da parte del Re, cadde alla fine di Agosto del 1521. Questa fu la prima grande vittoria di Süleyman. Per la seconda campagna del suo regno, Süleyman fu capace di fare uso della marina di suo padre. Nell’estate del 1522, una flotta e un esercito partirono per Rodi, il Sultano stesso viaggiando via terra fino a Marmara. Nel Dicembre del 1522, dopo un assedio di cinque mesi, e a dispetto della forza delle fortificazioni, Rodi capitolò. Il primo Gennaio 1523 i Cavalieri di San Giovanni  lasciarono l’isola. Il loro ordine, comunque continuò ad esistere e, dalla loro nuova base di Malta, continuarono ad abbordare navi musulmane.

  La conquista di Belgrado e di Rodi erano doppiamente importanti. In primo luogo, stabilivano la reputazione di Süleyman come del Sultano che aveva avuto successo laddove i suo grande antenato, Mehmed il conquistatore, aveva fallito. In secondo luogo, entrambi i luoghi erano strategicamente importanti. Belgrado alla confluenza del Danubio e della Sava era la chiave per conquistare l’Ungheria dal sud. Rodi occupava una posizione di rilievo nei confronti dei bracci di mare  che conducevano dal Mediterraneo verso l’Egeo e in particolare la rotta tra Istanbul e l’Egitto.

  La spedizione successiva di Süleyman sfruttò la sua vittoria a Belgrado. Le relazioni diplomatiche con l’Ungheria non erano migliorate e allora, nel 1525, i giannizzeri si ribellarono lamentando che la mancanza di campagne li aveva privati dell’opportunità di bonus e di saccheggi. Nel 1526, Süleyman condusse il suo esercito in Ungheria e il 29 Agosto mise in rotta l’esercito ungherese a Mohacs. Il fuoco dell’artiglieria ottomana si era dimostrato fatale per la cavalleria pesante ungherese. In Settembre Süleyman entrò a Buda, la capitale, lasciandola dieci giorni dopo facendo scoppiare  una crisi che doveva occuparlo attraverso tutto il suo regno. Fu una crisi, in Anatolia, a costringerlo a ritornare in fretta ad Istanbul. In un momento in cui l’esercito imperiale era vittorioso in Ungheria, una ribellione era scoppiata nell’Anatolia centrale, che richiedeva un deciso intervento di forza  per essere riportata sotto controllo. Così nel 1527, una seconda e più feroce ribellione sotto la guida di un derviscio millenarista chiamato  Kalenderoghlu sconfisse l’esercito che Süleyman avava mandato a sopprimerlo. Ci volle l’abilità politica del Gran Visir Ibrahim Pasha, per sconfiggere i ribelli. Il problema era che il 1522 aveva visto l’annessione ottomana di Dulgadir, e l’esecuzione del suo ultimo sovrano indipndente Shehsuvaroghlu Ali. Allo stesso tempo, gli assegnatari di feudi di Dulgadir avevano perso i loro feudi, cosa che aveva condotto molti di loro ad unirsi alla ribellione di Kalenderoghlu. Con la promessa della restituzonie dei loro feudi, Ibrahim Pasha li staccò dal nucleo di ribelli, per poi vincere in battaglia questo gruppo di diminuita consistenza. Questa non fu l’ultima ribellione. Ci furono ulteriori sollevazioni nella Čukurova nel 1528 e, per il resto del secolo, fu solo stabilendo una rete di informatori, particolarmente contro i simpatizzanti dei Safavidi, che Süleyman e i suoi successori mantennero ordine in Anatolia.

  La più grave crisi politica comunque, fu in Ungheria. Il re Lajos aveva perso la vita nella battaglia di Mohacs e, quando Süleyman lasciò il paese nel 1526, il trono ungherese era vacante. In Novembre, gli stati ungheresi elessero Janos Szapolyai come suo successore. Comunque l’Arciduca Ferdinando d’Austria, della famiglia degli Asburgo, fratello del sacro romano imperatore e re di Spagna Carlo V, e fratellastro di re Lajos – non accettò la decisione e, in Dicembre, si fece incoronare re di Ungheria. L’arbitro della disputa fu il vincitore di Mohacs e nel 1528 Süleyman, non sorprendentemente, accettò Szapolyai come re. Ferdinando rigettò la decisione e occupò Buda. La campagna di Süleyman del 1529 fu l’inizio di un conflitto ottomano-asburgico che doveva durare fino al ventesimo secolo. Il Sultano marciò sull’Ungheria, rioccupò Buda, e in autunno cinse d’assedio vienna. Il 14 Ottobre Süleyman, contrastato dal maltempo e da una difesa molto determinata, si ritirò. Nel 1530 Ferdinando assediò Buda di nuovo. Non ebbe successo, ma la sua occupazione della parte occidentale del regno di Ungheria e le sue continue pretese alla corona ungherese resero necessario per Süleyman intervenire ancora una volta in aiuto di re Szapolyai. La campagna non fu di conquista: l’esercito ottomano riuscì solo, dopo un lungo assedio, a catturare Koszeg e a fare raid in Stiria, ma fu sufficiente per costringere gli Asburgo ad una tregua. Un accordo del 1533 confermò la divisione esistente dell’Ungheria, con Ferdinando e Szapolyai che governavano i rispettivi territori come tributari Ottomani.

  La tregua rese possibile a Süleyman di intraprendere una campagna contro i Safavidi, per la quale il pretesto era stato fornito da due eventi. Dapprima, nel 1528, un governatore safavide di Baghdad aveva offerto la città agli Ottomani e, sebbene lo Shah Tahmasb I lo aveva giustiziato poco dopo, l’offerta fornì il pretesto per successive pretese. Successivamente, Il governatore safavide dell’Azerbaijan, Ulama Tekelu, aveva abbandonato gli Ottomani nel 1530 e allo stesso tempo orchestrato la disgrazia di Sharaf al-Din di Bitlis, che allora offrì la sua lealtà a Tahmasb. Ordinando ad Ulama di catturare Bitlis, cosa che questi non fece, Süleyman preparò una campagna. Nel 1533, il Gran Visir ibrahim Pasha riprese Bitlis e, nel 1534, occupò Tabriz senza alcuna resistenza da parte dello Shah. In quello stesso anno, Süleyman si unì con le sue truppe a Ibrahim Pasha a Tabriz e poi condusse l’esercito a Baghdad che si arrese alla fine di Novembre,di nuovo senza resistenza. Da Baghdad, l’esercito intraprese una difficile marcia attraverso i monti Zagros verso Tabriz. Quando il Sultano ritornò ad Istanbul nel 1536, egli aveva aggiunto all’Impero Baghdad, Erzurum e, temporaneamente, Van.

  A dispetto del suo successo in terra nel rendere sicuri i confini occidentali e nell’espandere i suoi territori orientali, Süleyman capì chiaramente che il suo potere marittimo non era eguale a quello delle flotte cristiane riunite. In particolare la flotta spagnola con base a Messina e le navi dei Cavalieri di San Giovanni rimasero un pericolo costante e fu presumibilmente con questo in mente che invitò Hayreddin Barbarossa a venire da Algeri per servire come ammiraglio. La minaccia spagnola si concretizzò due anni più tardi quando, nel 1535, Carlo V – sacro romano imperatore e re di Spagna – condusse personalmente una spedizione contro Tunisi. Questa vittoria spagnola, insieme con lo scoppiodella guerra con Venezia l’anno seguente, condussero Süleyman ad accettare le proposte di alleanza del re di Francia Francesco I, che necessitava di un alleato contro il suo arcinemico Carlo V.

  Nel 1537 Süleyman e Francesco pianificarono un attacco combinato ai territori asburgici in italia. Francesco doveva invadere la lombardia, mentre Süleyman doveva lanciare un attacco via mare dall’Albania al regno di Napoli, con l’assistenza della flotta francese. Il piano fallì, Francesco non invase l’Italia e in Agosto, invece di invadere Napoli, il Sultano assediò l’isola Veneziana di Corfù mandando razziatori contro Bridisi e Otranto dalle quali si ritirò quando non gli giunsero notizie dell’avvicinarsi del re di Francia. Anche l’assedio di Corfù si rivelò un fallimento e in Settembre Süleyman si ritirò. Nondimeno, la guerra con Venezia continuò. Nel 1538 Barbarossa catturò gran parte delle isole Veneziane nell’Egeo che erano rimaste in mani Veneziane, incluse Naxos, Paros, Santorini e Andros. La risposta Veneziana fu di cercare alleati e in Febbraio del 1538 la Lega Santa di Papa Paolo III, Carlo V, Ferdinando d’Austria e Venezia venne ad esistenza. Il momento per agire venne nello stesso anno quando, dopo la cattura spagnola di Kotor sulla costa dalmata, la sua flotta combinata sotto Andrea Doria intrappolò le navi di Barbrossa nel Golfo di Prevesa. La battaglia che seguì fu la più famosa vittoria di Barbarossa. Dopo aver sconfitto gli alleati, egli riprese Kotor, forzando la guerra a raggiungere una conclusione nel 1540. In base al trattato di quell’anno Venezia cedette a Süleyman le isole che Barbarossa aveva catturato nell’Egeo, e anche Monemvasia e Navplion nel Peloponneso.

  Süleyman nel frattempo aveva condotto le sue truppe nel 1538 contro il voivoda di Moldavia, Petru Rareş, che non aveva pagato il tributo dovuto al Sultano, e che Süleyman sospettava di collaborare con Ferdinando e di incitare il re di Polonia. In conseguenza dell’invasione, Süleyman annetté il sud est della Moldavia, incluso il porto di Bendery sul Dniestr, completando così il collegamento via terra tra Istanbul e la Crimea.

  Gli anni ’40 del 1500 videro un rinnovarsi del conflitto asburgico-ottomano e di nuovo, come nel decennio precedente, il suo punto focale fu l’Ungheria, con un teatro di guerra sussidiario nel Mediterraneo. La fonte del conflitto era un trattato che Ferdinando di Austria aveva concuso con il re Szapolyai nel 1538. In base ai suoi termini, ciascuno riconosceva il territorio dell’altro, ma le terre di Szapolyai sarebbero passate alla sua morte a Ferdinando, facendone il solo sovraano dell’Ungheria. Nel 1540 il re Szapolyai morì, lasciando un figlio minorenne che il vescovo di Varasd, Giorgio Martinuzzi, si adoperò per fare eleggere come re a Buda. Ferdinando cercò immediatemente di far valere le sue pretese e in Settembre prese d’assedio Buda. L’operazione fu un fallimento, ma nondimeno il suo esercito catturò Vác, Visegrad e Székesfehervár. Nel 1541 egli tentò di nuovo, ma Martinuzzi  resistette sufficientemente a lungo perché l’armata del Sultano venisse e mettesse in rotta gli assedianti. Alla fine di Agosto, comunque, quando i Giannizzeri occuparono la cittadella di Buda, divenne chiaro a Martinuzzi che Süleyman non intendeva dichiararlo reggente di Ungheria. Invece, il Sultano nominò un governatore generale ottomano per la parte centrale del Regno di Ungheria e nominò il minore Giovanni Sigismondo come re di Transilvania – la parte più orientale del Regno – sotto la tutela di Martinuzzi che, frustrato nelle sue ambizioni, prese contatto con Ferdinando.

  L’assedio di Ferdinando a Buda era solo una delle azioni degli Asburgo contro Süleyman nel 1541. Nello stesso anno, in coincidenza con l’assalto all’Ungheria, e sperando senza dubbio di ripetere il successo che aveva ottenuto a Tunisi nel 1535, Carlo V condusse un attacco ad Algeri. L’impresa finì in un disastro. Dopo che Hasan agha ebbe respinto gli assedianti una violenta tempesta distrusse gran parte della flotta spagnola. L’offensiva degli Asburgo del 1541 condusse non solo a una sconfitta sul campo, ma incoraggiò anche Francesco I re di Francia a rinnovare l’alleanza con Süleyman contro il loro comune nemico asburgico. Nella tarda estate del 1542, quando l’esercito di Ferdinando attaccò Buda per la terza volta, un ambasciatore francese conduceva negoziati ad Istanbul. Egli ritornò con l’accordo per una azione congiunta nel 1543. Nella primavera di quell’anno Süleyman condusse il suo esercito in Ungheria, estendendo  i propri confini fino ai territori ad occidente del Danubio con la cattura di Valpo, Siklos, Pecs, Székesféhervar e Esztergom. Nel frattempo, la sua flotta sotto il comando di Hayreddin Barbarossa prese d’assalto Nizza e svernò nel porto francese di Tolone.

  Per quanto l’apparire della flotta di Süleyman nel Mediterraneo possa essere sembrata minacciosa agli Asburgo, il danno era solo temporaneo. Barbarossa si era appoggiato ai francesi e una pace tra Carlo V e Francesco I pose temporaneamente fine alla cooperazione franco-ottomana. In Ungheria, comunque, la guerra continuava. Süleyman stesso non condusse più spedizioni, ma nel 1544, il governatore generale di Buda catturò ulteriori fortezze asburgiche, incluso Nógrad, Hatvan e Simontornya nel nord-est di Buda. Nello stesso anno Ferdinando fece le prime mosse verso la pace. Nel 1545 lui e il suo fratello Carlo V mandarono ambasciatori ad Istanbul. Nel 1547 conclusero un trattato valido cinque anni con Süleyman, che confermava lo status quo  territoriale. Ferdinando, comunque, rinunciò alle sue pretese sul regno di Ungheria e convenne di pagare 30.000 ducati ogni anno per il territorio ungherese che egli continuava a governare. Per Süleyman, il trattato aveva anche un significato simbolico, dato che il testo non si riferiva più a Carlo come “imperatore”, ma semplicemente come “re di Spagna” e fu da questo momento che il Sultano ottomano si considerò “imperatore dei romani” o “Cesare”.

  La pace con gli Asburgo, come la pace nel 1533, lasciò Süleyman libero di condurre una spedizione contro l’Iran, il pretesto per l’azione essendo la rivolta del fratello dello Shah Tahmasb, Alqass Mirza, che aveva trovato rifugio presso la corte ottomana. All’inizio del 1548, il Sultano mandò Alqass ai confini. Lui stesso seguì in Aprile e, a Luglio, di nuovo occupò Tabriz senza resistenza. Comunque, dopo soli cinque giorni, egli ritornò verso ovest e pose sotto assedio Van, una fortezza che i Safavidi avevano ricatturato dopo la spedizione di Süleyman del 1533-36. Van cadde in Agosto e il Sultano si ritirò ad Aleppo per l’inverno. Nel 1549, le sue truppe intrapresero una spedizione per rendere sicura la frontiera nord-orientale contro raid dalla georgia, ma nel suo principale obiettivo la campagna fu un fallimento. Shah Tahmasb catturò suo fratello Alqass Mirza, facendo cessare ogni speranza che Süleyman potesse profittare della ribellione. Alla fine del 1549 il Sultano fece ritorno ad Istanbul.

  Durante la sua assenza, gli eventi in Ungheria avevano di nuovo portato al conflitto con gli Asburgo. Ferdinando non contravvenne al trattato del 1547 lanciando un attacco diretto, ma invece, aprì negoziati con Martinuzzi che, nel 1549, consentì a cedergli la Transilvania. Süleyman apprese di questi sviluppi attraverso l’ambasciatore francese e ordinò al governatore generale di Buda di intervenire. Comunque, né il governatore generale, né l’appello della madre di Giovanni Sigismondo, Isabella, poterono far cambiare idea a Martinuzzi che nel 1551 la costrinse a cedere la corona di Transilvania. Come era avvenuto una decade addietro questi eventi ebbero conseguenze di portata internazionale. Avvantaggiandosi della preoccupazione del Sultano per la Transilvania l’ammiraglio di Carlo V, Andrea Doria, nel 1550 catturò Mahdia e Monastir sulla costa Tunisina, le roccaforti del corsaro turco Turgud Reis. A sua volta, questa crescita del potere asburgico allarmò così tanto i Francesi che all’inizio del 1551 il re francese Enrico II, propose che lui e il Sultano formassero un’alleanza. Le loro flotte, egli suggerì dovevano cooperare nel Mediterraneo, mentre la Francia invadeva il Piemonte e i Turchi attaccavano la Transilvania.

  L’alleanza si rivelò un insuccesso come i tentativi passati di cooperazione. Nel 1551, il papa negoziò una pace in Piemonte, la flotta francese rimase all’ancora a Marsiglia e una invasione della Transilvania da parte del governatore generale della Rumelia, Sokollu Mehmed Pasha, fallì. La mobilitazione della flotta ottomana, comunque ebbe una importante conseguenza. Dopo il suo successo contro Mahdia e Monastir, Andrea Doria attaccò l’isola di Jerba, davanti alla costa dela Tunisia, quasi riuscendo a prendere Turgud prigioniero. Come rappresaglia, Süleyman ordinò all’ammiraglio, Sinan Pasha, di attaccare Malta. Dopo aver fatto un raid in Sicilia, Sinan si ancorò di fronte a Malta ma tutti gli assalti contro l’isola fallirono e la flotta francese non apparve. Invece, una parte della flotta ottomana si separò per andare verso il Nordafrica e assediare Tripoli che i Cavalieri di San Giovanni avevano occupato nel 1530. Tripoli cadde nell’Agosto del 1551. Nel frattempo, le parti in guerra cercavano senza successo delle alleanze, Carlo V con lo Shah Tahmasb e Süleyman ed Enrico II con i principi protestanti della Germania.

  Da questi approcci non scaturì nulla e gli sforzi per mettere in piedi una azione franco-ottomana non ebbero più successo che nell’anno precedente. La flotta ottomana prese il mare ad Aprile e incrociò davanti alla costa occidentale del regno di Napoli, ma non prese contatto con la flotta francese fino a Settembre, alla fine della stagione nautica. Per allora, però, Carlo V ed Enrico II avevano fatto la pace.

  Lo stesso anno della sopra illustrata inconcludente campagna navale, vide un’altra crisi in Transilvania. Nel Dicembre del 1551 Martinuzzi fu ucciso e un mercenario spagnolo prese il potere al suo posto. Subito dopo ci fu una ribellione a Szeged. Per superare le due crisi furono necessarie due campagne. Per cominciare, il governatore generale di Buda soppresse la ribellione e poi in Maggio il secondo Visir, Kara Ahmed Pasha, condusse una spedizione in Ungheria. Apprendendo di questa campagna anche il governatore generale iniziò un’offensiva, catturando Veszprem e poi un numero di fortezze più piccole a nord di Buda. Kara Ahmed Pasha, nel frattempo si impadronì di Temesvar e Lipova in Transilvania, e poi, unendo le sue forze con quelle del governatore generale, si impadronì di Szolnok. La campagna si chiuse con un tentativo privo di successo di assediare Eger.

  La campagna del 1552 fu solo un successo parziale. Condusse all’occupazione ottomana di Temesvar e alla conquista di una parte delle Transilvania, ma non reistallò Giovanni Sigismondo e sua madre né fece cessare le pretese di Ferdinando al regno di Ungheria. Convinse però Süleyman che il suo confine occidentale fosse sicuro a sufficienza da intraprendere la sua terza campagna contro l’Iran, scatenata dai raid Safavidi del 1551. La spedizione non ebbe successo, come quella del 1548-49. Süleyman avanzò fino a Nakhichevan, ma una volta ancora le tattiche di Tahmasb di fare terra bruciata lo forzarono a ritirarsi. Perdipiù lo Shah Tahmasb in questa occasione oppose una resistenza armata, sconfiggendo il governatore generale di Erzerum fuori della città e catturando alcune fortezze alla frontiera. La fine delle ostilità fu segnata dal trattato di Amasya nel 1555, che confermò le frontiere esistenti tra l’Iran e l’Impero Ottomano.

  I negoziati principali ad Amasya avvennero tra Süleyman e lo Shah Tahmasb. Vi furono discussioni sussidiarie tra Süleyman e Ferdinando. In questa, Süleyman pose come condizione della pace con Ferdinando, che questi abbandonasse le sue pretese sul trono di Transilvania, cosa che Ferdinando era riluttante a concedere. La risposta di Süleyman fu, l’anno successivo, di ordinare al Governatore generale di Buda di catturare la fortezza di confine di Szigetvár, nella Transdanubia meridionale. L’assedio fallì, ma causò sufficiente allarme negli stati transilvani da votare a Giugno per reinstallare Giovanni Sigismondo ed Isabella. Il loro ritorno a Cluj nel Settembre del 1556 pose fine alla crisi della corona transilvana.

  Lo stesso anno vide anche un cambiamento nella configurazione politica dell’Europa dell’est. Nel 1556 Carlo V abdicò. Suo figlio Filippo II ereditò il regno di Spagna e i paesi bassi spagnoli, ma non la corona del Sacro Romano Impero. Filippo intavolò negoziati con Enrico II per cessare le ostilità tra la Francia e la Monarchia asburgica, che aveva indotto il Sultano ad allearsi con la Francia e la cui ultima manifestazione era stata una campagna navale franco-ottomana contro il regno spagnolo di Napoli nel 1555. Gli alleati avevano catturato alcune fortezze ma non vi stabilirono guarnigioni permanenti. Nel 1559, comunque, filippo II di Spagna e Enrico II di Francia conclusero una pace a Cateau-Cambresis privando Süleyman di un alleato contro la Spagna e consentendo a Filippo di proseguire la guerra contro gli Ottomani nel Mediterraneo senza paura della Francia. Il punto focale di queste ostilità era la costa del Nordafrica. Nel 1556 l’ammiraglio ottomano, Piyale Pasha, in cooperazione con il governatore generale di Algeri aveva catturato la fortezza spagnola di Wahran ad ovest di Algeri. L’anno successivo, Piyale conquistò Bizerta vicino Tunisi e nel 1558 razziò Ciudadela a Minorca. La risposta di Filippo fu di occupare l’isola di Jerba, davanti le coste della Tunisia. Il suo successo fu transitorio da, momento che, nel 1560, Piyale sconfisse la guarnigione spagnola e rioccupò l’isola

  Mentre le principali azioni navali ottomane avevano luogo nel Mediterraneo, gli scontri nell’oceano meridionale erano altrettanto importanti. Con la conquista dell’Egitto nel 1517 Selim I aveva acquistato uno sbocco nell’Oceano indiano e l’acceso al traffico, specialmente di spezie, che dal sud dell’Asia arrivava al Mediterraneo. Qualche anno prima della conquista, comunque, i portoghesi avevano stabilito una nuova rotta dalle Indie, via capo di Buona Speranza, a Lisbona, e stavano tentando, con la forza delle armi, di stabilire un monopolio di tali traffici. Già durante gli ultimi anni del regno mamelucco in Egitto essi si erano impadroniti di vascelli mercantili che passavano per il Mar rosso e poi, nel 1517, attaccarono il porto di Jedda nel Mar rosso. La minaccia da parte dei portoghesi e, parimenti, l’opportunità per il Sultano di guadagnare controllo dei traffici delle Indie fu oggetto di un memorandum che il governatore di Jedda, Selman Reis, sottopose nel 1525. Il Sultano, comunque, non vi prestò attenzione e non fu che negli anni ’30 del 1500, quando il traffico delle spezie attraverso il Mediterraneo aveva raggiungo il livello minimo e mancava il pepe nel palazzo, che il Sultano passò all’azione. Nel 1538 la flotta finalmente apparve sotto il comando del governatore d’Egitto Süleyman Pasha, e salpò verso l’india per porre senza successo sotto assedio il forte portoghese di Diu, sulla costa di Gujarat. Nel 1541, i portoghesi risposero con un attacco senza successo contro Suez. La spedizione di Süleyman Pasha ebbe comunque importanti conseguenze. Durante il viaggio verso Diu la flotta aveva posto guarnigioni nelle aree costiere di Aden e dello Yemen, segnando il primo passo verso la formazione di una frontiera di terra contro i portoghesi. Nel 1547 e nel 1552, gli Ottomani stabilirono se stessi nelle terre alte dello Yemen con la cattura rispettivamente di Ta’izz e San’a.

  All’inizio degli anni ’40 del 1500 Süleyman stava cercando di negoziare con il re Giovanni di Portogallo per il passaggio sicuro di navi mercantili musulmane, per stabilire la linea Shihr-Aden-Zeila’ come la frontiera tra le flotte portoghesi e ottomane, e per lo scambio di farina ottomana contro pepe portoghese. Questi negoziati non produssero alcun risultato e incapaci di navigare con sicurezza sull’oceano, le navi ottomane non riuscirono ad allontanare i portoghesi dalle loro rotte marittime e dalle loro fortificazioni costiere. Comunque, le operazioni di fronte alle coste arabe possono aver costituito un fattore nella ripresa del traffico dele spezie nel Mediterraneo a partire dalla metà del sedicesimo secolo.

  La conquita dell’Iraq diede agli Ottomani un secondo sbocco nell’oceano indiano, attraverso il Golfo. Nel 1538, quattro anni dopo l’occupazione di Baghdad, il signore locale di Basra, il porto al centro del Golfo, ricevette riconoscimento formale come Goernatore generale ottomano ma non fu fino al 1546 che Basra divenne in realtà una provincia ottomana. Comunque, a dispetto della sua posizione, non poté svilupparsi come centro di traffici marittimi, in quanto i portoghesi avevano, sin dal 1515,occupato Hormuz ed erano in grado a loro piacere di impedire alle navi di passare tra il golfo e l’oceano indiano. Nel 1546, il governatore generale di Basra, Ayas Pasha, provò a stabilire Basra come un punto di traffico e, presumibilmente con l’idea di rivaleggiare con i portoghesi che erano ad Hormuz, occupò al-Hasa sulla costa occidentale del golfo. Nel 1550, gli Ottomani occuparono Katif e, due anni dopo, cercarono di rompere il blocco costituito da Hormuz. Nel 1552 Piri Reis salpò da Suez verso il Golfo con una squadra di trenta vascelli. La sua prima azione fu di catturare la piccola fortezza portoghese di Muscat. L’assedio di Hormuz comunque fallì e invece Piri saccheggiò l’isola di Qeshm, ritornando a Basra col bottino. Al suo ritorno in Egitto, il Sultano lo fece giustiziare per il suo fallimento. Il primo tentativo di portare le navi indietro da Basra a Suez fallì parimenti, perché i portoghesi bloccavano gli stretti. Allora, nel 1554,  Seydi Ali Reis forzò il blocco, ma una volta nell’oceano una tempesta lo allontanò dal Mar rosso e lo mandò verso la costa dell’India.

  Il conflitto con i portoghesi continuò in modo intermittente. Nel 1555, per rafforzare la posizione ottomana nel Mar rosso, il Sultano ordinò ad Özdemiroghlu Osman Pasha di organizzare la provincia di Abissinia, inclusi i porti di Sawakin e Massaua. Come con le province di Al-Hasa e Yemen, le entrate dell’Abissinia non coprivano il costo di mantenere delle guarnigioni. Nondimeno questo contribuì alla creazione della frontiera difensiva contro i portoghesi. Pure, presumibilmente, per rafforzare la posizione ottomana nel golfo, come anche per assicurare il controllo della lucrativa pesca delle perle avvenne che, nel 1559, il governatore generale di Al-Hasa invase l’isola di Bahrein provocando un contrattacco portoghese che lo constrinsero ad una umiliante ritirata. Intorno al 1560 era diventato chiaro che i portoghesi non potevano sfrattare gli Ottomani da Basra, Al-Hasa e Katif al centro del golfo, né dal Mar rosso. Gli Ottomani, comunque, non potevano forzare il blocco ad Hormuz, né sconfiggere i portoghesi nell’oceano. Invece, per assicurare la continuazione del commercio essi ricorsero ai negoziati. Nel 1562 il governatore generale di Basra mandò un inviato ad Hormuz per discutere con i portoghesi la ripresa del traffico attraverso il golfo, mentre nel 1564 il Sultano stesso scrisse al Re di Portogallo chiedendo che “egli concedesse il passaggio per terra e per mare dei mercanti Ottomani che trafficavano con le zone a predominio portoghese”. Nondimeno ostilità su una scala minore continuarono. Gli Ottomani, comunque, non furono mai capaci di controllare le rotte marittime dal sud dell’Asia e la ripresa del traffico delle spezie aveva più a che fare con la limitazione delle risorse portoghesi che con la forza ottomana.

  Al Sultano questi eventi che avvenivano nelle propaggini dell’oceano meridionale sembravano poco importanti a fronte delle sue preoccupazioni principali riguardanti l’Ungheria, l’Iran e il Mediterraneo, che dominarono i suoi ultimi anni. Egli doveva, prima, comunque, fronteggiare una guerra civile entro i suoi regni. Da circa il 1550 la morte dell’anziano Süleyman era sembrata imminente, conducendo inevitabilmente a una competizione per la successione. Nel 1553, egli prevenne quello che sembrava un complotto contro il suo trono giustiziando suo figlio, il principe Mustafa. Questo lasciò due sfidanti, i principi Bayezid e Selim. Nel 1558, credendo che suo padre favorisse Selim, Bayezid si ribellò, costringendo Süleyman a contrastarlo con un esercito guidato dal Visir Sokollu Mehmed Pasha. Gli uomini del Sultano sconfissero Bayezid vicino a Konya nel Maggio 1559, costringendolo a fuggire in Iran, dove divenne il soggetto di negoziazioni tra lo Shah e il Sultano. Finalmente, nel 1562, quando Tahmasb si fu assicurato un trattato di pace e di compensazione finanziaria dal Sultano egli consentì ad un carnefice ottomano di entrare nella cella del principe e terminare la sua vita.

  L’accordo con Tahmasb nel 1562 coincideva con la conclusione di una pace di otto anni con Ferdinando e lasciò Süleyman libero di preparare le sue campagne finali. Le incursioni di Piyale Pasha nel Mediterraneo orientale negli anni ’50 del 1500 avevano esteso il raggio di azione della sua flotta e offrivano la prospettiva di ulteriori conquiste. Un preliminare essenziale, comunque, era la conquista di malta che, nel punto in cui il tratto di mare è più stretto, dominava il passaggio dal Mediterraneo orientale al Mediterraneo occidentale. L’assedio del 1565 fu comunque senza successo e nel 1566, quasi come in compensazione per la sconfitta a malta, Piyale Pasha conquistò l’isola genovese di Chio. E’ comunque significativo che Chio è nell’Egeo e si trova di fronte alla costa ottomana: la sua conquista segnò la fine della espansione marittima ottomana in occidente.

  L’ultima campagna di Süleyman fu contro l’Ungheria. Nel 1564, Ferdinandi  morì. Suo figlio, Massimiliano, desiderava rinnovare la pace, ma in gran parte per trovarsi libero di portare avanti le sue pretese nei confronti della Transilvania. Nel 1565, con gran parte delle sue forze impiegate nell’assedio di Malta, Süleyman  poté solo ordinare al Governatore generale di Temesvar di intraprendere incursioni limitate in Transilvania. Una campagna in grande stile  seguì nel 1566. In Aprile l’anziano Sultano lasciò Istanbul, trasportato per la Maggior parte del percorso su una portantina. Mandando il Visir Pertev Pasha a occupare le terre disputate a est del Tisza, il Sultano stesso mise sotto assedio Szigetvar. Morì sul campo di battaglia nel 1566, due giorni prima che la fortezza si arrendesse.

  Durante i suoi quarantasei anni di regno, Süleyman aveva aggiunto all’Impero territori nell’Anatolia orientale, Iraq, nella zona del Golfo e del Mar rosso, l’Egeo, la Moldavia e l’Ungheria. Alcuni di questi territori costavano in difesa più di quanto essi fruttavano in imposte, ma tutti servivano ad enfatizzare lo status di Süleyman come il sovrano di uno dei più grandi imperi del mondo. Il territorio ottomano si doveva espandere ulteriormente durante i regni dei suoi due successori, ma l’Impero non doveva più giocare quel ruolo internazoinale che aveva giocato all’apogeo del potere di Süleyman. I re di Francia Francesco I ed Enrico II avevano cercato di farselo alleato come pure, per un breve tempo, i principi protestanti della Germania. Egli aveva fornito artiglieria e artiglieri  ai sovrani musulmani dell’India e dell’Etiopia, ed aveva perfino, alla fine del suo regno, mandato navi, artiglieria ed artiglieri ad Aceh, nell’isola di Sumatra. Allo stesso tempo, le campagne del regno di Süleyman avevano mostrato che vi erano dei limiti geografici alle sue ambizioni imperiali. Le campagne di Süleyman contro i Safavidi nel 1548-49 e 1553-54 avevano mostrato che il territorio accidentato e difficile nelle zone di confine tra i due imperi era sufficiente a frustrare le aggressioni ottomane, anche quando i Safavidi non offrivano resistenza militare. Nel sud, l’istmo di Suez era una barriera all’importazione di legname dal Mediterraneo e altri materiali per la costruzione di navi nel Mar rosso e al passaggio di navi da un mare all’altro. Più importante, l’ignoranza su come costruire vascelli oceanici armati, rese impossibile per gli Ottomani sfidare i portoghesi nell’Oceano indiano. Questi erano i problemi con cui dovevano confrontarsi i successori di Süleyman

  Selim II (1566-1574) era l’unico figlio sopravvissuto di Süleyman e così poté godere di una successione senza dispute. Egli era molto differente da suo padre, avendo, apparentemente, una disposizione pacifica e un disgusto per gli affari di stato. Lungo tutto il suo regno, delegò molte delle responsabilità di governo al suo Gran Visir e figliastro Sokollu Mehmed Pasha. Al tempo della ascesa al trono di Süleyman,Sokollu doveva fronteggiare tre problemi immediati: la guerra in Ungheria, una rivolta di Zaydi Imam dello Yemen che aveva privato gli Ottomani del controllo di gran parte della provincia e una rivolta araba nelle paludi a nord di Basra. Sokollu agì con decisione in tutte e tre i casi. Nel 1567, una spedizione trasportata lungo il fiume alla fine impose la pace al leader degli arabi nelle paludi, Ibn ‘Ulayyan. La ribellione finì quando il sovrano formalmente lo insignì del titolo di governatore, un espediente che gli Ottomani usavano per assicurarsi la fedeltà delle dinastie locali poste ai confini estremi dell’Impero. La rivolta nello Yemen richiese tre anni per essere repressa. Le operazioni incominciarono con la destituzione del comandante Lala Mustafa Pasha, e con il suo rimpiazzo da parte del governatore generale dell’Egitto, Koja (“l’anziano”) Sinan Pasha. Sinan Pasha catturò prima Ta’izz e poi Aden in un assalto dal mare e da terra. Nel 1569, la fortezza di Imam a San’a cadde, e la campagna terminò l’anno seguente con la presa di Kawakaban. In Ungheria, Sokollu nel 1568 concluse una pace di otto anni con Massimiliano, a condizione che l’imperatore pagasse un tributo annuale di 300.000 ducati.

  Fu forse la guerra con lo Yemen che condusse Sokollu, nel 1568, ad ordinare la costruzione di un canale che collegasse Suez col Mediterraneo. Il progetto avrebbe reso possibile inviare navi, truppe e materiale bellico direttamente dal Mediterraneo nel Mar rosso e il facile trasporto di rifornimenti all’arsenale navale di suez. Questo avrebbe portato benefici agli Ottomani sia nella guerra allo Yemen che nella continuazione delle ostilità con i portoghesi. Il piano comunque fallì, come pure un progetto simile nel 1569. Lo stimolo immediato per questo fu la occupazione russa di Astrakhan sul volga, vicino al punto dove il fiume sbocca nel Mar Caspio. I russi non minacciavano direttamente i territori Ottomani, ma piuttosto presentavano al Khan di crimea una alternativa alla fedeltà come vassallo al Sultano ottomano. Sokollu progettò di scavare un canale tra il Don e il Volga, nel punto diminor distanza tra i due fiumi, che gli avrebbe consentito di inviare una flotta direttamente dal Mar Nero ad Astrakhan e nel mar caspio. Il progetto avrebbe anche permesso l’invio di truppe contro l’Iran, bypassando le barriere montagnose dell’Anatolia orientale e del Caucaso. Nell’Agosto 1569, l’armata ottomano-tatara si accampò a Perevolok e iniziò il lavoro. Comunque, avevano completato solo un terzo del canale quando l’abbreviarsi dei giorni e il freddo crescente iniziarono ad ostacolare gli scavi. Nel frattempo il comandante della spedizione, Kasim Pasha,aveva razziato il distretto di Astrakhan, ma la città si era dimostrata troppo difficile da attaccare. In Settembre, Kasim Pasha ordinò la ritirata. Circa metà dell’esercitò morì nei territori paludosi della steppa e poi un incendio nel deposito delle provviste di azov significò che non vi era possibilità di continuare la campagna l’anno successivo. I Visir avevano concepito entrambi i canali come strumenti per superare le barriere geografiche alle ulteriori conquiste. Col fallimento di entrambi i progetti, Il potere marittimo e militare ottomano continuò ad operare entro i vecchi limiti.

  La campagna più grande del regno di Selim fu più convenzionale. Dal 1548, Cipro era stata una colonia Veneziana. Nel 1570, a dispetto di una pace non ancora scaduta con Venezia una flotta ottomana attaccò l’isola. L’invasione, sembra, era desiderio personale del Sultano, e aveva acquistato il supporto  di due dei suoi Visir, Piyale Pasha e Lala Mustafa Pasha, che dovevano comandare rispettivamente le forze navali e terrestri. Sokollu, temendo una alleanza di Venezia, Spagna, Cavalieri di San Giovanni e Papa, si era opposto alla guerra. Nel 1570 Lala Mustafa catturò Nicosia. Nel 1571, dopo un prolungato assedio, si impadronì di Famagosta, sulla costa orientale. La guerra, comunque, aveva prodotto il risultato temuto da Sokollu e, nell’Ottobre del 1571, la flotta ottomana incontrò le navi della lega santa di fronte a Lepanto (Navpaktos) nel golfo di Corinto. Nella battaglia che seguì gli alleati cristiani distrussero gran parte della flotta ottomana. Tra i comandanti Ottomani, solo Uluj Ali, il governatore generale di Algeri aveva combattuto con successo e fu lui che ritornò con le rimanenti navi  ad Istanbul. Lepanto, comunque, fu una battaglia senza conseguenze strategiche. Come venne l’autunno, la flotta alleata tornò immediatamente alle sue basi. Durante l’inverno del 1571-72, sotto la direzione di Sokollu Mehmed gli arsenali Ottomani costruirono una nuova flotta che apparve nel 1572 sotto il comando di Uluj Ali. Nel 1573, la guerra terminò con la cessione di cipro agli Ottomani. In aggiunta alla frustrazione [arcaico: sconfitta] dei vincitori di Lepanto, nel 1574 un’altra spedizione navale sotto il comando di Uluj Ali e Koja Sinan Pasha riconquistò Tunisi dagli spagnoli lasciando gran parte della costa africana ad est di Wahran sotto il controllo ottomano.

  Lo stesso anno della conquista di Tunisi, Selim III morì e suo figlio Murad III (1574-1595) ascese al trono. Dal momento che era l’unico figlio adulto di Selim, la successione avvenne senza guerre civili.

  Per il primo anno del suo regno Murad mantenne come Visir Sokollu Mehmed Pasha. Comunque aveva portato a Istanbul il suo proprio entourage di quando era governatore a Manisa e costoro, in combutta con gli avversari di Sokollu, indebolirono l’autorità del Gran Visir. Nel 1579, forse con l’incoraggiamento di questi uomini, un postulante vestito da derviscio pugnalò a morte Sokollu a casa sua. La sua scomparsa portò un cambiamento politico dalla pace alla guerra. La morte dello Shah Tahmasb era avvenuta nel 1576 e l’anno successivo era morto anche il suo successore, Ismail II. Il fratello di Ismail, Khudabanda, gli era succeduto. Questa instabilità nel regno safavide aveva incoraggiato gli Uzbechi ad invadere dall’est, e questo fornì agli Ottomani un’opportunità di lanciare un’invasione da ovest. Le continue attività di propagandisti Safavidi e una serie di defezioni di signori curdi alla frontiera ottomana consentì al Sultano di sostenere che i Safavidi avevano violato i termini del trattato di Amasya. Nel 1578 Lala Mustafa Pasha ricevette il comando per conquistare Shirvan sul mar caspio, passando attraverso la georgia. Sokollu sembra si fosse opposto alla guerra, che sarebbe stata inevitabilmente combattuta su un terreno montagnoso e inospitale, ma i suoi rivali avevano prevalso, e la sua mortenel 1579 aveva portato al potere il partito della guerra.

  La campagna di Lala Mustafa del 1578 portò una serie di vittorie. Dopo aver sconfitto un esercito safavide a Çildir, ricevette l’atto di sottomissioine di Minuchehr, principe di Mesketian. In Agosto entrò a Tbilisi e ricevette la sottomissione di Alexander Khan, principe di Kalkhetia. Poi, nella sua marcia verdo est, l’esercito cominciò a soffrire per la scarsità di cibo, il che condusse alla richiesta da parte dei giannizzeri di ritornare a casa. Ricevendo notizie di questa situazione, il governatore safavide di Tabriz lanciò un attacco sul fiume Kur, ma fu sconfitto da Özdemoroghlu Osman Pasha. Verso la metà di Settembre, con il problema dei rifornimenti attenutatosi, l’esercito raggiunse Eresh. Per la fine dell’anno, le altre città di Shirvan erano cadute, e Lala Mustafa aveva nominato governatori sia di Shirvan che di Daghestan. La debolezza della posizione ottomana, comunque, presto divenne chiara quando i Safavidi incominciarono a riunire un esercito a sud del fiume Kur a i nuovi governatori rifiutarono di passare l’inverno nelle loro province. Invece, Özdemiroghlu Osman rimase con una forza ridotta e, per guadagnarsi la fiducia degli abitanti del Daghestan sposò la figlia dello Shamkhal. Questo, comunque riuscì solo a sottolineare i pericoli del coinvolgimento nelle vicende politiche del Caucaso, nel momento in cui un nemico dello Shamkhal, Alexander Khan fece defezione a favore dei Safavidi, come pure fece Simon Khan, principe di Kartli. Questa era la situazione quando Lala Mustafa Pasha intraprese il difficile ritorno a Erzerum nell’inverno del 1578-79.

  Nel 1579, i Safavidi contrattaccarono, assediando le guarnigioni ottomane in derbend e Tbilisi, e forzando Özdemiroghlu ad abbandonare Shamaxi. Nessuno dei due assedi ebbe successo. Il Khan di Crimea venne in aiuto di Derbend e un esercito sotto la direzione del governatore generale di Dulgadir costrinse i Safavidi a ritirarsi da Tbilisi, a dispetto degli attacchi dei loro alleati georgiani nei confronti delle forze di soccorso.

  Nel 1580, Koja Sinan Pasha fu nominato comandante dell’esercito, e in Aprile partì verso est per rinforzare la guarnigione a Tbilisi. Credendo, comunque che i negoziati di pace con i Safavidi avrebbero avuto successo, abbandonò la campagna che era in preparazione per il 1581. Questa fu una decisione che indebolì seriamente la posizione ottomana nel Caucaso. Nel 1582, un esercito safavide e georgiano si preparò ad assediare Tbilisi e mise in rotta una forza ottomana che recava il soldo e gli approvvigionamenti della guarnigione. Anche in Shirvan i Safavidi sfruttarono false voci di pace per sopraffare le guarnigioni ottomane quando ebbero la guardia abbassata, mentre il Daghestan allo stesso tempo si rivoltò ad Osman Pasha. Dalla sua roccaforte in Derbend, egli mandò un inviato per domandare assistenza da parte di Istanbul. Nel Maggio 1583 la sua posizione sembrava senza speranza. Lo Shamkhal del Daghestan si era alleato con il Governatore safavide di Gänjä, con l’intento di annientare l’esercito di Osman Pasha e di terminare l’occupazione ottomana dello Shirvan. Il risultato di questa azione fu una notevole vittoria ottomana dopo una battaglia di quattro giorni a Meshale sul fiume Sana, che consolidò la sovranità ottomana in Shirvan e Daghestan. Dopo la battaglia, Özdemiroghlu fortificò  Shamaxi e ritornò ad Istanbul.

  La battaglia di Meshale segnò un risollevarsi delle fortune ottomane. Nel 1583 un nuovo comandante, Ferhad Pasha, condusse un esercito ad est, occupò erivan, riparò e costruì fortezze in Georgia e guadagnò l’alleanza del principe della Georgia, Simon Khan. Allo stesso tempo, riportò al Sultano che le truppe erano stremate e che i sudditi Ottomani stavano soffrendo per il peso delle tasse. Ricevette la replica che l’esercito non doveva tornare fino a quando i Safavidi non fossero stati costretti alla pace. Lo scopo del governo era, sembra, di catturare e occupare Tabriz. Questo obiettivo fu ottenuto da Özdemiroghlu Osman Pasha nel 1585. Egli sconfisse un esercito safavide sotto la guida del principe della Corona , Hamza Mirza, a Sufian e poi, traendo vantaggio da una disputa tra fazioni Safavidi, in Settembre catturò Tabriz, con una resistenza solo da parte della guarnigione. Entro un mese, le truppe occupanti avevano costruito una nuova fortezza.

  Una volta ancora, dopo che Hamza Mirza aveva attirato all’esterno e sconfitto una parte della guarnigione, Osman Pasha si trovò a fronteggiare la sconfitta in un avamposto ottomano isolato. Nell’Ottobre del 1585, Osman Pasha morì, lasciando la guarnigione sotto il comando del governatore generale di Diyarbekir, Jafer Pasha. Per undici mesi, fino all’arrivo di una forza di soccorso sotto Ferhad Pasha, egli sostenne un assedio safavide e, durante i suoi anni come comandante a Tabriz, resistette ai tentativi Safavidi di ricatturare la città. Anche in Georgia le fortune ottomane continuarono. Nell’estate del 1587, Ferhad Pasha condusse una spedizione contro Minuchehr, che aveva abbandonato la sua fedeltà agli Ottomani, e contro il patrigno di Minuchehr e precedente alleato degli Ottomani, Simon Khan. Dopo averli sconfitti entrambi, occupò e dotò di guarnigione Gori, la capitale di Simon Khan, e partì per rinforzare  Tbilisi. Qui ridusse alla sottomissione Simon Khan, facendo effettivamente della Georgia un possedimento  ottomano. L’anno seguente un nuovo Shah, Abbas I salì al trono in Iran.

  La guerra con gli Ottomani era solo uno dei problemi di Abbas. Egli doveva fronteggiare una lotta di fazioni all’interno del suo stesso regno e una invasione Uzbeka. Nel 1589, Gli Uzbeki catturarono Herat e avanzarono verso occidente verso Mashhad. La preoccupazione di Abbas per questa guerra consentì agli Ottomani di estendere il loro fronte sulla frontiera occidentale dell’Iran. Nel 1588, mentre Ferhad Pasha occupò Gänjä in Azerbaijan e ricevette il ributo dei principi georgiani, a sud Jigalazade Sinan Pasha condusse un esercito  da Baghdad e prese Nihavend. Con una guerra su due fronti lo Shah Abbas non ebbe altra scelta se non che cercare la pace. In Gennaio 1590, un ambasciatore safavide arrivò a Istanbul. Il trattato dello stesso anno lasciò gli Ottomani in possesso di tutti i territori che avevano conquistato in Azerbaijan e nel Caucaso, e Nihavend, Luristan e Shehrizor nell’Iran occidentale.

  Con questo trattato l’Impero Ottomano raggiunse il suo punto di massima espansione

 

 

 

CRONOLOGIA: IL PERIODO DEI GUAI PER GLI OTTOMANI, 1590-1650

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  La Guerra con l’Iran aveva aggiunto vasti territori all’Impero Ottomano, ma con grandi costi. Portare la guerra ad una conclusione vittoriosa aveva richiesto un decennio di combattimenti nel terreno accidentato del Caucaso e dell’Azerbaijan. Il continuo guerreggiare aveva portato ad agitazioni e diserzione tra le truppe e il peso che gravava sul Tesoro aveva a sua volta messo sotto tensione il tessuto sociale dell’Impero, con crescenti agitazioni e brigantaggio che dovevano peggiorare nelle decadi successive. Non era una guerra che aveva prodotto abbondanza di bottino, ed è improbabile che la tassazione delle nuove province coprisse i costi delle loro guarnigioni. Perdipiù la vittoriosa conclusione non era semplicemente un risultato della superiorità militare ottomana. Doveva molto a guai interni della dinastia Safavide e all’invasione Uzbeka, che costrinse gli Iraniani a combattere su due fronti

  Questo era chiaro a Ferhad Pasha , che era stato largamente responsabile delle vittoria ottomana. Quando una nuova guerra minacciò di scoppiare in Ungheria, Ferhad fu uno di quelli che vi si oppose. Agli inizi degli anni ’90 del 1500 i raid dalla Bosnia attraverso il confine con l’Austria e le rappresaglie Austriache resero tese le relazioni tra i due poteri, e crearono le condizioni per una guerra. Il cronista Ibrahim Pechevi riferisce di un incontro alla presenza del Sultano, dove Ferhad Pasha si oppose alla dichiarazione di guerra, sulla base del fatto che le truppe erano esauste dopo la campagna Iraniana. Fu, riporta Pechevi, il Gran Visir Koja Sinan Pasha, che, nella sua ambizione di eclissare la fama di Ferhad Pasha come comandante, il principale avvocato della guerra.

  Sinan Pasha ottenne quello che voleva e, nel 1593, partì alla volta dell’Ungheria come comandante in capo. La campagna iniziò sotto buoni auspici con la cattura, all’inizio dell’autunno di Vezprem e Paluta nell’Ungheria occidentale. Poco dopo, comunque, divenne chiaro che l’esercito ottomano non poteva più vantare la superiorità che aveva avuto trenta anni prima. Nel Novembre 1593, gli Austriaci contrattaccarono, assediando Székesfehervár, e mettendo in rotta una forza ottomana mandata ad aiutare la fortezza. Abbandonando Székesfehervár all’arrivo dell’inverno, essi nondimeno catturarono una serie di piccole fortificazioni nel distretto. L’offensiva Austriaca continuò nel 1594, con la cattura di Novigrad e l’assedio di Esztergom, sul Danubio ad ovest di Buda, e di Hatvan, a nord-est. Gli assedianti misero di nuovo in rotta una forza ottomana di soccorso a Hatvan. Fu solo quando Sinan Pasha si avvicinò con una notevole forza che gli Austriaci si ritirarono, e l’offensiva continuò con la cattura dapprima di Tata e poi di Györ, sulla strada tra Buda e Vienna. Pechevi mette in rilievo, comunque, che fu solo “per grazia di Dio che Györ cadde. Il fiume in piena aveva aveva allagato il fossato intorno alla fortezza, e gli assedianti potevano avvicinarsi alle mura solo in un’unica fila attraversando un ponte. Gli Austriaci non avevano alcuna ragione per arrendersi”. La vittoria, comunque, riscattò alcune delle precedenti sconfitte.

  L’anno dopo portò il disastro. Nel 1595, su impulso dell’imperatore Austriaco, il re di Transilvania Stefano Bathory, trasferì la sua fedeltà agli Asburgo. Nello stesso tempo i voivoda di Moldavia e Valacchia si ribellarono, aprendo un nuovo teatro di guerra e minacciando il controllo ottomano del Danubio, una via di primaria importanza per il trasporto di approvvigionamenti e materiale militare verso l’Ungheria. Il voivoda di Moldavia sconfisse una forza ottomana mandata contro di lui e, nell’inverno 1594-95, il voivoda Michele di Valacchia attraversò il Danubio  e devastò un’area della Bulgaria del nord. La campagna ottomana per sopprimere la sua ribellione iniziò male,con la destituzione del comandante, erhad Pasha, e il suo rimpiazzo da parte del suo rivale, Koja Sinan Pasha. Sinan Pasha, a dispetto di foreste, paludi e delle tattiche di razzia de Valacchi, raggiunse bucarest e poi Tirgovişte, fortificandole entrambe. Subito dopo, comunque, Michele contrattaccò, massacrando la guarnigione a Tirgovişte e costringendo gli Ottomani a ritirarsi fino al Danubio. A Giurgiu, Michele  distrusse il ponte sul fiume, e uccise le migliaia di soldati che erano rimasti sulla riva sinistra. Nel mentre gli eventi in Ungheria non erano più fortunati. In Agosto, gli Austriaci assediarono Esztergom. La fortezza cadde quando il suo comandante, il figlio di Sinan Pasha, Mehmed, fuggì a Buda.

  Nel 1595, Murad III morì. La successione al trono di suo figlio Mehmed III (1595-1603) venne in un momento di severa crisi sui campi di battaglia e, dietro le insistenze di Sinan Pasha e altri, nel 1596 il nuovo Sultano accompagnò di persona l’esercito in Ungheria. Fu una campagna con risultati alterni. Durante la marcia verso Eger, nel nord dell’Ungheria, giunsero notizie che gli Austriaci avevano catturato Hatvan. Per controbilanciare questa perdita l’assedio di Eger fu un successo e poco dopo gli Ottomani colsero una vittoria inaspettata. Subito dopo la caduta di Eger, si scontrarono con un forte esercito Austriaco vicino alla fortezza, nella pianura di Mezö-Keresztes (Mezo-Keresztes). Di fronte alla superiorità dell’artiglieria e alle salve degli archibugieri che si riparavano dietro le picche la battaglia si trasformò in una rotta quando la cavalleria ottomana fuggì di fronte al nemico. Incontrando pochissima resistenza, gli Austriaci raggiunsero l’accampamento centrale ottomano e si diedero al saccheggio. Fu in questo momento che i cammellieri, gli stallieri e altri servitori di palazzo che avevano accompagnato la spedizione attaccarono, gridando “Gli infedeli fuggano!”  Le loro grida incoraggiarono le sconfitte truppe ottomane a ritornare all’attacco. All’arrivo della notte Pechevi stima che fossero stati uccisi cinquemila Austriaci. La vittoria fu totale. Ma non condusse ad ulteriori successi.

  Nel 1597, il Visir Satirji Mehmed Pasha lasciò Istanbul per l’Ungheria. Il suo unico successo fu di ricatturare Tata. Egli non riuscì neanche ad avvicinarsi, né tanto meno a sconfiggere l’artiglieria Austriaca nelle trincee intorno a Vac, sulla via a nord per Buda, e quello stesso anno gli Austriaci ricatturarono Györ, facendo esplodere le porte con una nuova arma, il petardo . A dispetto di questi insuccessi, Satirji Mehmed rimase al comando. Nel 1598, ricevette l’ordine di attaccare la Transilvania e di ripristinare l’obbedienza del Re. Egli espugnò Csanad e poi, sotto una pioggia battente, prese d’assedio Varad. A Varad giunse la notizia che un esercito di assedio Austriaco con 40 cannoni stava mettendo sotto assedio Buda. Satirji Mehmed ripartì immediatamente, ma un tempo disastroso, fiumi in piena e paludi ostacolarono il viaggio verso la capitale ungherese. Seguirono fame, malattia e ammutinamento insieme alle notizie che gli Austriaci stavano assediando Veszprem, Tata e Paluta. Alla fine nessuna forza di salvataggio raggiunse Buda e Satirji Mehmed morì per ordine del Sultano. I temuti disastri non si concretizzarono. Buda sopravvisse all’assedio e, nel 1599, all’approssimarsi a Vac sul Danubio di un esercito ottomano sotto il comando del Gran Visir Ibrahim Pasha gli Austriaci si ritirarono. Ci furono solo piccoli successi Ottomani. Una forza sotto il comando di Kuyuju (“lo scavatore di pozzi”) Murad Pasha prese Bobovac e l’espediente di offrire denaro alla guarnigione francese non pagata di Papa li persuase a cambiare contendente e per un certo tempo la fortezza cadde sotto controllo ottomano.

  L’anno 1600 portò una maggiore ricompensa, quando il governatore generale di Buda, Mehmed Pasha espugnò Kanizsa nell’Ungheria sud-occidentale. La vittoria, comunque, come la battaglia di Mezö-Kereresztes era, come Pechevi descrive “una grazia di Dio”. Prima un magazzino di polvere esplose nella fortezza e quando, di fronte ad una superiore potenza di fuoco Austriaca, i giannizzeri fuggirono, le truppe Austriache fuori della fortezza credettero che questo fosse un trucco. Invece di attaccare essi partirono, lasciando Kanizsa sotto assedio. Con la loro partenza, la fortezza si arrese. Nel 1601, gli Austriaci contrattaccarono, prendendo dapprima Székesféhervár, e poi mandando un esercito a riconquistare Kanizsa. Una forza ottomana sotto Yemishchi (“il fruttivendolo”) Hasan Pasha, che era succeduto al comando dopo la morte di Ibrahim Pasha, non poté scalzare le forze Austriache trincerate che bloccavano il passo per Székesféhervár. Kanizsa, comunque, sotto il comando di Tiryaki (“il drogato”) Hasan Pasha, resistette ad un assedio che durò fino all’inverno quando, di fronte ad una ostinata resistenza ed ad un freddo acuto, gli Austriaci si ritirarono.

  L’anno dopo la difesa di Kanizsa, Yemishchi Hasan Pasha riconquistò Székesféhervár, mentre in Transilvania, Szekely Mózes, un signore che era risentito per il trattamento da parte del generale Austriaco Basta si ribellò al re e chiese l’aiuto ottomano. Entrambi gli eventi sembrarono preannunciare un risollevarsi delle fortune ottomane. Come successe poi, la ribellione di Szekely condusse ad un disastro. Nel 1602, Yemishchi Hasan si preparò ad invadere la Transilvania, sostenendo che gli Austriaci mancavano delle risorse per invadere l’Ungheria. Subito dopo la partenza dell’esercito arrivò la notizia che gli austriaci  avevano catturato Pest, sulla riva del Danubio opposta a Buda. Yemishchi Hasan  tornò indietro, e trovò Pest in possesso degli Austriaci, e Buda sotto assedio. Ritornò ad Istanbul in disgrazia ma, godendo del favore del Sultano, scampò l’esecuzione, e quando si dimise, i giannizzeri insorsero a suo favore. L’Agha dei giannizzeri, comunque, calmò i ribelli, e subito dopo Yemishchi Hasan fu ucciso.

  Prima di lasciare l’Ungheria Yemishchi Hasan aveva nominato Lala Mehmed Pasha come comandante. Il suo primo successo fu di allontanare da Buda le forze di assedio asburgiche, ciò che gli permise di programmare la riconquista di Pest sull’altra sponda. Per fare questo, egli doveva scacciare il nemico dall’isola di Csepel, che bloccava l’accesso via fiume alla città. Lala Mehmed capiva chiaramente  che sconfiggere gli Austriaci sull’isola richiedeva fanteria in posizioni di trincea, ed agì di conseguenza. I giannizzeri, però, disobbedirono al comando, rifiutandosi di trincerarsi e domandando rinforzi di cavalleria. Lala Mehmed si piegò alle loro richieste con il risultato che, nel Luglio 1603, gli Austriaci annientarono le forze attaccanti e rimasero in possesso di Pest. Nell’anno seguente, tuttavia, la posizione ottomana cominciò a migliorare.

  Un fattore fu il capovolgimento delle fortune Austriache nei principati danubiani. La rivolta del voivoda Michele nel 1595 aveva beneficiato l’Austria, sottraendo risorse ottomane dal fronte ungherese. Per il 1600, però, Michele pretendeva non solo la sovranità della Valacchia, ma anche di Moldavia e Transilvania, una espansione di potere che danneggiava piuttosto che favorire gli interessi Austriaci. Il generale Austriaco Basta risolse il problema facendolo uccidere, più a vantaggio degli Ottomani che di se stesso. Poi, nel 1603 ci fu una nuova rivolta in Transilvania, sotto la leadership di Stephan Bocskai, contro il dominio dell’imperatore Austriaco. Un altro fattore della ripresa ottomana furono le capacità militari di Lala Mehmed Pasha, che in quel momento combinava le cariche di Gran Visir e comandante in capo delle forze in Ungheria. Nel 1604, lasciò Belgrado per l’Ungheria e, all’avvicinarsi del suo esercito, gli Austriaci abbandonarono Hatvan e Pest, e cedettero Vac a seguito di un blocco. Nell’autunno del 1604, egli intraprese senza successo l’assedio di Esztergom prima di ritornare ad Istanbul. Qui ricevette dal nuovo Sultano, Ahmed I (1603-1617), il permesso di incoronare Bocskai re di Transilvania, col titolo di “Re di Ungheria”. Nel 1605 ritornò al fronte e questa volta conquistò la modernizzata fortezza di Esztergom. Questo fu l’ultimo scontro di rilievo della guerra.

  Nel 1606 negoziati di pace iniziarono a Zsitvatorok nella terra di nessuno tra gli imperi asburgico e ottomano, focalizzati sugli accomodamenti territoriali, sui tributi dovuti al Sultano e sulla risoluzoine di dispute di confine. Qualche dettaglio non si poté dirimere, col curioso risultato che le due parti firmarono due versioni lievemente differenti del trattato. Quando i negoziatori asburgici si recarono a Istanbul nel 1608 per ratificare il testo essi lo rigettarono dal momento che trovarono che delle parti erano state cambiate e che la clausola sulla eguale dignità degli imperatori era stata espunta. Non fu che nel 1612 che  ratificarono la versione finale. Il trattato comunque funzionò. Non ci furono ostilità tra le due parti fino agli anni ’60 del 1600, mentre la clausola che proibiva i raid attraverso il confine e l’introduzione di una procedura per risolvere dispute di confine diede una espressione formale al concetto di una frontiera pacifica e fissata. Il kleinkrieg dei secoli precedenti era finalmente cessato.

  La guerra dei tredici anni con l’Austria aveva portato Kanizsa, Eger e qualche altra fortezza agli Ottomani, ma anche qualche perdita territoriale. Si era aperta con la vanteria di Sinan Pasha che lui avrebbe “portato il re di vienna prigioniero ad Istanbul” ed era finita con un compromesso. Aveva mostrato che in quel momento gli Austriaci erano superiori agli Ottomani come armamento e come tattica. Nondimeno, con la loro capacità di continuare la guerra e, negli ultimi due anni, di conseguire una serie di vittorie, gli Ottomani avevano mostrato una straordinaria resilienza, in particolare dal momento che in quegli anni non stavano combattendo su un fronte ma su tre fronti.

  Il secondo fronte era ad oriente. Nel 1590, lo Shah Abbas aveva, di fronte agli attacchi Uzbeki del Khorasan, concesso territorio agli Ottomani. Nel 1598, comunque, ottenne una vittoria nei confronti degli Uzbechi e, subito dopo, occupò Herat. Poi, usando la defezione a suo favore di un signore curdo come una giustificazione per la guerra, nel 1603 entrò a Tabriz. La guarnigione era in quel momento assente, alla caccia del ribelle curdo e, al suo ritorno soffrì una sconfitta fuori della città. Da Tabriz, Abbas marciò su Nakhichevan. Dopo la resa della guarnigione locale, proseguì verso Erivan. Le fortezze della città resistettero all’assedio safavide per più di nove mesi, ma di fronte alla malattia e alla fame e senza speranza di una forza di soccorso, capitolarono nel 1604. Con la perdita delle fortezze, divenne chiaro che c’era bisogno di intraprendere una campagna ad est, a dispetto di ciò che richiedeva il fronte ungherese. Nella seconda metà del 1604, dunque, Jigalaze Sinan Pasha guidò un esercito  in direzione di Shirvan, finché, presso il fiume Aras, le sue forze lo costrinsero a cambiare la sua direzione per Tabriz. Marciando verso il sud di Varas egli passò l’inverno a Van. Le forze dello Shah,comunque, avevano fatto razzie nella regione di Kars, e sconfitto una forza di soccorso da Sivas, forzando Sinan Pasha ad abbandonare van. Nel 1605, egli continuò verso Tabriz, con le forze Safavidi che lo tenenevano d’occhio dalle montagne. Poi, ingannando Jigalazade riguardo la direzione dell’attacco, lo Shah Abbas mise in rotta il suo esercito a Sufian. Facendo seguito alla vittoria, egli catturò Gänjä in Azerbaijan, Tbilisi in Georgia e pose sotto assedio Shirvan. Con la caduta di Shirvan sette mesi più tardi nel 1606, lo Shah Abbas aveva ripreso tutto il territorio che gli Ottomani avevno conquistato nella guerra del 1578-90).

  Il terzo fronte sul quale gli Ottomani si trovarono in guerra fu l’Anatolia. Le agitazioni in quell’area erano divenute endemiche attraverso tutto il sedicesimo secolo ma, nel 1596, scoppiò una ribellione di tale portata da minacciare il dominio del Sultano. Fu un evento che le cronache musulmane collegano direttamente alla battaglia di Meszö-Kerezstes. Nel1596, subito dopo la battaglia, il Gran Visir, Jigalazade Sinan Pasha aveva privato dei loro possedimenti i cavalieri che erano fuggiti dal campo di battaglia. Privati dei loro mezzi di sussistenza, si unirono al primo dei grandi leader ribelli, Kara Yazjij, lui stesso un ex delegato di un governatore. Quando il Sultano ordinò al governatore generale di Karaman di attaccare i ribelli, egli fece defezone a favore di Kara Yazjij, che si ritirò ad Urfa. Qui resistette ad un assedio di due mesi. Il governo allora ricorse ad una lusinga, nominando Kara Yazjij come governatore, prima di Amasya, e poi di Çorum. Come governatore, però, egli continuò a saccheggiare l’Anatolia, provocando un’altra campagna governativa. Nel 1601 Hasan Pasha, il figlio di Sokollu Mehmed Pasha,finalmente sconfisse i ribelli vicino a Elbistan. Nel 1602 Kara Yazjij morì.

  Questo non pose fine però alla ribellione. Il comando dei Jelali, come finirono per essere noti i ribelli, passò al fratello di Kara Yazjij, Mad Hasan, che, nel Maggio del 1602, assediò Tokat e alla fine uccise Hasan Pasha. Nell’Agosto, sconfisse un'altra forza governativa e pose d’assedio Ankara, estorcendo una consistente somma dagli abitanti. Poi si mosse verso ovest e assediò un’altra forza governativa a Kütahya. La risposta del Gran Visir, Yemishchi Hasan Pasha fu nuovamente di offrire al ribelle il posto di governatore, nominandolo governatore generale di bosnia. Questo fimosse il porblema dall’Anatolia, dato che i suoi ribelli lo accompagnarono in Bosnia e poi sul fronte ungherese, dove perirono nel disastroso attacco all’isola di Csepel nel 1603. Nel 1606 il comandante in capo delle forze ungheresi ordinò l’esecuzione di Mad Hasan. La partenza di Mad Hasan e dei suoi uomini non fece comunque cessare le agitazioni in Anatolia, quando nuovi gruppi di ribelli si unirono per assaltare città e villaggi e per esigere tasse illegali, provocando una “grande fuga” dalle fattorie e dai villaggi verso Istanbul e altre grandi città. Allo stesso tempo, il maltempo esacerbava le sofferenze della popolazione.

  Gli sforzi del governo per sconfiggere i ribelli continuarono a fallire. Nella sua marcia verso est nel 1605 Jingalazade ricevette l’ordine di scontrarsi con i Jelali prima di attaccare i Safavidi. Egli non riuscì a farlo e, nello stesso anno, il ribelle Tall Halil sconfisse un ex governatore generale di Aleppo a Bolvadin, inducendo il Sultano Ahmed a ritenere di dover guidare la spedizione di persona. Questo piano però fu un fiasco. Nel Novembre 1605 egli andò a Bursa. Tall Halil si ritirò e il Sultano ritornò. Invece, offrì al ribelle il governatorato e la carica di generale di Baghdad, e Tall Halil lasciò l’Anatolia. La sua presenza a Baghdad, comunque, causò solo instabilità in Iraq, mentre nell’Anatolia occidentale un’altra figura, Kalenderoghlu Mehmed era emersa come leader dei ribelli. Una campagna delgoverno nel 1606 fallì completamente. Era incerto se il suo obiettivo fosse la sconfitta di Kalenderoghlu o dello Shah Abbas, e alla fine si ritornò indietro quando le truppe non pagate si ammutinarono. Nel 1607 il potere ottomano in Asia sembrò sull’orlo del collasso. Nel Gennaio, Kalenderoghlu sconfisse una forza governativa vicino Nif, incoraggiando altri leader Jelali a unire le loro forze alle sue. Nell’estate assediò Ankara. Una forza di soccorso lo scacciò, ma la stessa subì una sconfitta a Ladik. Annunciando che stava andando ad assediare Üsküdar e causando panico nella capitale, Kalenderoghlu avanzò verso Bursa. Nel 1607 occupò la città, lasciando solo la cittadella nelle mani del governo. Nel sud-est, Adana e i passi montani dei Tauri erano nelle mani di un ribelle chiamato Jemshid, ma la più pericolosa di tutte fu la ribellione di Ali Janbulad in Siria.

  Membri della famiglia Janbulad avevano servito come governatori ereditari di Kilis sin dal 1571. Nel 1603, un membro della famiglia, Hüseyn Janbulad, aveva, con la forza delle armi stabilito se stesso come governatore generale ottomano di Aleppo. Due anni dopo, quando Jingalazade Sinan Pasha gli aveva ordinato di prestare servizio nella campagna iraniana, egli rimase ad Aleppo. Per vendicarsi, Jingalazade lo aveva giustiziato e questo sembra abbia provocato la rivolta di suo figlio Ali. La tattica del governo per sconfiggere Ali fu di nominare un signore rivale, il libaneseYusuf ibn Sayf, governatore di Damasco, con l’ordine di eliminare il ribelle. Ali Janbulad replicò con una tattica simile, alleandosi con un certo Fakhr al-Din e altri signori della Siria e del Libano anzitutto per sconfiggere Yusuf, e poi per spartirsi Siria e Libano. Nel Maggio 1606 egli chiedeva al Sultano un visirato e il diritto di nominare i suoi propri uomini in un’area ampia e strategicamente importante intorno ad Aleppo. Nello stesso tempo, cercò un’alleanza con Kalenderoghlu e altri ribelli anatolici e con governatori simpatizzanti. Lo scopo di Alì, che divenne chiaro, era di autoproclamarsi sovrano indipendente.

  Ciò che frustrò le ambizioni di Ali fu la nomina nel 1606 di Kuyuju Murad Pasha come Gran Visir. A differenza delle sue precedenti improvvisate campagne, Kuyuju Murad pianificò la sua spedizione con grande cura, finalmente partendo da Üsküdar nel Luglio del 1607. Per neutralizzare Kalenderoghlu durante la campagna, egli lo nominò governatore di ankara. Fu quando gli abitanti si rifiutarono di accettarlo che egli strinse d’assedio la città. Allora Kuyuju Murad attraversò i monti Tauri e occupò adana, giustiziando cinquecento seguaci del governatore ribelle. Da Adana, scegliendo il percorso più inaspettato, si avvicinò ad Aleppo, mettendo in rotta le forze di Ali Janbulad nell’ottobre 1607, e massacrando i suoi aderenti. In Novembre, entrò ad Aleppo e giustiziò molti membri della famiglia Janbulad e durante l’inverno ricevette la sottomissione dei confedereti libanesi e Siriani di Ali Janbulad. Ali Janbulad fuggì verso ovest, prendendo contatto con il Jelali Kalenderoghlu a Bursa ma, non raggiungendo alcun accordo con lui, accettò invece il perdono del Sultano, che lo nominò governatore generale di Temesvár. Qui, comunque, la popolazione lo rifiutò, e nel 1610 Kuyuju Murad ordinò la sua morte.

  La sconfitta di Ali Janbulad lasciava ancora i ribelli col controllo di gran parte dell’Anatolia. Nel Gennaio 1608 Kalenderoghlu sconfisse una forza sotto il comando di Nakkash (“l’artista”) Hasan Pasha vicino a Mihaliç e nell’estate bloccò il passaggio di un altro esercito che portava il tesoro di Kuyuju Murad ad Aleppo. Kuyuju Murad nel frattempo fronteggiava severi problemi nel preparare una nuova campagna. Kalenderoghlu aveva bloccato la sua disponibilità di contante; a seguito di un duro inverno e di una primavera tardiva, e in conseguenza dell’impoverimento delle campagne, la piena quota di truppe non era arrivata dall’Anatolia; i rifornimenti dall’Egitto erano lenti ad arrivare. Nel frattempo, comunque, egli distaccò alcuni dei Jelali minori da Kalenderoghlu dando loro dei governatorati. Finalmente, nell’Agosto del 1608, egli si scontrò con Kalenderlghlu e lo sconfisse a ovest di Malatya. Il ribelle e i suoi seguaci fuggirono in Iran, mentre Kuyuju Murad, ignorando il comando del Sultano di rimanere sul posto, ritornò ad Istanbul. Nel 1609 l’esercito si era radunato ad Üsküdar, ma Kuyuju non si mosse. Invece, mandò un ex Jelali, Zulfikar, ad attaccare il ribelle Musli Chavush, che lui stesso aveva nominato governatore di Íçel durante la campagna contro Kalenderoghlu. Durante l’assenza di Zulfikar, un altro ribelle, Yusuf Pasha apparve con i suoi seguaci per chiedere perdono, che Kuyuju Murad concesse fino a che Zulfikar tornò con la notizia della disfatta di Musli Chavush. Allora Kuyuju giustiziò Yusuf Pasha nella sua tenda. Con la morte di Yusuf Pasha, Kuyuju sciolse l’esercito, sebbene campagne contro i ribelli dell’Anatolia e dell’Iraq continuarono nel 1610 su una scala più piccola.

  La sconfitta dei Jelali lasciò il Gran Visir con due preoccupazioni. La prima era ripristinare l’amministrazione fiscale e provinciale dopo la guerra con l’Austria e la devastazione della ribellioone Jelali in Anatolia. Il risultato fu un menorandum da un addetto della cancelleria, Ayn Ali, che predispone, sulla base di registri dell’archivio uno schema ideale di organizzazione fiscale, provinciale e militare. Il Sultano, da parte sua, desiderava un monumento più vistoso alla vittoria sopra i ribelli, e ordinò la costruzione ad Istanbul della moschea che porta il suo nome, la moschea del Sultano Ahmed o “moschea Blu”. In realtà, comunque, la vita rurarle e la popolazione rurale dell’Anatolia furono lenti a riprendersi. Resoconti fiscali  redatti trent’anni dopo le campagne di Kuyuju Murad Pasha mostrano che la popolazione non aveva raggiunto il livello di vita del sedicesimo secolo.

  La seconda preoccupazione di Kuyuju Murad era rinnovare a guerra con l’Iran. La sua canpagna, comunque, fu inconcludente. Nel 1611 egli morì a Diyarbekir e l’anno seguente, Nasuh Pasha, ilsuo successore come grand Visir, concluse la pace con lo Shah Abbas. Questa durò solo quattro anni. Nel 1615, col pretesto che il tributo annuale di seta dovuto da parte dello Shah non era ancora arrivato il Gran Visir, Öküz (“il bue”) Mehmed Pasha, rinnovò la guerra e assediò erivan senza successo.

  In occidente, nel mentre, c’era pace, l’unico scontro avvenne sul mare tra la flotta ottomana nel suo giro annuale del Mediterraneo orientale da un lato e corsari che operavano sotto l’egida dei cavalieri di San Giovanni e del Duca di Toscana, con cui i ribelli Ali Janbulad e Fakhr al-Din avevano stabilito contatto. Più pericolosi di questi erano gli attacchi dei cosacchi dalle loro basi lungo il Don e il Dniepr contro insediamenti lungo la costa del Mar Nero. Questi attacchi crebbero di intensità in anni successivi del diciassettesimo secolo, culminando in un raid contro Sinope nel 1614. Nell’anno seguente un contrattacco ottomano fallì quando i cosacchi, nelle loro barche a fondo piatto, attirarono l’ammiraglio Jigalazade Mahmud così vicino alla riva che le sue galee finirono in secco. Nel 1623 essi attaccarono Yeniköy sul bosforo, vicino la capitale, e per quattro anni, tra il 1637 e il 1641, occuparono perfino Azov, all’estuario del Don, costringendo gli Ottomani a rifortificare Ochakov, una fortessa che occupava una simile posizione strategica sul Dniepr. Per mezzo secolo, la guerra con i cosacchi richiese una serie di spdizioni marittime, con nuove strategie contro le loro barche a fondo piatto e una costante vigilanza lungo le coste del Mar Nero. Questi scontri con i cosacchi erano gli scontri navali più aspri fino al 1645.

  La conclusione della guerra Austriaca e la sconfitta dei Jelali non fece cessare il “periodo dei guai” ottomano. Nel 1617 Ahmed I morì, facendo scoppiare una crisi all’interno della dinastia. Dal momento che i figli di Ahmed non erano ancora adulti, una fazione entro il palazzo fece sì che gli succedesse suo fratello Mustafa I (1617-18,1622-23). Questo principe, comunque, era mentalmente disturbato e, durante l’assenza del Gran Visir per una importante campagna per ricatturare Tabriz, la fazione che si era opposta alla successione di Mustafa provocò la sua detronizzazione e la sostituzione nel 1618 col figlio Maggiore di Ahmed, Osman.

  Il primo anno del regno di Osman vide la conclusione di una pace con l’Iran che confermava la frontiera in Georgia e faceva qualche lieve aggiustamento in favore dello Shah Abbas al confine ottomano-safavide in Iraq. Per contrasto ci fu una grave crisi nei rapporti con la Polonia. I raid cosacchi dal territorio polacco sulle coste dell’Impero Ottomano e quelli tatari in Polonia avevano condotto ad una tensione tra le due potenze. Anche la Moldavia offriva rifugio ai cosacchi e furono gli eventi che vi si verificarono che condussero alla guerra. Quando Caspar Gratiani successe come voivoda di Moldavia egli intercettò lettere dal re di Transilvania, Bethlen Gabor e le rese note al re polacco, Sigismondo. Quando il Sultano replicò deponendo Gratiani, il voivoda si ribellò e si rifugiò in Polonia. La risposta ottomana fu decisa. Nell’Agosto del 1620, il governatore generale di Ochakov, Iskender Pasha, raccolse le sue forze e, in Settembre, mise in rotta gli eserciti congiunti di Polonia e Moldavia a Ìaşi. Seguì una seconda sconfitta dei polacchi. Il re sigismondo, a questo punto, desiderava la pace, ma il Sultano, a dispetto della opposizione da parte dei giannizzeri, stabilì di continuare la guerra, e non consentì all’inviato polacco di entrare in Istanbul. Nel Maggio 1621, lasciò la capitale alla testa di un esercito e alla fine di Agosto raggiunse Chotin sul Dniestr. Per metà Agosto tutti gli assalti alla fortezza erano falliti e, a dispetto della determinazione di Osman di rimanere sul campo per tutto l’inverno, l’ammutinamento del suo esercito lo costrinse ad accettare i termini che il re Sigismondo andava proponendo. Agli inizi di Novembre, l’esercito lasciò Chotin senza aver ottenuto nulla.

  La decisione di Osman doveva costargli la vita. La sua ambizione, sembra, era restaurare l’Impero nella sua gloria originaria, riformando le sue istituzioni e ribaltando le umiliazioni che Shah Abbas gli aveva inflitto. Un elemento del suo piano era l’abolizione del corpo dei giannizzeri. Questo, almeno è ciò che i giannizzeri credevano. Quando, nel 1622, egli attraversò il Bosforo con la scusa di andare in pellegrinaggio, essi si ribellarono, credendo che la sua intenziona fose di radunare un esercito in Siria e di usarlo per la loro distruzione. Sotto pressione da parte dei Giannizzeri, Osman ritornò al palazzo,ma rifiutò di ordinare l’esecuzione dei sei uomini che essi accusavano di traviarlo. Il suo rifiuto provocò una ribellione dei giannizzeri che terminò con la sua esecuzione e con la nuova ascesa al trono di Mustafa.

  La morte di un Sultano e l’intronamento di un altro che era mentalmente incapace fecero sì che la stabiltà politica non ritornasse tanto presto. Gli stessi giannizzeri, per espiare la loro colpa, chiesero l’esecuzione di Davud Pasha, il Gran Visir che, nel breve tempo in cui aveva rivestito l’ufficio, aveva condonato la morte del Sultano. Egli e l’agha dei giannizzeri persero le loro vite, ma questo scatenò una competizione per il Visirato tra il giorgiano Mehmed Pasha e l’albanese Mere (“vieni qui!”) Hüseyn Pasha. Anche le province sperimentarono delle agitazioni. Nell’Anatolia orientale, Mehmed Pasha l’abkhazi, governatore di Erzurum, sostenendo di vendicare il sangue di Osman, si ribellò impadronendosi di Şebin Karahisar, Sivas, Ankara e, alla fine, di Bursa. In Libano, Yusuf ibn Sayf affermò la sua indipendenza  e in Iraq lo Shah Abbas catturò Baghdad. L’opportunità era giunta per lui nel 1622, quando Bakr al-Subashi acquistò il potere nella città e sconfisse una forza mandata contro di lui dal governatore generale di Diyiarbekir, Hafiz Ahmed Pasha. Comunque, temendo un altro esercito ottomano che stava avvicinandosi, egli andò le chiavi di Baghdad allo Shah Abbas. Nello stesso anno i cosacchi attaccarono Yeniköy.

  Il primo passo per impedire la disintegrazione dell’Impero fu rimuovere il Sultano. Nel 1623, dopo che un gruppo di ulema ebbe preso la decisione di deporre Mustafa, una deputazione andò nel palazzo e negoziò con la madre del Sultano. Mustafa fu detronizzato, ma la sua vita fu risparmiata.

  Il suo successore fu Murad IV, il dodicenne figlio di Ahmed I. Egli, o piuttosto sua madre, Kösem Sultan, che fu la vera reggente dell’Impero durante la minore età di suo figlio, – ereditò la turbolenza politica, la rivolta di Kehmed Pasha l’abkhazi e la guerra con l’Iran. Comprò la lealtà dei giannizzeri e delle altre truppe salariate con la distribuzione di un bonus a seguito della salita al trono del figlio, con grande costo del Tesoro interno e del Tesoro esterno. Allo stesso tempo, si assicurò subito che il Gran Visir fosse di sua propria nomina ordinando l’esecuzione di Kenankesh Ali Pasha, ufficialmente per il ritardo nel riportare a palazzo la notizia della perdita di Baghdad. Nel 1624, il successore di Ali come Gran Visir, Mehmed Pasha il Circasso, lasciò Istanbul con l’ordine di sconfiggere il governatore ribelle di Erzurum e poi di procedere verso Baghdad. Mehmed Pasha l’abkhazi subì una sconfitta vicino a Kayseri e si ritirò ad Erzurum, mentre un’altra forza ottomana vinse gli Iraniani che si stavano raggruppando a Kerkuk. Sia Erzurum che Baghdad però rimasero in mani nemiche.

  Nel 1626, il successore di Mehmed Pasha come Gran Visir, Hafiz Ahmed Pasha, assediò Baghdad per parecchi mesi. Dopo numerose schermaglie intorno alla città e una grave sconfitta a Giugno, una rivolta dei giannizzeri lo costrinse a ritirarsi. La guerra nell’Anatolia orientale e nel Caucaso non era più coronata da successo. Ancora nominalmente un governatore ottomano, Mehmed Pasha l’abkhazi disobbedì all’ordine di marciare  contro l’esercito safavide che assediava Ahiska. Invece, attaccò e sconfisse le forze ottomane della regione di Erzerum, uccidendo i giannizzeri nella fortezza. Non fu che nel 1628 che un esercito al completo sotto il comando del Gran Visir Hüsrev Pasha fu capace di intrappolarlo ad Erzerum. Rendendosi conto di non poter resistere ad un assedio, l’abkhazi si arrese e chiese una tregua. Il Sultano, a differenza del solito, lo perdonò e, usando una tecnica già utilizzata per la pacificazione dei ribelli anatolici, lo nominò governatore generale della Bosnia.

  La scofitta di Mehmed Pasha l’abkhazi, il rinnovo nel 1629 del trattato di Zsitvatorok e il coinvolgimento dell’Austria nella guerra dei 30 anni lasciò il Sultano libero di usare tutta la sua forza contro l’Iran. La spedizione del Gran Visir fu, nei suoi primi stadi, coronata da notevoli successi. Le forze ottomane sconfissero quelle Iraniane negli scontri vicino Baghdad e successivamente, nel 1630, il Gran Visir sconfisse un esercito safavide a Mihriban e, durante la ritirata, si impadronì di Hamadan e Darguzin, con l’intenzione di marciare su Ardabil e Qazvin. Fu lì che gli fu ricordato che il sovrano voleva innanzitutto riprendere Baghdad e così ritornò indietro e cinse d’assedio la città. Dopo il fallimento dell’assalto generale nel Novembre 1630, Hüsrev Pasha interruppe l’assedio e tornò a Mosul, consentendo al successore dello Shah Abbas, lo Shah Safi, di ribaltare le conquiste ottomane.

  Per il suo fallimento nel catturare Baghdad il Sultano rimosse Hüsrev Pasha e lo rimpiazzò con Hafiz Ahmed. Hüsrev Pasha sembra sia stato popolare tra i giannizzeri e le sei divisioni di cavalleria del palazzo. La sua rimozione fu la scintilla che fece scoppiare una violenta ribellione che si estese oltre la capitale ai cavalieri dell’Anatolia. Con l’incoraggiamento del Visir Rejeb Pasha, questi uomini vennero a palazzo nel Febbraio 1632 e chiesero la testa del Gran Visir, del Gran Mufti  e di parecchi stretti collaboratori di Murad. Per pacificare i ribelli il Sultano ordinò l’esecuzione dell’ultimo Gran Visir, Hüsrev Pasha, nel carcere di Tokat. La sua morte rimosse un favorito dei ribelli, ma l’arrivo della sua testa ad Istanbul infiammò la situazione. In Marzo, gli insorti chiesero altre esecuzioni e, più pericolosamente per il Sultano, la custodia dei principi Bayezid, Süleyman, Kasim ed Ibrahim. Il Sultano si piegò agli insorti per quanto riguarda le esecuzioni, menre Rejeb Pasha e il nuovo Gran Mufti accettarono di garantire la sicurezza dei principi. Fu a questo punto che i ribelli discussero se detronizzare il Sultano. Comunque, alcuni dei soldati, incluso anche l’agha dei giannizzeri, rimasero leali al Sultano, e fu questi che informò Murad sul ruolo di Rejeb Pasha e di Janbuladoghlu Pasha nel sobillare la ribellione. Il Sultano sospettava in particolare Rejeb Pasha e in Marzo lo convocò a palazzo e lo fece strangolare. Al suo posto nominò Tabani Yassi (“piedipiatti”) Mehmed Pasha.

  Quando, comunque, le truppe di cavalleria udirono che Murad aveva bloccato una parte del loro soldo, la ribellione riprese vita. Questa volta il Sultano non capitolò, ma chiamò nel palazzo i loro leader a gruppi e da ciascun gruppo ottenne un giuramento di fedeltà. Poi contrattaccò, ordinanto la immediata esecuzione dei ribelli catturati ad Istanbul e nelle province e la cessazione di tutti i pagamenti che non facessero parte dei loro regolari salari.

  La sconfitta della ribellione salvò il trono di Murad, ma non fece finire i suoi guai. Fu necessaria una spedizione sotto Küchük (“il piccolo”) Ahmed Pasha  per sopprimere i briganti in Anatolia e per fermare la ribellione di Fakhr al-Din in Libano. Poi, nel 1633, il fuoco distrusse gran parte di Istanbul, l’ultima di una serie di calamità che sembra abbiano colpito il sovrano e l’abbiano reso sospettoso riguardo tutto il suo entourage. Nel 1633 egli bandì il suo consigliere, Kochi Bey e l’anno successivo, consigliato da sua madre, giustiziò il Gran Mufti, Ahizade. Nel 1635 giustiziò il principe Süleyman e nel 1638 i principi Kasim e Bayezid, provocando una crisi nella successione dinastica, visto che non aveva figli viventi. Oltre alle frequenti e spesso arbitrarie esecuzioni, nel 1633, con l’incoraggiamento di un potente gruppo di musulmani fondamentalisti mise al bando caffè e tabacco. Durante questo periodo la penalità per chi fumava era la morte.

  Le violente misure di Murad, comunque, non restaurarono l’ordine nell’Impero, e non gli consentirono di restaurare la perduta gloria militare dei suoi predecessori. Nel 1632, Shah safi invase la georgia e mise van sotto assedio. L’anno seguente un esrecito sotto il comando del Gran Visir Mehmed Pasha, si riunì ad Üsküdar ed avanzò fino a Diyarbekir. Entro Settembre, comunque, gli Iraniani avevano tolto l’assedio e lo scoppio delle ostilità con la Polonia fece richamare l’esercito. I continui raid tatari in Polonia e raid cosacchi in territorio ottomano erano causa di tensione e nel 1633, la tensione condusse a combattimenti sulla riva del Dniestr e ad una campagna sotto Mehmed Pasha l’abkhazi. Gli assalti di Mehmed Pasha a Kamenets e alle fortificazioni cosacche furono senza successo, e iniziarono le trattative. Quando queste non condussero a nulla, Murad nominò Murtaza Pasha a capo della campagna polacca, con pieni poteri di guerra e di pace. Egli lasciò Edirne nel 1634, e formalizzò un accordo con la Polonia. Gli Ottomani dovevano far ritirare le tribù tatare dalle steppe di Belgorod e i Polacchi dovevano tenere sotto controllo i cosacchi. La pace lasciò libero Murad di intraprendere una campagna contro l’Iran.

  Nel 1635, nello stesso momento che inviava Uzun Piyale in una spedizione navale contro i cosacchi, il Sultano lasciò Üsküdar in persona alla testa del suo esercito. Per la fine di Luglio egli aveva raggiunto Erivan e, entro una settimana, il comandante safavide si era arreso e aveva offerto i suoi servigi al Sultano ottomano. Alla caduta della città Murad mandò Kenan Pasha ad espugnare Ahiksa, mentre il corpo principale dell’esercito proseguiva verso Tabriz. Qui, comunque, il Sultano cadde ammalato e tornò a Van, con l’esrecito safavide che lo teneva d’occhio ma non attaccava. Ad Izmit, sulla via di ritorno verso Istanbul, Kenan Pasha si riunì al Sultano con la notizia della cattura di Ahiska.

  La campagna, sembrava, aveva avuto successo fino al momento in cui, nell’Aprile 1636, lo Shah Safi riconquistò Erivan e, poco dopo, sconfisse e uccise Küchük Ahmed Pasha vicino a Mihriban. Murad non rispose immediatamente alla perdita, ma infine, l’8 Maggio 1638, condusse il suo esercito da Istanbul, in compagnia del Gran Mufti e dell’ammiraglio, a Baghdad. Durante il suo transito per le province dell’Anatolia e dell’Arabia ordinò l’esecuzione di briganti e altri miscredenti. A metà di Ottobre l’esercito si accampò fuori Baghdad e il 24 Dicembre il governatore safavide Bektash Khan, si arrese. Nel Gennaio del 1539, Murad entrò nella città. Durante il viaggio di ritorno cadde malato a Diyarbekir e non raggiunse la capitale fino a Giugno. Nel frattempo il Gran Visir, Tayyar, (“il mercuriale”) Mehmed Pasha, negoziò il trattato di Qasr-i Shirin con un inviato dello Shah, terminando una guerra che era proseguita ad intermittenza dal 1603. Il trattato consegnava Baghdad all’Impero Ottomano, ristabilendo il confine tra i Safavidi e l’Impero Ottomano che era stato fissato col trattato di amasya nel 1555.

  Murad IV morì nel 1640 con la reputazione di colui che aveva restaurato l’ordine nell’Impero e che, con le campagne di Erivan e Baghdad aveva rinverdito la gloria militare ottomana. Il suo sucessore Ibrahim, per contrasto doveva ricevere l’epiteto di “il matto”. Era il solo fratello sopravvissuto di Murad e aveva sofferto, sembra, dei terrori da provati da giovane. Dal momento del suo confinamento nel palazzo aveva assistito all’assassinio di Osman II, alla deposizione di Mustafa e alla esecuzione dei suoi fratelli Süleyman, Bayezid e Kasim. Fu solo con difficoltà, si racconta, e dopo che ebbe visto il cadavere del fratello, che sua madre, Kösem Sultana e il Gran Visir Kemankesh (“the bowman”) Mustafa Pasha lo persuasero ad ascendere al trono.

  Nondimeno, a dispetto dei suoi terrori, nei primi quattro anni del suo regno l’Impero, sotto l’efficace controllo del Gran Visir, godette un periodo di stabilità. Negli anni ’30 del Seicento, Murad aveva tentato di restaurare la sua forza militare riassegnando a uomini in servizio attivo  i feudi che non andavano più a sostentare un servizio militare attivo. Nei primi anni anni ’40 Ibrahim e il suo Gran Visir avevano ordinato un nuovo rilevamento fiscale e l’emissione di nuova moneta nel tentativo di stabilizzare il Tesoro. Lo stesso anno vide la ratifica del trattato con l’Iran e, con sollievo dell’Austria, in un momento di crisi nella Guerra dei Trent’anni, il rinnovo del trattato di Zsitvatorok. Nel 1644 comunque questo periodo di tranquillità cessò e con esso la stabilità mentale del sovrano. In quell’anno l’esorcista personale Jinji Hoja e i suoi alleati, Sultanzade Mehmed Pasha e Yusuf Pasha avevano acquistato, apparentemente con il supporto di Kösem sultana, controllo delle nomine alle cariche di stato. Nel Gennaio 1644, essi provocarono l’esecuzione di Kemankesh Mustafa e si installarono rispettivamente come giudice militare dell’Anatolia, Gran Visir e Ammiraglio. Questo colpo di stato fu il primo stadio della crisi.

  Il primo elemento di questa fu lo scoppio della guerra con Venezia. Nel Luglio 1644, pirati maltesi avevano catturato una nave che trasportava l’ex capo degli eunuchi neri dell’Harem e molti altri verso l’Egitto. La risposta ottomana fu di costruire una flotta che gli osservatori ritenevano era destinata a malta. Di fatto, quando la flotta apparve nel 1645, la sua destinazione era Creta. La conquista dell’isola era, sembra, desiderio particolare del Sultano e, dal momento che si trovava sulla rotta per l’Egitto, l’attacco da Malta era comunque da addebitare ai Veneziani. Con il vantaggio della sorpresa, la campagna si aprì con dei successi. In Agosto cadde Chania e l’anno seguente, a dispetto dei cambiamenti di fortuna tra le fazioni al potere ci furono ulteriori vittorie. Recriminazioni reciproche tra l’ammiraglio Yusuf Pasha e il Gran Visir, Sultananzade Mehmed Pasha, condussero dapprima alle dimissioni di Sultanzade e poi alla esecuzione di yusuf Pasha. Nondimeno, nel 1646, le truppe a Creta, sotto il comando di Mad Hüseyn Pasha, catturarono Apokoroni e successivamente, dopo il fallito tentativo di conquistare Souda, occuparono Rethymnon. Nello stesso momento Mad hüseyn frustrò i tentativi Veneziani di attuare un blocco dei Dardanelli e di stabilirsi a Tenedos. Nell’estate del 1647, Herakleion fu posta sotto assedio.

  I successi di Mad Hüseyn contrastavano con i problemi nella capitale. L’esecuzione di Kemankesh Pasha aveva inaugurato un periodo di fiera competizione per l’incarico, che coincise con un deterioramento dello stato mentale del Sultano. Sembra probabile che, al tempo della sua successione, i consiglieri di Ibrahim fossero consapevoli che la sua intelligenza era limitata: un trattato sul governo che lo scrittore di consigli Kochi Bey scrisse per lui al momento della salita al trono è composto in linguaggio opportunamente non complicato. Ciò che scatenò l’insanità mentale sembra sia stata la crisi dinastica che suo fratello, Murad IV aveva lasciato in eredità. Murad era morto senza eredi maschi in un momento in cui ibrahim non aveva figli propri. Se Ibrahim fosse morto senza figli la dinastia si sarebbe estinta. Il suo primo dovere, dunque, era di procreare eredi maschi, e questo fu quello che fece con brama crescente. Il dovere si trasformò in una ossessione e, come si ritirò nel mondo privato dell’Harem i suoi capricci cominciarono a minare l’Impero. Nel 1647, fece giustiziare il Gran Visir, Salih Pasha, accusandolo di non far applicare il bando delle carrozze nella capitale. Al posto di Sahlil ibrahim nominò Musa Pasha, il marito di una delle sue amanti preferite. Comunque, prima che Musa potesse raggiungere Istanbul, il rappresentante del Gran Visir Hezarpare (“migliaia di pezzi”) Ahmed Pasha lo persuase a nominare se stesso al suo posto. Per salvaguardare la sua propria posizione Ahmed Pasha provvide ai capricci del Sultano, imponendo, tra l’altro delle tasse per finanziare la sua ossessione per le pelli di zibellino e l’ambra grigia.

  La discesa del Sultano nella follia coincise con un periodo di crisi politica e militare. Nel 1647 un contingente ottomano pose l’assedio a Herakleion e i Veneziani bloccarono i dardanelli, impedendo agli approvvigionamenti di raggiungere l’esercito. Una volta che gli Ottomani avevano perso l’elemento della sorpresa, era diventato chiaro che i Veneziani avevano la superiorità sul mare. Padroneggiando l’arte di costruire galeoni essi godevano di un vantaggio, in particolare riguardo l’artiglieria navale, sugli Ottomani, la cui flotta da guerra consisteva quasi interamente di galee a remi. Anche in terra i Veneziani fecero progressi. In Dalmazia, il governatore generale della Bosnia non riuscì a catturare Zadar e Šebenik, mentre i Veneziani colpirono una serie di fortezze alla frontiera bosniaca. Nel 1647, in un momento in cui il blocco degli stretti stava causando scarsità di cibo ad Istanbul il Gran Visir Ahmed Pasha, rifiutò di ammettere a palazzo il governatore generale della Rumelia che recava notizia della conquista Veneziana di Klis. L’incoscienza del Sultano in un periodo di crisi condusse ad una rivolta. Nel 1648, ricevendo l’ordine di pagare una notevole somma come “tassa sui festeggiamenti” il governatore generale di Sivas, Varvar Pasha, si ribellò. Con ciò contestava anche la pratica di rimuovere i governatori dai loro uffici prima del termine previsto di tre anni. La ribellione non ebbe successo. Varvar Ali sconfisse una forza governativa, ma subì la sconfitta e la esecuzione per mano di Ibshir Pasha. Alla fine fu una sollevazione nella capitale che fece cadere il Sultano.

  Nel 1648 una flotta Veneziana bloccò con successo i Dardanelli e impedì all’ammiraglio, Ammarzade, di trasportare approvvigionamenti a creta. Egli pagò questo fallimento con la propria vita. In Giugno un terremoto scosse Istanbul e fu preso da molti come un segno dell’ira divina. In Agosto i comandanti dei giannizzeri chiesero al Gran Mufti, Abdurrahim, una fatwa che giustificasse l’esecuzione del Gran Visir. Il Gran Mufti fece ciò che gli era stato chiesto e così, con la sua copertura, i cospiratori deposero e giustiziarono prima il Gran Visir e poi lo stesso Sultano.

  Il successore di Ibrahim fu il suo figlio di sette anni Mehmed IV (1648-1487)

  Nel momento dell’ascesa al sultanato del bambino la figura più influente nel governo era sua nonna, Kösem sultana. Il suo “regno” terminò con il suo assassinio nel 1651, probabilmente su istigazione della madre di Mehmed, Turhan, che assunse la reggenza in rappresentanza di suo figlio. Nel 1656, dopo un periodo di instabilità politica e un momento di pericolo mortale che era seguito all’annientamento da parte dei Veneziani di una flotta ottomana nei Dardanelli, Turhan cedette gran parte del suo potere ad un anziano e quasi sconosciuto governatore provinciale che nominò come Gran Visir. La sua intuizione fu notevole. Köprülü Mehmed Pasha, e, dopo di lui, suo figlio Fazil Ahmed, rinverdirono le fortune dell’Impero, portando non solo calma politica, ma anche successo militare. Fu Fazil Ahmed che portò la guerra di Creta ad una conclusione vittoriosa nel 1669. Questo periodo doveva durare fino alla decisione, nel 1683, di assediare Vienna.

 

 

 

CRONOLOGIA: DALL’ASSEDIO DI VIENNA AI GIORNI NOSTRI, 1683-1922

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  Non solo l’assedio di Vienna fallì, ma condusse direttamente alla formazione della Lega Santa, una coalizione di potenze anti-ottomane (Austria, Polonia,Venezia, Russia). Nei sedici anni di guerra che seguirono, l’Impero Ottomano soffrì sconfitte sul mare e in terra.

  I turchi dovettero sgombrare l’Ungheria (Buda e Pest furono riconquistate nel 1686) e, battuti da Eugenio di Savoia a Zenta (1697), concludere due anni dopo la pace di Carlowitz, che sanzionava le perdite dell’Ungheria e della Transilvania, nonché quella temporanea della Morea, riconquistata a Venezia dalle campagne di F. Morosini.

  In base al trattato di Carlowitz del 1699, il Sultano cedette l’Ungheria agli Austriaci, e Atene e la Morea (Peloponneso) a Venezia. Nel giro di quindici anni l’Impero aveva recuperato i territori persi in Grecia ma l’Ungheria – la conquista più prestigiosa di Süleyman il magnifico – era persa per sempre.

  Era la prima grande guerra che si chiudesse in perdita per l’Impero Ottomano. Venti anni dopo, la pace di Passarowitz (1718), se restituiva ai turchi la Morea, li obbligava a cedere all’Impero asburgico un tratto della Serbia settentrionale; e mentre Venezia scompariva ormai dalla lotta, vi subentrava come nuovo terribile nemico dell’Impero Ottomano la Russia, destinata d’ora innanzi ad aver peso decisivo nella politica estera turca. Il trattato di Küciuk Qainargè (1774), chiudendo  appunto la prima guerra russo-turca, toglieva ai Turchi la Crimea e inaugurava la protezione russa sulle popolazioni greco-ortodosse dell’Impero. L’indebolirsi della grande compagine ottomana era ormai evidente e inarrestabile. Sultani energici come Selim III (1789-1807) e soprattutto Mahmud II (1809-1839) tentarono di porvi riparo con organiche riforme soprattutto militari (sterminio e soppressione nel 1826 dei turbolenti giannizzeri), ma non riuscirono a impedire l’ulteriore disintegrarsi dell’Impero (insurrezione greca del 1821, con susseguente distacco della Grecia dopo l’intervento europo a Navarino; indipendenza effettiva dell’Egitto sotto Mohammed Ali e campagne egiziane sin nel cuore dell’Anatolia; autonomia della Serbia sotto gli Obrenovic, 1830). Accanto alle riforme militari, fu allora tentato tutto un radicale rinnovamento di struttura dello stato per adeguarne le basi agli stati moderni europei. Fu questo il periodo delle cosiddette Tanzimat (“ordinamenti” o “riforme”), i cui atti fondamentali furono il rescritto imperiale di Gülkāne (1839) e l’altro del 1856: abbandonando i principi del diritto canonico musulmano, tali riforme sancivano l’uguaglianza dei sudditi dinanzi alla legge, indipendentemente dalla confessione religiosa, la libertà di coscienza e di culto, l'equa ripartizione delle imposte, mentre si istituivano tribunali civili e penali distinti da quelli religiosi (già da tempo speciali trattati, le cosiddette “capitolazioni”, sottraevano a qualsiasi tribunale ottomano gli stranieri residenti nell’Impero). Ma neppure tali riforme valsero ad arrestare la decadenza interna e internazionale dello stato ottomano, nonostante l’interessato intervento in suo aiuto delle potenze europee (guerra di Crimea, 1855). Si fece allora più vivace il moto liberale, volto a ottenere una costituzione di tipo prettamente europeo. Questa, largita nel 1876 dal Sultano ‘Abd ul-Hamid II (1876-1909), fu poi subito lasciata cadere e lo stato ottomano fu retto  da quel despota astuto e sanguinario (“il Sultano rosso”) con un regime di corruzione e di terrore. La seconda guerra russo-turca (1877-78) vide frattanto, con le decisioni del congresso di Berlino, il quasi totale sfasciarsi del dominio turco in Europa, con la creazione degli stati indipendenti di Serbia, Romania, e (1885) Bulgaria. L’ultimo tentativo di superare la crisi entro l’antico quadro dell’Impero plurinazionale fu la rivoluzione radical-massonica dei Giovani Turchi (“Comitato Unione e Progresso”) del 1908-09 che depose ‘Abd ul-Hamid e inaugurò un regime costituzionale sotto Maometto V (1909-1918). Ma il processo di disintagrazione continuò: con la guerra Italo-turca (1911-12) andava perduta la Libia, con le due guerre balcaniche (1912-13) la Macedonia, la Tracia occidentale, le ultime isole greche dell’Egeo, l’Albania.

  L’esito della prima guerra mondiale, in cui il regime dei Giovani Turchi trascinò la Turchia a fianco degli Imperi centrali, dette il colpo di grazia al secolare Impero Ottomano. Nel 1918 si staccavano da esso tutti i paesi arabi (Siria, Palestina, Mesopotamia, Arabia) e il trattato di Sévres (1920), sanzionando questi mutamenti territoriali e progettandone altri (indipendenza dell’Armenia, autonomia del Kurdistan) metteva in forse l’unità e l’indipendenza stessa della Turchia. Questa fu salvata  dal movimento di riscossa capitanato da Mustafa Kemal, che condusse dopo quattro anni di lotta all’espulsione degli invasori stranieri dall’Anatolia e alla restaurazione nel territorio prettamente turco di una gelosa sovranità nazionale. Ma questa resurrezione segnò insieme la fine dell’Impero Ottomano, abolito come sultanato nel 1922 e sostituito nel 1923 con la proclamazione della Turchia. L’ultimo Sultano ottomano, Maometto VI, prese la via dell’esilio.

 

 

 

LA DINASTIA: RIPRODUZIONE E STRUTTURA FAMILIARE

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  L’Impero Ottomano era uno stato dinastico, la cui esistenza continuativa dipendeva dall’abilità del Sultano di generare eredi maschi e la cui stabilità politica era, in una certa misura, dipendente dalla stabilità all’interno della famiglia imperiale e del palazzo imperiale  . Questioni riguardanti la riproduzione dinastica, la struttura familiare e la successione erano dunque materie di preminente importanza politica.

  Erano le regole della legge islamica o, più precisamente, della sua interpretazione ad opera della scuola hanafita che determinava la struttura della dinastia. Queste  regole, se portate alla loro logica conclusione, non costituivano una famiglia intorno alle persone del marito e della moglie, ma piuttosto una famiglia patriarcale intorno alla persona di un padre. Secondo la legge, dunque, il Sultano era il solo capo della famiglia dinastica, allo stesso modo che egli era il solo sovrano dell’Impero. Ancora per questa ragione legale, la nozione di una regina formalmente riconosciuta – sebbene non una donna potente de facto – era aliena dall’Impero Ottomano come lo era alle altre entità politiche islamiche.

  Le regole essenziali della legge di famiglia erano queste. Una donna poteva maritarsi solo con un marito alla volta, che doveva anche essere socialmente eguale alla sua famiglia. Un uomo, per contro, poteva maritarsi con quattro mogli simultaneamente, e la sua moglie o mogli non necessitavano di essergli eguali socialmente: Una donna musulmana non può, dunque, sposare un uomo non-musulmano, poiché la sua religione lo rende socialmente inferiore. Un uomo musulmano, d’altra parte, può sposare una donna non-musulmana, una regola che doveva diventare un fattore importante  nella politica dinastica. Ciò che era più importante, tuttavia, per la struttura della dinastia  era la regola che consente ad un uomo di possedere ed avere relazioni sessuali con tante schiave quante la sua ricchezza può garantirgli. Un uomo può produrre figli legittimi sia da una moglie che da una schiava. Tutti i bambini nati da una moglie sono automaticamente uomini liberi, ed hanno un automatico diritto ad ereditare. Così è anche è per i figli di una schiava, a patto che il padre li riconosca come suoi propri. Quando l’uomo riconosce il figlio di una schiava la madre schiava acquista uno stato privilegiato nella casa. Il suo padrone non la può vendere e diventa automaticamente libera alla sua morte. Non c’è differenza quanto a status legale tra il figlio della propria moglie e un figlio di una schiava riconosciuto, dato che la discendenza legale è attraverso il padre piuttosto che attraverso la madre. Queste stesse regole si applicavano alla dinastia ottomana. Molti dei sultani erano progenie di madri schiave, e il sultanato discendeva solo in linea maschile. Discendenti nella linea femminile non avevano nessun diritto al trono, e il costume dinastico proibiva loro di occupare un qualche ufficio superiore a quello di governatore provinciale.

  La legge permette anche, o perfino richiede, ad un uomo di confinare ogni moglie nella casa e lo obbliga, in cambio di questo, di fornirle un adeguato mantenimento. Per costume piuttosto che per legge, gli altri membri femminili della famiglia tendevano a soffrire simili restrizioni, ed erano queste regole legali e del costume che erano alla base della istituzione dell’harem, e creavano effettivamente un  mondo privato femminile che contrastava con quello pubblico degli uomini. La dinastia ottomana riproduceva questa struttura. All’interno del Palazzo, l’Harem era quasi inaccessibile dai quartieri degli uomini, eccetto per il Sultano stesso e gli eunuchi nominati suoi guardiani. L’Harem poteva, in certi periodi essere stato un centro di potere politico, ma era invisibile al mondo esterno. La sfera pubblica del palazzo era esclusivamente maschile.

  Dal momento che le donne non potevano ereditare il trono, il primo dovere di un Sultano o principe ottomano era procreare eredi maschi, che poteva fare , legalmente, sia attraverso una moglie che attraverso una concubina schiava. Prima del 1450, il Sultano normalmente si maritava, ma sembra che fin dai primi tempi  sia stato costume della dinastia di riprodursi attraverso schiavi, le mogli avendo una funzione politica piuttosto che riproduttiva.

  Nella tradizione ottomana la discendenza della dinastia inizia con il matrimonio del primo sovrano, Osman (m. c. 1324), con Malhun, figlia del derviscio Edebali, e madre del secondo regnante, Orhan (circa 1324-62). La storia è chiaramente leggendaria, ma il nome Malhun può essere una versione abbreviata di una certa “Malhatun figlia di Ömer Beg” il cui nome appare come testimone della creazione di un negozio fiduciario  del figlio di Osman, Orhan. É possibile che questa donna fosse la moglie di Osman e la madre di Orhan. Il titolo di suo padre “Beg” (“signore”), all’epoca suggerisce che si trattava di un signore indipendente che aveva forse dato in moglie sua figlia a Osman per ragioni poltiche. Questo, comunque è materia di speculazione. La madre del terzo sovrano ottomano, Murad I (1362-1389) era anche, se si deve credere alla tradizione ottomana, una moglie piuttosto che una schiava. Il suo nome, come attesta una iscrizione a Iznik, era Nilüfer (“giglio d’acqua”), e la tradizione la vuole figlia del sovrano greco di Yarhisar, che Osman aveva catturato e dato in moglie a suo figlio, Orhan. Come la maggior parte delle storie degli inizi degli ottomani, comunque, è abbastanza probabile che questo racconto sia una invenzione: il nome della donna suggerisce che era una schiava.

  Quale che fosse lo status di Nilüfer, la preferenza ottomana per la riproduzione attraverso le schiave sembra sia rimasta stabilita con Murad I. La madre del suo figlio e successore, Bayezid I (1589-1402) era, come mostrano due atti di negozio fiduciario  che sono pervenuti sino a noi, una certa Gülchichek (“rosa”) e, di nuovo, il suo nome suggerisce che non era una donna nata libera. Il cronista Shükrullah scrisse intorno al 1460 dei figli di Bayezid: “ebbe sei figli: Ertughrul, Emir Süleyman (Rumelia, 1402-1411), il Sultano Mehmed (I, Anatolia, 1402-13; 1413-1421), il principe Isa, Il principe Musa (Rumelia, 1411-13), e il principe Mustafa. Le loro madri erano tutte schiave. Egli fa lo stesso commento per i figli di Mehmed I: “Egli ebbe cinque figli: il principe Murad II (1421-1451), il principe Mustafa, il principe Ahmed, il prinicipe Yusuf e il principe Mahmud. Le madri di tutti loro erano schiave. Così pure era Hüma, la madre di Maometto II (1451-1481) e Gülbahar, la madre di Bayezid II (1481-1512). Ayshe, la madre del figlio e successore di Bayezid, Selim I (1512-1520) era un’eccezione. Ella sembra essere stata la figlia di Alaeddevle, il sovrano di Dulgadir, che aveva sposato Bayezid nel quadro di una alleanza politica prima della sua salita al trono, quando era principe-governatore di Amasya.

  Attraverso la sua storia, la dinastia ottomana continuò a riprodursi tramite schiave, ma tra il quattordicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo era anche consuetudine limitare la riproduzione di ciascuna consorte ad un singolo figlio. Una volta che avesse partorito al Sultano un erede maschio, la donna non entrava più nel suo letto. Erano, sembra, questioni politiche riguardanti la successione che determinarono questa pratica. Dal momento della sua nascita, ogni figlio di un principe o Sultano era idoneo al trono, e così diventava il rivale politico dei suoi fratelli. I principi comunque non crescevano insieme. Ciascuna madre allevava separatamente il suo figlio e quando, all’età di dieci, undici o dodici anni, il Sultano, come era costume, lo nominava governatore di una provincia, sua madre lo accompagnava al suo nuovo incarico e diventava il suo guardiano morale. In tal modo, ogni madre diveniva una delle figure con maggiore autorità nella famiglia  che si formava intorno a suo figlio nella sua sede provinciale, e patrocinatrice della sua causa  nella lotta per il trono che doveva inevitabilmente seguire alla morte del padre.

  Questo almeno era lo schema per quanto riguarda la riproduzione e le cure materne fino al regno di Süleyman I (1520-1566). Questo Sultano ruppe con il costume, a quanto pare non per ragioni politiche, ma per amore. Nel 1521, il Sultano aveva un unico figlio vivente, Mustafa, la cui madre era  una concubina schiava chiamata Mahidevran. Nello stesso anno egli procreò un altro figlio, Mehmed, da Hurrem, la concubina che fonti europee ricordano come Roxelana. A questo punto, per costume dinastico, egli non avrebbe dovuto avere più rapporti sessuali con lei,ma invece, tra il 1522 e il 1531, lei partorì altri sei figli, incluso il suo successore, Selim II (1566-74). Tanto era l’affetto per Hurrem che nel 1533, con un atto di rottura rispetto alla tradizione che sembra abbia scandalizzato i suoi contemporanei, egli la liberò e la sposò. Quando lei morì nel 1558, fu sepolta nella moschea Süleymaniye, vicino al mausoleo del Sultano, come un segno duraturo del suo affetto. La posizione di Hurrem come madre di più di un figlio alterò la struttura politica della dinastia. Differentemente dalle precedenti madri di principi, ella non accompagnò i propri figli nel governatorato delle province, ma rimase ad Istanbul al centro del potere, con immediato accesso al Sultano. In questo senso prefigurava le potenti donne della fine del sedicesimo e del diciassettesimo secolo.

  Hurrem stabilì un precedente. Prima della sua salita al trono il figlio di Süleyman, Selim II, aveva procreato parecchie figlie e un figlio dalla sua concubina preferita, Nurbanu, per nascita una veneziana di nobile, anche se illegittima discendenza. Dopo la sua salita al trono egli procreò sei altri figli, ciascuno, sembra, da madri differenti, ma  si differenziò dai suoi predecessori per il fatto che  riconobbe il figlio avuto da Nurbanu, Murad III (1574-1595), come suo legittimo erede, e seguì suo padre nel prendere – apparentemente – Nurbanu come sua legittima moglie, dandole una posizione di potere simile a quella di cui aveva goduto la sua matrigna Hurrem. A differenza di Hurrem, però, Nurbanu sopravvisse al suo consorte e, tra il 1574 e la sua morte nel 1583, continuò a godere di un ruolo politico come madre del Sultano regnante, sebbene fosse a quanto pare residente nel Palazzo dopo la morte di Selim II. Colei che le succedette, Safiye, ebbe una carriera simile. Anche essa era una concubina favorita con cui Murad III a quanto pare aveva una relazione monogamica fino alla morte del loro secondo figlio nel 1581. Tra questa data e la sua morte Murad procreò, apparentemente su istigazione di sua madre, diciannove figli da differenti concubine, ma fu comunque il figlio rimasto di Safiye, Mehmed III (1595-1603) che ascese al trono nel 1595, con sua madre, Safiye, come figura dominante. Il potere delle regine madri divenne particolarmente pronunciato durante il diciassettesimo secolo, col lungo “regno” di Kösem Mahpeyker, la favorita di Ahmed I (1603-1617). Era la madre di quattro dei cinque figli di Ahmed, di cui due, Murad e Ibrahim dovevano diventare sultani. Il suo periodo di potere iniziò nel 1617, quando il figlio mentalmente debole di Ahmed I, Mustafa I (1617-1618, 1622-1623) ascese al trono. Dopo la deposizione di Mustafà l’anno successivo il suo successore Osman II (1618-1622) – figlio di Ahmed I da una madre differente – la bandì dal Palazzo, ma lei tornò dopo l’uccisione di Osman nella rivolta dei giannizzeri. Il successore di Osman era Mustafa, una persona dalla mente debole e la sua successione al trono portò temporaneamente sua madre in una posizione di potere. Mustafa, comunque, perse il suo trono dopo poco meno di un anno e fu allora che il figlio di Kösem, il dodicenne Murad IV (1623-40) divenne Sultano. Con la sua ascesa al trono Kösem effettivamente prese le redini del governo in sue veci, e rimase la sua stretta consulente anche dopo che ebbe raggiunto l’età adulta. Alla morte di Murad, il suo ultimo figlio vivente, Ibrahim (1640-1648) succedette. Quando la sua instabilità mentale minacciò la sicurezza del regno, Kösem sembra aver giocato un ruolo nel condurre gli affari di governo e continuò a farlo dopo la deposizione di Ibrahim nel 1648, fino al suo assassinio nel 1651 su istigazione, si vociferava, di Turhan Sultana, la madre del nuovo Sultano Mehmed IV (1648-87). Per i successivi cinque anni Turhan fu reggente in vece del figlio finché, col suo consenso, Küprülü Mehmed Pasha assunse la carica di gran visir nel 1656, con poteri virtualmente sovrani. Da questa data, il potere politico delle regine madri, svanì.

  La dinastia ottomana, dunque, si riproduceva quasi esclusivamente attraverso concubine schiave. Prima del regno di Süleyman, il ruolo di queste donne era di procreare ed educare ciascuna un singolo figlio. Erano loro le responsabili per la crescita dei loro figli, ma non avevano parte nel governo dell’Impero, eccetto forse nelle province alle quali il Sultano aveva assegnato i loro figli come governatori. Col regno di Süleyman I, lo schema cambiò. Dal periodo di Hurrem era abbastanza consueto, per una concubina,  dare alla luce più di un figlio e, con la morte del consorte, di assumere il ruolo di regina madre, con una potente influenza su suo figlio, il Sultano regnante. Questo sviluppo raggiunse il suo massimo con le carriere di Kösem e Turhan, due donne le cui forti personalità sembrano aver tenuto insieme la dinastia  durante quasi quaranta anni di crisi dinastiche, politiche e militari. La posizione e il potere della regina madre non fu mai formalizzato, ma osservatori sia ottomani che stranieri erano consapevoli della sua realtà e invero, in un sistema dove la prossimità al Sultano era una fonte di potere, ciò sembrava quasi naturale.

  A dispetto della prefrenza della dinastia ottomana per la riproduzione attraverso schiave concubine, nel primo secolo e mezzo di sovranità ottomana, i matrimoni reali erano comuni. Il loro scopo, comunque, era sempre politico e mai riproduttivo. La questione se  Osman sposò Malhatun e se la consorte di Orhan, Nilöfer era una moglie o una concubina sono oggetto di speculazione. Il primo riferimento sicuro al matrimonio di un principe ottomano appare nella cronaca bizantina dell’Imperatore Giovanni VI Cantacuzeno che  riporta, nella sua versione della storia, come Orhan chiese la mano di sua figlia Teodora, promettendo a Cantacuzeno che sarebbe stato “come un figlio, e avrebbe messo il suo intero esercito sotto gli ordini di Kantacuzeno”. Il matrimonio ebbe luogo nel 1346 e successivamente Orhan fornì  effettivamente truppe al suo patrigno, truppe che furono un fattore della sua conquista del trono di Bisanzio nel 1346. Ciò che il matrimonio aveva fatto era stabilire una alleanza  tra le due famiglie. Dopo l’abdicazione di Giovanni Cantacuzeno nel 1354, e la salita al trono di Giovanni V paleologo, con cui Orhan non aveva legami di famiglia, gli attacchi ottomani sul territorio bizantino ricominciarono di nuovo. Nel medesimo tempo, Orhan continuò a sostenere la famiglia Cantacuzeno, mandando truppe al figlio di Cantacuzeno, Matteo, nel suo tentativo fallito di strappare il trono bizantino a Giovanni VI Paleologo. La soluzione di tale imperatore di fronte alla aggressione ottomana fu di cercare di legare la sua propria famiglia a quella di Orhan. Nel 1358 egli fidanzò sua figlia Eirene al figlio di Orhan Halil, con la richiesta che il vecchio Orhan nominasse Halil suo successore. Di nuovo, sperava che una alleanza familiare avrebbe avuto come conseguenza che Orhan avrebbe risparmiato il suo territorio e avrebbe sostenuto il suo trono. Il piano fallì: il matrimonio non si fece e Halil non successe a Orhan.

  La pratica di sposarsi con membri di dinastie straniere  doveva continuare sotto il successore di Orhan, Murad I, ma con una importante differenza. Il matrimonio di Orhan con Teodora l’aveva reso partner eguale o, se si deve credere a Giovanni Cantacuzeno, partner subordinato  in una alleanza. Al tempo di Murad, il matrionio era diventato uno strumento di soggezione. Qualche tempo dopo il 1371 Murad sposò Thamar, la sorella delo Zar di bulgaria  Sisman di Tarnovo. Lo scopo dell’unione era, è chiaro, ridurre Sisman allo stato di vassallo, che doveva fedeltà a Murad, probabilmente il pagamento di un tributo e certamente la fornitura di truppe all’esercito di Murad. Fu il mancato rispetto di quest’ultimo obbligo da parte di Sisman che condusse Murad a inviare un esercito contro i suoi domini nel 1388.

  I matrimoni di Bayezid furono  similmente strumenti di dominio politico. Il primo di questi ebbe luogo nei tardi anni ’70 del 1300, quando suo fratello sposò la figlia di Yakub, il signore del vicino principato anatolico di Germiyan. La ragione era chiaramente un acquisto territoriale, dal momento che la giovane principessa portava come dote la capitale di Germiyan, Kütahya e altre città nel principato. Nel 1394, quando successe al trono, Bayezid sposò la figlia  della Contessa di Salona, un principato francese ad est di Atene. Con la sposa, acquistò la metà della contea di sua madre. Entrambi questi matrimoni erano, in termini legali, peculiari, dal momento che la legge islamica non richiede che la sposa porti una dote, come queste due donne invece evidentemente fecero. Queste acquisizioni di terre attraverso matrimoni sembrano, dunque essere stati casi in cui i sultani ottomani avevano adottato, a proprio vantaggio, i costumi dei loro vicini greci e latini. L’altro matrimonio di Bayezid fu più convenzionale. Egli sposò, probabilmente nel 1392, Olivera, la sorella di Stefano Lazarević di Serbia, ciò che riduceva Stefano a vassallo, con l’obbligo di fornire troppe e tributi. In cambio Bayezid poteva offrire a Stefano protezione, particolarmente contro le ambizioni del re di Ungheria.

  Accordi matrimoniali come questi  erano possibili solo quando gli ottomani divennero un potere politico e militare dominante. Durante la guerra civile che seguì la sconfitta di Bayezid ad opera di Tamerlano nel 1402, i principi ottomani in guerra tra loro non contrassero matrimoni per dominare i propri vicini, ma piuttosto per creare alleanze che fossero utili nella lotta contro i loro fratelli. Così, quando il principe Musa arrivò in Valacchia nel 1409, per sfidare l’ascesa di suo fratello Süleyman in Rumelia, si assicurò l’alleanza del voivoda Mircea di Valacchia sposando la figlia di questo sovrano. Quattro anni più tardi, quando aveva sconfitto Süleyman, sposò la figlia illegittima del Despota Carlo Tocco di Ioannina, in un tentativo di assicurarsi un’alleanza contro suo fratello, Mehmed. Mehmed, nello stesso momento, si era sposato una principessa di Dulgadir, formando un’alleanza in Anatolia che avrebbe protetto la sua frontiera sud-orientale da un eventuale attacco Timuride, Mamelucco o Karamanide, mentre combatteva suo fratello in Europa. Allo stesso tempo, il suo patrigno di Dulgadir gli fornì le truppe per il suo attacco finale al principe Musa nel 1413.

  Murad II continuò la pratica di sposare membri di dinastie straniere. Nel 1423, il signore di Kastamonu, Isfendyaroghlu, attaccò le terre di Murad, inducendo il Sultano ad un riuscito contrattacco. Isfendyaroghlu cercò la pace e, come condizione per la non-aggressione da parte di Murad, diede al Sultano in matrimonio la sua figlia ancora bambina e acconsentì a fornire ogni anno truppe per il suo esercito. Il secondo matrimonio di Murad, nel 1435, era con Mara, la figlia del Despota Serbo Giorgio Branković, la cui fedeltà era essenziale perché Murad potesse rendere sicura la frontiera lungo il Danubio con il regno di Ungheria. Il matrimonio del suo figlio, Mehmed (III) nel 1450 a Sitti Hatun di Dulgadir ebbe una simile funzione di rendere sicure le sue frontiere orientali in Anatolia. Questo deve essere anche stato il proposito del matrimonio del figlio di Mehmed, Bayezid (III) con Ayshe Hatun, figlia di Alaeddevle di Dulgadir, le cui terre erano contigue alla provincia di cui il principe era governatore.

  Questo fu l’ultimo matrimonio di un principe o Sultano ottomano  con una principessa straniera. Ciò che colpisce di più riguardo questi matrimoni è che essi sembrano, per la maggior parte, essere stati sterili. Murad II alla fine procreò un figlio con la figlia di Isfendyaroghlu, e Selim I era, eccezionalmente, il figlio di una principessa, ma, in generale, la funzione delle spose dinastiche non era quella di procreare, ma di assicurare la lealtà dei loro padri come alleati o vassalli del Sultano ottomano, e nell’ultimo caso di vivere come ostaggi alla corte ottomana. Il matrimonio per i sultani ottomani era un espediente politico. Quando non fu più utile, essi interruppero la pratica.

  I matrimoni di principesse ottomane, per quel tanto che sopravvive nelle fonti, sembrano aver seguito uno schema analogo. Prima della metà del quindicesimo secolo, esse si sposavano a dinastie straniere. Da allora in poi i loro matrimoni furono interni allo stato ottomano. Murad I maritò una delle sue figlie a Süleyman Pasha, il signore di Kastamonu, e un’altra figlia ad Alaeddin, il signore di Karaman, che il fratello di lei, Bayezid I doveva sconfiggere ed uccidere nel 1397. Ci fu un’altra unione con i Karamanidi nel secolo seguente, quando Ibrahim di Karaman (m. 1463) sposò Hatun Sultana, una figlia di Mehmed I, da cui ebbe sei figli. I fatti successivi alla morte di Ibrahim, quando questi si disputarono la successione con un figlio di Ibrahim da un’altra madre, indicano che poteva esserci un vantaggio per il Sultano ottomano in tali accordi. La disputa di successione diede a Mehmed II un pretesto per interferire negli affari di Karaman, e di risolvere la disputa a favore del suo cugino, Pir Ahmed. Presumibilmente, quando Murad II sposò una figlia di Kasim, il figlio di Isfendyaroghlu di Sinope, la cui figlia lui stesso aveva sposato, il suo scopo era di legare le dinastie ottomana e Isfendyaride a vantaggio degli ottomani. Comunque, dal momento che la discendenza avveniva il linea maschile, la prole delle principesse sposate con dinastie straniere non era, in senso legale, ottomana, e questi matrimoni non potevano dunque servire per stabilire rivendicazioni territoriali ottomane. Perdipiù, dal momento che la legge proibisce ad una donna musulmana di sposare un non-musulmano, le principesse erano disponibili solo per matrimoni con dinastie musulmane, e non nelle dinastie cristiane dei Balcani. Per queste ragioni, i patrimoni di principesse a signori stranieri sembrano essere stato un elemento poco importante  nella politica dinastica ottomana.

  Dopo circa il 1450, la pratica scomparve. Dal regno di Bayezid II si può datare con sicurezza il costume stabile di trovare sposi per le sorelle, figlie e nipoti del Sultano tra l’élite di governo dell’Impero. La figlia di Bayezid, Hundi Hatun, per esempio, sposò Hersekzade Ahmed Pasha, che ricoprì l’incarico di Gran Visir cinque volte durante il regno del suo fratellastro e sotto il suo successore Selim I. Questa pratica non era di fatto nuova, dal momento che Chandarli Mehmed, il fratello del Gran Visir di Murad II, Chardarli Halil, aveva sposato la figlia di Mehmed I, Hafsa, e ci devono essere stati matrimoni simili. Dalla metà del quindicesimo secolo, comunque, divenne pratica normale e probabilmente invariabile.

  Durante la seconda metà del regno di Solimano I divenne consuetudine per il Gran Visir sposarsi con membri della famiglia reale. Rüstem Pasha, per esempio, Gran Visir tra il 1544 e il 1553, e di nuovo dal 1555 fino alla sua morte nel 1563, sposò l’unica figlia di Solimano, Mhrimah (m. 1574). Sokollu Mehmed, Gran Visir del figlio di Solimano, Selim II, divenne similmente figliastro del Sultano. Questo schema di matrimonio doveva diventare la norma verso la fine dell’Impero e chiaramente andava a beneficio della dinastia. Legando gli uomini di stato alla famiglia reale veniva ridotto il rischio che stabilissero delle  famiglie  che fossero indipendenti dal Sultano e, col richiedere che i mariti delle spose reali divorziassero dalle loro mogli, evitava che facessero alleanze matrimoniali con altre famiglie che avrebbero potuto sfidare il potere del Sultano. Queste spose reali devono aver agito come spie per il Sultano, riferendo sulle attività dei suoi ministri.

  Lo scopo del matrimonio, dunque, era sempre politico. Erano le concubine e non le mogli  che assicuravano la riproduzione della dinastia.

 

 

 

LA DINASTIA: SUCCESSIONE

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  Dopo la riproduzione, l’elemento più essenziale nell’assicurare la continuità della dinastia e così dell’Impero era la gestione della successione.

  Come esattamente il primo sovrano della dinastia ottomana raggiunse il riconoscimento come signore supremo non è chiaro. La tradizione ottomana individua l’inizio dell’indipendenza ottomana  nella prima recita in nome di Osman della preghiera del Venerdì, la funzione religiosa attraverso la quale, nell’Islam, un sovrano annuncia la sua sovranità. Questo, asserisce la tradizione,  ebbe luogo nella città di Karajahisar nella valle del Sakarya. I cronisti  hanno assegnato a questo evento varie date, e spesso lo hanno abbellito in accordo con la propria particolare visione della legittimazione al trono ottomano. Che sia accurata o no la tradizione di Karajahisar, la sopravvivenza di una moneta che porta l’iscrizione “(moneta) battuta da Osman, figlio di Ertughrul” conferma che gli ottomani si consideravano sovrani indipendenti , dal momento che l’emissione di moneta, come la celebrazione della preghiera del venerdì in nome del sovrano equivaleva a una dichiarazione di sovranità. La successione nella dinastia ottomana, dunque, inizia con la successione ad Osman.

  Osman fu seguito da suo figlio, Orhan il quale, secondo una tradizione del quindicesimo secolo, succedette al trono durante la vita di suo padre. Una seconda storia tradizionale ci dice come, alla morte di Osman, il fratello di Orhan, Ali Pasha, volontariamente rinunciò  a tutte le pretese al trono e si ritirò in una vita di contemplazione. Il primo di questi racconti potrebbe forse essere vero, ma il secondo è certamente una leggenda che un cronista del quindicesimo secolo elaborò per fornire un modello di come la successione avrebbe dovuto essere gestita, in contrasto con le pratiche sanguinarie dei suoi giorni.

  In un aspetto, comunque, la storia del cronista è corretta. Anche se Orhan non ebbe mai un fratello chiamato Ali Pasha, egli pare essere succeduto al trono  senza lo spargimento di sangue che caratterizzò l’inizio dei regni successivi. Il negozio fiduciario di Orhan nel 1324 registra, tra i testimoni del documento, i nomi dei suoi quattro fratelli. Uno di questi, Pazarlu, viene ricordato dalla cronaca di Giovanni Cantacuzeno, come un comandante nella battaglia di Pelekanon nel 1328, suggerendo che al tempo di Orhan, i fratelli del sovrano avevano qualche parte  nel governo dei suoi regni. Così fecero anche i suoi figli. Il figlio maggiore di Orhan, Süleyman Pasha, che morì prima di suo padre nel 1357, era il comandante ottomano in Tracia negli anni ’50 del 1300, e prese Ankara nel 1354. Anche la cronaca bizantina di Niceforo Gregoras riporta che il figlio di Orhan, Halil, era governatore delle terre del Golfo di Izmit nel 1357. Prese insieme queste testimonianze frammentarie  suggeriscono che, mentre Orhan era il sovrano regnante che governava un reame indivisibile, i suoi fratelli e figli continuarono a giocare un ruolo importante come governatori e comandanti militari.

  Perché Orhan invece che altri fratelli sia dovuto succedere ad Osman non è chiaro. Ciò che è certo, comunque, è che, dopo il suo regno, il modo della successione fu molto differente. Intorno al 1400 il poeta Ahmedi, nella sua breve storia in versi dei “re” ottomani scrisse del successore di Orhan, Murad I (1362-1389): “I suoi fratelli divennero suoi nemici / Le loro faccende  ebbero termine per mano sua / Essi furono tutti distrutti dalla sua spada”. Sebbene Ahmedi non è preciso riguardo i dettagli, il significato dei suoi versi – se si interpreta la parola “fratelli” nel suo significato letterale – è chiaro. Dopo la sua successione Murad uccise tutti i suoi fratelli, forse durante il corso di una guerra civile, e stabilì un precedente che la dinastia doveva seguire per oltre duecento anni dopo la sua morte. Dal tempo di Murad, la successione passò a un qualsiasi figlio del Sultano che avesse sconfitto e ucciso i suoi fratelli o i pretendenti al trono.

  Il figlio di Murad, Bayezid I, (1389-1402) successe a suo padre dopo aver ucciso suo fratello Yakub, secondo una versione tradizionale dei fatti ampiamente diffusa, sul campo di battaglia di Kosovo nel 1389. Da allora, egli governò come unico figlio vivente , fino alla sua sconfitta e cattura nella battaglia di Ankara nel 1402, un evento che iniziò la più lunga crisi di successione nella storia ottomana, la guerra civile del 1402-13.

  Gli eventi di questa guerra mostrano come sin da allora avessero messo saldamente radice due principi della successione dinastica. Il primo, che sembra risalire  ai primi giorni del dominio ottomano, era che il territorio ottomano era indivisibile. I figli di Bayezid si combatterono  fino alla morte piuttosto che dividere le terre che erano rimaste loro dopo la vittoria di Tamerlano. Il secondo principio era che nessuno degli eredi del Sultano godeva di un privilegio successorio. Il sultanato passava a chiunque di essi fosse stato in grado di eliminare la competizione. Questo sembra anche essere stato un principio che i sudditi della dinastia riconobbero. Dei pretendenti  al sultanato nella guerra civile solo Isa, nella sua breve campagna del 1402-03 nell’Anatolia occidentale sembra essere stato rifiutato dai suoi ipotetici sudditi e si basò sull’aiuto di dinastie straniere. I suoi fratelli, Süleyman, Musa e Mehmed fecero alleanze straniere, ma dovettero anche guadagnarsi l’accettazione e radunare truppe nei territori che controllavano. I sudditi ottomani erano, sembra, preparati ad accettare come sovrano quasi ogni erede legittimo di un Sultano ottomano, senza riguardo a un qualsiasi ordine di precedenza.

  Mehmed I (1413-1420) uscì vincitore nella guerra civile, dopo che il suo fratello Musa ebbe sconfitto e ucciso Süleyman nel 1411 e che ebbe lui stesso sconfitto Musa due anni più tardi. Questi due fratricidi non fecero però terminare la guerra civile. Dopo il 1411 l’imperatore bizantino aveva assunto la custodia del figlio di Süleyman, Orhan e, in almeno due occasioni, tentò senza successo di usarlo per fomentare un conflitto nelle terre ottomane. Più importante, comunque, fu la sopravvivenza di Mustafa, probabilmente il più giovane dei figli di Bayezid. Il suo fato nel seguito della battaglia di Ankara è sconosciuto ma, nel 1415, egli era a Trabzon e l’anno successivo radunò un esercito in Rumelia e condusse una rivolta senza successo contro suo fratello. Anche egli fuggì per mettersi sotto la custodia dell’imperatore bizantino, ed era ancora vivo quando Mehmed I morì nel 1421.

  Sembra – ma l’evidenza non è conclusiva – che Mehmed I tentò di far cessare la pratica del fratricidio abbandonando il principio di indivisibilità e lasciando in eredità le sue terre in Rumelia al suo figlio maggiore, Murad, e quelle in Anatolia al suo figlio più giovane, Mustafa. I Visir di Mehmet, comunque, non accettarono questo schema. Invece, nascosero la morte del vecchio Sultano e chiamarono il suo figlio maggiore, Murad, il cui regno come Murad II (1421-51) iniziò con una rinnovata guerra civile. La sua prima battaglia non fu, comunque, contro suo fratello Mustafa, ma contro suo zio che portava il suo stesso nome e che, quando l’imperatore bizantino lo liberò dalla prigionia, fondò un regime di breve durata in Rumelia, battendo la sua propria moneta e guadagnandosi la fedeltà dei signori locali. Mustafa sconfisse l’esercito di Murad sotto il comando di Bayezit Pasha, uccidendo il suo comandante e, proclamatosi Sultano ad Edirne, attraversò gli stretti diretto in Anatolia. Dal lago Ulubat, più con l’inganno che con forze superiori, Murad rimandò indietro Mustafà, di là dello stretto e in Edirne, dove lo catturò e impiccò come un comune criminale. Questa non era la fine della guerra civile dal momento che, nella seconda metà del 1422, con il sostegno dell’imperatore bizantino e di alcune dinastie dell’Anatolia, suo fratello Mustafa “il piccolo” si era stabilito come Sultano ad Iznik. Nel gennaio 1423, Murad attraversò gli stretti diretto ad Iznik e, sconfitto suo fratello, lo fece strangolare.

  Alla sua morte nel 1451, Murad lasciò due figli, Mehmed II (1451-1481) già adulto e un bambino della figlia di Isfendyaroghlu di Sinope. Il primo atto di Mehmed nell'entrare nel  palazzo di Edirne per assicurarsi la successione fu quindi di ordinare l’esecuzione del ragazzo. La successione di suo figlio Bayezid II (1481-1512) fu meno lineare.

  Immediatamente alla morte di Maometto II, i visir mandarono messaggi a suo figlio Bayezid ad Amasya e a Gem a Konya. Bayezid fu il primo ad arrivare nella capitale e, col supporto del Gran Visir Gedik Ahmed Pasha e, in modo decisivo, col supporto dei giannizzeri, occupò il trono. Quando suo fratello Gem si proclamò Sultano a Bursa, e Bayezid respinse la sua proposta di dividere le terre ottomane tra di loro, fu Gedik Ahmed che sconfisse il principe a Yenişehir. Gem, comunque, fuggì salvando la sua vita e si mise sotto la protezione del Sultano mamelucco dell’Egitto. Nel 1482 ritornò in Anatolia, ma quando il suo esercito fu disperso cercò rifugio presso i cavalieri di San Giovanni a Rodi. A questo punto Bayezid fece un patto col gran maestro perché questi tenesse Gem in custodia in cambio di un pagamento annuale. La sua mossa successiva fu di giustiziare Gedik Ahmed, che sembra sospettasse di slealtà e il bambino di Gem. In una nota di suo pugno scritta ad uno schiavo chiamato Iskender, scrisse: “… Dovresti sapere che ho ucciso Gedik Ahmed. Tu non risparmiare il figlio di Gem, ma strangolalo. Questo è estremamente importante, ma nessuno deve esserne a conoscenza…”

  La custodia di Gem da parte dei cavalieri di S. Giovanni segnò l’entrata del Sultano ottomano nella politica dell’Europa occidentale. I Cavalieri trasferirono Gem nella sicurezza dei loro castelli francesi fino al 1489, quando, contrariamente al patto, lo consegnarono al Papa. Bayezid non ebbe alternative se non di trasferire il pagamento dai Cavalieri al Papa per mantenere Gem sotto custodia e, specialmente, per evitare che cadesse nelle mani del re di Ungheria o di altri potenziali nemici degli ottomani. Dato il pericolo che il rilascio di suo fratello poteva provocare, nel 1490 Bayezid si astenne dall’attaccare Venezia, gli Stati Papali o Rodi. Nel 1494, il Papa e il re di Napoli cercarono di allearsi con Carlo VIII di Francia, ma inutilmente. Quando un trionfante Carlo VIII entrò a Roma nel 1494, prese possesso di Gem dichiarando allo stesso tempo che avrebbe diretto una crociata contro gli ottomani. La prospettiva del principe ottomano Gem di ritorno come protegé del vittorioso re di Francia causò panico ad Istanbul. Comunque, nel febbraio del 1495 Gem morì a Napoli ancora sotto la custodia del re, e il pericolo passò. Nondimeno, non fu che al ritorno, dopo molte negoziazioni, del corpo di Gem nel 1499 e alla sua inumazione pubblica a Bursa che Bayezid poté essere certo che il suo trono era sicuro.

  Dieci anni dopo, scoppiò una nuova crisi. Verso il 1509 Bayezid era anziano e malato. Dal momento che la sua morte sembrava imminente, la lotta per succedergli cominciò quando era ancora sul trono. Quella che era la prima mossa tra i suoi eredi venne nel 1509, quando uno dei suoi figli, Korkud, fuggì da Antalya, dove era governatore, in Egitto, probabilmente per ottenere il supporto del Sultano mamelucco nella imminente battaglia per la successione. Ritornò un anno dopo ma di nuovo, presumibilmente con un occhio al trono, disobbedì a suo padre spostandosi da Antalya a Manisa, una residenza dei principi più vicina alla capitale.

  Lo spostamento di Korkud a Manisa coincise con la violenta ribellione, iniziata vicino Antalya del dissidente sciita Sciàkulu, che sconfisse le truppe di Korkud e tutte le forze provinciali che il Sultano mandò contro gli insorti. La rivolta aveva umiliato Korkud, ma fornì un’opportunità per suo fratello Ahmed, il governatore di Amasya. Nel giugno 1511, Bayezid mandò un esercito sotto il comando effettivo del gran visir Hadim Ali Pasha, un sostenitore di Ahmed, e il comando nominale dello stesso Ahmed. La presenza di Ahmed a capo di un esercito lo contraddistingueva come il figlio favorito per la successione anche se la morte del Gran Visir nella battaglia finale con Sciàkulu tolse di mezzo un potente sostenitore. La morte, poco dopo, del suo fratello Shehinscià, il governatore di Konya, rimosse un altro ostacolo  alla successione di Ahmed.

  Durante questi eventi il figlio più giovane di Bayezid, Selim, si stava anch’egli preparando per un conflitto con i suoi fratelli. Nel 1510 egli scrisse a suo padre, lamentandosi del governatorato nella remota provincia di Trabzon sul Mar Nero e chiedendogli una alternativa in Rumelia. Le sue lettere lamentarono pure un complotto per portare Ahmed sul trono. Quando Bayezid rifiutò la richiesta, egli lasciò Trabzon senza autorizzazione e attraversò il Mar Nero per andare in Crimea dove, come disse all’inviato di Bayezid, egli avrebbe “guadagnato il Khan della Crimea alla sua causa e stabilito una relazione matrimoniale con lui”. Rifiutando l’offerta di Bayezid di un governatorato in Anatolia, egli salpò per Kilia, in Moldavia con i suoi sostenitori e le truppe tatare, chiaramente sperando di impadronirsi del trono con l’assistenza del Khan.

  Bayezid, nel mentre, ordinò al governatore di Rumelia di preparare una forza per sbarrare il passo a Selim ma, prima che gli eserciti si incontrassero, gli inviati di Bayezid persuasero il principe a ritirarsi offrendogli il governatorato di Silistra sul Danubio, con il permesso di fare raid in Ungheria. Questo gli offrì un’opportunità. Egli si ritirò a Stara Zagora e mise insieme un esercito, ma, invece di attaccare l’Ungheria, marciò verso Istanbul incontrando le forze di Bayezid non lontano dalla città. In questa occasione Bayezid fu vittorioso, non lasciandogli altra scelta che tornare in Crimea e chiedere perdono al padre.

  Il ritiro di Selim fu l’opportunità di Ahmed. Con l’incoraggiamento di suo padre e del nuovo gran visir Hersekzade Ahmed Pasha, egli marciò su Istanbul, con l’evidente scopo di succedere al trono durante la vita di suo padre, in tal modo dando ragione alle proteste di Selim che la nomina di Ahmed come comandante delle forze dell’Anatolia era una indicazione che lui era il successore prescelto di Bayezid. Un Sultano ottomano, comunque, necessitava dell’appoggio dei giannizzeri, cosa che Ahmed non poté ottenere. Nel Settembre 1511, All’avvicinarsi di Ahmed al Bosforo, i giannizzeri si ribellarono a favore del principe Selim. Il fallimento di Ahmed nel reprimere i ribelli in Anatolia aveva fatto perdere a lui e a suo padre il supporto militare da cui dipendeva il sultanato. Un gruppo di giannizzeri doveva poco dopo apparire di fronte a Bayezid e dichiarare: “Tu sei finito. Noi abbiamo bisogno di un Sultano e così abbiamo fatto Sultano lord Selim… Il trono e il regno sono suoi”. In queste circostanze, Ahmed non osò attraversare gli stretti.

  Invece, tornò in Anatolia e cominciò ad agire come sovrano indipendente, emanando decreti e facendo nomine come se fosse Sultano. Con questo la bilancia della politica cambiò. Come ribelle, Bayezid non poteva più sostenere Ahmed. Invece, nominò Selim comandante di un esercito per pacificare sul figlio. Vedendo un’opportunità Selim avanzò verso Istanbul. Così fece anche suo fratello Korkud, che vi arrivò alla fine del marzo 1512, privo di truppe ma con il denaro per guadagnare i giannizzeri alla sua causa. Lo sforzo di Korkud di acquistare il trono fallì. Invece suo fratello Selim arrivò con un esercito e col supporto dei giannizzeri forzò suo fratello ad abdicare. Ascese al trono nell’aprile 1512. Bayezid morì poco dopo, probabilmente avvelenato, mentre Korkud si ritirò a Manisa.

  Ahmed non riconobbe il sultanato di Selim e continuò  ad agire come un signore indipendente. Nel luglio del 1512, Selim attraversò gli stretti e arrivò a Bursa, costringendo Ahmed a ritirarsi ad Amasya, e poi ad attraversare il confine orientale dell’Impero nell’Iran. Da lì, scrisse a Selim, suggerendogli di dividersi il regno. Selim rifiutò la proposta e, nel febbraio 1513 Ahmed ritornò all’attacco. Selim, nel mentre, aveva cominciato sistematicamente ad eliminare i suoi rivali. Alla fine del 1512 fece uccidere i nipoti di Bayezid che risiedevano a Bursa e poi, all’inizio dell’anno successivo, mandò una forza contro Korkud a Manisa.

  Quando queste truppe entrarono a Manisa Korkud era fuggito. Gli agenti di Selim lo trovarono alla fine in una grotta vicino Antalya, dove si stava nascondendo nella speranza di fuggire in Egitto o a Rodi, come aveva fatto suo zio Gem. Selim lo prese prigioniero e il Capo Portiere Sinan agha lo giustiziò nel marzo 1513, in una località ad un paio di giorni di viaggio da Bursa. Ahmed, nel frattempo, nella sua avanzata verso est sconfisse le forze di Selim guidate da Biykli (“che porta i mustacchi”) Mehmed agha e il governatore generale dell’Anatolia. All’inizo di aprile, Selim lasciò Istanbul, lasciando suo figlio Süleyman a proteggere la città da attacchi da ovest . Il 15 aprile 1513 egli sconfisse Ahmed a Yenişehir, e catturò il principe fuggitivo ad Izmit dove Sinan agha lo mise a morte. Questa non fu comunque la fine dello spargimento di sangue dinastico. Ahmed aveva lasciato suo figlio,Osman, a difendere Amasya in sua assenza ma quando il governatore di sinope attaccò la città, Osman fuggì. Amasya si arrese e Osman divenne alla fine prigioniero del governatore. Nel marzo del 1515, su ordine di Selim, fu giustiziato, insieme al nipote di Ahmed, Mustafa, il cui padre,principe Murad, era fuggitivo in Iran e in quel momento, l’unico possibile sfidante al trono di Selim. Comunque, con l’esecuzione di Osman, Selim chiaramente pensava che il suo trono fosse sicuro.

  Nel 1520, Selim morì, lasciando un solo figlio, Solimano, che gli successe senza dispute. Nel 1550, comunque, Solimano  era visibilmente anziano e, nel 1552 appariva malato. Un po’ di anni più tardi, l’ambasciatore asburgico, Busbecq, doveva commentare che egli si dava pena di nascondere la sua brutta cera con uno “strato di polvere bianca” e che “si credeva generalmente che avesse un’ulcera incurabile o una cancrena alla gamba”. Data l’apparente infermità del padre  era inevitabile che i suoi figli iniziassero a complottare per la successione ed era parimenti inevitabile, data l’esperienza del nonno, che Süleyman iniziasse a sospettare le loro intenzioni. La prima vittima dei suoi sospetti fu il principe Mustafa, suo figlio maggiore. Nel 1553, forse per disperdere le voci di una sua malattia prese personalmente il comando della spedizione in Iran. Ad Eregli, prima che l’esercito imboccasse i passi attraverso i monti Tauri egli convocò Mustafa nel suo padiglione e lo fece giustiziare in sua presenza.

  Perché Süleyman dovette sospettare proprio Mustafa è materia di speculazioni. Certamente, una lettera non datata che il principe mandò ad Ayas Pasha contiene forti indizi che stesse mirando al sultanato: “Lode a Dio, tra i pretendenti all’eredità la capacità e atittudine che è in me, tuo sincero amico, è manifesta alla tua nobile conoscenza”. Perdipiù, la sua popolarità tra i giannizzeri e tra altri settori dell’esercito significava che, se avesse tentato un colpo di stato , avrebbe probabilmente avuto successo. Erano stati i giannizzeri, che avevano costretto Bayezid a ritirarsi e portato Selim al potere. Gli storici ottomani,comunque, hanno plausibilmente attribuito la fine di Mustafa ad una cospirazione tra la moglie di Süleyman, Hurrem, la loro figlia, Mihrimah e il marito di Mihrimah, il gran visir Rüstem Pasha. Mustafa era il figlio maggiore di Süleyman, avuto dalla concubina Mahidevran. I suoi altri figli erano nati da Hurrem, che voleva che uno di loro succedesse al trono e, a questo fine, voleva togliere di mezzo Mustafa. Il suo complice nel complotto era il figliastro, Rüstem Pasha, che la tradizione ottomana considera responsabile per la morte di Mustafà. Invero, una petizione anonima a Süleyman accusa Rüstem Pasha di aver falsificato una lettera inviata da Mustafa allo Scià dell’Iran, per implicare il principe in una accusa di cospirazione col nemico. É comunque più probabile che Hurrem e il gran visir, attraverso sua moglie Mihrimah, complottarono per di far cadere Mustafa, ma era inevitabile che, come Solimano diveniva man mano più anziano i suoi altri figli avrebbero dovuto prendere misure per assicurarsi  la successione.

  Solimano completò l’annichilazione della fazione di Mustafa giustiziando il suo portabandiera, il suo stalliere  e altre persone che ricoprivano cariche nel suo entourage, e alla fine suo figlio. Con la morte, poco dopo, del terzo figlio di Hurrem, Jihangir, rimasero due principi, Selim e Bayezid, entrambi figli di Hurrem.

  Solimano inizialmente sembrava favorire Selim, portandolo con sé nella campagna contro l’Iran nel 1553-54. Subito dopo, comunque, egli nominò Bayezid governatore di Kütahya, più vicino alla capitale della residenza di Selim a Manisa, una mossa che sembrava indicare che favoriva Bayezid. A questo stadio, era probabilmente la loro madre, Hurrem, che manteneva la pace tra i principi e tra ciascuno di loro e il padre. Dopo la sua morte, nel maggio 1558, la rivalità divenne più intensa.

  Messo di fronte ai tentativi di entrambi i principi di influenzare le fazioni a Istanbul, e ai tentativi di Bayezid di danneggiare seriamente i commerci principali nell’area governata da Selim, Solimano minacciò di rompere con tutte le leggi e i precedenti fissando la successione in linea femminile e dando il trono al figlio di sua sorella, Osmanscià. Allo stesso tempo, ordinò che Selim si trasferisse a Konya, e Bayezid ad Amasya. Fu questa decisione che fece precipitare gli eventi della guerra civile.

  Dal momento che Amasya è più lontana da Istanbul che non Konya, Bayezid protestò, ritardando la sua partenza per Kütahya fino alla fone dell’ottobre del 1558, e poi procedendo lentamente, con costanti minacce di voltarsi e tornare indietro. Allo stesso tempo, rimproverava suo fratello di codardia, e chiese a suo padre maggiori rendite per se stesso e i suoi figli. Quando Solimano, dopo aver promesso, non soddisfece le richieste, il tono di Bayezid divenne ancora più stridulo: “Voi siete il Sultano del mondo. Quando dite menzogne come questa, chi potrà credere in futuro alla vostra parola?” Bayezid non limitò la sua sfida alle parole. Nel suo viaggio ad Amasya, con prestiti e tassazioni alle città cominciò ad accumulare denaro contante per un esercito e a reclutare truppe tra i tenutari scontenti di feudi, tra gli uomini delle tribù e i contadini.

  La tattica di Selim, che era probabilmente un riflesso del suo carattere tanto quanto una deliberata strategia, era l’opposto di Bayezid. Si presentava come figlio obbediente, assoggettandosi ad ogni comando del padre. Nel mentre costringeva Bayezid ad andare ad Amasya, Solimano consentì a Selim di stabilirsi a Bursa fino a quando Bayezid non superò Ankara. Dal momento che Bursa era vicina alla capitale, La presenza di Selim avrebbe dovuto consentirgli di bloccare il passo a Bayezid, come minacciò di fare, se questi avesse dovuto tornare sui suoi passi e marciare su Istanbul. Quando Selim finalmente andò a Konya, chiese a suo padre cannoni presi dalle navi ad Izmir come difesa nel caso suo fratello dovesse attaccare. All’inizio del 1559, ricevendo ancora rimproveri dal fratello, raggiunse Konya. A questo punto era chiaro che era il favorito del padre. Dopo aver ordinato ai principi di recarsi ad Amasya e Konya, Solimano aveva mandato il visir Pertev Pasha a Bayezid e il visir Sokollu Mehmed Pasha a Selim, evidentemente per assicurarsi l’esecuzione dei suoi ordini. Pertev Pasha tornò indietro dopo aver persuaso Bayezid a continuare per Amasya, mentre Sokollu Mehmed rimase con Selim come suo consigliere per tutta la crisi. Egli doveva più tardi sposare la figlia di Selim, Ismihan, e occupare la carica di gran visir per tutto il suo regno.

  In aggiunta a Sokollu, il sovrano ordinò ai governatori generali dell’Anatolia e di Maraş di unirsi a Selim con le loro forze e, quando Selim chiese che il governatore generale di Karaman lo rinforzasse “con i cavalieri della sua provincia, per la eliminazione della sedizione e la protezione dell’onore del sultanato” Solimano accettò. Ordinò anche a Selim di arruolare truppe tra i contadini. Dal momento che Bayezid si era rifiutato di disarmarsi a meno che suo fratello non facesse lo stesso, una battaglia era inevitabile.

  A questo punto il supporto di Solimano per Selim era di dominio pubblico. Oltre alle forze che gli aveva già assegnato, mobilizzò le truppe in Rumelia, Anatolia orientale e Siria, e mandò Rüstem pasha ad Afyon, per tenere d’occhio gli sviluppi. La aperta partigianeria di Solimano divenne più evidente quando ottenne una fatwa dal Gran Mufti Ebu’s-su’ud, che stabiliva che era lecito per il Sultano combattere e uccidere le forze del suo figlio ribelle. Allo stesso tempo, il supporto personale del Mufti per Selim è evidente da una lettera che scrisse al principe durante la sua lotta con Bayezid, dicendo che, come richiestogli, egli stava pregando per un esito coronato da successo.

  La dichiarazione che era un ribelle non lasciò a Bayezid altra scelta che attaccare suo fratello prima che avesse tempo di riunire il suo esercito. Selim, nel mentre, aveva ricevuto il comando di non attaccare, ma di rimanere a Konya per scontrarsi con le forze di Bayezid. I due eserciti si scontrarono alla fine del maggio del 1559. Dopo una battaglia di due giorni, Bayezid risultò vittorioso.

  Bayezid comunque fuggì salvando la vita e andò ad Amasya, ancora una volta chiedendo il perdono del padre. Questo sarebbe stato concesso da Solimano solo se egli avesse messo a morte coloro che “l’avevano traviato”. Bayezid ignorò ampiamente l’ordine, giustiziando solo tre persone del suo seguito. Nel frattempo, nel giugno del 1559, Solimano aveva mandato Selim e Sokollu Mehmed alla testa di un esercito verso Amasya e ordinato ai governatori di tutte le sue frontiere di intercettare Bayezid se egli avesse dovuto fuggire, mentre egli stesso attendeva ad Üsküdar, pronto a mobilitarsi contro suo figlio. Bayezid fuggì da Amasya con i suoi cinque figli e un esercito che andò ingrossandosi mano a mano che fuggiva verso est, mantenendo i suoi uomini attraverso prestiti forzosi e la requisizione di animali e provviste. Rifiutandosi di dar battaglia ai governatori di Diyarbekir, Karaman ed Erzurum che lo inseguivano, continuò la sua fuga fino a Sa’dchukur sul confine con l’Iran. Qui sconfisse una forza limitata che lo stava inseguendo, ma questo non migliorò le sue chances contro gli eserciti dei tre governatori generali, di Selim e di Sokollu e, dietro di essi, di Solimano stesso. In Agosto attraversò il confine con l’Iran.

  Nell’ottobre del 1560 lo scià Tahmasb gli diede un magnifico benvenuto nella sua capitale, Qazvin. Solimano, nel frattempo, dispose le sue truppe lungo la frontiera da Erzurum a Baghdad, “perché sarebbe stato inappropriato per l’esercito disperdersi prima che giungessero notizie certe di Bayezid”. Egli era ora nella stessa situazione di suo nonno, Bayezid II, quando Gem era prigioniero del re di Francia, Carlo VIII. Tahmasb poteva, in qualsiasi momento, invadere il regno, con un principe ottomano al suo seguito. Per evitare il danno, Solimano aprì negoziazioni con lo scià, consentendo solo a Dicembre a Selim di tornare a Konya e all’esercito di smobilizzarsi.

  A Qazvin la posizione di Bayezid era drammaticamente cambiata. Quando sorsero sospetti tra lui e Tahmasb lo scià, invece di trattarlo come un ospite onorato, lo imprigionò con i suoi quattro figli e cominciò a disperdere i suoi seguaci, mentre continuava a negoziare con Solimano. Nel Luglio del 1561 Solimano era arrivato ad offrire 900.000 ducati di tasca propria, 300.000 di tasca di Selim e la fortezza di Kars in cambio della consegna di Bayezid a Selim. Tahmasb, comunque, continuò a rimandare l’accordo finché, nel marzo del 1562 il suo inviato raggiunse la corte di Selim in Kütahya con la proposta che la buona sorte di Selim dipendeva dalla esecuzione di Bayezid e dei suoi figli e che Tahmasb avrebbe garantito questo in cambio di una pace “fino al giorno della Resurrezione”. Selim e suo padre accettarono la proposta e nel Luglio del 1562 i loro inviati raggiunsero Qazvin per prendere in custodia Bayezid. Quando lo scià consegnò il principe l’uomo di Selim, Ali agha, lo uccise, insieme ai suoi quattro figli. Il Sultano, nello stesso momento, ordinò l’esecuzione del suo quinto figlio, un bimbo che era con sua madre a Bursa. Con questo atto Selim rimase il solo pretendente al trono ottomano. In cambio della sua complicità Tahmasb guadagnò un trattato di pace, 500.000 ducati e doni per sé e per i suoi figli.

  L’esecuzione di Bayezid e dei suoi figli iniziò un cambiamento nel modo di successione. Probabilmente dal tempo di Osman I, era stata consuetudine per i figli del Sultano di servire come governatori in Anatolia, e per ciascun figlio avere un titolo alla successione pari agli altri. Dal tempo della morte di Bayezid, solo il figlio maggiore servì nelle province, ed era quello che succedeva al Sultano. Il cambiamento, comunque, avvenne per caso piuttosto che per mossa politica. Dopo il 1562, Selim era il solo figlio vivente di Solimano, e successe al trono, senza essere sfidato da pretendenti. Al tempo della sua successione come Selim II (1566-74) egli aveva un solo figlio, il futuro Murad III (1574-95). I suoi altri figli furono procreati solo dopo che era divenuto Sultano, e alla sua morte nel 1574, nessuno di questi era vecchio a sufficienza da poter servire come governatore. Tra i figli di Murad III, parimenti, solo il maggiore, il futuro Mehmed III (1595-1603) divenne un governatore provinciale. Anche questo avvenne per caso. A parte Mehmed, tutti i suoi altri figli erano nati dopo il 1581 e il più anziano, al tempo della sua morte, aveva solo undici anni e solo in procinto di vedersi assegnare un governatorato. Nondimeno, il precedente divenne pratica consuetudinaria e, dopo il regno di Solimano, la maggiore età piuttosto che il fratricidio  dopo una guerra civile vittoriosa divenne il normale principio di successione.

  La pratica del fratricidio non aveva mai guadagnato l’approvazione popolare. La storia di come il “fratello” di Orhan, Ali Pasha volontariamente rinunciò alla sovranità in favore di Orhan iniziò a circolare negli anni 1422-23, al tempo della guerra civile agli inizi del regno di Murad II. Il racconto non riflette un evento storico reale, ma piuttosto il desiderio dei contemporanei per una successione pacifica al trono e la fine degli spargimenti di sangue dinastici. Il redattore del testo aggiunse persino una morale al racconto: “in quei giorni i padiscià e i signori  tennero consiglio con i loro fratelli. Essi si onoravano e rispettavano l’un l’altro, essi non si uccidevano l’uno con l’altro”. Quando i cronisti ufficiali tentarono di giustificare la pratica, essi erano ricorsi all’iperbole. Mehmed Pasha di Karaman, cancelliere e visir di Mehmed II, aggiunse alla sua storia dell’esecuzione del fratello di Bayezid, Yakub, il commento: “Come non sarà nascosto a coloro capaci di intendere, c’era la possibilità di un grande male nella continuazione della vita di Yakub. Il Sultano si regolò con lui come era necessario e ‘la necessità giustifica ciò che è proibito’ ”. Similmente, nel giustificare l’esecuzione del bambino figlio di suo padre e della figlia di Isfendyaroghlu, da parte di Mehmed II, Kemalpashazade agli inizi del sedicesimo secolo, scrisse: “Sebbene era ancora un bimbo immaturo, la misura fu presa su consiglio di anziani pieni di esperienza… e si vide che il miglior corso d’azione consisteva nell’espiantare l’alberello del male a venire, prima che cacciasse foglie e rami”. Molto famosa, comunque, è la clausola nel cosiddetto Libro delle leggi di Mehmed II, che giustificava il fratricidio: “A chiunque dei miei figli il sultanato sarà dato [da Dio], è appropriato che uccida i suoi fratelli per il buon ordine del mondo. La maggior parte degli ulema ha dichiarato questo come permesso”. Questa clausola è, con grande probabilità, una aggiunta del sedicesimo secolo al Libro delle leggi, da parte di Selim I o di Mehmed III, per giustificare il loro modo di ascesa al trono, e rappresenta un tentativo di combattere la repulsione popolare per quello che era accaduto.

  Né questi virtuosismi letterari, né la generosa distribuzione di doni dopo ogni fratricidio poteva riconciliare l’opinione popolare con la pratica. Un poema che lamenta la morte del principe Mustafa nel 1553 e attacca suo padre era ancora in circolazione nel diciassettesimo secolo, e per usare le parole di un altro poeta, Tashlijali Yahya (m. 1575-76), “l’errore del principe non era stato precisato, il suo peccato era sconosciuto…” e le “anime degli uomini si erano abbassate fino alla polvere”. Un anno dopo la sua morte, un impostore che dichiarava di essere Mustafa poté guadagnare un seguito in suo nome. Il principe Bayezid similmente lasciò molti addolorati e molti che parteggiavano per lui. Nel 1565, le autorità arrestarono un gruppo di uomini a Beyşehir per una rappresentazione pubblica che metteva in scena la sua vita.

  Il fratricidio reale non cessò, comunque, con la successione senza dispute di Selim II, Murad III e Mehmed III. Il giorno della ascesa al trono di Murad III nel 1574, il popolo di Istanbul  fu testimone della uscita dal Palazzo della bara di suo padre per andare nel mausoleo di Hagia Sofia e, di seguito ad essa, delle bare dei cinque principini. Il medico ebreo di Murad III, Dominic di Gerusalemme, riferisce di voci secondo le quali persino il Sultano avrebbe esitato a ordinare la loro esecuzione. La notte dell’ascesa al trono di Mehmed III nel 1595, “diciannove innocenti principi furono”, nelle parole dello storico contemporaneo Pechevi, “trascinati dalle ginocchia delle loro madri e uniti alla misericordia di Dio”. Quando il corteo di diciannove bare lasciò il cancello del palazzo un altro cronista contemporaneo, Selaniki notò: “Iddio Altissimo lasciò che gli angeli attorno al trono udissero le grida e i pianti del popolo di Istanbul”.

  Furono, a quanto pare, “le grida e i pianti” che fecero cessare la pratica del fratricidio. Quando Mehmed III morì nel 1603, lasciò due figli, il quattordicenne Ahmed e il suo fratello più giovane, Mustafa. Entrambi furono confinati nel palazzo e fu una fazione nel Palazzo interno  che stabilì la successione di Ahmed, presentando il nuovo Sultano sul trono come un fait accompli, prima di una riunione del Consiglio Imperiale. Ahmed morì nel 1617, quando era meno di trent’anni, lasciando un problema di successione per il quale non vi erano precedenti. Con la fine della pratica del fratricidio, suo fratello Mustafa era ancora vivo e, per il nuovo principio di anzianità, legittimato ad ereditare il trono. Mustafa, comunque, era mentalmente debole, e questo presentava il dilemma se dare il trono a un minore, Osman, o a un idiota, mustafa. Questa volta, le negoziazioni ebbero luogo tra un rappresentante del Palazzo interno, Mustafa agha e due dignitari esterni, il gran visir deputato, Sofu Mehmed Pasha e il gran Mufti Es’ad. Furono, secondo la versione di Pechevi, le parole di Mustafa agha che risultarono decisive. Egli argomentò che la pubblica disapprovazione sarebbe stata inevitabile se un bambino fosse asceso al trono quando era disponibile un candidato adulto, e che “il difetto di intelligenza di Mustafa veniva dalla sua lunga reclusione… ed egli poteva recuperare il suo intelletto se fosse stato per un po’ a contatto con la gente”. Fu la decisione di questo gruppo di persone che portò Mustafa sul trono.

  Le condizioni mentali di Mustafa, comunque, non migliorarono. Egli aveva, ci dice Pechevi, l’abitudine di gettare monete d’oro e d’argento, con le quali riempiva le sue tasche, agli uccelli e ai pesci del mare, e ai poveri che incontrava per la strada” e quando “i visir gli si presentavano per discutere le faccende del regno egli spigeva i loro turbanti e scopriva le loro teste”. Lo stesso gruppo di persone che avevano pianificato la sua ascesa a trono ora complottarono per la sua deposizione. Nel febbraio 1618 essi chiamarono i dignitari e le truppe a palazzo, dove Mustafa agha chiuse una porta in faccia a Mustafa e, quando il trono fu approntato, rilasciò dall’altra Osman, il figlio maggiore.

  Mustafa,comunque, sopravvisse al suo confinamento nel palazzo e, quattro anni dopo, salì al trono di nuovo, questa volta attraverso la ribellione di una fazione differente. Durante l suo breve regno, Osman aveva, sembra, perso fiducia negli ulema che erano, in particolare gelosi della influenza del suo consigliere spirituale, Ömer Hoja. Più importante ancora, aveva perso il sostegno dei giannizzeri a seguito del trattamento cui li aveva sottoposti durante la campagna polacca del 1621 e perché, come ricorda il cronista giannizzero Tughi, “quando si rendevano colpevoli di un comportamento riprovevole, come essere trovati in una taverna, erano battuti con quattrocento o cinquecento colpi, imbarcato nelle navi delle pietre per punizione, e i loro mezzi di sussistenza e salari erano revocati”. Era chiaro ai giannizzeri che Osman voleva rimpiazzarli con archibugieri arruolati in Anatolia.

  Nel 1622 i giannizzeri si ribellarono, chiedendo l’esecuzione del Gran Visir, Dilaver Pasha, di Ömer Hoja e di altri. Quando Osman, contro il consiglio dell’ulema anziano, rifiutò, i giannizzeri si aprirono la via nel palazzo. Rintracciarono Mustafa e, secondo il racconto di Tughi, poiché la porta della sua camera era all’interno dell’Harem (dove era assolutamente proibito entrare), si arrampicarono sul tetto e, strappando via il piombo dalla volta e le sbarre alle finestre, tirarono su Mustafa con una fune presa dalle tende della camera del consiglio. Egli mancava di cibo e di acqua, dice Tughi, da due giorni. Lo tirarono fuori a dispetto della dichiarazione degli ulema che ciò fosse illegale, fecero il giuramento di fedeltà, forzando infine gli ulema a fare lo stesso. Quando Osman finalmente acconsentì ai loro desideri e fece giustiziare Dilaver Pasha e Ömer Hoja, era troppo tardi. Invece, essi portarono Mustafa e sua madre al vecchio palazzo e poi alla Moschea dei giannizzeri. Nella moschea un giannizzero che era una conoscenza di Pechevi, dato che aveva una certa cultura, scrisse i comandi, in nome di Mustafa, che nominarono gran visir Davud Pasha, e fecero altre nomine. Quando Osman apparve presso le baracche dei giannizzeri e alla moschea nessuno ascoltò i suoi appelli. Invece, Davud Pasha lo pose su un carretto e lo scortò al palazzo delle sette torri, dove ordinò la sua esecuzione. Nel mentre, i giannizzeri riportarono indietro, a palazzo, Mustafa e sua madre.

  Il secondo regno di Mustafa durò poco più di un anno. Egli era andato al trono attraverso una rivolta dei giannizzeri, che lasciò temporaneamente il potere nelle mani di sua madre e del suo figliastro, Davud Pasha. La rimozione come Gran Mufti del patrigno di Osman, Es’ad, era chiaramente una mossa per rafforzare questa fazione. Il governo comunque non si stabilizzò. Il visirato di Davud Pasha durò solo ventisei giorni, e egli perse la sua vita nel Gennaio del 1623. Seguì una successione di gran visir, la cui precaria occupazione della carica dipendeva dal supporto dei giannizzeri o delle sei divisioni di cavalleria, che essi comperarono con donazioni finanziate dal tesoro. C’erano frequenti disordini e saccheggi nella capitale, e ribelioni nelle province. “In breve” scriveva Pechevi, “si sparse all’estero la voce che il mondo stava andando in rovina e che il sultanato stava crollando”. La soluzione del nuovo gran visir Kemankesh (“l’arciere”) Ali Pasha, del gran mufti Yahya e degli altri grandi ulema, fu di deporre il Sultano di cui, nelle parole di Tughi, essi dissero “Il nostro Sultano non ha potere di disporre; non ha parte nel legare e nello sciogliere in materia di affari del regno , difetta di intelligenza. Ciò che viene chiamato rescritto imperiale è di pugno della schiava Sanevber…” Gli ulema mandarono avviso alla madre di Mustafa informandola che avrebbero messo alla prova l’intelligenza del figlio con due domande: “di chi sei figlio?” e “che giorno della settimana è questo?”. Il suo trono dipendeva dalla sua capacità di rispondere a queste domande. Sua madre, comunque, prevenne anche questo esame e consentì alla deposizione di suo figlio, a patto che scampasse alla morte.

  Nel settembre del 1623, il Gran Visir e il gran mufti fecero ascendere al trono il dodicenne Murad IV (1623-1640), il secondo dei figli di Ahmed I a divenire Sultano. Allo stesso tempo, riportarono indietro sua madre, Kösem, dal vecchio palazzo. Quando Murad morì diciassette anni più tardi, solo un membro maschile della dinastia sopravvisse. Questi era il figlio più giovane di Ahmed I, Ibrahim (1640-48). Dal momento che non vi erano candidati rivali al trono, non ci poteva essere alcuna fazione ad opporsi alla sua successione.

  Dal momento della salita al trono di Mehmed III nel 1595, il fratricidio non era più il mezzo per assicurarsi il trono. Nondimeno, la pratica di padri che uccidevano figli o di fratelli che uccidevano fratelli non si era interrotta del tutto. Poco prima della sua morte nel 1603, Mehmed III aveva ordinato l’esecuzione del suo figlio maggiore Mahmud, temendo che la sua popolarità fosse una minaccia al suo trono. Osman II aveva fatto giustiziare suo fratello, Mehmed, nel 1620, a dispetto del rifiuto del suo patrigno, il Gran Mufti Es’ad, di sanzionare l’assassinio. Murad IV ordinò l’esecuzione prima dei suoi fratelli Bayezid e Solimano quando era in campagna contro Erivan nel 1635, e poi di Kasim nel 1638.

  Era la costante paura della esecuzione, secondo i cronisti ottomani, ad aver offuscato la mente del fratello più giovane e successore di Murad IV, Ibrahim (1640-48). Questo principe, scrisse il contemponaneo Katib Celebi: “aveva speso gran parte del suo prezioso tempo in prigione [nel Palazzo], e quando i suoi fratelli subirono il martirio, la paura per la sua vita produsse uno squilibrio nel suo temperamento”. Fu questa instabilità mentale a causare il successivo rivolgimento dinastico.

  Nel 1648 le spese stravaganti di Ibrahim per lussi vari in tempo di guerra avevano svuotato il tesoro e le sue nomine inappropriate avevano creato una crisi politica. La decisione di rimuovere prima il gran visir e poi il Sultano sembra essersi originata all’interno del corpo dei giannizzeri, sebbene come complotto dell’ufficiale Murad agha, piuttosto che dei soldati comuni. I giannizzeri cospiratori si allearono col gran mufti, Ahdurrahim e “i grandi Molla” e, durante una assemblea nella moschea di Maometto il conquistatore e successivamente nella moschea dei giannizzeri dichiararono deposto il gran visir, Ahmed Pasha e Koja Mehmed Pasha nominato al suo posto. Gli uomini del nuovo gran visir trovarono Ahmed Pasha che si nascondeva e allora “una fatwa fu emessa e, dopo che fu strangolato, il suo cadavere fu gettato fuori… Quel giorno nella Piazza, il popolo si affollò intorno al cadavere e lo fece a pezzi”.

  Con la rimozione del gran visir, i cospiratori si accordarono sulla deposizione del Sultano e sulla ascesa al trono  del suo figlio di sette  anni Mehmed IV (1648-87). Quando la regina madre, Kösem, rifiutò  di mandare il ragazzo alla moschea per la cerimonia del giuramento di fedeltà, la folla si recò al palazzo, dove Kösem ancor resisteva, lamentando, secondo le parole di Katib Chelebi: “Per tanto tempo avete permesso a mio figlio di fare tutto ciò che voleva. Neanche una volta l’avete consigliato…”. La discussione durò per due ore. Alla fine la regina madre capitolò solo quando minacciarono di entrare nelle stanze interne del palazzo. Allora, “come era consuetudine, il trono fu innalzato di fronte al cancello della felicità… il Sultano ascese al trono e gli uomini che avevano il potere di legare e di sciogliere presentarono la loro fedeltà”

  Ibrahim, continua Khatib Celebi, fu imprigionato nel palazzo. Comunque, quando si diffuse la voce che alcuni dei cortigiani  dell’interno del palazzo stavano progettando di rimetterlo sul trono, il gran Mufti, Ahudurrahim, emanò una fatwa che permetteva “la deposizione e la esecuzione di un Sultano che ha causato disordini non dando le posizioni tra gli ulema e nell’esercito  a uomini degni, ma a persone indegne in cambio di somme di denaro”. Allora lo stesso gran Mufti, il gran visir e l’agha dei giannizzeri entrarono nel palazzo interno con un giustiziere, Ali il nero. Sbloccarono la porta della prigione di Ibrahim e Alì entrò e strangolò il Sultano deposto. Il sultanato ora restava saldamente nelle mani del figlio di Ibrahim, Mehmed IV. Il potere effettivo passò alla madre di Mehmed, Turhan sultana.

  Nell’assenza di ogni prefissata legge di successione, oltre alla regola che il Sultano doveva essere un membro maschile della Casa di Osman, e un’altra che proibiva la discendenza in linea femminile, la gran parte dei sultani tra il 1362 e il 1648 erano andati al potere come candidati di una fazione che aveva avuto successo. Prima della esecuzione del principe Bayezid nel 1562, le fazioni in competizione si formarono intorno agli stessi principi, quando essi servivano come governatori provinciali durante la vita di loro padre. La effettiva o imminente morte del padre era un segnale per la lotta fratricida tra i principi rivali e i loro sostenitori. Dal regno di Selim II, il sistema cambiò Né il figlio di Selim, Murad III, né il figlio di Murad, Mehmed III avevano fratelli che fossero vecchi a sufficienza per servire da governatori provinciali, col risultato che entrambi andarono al trono senza fazioni rivali a contestare le loro pretese. Questo stabilì una qualche sorta di precedente dal momento che, dal tempo di Mehmed III, la successione era in pratica per anzianità. Perdipiù, l’indignazione  in occasione della esecuzione da parte di Mehmed III dei suoi diciannove fratelli pose fine alla pratica del fratricidio automatico all’ascesa al trono, col risultato che il sultanato non passò più per ininterrotta successione da padre a figlio.

  Il principio di anzianità era fragile. Né Osman II né Murad IV sentivano che esso dava sicurezza contro pretese rivali dei loro fratelli, alcuni dei quali furono da essi giustiziati per assicurarsi i propri troni. Né significava che i sultani potevano fare a meno del supporto delle fazioni. Dopo il 1595, comunque, queste non poterono più formarsi intorno alle persone dei principi, dal momento che i figli del sovrano non servivano più come governatori delle province, ma rimanevano come prigionieri nel palazzo. Ahmed I ascese al trono attraverso un colpo di stato dei cortigiani del Palazzo Interno, che avevano nascosto la morte di Mehmed III al mondo esterno. Fu  un gruppo più rappresentativo, composto di membri anziani del Palazzo interno, della amministrazione civile e degli ulema che stabilì la successione a favore di Mustafa, successivamente lo depose e fece Sultano Osman II. La caduta e morte di Osman fu la conseguenza di una ribellione dei giannizzeri, che portò Mustafa al trono per la seconda volta e temporaneamente mise il potere nelle mani di sua madre e del suo fratellastro. Una alleanza tra il Gran Visir, il Gran Mufti e gli ulema assicurarò la rimozione di Mustafa dal trono e l’ascesa di suo nipote, Murad IV. Ibrahim non aveva bisogno di fazioni per giungere al trono, dato che era l’unico candidato sopravvissuto. Ma fu di nuovo un’alleanza, questa volta tra ufficiali dei giannizzeri e ulema, che portò alla sua caduta e alla ascesa al trono del suo figlio maggiore, Mehmed IV.

 

 

 

LA DINASTIA: LEGITTIMAZIONE

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  Nel 1650, la dinastia ottomana aveva regnato per tre secoli e mezzo. L’Impero era l’eredità del Sultano regnante che, a sua volta egli avrebbe lasciato al suo successore. La lunga continuità della dinastia e la concezione dell’Impero come un tipo di proprietà personale rendeva impensabile che il trono potesse passare a qualcuno che non fosse membro della dinastia imperiale. Questi erano aspetti della sovranità dinastica che la cerimonia della salita al trono serviva ad enfatizzare.

  Il primo e più essenziale atto nella salita al trono di un Sultano era il possesso effettivo del trono. Questo, da solo, lo rendeva il sovrano. Il principio fu molto chiaro nel caso di Ahmed I nel 1603. I visir, il gran Mufti e gli altri ulema ricevettero notizia che il sovrano chiedeva la loro presenza di fronte al trono. Nessuno di loro sapeva della morte di Maometto III, e si aspettavano che apparisse. Invece, Ahmed I, allora ragazzo, emerse dal Palazzo Interno e ascese al trono, lasciando i presenti senza altra scelta che accettare che fosse Sultano. Fu da questo momento che il suo sultanato iniziò. Il principio che l’occupazione fisica del trono segnava l’inizio del nuovo regno presumibilmente datava dai primi anni della dinastia, come presumibilmente anche il secondo elemento dell’incoronazione, il giuramento di fedeltà.

  Il primo riferimento a questa cerimonia data dal 1481, quando il cronista contemporaneo, Bihishti descrive la salita al trono di Bayezid II: “prese il suo posto al cuore del trono simile al cielo. I comandanti alla destra e alla sinistra e i soldati numerosi come stelle fecero il loro atto di fedeltà e obbedienza, e l’umile e il grande fecero la loro sottomissione”. La cerimonia, si potrebbe ritenere, era molto più vecchia di Bayezid, e chiaramente ebbe origine come pubblica o semipubblica apparizione del nuovo sovrano davanti alle sue truppe e ai sudditi più potenti. Bihishti dà l’impressione di un grande raduno. Dalla fine del quindicesimo secolo, comunque, il Sultano si ritirò progressivamente dalla vista pubblica. L’atto di fedeltà divenne la prerogativa  di un piccolo gruppo di uomini potenti, che normalmente includeva il gran visir e il gran Mufti, e aveva luogo dinanzi al trono nel Palazzo. L’idea dell’atto di fedeltà cambiò pure essa nel corso dei secoli. In origine, si può supporre, atto di acclamazione del nuovo Sultano, dalla metà del sedicesimo secolo acquistò un significato giudiziario. Dagli anni ’40 del 1500 Solimano promulgò la nozione che il Sultano ottomano era califfo, cioè successore del profeta Maometto e dei “quattro califfi guidati rettamente” come capo supremo della comunità musulmana. Nella teologia sunnita, il califfo acquista l’ufficio come effetto di un contratto che fa con “gli uomini che possono sciogliere e legare” e sembra, dunque, che dalla successione di Selim II nel 1566, una funzione dell’atto di fedeltà fosse formare il contratto che confermava il Sultano ottomano come “califfo dei musulmani”.

  Dalla fine del sedicesimo secolo, altri elementi vennero  aggiunti alla cerimonia di ascesa al trono, che servivano principalmente ad enfatizzare la continuità della sovranità dinastica agli occhi del popolo della capitale. Dapprima divenne consuetudinario che il seppellimento del Sultano deceduto seguisse immediatamente l’intronamento del suo successore, una pratica che enfatizzava la continuità legando le due cerimonie, e che evitava la conoscenza pubblica di un interregno. Quando Mehmed II morì nel 1481, prima che il suo successore potesse salire al trono, i giannizzeri dettero vita a tumulti e saccheggiarono la capitale. Essi si fermarono solo quando i visir piazzarono il nipote di Maometto, Korkud, sul trono fino a che suo padre, Bayezid, arrivò nella capitale. La cerimonia di ritardare il funerale del vecchio Sultano fino all’ascesa del nuovo, serviva a nascondere la morte di un Sultano e a evitare che un tale periodo di anarchia si verificasse nuovamente. Il secondo nuovo sviluppo nella cerimonia di ascesa al trono fu il pellegrinaggio ad Eyüp.

  Eyüp è un sobborgo di Istanbul sul corno d’oro dove, secondo una tradizione che data dal quindicesimo secolo, il corpo di Abu Ayyub giace sepolto. Abu Ayyub, sostengono gli storici musulmani, era un compagno del profeta, che cadde durante il primo assedio musulmano di Costantinopoli. Una leggenda ottomana, che si formò tra il 1453 e l’inizio del sedicesimo secolo ci dice che, dopo la conquista di Costantinopoli, il Sultano ordinò alla sua guida spirituale, il derviscio Akshemseddin, di trovare la tomba di Abu Ayyub, e il punto che Akshemseddin indicò divenne il luogo del sepolcro. Durante il corso del sedicesimo secolo divenne il sito più popolare del pellegrinaggio musulmano nella capitale o vicino alla capitale, legando la città col Profeta e ponendo la sua conquista da parte di Maometto II entro la tradizione apocalittica musulmana.

  Dal momento della ascesa al trono di Selim II nel 1566, il pellegrinaggio a Eyüp divenne un elemento essenziale della cerimnia di ascesa al trono. Il contemporaneo Selaniki descrive come “in accordo con l’antica legge degli ottomani il Sultano si mise in pellegrinaggio per il mausoleo. Iniziando con Abu Ayyub, Colui che Aiuta il Profeta, andò al mausoleo dei suoi potenti antenati, i sultani ottomani, e presso ciascun mausoleo distribuì 30.000 akce in elemosine”. Il pellegrinaggio serviva ad enfatizzare sia il rapporto dinastico con il Profeta attraverso Abu Ayyub sia, attraverso la visita alle tombe degli avi – che con le moschee reali loro associate dominavano il profilo della città – la continuità della sovranità ottomana.

  Prima del 1566, comunque, il pellegrinaggio non era parte della cerimonia di ascesa al trono. La pratica cominciò sembra nel 1514. In quest’anno Selim I si accampò vicino ad Eyüp all’inizio della sua campagna contro i safavidi, nell’attesa dei trasporti per traghettare le sue truppe attraverso il Bosforo. Durante il breve rinvio di qualche giorno, egli fece parecchi pellegrinaggi alla tomba relativamente recente di Abu Ayyub e allora, nelle parole del cancelliere e storico Jelalzade: “cercando l’aiuto delle anime pure dei suoi antenati” visitò le tombe di suo padre e di suo nonno. Suo figlio Solimano adottò la stessa procedura prima della partenza per la campagna ungherese nel 1526. Una pratica che era cominciata nel 1514 quasi accidentalmente divenne così un rituale. All’inizio fu una cerimonia che precedeva una campagna militare, e Selim II la adottò alla sua salita al trono probabilmente perché stava per partire immediatamente per unirsi all’esercito ottomano a Belgrado, come questo ritornò dall’Ungheria col cadavere di suo padre. Dal tempo di Selim II, tuttavia, divenne parte della cerimonia di ascesa al trono. Da quel momento tutti i sultani ottomani appena intronati lasciavano il palazzo per via d’acqua, risalivano il corno d’oro  fino al mausoleo  ad Eyüp e ritornavano per terra, passando per il cancello nelle mura della città di Edirne e visitando ciascuna delle tombe dei precedenti sultani. La cerimonia, a parte dimostrare la legittimazione dinastica e islamica del nuovo Sultano, deve aver avuto un’altra funzione. Dalla fine del quindicesimo secolo, i sultani si erano ritirati progressivamente dalla pubblica vista e, in particolare, l’atto di fedeltà aveva cessato di essere un evento pubblico. Il pellegrinaggio a Eyüp dunque divenne una occasione per il popolo di Istanbul di acclamare il nuovo Sultano prima che si ritirasse nel palazzo interno.

  C’era un elemento finale nella cerimonia di ascesa al trono. Nel diciassettesimo secolo, divenne consuetudine per il Gran Mufti o altri alti dignitari religiosi cingere il nuovo Sultano con la spada presso il sepolcro di Abu Ayyub. Il primo riferimento a questa cerimonia appare, sembra nel resoconto di Pechevi della salita al trono  di Mustafa nel 1617, suggerendo che questa fosse stata la prima occasione nella quale ciò avvenne. E’ pensabile che il gran visir e il Gran Mufti che lo avevano portato al trono desiderassero compensare la visibile mancanza di capacità di Mustafa con un atto che investiva cerimonialmente il Sultano di virtù marziali. Quale che sia sta l’origine, la cerimonia del cingere con la spada doveva sopravvivere fino all’ascesa dell’ultimo Sultano nel 1918.

  Le cerimonie che circondavano l’ascesa al trono di un nuovo Sultano  presero la loro forma finale nel 1617.  In ogni periodo, comunque, sembra che il momento in cui iniziava il nuovo regno era quando il Sultano prendeva possesso del trono. Le cerimonie che seguivano lo confermavano in questa dignità, ma non erano loro che lo facevano sovrano. Questo indica una credenza che la sovranità fosse inerente alla casa di Osman, e questa era una credenza che il sovrano doveva giustificare.

  Il ruolo originario del Sultano ottomano era quello di leader in guerra. Il primo sovrano ottomano, Osman, emerge dalla descrizione da parte del contemporaneo cronista bizantino Pachymeres come un comandante militare i cui successi contro le forze bizantine attrassero giovani “affamati di bottino” da terre molto al di là del suo regno. Egli fu il primo in una linea di sultani guerrieri che durò funo a Solimano I, la cui morte di fronte alla fortezza di Szigetvar nel 1566 gli valse il titolo di “guerriero e martire”. Fino a quel tempo, l’immagine del guerriero sembra essere stata un sostegno essenziale dell’autorità del Sultano. E’ chiaro, per esempio, che quando Bayezid II mancò di condurre il suo esercito in persona contro i mamelucchi, tra il 1485 e il 1490, dovette fronteggiare severe critiche. Critiche che il cronista e panegirista Tursun Bey cercò di rigettare  ponendo la critica a Bayezid sulla bocca di un giovane imberbe, e narrando come “un anziano [la cui saggezza è tanto] profonda quanto il mare” avesse replicato dicendo: “E’ proibito indagare nei segreti del sultanato…”. Fu sempre per contrastare queste critiche che Tursun Bey presentò le conquiste di Kilia e Akkerman fatte da Bayezid come più grandi persino delle vittorie di suo padre, Maometto il conquistatore.

  Alla metà del sedicesimo secolo, comunque, l’idea del Sultano che guida personalmente i suoi eserciti alla vittoria era un anacronismo. La grande estensione dei confini dell’Impero tra il 1517 e il 1540 significava che non era più possibile aggiungere vasti territori all’Impero con una campagna di un solo anno. La guerra invece divenne prolungata senza spettacolari conquiste, e richiedeva che l’esercito per un certo numero di anni di seguito svernasse vicino al fronte. Nello stesso tempo, l’incremento  nelle dimensioni dell’Impero aggiunse complessità alla sua amministrazione. In queste circostanze la rimozione del sovrano dalla capitale per l’intera lunghezza di una campagna divenne impossibie e, dal regno di Selim II, il Sultano raramente scese in campo col suo esercito. Questo cambiamento di circostanze coincise anche con un cambio nel carattere del Sultano. Prima di Solimano I, Bayezid II era stato una eccezione nel possedere un temperamento pacifico. Dopo Solimano, pochi sultani avevano il gusto della guerra.

  Nondimeno, la nozione del Sultano come guerriero persisteva. Nel 1596, dopo tre anni di guerra senza successo contro gli Asburgo, Mehmed III, su insistenza dei giannizzeri, del gran visir e del tutore di suo padre, Sa’deddin, accompagnò l’esercito in Ungheria. Sotto il comando nominale del Sultano, le truppe ottomane catturarono Eger, e nella battaglia di Mezö-Keresztes, strapparono una vittoria dalla sconfitta. Mehmed, comunque rifiutò  di “guidare” un’altra campagna, e la guerra continuò per altri dieci anni. L’ultimo sussulto della tradizione dei sultani guerrieri avvenne con il regno di Osman II, che condusse una campagna senza successo  contro la Polonia nel 1621, e Murad IV, la cui riconquista di Erivan nel 1635 e Baghdad nel 1638 gli dettero un posto nella tradizione ottomana come l’ultimo Sultano che guidò di persona le sue truppe alla vittoria. Sia le campagne di Osman che di Murad avvennero in un momento in cui l’élite ottomana era consapevole della necessità di riformare e rinnovare le istituzioni dell’Impero e, in questo contesto, esse erano un tentativo di ristabilire la vecchia tradizione del Sultano come leader militare.

  All’interno di una entità politica che esisteva per fare guerra, il ruolo del Sultano come leader in guerra era sufficiente a legittimare la sua posizione. La guerra, comunque, forniva una legittimazione religiosa. Nella legge islamica, la guerra santa contro gli infedeli è un obbligo della comunità musulmana e  nelle loro battaglie contro i nemici cristiani i sultani potevano atteggiarsi come ottemperanti la legge di Dio. Divenne consuetudine in questo contesto riferirsi ai sultani in particolare e alle loro truppe in generale come ghazi, una parola che aveva un significato ordinario di “guerriero” o “razziatore” ma che, quando i giuristi e gli storici islamici la adottarono come uno dei termini per indicare una persona impegnata nella guerra santa, acquistò anche il senso di “guerriero santo”. La nozione del Sultano come ghazi era particolarmente efficace come strumento di legittimazione, dal momento che racconti epici di gesta eroiche contro gli infedeli formavano anche un filone della cultura popolare musulmana, e i “Libri della Guerra Santa” costituivano una branca della letteratura popolare. Il ghazi , dunque, è una figura che appare sia nei lavori colti che negli intrattenimenti popolari. In conseguenza, adottando “ghazi” come titolo, i sultani potevano rivolgersi a un vasto spettro di seguaci musulmani. Sembra probabile che i sovrani ottomani adottarono questo titolo durante il quattordicesimo secolo, seguendo l’esempio di precedenti sovrani musulmani, ma manca una chiara evidenza. Il primo riferimento certo a questa pretesa è nel lavoro del poeta e moralista Ahmedi che, nella sua breve “Storia” in versi intorno al 1400, presenta i “re ottomani” e i loro seguaci come guerrieri santi, e premette al passaggio una descrizione delle qualità di un ghazi. In cronache successive, queste virtù si attagliano quasi esclusivamente alla persona del Sultano. Per la fine del quattordicesimo secolo, nelle parole del cronista Neshri, i sultani ottomani erano diventati “I ghazi per eccellenza… dopo l’Apostolo di Dio (Maometto) e i quattro califfi rettamente guidati”. Questa era un’idea che doveva rimanere fino alla fine dell’Impero, persino quando  i sultani si erano ritirati dalla leadership in guerra. Negli ultimi anni dell’Impero questa idea conobbe un revival quando, dopo l’eroica difesa di Pleven ad opera di Osman Pasha nel 1876, il Sultano Abdülhamid II (1876-1909) aggiunse la parola “il Ghazi” al suo monogramma imperiale che compariva all’inizio dei documenti, sulle monete e in luoghi pubblici.

  L’idea del Sultano come ghazi aveva due funzioni. Prima, giustificava le guerre del Sultano contro i cristiani come l’ottemperanza del comando di Dio. In secondo luogo giustificava il possesso da parte del Sultano dei territori in precedenza cristiani. La terra che  i musulmani prendono dagli infedeli passa, per legge, sotto il dominio del Sultano musulmano. I sultani erano quindi legittimati come sovrani della terra che avevano strappato ai cristiani. Questo presenta un problema ovvio. Gli ottomani combattevano contro musulmani tanto spesso quanto lo facevano contro i cristiani, e conquistarono tanto territorio musulmano quanto cristiano.

  Per giustificare la guerra cotro i musulmani, i cronisti musulmani del quindicesimo secolo presentarono gli avversari musulmani degli ottomani – per esempio i karamanidi – come recanti ostacolo alla guerra santa. Intorno il 1460 lo storico Shükrullah ritraeva Murad I come consultantesi con un Ulema e beneficiario di una sanzione religiosa per attaccare i suoi vicini musulmani, perché questi stavano progettando di attaccarlo da oriente, mentre egli conduceva la guerra santa in Occidente. Un cronista anonimo del 1485, spiegò come i vicini musulmani del Sultano incitavano gli infedeli contro gli ottomani in modo che, quando questi ultimi erano occupati potevano “cogliere l’opportunità di attaccarli dall’altro fianco”.

  Nel sedicesimo secolo la propaganda ottomana cambiò. Per tutto questo secolo, e nel diciassettesimo, i più potenti avversari del Sultano erano i safavidi dell’Iran. Gli scià safavidi, a differenza dei sultani ottomani, erano sciiti, e, più significativamente, reclamavano uno status quasi-divino come  capi dell’ordine religioso safavide. Queste pretese eterodosse consentirono   agli ottomani di presentare i Safavidi come ribelli contro la legittima autorità dei sultani ottomani e, cosa più importante, come apostati e infedeli. I Safavidi, dichiarò il Gran Mufti Ebu’s-su’ud nel 1548, erano “ribelli e, da molti punti di vista, infedeli”. Questa affermazione consentiva a Ebu’s-su’ud, come ai suoi predecessori e seguaci, di decretare che la guerra contro i Safavidi era una legittima guerra santa. L’eresia safavide era così tremenda che “combattere contro costoro è più importante che combattere gli infedeli”.

  Queste erano le giustificazioni per muovere guerra ai Musulmani. Una ulteriore giustificazione, non tanto per muovere guerra, quanto per acquistare territorio musulmano doveva emergere alla fine del quindicesimo secolo. La più importante e longeva dinastia nell’Anatolia pre-ottomana era stata quella dei Selgiuchidi di Rum che avevano governato nella Anatolia centrale per gran parte del dodicesimo e tredicesimo secolo. La dinastia si era estinta poco dopo il 1300. Una serie di leggende nelle prime cronache ottomane ci dice come un Sultano selgiucide chiamato Alaeddin aveva concesso terre a Sögüt, alla frontiera bizantina, al padre di Osman; e come lo stesso Sultano avesse concesso ad Osman uno “stendardo formato con la coda di un cavallo, un tamburo e vesti d’onore” come simboli di investitura. Il proposito di questi racconti era chiaramente di dare agli ottomani legittimazione legandoli ai Selgiuchidi. Le storie raggiunsero la loro forma definitiva nel 1485, nella Storia degli ottomani di Neshri. Nella versione di Neshri, fu Alaeddin I (m. 1237) che concesse terre al padre di Osman e fu Alaeddin III (m. 1303) che mandò lo stendardo, il tamburo e le vesti a Osman, e essendo lui stesso senza figli lo nominò suo successore. Quest’ultimo sviluppo della storia fece degli ottomani i legali successori dei Selgiuchidi e dunque i legittimi eredi del territorio selgiuchide in Anatolia. Un ovvio corollario di questo era che le dinastie che si erano stabilite sui vecchi regni selgiuchidi erano dei volgari usurpatori delle terre che, di diritto appartenevano agli ottomani. La guerra contro di essi e l’impossessamento dei loro territori era dunque legittimo. La storiografia ottomana fino al dodicesimo secolo doveva inserire  la storia di Neshri nel quadro dell’eredità selgiuchide.

  Questi elementi della propaganda e mitologia ottomana legittimarono la guerra e l’acquisizione di territorio ad oriente e a occidente. Comunque, le pretese del Sultano alla sovranità come membri di una particolare famiglia richiedeva una ulteriore giustificazione. A questa provvedeva la genealogia ottomana. L’”albero genealogico” ottomano sembra si sia originato durante il regno  di Murad II (1421-51) in un momento in cui gli Ottomani sentirono la necessità di riaffermare  le loro pretese alla sovranità dopo la sconfitta ad opera di Tamerlano e la guerra civile. La figura chiave nella creazione di questa genealogia fu Yazijioghlu Ali, che Murad sembra aver impiegato nella sua cancelleria negli anni ’20 del 1400. Yazijioghlu trovò i materiali nelle leggende di Oghuz Khan, il mitico antenato dei turchi occidentali. Oghuz Khan, in questa tradizione, era il nipote di Noè attraverso Japhet, e ebbe sei figli e ventiquattro nipoti  che erano antenati delle 24 leggendarie tribù della turchia occidentale. Yazijioghlu tracciò la linea genealogica ottomana attraverso il figlio maggiore e il nipote più anziano di Oghuz Khan, dando così ai sultani ottomani un primato ereditario tra i monarchi turchi. Egli rinforzò questo messaggio con un racconto di come, al momento del crollo della dinastia selgiuchide, i sovrani turchi dell’Anatolia elessero Osman come loro signore sulla base della sua discendenza. Yazijioghlu, di fatto, basò la sua genealogia su una versione delle leggende di Oghuz che appare in una storia universale  che il cronista e uomo di stato, Rashid al-Din compose per il sovrano Ilkhanide, Ghazan Khan (1295-1304). Questa storia fornisce il nome del nipote da cui discende la casata ottomana come Kayi. Altre versioni della genealogia  si svilupparono durante il corso del quindicesimo secolo, ma tutte  facevano discendere gli ottomani dal figlio maggiore del figlio maggiore di Oghuz Khan.

  La genealogia di Oghuz venne fuori in un momento in cui i sovrani musulmani dell’Anatolia e dell’Azerbaijan, che erano immediati rivali degli ottomani, erano tutti turchi, e compilavano le loro genealogie da un simile materiale turco. La genealogia ottomana serviva a mostrare che i sultani ottomani erano superiori per discendenza a queste dinastie vicine. Arrivati alla metà del sedicesimo secolo, quando la situazione politica dell’Impero era piuttosto differente, e la cultura delle élite era cosmopolita e islamica piuttosto che turca, la genealogia perse una parte della sua forza di legittimazione. Nondimeno, rimase fossilizzata nella tradizione storiografica fino al ventesimo secolo. Ci fu, comunque un cambiamento. Dalla metà del sedicesimo secolo, sotto l’influenza  di una tradizione profetica che preannunciava la conquista di Costantinopoli da parte del figlio di Isacco, gli storici iniziarono a tracciare la prima genealogia attraverso Sem e Esau piuttosto che attraverso Japhet. Questa genealogia  è in contrasto con la versione originale della discendenza dinastica, dal momento che  dissocia i sultani dai turchi, che la tradizione dipinge come discendenti di Japhet, e li lega, attraverso Sem agli arabi (“semiti”). Questo, comunque, è collegato al carattere progressivamente cosmopolita della élite ottomana del sedicesimo e diciassettesimo secolo, che non avrebbe più compreso il significato della discendenza turca da Oghuz Khan, ma per la quale un legame con gli arabi poteva indicare una connessione col Profeta.

  La genealogia di Oghuz, nelle sue varie versioni, fornisce ai sultani una discendenza fisica che sostiene le loro pretese alla sovranità. Per reclamare anche una legittimazione religiosa essi avevano anche bisogno di una genealogia spirituale e di segni di una approvazione divina. Essi acquistarono questo attraverso una serie di racconti popolari che apparvero per la prima volta in cronache della fine del quindicesimo secolo e successivamente vennero incorporati nella tradizione storiografica. Secondo le credenze islamiche, Dio parla all’uomo attraverso i sogni, e un certo numero di storie delle prime cronache ci dice come Dio promise ad Osman e a suo padre, attraverso dei sogni, che avrebbe esaltato i loro discendenti. Il più famoso di questi episodi, che divenne  canonico nelle tradizioni successive, ricorre nella cronaca di Ashikpashazade intorno al 1484, e descrive il sogno di Osman quando era ospite del derviscio Edebali. In esso, Osman vede una luna che sorge dal petto di Edebali e entra nel suo. Poi un albero cresce dal suo ombelico e copre il mondo. Nell’ombra di questo albero c’erano montagne, con acqua che scorrevano dai loro piedi, e popoli che bevevano le acque, coltivavano i loro giardini e creavano fontane. Al mattino, Edebali interpretò il sogno come significante che Dio aveva garantito ad Osman e ai suoi discendenti la sovranità. Nello stesso tempo, fidanzò sua figlia con Osman. Ella divenne la madre di Orhan, e in tal modo l’antenata femminile della dinastia.

  La funzione della storia è di mostrare, in primo luogo che Dio aveva voluto che la dinastia ottomana fosse regnante, e in secondo luogo di fornirle una genealogia spirituale attraverso Edebali. Edebali, che fosse realmente vissuto o leggendario, era una figura che occupava una posizione importante nel lignaggio spirituale dell’ordine dei dervisci Vefaiyye, al quale apparteneva anche Ashikpashazade. Nell’ordine Vefaiyye, come in tutti gli ordini di dervisci, ogni maestro ha il suo proprio maestro spirituale, andando indietro in una catena ininterrotta fino al fondatore dell’ordine. Nel caso dei Vefaiyye, questo fu Abu’l-Wafa di Baghdad (m. 1107). Da questo punto, l’ordine traccia la sua genealogia spirituale indietro fino al Profeta Maometto e, attraverso l’angelo Gabriele, a Dio. La storia di Ashikpashazade del matrimonio  di Osman con la figlia di Eebali, dunque, collega  i sultani ottomani al suo ordine, il Vefaiyye, e li fornisce della discendenza spirituale che va indietro attraverso Abu’l-Wafa fino al Profeta. Questa genealogia religiosa fa da complemento alla genealogia politica che va indietro attraverso Oghuz Khan fino a Noè

  Le genealogie della dinastia e le storie del sogno derivano il loro materiale da credenze popolari, e in questo riflettono le pretese relativamente modeste dei sultani nel quindicesimo secolo, quando le storie apparvero. Nel sedicesimo e diciassettesimo secolo le pretese dei sultani divennero più grandiose e, allo stesso tempo, più dipendenti dalla tradizione colta.

  Nel 1453 Mehmed II conquistò Costantinopoli e, attraverso il suo possesso, acquistò dallo sconfitto imperatore bizantino la pretesa al titolo imperiale romano. Questa prerogativa non ha però un posto preminente nei titoli che si attribuivano i sultani fino ad un secolo più tardi. Dal 1526 in poi, i principali avversari dei sultani furono gli imperatori asburgici, di cui il più grande era Carlo V, re di Spagna e sacro romano imperatore: la rivalità tra Solimano I e Carlo V fu un tema dominante intorno alla metà del sedicesimo secolo. Nel 1547, Solimano concluse un trattato con Carlo e suo fratello, Ferdinando d’Austria, in cui garantiva la pace in cambio di un tributo per le terre che gli Asburgo avevano in Ungheria. Nel testo del trattato, Carlo non si riferisce a se stesso come “Sacro Romano Imperatore” ma semplicemente come “Re di Spagna” e è da questo momento che Solimano riputò di aver strappato il titolo di Imperatore romano al suo rivale. Da allora, attribuzioni come “Cesare dei Cesari” iniziarono ad apparire nei titoli Ottomani. L’importanza per i sultani del titolo Romano divenne evidente al tempo della negoziazione del trattato di Zsitvatorok nel 1606. L’imperatore asburgico non accettava il titolo di “Re” ma neanche Ahmed I voleva concedere il titolo di “Cesare”. Il compromesso che trovarono gli Ottomani fu, nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, di tenere il titolo “Cesare” e di rivolgersi ai sovrani asburgici come a “Imperatori”.

  La pretesa ottomana al titolo di Imperatore Romano non fu la fine delle pretese  imperiali dei sultani. A metà del sedicesimo secolo, Solimano aggiunse “Cosroe dei Cosroi” ai suoi titoli di Sultano, presumibilmente, dal momento che “Cosroi” è un generico nome per gli antichi governanti dell’Iran, in celebrazione delle sue vittorie sugli Scià safavidi. Dalla metà del suo regno Solimano si diede il titolo di “Sultano degli Arabi, Persiani e Romani”. Comunque, il titolo più importante che lasciò al suo successore era “Califfo” o “Imam”, parole che, in un contesto politico implicano autorità suprema del mondo islamico.

  Il concetto di califfato deriva dalla teologia e storiografia islamica. Gli storici musulmani sunniti dettero il titolo ai quattro successori del Profeta – Abu Bakr, Umar, Uthman ed Alì – che essi veneravano come i “Califfi rettamente guidati”. Da allora, il titolo divenne parte in particolare di quelli dei sovrani abbasidi tra il 750 e il 1258. Queste associazioni diedero al termine una dignità storica. Dal decimo secolo, i teologi sunniti iniziarono a sviluppare una teoria del califfato,sebbene essi preferiscano i termini “Imam” e “Imamato” a “califfo” e “califfato”. L’imam, dal loro punto di vista, ottiene la carica come risultato di un contratto che fa con uno o più “uomini col potere di legare e di sciogliere” e, perché il contratto sia valido, l’Imam deve soddisfare un certo numero di condizioni. Queste variano da scrittore a scrittore, ma una sulla quale tutti sono d’accordo è che l’Imam deve appartenere alla tribù del Profeta, i Quraish. Nella teoria sunnita, dunque, il califfato o imamato è contrattuale piuttosto che ereditario.

  Califfo, come titolo dei sultani ottomani, appare per la prima volta nel 1424, ma il suo uso a quel tempo era retorico piuttosto che specifico. Non fu che dal regno di Solimano I che il Sultano iniziò a pretendere il titolo ex officio. Il suo principale propagandista in questo fu il Gran Mufti, Ebu’s-su’ud che, rendendosi conto che i sultani ottomani non potevano pretendere di provenire dalla tribù dei Quraish – la genealogia era già fissata – ignorò la teoria classica del califfato e invece asserì che il Sultano ottomano occupava questa posizione per diritto divino. Egli era colui al quale “Dio Altissimo ha concesso il califfato della Terra”. Egli asserì pure che i sultani ottomani erano gli “eredi del Grande Califfato” – un riferimento ai “quattro califfi rettamente guidati” – e che essi ereditarono la carica “di padre in figlio”. Questo era un punto di vista che contraddiceva direttamente la teoria classica, la cui sola influenza sugli ottomani sembra essere stata riguardo la forma del giuramento di fedeltà. Queste asserzioni effettivamente resero i sultani ottomani eredi diretti dei califfi rettamente guidati, che erano gli immediati successori del Profeta. Fu dunque una pretesa che implicava sovranità sull’intero mondo islamico. Era anche una pretesa che doveva durare, con molte vicissitudini fino alla fine dell’Impero.

  C’erano dunque molti fili conduttori nelle pretese ottomane di legittimazione, ciascuno dei quali era emerso in un tempo differente di fronte a circostanze diverse. La giustificazione originale del diritto del Sultano a governare era come leader in guerra. Intorno al 1400 al più tardi questo ruolo era stato santificato ed egli era divenuto un leader della guerra santa. La guerra contro le dinastie musulmane era giustificata perché queste lo distoglievano dal suo sacro compito. Agli inizi del quindicesimo secolo, a seguito della sconfitta e della guerra civile, il Sultano ristabilì le sue pretese a una legittima sovranità mediante la creazione della genealogia da Oghuz. La fabbricazione, nello stesso secolo, di una genealogia spirituale e di racconti che “provavano” che la sovranità ottomana era stabilita da Dio, dettero una sanzione religiosa al sultanato, che correva in parallelo alla sua discendenza secolare da Oghuz Khan. Intorno al 1500 il Sultano cominciò a legittimare il suo ruolo in Anatolia sulla fondazione di una storia che faceva gli ottomani eredi legali dei Selgiuchidi. Dal 1453, ma specialmente dopo il 1547, egli poteva pretendere di aver ereditato il titolo di sacro romano imperatore, mentre le vittorie sui mamelucchi e safavidi lo rendevano “Cosroe” e “sovrano degli Arabi e dei Persiani”. Nel sedicesimo secolo, Solimano avanzò pretese sul titolo e la carica di Califfo. Di questi strumenti di legittimazione, quelli di Guerriero Santo, successore dei selgiuchidi e califfo dovevano sopravvivere fino al ventesimo secolo.

 

 

 

IL RECLUTAMENTO

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  Nel sedicesimo secolo, il sovrano governava i suoi domini in gran parte attraverso gli “schiavi della porta”. Questi erano gli uomini che aveva reclutato per servire come ministri, governatori provinciali o truppe e che pagava col Tesoro o la concessione di feudi. Era, comunque un sistema di governo che aveva impiegato due secoli per evolversi.

  Un resoconto di come i primi sultani governavano il loro principato e di chi entrò al loro servizio può solo essere breve e altamente ipotetico. Le cronache del quindicesimo secolo presentano il primo sovrano, Osman (m. circa 1324), che distribuisce terre e uffici di comando ai membri della sua famiglia e ai guerrieri del suo entourage. I nomi dei guerrieri sembrano, di fatto essere invenzioni, derivanti da toponimi nell’Anatolia nord-occidentale piuttosto che da accurate memorie storiche, ma l’idea che Osman delegasse i poteri alla sua famiglia e ai compagni di ventura potrebbe nondimeno essere vera. Le stesse pratiche probabilmente continuarono nel regno di suo  figlio, Orhan (c. 1324-62). I nomi dei suoi quattro fratelli e di una sorella appaiono come testimoni del suo negozio fiduciario del 1324; la cronaca bizantina di Giovanni Cantacuzeno menzionano suo fratello, Pazarlu, come comandante alla battaglia di Pelekanon nel 1328; e suo figlio Süleyman Pasha, agiva come comandante militare semi indipendente fino alla sua morte nel 1357. Suo figlio Halil sembra essere stato governatore delle terre lungo il Golfo di Izmit alla fine degli anni ’50 del 1300. L’impressione è quella di un modo informale di governare, con cariche ripartite tra i membri della famiglia regnante e del suo entourage.

  Questo sistema molto probabilmente cessò durante il regno di Murad I (1362-89). Murad, sembra, fu il primo Sultano a giustiziare i suoi fratelli col risultato che i regni ottomani non furono più il patrimonio condiviso di tutti i membri della famiglia regnante. I figli dei sultani continuarono a svolgere il ruolo di governatori provinciali e di comandanti dell’esercito, ma sotto la stretta tutela dei loro padri e senza la libertà di azione di cui Süleyman Pasha aveva apparentemente goduto.

  Un altro fattore che portò un cambiamento nel modo di governare era l’espansione del territorio ottomano e l’emergere dei signori di frontiera. Nel momento in cui i regni ottomani divennero più vasti, i signori vittoriosi acquistarono terre e entrate nei nuovi territori, che li stabilirono come poteri locali con le proprie truppe e un proprio seguito. Il più importante di questi signori fu Evrenos (m. 1471) che, durante il regno di Murad, acquistò vasti possedimenti in Macedonia, che i suoi discendenti dovevano mantenere fino al ventesimo secolo. Altri signori di frontiera – segnatamente le famiglie di Mihal, Malkoch e Turahan – si stabilirono nelle nuove terre conquistate in Europa alla fine del quattordicesimo secolo e all’inizio del quindicesimo. E’ possibile che si verificasse un fenomeno simile in Anatolia, ma le fonti sono troppo scarse per permetterci altro che speculazioni. Come Evrenos e altri conquistatori si stabilirono nei nuovi territori, un’altra famiglia, i Chandarli, emerse sia come capi militari che consiglieri politici dei sultani. Il primo di questa genealogia, Hayreddin Halil (m.1387), combinava il ruolo di comandante dell’esercito e di Visir di Murad I. Per questa ragione, a tradizione ottomana lo considera come il primo Gran Visir, una carica che i suoi discendenti dovevano occupare fino al 1453. Nello stesso tempo, i conquistatori ottomani frequentemente non rimuovevano la dinastie che avevano governato in tempi pre-ottomani, ma invece le mantennero come vassalli sotto la sovranità ottomana.

  Questi sviluppi resero la posizione di Murad I differente da quella di suo padre e di suo nonno. Nel senso che egli non doveva più spartire l’autorità con i suoi fratelli, che egli era più forte di loro. Nello stesso tempo, comunque, l’apparizione dei signori di confine e la continuazione del governo di dinastie locali semi-indipendenti chiaramente limitava il suo potere. Egli non era un sovrano assoluto, ma piuttosto il più potente in una confederazione di grandi signori, che erano suoi alleati e vassalli piuttosto che suoi servitori. Per stabilire la loro posizione, dunque, Murad e i suoi successori dovevano procurarsi un entourage che fosse di subordinati piuttosto che di confederati, e la cui lealtà alla dinastia ottomana era fuori questione. La sorgente di un tale seguito,nell’assenza di istituzioni moderne poteva essere solo la case del Sultano e fu largamente attraverso membri della sua casa, impiegati come governatori o soldati, che i sultani ottomani giunsero a governare l’Impero.

  La legge islamica e la tradizione si combinarono con le particolari circostanze della dinastia ottomana per definire la natura della casa imperiale. L’esclusione dal governo della linea femminile, la pratica del fratricidio tra il 1362 e il 1595, e la reclusone dei principi, resero da allora il Sultano il patriarca incontestato della dinastia, con severa limitazione del ruolo della famiglia imperiale in senso allargato. Solo i figli del Sultano partecipavano al governo dopo il 1362 e solo sotto sorveglianza come governatori provinciali. Nell’assenza di parenti legati da vincoli di sangue  a cui conferire l’ufficio o affidare i poteri, il Sultano doveva rivolgersi ad altri membri della casa. Leggi e precedenti determinarono chi essi dovessero essere.

  La legge islamica permette la schiavitù e, creando una categoria di “schiavi con licenza”, rese possibile per essi portare avanti transazioni per conto dei loro proprietari. Gli slavi potevano dunque diventare figure affidabili e importanti. Per di più, a dispetto del loro stato servile, essi potevano, in quanto facenti parte della élite della casa, occupare unrango sociale elevato. La “(parte di) famiglia composta da schiavi”,dunque,divenne una caratteristica della società islamica,e i sovrani islamici ebbero, dai primi tempi degli Abbasidi nell’ottavo secolo, creato eserciti di truppe schiave e usato schiavi nel governo dei loro reami. Questo era vero anche dei Selgiuchidi di Rum e probabilmente anche delle dinastie succedutesi in Anatolia prima della conquista ottomana. I Selgiuchidi nel tredicesimo secolo avevano impiegato sia truppe schiave che comandanti militari, nel palazzo e nel governo, ed avevano persino istituito una scuola a Konya per la loro educazione. Anche gli imperatori bizantini impiegavano corpi di truppe straniere le cui origini li ponevano in una condizione a parte rispetto a quella dei sudditi dell’Impero. Con questi precedenti era forse inevitabile che i sultani ottomani dovessero  fondare le loro case sulla istituzione della schiavitù e sull’impiego di “stranieri”. Perdipiù, con la eliminazione di coloro che avevano rapporti di sangue col Sultano dalla casa e dal governo la sua dipendenza dagli schiavi divenne più pronunciata. Il reclutamento nel servizio imperiale normalmente, dunque, significava reclutamento come schiavo.

  La legge islamica è chiara su chi può e chi non può essere ridotto in schiavitù. In primo luogo proibisce la riduzione in schiavitù dei musulmani, ancorché schiavi che si convertono all’Islam non perdono il loro stato servile. In secondo luogo, definisce quali non-musulmani possono essere legalmente ridotti in schiavitù. A questo proposito divide il mondo in regni musulmani e non-musulmani e non garantisce nessuna protezione della vita o della proprietà delle persone che vivono nelle terre non-musulmane. Questo significava in pratica che era possibile uccidere o rendere schiavi  non-musulmani che vivessero sotto una sovranità non musulmana. Lo stato di un non musulmano che viveva sotto una sovranità musulmana è differente. In virtù del pagamento di una tassa di capitazione sui maschi adulti, essi godono dello stato di infedeli protetti. La legge protegge le loro vite e proprietà e non possono essere ridotti in schiavitù. Gli schiavi, dunque, si originano come prigionieri dal mondo non-islamico. Una volta portati entro i regni dell’Islam essi divengono una proprietà che i loro padroni possono vendere, affittare, lasciare in eredità o dare in dono. Lo status è ereditario. I figli di schiavi hanno uno status servile, ma se uno dei loro genitori è libero il bambino segue lo status di sua madre. I proprietari possono anche rendere liberi gli schiavi mediante una semplice dichiarazione verbale o con un certo numero di altri mezzi.

  Gli schiavi potevano dunque entrare in una casa mediante cattura, acquisto, eredità o dono e i sultani ottomani acquistavano schiavi con questi mezzi presumibilmente dalle prime decadi dell’Impero. Alla fine del quattordicesimo secolo, comunque, il reclutamento di schiavi su vasta scala era diventato sistematico, utilizzando due metodi.

  Il primo di questi era di imporre una esazione sui prigionieri che i soldati ottomani riportavano dai raid e dalle guerre in territorio cristiano. La legge che dà al sovrano musulmano il diritto a un quinto del bottino di guerra giustificava la pratica, sebbene non esiste indicazione che i sultani esigessero proprio questa quota. Sembra abbastanza possibile che la pratica iniziò durante il tempo di Osman o di Orhan, ma le cronache musulmane situano la sua origine nel regno di Murad I. La attribuiscono a Chandarli-Hajreddin e ad un certo Kara Rüstem di Karaman che, esse (le cronache) asseriscono, consigliarono Murad: “prenditi un quinto dei prigionieri provenienti dai raid e se qualcuno non ha cinque prigionieri, prendi venticinque akce per ogni prigioniero. E’ dubbio che i dettagli di questo racconto siano autentici. Comunque, i raid in Europa divennero più intensi e diffusi durante il regno di Murad, aumentando il numero di prigionieri a disposizione. Nello stesso tempo, Murad aveva bisogno di rafforzare la sua supremazia politica aumentando le dimensioni della sua casa, e questi fattori forse si combinarono per rendere necessaria l’istituzione di una esazione formale e regolare durante il suo regno.

  Il proposito principale dell’esazione era provvedere reclute per il corpo dei giannizzeri, la fanteria della casa del Sultano, e i cronisti di fatto tendono ad associare l’istituzione dell’esazione con la creazione di questi corpi. Altre reclute, comunque erano destinate a servire direttamente nel palazzo o, dopo la loro creazione in una data incerta, nelle sei divisioni di cavalleria della casa.

  Per circa un secolo e mezzo dopo il regno di Murad I, la guerra e i raid continuarono a essere una abbondante fonte di reclutamento per il servizio del Sultano. Con l’istituzione, probabilmente durante il regno di Bayezid I (1389-1402) di un corpo di razziatori che ricevevano terra e esenzione dalle imposte in cambio di un’obbligazione a condurre razzie nel territorio nemico, i raid divennero una attività formalizzata. Questo assicurò un flusso costante di prigionieri, persino al di fuori dei periodi di guerra ufficiale. Il borgognone Bertrandon de la Brocquière, per esempio, rammenta come, nel 1432, nella valle del Maritsa in Bulgaria egli incontrò “circa venticinque uomini e dieci donne, legati assieme con pesanti catene intorno al loro collo. Erano stati catturati nel regno di Bosnia durante un raid da parte dei turchi e stavano venendo portati ad Adrianopoli da due turchi per essere venduti”. Il cronista Ashikpashazade ricorda con piacere una incursione sul Danubio nel 1440, dove “i razziatori erano così pieni di bottino che vendevano schiave squisite per il prezzo di un paio di scarpe”. Ogni guerra e ogni raid condotto con successo produceva la sua messe di schiavi, e su questi il Sultano reclamava il diritto di imporre una esazione.

  E’ difficile, in assenza di documenti, stabilire quanto efficaci e sistematici fossero i sultani nell’esigere la loro quota di prigionieri di guerra. Il regno di Bayezid II (1481-1512), comunque, vide un tentativo di sistematizzare e codificare la legge ottomana, e fu senza dubbio in questa occasione che Bayezid, nel 1493, emanò un decreto per regolarizzare la raccolta di prigionieri per il servizio imperiale. La disposizione era la risposta ad una richiesta di istruzioni da parte di un certo Yusuf, che era l’ufficiale responsabile della esazione dai giovani uomini catturati dai razziatori in Rumelia. Il decreto stabilisce che “il comandante del raid deve essere ricompensato con venticinque ragazzi di quelli che egli abbia riportato con i propri sforzi, gli ufficiali incaricati dell’esazione con cinque ciascuno di quelli che essi in persona avevano preso, gli ufficiali di rango più elevato con uno di quelli che essi stessi avevano catturato, e gli ufficiali di rango più basso con uno di due di quelli che avessero catturato essi stessi. Il resto, dall’età di dieci a diciassette anni, deve essere preso da Yusuf. Se qualcuno di quelli maggiori di sedici anni mostrano di essere idonei, anche essi devono essere presi, pagando al proprietario trecento akce dal tesoro per ciascun giovane. I giovani non devono avere deformità o malattie o mostrare segni di aver raggiunto la pubertà, o aver iniziato ad avere la barba”. Per assicurare che i giovani prigionieri raggiungessero la capitale, il decreto ordina sia all’ufficiale incaricato dell’esazione che al comandante del raid di compilare un registro, che i loro rappresentanti devono portare con i prigionieri. Questo consentiva alle autorità di scoprire se qualcuno era scomparso tra il raggruppamento alla frontiera e l’arrivo nella capitale. Esiste una copia dello stesso decreto in cui la formula “Io [il Sultano] ho comandato…” è sostituita dalla frase: “la legge è come segue…”, suggerendo che questo particolare decreto inviato a Yusuf acquistò lo stato di una legge generale che regolava la raccolta di prigionieri per il Sultano.

  Guerre e razzie in Europa continuarono ad essere una fonte di schiavi durante il sedicesimo secolo, ma probabilmente non nella stessa scala di prima. Prima del 1526, la linea del Danubio e della Sava formavano il confine tra l’Impero Ottomano e il regno di Ungheria, e raid attraverso i fiumi assicuravano un continuo flusso di prigionieri. Comunque, dopo la sconfitta del re di Ungheria a Mohacs, e l’insediamento sul trono di un re fedele al Sultano, l’Ungheria cessò di essere un terreno da razziare. Nel 1541, l’Ungheria centrale divenne una provincia ottomana, confinante con le ben fortificate terre asburgiche ad occidente. In queste circostanze le regolari incursioni su vasta scala degli ottomani non erano possibili. Perdipiù, nel 1595, la distruzione in battaglia di molte migliaia di razziatori, mise fine alla loro organizzazione nella sua forma tradizionale. Questi fattori limitarono il rifornimento di schiavi. Scrivendo negli anni ’40 del 1600, lo storico Ibrahim Pechevi commentava che era cessato il rifornimento di schiavi che aveva reso possibile ai governatori della frontiera di mantenere larghi entourage. Ad un certo punto la pratica di esigere una quota di prigionieri per il Sultano deve essere cessata.

  I prigionieri, comunque, continuarono ad arrivare nell’Impero, specialmente con i raid tatari nel territorio russo e polacco, dal Caucaso, e dall’africa sub-sahariana attraverso l’Egitto e il Sultano continuò a reclutare schiavi da queste fonti

  E’ chiaro, nondimeno, che la fornitura di schiavi da fuori i confini dell’Impero era insufficiente. I sultani dunque stabilirono una seconda e più affidabile fonte di approvvigionamento. Questa era il devshirme o “raccolta”, per mezzo della quale il Sultano prelevava gli schiavi tra i propri sudditi cristiani. Nella legge islamica, la pratica era illegale, dal momento che i non-musulmani nell’Impero avevano lo status di infedeli protetti e così non avrebbero potuto essere messi in schiavitù. La questione della sua legalità, comunque, sebbene soggetto di dibattito nel sedicesimo secolo, non ebbe ripercussioni sulla pratica e la Raccolta divenne la fonte principale di reclutamento per il servizio imperiale tra il quattordicesimo e la fine del sedicesimo secolo, e la pratica non scomparve completamente fino al diciottesimo secolo.

  E’ impossibile stabilire esattamente quando iniziò la Raccolta. Comunque, un semone del 1395 dal Metropolita di Tessalonica lamenta: “Cosa non deve soffrire un uomo vedendo il figlio che ha partorito ed allevato… portato via dalle mani di stranieri, improvvisamente e con la forza e costretto ad adottare costumi alieni e diventare uno che adotta abiti, lingua, empietà ed altre contaminazioni barbariche?” Due anni più tardi, un italiano, Caluccio di Salutati, riferiva che i turchi “si impadroniscono di giovani di dieci-dodici anni per l’esercito”. Entrambi i commenti sembrano riferirsi alla Raccolta, indicando che l’istituto esisteva già negli anni ’90 del 1300. Dunque nacque durante il quattordicesimo secolo. Questo era un periodo durante il quale i turchi dell’Anatolia occidentale sembravano avere una comprensione limitata della legge islamica e probabilmente, dunque, solo una nozione confusa  degli statuti della schiavitù nei termini nei quali le generazioni successive dovevano  intendere la Raccolta e lo status dei servitori del Sultano. Questo può spiegare la pronta accettazione di un istituto che era, in termini islamici, illegale.

  Nel 1438, un certo Fratello Bartolomeo da Jano di nuovo fece riferimento alla Raccolta nella sua Lettera sulla barbarie dei Turchi. Ivi riporta come il Sultano pretendesse un decimo dei ragazzi cristiani “da dieci a vent’anni”, che egli fa diventare suoi schiavi speciali e portatori di scudi e, ciò che è peggio, Saraceni”. Egli parlava della pratica come “qualcosa che il Sultano non era mai stato uso fare”, come se fosse qualcosa di nuovo. Questo indica probabilmente che Fratello Bartolomeo semplicemente ignorava che la Raccolta di giovani era un evento regolare, ma probabilmente era cessato durante la guerra civile tra il 1402 e il 1413, ed era solo allora che riprendeva di nuovo.

  Riguardo ad un aspetto il resoconto di Fratel Bartolomeo era sicuramene sbagliato. E’ improbabile che il Sultano raccogliesse giovani nella percentuale di uno su dieci. Il serbo Costantino Mihailović, che servì nell’esercito ottomano tra il 1453 e il 1463, di fatto si riferisce ai giovani che il Sultano raccoglieva nei suoi regni come chilik, una parola che chiaramente deriva dal Persiano chile-yek (un quarantesimo), e ovviamente rappresenta la percentuale dell’esazione. Questa è anche la quota che appare in un documento degli inizi del sedicesimo secolo, che serviva da modello per i decreti del Sultano che ordinavano la raccolta dei giovani per il servizio imperiale. Il testo comincia con: “Io [il Sultano] ho ordinato che, nel distretto giudiziario di […], comprendente [x] famiglie, e in quello di […] comprendente [y] famiglie, [a] e [b] giovani rispettivamente, per un totale di [c], siano raccolti, al tasso di un giovane ogni quaranta famiglie…”

  La percentuale di raccolta dunque, era di un giovane ogni quaranta famiglie. Il documento continua esponendo la procedura che la raccolta doveva seguire. L’ufficiale incaricato doveva portare con sé un giannizzero e “andare senza ritardo in questi distretti giudiziari per avvisare il popolo con un proclama… e, senza trascurare un singolo villaggio, radunare tutti i figli degli infedeli e dei notabili, insieme con i loro padri, e farli comparire davanti a sé e ispezionarli personalmente. Se un infedele ha più di un figlio  (l’ufficiale) deve registrarne e prenderne in consegna uno valido per il servizio presso i giannizzeri, di età quattordici o quindici anni, o, al massimo sedici, diciassette o diciotto; ma non deve prendere il figlio di un uomo che ne ha solo uno  e, dopo aver preso un figlio egli deve, agendo correttamente secondo legge, rimandare indietro gli altri al loro padre.

  Un’opera degli inizi del diciassettesimo secolo, intitolata Le leggi dei Giannizzeri, che offre rimedi per i difetti del’epoca del corpo dei giannizzeri facendo riferimento alle pratiche ideali del passato, espone i principi della selezione. Gli ufficiali incaricati non devono prendere i figli di uomini importanti, preti o uomini di buona discendenza. Essi non devono prendere figli unici, perché questi aiutano i loro genitori nel lavoro della fattoria, e se non vi fossero, il padre non riuscirebbe a coltivare la sua terra e a pagare le tasse. Essi non dovrebbero prendere orfani, perché sono “opportunisti e indisciplinati”; giovani strabici, perché sono “perversi e ostinati”; giovani alti perché sono “stupidi”, o bassi, perché sono “piantagrane”. Né dovrebbero prendere giovani con facce imberbi, perché appaiono “disprezzabili al nemico”. Era anche proibito prendere uomini sposati o artigiani. Gli uomini che si guadagnavano da vivere come artigiani non erano preparati a sopportare le durezze del servizio.

  C’erano altre categorie che l’autore delle Leggi escludeva. Soprattutto, non dovevano essere presi dei turchi. Questo perché, se si fosse fatto questo, i loro parenti avrebbero preteso anch’essi di essere schiavi del Sultano e di essere esentati dalle imposte, o cercare di entrare nel corpo dei giannizzeri. Allo stesso tempo, i governanti non li avrebbero visti come genuini schiavi imperiali, e ciò avrebbe condotto all’indisciplina. I turchi sono pure descritti come “spietati e molto poco adusi alla devozione o alla religione”. Invece, l’autore continua, il beneficio di prendere la prole degli infedeli risiede nel fatto che “quando diventano musulmani essi diventano fervidi credenti e nemici delle loro famiglie e dei dipendenti”. Questa era probabilmente un’esagerazione. Un documento del 1572 mostra un giannizzero che presenta una petizione al Sultano nell’interesse della sua famiglia in Albania, indicando che non solo non è divenuto “loro nemico”, ma che neanche ha perso il contatto con loro. Similmente, nel registro di corte di Istanbul per il 1612-13 c’è una annotazione che registra un caso in cui un governatore dell’Anatolia – chiaramente proveniente dalla Raccolta – aveva collaborato con suo fratello, un prete locale, per estorcere esazioni illegali alla popolazione del suo distretto. Questi non possono essere stati casi isolati di contatti che sono continuati. Nondimeno, ogni giovane prescelto con la Raccolta doveva i suoi mezzi di sussistenza, incluso il suo salario regolare, e la sua futura carriera, al Sultano e non ai familiari o alla sua gente e, in questo senso, il legame più vitale con il suo ambiente natale era tagliato.

  C’era, comunque un gruppo di musulmani che poteva essere fatto oggetto di Raccolta, e questo era il gruppo dei bosniaci. La ragione, secondo l’autore delle Leggi dei giannizzeri, era che al tempo della conquista della Bosnia nel 1463 gli abitanti si erano subito sottomessi al Sultano ed avevano accettato l’Islam. Quando il sovrano offrì loro un privilegio in cambio di questo atto, essi chiesero di essere oggetto di Raccolta, e da allora il Sultano aveva prelevato giovani da quella regione. Molti di questi, ci dicono Le leggi dei giannizzeri, venivano posto nel palazzo o nei giardini del palazzo. Le leggi dei giannizzeri è un’opera dell’inizio del diciassettesimo secolo. Nondimeno, dal momento che i prospetti catastali a partire dal 1463 mostrano che ci furono molte conversioni in Bosnia dopo la conquista ottomana, questa storia di come la Raccolta iniziò in Bosnia ha una qualche credibilità.

  Le zone dove il Sultano faceva la raccolta erano la penisola balcanica e l’Anatolia, con la prima che forniva la maggior parte delle reclute, presumibilmente perché era un’area con una maggioranza di popolazione cristiana. Nell’Anatolia, la maggioranza della popolazione era turca, e pertanto non idonea. Inoltre, alcune aree dell’Anatolia sembrano in certi periodi essere state esenti. L’autore de Le leggi dei giannizzeri ci informa che era contro i regolamenti prelevare giovani per esempio dall’area tra Karaman ed Erzerum, “perché essi erano mescolati con turcomanni, curdi e georgiani”. Né il Sultano estendeva la raccolta alle terre arabe dopo la loro conquista nel sedicesimo secolo.

  Queste erano le aree e le popolazioni soggette al prelievo, e i principi in base ai quali gli ufficiali incaricati facevano la loro selezione. Una volta che avevano scelto e riunito i giovani, il compito successivo era portarli alla capitale. Il primo passo era organizzare i giovani, in accordo col modulo del sedicesimo secolo che abbiamo visto, in gruppi di 100-150 o di 200, secondo Le leggi dei Giannizzeri, e poi compilare un registro separato per ciascun gruppo. Per ogni giovane, essi dovevano, secondo quanto stabilisce il modulo, mostrare “il suo nome, il nome di suo padre e il nome del villaggio e del possessore del feudo a cui il villaggio appartiene, e una descrizione del giovane, in modo che se egli scompare, il registro mostri chi sia e da dove viene, cosicché può essere ripreso facilmente”. Una funzione dei registri era anche di evitare che attaccabrighe prendessero parte alla consegna dei ragazzi , e di evitare episodi di corruzione da parte di coloro che prelevavano i ragazzi, per esempio la vendita privata come schiavi di coloro che avevano avuto in consegna. Così riuniti, i ragazzi  viaggiavano scortati dalle guardie fino a Istanbul, passando le notti nei villaggi. Il modulo del decreto proibisce che vi stiano per più di una notte, per minimizzare il peso per gli abitanti del villaggio, che provvedevano cibo e alloggio. Una volta ad Istanbul la scorta li portava dall’agha dei Giannizzeri.

  L’agha doveva innanzitutto accertarsi che i ragazzi arrivati a Istanbul coincidessero con la descrizione dei registri, annotando quelli che erano caduti ammalati e qualsiasi ragazzo non fosse arrivato a destinazione. Come ulteriore precauzione contro le frodi, il decreto richiedeva all’ufficiale incaricato di fare un secondo registro, cosicché quando successivamente arrivava nella capitale, l’agha dei giannizzeri poteva comparare i due registri, un processo che gli avrebbe consentito di scoprire ogni falsificazione. Le Leggi dei Giannizzeri descrivono  il passo successivo nel procedimento. I due ufficiali dei giannizzeri subordinati dell’agha, – l’agha della Rumelia e l’agha dell’Anatolia – dovevano apparire con i loro funzionari e, in presenza dell’agha un chirurgo  avrebbe esaminato e circonciso ogni ragazzo quando veniva il suo turno. Essi avrebbero poi dovuto destinare i ragazzi che avevano la migliore presenza al palazzo. Questi erano quelli che avrebbero ricevuto una educazione nelle scuole del Palazzo e talvolta, dopo aver servito la persona del Sultano, ricevere nomine a governatori o altri uffici. Quelli fisicamene forti erano incaricati di lavorare nei giardini del palazzo. Anche questo poteva condurre ad una condizione privilegiata.

  Ma la destinazione di molti dei giovani,comunque, era il corpo dei giannizzeri, le truppe personali di fanteria del sovrano. L’ammissione al corpo non era, tuttavia, immediata. Laddove i ragazzi di bella presenza ricevevano una educazione nel palazzo, i futuri giannizzeri ricevevano una differente forma di addestramento. Il primo passo era di vendere ciascun ragazzo – tradizionalmente, secondo Le leggi dei Giannizzeri , per un pezzo d’oro –  a coltivatori turchi  dell’Anatolia. Il pagamento era simbolico: serviva ad evitare che questi ragazzi si rifiutassero di lavorare sulla base del fatto che erano schiavi del Sultano. Essi rimanevano “con i turchi” per circa sette o otto anni. La ragione di questa pratica  era, in primo luogo, di abituare i ragazzi, attraverso il regolare lavoro dei campi, al duro lavoro fisico. Per questa ragione, le Leggi dei giannizzeri insistono, era proibito venderli “a giudici o a persone istruite”, perché queste non avevano terre dove il futuro giannizzero “sarebbe diventato abituato alle privazioni”. Era egualmente proibito venderli ad artigiani o commercianti  perché, invece di andare in guerra, si sarebbero guadagnati da vivere attraverso il mestiere; o al popolo di Istanbul, perché i loro occhi si sarebbero spalancati vivendo nella città e non avrebbero sofferto ristrettezze”. La seconda ragione per la pratica era insegnare loro i rudimenti dell’Islam, attraverso il soggiorno in un ambiente islamico e infine insegnare loro il turco. Prima della immissione su vasta scala di turchi nei ranghi dei giannizzeri alla fine del sedicesimo secolo e all’inizio del diciassettesimo, molto pochi  dei membri dei corpi avrebbero parlato turco come linguaggio nativo. Era, comunque, la lingua franca di questo  corpo poliglotta di soldati e invero anche della élite dominante dell’Impero e la sua acquisizione era essenziale.

  La supervisione dei ragazzi che erano “con i turchi” era responsabilità degli agha di Rumelia e Anatolia. Ognuno di questi aveva uno staff di dieci-quindici uomini che erano responsabili per la cattura e la vendita di ogni ragazzo che tentava di fuggire. Alla fine del periodo, essi richiamavano i ragazzi, che per quest’epoca erano adulti, e davano loro un salario di un akce al giorno. Le Leggi dei Giannizzeri  valuta in sette o otto anni il periodo  che i ragazzi spendevano con coltivatori turchi, ma questa era probabilmente più una media che un numero preciso. Piuttosto, gli agha richiamavano i giovani mano a mano che sorgeva la necessità di un rimpiazzo per le truppe.

  Lo stadio successivo non era, comunque, l’arruolamento delle reclute nel corpo dei giannizzeri. L’ufficiale conosciuto come agha di istambul destinava il giovane ad uno dei trentuno dormitori nelle baracche dei novizi vicino all’entrata del Palazzo. Costoro, ci informano le Leggi, svolgevano compiti per il Sultano. Esse menzionano in particolare il trasporto di legna per il palazzo, e la conduzione del vascello che portava neve dalle montagne vicino Bursa alla ghiacciaia del Sultano e la conduzione dei vascelli che portavano truppe sul Bosforo ad Üsküdar e ritorno. Nel descrivere i doveri dei novizi, l’autore delle Leggi dei Giannizzeri compara sfavorevolmente la situazione dei suoi tempi quando c’erano dodicimila novizi, ma solo dodici navi con l’età di Solimano I (1520-1566), quando c’erano quattromila novizi e settantadue navi. Egli lamenta anche la perdita di navi dovuta, ai suoi giorni, alla poca esperienza marittima.

  Questi non erano gli unici compiti che svolgevano i novizi e non tutti i novizi vivevano nelle baracche fuori del palazzo. Altri servivano nei vari giardini imperiali o per esempio come garzoni di lavanderia o cuochi. Un numero più significativo diventava apprendista nei cantieri navali di Istanbul o Gallipoli, dove documenti del sedicesimo secolo li mostrano all’opera come calafati, carpentieri, fabbricanti di remi, artiglieri, fabbri, fabbricanti di carrucole e pulegge, fabbricanti di stoppa per calafatare. La pratica di impiegarli nei cantieri continuò nel diciassettesimo secolo. Documenti della fine del sedicesimo secolo li menzionano come fabbri e costruttori nei progetti di costruzioni reali, come la moschea Selimiye ad Edirne ai primi anni ’70 del 1500. Altri, come completamento del loro servizio “con i turchi”, diventavano apprendisti in unità tecniche dell’esercito, come gli artiglieri imperiali e gli armaioli imperiali. Questo apprendistato nei cantieri, nelle costruzioni e nelle unità militari potrebbe essere considerato, strettamente parlando, una violazione della proibizione che i giannizzeri imparassero un mestiere, ma le abilità che imparavano erano quelle essenziali per la prosecuzione della guerra e così erano necessarie per l’efficienza dei Giannizzeri come unità militare. Era dopo il loro servizio come novizi che il Sultano finalmente li distaccava nei corpi dei giannizzeri. Questo accadeva non in occasioni prefissate, ma quando capitavano necessità di rimpiazzi.

  Verso la fine del sedicesimo secolo la Raccolta come fonte di reclutamento per il Palazzo e i corpi dei giannizzeri iniziò ad essere smantellata e, durante il corso del diciassettesimo secolo, le Raccolte divennero sempre più rare. Dopo i primi anni del diciottesimo secolo, cessarono del tutto. L’autore delle Leggi dei Giannizzeri che compose il suo lavoro come esposizione per Ahmed I (1603-1617) di pratiche del passato come basi per la riforma del presente, vedeva nel cambiamento del metodo di reclutamento dei giannizzeri la fonte dell’anarchia. Successivi trattati sulle riforme, durante i regni di Osman II (1618-1622) e Murad IV (1623-1640) sostenevano questo punto di vista.

  Cosa esattamente sostituì la Raccolta come fonte di reclutamento per il palazzo non è chiaro, sebbene alcuni nuovi venuti sembrano provenire dagli entourage di uomini di rango. Nel caso dei giannizzeri, lo schema di ammissione al corpo è un po’ più chiaro. Dal quattordicesimo secolo fino alla fine del sedicesimo, il reclutamento era tramite il prelievo di prigionieri di guerra o attraverso la Raccolta. Fu apparentemente solo durante il regno di Selim I (1512-20) che i giannizzeri rivevettero permesso di sposarsi, e questo permesso si applicava solo agli uomini ritirati dal servizio e ad alcuni degli ufficiali. Né potevano i giannizzeri, essi stessi schiavi, acquistare concubine. Questo limitava il numero di discendenti legittimi e così impediva che formassero una casta ereditaria. Col tempo, quando il divieto del matrimonio divenne meno stretto, divenne costume ammettere come novizi i figli dei Giannizzeri “che fossero abili al servizio sulle navi”. Questo, comunque, formavano una piccola minoranza. Liste di giannizzeri e novizi dal sedicesimo secolo mostrano pochissimi di essi con un padre musulmano.

  Fu all’incirca dal 1570 che il vecchio schema di reclutamento cominciò a crollare. Dal regno di Selim II (1566-1574), se si deve credere all’autore delle Leggi dei Giannizzeri, divenne quasi consuetudinario accettare nei giannizzeri i figli dei membri delle sei divisioni della cavalleria del Sultano, o di altri ufficiali della casa imperiale. Egli (l’autore delle Leggi) vedeva questo come fonte di corruzione. Molto peggio, comunque era l’ammissione di giovani nati musulmani. Essi usavano vari mezzi per raggiungere questo scopo. Alcuni, le Leggi ci dicono, pagavano bustarelle ai funzionari per essere registrati come figli di cavalieri della casa.  Se essi avessero proclamato di essere figli dei giannizzeri sarebbe stato  possibile verificare questa affermazione,ma essi evitavano questa difficoltà sostenendo che i loro genitori appartenevano ad una differente unità del corpo. Le leggi dei giannizzeri descrive anche come, al tempo di Murad III (1574-95), i turchi si presentassero  alla consegna della Raccolta, pagando i chirurghi che praticavano la circoncisione e persuadendo i funzionari, che li registravano, a scrivere come nomi dei genitori “nomi senza senso nel linguaggio degli infedeli”. Ancora di più, tuttavia, entravano nei giannizzeri come protégés dei comandanti e degli ufficiali. Questa pratica, viene descritta dalle Leggi come una “malattia”, che aveva tolto del tutto la necessità della Raccolta.

  Questo cambiamento nel metodo di reclutamento, che consentiva l’ingresso nel corpo dei giannizzeri di turchi e altri musulmani, era, per l’autore de Le leggi, un disastro che aveva condotto alla perdita di valore militare e alla sconfitta in guerra. Negli anni ’30 del 1600 lo scrittore riformatore Kochi Bey, concordò con lui, notando che ai suoi tempi e specialmente dopo gli anni ’20 del Seicento, il corpo aveva ammesso “ragazzi di città di religione sconosciuta, turchi, zingari, tatari, curdi, emarginati, lazi, turcomanni, mulattieri e cammellieri, portieri e pasticcieri, briganti di strada e borsaioli e altre persone di vario tipo”. Anche lui considerava un ritorno ai vecchi metodi come essenziale se il corpo dei giannizzeri doveva riguadagnare la gloria passata.

  Questi autori erano indubbiamente accurati nelle loro osservazioni di come il reclutamento dei giannizzeri era cambiato. La trasformazione non era però, come credevano, semplicemente il risultato della corruzione. L’arruolamento nei giannizzeri portava benefici, in particolare un salario regolare dal Tesoro e questo senza dubbio incoraggiò gli inidonei a cercare di unirsi illegalmente al corpo. Il fattore principale, comunque, era la crescita del numero di giannizzeri tra la metà del sedicesimo secolo e il diciassettesimo secolo. Documenti del tesoro ottomano registrano 786 giannizzeri nel 1527. Nel 1567 ce n’erano 12.798 e, nel 1609, 39.282. Questa crescita avvenne in risposta ai bisogni militari. Nel momento in cui l’uso di armi da fuoco aumentò durante il corso del sedicesimo secolo, e specialmente durante la guerra con l’Austria del 1593-1606, la fanteria iniziò a giocare un ruolo più importante sul campo di battaglia, col risultato che il numero dei soldati appiedati crebbe in relazione al numero dei cavalieri. Un modo in cui gli ottomani soddisfacevano questa domanda era incrementare il numero dei giannizzeri. Come risultato i vecchi metodi di reclutamento non soddisfacevano la domanda per nuove reclute, e il solo modo di aumentarne il numero era  ammettere turchi e altri gruppi che i regolamenti avevano in precedenza escluso. Perdipiù, con l’espansione del numero, il ruolo dei giannizzeri era cambiato. Essi non formavano più un piccolo corpo di truppe di élite della casa imperiale, ma divennero invece uno dei contingenti più grandi dell’esercito ottomano. Questo li poneva, in pratica se non in teoria fuori della casa imperiale, e così facendo  cambiò il loro status, da schiavi della casa imperiale a uomini liberi. In queste circostanze il loro reclutamento come schiavi non era più importante.

  Gli scrittori riformatori del diciassettesimo secolo posero molta enfasi sulla ereditabilità dello status e sulla esclusione di gruppi che non avevano i requisiti dall’acquisto dell’ufficio, e considerarono l’incapacità di seguire questi principi come un segno di declino. In risposta a queste preoccupazioni, Ahmed I (1603-17) di fatto abolì la pratica di ammettere i figli di titolari di uffici diversi dai giannizzeri nel corpo, ma tale proibizione chiaramente non faceva nessuna differenza. L’espansione del corpo in risposta ai nuovi metodi di guerra rendeva inevitabili cambiamenti nel metodo di reclutamento dei giannizzeri.

 

 

 

IL PALAZZO: PALAZZI

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  Dal momento che il Sultano era il sovrano dell’Impero Ottomano, il centro del governo era laddove capitava che egli fosse. Questo significava par excellence il Palazzo, ma quando egli lasciava la sua residenza il governo lo seguiva. Prima della ascesa al trono di Selim II (1566-74), tali assenze erano frequenti, dal momento che i sultani spesso conducevano spedizioni militari in persona, e erano spesso assenti dalla capitale durante la stagione delle campagne militari. Quando questo accadeva, alcuni almeno dei ministri del Sultano lo avrebbero accompagnato in campagna, come avrebbe fatto il Tesoro, per pagare gli stipendi e fare acquisti e i funzionari con registri finanziari e di altro genere da tenere, per esempio dei morti in battaglia e delle nuove nomine per rimpiazzare i caduti.

  I primi sultani erano evidentemente molto mobili. Ibn Battuta nel 1333, descrive Orhan (c. 1324-62) come possessore di “quasi cento fortezze, che continuamente visita e mette in ordine”. Nel secolo seguente, i sultani divennero più sedentari di quanto Orhan sia stato, ma un annalista che compilò una cronologia  del regno di Murad II (1421-51) notava ancora se i sovrani durante l’estate conducevano la campagna militare, rimanevano nella capitale Edirne o si recavano nel luogo di villeggiatura estiva. Mehmed II (1451-81), sembra, continuò la pratica  di spendere il tempo sui pascoli alti, almeno come mezzo di sfuggire le epidemie di peste che colpivano Istanbul ma dopo il suo tempo sembra che i sultani normalmente lasciassero il palazzo solo per campagne militari, per spedizioni di caccia o viaggi di piacere. Dopo il 1566, con le eccezioni di Mehmed III (1595-1603) che accompagnò l’esercito in Ungheria nel 1596, Osman II (1618-22) che condusse la campagna polacca nel 1621 e Murad IV (1623-40) che ricatturò Erivan nel 1635 e Baghdad nel 1638, i sultani non andavano più alla guerra di persona. Il Palazzo – o piuttosto i Palazzi – erano diventati il loro luogo di residenza permanente, che lasciavano raramente. Così, nel corso di trecentocinquant’anni, essi gradualmente si ritirarono dal contatto giornaliero con i loro sudditi e, eccetto che in occasioni cerimoniali, dalla pubblica vista.

  Non è chiaro se Osman, il primo della linea di successione ottomana, stabilì una residenza permanente. La tradizione ottomana comunque, lo presenta che dichiara la sua sua sovranità presso una città chiamata Karajahisar, che potrebbe corrispondere alla città greca di Malagina, nella valle del Sakarya. Questa era la sede di un vescovado bizantino ed è possibile che Osman prendesse ivi residenza nel vecchio palazzo del vescovo. Fu anche a Malagina che il chierico greco prigioniero Gregorio Palamas incontrò Orhan nel 1354, descrivendolo come “un villaggio costruito su una collina, circondato da montagne… che gode di un clima fresco anche durante l’estate” a due giorni di viaggio da Bursa. IL successore di Orhan, Murad I (1362-89) sembra anche aver speso tempo nello stesso luogo. I genovesi nel 1387 non conclusero il loro trattato con lui nella capitale reale di Bursa, ma a Malagina. Il testo ricorda che fu “approvato in Turchia in un piccolo insediamento chiamato Mallaine, abitato dal signore suddetto”.

  Ai tempi di Orhan, comunque, Bursa era la capitale reale e il luogo dove era il palazzo ottomano, sebbene dettagli di questo palazzo siano vaghi. Orhan deve essersi impadronito o aver costruito una residenza reale a Bursa dopo averla catturata nel 1326, e i suoi successori continuarono a risiedere lì, ai tempi, fino al 1402, quando un distaccamento dell’esercito di Tamerlano saccheggiò la città. Questa non sopravvisse al sacco come residenza principale, ma sembra che, fino al sedicesimo secolo, membri della famiglia del Sultano, come i suoi nipoti, vivessero lì.

  IL successore di Orhan, Murad I, costruì il primo palazzo di cui esiste una descrizione, e che doveva diventare una residenza più importante di ciò che sopravviveva o era stato ricostruito a Bursa dopo il 1402. Questo e il Vecchio palazzo ad Edirne, che il viaggiatore ottomano Evliya Celebi doveva descrivere quando era ancora in piedi nella seconda metà del diciassettesimo secolo. Murad deve aver iniziato la costruzione immediatamente dopo la conquista della città, probabilmente dunque all’inizio degli anni ’70 del 1300. Secondo Evliya,  il principe Musa (Rumelia, 1411-13) estese e fortificò l’edificio. Le sue massicce mura esterne, ci dice Evliya, formavano un quadrato con un solo cancello di ferro nel lato nord. Questo è probabilmente ciò che vide Bertrandon de la Brocquière nel 1433, quando era entrato nel palazzo attraverso questo cancello, e aveva visto il Sultano Murad II emergere dalle sue stanze in “un cortile molto ampio” e prendere il suo posto in una galleria lungo il suo fondo. Questi resoconti suggerisono che gli edifici all’interno del palazzo erano disposti intorno un cortile interno e un cortile esterno.

  Nel 1451, l’ultimo anno della sua vita, Murad II iniziò la costruzione di un secondo palazzo ad Edirne, che doveva sosituire il Vecchio Palazzo come residenza reale. Sebbene, al tempo del suo completamento, nel 1454, era già cominciato il lavoro per un palazzo ad Istanbul appena conquistata, il palazzo di Edirne  continuò ad essere utilizzato. Murad iniziò la costruzione fuori della città, sulla sponda occidentale del fiume Tunca. Suo figlio, Mehmed II, continuò il lavoro di nuovo su un piano di edifici disposti intorno un cortile interno e un cortile esterno. Egli costruì anche un ponte dal palazzo all’isola nel fiume, che doveva servire  come giardino e terreno di caccia. Sultani successivi fecero delle aggiunte al palazzo. Solimano I (1520-66), fa notare Evliya Celebi, passava l’inverno qui quando tornava dalle campagne ungheresi. Egli aggiunse un ponte dalla sponda destra del fiume all’isola, depositi d’acqua, e una camera imperiale nell’harem. Il suo successore aggiunse chioschi, ma il palazzo doveva raggiungere le sue massime dimensioni durante il regno di Mehmed IV (1648-87) che, come nota il suo contemporaneo Evliya Celebi, “perché è appassionato di caccia spende molto del suo tempo nella città di Edirne”.

  La conquista di Istanbul significava che il palazzo di Edirne non divenne la principale residenza reale, eccetto che durante il regno di Mehmed IV. Nel 1454, Mehmed II ordinò la costruzione di un nuovo palazzo nel centro della città, sul luogo del bizantino Foro del toro. Per il 1458 era completato. Lo storico contemporaneo, Tursun Bey, ci informa che entro il quadrato formato dai muri esterni, egli costruì un harem imperiale “nel cui cortile il sole non poteva trovare un varco… deliziosi palazzi e padiglioni per la sua gioia e il conforto dei suoi intimi e dei suoi paggi…, protetto dai fedeli e pii eunuchi”. Tra gli edifici del palazzo e le mura esterne eglì creò un terreno di caccia privato, “riempiendolo con bestie selvagge”. Questo palazzo non rimase a lungo in uso come principale residenza del Sultano e sede del suo governo. Quando il lavoro di costruzione fu finito, Mehmed II immediatamente ordinò la costruzione di un nuovo palazzo. Dopo il suo completamento, il vecchio palazzo divenne esclusiva residenza delle donne dell’harem imperiale.

  Il luogo che il nuovo palazzo doveva occupare sembra abbia lusingato le ambizioni imperiali di Mehmed. La sua porta esterna conduceva ad Hagia Sofia – per la mentalità imperiale ottomana un simbolo della sovranità romana – e occupava una collina su un promontorio, consentendo una visuale dall’Europa sull’Asia e attraverso il Bosforo che lega il Mar Nero al Mediterraneo. Il lavoro di costruzione ebbe luogo durante gli anni ’60 e ’70 del 1400, secondo un piano base che è sopravvissuto alle numerose aggiunte e alterazioni dei secoli successivi.

  Un muro esterno divideva il nuovo palazzo e i suoi ampi giardini dalla città, con le vecchie mura della città lungo il corno d’oro e il Mare di Marmara che lo proteggevano dal lato del mare. IL palazzo stesso occupava la posizione più alta in questo spazio. L’entrata era attraverso il cancello imperiale vicino all’abside  di Hagia Sofia e che conduceva nel primo cortile. Una volta passato ilcncello il visitatore vedva a sinistra la ciesa bizantina di Santa Irene, che serviva da armeria per il palazzo e  disposti intorno al cortile c’erano i dormitori dei novizi, i magazzini e altre aree domestiche e di servizio. Si potrebbe immaginare la corte come un’area di attività e di rumore. All’altro lato, opposto al cancello imperiale c’era il cancello di mezzo, crenellato e fiancheggiato da due “torri francesi”. Attraverso questo cancello si accedeva alla seconda corte. L’entrata era permessa solo a membri della corte e del governo, e a membri del pubblico che volevano presentare petizioni al Consiglio Imperiale del Sultano. Nessuno, a parte il Sultano poteva entrare nella corte a cavallo e la regola era dello stretto silenzio. I commentatori del diciassettesimo secolo notavano l’uso dei linguaggio dei segni nel palazzo e questo, senza dubbio, metteva in grado i cortigiani di comunicare. Nell’angolo distante di sinistra, il visitatore vedeva la camera del consiglio che Solimano I (1520-66) doveva rimpiazzare negli anni 20 del 1500 con un edificio più imponente. Fu lì che il Concilio imperiale, l’organo centrale del governo del Sultano, teneva le sue sessioni. Più avanti c’era il Cancello della felicità,con un colonnato da ciascun lato. Alla destra c’erano le vaste cucine, che l’architetto Sinan (m.1588) doveva rinnovare dopo un incendio nel 1574 e, dietro il muro a sinistra, le stalle imperiali. Queste semplici strutture formavano uno sfondo per l’elaborato cerimoniale di corte.

  La terza corte, oltre la Porta della felicità, era la residenza privata del Sultano e inaccessibile non solo al pubblico ma perfino, eccetto che in occasioni formali, agli uomini di governo dell’Impero. Immediatamente dietro la porta c’era la camera delle petizioni, che Solimano I doveva ricostruire  nello stesso periodo in cui costruiva la nuova camera del consiglio. Era qui che il Sultano dava udienza e riceveva gli ambasciatori esteri. Quando i decreti imperiali si riferiscono  ai postulanti  che sottopongono le loro lettere “alla mia Soglia della felicità” o “alla mia Sublime  Soglia” si riferiscono, metaforicamente al Sultano seduto nella camera delle petizioni sulla soglia della Porta della felicità. Nell’angolo lontano a destra della terza corte c’erano il Tesoro interno del Sultano e i bagni. Nell’angolo lontano di sinistra c’era la stanza privata del Sultano. Dietro la corte, dove il terreno scendeva bruscamente  verso il mare c’era un giardino. Sultani successivi dovevano aggiungere nuove strutture alla terza corte, in particolare forse il padiglione di Erivan e il padiglione di Baghdad, che Murad IV (1623-40) aggiunse per celebrare la riconquista di queste città.

  La terza corte, come residenza privata del Sultano, dava accesso all’harem. Nel piano originale di Mehmed II, questo sembra essere stato piccolo, ma risulta che più donne vennero a vivere nel palazzo durante il corso del sedicesimo secolo. Questa tendenza cominciò probabilmente durante il regno di Solimano I, durante l’ascesa di sua moglie Hurrem, prima della sua morte nel 1558, e divenne particolarmente pronunciato durante il regno di Mehmed III (1595-1603), che spostò la sua camera privata nell’Harem. Fu durante il regno di Mehmed III (1595-1603) che la regina madre e il suo entourage  presero residenza nel palazzo. Esso crebbe ancora di più agli inizi del diciassettesimo secolo, quando la pratica di mandare i principi ai governatorati di Anatolia cessò e la pratica del fratricidio reale non era più usuale. Alla morte di un Sultano, comunque, le signore del suo harem lo abbandonavano per il vecchio palazzo che rimase, a parte che per gli eunuchi, una residenza esclusivamente femminile.

  I due edifici nella terza corte, a ciascun lato del cancello principale, erano la grande camera e la piccola camera. Era qui che i paggi del Sultano vivevano e ricevevano la loro educazione. Dal momento che molti di questi dovevano essere promossi dal servizio di corte nel Palazzo interno al servizio di governo dell’Impero, le camere in qualche modo erano le fondazioni del potere del Sultano.

 

 

 

IL PALAZZO: LA CASA

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  Per quanto possibile, i sultani governavano l’Impero attraverso membri della loro propria casa, che avevano nominato ad uffici governativi. Questa era una tendenza che divenne molto pronunciata alla fine del quindicesimo secolo. Nella sua struttura, la corte del Sultano era tipica di una qualsiasi larga casata nell’Impero Ottomano, o nel mondo islamico. Era  più grande, più ricca e più magnifica delle case dei visir, dei governatori provinciali o di altri musulmani benestanti ma nella sua essenza non differente.

  Relativamente pochi membri della casa imperiale erano legalmente liberi: il Sultano stesso, i suoi figli e altri membri della famiglia, insegnanti e istruttori religiosi, capi della preghiera , dottori, i muti, i nani e i lottatori che servivano per il suo intrattenimento e alcuni altri. Il resto erano schiavi. In una grande casa musulmana, comunque essere uno schiavo non  voleva necessariamente dire occupare una posizione infima, e l’affetto che spesso i padroni avevano per i loro schiavi o liberti è evidente dai molti negozi fiduciari che li nominano beneficiari. Perdipiù, lo stato servile non necessariamente implicava una bassa posizione sociale. Il rango di una persona in società dipendeva meno dal loro status di schiavi o persone libere che dallo status della famiglia o casa a cui appartenevano. Uno schiavo in una casa potente e ricca poteva avere un prestigio maggiore che una persona che era libera ma povera. Era la vicinanza ai grandi che garantiva reputazione. La posizione più onorata al disotto del sovrano stesso, era essere suo schiavo ed era attraverso i loro schiavi, per quanto possibile, che i sultani governavano l’Impero.

  Il Sultano acquistava alcuni dei suoi schiavi come doni. Bayezid II (1481-1512), per esempio ricevette il giovane genovese Menavino, che lo servì come paggio dal 1505 fino alla sua fuga nel 1514, da un pirata. Altri venivano acquistati. Murad IV comprò il polacco Bobovi, che servì come musicista di palazzo fino alla sua dimissione nel 1657, dai tatari che lo avevano catturato in un raid. Altri arrivavano come prigionieri di guerra. La fonte più ricca, comunque, era la Raccolta, il prelievo fatto sui sudditi non-musulmani del Sultano. Alcuni, come il Gran Visir abkhazi Melek (“l’angelo”) Ahmed Pasha, non erano schiavi, ma avevano ricevuto una educazione a palazzo dopo essere stati presentati al Sultano.

  Dal giorno del suo completamento negli anni ’70 del 1400, i più privilegiati degli schiavi del Sultano ricevevano la loro educazione nel Palazzo Nuovo, nella Grande e nella Piccola Camera nella terza corte. Questa non era, comunque, l’unica sede di una scuola di palazzo. Alcune di tali istituzioni erano presumibilmente esistete nel Vecchio Palazzo ad Edirne nel quattordicesimo secolo e nella prima metà del quindicesimo e una scuola continuò a funzionare nel palazzo nuovo  in quella città anche dopo che Istanbul era diventata la residenza principale del Sultano. Entro Istanbul, c’erano scuole fuori dello stesso palazzo. La prima di queste era il Palazzo di Galata, una fondazione di Bayezid II (1481-1512); l’altra, dopo il 1536, era il Palazzo di Ibrahim Pasha, nella piazza dell’Ippodromo. Nondimeno, la scuola nella terza corte rimaneva la più prestigiosa. Ai tempi di Bobovi verso la metà del diciassettesimo secolo, un paggio doveva servire da apprendista in uno dei palazzi esterni prima di essere ammesso nella Grande o nella Piccola Camera.

  I paggi, ci dice il genovese Menavino, entravano nella scuola di palazzo 80-100 alla volta. Dapprima imparavano a parlare “turco volgare, la lingua franca del palazzo e dell’élite cosmopolita dell’Impero. Dopo cinque o sei giorni iniziavano a lavorare sull’alfabeto. I ragazzi trascorrevano l’intera giornata sotto la supervisione e la feroce disciplina degli eunuchi e dei maestri della scuola. Questi insegnavano loro l’alfabeto, la lettura e la recitazione del Corano e gli articoli della fede islamica. Essi potevano poi procedere a studiare l’arabo e il persiano “volgare e colto”, due linguaggi che erano essenziali  per scrivere e capire il turco ufficiale e letterario e che erano entrambi in uso per la tenuta di documenti legali e finanziari.

  Menavino entrò nella scuola di palazzo nel 1504. Quando Bobovi vi entrò un secolo e mezzo dopo, il curriculum difficilmente sembra essere cambiato. Lo scopo dell’educazione, mette in evidenza Bobovi, “non era di fare di essi grandi studiosi, e non chiedeva più di un gran rispetto per i libri, specialmente il Corano”. Il loro progresso, egli dice, dipendeva dai loro personali interessi. Quelli che studiavano la legge islamica potevano alla fine sperare di acquisire una posizione lucrativa come Imam in una delle Moschee Reali. Quelli che padroneggiavano il persiano e la calligrafia potevano sperare di diventare impiegati del Tesoro, del Consiglio Imperiale o nell’entourage di una persona importante.  Quelli che studiavano “la legge e i decreti di giustizia” potevano ottenere un governatorato. Dal momento che i paggi dovevano alla fine formare una classe militare, essi ricevevano anche un addestramento nelle arti militari, con Bobovi che descrive il loro addestramento e abilità nel tiro con l’arco, nel cavalcare, nella lotta e nel lancio del giavellotto. Un diplomato delle scuole di palazzo aveva dunque ricevuto sia una istruzione letteraria che un addestramento marziale. In entrambi i casi comunque la loro educazione rimaneva medievale. La loro abilità militare apparteneva, alla metà del diciassettesimo secolo, ai campi di gara piuttosto che ai campi di battaglia, e era ancora i classici medievali persiani che formavano i loro gusti letterari.

  Durante il periodo della loro educazione Menavino e Bobovi ci dicono, il giovane non potevano abbandonare il Palazzo, il loro unico contatto con il mondo esterno essendo tramite gli eunuchi chiamati i “ragazzi dei cancelli” . La loro educazione formale terminava, ci dice Menavino con qualche contraddizione, all’età di venticinque anni. Bobovi dice “dopo sette o otto anni”. Quelli che lasciavano la scuola comparivano di fronte al Sultano che, ai tempi di Menavino, “dava a ciascuno un mantello di broccato e uno dei suoi migliori cavalli, e li ammoniva: “Se qualcuno aveva visto una malefatta nel palazzo, non lo dovevano far sapere ma tenerlo per sé”. Quelli che lasciavano il palazzo in questo momento, normalmente, sembra, erano aggregati  ad una delle Sei Divisioni di cavalleria di Palazzo. Questa non era una posizione esclusivamente militare o cerimoniale, sebbene questi cavalieri combattevano in battaglia e cavalcavano da ciascun lato del Sultano nelle campagne belliche e nelle processioni. Membri di queste divisioni, come uomini con una educazione, spesso avevano altre funzioni, in particolare come esattori delle tasse. L’aggregazione alla cavalleria di palazzo era, osservava il veneziano Ramberti nella metà del sedicesimo secolo “come una scala per salire a posizioni più alte”. Un cavaliere poteva anche ricevere come moglie una ragazza dall’harem imperiale che, come lui, sarebbe stata una schiava del Sultano.

  Non tutti i giovani lasciavano il palazzo avendo completato a loro educazione. Quelli che rimanevano diventavano paggi delle camere del palazzo interno, direttamente al servizio della persona del Sultano. L’organizzazione delle Camere, come Menavino la descrive, rimase largamente intatta al tempo di Bobovi. La camera con lo status più basso era, sembra, la dispensa, dove, Menavino ci dice, 25 paggi di 20-22 anni, che servono sotto un eunuco sono incaricati della cura di questa stanza dove c’erano giulebbe, dolci e ogni sorta di spezie e tutto ciò che era necessario per la cucina privata del Sultano”. Al disopra dei paggi della dispensa e di nuovo sotto la supervisione di un eunuco, c’erano i paggi del Tesoro, responsabili per il tesoro personale nella terza corte, dove “c’erano vari tipi di vesti di broccato, vasi d’oro e argento di molti tipi, gioielli e monete…” A queste camere Ahmed I (1603-1617) e Murad IV rispettivamente aggiunsero ed allargarono la Camera della Campagna , che Bobovi descrive come “la Camera dei paggi che servono il Sultano quando va in viaggio”. La più prestigiosa comunque era la Camera privata.

  Erano i paggi di questa camera che  servivano il Sultano direttamente, e da cui egli sceglieva quelli che erano costantemente al suo servizio. Già nel 1433, Bertrandon de la Brocquière aveva osservato Murad II lasciare la sua stanza nel Vecchio Palasso ad Edirne con “solo quei giovani che lo accompagnano sulla porta della camera”, suggerendo che a quella data il Sultano già sceglieva  un seguito dai giovani della Camera Privata. Menavino, agli inizi del sedicesimo secolo affermò che “i paggi principali e favoriti della Camera sono solo tre” indicandoli come il portatore degli abiti, “che continuamente gli dà da bere e porta i suoi abiti di cui necessita in caso di pioggia”; il portatore d’acqua, “che porta l’acqua per lui dovunque egli vada, e camicie per cambiarsi” e il portatore delle armi, “che trasporta i suoi archi, frecce e spada”. Nel secondo grado c’erano quindici giovani che “rifacevano il letto, spazzavano, accendevano il fuoco e cose simili. Nel secolo e mezzo successivo l’organizzazione della Camera privata non sembra aver cambiato nella sua essenza. Il numero di paggi che attendevano il sovrano sembra essere lievemente aumentato – Ramberti nel 1548 ne menziona sei, e Bobovi nel 1658 ne menziona quattro, il Portatore delle Armi, il Portatore degli abiti, il Portatore degli speroni e il Signore del Turbante – e il numero totale di giovani nella Camera era aumentato fino a 40 alla metà del diciassettesimo secolo.

  Un paggio che era passato di grado  dalla Dispensa alla Camera privata aveva dinanzi a sé  la prospettiva di una carriera negli uffici più elevati dell’Impero, la camera privata stessa in alcuni aspetti simboleggiando gli ideali del governo del Sultano. Un paggio poteva servirvi solo se aveva attirato l’attenzione del Sultano, e la preferenza accordatagli dipendeva interamente dal patronato reale. I paggi stessi erano schiavi, che svolgevano i compiti più umili  per i loro padroni, sia pratici che cerimoniali. Allo stesso tempo, essi occupavano una posizione di immenso privilegio, dal momento che la prossimità al Sultano significava vicinanza alla più grande fonte di potere e patronato. Allo stesso modo, i paggi che assistevano più direttamente il Sultano potevano conversare con lui e, entro un certo grado, controllare le informazioni che riceveva. In questo modo, essi potevano iniziare ad esercitare il potere politico. Bobovi notava in particolare la speciale posizione del Capo Barbiere, che faceva giornalmente la barba al sovrano, e dunque, a differenza del Gran Visir, aveva l’opportunità di parlargli ogni giorno. La Camera privata era, di fatto,  un microcosmo di come il Sultano governava. Un paggio poteva diplomarsi a palazzo  per diventare un governatore o visir e usare i suoi collegamento col palazzo per il suo vantaggio politico. Ma non poteva mai scordare che era anche uno schiavo che dipendeva dal patronato del Sultano per l’avanzamento  ed era parimenti suscettibile, su ordine del Sultano di degradazione e di esecuzione.

  I paggi della Camera non erano gli unici residenti del palazzo, sebbene essi fossero quelli che entravano regolarmente in stretto contatto  col Sultano ed erano, per questa ragione, quelli che con più probabilità ricevevano promozioni nel mondo esterno. Essi potevano anche diplomarsi per servire gli uffici nel palazzo che di nuovo li portava faccia a faccia col Sultano: per esempio, come maestro dello stendardo che conservava le bandiere e gli stendardi dell’esercito del Sultano; come il maestro delle stalle che, già ai tempi di Menavino, aveva sotto di lui 900 uomini, e che assisteva il Sultano nel montare il suo cavallo; o come capo dei portieri, che formavano un corpo militare, che sorvegliava i cancelli del Palazzo con accesso privilegiato al Sultano: il Capo falconiere e Mastro dei segugi, che lo accompagnava a caccia, e specialmente il Capo Giardiniere. I giardinieri del palazzo, come implica il loro nome, lavoravano nei giardini del palazzo, producendo fiori, frutti e verdure per il consumo del palazzo e per la vendita. Essi erano anche soldati, e agivano come guardie del corpo reali. Invero, durante la rivolta dei giannizzeri del 1622, che finì con la morte di Osman II (1618-22), i giannizzeri esitarono prima di entrare nel palazzo per paura di incontrare i giardinieri armati. Il Capo Giardiniere aveva anche, da prima del tempo di Menavino, fino alla fine del diciottesimo secolo, giurisdizione sulle spiagge del Bosforo fino al Mar Nero. Era anche timoniere della lancia da parata del Sultano, ed era in questo ufficio, pone in rilievo Bobovi, che si trovava nella posizione privilegiata di poter parlare col Sultano durante le escursioni reali in barca.

  C’erano numerose altre gerarchie di schiavi nel palazzo: cuochi, pasticcieri, maggiordomi che portavano il cibo dalle cucine agli appartamenti del Sultano o nelle altre parti del palazzo, portatori d’acqua, taglialegna che tagliavano e trasportavano legna. I giannizzeri novizi, chavushes che scortavano le persone dal Sultano, agivano come cerimonieri durante le cerimonie e portavano i decreti imperiali ad indirizzi fuori della capitale e così via. Con tutto il loro ordine e decoro, le tre corti del Palazzo e il mondo isolato dell’Harem erano affollati e suscettibili di epidemie come i quartieri senza spazio  per muoversi della città fuori delle mura del palazzo.

  Di tutti i residenti permanenti del palazzo il più potente, fino all’ultima decade del sedicesimo secolo, era probabilmente il capo degli eunuchi bianchi. Egli era l’agha (comandante) del cancello che il Sultano promuoveva tra gli eunuchi del Palazzo Interno. Il Libro delle Leggi attribuito a Mehmed II lo qualifica come il canale preferito per le petizioni al Trono, dandogli l’opportunità di influenzare sia i postulanti che il Sultano. Dalla fine del sedicesimo secolo, comunque, egli sembra aver perso parte della sua influenza a favore del capo degli eunuchi neri, che si fregiava del titolo di agha della dimora della felicità, o, più colloquialmente, agha delle giovani. Gli eunuchi della terza corte erano bianchi, mentre quelli dell’Harem erano neri, e la influenza politica del capo degli eunuchi neri iniziò a salire  verso la fine del sedicesimo secolo, quando  le dimensioni dell’harem crebbero e le potenti regine madri vi elessero residenza. Come unico ufficiale anziano della corte con accesso sia al mondo maschile che al mondo femminile del palazzo, l’agha delle ragazze divenne una importante figura politica. Bobovi commenta: “questo ufficiale di colore è più importante dell’agha (bianco) del cancello perché, in aggiunta alle entrate maggiori, ha accesso più facilmente al principe, e più occasioni di avvicinarlo  a tutte le ore, anche quando si è ritirato con la sua amante . Questi sono gli uomini che dirigono la parte migliore degli affari dell’Impero e mentre non hanno probabilmente mai lasciato il Palazzo, in cui sono entrati molto giovani, essi danno consiglio su interessi di stato e usano il  favorevole orecchio del padrone a loro piacimento per ciò che vogliono”.

 

 

 

IL PALAZZO: IL CONSIGLIO IMPERIALE

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  I sultani governavano l’Impero attraverso la loro corte tanto quanto attraverso organi formali di governo, e per questa ragione è normalmente impossibile giungere alla fonte di importanti decisioni politiche, come quella se andare in guerra o adoperarsi per la pace. Tali risoluzioni, sembra, erano il prodotto di discussioni che raramente lasciavano un documento scritto. In una storia alquanto dubbia, il giannizzero serbo Mihailović afferma che la decisione di invadere la Bosnia nel 1436 fu il risultato di una conversazione privata tra due visir, Mahmud Pasha e Ishak Pasha, che lui e suo fratello, il tesoriere di corte, udirono nella cella del tesoro. Il Sultano poteva, se desiderava, scavalcare  le strutture formali di governo, come Bayezid II fece nelle sue negoziazioni con i Cavalieri di San Giovanni circa la custodia di suo fratello Gem. La dichiarazione di guerra nel 1593 fu, Ci informa Pechevi, il risultato di una discussione alla presenza di Murad III tra il gran visir Koja (“l’anziano”) Sinan Pasha, il comandante della recente campagna iraniana, Ferhad Pasha, il tutore e storico del Sultano, Sa’deddin e il derviscio Hasan, falconiere e “maggiordomo del cancello” del Palazzo. Di questo gruppo, Ferhad Pashà e Sa’deddin si opponevano alla guerra, ma non poterono superare l’insistenza del Gran Visir. Quando la questione se immettere galeoni nella flotta ottomana nacque all’inizio della guerra di Creta della metà del diciassettesimo secolo, fu il Gran Mufti – che non aveva nessun ruolo formale nel governo – che seguì in materia il consiglio di Katib Celebi. Non ci fu mai, sembra, un meccanismo formale per le decisioni politiche. Tutte le decisioni in teoria erano proprie del Sultano. Ciò che importava, dunque, era il carattere del Sultano, e gli individui o fazioni cui prestava ascolto.

  C’erano, comunque, istituzioni che prendevano le decisioni amministrative e quelle politiche non cruciali. Di questi, il più importante era il Consiglio Imperiale, il divan che, sotto la presidenza del Gran Visir, agiva per conto del Sultano ed emanava decreti in suo nome. Il suo luogo di riunione prima degli anni ’70 del 1400  è incerto. Dalla fine del quattordicesimo secolo, presumibilmente si riuniva  nel Vecchio Palazzo in Edirne o dove il Sultano risiedeva in quel momento e, dopo la conquista di Istanbul inizialmente nel Vecchio Palazzo. Dagli anni ’70 del 1400 il Consiglio normalmente si riuniva nella stanza del consiglio nel secondo cortile del Palazzo Nuovo. Durante le campagne belliche, tuttavia, si riuniva nella tenda del suo presidente, il Gran Visir che questi innalzava sempre vicino al padiglione del Sultano. Dalla seconda metà del sedicesimo secolo, quando il Gran Visir non andava in guerra o altrimenti nominava un delegato durante la sua assenza, la camera del consiglio era il luogo di riunioni durante tutto l’anno.

  Quanto alle sue origini, il Consiglio era presumibilmente un gruppo informale di signori che avevano la funzione di consigliare il Sultano in materie politiche o militari e agivano come una corte a cui i sudditi del Sultano potevano portare cause e lamentele. Queste erano funzioni che doveva conservare in tutta la sua storia. E’ probabile che durante il quattordicesimo secolo il Sultano stesso presiedeva agli incontri. Il cronista egiziano, Ibn Hajar, trasmette un resoconto da parte di un dottore che aveva avuto in cura Bayezid I (1389-1402), notando come il Sultano “si assiedeva la mattina presto su una ampia altura, col popolo che stava da lui ad una distanza tale che egli li potesse vedere. Se qualcuno aveva sofferto una ingiustizia, glie l’avrebbe sottoposta ed egli l’avrebbe rimossa”. Il resoconto non riporta nessuno con lui, ma è improbabile che sia stato solo. Il dottore di Ibn Hajar stava forse riportando una apparizione pubblica del Sultano e dei suoi consiglieri, il predecessore informale del Consiglio Imperiale.

  La descrizione del Sultano che dispensa personalmente giustizia, apparentemente all’aperto, è probabilmente tipica della informalità del governo ottomano nel quattordicesimo secolo. Una storia che Ashikpashazade racconta della morte di Maometto I (1413-21) indica che, anche a quel tempo c’era l’aspettativa che il sovrano  apparisse dinanzi ai suoi sudditi e presiedesse assemblee semi-pubbliche del suo consiglio. Quando Maometto morì, i visir cercarono di nascondere il fatto fino all’arrivo del sul ultimo figlio, Murad, per prendere il trono. Essi continuarono a tenere un consiglio ogni giorno presso “la porta” del Sultano – presumibilmente nel palazzo ad Edirne – “conferendo feudi e governatorati e sovrintendendo agli affari”. Comunque, quando un gruppo di soldati minacciarono di ribellarsi perché non avevano visto il Sultano, i visir portarono il cadavere al cancello, con un giovane dietro a muovere le sue braccia, cosicché sembrava che il sovrano fosse vivo e si accarezzasse la barba. Una breve descrizione del Sultano e del suo consiglio appare anche ne Le guerre sante del Sultano Murad, figlio di Mehmed Khan (Murad II). Qui l’autore anonimo presenta Murad II come presiedente – ovviamente non in pubblico – il consiglio del 1444, che considerò le proposte di pace che aveva recato l’inviato del re d’Ungheria.

  Questi riferimenti sparsi suggeriscono che probabilmente durante il quattordicesimo e certamente durante il quindicesimo secolo, un piccolo gruppo di visir consigliava il Sultano su affari politici o amministrativi, e aveva il potere di fare nomine in suo nome. In qualcuna delle sue funzioni, lavorava in modo semi-pubblico e, nel suo ruolo giudiziario in modo pubblico. Sembra anche che il Sultano spesso presiedeva il consiglio di persona, suggerendo che le relazioni tra Sultano e visir erano ancora informali, con i consiglieri del Sultano nel ruolo di alleati tanto quanto subordinati.

  La tradizione ottomana attribuisce a Maometto II l’abbandono della pratica di assistere al consiglio in persona. Da allora il consiglio si  riuniva sotto la presidenza del Gran Visir: invero  potrebbe essere stata l’assunzione di questo ruolo che condusse alla definizione del gran visirato come un ufficio formale dello stato. Menavino, comunque, indica che ai suoi giorni il Sultano, – presumibilmente Bayezid II – continuava a convocare il consiglio di fronte ad un pubblico, laddove “egli comincia a parlare e ognuno a replicare a ciò che era stato proposto, secondo il loro giudizio, e così si occupavano delle guerra e di tutte le materie dello Stato”. La descrizione di Menavino delle elaborate cerimonie che accompagnavano le udienze rende chiaro che esse erano molto differenti dalle riunioni apparentemente informali del Sultano con il suo consiglio prima dei giorni di Maometto II. Era ancora in queste occasioni che il Sultano, dispensando un mantello nero, indicava quale dei suoi consiglieri o cortigiani aveva meritato la pena di morte. Il boia uccideva gli uomini di alto rango mediante strangolamento e, prima che un cavallo con una gualdrappa nera  potesse portare l’uomo ucciso alla sua casa un corriere andava avanti a  piazzare un’asta nera  sopra il portale. Uomini di rango più basso venivano decapitati, con le teste posate su un tappeto fuori del Palazzo. Questi rituali di morte, accoppiati con la cerimonia dell’udienza  simboleggiavano il potere assoluto del Sultano nella propria casa, e lo stato infimo anche del suo consigliere più potente. Allo stesso tempo, l’assenza del Sultano dai meeting giornalieri del consiglio serviva ad enfatizzare la sua posizione distaccata .

  Nondimeno, a dispetto della sua crescente distanza dal consiglio, i sultani misero a punto un metodo per controllare le sue deliberazioni. Guillaume Postel, che aveva accompagnato l’ambasciatore francese ad Istanbul tra il 1536 e il 1538, e aveva ancora viaggiato per l’Impero Ottomano  tra il 1549 e il 1551, descrive come, dopo le riunioni del consiglio, il gran visir “sarebbe andato a riportare al Sultano tutta la verità: cosa era stato discusso e le questioni importanti. Mentire in un tale momento era mortale, perché spesso il Sultano stava ascoltando senza essere visto o notato da una finestra che dava sulla suddetta camera. E se anche lui non fosse lì, uno pensa sempre che vi sia”. La finestra che Postel descrive era, se l’affermazione del cancelliere Jelalzade Mustafà è esatta, creazione di Solimano I, presumibilmente nei primi anni del suo regno, dal momento che era da lì che nel 1527 egli osservava il processo dell’eretico Molla Kabiz, che aveva predicato la superiorità di Cristo su Maometto. Un’altra tradizione, comunque, attribuisce la costruzione della finestra a Maometto II. I sultani dopo Solimano evidentemente continuarono a guardare gli atti nella camera del consiglio, dal momento che Bobovi nel 1658 si riferisce ancora alla “finestra attraverso gli schermi della quale il Sultano osserva l’assemblea del Consiglio Imperiale”. Comunque egli suggerisce che  durante il tempo della sua permanenza nel palazzo  il Sultano – in riferimento probabilmente a Murad IV – aveva incominciato a partecipare di nuovo ad alcune almeno delle riunioni del consiglio. Egli descrive queste occasioni come molto più informali di quanto erano di solito nel secolo precedente: “[il Sultano] spesso partecipa a questa assemblea di persona, dove presenta gli argomenti su cui deliberare e riceve consigli da ciascuno”.

  Sebbene l’appartenenza al Consiglio Imperiale divenisse più estesa nel corso degli anni, i titoli e le funzioni dei suoi ufficiali erano diventate fisse già nel regno di Maometto II al più tardi. I visir erano responsabili specialmente di materie politiche e militare. Essi non solo trattavano con questioni attinenti la guerra nel consiglio, ma servivano anche sul campo di battaglia, o in modo indipendente o sotto il comando del Sultano o di un visir di rango superiore. Oltre ai visir sedevano nel consiglio i giudici militari (kadi’asker) (kadiasker), il giudice capo dell’Impero, che erano responsabili per le materie giudiziarie che venivano di fronte al consiglio. Al disotto di loro sedevano i tesorieri (defterdar) che emanavano decreti finanziari in nome del Sultano, e il cancelliere. Il titolo turco di cancelliere, – nishanji – o, nella sua forma araba, tevki’i, significa letteralmente “quello che imprime la sigla del Sultano sui documenti”. Questa era essenzialmente la sua funzione, dal momento che l’apparizione della sigla del Sultano  su un documento era una garanzia della sua autenticità, e era il cancelliere che controllava gli impiegati che redigevano i decreti e altri documenti, assicurando che il loro contenuto fosse corretto e che si conformassero alle rigide convenzioni della cancelleria  ottomana. Questi erano i membri del consiglio che prendevano parte alle sue discussioni.

  Il numero dei visir nel Consiglio Imperiale crebbe nel corso dei secoli. E’ impossibile determinare quanti ve ne fossero durante il primo secolo di esistenza dell’Impero ma nel 1421 tre era probabilmente il numero abituale. Ashikpashazade indica Hajji Ivaz Pasha, Bayezid Pasha e Chandarli Ibrahim come i visir al tempo della morte di Maometto I in quest’anno. Lo stesso era vero un secolo più tardi. Menavino, agli inizi del sedicesimo secolo, si riferisce ai “tre pasha”, ma alla metà del secolo erano normalmente quattro. Comunque, il numero non era fisso. L’ospitaliere Antoine Geuffroy, nota nella sua Breve descrizione della corte del Gran Turco del 1546, che c’erano quattro visir, “ma spesso ce n’erano solo tre, come fu una volta il caso”. Il momento iniziale per questo incremento di numero può essere stata la nomina a membro del consiglio da parte di Solimano I dell’ammiraglio Hayreddin Barbarossa all’inizio del 1540. Da quel tempo fino al 1566, c’erano usualmente quattro visir. Dal 1566 ce n’erano cinque e dal 1570-71 sette. Per un certo tempo nel 1642 ce n’erano undici, ma dal momento che in quest’epoca uomini col rango di visir spesso prestavano servizio nelle province, essi non potevano essere membri a tempo pieno del Consiglio Imperiale. L’unico governatore provinciale che acquisì ex officio il diritto di partecipare alle riunioni del consiglio fu il Governatore generale della Rumelia. Un diario della campagna di Solimano contro i Safavidi del 1533-36 reca detto: “fu stabilito che quando c’è un Consiglio il Governatore generale della Rumelia debba recarsi al Consiglio e sedere con i Pasha. Il Governatore generale dell’Anatolia non dovrebbe in linea di massima intervenire. Se capita che si tratti di una materia che gli deve essere sottoposta, allora siede con i Pasha”. La sua presenza dunque non era regolare, ma solo quando c’era una materia che ricadeva nella sua sfera di competenza.

  La tradizione ottomana fa risalire la creazione dell’incarico di giudice militare al regno di Murad I, e dal momento che, sin dai primi giorni dell’Impero, il Sultano deve aver avuto necessità di un consigliere legale nel suo consiglio, questa tradizione è probabilmente corretta. C’era, sembra, solo un giudice militare nel consiglio fino agli ultimi anni di Maometto II. La creazione di un secondo giudice fu, secondo il biografo del sedicesimo secolo Tashköprüzade, opera del Gran Visir, Mehmed Pasha di Karaman. A quel tempo, ci dice Tashköprüzade, il solo giudice militare era Molla Kastellani, e Mehmed Pasha, temendo l’effetto sul Sultano del suo esplicito amore della verità e ritenendo  necessario contrastare la sua influenza, propose che da quel momento i giudici fossero due. Fu Mehmed Pasha che nominò Kastellani come giudice militare di Rumelia, mentre promosse il giudice di Istanbul a giudice militare dell’Anatolia. Da quel momento in poi, questi due ufficiali divennero membri regolari del Consiglio Imperiale. Agli inizi del diciassettesimo secolo, il continuatore di Tashköprüzade riferisce che, dopo la sua conquista della Siria e dell’Egitto, Selim I (1512-20) creò un terzo giudice militare per rappresentare gli affari legali di queste province. Comunque, l’inimicizia tra colui che era stato nominato e il Gran Visir, Piri Pasha, presto condusse all’abolizione della carica. Da quel momento ci furono normalmente due giudici militari sebbene nel 1545 l’italiano Luigi Bassano ne indichi tre.

  Il numero dei tesorieri del Consiglio Imperiale crebbe parimenti nel corso degli anni. Nel quindicesimo secolo ce n’era forse uno. Nel 1526, ce n’erano due. Questi, sembra, erano responsabili per i possedimenti e le rendite imperiali rispettivamente  in Rumelia ed Anatolia. Nel 1539 c’erano tre tesorieri e, dal 1587, quattro, che sovrintendevano alle rendite di Rumelia, Anatolia, Istanbul e “del Danubio”; cioè, della costa ovest e nord del Mar Nero. Questi erano i tesorieri nel Consiglio Imperiale. Ce n’erano altri nelle province, in particolare ad Aleppo, un incarico che risale probabilmente alla conquista della Siria nel 1516. L’incremento nel numero chiaramente riflette la crescente importanza del Tesoro, specialmente dalla fine del sedicesimo secolo. Questo era un periodo in cui l’inflazione e guerre progressivamente più costose e meno profittevoli condussero a deficit nelle entrate e nella occasionale incapacità di pagare le truppe. Nel 1572, il governo svalutò l’akce d’argento. Un’altra svalutazione del 50% nel 1584 condusse a tumulti presso i giannizzeri. Ulteriori svalutazioni e ritardi di pagamento seguirono nel 1589, 1593 e 1606. Ci furono altre crisi man mano che si procedeva nel diciassettesimo secolo. In queste circostanza raccogliere moneta divenne un dovere primario del Consiglio, ciò che condusse ad un incremento del numero e dello status dei tesorieri.

  L’ufficio di cancelliere deve risalire ai primi giorni dell’Impero. Documenti ottomani del quattordicesimo secolo sono estremamente rari, ma i pochi che sopravvivono suggeriscono che i sultani già possedevano una cancelleria. Di fatto, la prima sigla esistente del Sultano, che era, almeno nominalmente, compito del cancelliere apporre, appare nel negozio fiduciario di Orhan del 1324. L’ufficio può, dunque, risalire a questo periodo. Sembra che non ci sia mai stato più di un cancelliere nel Consiglio Imperiale, a dispetto del crescente numero di impiegati del suo dipartimento, mano a mano che gli affari dello stesso Consiglio aumentarono nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. Fino agli inizi del sedicesimo secolo ci può essere stato – a meno che non si tratti di un riferimento ad un semplice tesoriere – un altro membro del Consiglio, il Saggiatore , dal momento che Spandounes parla di “un ufficio che si occupava del peso della moneta, che occupava anche un posto nel consiglio dei pasha”. Il riferimento, comunque, sembra essere l’unico.

  I membri del Consiglio Imperiale – visir, giudici militari, tesorieri e cancelliere – rappresentavano le differenti branche del governo del Sultano e, dal sedicesimo secolo, la loro posizione divenne, più o meno, mutuamente esclusiva. I giudici militari o i cancellieri, per esempio, non diventavano, di regola, visir. Ciascuna posizione tendeva a rappresentare l’apice di una carriera specializzata, di governatore o comandante militare nel caso dei visir, nella professione colta e legale nel caso dei giudici militari, nei servizi finanziari nel caso dei tesorieri, o nel servizio degli scribi nel caso dei cancellieri. Questo, comunque non era sempre stato il caso. Sembra esserci stata una maggiore fluidità nelle funzioni dei membri del consiglio prima della fine del quindicesimo secolo. Chandarli Ibrahim, per esempio, divenne Visir nel 1420, dopo aver servito dal 1415 come giudice militare. Mehmed Pasha di Karaman assurse al gran visirato  nel 1476, dopo aver occupato la cancelleria per dodici anni. Tali cambiamenti di funzione sembrano essere stati rari nel sedicesimo secolo.

  Ci fu un cambiamento, a partire dalla metà del quindicesimo secolo, nel background dei membri del consiglio, almeno dei visir. Ciò che colpisce di più nel secolo precedente la conquista di Costantinopoli è il diritto ereditario al visirato di una singola famiglia. Il primo di questi fu Chandarli Hayreddin Pasha che, secondo la tradizione ottomana, iniziò la sua carriera come giudice a Bilecik, Iznik e Bursa. Nella stessa tradizione viene nominato  da Murad I come giudice militare e finalmente, nel 1380, visir. In questa posizione egli agì sia come governatore che come comandante militare, ruoli che i visir dovevano conservare. Egli morì a Sarrai nel 1387. Sul figlio, Chandarli Ali, gli succedette come visir di Murad I, di Bayezid I e del figlio di Bayezid, Süleyman (Rumelia, 1402-11), su incarico del quale fu uno dei negoziatori del trattato di Gallipoli  del 1403. Egli morì nel 1406. In quest’anno suo fratello, Ibrahim, era giudice a Bursa. Entro il 1415 Mehmed I lo aveva nominato giudice militare. Nel 1420 egli divenne secondo visir di contro a Bayezid Pasha primo visir e dopo la morte di quest’ultimo per mano dello zio di Murad II, Mustafa, gli succedette come primo visir. Morì nel 1429.

  La linea di visir dei Chandarli  continuò con il figlio maggiore di Ibrahim, Halil che fu primo visir nel 1443. Entro il 1447 il figlio di Chandarli Halil, Süleyman, che morì prima di suo padre, era giudice militare. La caduta di Halil si verificò con l’ascesa al trono di Maometto II. Il Sultano evidentemente lo detestava, dal momento che fu responsabile della sua deposizione dal trono nel 1446 e la reinstallazione di suo padre dopo l’abdicazione di quest’ultimo. Più importante, comunque, fu il fatto che Halil si era opposto all’assedio di Costantinopoli nel 1453 e invero, secondo il resoconto di Leonardo di Chio, che era nella città assediata, di fatto collaborò con i difensori. Non molto tempo dopo il Sultano fece giustiziare Chandarli Halil.

  Questa non fu, comunque,  la fine dell’era dei Chandarli. Nel 1453, il figlio di Chandarli Halil, Ibrahim era giudice in Edirne. Nel 1465 Mehmed II lo nominò giudice militare e, otto anni dopo, tutore di suo figlio Bayezid ad Amasya. Alla sua salita al trono nel 1481 Bayezid lo portò col suo entourage da Amasya alla capitale, nominando Chandarli Halil giudice militare della Rumelia. Nel 1486, egli divenne visir e finalmente, nel 1498, gran visir. Due anni più tardi morì nella campagna contro Navpaktos (Lepanto). Ibrahim fu l’ultimo dei Chandarli ad occupare il visirato.

  L’esecuzione di Chandarli Halil da parte di Mehmed II era chiaramente un atto di ripicca personale  piuttosto che politico. Nondimeno, esso rappresenta un momento di cambiamento nell’istituto del visirato. Prima del 1453, molti – se non tutti – i visir sembrano essere stati uomini liberi di discendenza turca e musulmana. Dopo il 1453, visir turchi musulmani furono l’eccezione. Invece, il Sultano si appoggiò ad uomini che erano stati cresciuti nella casa reale, piuttosto che su uomini dalle casate musulmane che godevano di potere indipendente e influenza.  Nelle province, membri delle grandi famiglie musulmane, specialmente quelle dei signori di frontiera della Rumelia,continuarono a prosperare e a ricevere uffici dal Sultano, ma come governatori provinciali piuttosto che visir nella capitale.

  Nondimeno le nomine al visirato da parte di Maometto II e Bayezid II indicavano che questi sultani erano ancora attenti ad imbrigliare interessi dinastici locali al servizio degli interessi ottomani. Un certo numero di visir che essi nominarono non erano stati “sollevati dalla polvere” come doveva diventare il caso nel sedicesimo secolo, ma erano piuttosto i rampolli  di precedenti dinastie cristiane. Il visir che servì più a lungo Maometto II era Mahmud Pasha, che occupò il posto  per gran parte del periodo dal circa il 1455 alla sua esecuzione nel 1474. Le origini di Mahmud  non sono certe. Comunque un documento ragusano del 1458 lo accosta alla famiglia slavonica di nome Andjelovic, suggerendo che la storia che egli fosse un discendente degli Angelos signori di Tessaglia fosse corretta. Sembra, anche, che durante il suo visirato, membri della sua famiglia continuarono ad esercitare il potere in Serbia dal momento che, nel suo resoconto della cattura della fortezza serba di Smederovo nel 1458 il cronista Neshri sostiene che il fratello di Mahmud era nella fortezza al tempo dell’assedio e che fu lui che negoziò la resa. Fu forse anche per le connessioni serbe di Mahmud che il Sultano lo pose al comando della spedizione che finalmente sopraffece il Despotato di Serbia nel 1458-9, e il regno di Bosnia nel 1463.

  Mahmud Pasha non era l’unico membro di una “nobile” famiglia cristiana che serviva il Sultano in questo periodo. L’origine del suo rivale, Mehmed Pasha “il greco” era così ben conosciuta da divenire il suo soprannome. E’ realmente possibile che egli provenisse da una “nobile” famiglia bizantina. Questo era certamente il caso  di Hass Murad Pasha, che servì non solo come visir nel Consiglio Imperiale, ma anche come governatore della Rumelia fino alla sua morte nel 1473 nella guerra contro Uzun Hasan. Egli era un Paleologo, un membro della famiglia imperiale bizantina, come era Mesih Pasha, che, come visir, comandò il fallito assedio di Rodi nel 1480. Bayezid II lo doveva nominare gran visir in tre occasioni, tra il 1485 e la sua morte nel 1501. Come Hass Murad e Mesih Pasha, Hersekzade (“il figlio del duca”) Ahmed Pasha, cinque volte gran visir tra il 1497 e il 1516, era anche progenie di una famiglia regnante. Suo padre, Stephen Vukčić-Kosača, il duca di San Sava, era il sovrano di un territorio  nel sud est della Bosnia. E’ dal suo titolo “Herceg” (“Duca”) che l’Hercegovina prende il suo nome. Questo figlio sembra essersi convertito all’Islam ed essere entrato nella corte di Mehmed II nel 1473-74. L’ultimo visir di tale discendenza fu Dukaginzase Ahmed, un membro della famiglia albanese Kukagjin, discendente dal Duca Giovanni di Shkodër. Come Hersekzade anche egli sembra essersi convertito e aver ricevuto una educazione alla corte  di Mehmed II. Bayezid II lo promosse a governatore generale dell’Anatolia. Sotto il successore di Bayezid, Selim I, egli divenne Secondo Visir e finalmente Gran Visir fino alla sua esecuzione nel 1515.

  Non tutte le nomine di Mehmed II e Bayezid II seguirono questo schema. Altri visir di origini non musulmane, come l’albanese Daud Pasha, Gran visir tra il 1485 e il 1497, probabilmente entrarono nel servizio del Sultano attraverso la Reccolta  piuttosto che con conversione volontaria. Iskender Pasha, che era visir tra il 1489 e il 1496 era il figlio di padre genovese e madre greca da Trebisonda. Alcuni visir di questa era furono ancora di discendenza turca musulmana.  Chandarli Ibrahim era il più ovvio esempio, ma mehmed Pasha, che fu visir successivamente nel regno di Mehmed II e di nuovo tra il 1483 e il 1485 era anche membro di una potente famiglia turca. Suo nonno, Yörgüch e suo padre, Hizir, erano stati tutori in Amasya del futuro Sultano Murad II e Bayezid II rispettivamente. Piri Mehmed Pasha, gran visir tra il 1518 e il 1523 era anche un turco musulmano. Nondimeno, una caratteristica saliente dell’era tra la ascesa al trono di Mehmed II e l’ascesa di Solimano I è il numero di visir di “nobile” discendenza cristiana. Nominando questi uomini alle posizioni più alte  del governo il Sultano andava assimilando membri delle precedenti famiglie regnanti della penisola balcanica nella élite ottomana. Questo sistema di assimilazione consentiva anche al Sultano di sfruttare connessioni familiari per scopi politici e, come il destino sfortunato di Mahmud Pasha e di Dukaginzade Ahmed esemplifica, di portare la casta dominante pre-ottomana fermamente sotto il controllo del monarca.

  Per quando Solimano I ascese al trono nel 1521 questo processo era stato completato e nessun altro visir emerse da questo background. Sembra che molti dei visir dopo il 1521 provenissero dalle parte occidentale della penisola balcanica, sebbene ci fossero eccezioni. Özdemiroghu Osman Pasha, gran visir nel 1584-5 era un turco, e Jigalazade Sinan, brevemente gran visir nel 1596, era un genovese, Scipione Cicala, che l’ammiraglio Piyale Pasha aveva fatto prigioniero nel 1560 e presentato al Sultano.

  I visir del sedicesimo secolo non erano comunque discendenti di dinastie regnanti, ma piuttosto  la discendenza di contadini. Tipicamente, essi erano venuti a Palazzo come giovani che il Sultano aveva prelevato dai suoi sudditi cristiani, attraverso la Raccolta. Nel Palazzo, essi avevano studiato nella grande e nella piccola camera nella terza corte e poi, dopo aver progredito attraverso i ranghi dei paggi e aver tenuto un ufficio entro il palazzo, il Sultano li nominava governatori provinciali. Dalle province, se godevano del favore del sovrano, essi potevano ritornare nella seconda Corte come visir del Consiglio Imperiale. Lutfi Pasha, Gran Visir tra il 1539 e il 1541, diede un resoconto della sua  carriera. Egli era, per origini, un albanese, e venne nel palazzo, si può presumere, attraverso la Raccolta. Questi dettagli  li omette e, cominciando la sua “autobiografia” nel Palazzo col dire: “Dal tempo dell’ultimo Sultano Bayezid Khan, la cui dimora è in Paradiso io, questo umile essere, sono stato portato negli appartamenti privati del Sultano attraverso la generosità  del Sultano, come un buon amico della Porta Ottomana. Quando stavo negli appartamenti privati io ho studiato molti tipi di scienza. Alla salita al trono di sua eccellenza Selim Khan fui promosso al posto di portatore degli abiti, per diventare un müteferrika con un reddito di cinquanta akce al giorno. Poi fui capo assaggiatore, indi capo portiere, poi maestro dello stendardo. Successivamente divenni governatore di Kastamonu e governatore generale di Karaman. Poi mi fu largito il visirato”. La carriera di uno dei successori immediati di Lufti Pasha, Rüstem Pasha, fu simile. Egli sembra essere stato bosniaco per nascita, entrato a palazzo tramite la Raccolta. Nel Palazzo, divenne il portatore delle armi del Sultano nella camera privata e poi maestro delle stalle. Quando lasciò il palazzo divenne dapprima governatore generale di Diyarbekir e poi dell’Anatolia. Successivamente si unì al gran consiglio come terzo visir. Nel 1541 era Secondo Visir e Gran Visir nel 1544. Come Lutfi Pasha, egli si sposò entro la famiglia imperiale.

  Ciò che colpiva molti forestieri  circa questa successione di visir che erano originariamente arrivati a Palazzo come giovani attraverso la Raccolta, era il contrasto tra la loro ricchezza ed elevata posizione e lo stato umile delle loro famiglie originali. E’ per mettere in rilievo questa differenza che Antoine Geuffroy dà una descrizione, forse apocrifa,  del padre di Ibrahim Pasha, Gran Visir dal 1523 al 1536. Egli inizia con una raffigurazione di Ibrahim “da Parga, in Albania…” che “a causa del fatto che era stato cresciuto giovane nel Palazzo con il suddetto gran Turco, guadagnò tanto credito e autorità che comandava assolutamente e disponeva di qualunque cosa senza che il gran turco interferisse.” Questo contrasta con il padre di Ibrahim: “un uomo da nulla, inutile, un frequentatore di taverne, un ubriacone che dormiva nelle strade come le bestie”

  Questo uso sistematico della Raccolta per promuovere uomini di umili origini a visirato, una pratica che questa storia simboleggia, dà la  misura del crescente potere dei sultani. Sebbene membri di dinastie locali continuarono a ricevere nomine nelle province, i sultani non si sentirono più obbligati a nominarli come membri del Consiglio Imperiale. Invece preferirono uomini che erano membri della casa imperiale e non avevano legami di patronato ed autorità fuori del palazzo. Ibrahim Pasha è di nuovo un buon esempio dei  poteri che il Sultano può esercitare. Solimano I, contro tutti i precedenti nominò Ibrahim dalla camera privata direttamente al gran visirato, con nessuna precedente esperienza di governo. Avendolo sollevato da nulla alla carica più alta, tredici anni dopo, durante la campagna di Baghdad, lo giustiziò. Scegliendoli tra gli schiavi cresciuti nella sua casa, il Sultano era capace, se desiderava, di esercitare un potere assoluto sui suoi visir.

  Negli anni travagliati  dalla fine del sedicesimo secolo, comunque, sembra  essere stata altrettanta l’influenza  di fazioni rivali, sia entro il palazzo che fuori, a creare o rovinare visir. L’ufficio di gran visir divenne particolarmente precario, un fattore essendo le prolungate guerre del periodo. Se il gran visir non era anche il comandante di una campagna egli doveva cedere molti dei suoi poteri di nomina e di riscossione delle rendite  al comandante dell’esercito. Dall’altro lato, se egli stesso diveniva comandante, la sua assenza da Istanbul e la cessione del suo posto nel Consiglio Imperiale ad un rappresentante lo esponeva ai complotti dei rivali politici. Questo dilemma , che nasceva dalla mancanza di distinzione tra autorità militare e politica, indubbiamente giocava una parte nella rapida successione di gran visir tra il 1590 e il 1656. Nondimeno, rimaneva la regola che i visir dovevano, nelle loro origini, essere non musulmani o almeno non turchi. Nella fine del sedicesimo secolo ed inizio del diciassettesimo secolo molti gran visir – per esempio Koja (“l’anziano”) Sinan Pasha o Yemishchi (“il fruttivendolo”) Hasan Pasha erano albanesi. Verso la metà del secolo, comunque caucasici, circassi, abkhazi e georgiani – iniziarono a competere con loro per l’ufficio. Il primo gran visir caucasico fu Mehmed Pasha il Georgiano nel 1622-23. La nomina di Mehmed Pasha il Circasso seguì nel 1624. Melek Ahmed Pasha, che assunse il primo visirato  nel 1650, era abkhazi, come lo erano i suoi successori Siyavush Pasha nel 1651 e Ibshir Mustafa nel 1654-5. Lo stesso periodo travagliato vide anche la nomina di un georgiano nel 1651 e di un circasso nel 1653. Alla fine  si può dire che la fazione albanese vinse la lotta per l’ufficio. Nel 1656 la madre di Mehmed IV, Turhan Sultana, nominò l’albanese Köprülü Mehmed come gran visir. Suo figlio, Fazil Ahmed Pasha ereditò l’ufficio e lo tenne fino alla sua morte nel  1676.

  Se, dalla metà del quindicesimo secolo, era molto raro per un musulmano turco divenire un visir, questo non era il caso per gli altri uffici nel Consiglio Imperiale. Prima del sedicesimo secolo le cariche di visir e di giudice militare non erano, come le carriere dei due Chandarli Ibrahim mostrano, mutuamente esclusive: un giudice militare poteva divenire un visir, se non viceversa. Nel sedicesimo secolo, comunque, un nuovo schema emerse. Da questo tempo, la carica di giudice militare e invero tutte le nomine ad uffici giudiziari di grado superiore  divennero una sfera riservata  di un piccolo numero di famiglie colte in fiera competizione tra di loro. Quando un membro di uno di questi clan otteneva un ufficio di grado elevato egli avrebbe usato la sua influenza e potere di patronato per promuovere i propri parenti. Un esempio del sedicesimo secolo è la famiglia Chivizade, i discendenti di un professore, un certo Chivizade Ilyas. Il figlio di Ilyas, Muhiyeddin divenne giudice militare dell’Anatolia nel 1537. Suo figlio, Mehmed, ottenne la stessa posizione nel 1575. Due anni più tardi egli era giudice militare di Rumelia. nel 1598, Mehmed III  nominò l’insegnante suo e di suo padre, Sa’deddin, Gran Mufti. Nel 1601 il figlio di Sa’deddin, Mehmed Es’ad, era giudice militare dell’Anatolia, mentre suo fratello era succeduto al loro padre come Gran Mufti. La carica di giudice militare era dunque, a differenza del visirato, aperta a turchi musulmani ma solo a quelli che appartenevano ad un circolo molto ristretto. Non era aperta alla massa dei giudici che occupavano posti nelle piccole città dell’Impero.

  I cancellieri e tesorieri  del Consiglio Imperiale, anch’essi dall’inizio del sedicesimo secolo, formavano un gruppo il cui background era differente da quello dei visir. Prima del 1520, il consiglio era forse più fluido. L’ultimo gran visir di Mehmed II, Nishanji (“il cancelliere”) Mehmed Pasha era assurto al posto dalla cancelleria. Selim I doveva elevare il tesoriere di Rumelia, Piri Mehmed Pasha al posto di terzo visir e finalmente nel 1518, di Gran Visir. Dopo questa data, non sembrano esserci state promozioni da cancelliere o tesoriere direttamente al visirato, sebbene dagli anni ’70 del 1500 nomine di tesorieri a governatori provinciali non erano inconsuete. Il padre del cancelliere, Oskchuzade, lasciò il posto di capo tesoriere per divenire governatore generale di Cipro nel 1581.

  Come i giudici militari, i cancellieri e tesorieri sembrano, come norma, essere stati  turchi musulmani e diplomati in collegi religiosi. Comunque, l’addestramento che seguivano era da scriba piuttosto che legale, iniziando , con un appropiato patronato, come apprendisti in una grande casa, al servizio di un governatore provinciale o tesoriere o nel Consiglio Imperiale o nel tesoro stesso. Il famoso Feridun Bey, per esempio, iniziò la sua carriera come protégé del capo tesoriere, Chivizade Abdi Chelebi, fratello del giudice militare, Muhiyeddin. Fu probabilmente  nella casa di Abdi che imparò il suo mestiere. Alla morte di Abdi nel 1553, entrò nella casa del futuro gran visir, Sokollu Mehmed Pasha, e, attraverso Sokollu, divenne capo impiegato nel Consiglio Imperiale nel 1570. Tre anni più tardi era cancelliere. Nel 1576, comunque, presumibilmente come risultato del disprezzo di Murad III nei confronti di Sokollu, soffrì la destituzione e l’esilio. Il Sultano, comunque, lo richiamo al suo posto nel 1581 dopo l’assassinio di Sokollu.

  Gli uffici nel Consiglio Imperiale, mentre dipendevano dal favore del Sultano, davano a coloro che li detenevano , non solo potere politico e opportunità di patronato indipendente, ma anche ricchezza. Spandounes, per esempio, riferisce che, al tempo della sua morte nel 1497, il Gran Visir che aveva servito a lungo, Daud Pasha, lasciò “un milione di ducati d’oro e questo non includeva le terre, le fabbriche, i villaggi, i cavalli e altri beni mobili”. Un ufficio portava con sé non solo un feudo di valore, ma anche emolumenti. Scrivendo dopo la sua destituzione nel 1541 Lutfi Pasha parlò di un gran visir come avente un feudo del valore di 1.200.000 akce. Se avesse realizzato almeno una volta e mezzo il suo valore contabile, si tratta di almeno 2.000.000 di akce. Se riceve somme di 200.000 o 300.000 akce dai signori curdi, e abiti di valore e cavalli dai signori di grande potere, questo fa 2.400.000 akce in un anno”. La stima di Lutfi è indubbiamente troppo modesta, escludendo, come fa, i doni dagli ambasciatori e dagli altri postulanti, e gli altri profitti dell’ufficio. I gran visir indubbiamente avevano le entrate maggiori, ma altri membri del consiglio divennero pure essi ricchi. Antoine Gruffroy nel 1546, per esempio riferisce che due giudici militari avevano “ciascuno un feudo di settemila ducati”. Spandounes nel 1513 aveva menzionato la stessa somma ma aggiungeva che questo escludeva “ciò che guadagnavano in pagamenti straordinari”. Gli emolumenti  dei cancellieri sembravano essere stati gli stessi, o lievemente più alti, di quelli dei giudici militari.

  Per quanto enorme la ricchezza degli alti dignitari possa essere stata, parimenti alte erano le loro spese. Il segno dello status di un uomo nella società ottomana era la dimensione del suo entourage e  delle persone del seguito quando compariva in pubblico. Questo richiedeva continue spese, sia nell’ufficio che fuori dell’ufficio. Era normale, secondo Kochi Bey nel 1631-1632, per un gran visir fino al 1574, possedere circa 1000 schiavi, e per gli altri visir averne 5-600. Nella seconda metà del diciassettesimo secolo, Evliya Celebi ci dà numerose indicazioni  circa la grandezza dell’entourage del suo patrono, Melek Ahmed Pasha (Gran visir 1650-51). Erano comunque non solo i visir che avevano un largo seguito, ma anche gli altri membri del Consiglio Imperiale. Dei giudici militari Spandounes commenta che “essi tenevano molti eunuchi e donne”, e dei cancellieri che “essi cavalcavano con pompa trionfale”, con Geuffroy che aggiunge che essi “procedevano accompagnati da un gran numero di cavalli e servitori”. Ramberti nella metà del sedicesimo secolo riportava che i giudici militari tenevano 2-300 schiavi, il cancelliere 300, il capo tesoriere 1000 e il secondo tesoriere 500.

  I visir, i giudici militari, i cancellieri e i tesorieri erano gli ufficiali esecutivi  del Consiglio Imperiale. Oltre questi c’era un servizio amministrativo, che preparava il materiale per le discussioni, teneva la documentazione ed esibiva i documenti per la discussione. Tale servizio doveva essere esistito sin dai primi giorni dell’Impero, ma gli esigui  documenti dalla fine del quindicesimo secolo suggeriscono che, fino a quel tempo, era un corpo amministrativo piccolo e più o meno indifferenziato. Durante i primi anni del regno di Solimano I, comunque sembra esserci stato un incremento nel numero degli impiegati e una definizione più chiara della loro funzione. Un registro del 1527-28 elenca sette impiegati “nel seguito del tesoriere” e undici “nel seguito del cancelliere”. Nel 1531 il loro numero era aumentato ad otto e a quindici, e nel 1561 a nove e venticinque. I numeri continuarono a crescer nelle decadi seguenti. Nel 1605, c’era probabilmente un minimo di 50 impiegato, nel 1609 un minimo di 64 e nel 1627-28 centoquindici. Questi numeri chiaramente non includono tutti gli impiegati del governo centrale. Nel 1531, per esempio c’erano anche 33 impiegati e 17 apprendisti nei ruoli del Tesoro e sette nei ruoli del controllore dei registri, che era in carico dei registri catastali. Aggiunti agli impiegati del Consiglio Imperiale questi e altri danno un totale di centodieci, un numero piccolo considerando le dimensioni vaste, e a quel tempo in via di ingrandimento, dell’Impero. Alcuni di questi impiegati, come i membri del Consiglio Imperiale, avrebbero accompagnato il Sultano in campagne o, quando il Sultano non faceva più campagne, erano aggregati al comandante dell’esercito.

  Come responsabile degli impiegati c’era il Capo Impiegato (reisü’l-küttab) (reisu’l-kuttab). Il suo ufficio,  secondo una fonte non confermata  del diciottesimo secolo, datava dal regno di Solimano I. Se questa tradizione è corretta, deve essere stata una creazione dei primi anni del regno di Solimano, dal momento che non c’era evidenza della sua esistenza  dai primi anni ’20 del 1500. Il più famoso e di lunga nomina dei cancellieri  di Solimano, Jelalzade Mustafas, ricevette l’incarico di capo impiegato nel 1525 e lo tenne fino alla sua promozione a cancelliere nel 1534. Servire sotto il capo impiegato voleva dire, almeno nel sedicesimo secolo, fare da scrittore di memorandum (tezkereji), i cui compiti i documenti non definiscono, ma che probabilmente  riassumeva la corrispondenza in arrivo e le petizioni per la presentazione al consiglio da parte del Capo Impiegato. Egli, sembra anche, leggeva le petizioni che il gran visir ascoltava nel consiglio  che teneva nella sua propria residenza,  che seguivano le riunioni del Consiglio Imperiale nel Palazzo. I documenti non definiscono, come ruolo, gli altri impiegati del Consiglio per funzione, e uno può ritenere che essi avessero compiti simili: registrare le decisioni e le nomine del Consiglio nei suoi libri giornali, scrivendo le bozze dei decreti nei “registri degli affari importanti”, facendo copie di questi e scrivendo i decreti finali, nella loro spesso elaborata versione dorata. Il Capo Impiegato e, in ultima istanza il cancelliere supervisionavano questo lavoro. Il secondo gruppo di impiegati, che serviva il capo  tesoriere, formava un gruppo separato, presumibilmente perché la tenuta dei documenti finanziari richiedeva abilità molto specifiche. Il linguaggio usuale era persiano piuttosto che turco dei documenti del tesoro e il tesoro usava una forma di scrittura e un modo di scrivere i numeri che erano incomprensibili ai non iniziati. Per redigere questi documenti necessitava un apprendistato nello stesso Tesoro.

  A meno che, come Jelalzade, cancelliere dal 1534 al 1557 o Okchuzade, cancelliere dal 1599 al 1601 e di nuovo dal 1622 al 1623, essi arrivassero a divenire cancelliere o ad occupare altri alti uffici, gli impiegati del Consiglio Imperiale rimanevano figure nell’ombra, ed è raramente possibile conoscere qualcosa dei loro background. Prima degli anni intorno al 1500 le loro origini erano probabilmente diverse dal momento che, fino a questo tempo, il greco era la lingua franca della diplomazia e il Sultano evidentemente corrispondeva con  potenze straniere non solo in greco ma anche nei loro linguaggi. Un anonimo ragusano nell’ultimo quarto del quindicesimo secolo riportava che il Sultano aveva una cancelleria per ciascun linguaggio, tutto sotto un singolo cancelliere e che “ai greci ed italiani essi scrivono in greco,  agli ungheresi, Moldavi, Valacchi, Slavi e Ragusani in Serbo, ai Turchi, Arabi, Armeni e altre nazioni in turco , arabo o persiano”. Questa diversità di linguaggi suggerisce una diversità di scribi nella cancelleria.

  Dopo circa il 1500, questo non era più il caso. Documenti in greco declinarono sia in quantità che in qualità ed alla fine scomparvero come pure tutti i documenti in linguaggi diversi da turco, arabo e persiano. Si può ritenere, quindi, che da circa il 1520, tutti gli impiegati del consiglio erano musulmani. Sembra, anche, dalla scarsa documentazione disponibile che tipicamente essi si diplomavano in collegi religiosi, per i quali l’attrattiva  di un lavoro come impiegato poteva essere uguale a quella di professore di un collegio o giudice in una piccola cittadina. Fu, di fatto, l’avversione ad una carriera di insegnante che convinse Okchuzade a seguire la via dello scriba, che lo condusse alla fine alla cancelleria. Nondimeno, cultura letteraria ed educazione non erano sufficienti per assicurare una posizione. Un aspirante impiegato necessitava un patrono, che lo avrebbe preso nel suo seguito e gli avrebbe procurato una posizione nel servizio imperiale. L’ufficio di impiegato del consiglio in particolare richiedeva il patronato del cancelliere, di uno dei tesorieri o di un altro membro del consiglio. Non può essere accidentale che due dei tre capi impiegati nel Consiglio Imperiale di Solimano erano nativi di Tosya in Anatolia, dal momento che questa era la città natale del cancelliere Jalalzade Mustafa. Sembra  essere stato un caso piuttosto tipico di un titolare di ufficio che fornisce impiego ai suoi compaesani.

  Il pagamento  agli impiegati poteva essere uno stipendio o essere fatto sotto forma di un feudo, con i tenutari di feudi chiaramente predominanti verso il 1600 e oltre. Queste non erano, comunque, le uniche possibilità di arricchimento dal momento che gli impiegati potevano anche usare i propri contatti per acquistare interessi nella esazione delle imposte o in altre imprese, che potevano essere vitali per il loro mantenimento in periodi in cui non tenevano l’ufficio. Essi erano situati, di fatto, al livello più basso dell’élite ottomana.

  Il Consiglio Imperiale plenario si riuniva quattro volte a settimana – Sabato, Domenica, Lunedì e Martedì – con tutti i membri esecutivi che vi partecipavano. Gli impiegati, comunque, almeno dalla fine del sedicesimo secolo, sembrano aver partecipato a rotazione. Una annotazione in un registro del 1585-6 mostra 19 su 25 partecipanti il Sabato e la domenica, e 17 su 20 il lunedì e il martedì.

  E’ chiaro che le decisioni più importanti dello Stato, perfino se coinvolgevano membri del consiglio, avevano luogo al di fuori del Consiglio stesso. Il Consiglio  era, nondimeno, un corpo esecutivo, che conduceva tutti i tipi di affari di governo, concedendo udienze agli ambasciatori e tenendo la corrispondenza con monarchi stranieri; soprintendeva ai preparativi per la guerra, emanando dettagliati comandi per la leva degli uomini, la raccolta delle munizioni e delle provviste; si occupava dei lavori di costruzione, in particolare delle fortezze e degli acquedotti, ad Istanbul e nelle province; trattava gli innumerevoli problemi, alcuni importanti, altri evidentemente di scarso rilievo, che erano soggetti a  relazioni e petizioni dai governatori e giudici;  assegnava le promozioni e gli incarichi. Come corte di giustizia poteva ascoltare dei casi, normalmente quelli che coinvolgevano la classe militare. Non è raro, ad esempio, trovare ordini ai governatori o ai giudici di mandare tenutari di feudi “legati e incatenati” ad Istanbul, per apparire di fronte al Consiglio. Esso si occupava anche di lamentele di individui che giudici e altri avevano inviato, o che venivano presentate di persona. Di queste petizioni personali Luigi Bassano scrisse nel 1545: “I Pasha ascoltano prima i casi più importanti e poi tutti gli altri, dei poveri come dei ricchi, cosicché nessuno se ne va senza essere stato ascoltato  o aver avuto giudicata la sua causa. Qui non si impiegano né avvocati, ma ciascuno parla  dei suoi affari da se stesso come meglio può, e chi non parla il linguaggio prescritto fa uso dei dragomanni o interpreti…”

  La durata di una riunione del consiglio era, secondo Guillaume Postel, di sette o otto ore, e questo sembra corrispondere al resoconto di Bassano. I membri del consiglio egli dice, mangiavano tre volte: all’alba, immediatamente dopo il loro arrivo, poi “allo scoccare della sesta ora” dopo gli affari principali, e poi dopo aver udito le petizioni. La riunione cessava a mezzogiorno d’estate, quando l’alba arrivava presto, e a metà pomeriggio di inverno. Il Gran Visir, comunque dopo lo scioglimento del Consiglio “va” nelle parole di Postel, “alla sua casa dove in una grande sala ascolta tutti, fino alla persona di condizione più infima che si presenti, non lasciando alcuna persona senza un giudizio definitivo o un tezkere, e cioè una lettera indirizzata al suo giudice…” Questa funzione del Gran Visir richiama le udienze personali col Sultano di cui era stato testimone il dottore egiziano nei giorni di Bayezid I.

  Dal momento che gli impiegati non tenevano minute delle discussioni è impossibile sapere come il consiglio arrivava alle decisioni. Alcune volte, comunque è chiaro come una particolare faccenda arrivasse nel calendario degli impegni, dal momento che la sezione di apertura di ogni decreto del Consiglio Imperiale spiega le ragioni della trattazione della faccenda. Spesso era il ricevimento di una lettera o l’arrivo di un messaggero da una autorità provinciale o di altro genere, il cui messaggio il decreto ripete per sommi capi. Per esempio, un comando del 1564, che ordina al governatore generale dell’Anatolia di provvedere truppe per le galee del governatore di Menteshe inizia: “Il Governatore di Menteshe, Ahmed – possa la sua gloria durare – ha mandato un uomo per far conoscere che sono necessari soldati nelle galee, che gli furono date per la difesa della costa”. Il decreto risponde alla richiesta di Ahmed. Altri decreti stabiliscono semplicemente che il problema a cui si riferisce il comando “è stato rilevato”. Molti decreti comunque, non forniscono alcuna indicazione sul perché quella particolare problema sia arrivato al consiglio. Né danno alcun indizio sul background  di una importante decisione politica, come ad esempio una dichiarazione di guerra.

  Tutti i decreti hanno una struttura standard, che rimase in uso fino al diciannovesimo secolo. Dopo aver nominato il destinatario, la prima sezione espone le ragioni per l’emanazione dell’ordine. Questo spesso dà il riassunto di un messaggio o di una petizione che è giunta al consiglio, probabilmente nella forma in cui lo scrittore del memorandum la ha redatta per la presentazione al consiglio. Segue il vero e proprio ordine, che inizia sempre con la formula: “Io ho comandato che…” La prima persona ricorda che il decreto, anche se in pratica rappresenta una decisione del consiglio, viene dal Sultano, in nome del quale il concilio imperiale stava agendo. All’inizio del documento c’è la sigla del Sultano, che ne garantisce l’autenticità e ne enfatizza la gravità. Al fondo sta la data e il luogo di emissione

  Il fatto che il Consiglio Imperiale non ha poteri indipendenti e che tutti i documenti che emana, che siano lettere, decreti, o lettere patenti di nomina  erano nel nome del Sultano solleva la questione del ruolo che il Sultano giocava in queste deliberazioni e discussioni, quando non asisteva alle sessioni in persona. Egli ovviamente poteva, se così voleva, ignorare del tutto il Consiglio. Poteva anche mandare messaggi formali al Consiglio. Il cosiddetto Libro delle leggi di Maometto II, questa sezione del quale probabilmente data dal tardo sedicesimo secolo, espone una procedura per la comunicazione: “Per alcune materie, l’agha del cancello deve fornirmi informazioni dall’esterno attraverso il maggiordomo e i custodi dei cancelli, che devono informare i miei visir, i miei giudici militari e i miei tesorieri”. In questo modo, il Sultano poteva, dal ritiro del palazzo interno, determinare l’agenda del Consiglio Imperiale e cercare di attuare la sua volontà.

  Più importanti, comunque, erano i colloqui del sovrano col Gran Visir. Lutfi Pasha rimarca che nessuno, nemmeno gli altri visir, conoscono i segreti tra il Sultano e il suo primo ministro, e riporta una storia di come Selim I aveva destituito il visir Mesih Pasha dopo che aveva osato chiedere al gran visir, Piri Pasha, il contenuto di una recente discussione col Sultano. Un memorandum dal gran visir Mehmed Pasha richiede un’udienza con Ahmed I (1603-17) per presentargli alcune non meglio specificate questioni militari, e presumibilmente tutti i gran visir chiedono udienze private col Sultano. Nel resoconto di Postel del Consiglio Imperiale, era ancora il Gran Visir che presentava i risultati delle sue deliberazioni al Sultano. Luigi Bassano, comunque, che scrive anche lui verso la metà del sedicesimo secolo, dà un resoconto differente. Nella sua versione, dopo le sue deliberazioni, l’intero Consiglio appariva di fronte al Sultano nella sala delle petizioni dietro il cancello della felicità che  conduceva alla terza corte. Qui, il giudice militare di Rumelia parlava per primo, e, dopo di lui, il Gran Visir, presentando tutti gli affari del consiglio “che necessitavano di essere riferiti al Gran Turco”. Il veneziano Ottaviano Bon, scrivendo nel 1600, segue la versione di Bassano.

  Il formato standardizzato dei decreti rende difficile stabilire se il Sultano era di fatto coinvolto o meno nelle decisioni che contengono. Molte promozioni e nomine di routine  probabilmente rimanevano in facoltà  dei membri del consiglio, persino se essi richiedevano la formale ratifica del Sultano. E’ anche improbabile che il sovrano si interessasse ad ogni decreto che il consiglio emanava a suo nome. E’, comunque, possibile identificare alcuni degli ordini che provenivano dal Sultano in persona. Nel “Registro degli affari importanti”, che contiene le bozze dei decreti, gli impiegati hanno aggiunto la nota “con rescritto imperiale” ad alcune delle registrazioni. Questo indica che il testo incorpora il comando scritto del Sultano, che presumibilmente fece quando gli fu sottoposto un documento dal consiglio . Questi rescritti imperiali si possono riferire a materie importanti per lo Stato, quali le misure da prendersi nei confronti del figlio ribelle di Solimano, Bayezid, nel 1559-60, o materie che ad un occhio moderno sembrano di scarsa rilevanza, come il comando dello stesso anno di bloccare le persiane al Cairo che consentivano agli uomini di guardare nella sezione femminile dei bagni. Questi rescritti imperiali rendevano possibile identificare almeno alcuni degli argomenti dibattuti nei consigli che attiravano l’attenzione del Sultano.

  Alla fine, comunque, è impossibile stimare con un qualche certezza il grado di controllo del Sultano sulle decisioni del suo consiglio e il ruolo nel governo giornaliero dell’Impero. Quando egli assisteva al consiglio di persona, frequentemente prima della metà del quindicesimo secolo, raramente nel periodo successivo, poteva esercitare la sua autorità di persona. Dalla seconda metà del quindicesimo secolo, quando non partecipava alle riunioni, egli rendeva nota la sua volontà mediante le discussioni col Gran Visir, mandando messaggi attraverso l’agha del cancello o quando i membri del consiglio gli presentavano i risultati delle loro deliberazioni.  Una serie di memorandum scritti dal Gran Visir al Sultano sono pure sopravvissuti dal tempo di Murad III in poi. L’assenza di tali documenti dai regni precedenti può significare semplicemente che non sono sopravvissuti. E’ probabile d’altro canto che essi indicavano il ritirarsi del Sultano dal contatto diretto col Gran Visir e il Consiglio Imperiale. In uno di questi, dove il Gran Visir richiede un’udienza con Ahmed I, il Sultano rifiuta, con la nota scritta a mano: “Dovresti informarmi per iscritto”, suggerendo che gli incontri faccia a faccia tra il Sultano e il Gran Visir siano divenuti rari.

  E’ comunque probabile  che differenti sultani adottassero differenti stili di governo, e che le pratiche cambiassero persino durante un regno. Di Murad III, per esempio, viene riportato che presiedeva i consigli di persona durante la prima parte del suo regno,mentre nella parte finale si ritirò progressivamente. Perdipiù, sebbene i libri di legge del sedicesimo e diciassettesimo secolo definiscono il gran visir come il “delegato assoluto” del Sultano e vedono il monarca come conducente il governo solamente attraverso il gran visir – e così attraverso il Consiglio Imperiale – questo non fu probabilmente mai il caso. Il Sultano aveva contatti più stretti con i paggi della camera privata, l’agha del cancello, l’agha delle ragazze o con altri cortigiani che con il Gran Visir e anche costoro potevano presentare petizioni al Sultano, loro proprie o per conto di altri. Egli poteva, anche essere più propenso  a farsi consigliare da sua madre, una concubina o dal capo dei giardinieri al timone della lancia da parata che dal gran visir. Lo scrittore di consigli Kochi Bey, che presentò un trattato a Murad IV nel 1631-32, considerava l’interferenza dei cortigiani nel governo come un male recente, commentando che i gran visir dopo Dervish Mehmed Pasha e Nasuh Pasha “di necessità obbedivano e concordavano con i cortigiani del Palazzo interno, e non risparmiavano i loro sforzi per fare qualsiasi cosa questi volessero”. Questo, comunque, sembra improbabile. Non può esserci stato alcun periodo in cui coloro che erano alla presenza della persona del Sultano non influenzassero le sue decisioni.

 

 

 

LE PROVINCE: PROVINCE

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  Le province, nel senso di unità territoriali fissate, con governatori che il Sultano aveva nominato, probabilmente non esistettero nell’Impero Ottomano prima delle ultime due decadi del quattordicesimo secolo. E’, comunque, probabile che nei primi anni dell’Impero Osman (m.c. 1324) e Orhan (c. 1324-62) dividessero il loro territorio in appannaggi per i loro figli, altri membri della famiglia e i loro seguaci più importanti. L’unico riferimento alla suddivisione del territorio da parte di Orhan appare nelle inaffidabili cronache ottomane del tardo quindicesimo secolo, che rilevano che “Egli diede lo stendardo (sanjak) di Karahisar, noto come Inönü, a suo figlio Orhan; e diede il comando del suo esercito (subashilik) al figlio di suo fratello, Alp Gündüz…” questo racconto di come Osman dividesse il territorio e il comando militare potrebbe non essere vero in dettaglio ma forse riflettere una realtà. La pratica di dare appannaggi e comandi nell’esercito ai figli del sovrano  acquista una veste più precisa nelle cronache bizantine. Giovanni Cantacuzeno nomina il fratello di Orhan, Pazarlu, come comandante alla  battaglia di Pelekanon nel 1328. Di maggiore rilevanza  il fatto che fu il figlio maggiore di Orhan, Süleyman, che condusse i turchi attraverso i Dardanelli nel 1352 per occupare la fortezza bizantina di Tzympe, e che fu con Süleyman che Orhan istruì  l’imperatore di negoziare nel suo tentativo di riguadagnare la fortezza. Sembrerebbe dunque che, fino alla sua morte nel 1357, Süleyman fosse governatore e comandante dell’esercito nel territorio ottomano di nuova acquisizione in Tracia. Il cronista e teologo greco Gregoras, nota anche che, nel 1357, il terzo figlio di Orhan, Halil, aveva ricevuto terre lungo il golfo di Izmit da sul padre, presumibilmente come appannaggio. Il nome tardo per il distretto di Bursa, Hüdavendgar – che significa “governante” – suggerische che questo era il territorio appartenente ad Orhan stesso. Su queste esili basi, si potrebbe forse speculare che, al tempo della morte di Orhan nel 1362, era diventato costume destinare delle terre come appannaggi di principi ottomani, insieme forse con il comando delle truppe che le terre potevano sostenere e altri obblighi o tasse militari . Questo non era ancora un sistema di governo provinciale, e invero, in questo periodo il principato ottomano stesso non aveva una dimensione di molto superiore ad una provincia. Nondimeno, alcuni degli elementi del successivo sistema sembrano essere già al loro posto. Il ritratto di Orhan nei primi anni ’30 del 1300 che Ibn Battuta offre, suggerisce che egli era in quel periodo un sovrano che interveniva personalmente in tutto il suo reame, piuttosto che uno che delegava ampiamente l’autorità ai comandanti locali. Comunque, con l’aumentare dell’età e delle dimensioni del suo principato, egli fu felice negli anni ’50 di delegare la conquista e l’insediamento della Tracia a suo figlio Süleyman, che divenne, di fatto, il governatore di una “provincia” occidentale. Così, per la fine del regno di Orhan, due elementi del governo sembrano essere emersi. Uno era la delega del comando militare, ancora, in quest’epoca, ai familiari del sovrano; l’altro era la concessione di appannaggi, che presumibilmente portavano anche una obbligazione di servizio militare.

  Questi erano gli elementi che rimasero al loro posto nel sistema più tardo di governo provinciale. I governatori ricevevano dai sultani appannaggi o conferme di appannaggi che giù avevano, in cambio dei quali essi fornivano servizio militare, comandando le truppe delle loro province sul terreno di battaglia. Perdipiù, fino al 1595, i sultani continuarono a mandare i loro figli come governatori provinciali, sebbene la loro importanza in questo ruolo diminuì come l’Impero di espanse ed essi rimasero sotto stretta sorveglianza.

  Alla fine del quattordicesimo secolo, c’era chiaramente bisogno di una organizzazione formale del territorio ottomano, a seguito delle conquiste  tra il 1362 e il 1400 di Murad I (1362-1389) e di suo figlio Bayezid I (1389-1402). Fu probabilmente durante i primi anni del regno di Bayezid che le prime due province amministrative dell’Impero Ottomano vennero ad esistenza. Ad ovest dei dardanelli si estendeva la Rumelia (Rumeli), comprendente tutte le terre conquistate in Europa. Ad est si estendeva l’Anatolia (Anadolu), comprendente tutte le conquiste in Asia Minore. Con l’espansione ad est dei regni di Bayezid negli anni ’90 del 1300, una terza provincia – la provincia di Rum – venne ad esistenza, con Amasya come sua città principale. Questa divenne la sede del governo del figlio più giovane di Bayezid, Mehmed I (1413-21), e doveva rimanere la residenza di governatori di rango principesco fino al sedicesimo secolo. Già nel 1468, con l’annessione del principato sino ad allora indipendente di Karaman, c’erano quattro province. Mehmed II (1451-81) nominò un figlio, Mustafa, come governatore della nuova provincia, con la sua sede a Konya. Ma il sedicesimo secolo vide il maggiore incremento nel  numero di province. Questo giunse in gran parte attraverso le conquiste di Selim I (1512-20) e di Solimano I (1520-66), che crearono la necessità di incorporare il nuovo territorio nella struttura dell’Impero e parzialmente attraverso la riorganizzazione del territorio esistente.

  Un elenco datato 1527 mostra otto province, con Egitto, Siria, Diyarbekir e Kurdistan aggiunte alle quattro originarie. Queste comprendevano le conquiste di Selim I ovvero, nel caso del Kurdistan, il risultato di negoziati coronati da successo. Questa provincia, comunque, non sopravvisse come entità amministrativa. Le conquiste di Solimano nella Turchia orientale, Iraq ed Ungheria portarono anch’esse alla creazione di nuove province. Il precedente principato di Dulgadir, per esempio, divenne una provincia ottomana qualche tempo dopo la sua annessione nel 1522. Dopo la campagna iraniana del 1533-36 le nuove province di Erzurum, Van, Shehrizor e Baghdad guardavano le frontiere con l’Iran. Nel 1541 ci fu la creazione della provincia di Buda, da parte del regno di Ungheria.

  Nel 1609, secondo la lista fornitaci da Ayn Ali, c’erano trentadue province. Alcune di queste, come Tripoli, Cipro o Tunisi erano il bottino delle conquiste. Altre, comunque, furono il prodotto di divisioni amministrative. Quando Solimano I nominò Hayreddin Barbarossa ammiraglio nel 1533, questi ricevette il posto come governatore generale delle isole, una provincia che il Sultano aveva creato  specificamente  per Hayreddin, distaccando distretti dalle coste e isole dell’Egeo che erano stati sino ad allora parti delle province di Rumelia e Anatolia e unendoli come una provincia indipendente. Dovevano in seguito esserci simili cambiamenti in Rumelia. Nel 1580, per esempio, la Bosnia, in precedenza un distretto della Rumelia, divenne una provincia a sé, presumibilmente in vista della sua posizione strategicamente importante  ai confini con gli Asburgo. Considerazioni simili condussero alla creazione della provincia di Kanizsa dai distretti confinanti con questa fortezza di confine, che erano caduti in mano ottomana nel 1600. Nello stesso periodo, l’annessione dei distretti di Rumelia sul basso Danubio e sulla costa del Mar Nero e la loro aggiunta ai territori tra il Danubio e il Dniepr lungo il Mar Nero, creò la provincia di Ochakov (Özi). Allo stesso tempo, sulla costa sud-orientale del Mar Nero nacque la provincia di Trabzon. Nelle parole di Ayn Ali: “unendo i distretti di Trabzon e Batu, e annettendoli a Gümüşhane e Maçka, fu creata una provincia”. Lo scopo di questa riorganizzazione, e specialmente la creazione della provincia di Özi era presumibilmente  il miglioramento della difesa dei porti del Mar Nero contro i Cosacchi.

  Le province, dunque, vennero ad esistenza  inizialmente attraverso la conquista, e successivamente attraverso la riorganizzazione di territorio ottomano esistente. Nel primo secolo dell’espansione ottomana, comunque,  le conquiste non portarono sempre all’annessione del territorio. Piuttosto, ci fu una tendenza a tenere al loro posto le dinastie regnanti delle terre conquistate e di chiedere loro il pagamento di un tributo annuale e la fornitura di truppe per gli eserciti del Sultano. La posizione degli zar della famiglia Sisman di Bulgaria dopo circa il 1370, o di Stefano Lazarevic di Serbia dopo la sua accettazione della sovranità ottomana nei primi anni ’90 del 1300, sono esempi di questo tipo di soluzione. Fu il rifiuto dello zar Sisman di fornire truppe per Murad I nel 1387 che condusse alla campagna punitiva del Sultano contro la Bulgaria l’anno successivo; e le truppe serbe di Stefano Lazarevic combatterono negli eserciti di Bayezid nella battaglia di Nicopoli nel 1396 e nella battaglia di Ankara del 1402. Per i sultani i principati vassalli svolgevano in gran parte le stesse funzioni delle province amministrate direttamente: rifornivano il tesoro e le truppe. Comunque, a dispetto del sistema usato talvolta di legare a sé le dinastie per mezzo del matrimonio o di tenere come ostaggio di un figlio del sovrano vassallo presso la corte ottomana, il controllo di un principato dinastico era meno sicuro che il controllo di una provincia governata direttamente.

  Dalla fine del regno di Bayezid I, ma specialmente dalla ascesa al trono di Mehmed II, divenne più consueto nominare governatori ottomani che fare affidamento su vassalli. Nel 1395, per esempio, Bayezid I giustiziò l’ultimo zar dei Sisman di Bulgaria, e annetté il suo regno alla provincia di Rumelia. Le dinastie originarie non dovevano comunque semplicemente sparire. C’era piuttosto una tendenza da parte del Sultano a nominare membri delle dinastie deposte, o almeno coloro che sopravvivevano alla conquista e non fuggivano, come governatori provinciali nell’Impero, lontano dalle loro terre ereditarie. Così, per esempio, il prigioniero bavarese Shiltberger menziona un certo “Schuffmanes” – ovviamente della famiglia Sisman – come governatore di un distretto dell’Anatolia vicino al Mar Nero nel 1398. Nel registrare gli eventi nell’Anatolia occidentale circa venti anni dopo, il cronista greco Doukas notava un governatore chiamato “Sousmanes”, evidentemente dalla stessa famiglia. Similmente, ci sono documenti nel quindicesimo secolo riguardanti membri della famiglia Zenevis, che Mehmed I (1413-21) aveva espulso da Gjirokastër in Albania, che servivano come governatori provinciali ottomani. Nel 1461, Mehmed II espulse l’ultimo della dinastia di Isfendyar da Sinope, compensandolo con terre vicino a Bursa in cambio del suo territorio ereditario. Il principato Isfendyaride nel mentre divenne un distretto della provincia dell’Anatolia. Come mostrano questi esempi, le vecchie dinastie spesso acquistarono un nuovo status come membri della élite provinciale ottomana. Era una posizione, comunque, che richiedeva che riconoscessero la perdita delle terre dinastiche, e accettassero il fatto che la loro nomina alla carica e l’assegnazione di entrate dipendeva adesso dalla volontà del Sultano ottomano.

  Entro il 1500 le quattro province centrali dell’Impero – Rumelia, Anatolia, Rum e Karaman – erano sotto il dominio diretto. Il Sultano, comunque, continuò a  mantenere un sistema di principati tributari a nord del Denubio. Valacchia, Moldavia e il Khanato di Crimea, territori che Mehmed II aveva portato sotto la sua sovranità, rimasero sotto il controllo delle dinastie originarie tributarie del sovrano. Così, anche, divenne il regno di Ungheria dopo la battaglia di Mohacs nel 1526. Sembra che solo la necessità di contrastare le pretese asburgiche al regno e di organizzare una frontiera militare contro l’Austria persuasero Solimano di annettersi parte dell’Ungheria come una provincia governata direttamente dagli ottomani dopo la morte del re nel 1540. La Transilvania, comunque, rimase un regno che doveva fedeltà al Sultano.

  Entro il 1550, dunque, Transilvania, Valacchia, Moldavia e il Khanato di Crimea rimasero  sotto il governo delle dinastie originarie che pagavano il tributo al Sultano. Similmente alcune enclavi sotto il governo di signori locali sopravvissero in Turchia e nei territori arabi, ma questi ora formavano distretti all’interno di province più larghe. Entro la metà del sedicesimo secolo, a parte i principati a nord del Danubio, tutte le province finirono sotto il governo diretto del Sultano. I governatori generali erano tutti di sua nomina e egli poteva rimuoverli o trasferirli a sua discrezione. La durata del loro ufficio era limitata: i governatorati non erano ereditari e nessuno poteva servire come governatore per tutta la vita. Le entrate di un governatore generale dipendevano anch’esse  dal Sultano. Al momento della nomina, riceveva una prebenda consistente di una frazione ben definita delle entrate, riscosse entro i confini della provincia. Questa concessione, che poteva in qualche caso ammontare a più di un milione di akce all’anno, poneva i governatori generali tra gli uomini più ricchi dell’Impero. La prebenda, comunque, dipendeva dalla nomina e, a meno che il governatore non fosse ricco di suo, non avrebbe avuto alcuna entrata quando fosse stato privato dell’ufficio. Egli avrebbe anche ricevuto altri emolumenti, ma anche questi erano collegati all’ufficio, che, a sua volta, dipendeva dal Sultano. Un governatore generale, dunque, non era permanente e non aveva una base territoriale nella provincia e nessuna entrata nella provincia che sopravviveva alla sua permanenza in carica.

  La parola turca per governatore generale è beylerbey, che significa semplicemente “Signore dei signori”. Non c’è nessuna fonte ottomana dei primi tempi che registri questo termine ma la cronaca di Sshikpashazade del tardo quindicesimo secolo ci dice che nel quattordicesimo secolo aveva il significato di “comandante dell’esercito”. Specificamente la ricollega al comandante in Europa di Murad I, Lala Shahin, e al suo successore, Kara Timurtash. Probabilmente intorno al 1400, essa aveva acquistato il senso di “Governatore generale di una provincia”. Questo non era comunque tanto un cambio di significato quanto una estensione, dal momento che il ruolo più importante di un governatore generale era comandare le truppe assegnatarie di feudi nella sua provincia. In tempi di guerra, esse si sarebbero riunite sotto il suo stendardo e avrebbero combattuto come una unità dell’esercito del Sultano. Comunque, come governatore territoriale il beylerbey ora aveva responsabilità più ampie. Giocava un ruolo importante nella distribuzione dei feudi nella sua provincia e aveva la responsabilità del mantenimento dell’ordine e nel dispensare la giustizia. Il suo entourage, come quello del Sultano nella capitale, era il centro politico della provincia.

  Il mercante genovese alla corte di Maometto II, Iacopo de Promontorio, ha lasciato una decrizione del governatore generale di Rumelia intorno al 1475, che dà un buon resoconto delle funzioni di un governatore generale tra il 1400 e il 1600 circa: “il beylerbey di Rumelia ha sotto di sé 17 capitani, ciascuno con un proprio seguito…; e oltre questo ha in particolare sotto di sé 1.500 combattenti con il proprio soldo, che egli paga con i suoi fondi. Ha una rendita in Rumelia di 32.000 ducati, tramite diversi benefici  e, inoltre, notevoli emolumenti, principalmente 4.000 ducati dai suddetti capitani, e similarmente dal notevole numero di altri meno importanti uffici, che concede a chiunque lui voglia. Tuttavia è obbligato, in tempi di guerra, a portare con sé, a proprie spese, i suddetti uomini, tutti a cavallo, un terzo di essi con arco, frecce, corazza, cotta di maglia, scudo, spada, lancia e mazza di ferro, con 150 cavalli con corazza, tutti in buono stato; il resto con archi, frecce, spade, scudo, mazza e lancia, a parte quelli a cui il signore stesso concede corazze, elmetti, archi e cotte di maglia. Egli tiene corte a palazzo in grande stile, come il Gran Turco, in accordo al proprio rango. Impone sentenze di morte e in tutte le altre materie agli abitanti della Rumelia e delle sue province de iure e de facto, e tutto quello che fa è approvato dal Gran Signore senza alcuna protesta. Mantiene presso di sé due ufficiali… e due giudici come deputati ad amministrare la giustizia; essi godono di 4.000 ducati per le spese della carica tra tutti e quattro, insieme con consistenti emolumenti”.

  L’ufficio di governatore generale era il più prestigioso e il più lucroso nel governo provinciale, ed era tra i governatori generali che il Sultano quasi sempre sceglieva i suoi visir. C’era anche, sembra, una gerarchia tra i governatori stessi. Il governatore più alto in grado era il Governatore generale della Rumelia, che, dal 1536, aveva il diritto di sedere nel Consiglio Imperiale. La precedenza tra i rimanenti, secondo Ayn Ali nel 1609, seguiva l’ordine in cui le province erano conquistate, sebbene egli non chiarisca se questo ordine avesse un significato diverso da quello puramente cerimoniale. Comunque, prima del 1650, ci fu un altro sviluppo. Durante questo periodo, iniziò la pratica di nominare alcuni governatori generali col rango di Visir. Un governatore visir, secondo il cancelliere Abdurrahman Pasha nel 1676, aveva potere di comando nei confronti dei governatori delle province vicine che “dovevano riferirsi  a lui e obbedire al suo comando”. Inoltre, “quando i governatori generali col grado di visir terminano l’incarico provinciale, essi hanno competenza per le cause e continuano ad esercitare il comando di visir fino a che non arrivano ad Istanbul”.

 

 

 

LE PROVINCE: I SANJAK

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  I distretti che componevano una provincia erano conosciuti come sanjak, ognuno sotto il comando di un governatore di distretto o sanjak beyi (“signore di un sanjak”). Il numero di sanjak in una provincia variava considerevolmente. Nel 1609 Ayn Ali notava che la Rumelia aveva ventiquattro sanjak, ma che sei di questi nel Peloponneso erano stati staccati per formare la provincia separata di Morea. L’Anatolia aveva quattordici distretti e la provincia di Damasco undici. C’erano, inoltre, parecchie province che non erano divise in sanjak. Queste, nella lista di Ayn Ali, erano Basra e parte della provincia di Baghdad in Iraq, Al-Hasa nel nor-est dell’Arabia, e Egitto, Tripoli, Tunisi e Algeri nel Nord-Africa. Egli aggiunge alla lista lo Yemen, notando che “al momento gli Imam ne hanno usurpato il controllo”.

  Queste province erano, comunque, eccezioni: la tipica struttura era quella della provincia suddivisa in sanjak. Intorno al sedicesimo secolo, questi presentavano una struttura amministrativa razionale dei territori, basata normalmente sulla città o l’insediamento dal quale il sanjak prendeva il suo nome e con una popolazione di circa 100.000 persone. Comunque, questo non era sempre il caso.

  Sembra più probabile che prima della metà del quindicesimo secolo, il fattore più importante nel determinare la struttura dei sanjak era l’esistenza di precedenti signorie e principati, e di aree dove i signori di frontiera avevano acquisito territori per se stessi e i loro seguaci. Alcuni sanjak di fatto preservavano i nomi delle dinastie che vi avevano regnato prima della conquista ottomana. Il gruppo di nomi più singolare  appare nell’Anatolia occidentale, tra le coste dell’Egeo e del Mediterraneo e l’alto plateau. Qui i sanjak di Karesi, Saruhan, Aydin, Menteshe, Germiyan, Hamid e Teke preservano i nomi di dinastie che esistevano prima della conquista. In Rumelia, Kyustendil in Bulgaria è una contrazione di “Konstantin-eli” (“terre di Costantino”), menzionate col nome del loro signore, Constantine Dejanović, ucciso in battaglia nel 1395. Karlieli (“terre di Carlo”) in Epiro mantiene la memoria del suo precedente signore, Carlo Tocco, che morì nel 1429. Il nome del sanjak di Dukakin nell’albania del nord è un ricordo della signoria locale del clan Dukagjin (“Duca Giovanni”).

  La lista di Iacopo de Promontorio dei diciassette – ai suoi tempi – sanjak di Rumelia ci fa capire come l’amministrazione ottomana manteneva i confini delle signorie pre-ottomane. L’Albania e divisa da lui in due: “Albania degli Araniti”, comprendengte le terre del sud, che appartenevano fino agli inizi del quindicesimo secolo al clan degli Araniti, e “Albania di Scanderbeg”, comprendente le terre più a nord che erano appartenute alla famiglia Castriota, e specialmente al suo membro più famoso, Scanderbeg, che aveva resistito al dominio ottomano tra il 1444 e il 1466. La Bosnia in questa lista appare avere due sanjak, l’autoesplicativo “Regno di Bosnia” e l’”Altra Bosnia”, presumibilmente l’Erzegovina. Anche la Serbia è divisa da Iacopo in “Serbia di Lazar”, in riferimento al territorio del principe Lazar, che perdette la vita nella battaglia di Kosovo del 1389, e la “Serbia del Despota”, presumibilmente le terre di Giorgio Brankovic lungo il Danubio.

  Nel periodo immediatamente successivo alla conquista, i sanjak ottomani mantennero più che i nomi dei precedenti governanti. Dove sopravvivono i registri catastali delle terre conquistate, essi spesso rivelano i nomi di tenutari di feudi che evidentemente avevano occupato la stessa posizione prima della conquista. Per esempio, il registro catastale della Albania del sud, datato 1431, mostra un numero di tenutari cristiani, che erano chiaramente sopravvissuti dai precedenti regimi. Nel confine orientale dell’Impero il primo registro catastale del sanjak di Amid, fatto nel 1518, designa un gruppo di tenutari come “Akkoyunlu”, evidentemente uomini del clan o nominati dalla dinastia degli Akkoyunlu che aveva governato l’area fino al 1503. Questi sopravvissuti  garantivano una continuità tra il vecchio ordine e il nuovo. Nondimeno, è egualmente chiaro che i nuovi signori ottomani cercavano di controbilanciare l’influenza di questi rappresentanti del vecchio regime dando anche feudi nei distretti di nuova conquista a uomini provenienti da aree distanti dell’Impero. Il registro del 1431 dell’Albania mostra un gruppo di tenutari “di Saruhan”. Questo è il vecchio principato dell’Anatolia occidentale che Mehmed I aveva alla fine annesso nel 1417, nello stesso tempo in cui le sue forze avevano occupato l’Albania del sud. Ciò che Mehmed fece fu rimuovere i tenutari di feudi di Saruhan dove essi avevano connessioni locali, e trasferirli in Albania, dove non ne avevano. La loro unica fonte di patronato e protezione era il Sultano ottomano, i cui interessi essi avrebbero dunque protetto da ribellioni locali. Il registro del 1518 di Amid mostra l’applicazione dello stesso principio. Gli Akkoyunlu del sanjak avevano terre di modesto valore: il feudo di maggior valore era andato ad un uomo registrato come “della Rumelia”.

  La pratica di controbilanciare tenutari locali con tenutari non locali nelle terre di nuova conquista probabilmente datava dall’inizio del quindicesimo secolo. Nella battaglia di Ankara del 1402, una importante causa della sconfitta di Bayezid I fu la diserzione a favore di Timur di truppe dai vecchi principati dell’Anatolia occidentale, che Bayezid aveva annesso nel 1390. Questi uomini disertarono quando videro i loro precedenti signori nell’armata di Timur. Fu forse questa esperienza che convinse i sultani della necessità di importare elementi forestieri  nei distretti appena conquistaati come un contrappeso ai tenutari locali che erano sopravvissuti al cambio di regime e di deportare alcuni degli uomini locali in province distanti dove non avevano connessioni.

  Immediatamente dopo la conquista, dunque, un sanjak ottomano spesso manteneva i confini di una signoria pre-ottomana, e normalmente aveva una élite di tenutari di feudi composta da sopravvissuti dal vecchio regime e da nuovi  insediati e deportati. Nel giro di una generazione, i sopravviventi e i loro discendenti avrebbero spesso perso la loro identità non-ottomana, in particolare attraverso la conversione dei cristiani all’Islam. Con la loro assimilazione un’area che era stato un principato indipendente, o parte di uno, sarebbe diventata un tipico sanjak ottomano. Il passaggio del tempo poteva anche portare cambiamenti nei confini dei sanjak. Per esempio la lista di sanjak del veneziano  Lauro Quirini, che sembra riflettere la distribuzione del 1430, elenca Bergama e Manisa come unità indipendenti. Al tempo successivo di Iacopo de Promontorio nel 1475, essi erano divenuti parte dei sanjak di Kaesi e Saruhan rispettivamente.

  Non tutte le province e sanjak comunque persero la loro specifica identità. Le difficoltà che Maometto II e Bayezid II (1481-1512) incontrarono nel sopprimere la dinastia di Karaman indicano come forti particolarismi locali potevano continuare ad esistere. Perdipiù, alcuni pochi notabili mantenevano diritti ereditari al governo.  Importanti tra questi erano i signori delle province di frontiera, che già nel quattordicesimo secolo erano emersi come una forza politica in Rumelia. Le loro origini non sono chiare, ma alcuni si erano chiaramente convertiti all’Islam e si erano uniti ai turchi invasori. Il nome di una di queste famiglia, Mihaloglu – “figli di Michele” – era così chiaramente cristiano che durante il quindicesimo secolo emerse una leggenda che descriveva la conversione del primo “Michele” e la sua associazione con Osman, il primo della linea genealogica ottomana. Il nome di un'altra famiglia di una marca di frontiera , Malkochoghlu, appare essere anche qui una forma turca dello slavone “Marković”, suggerendo che si tratti dei discendenti di Marko, un signore macedone, il cui padre, Vlkashin, aveva perso la sua vita nella battaglia di Maritsa nel 1371. Comunque, il più grande dei signori di frontiera ad emergere nel quattordicesimo secolo era Evrenos, la cui lapide ricorda il nome di suo padre come Isa, indicando una discendenza musulmana turca. I nomi degli altri signori di frontiera, come Turahan, che emerge nella prima metà del quindicesimo secolo, suggeriscono anch’essi origini turche.

  Questi signori non solo comandavano gli eserciti  ottomani in Rumelia, ma esercitavano anche poteri politici. Evrenos, per esempio, era un negoziatore nei colloqui che portarono al trattato di Gallipoli nel 1403. Suo figlio, Barak, condusse negoziati con Venezia nel 1409. Mihaloglu Mehmed servì sia il principe Süleyman che il principe Musa durante la guerra civile del 1402-13. La sua diserzione a favore del principe Mehmed nel 1411 fu un importante fattore nella confitta di Musa. Cosa più importante, comunque, i signori di frontiera emersero come magnati territoriali. Il nucleo dei vasti possedimenti di Evrenos era intorno Yiannitsa nella valle del Vardar a ovest di Tessalonica, mentre i Migaloghlu erano signori di Vidin, sul danubio, nella Bulgaria nord-occidentale. Come signori territoriali essi e i loro discendenti mantennero diritti ereditari al governatorato in Rumelia. Lauro Quirini, per esempio, registra un sanjak nella Grecia centrale sotto il nome del suo signore, Turahan. Questo sanjak era scomparso al tempo in cui Iacopo fece la sua lista nel 1475, ma la famiglia di Turahan continuò ad occupare posizioni come governatori di sanjak. “Evrenos”, d’altra parte, appare sia nella lista di Lauro e di Iacopo  come designazione del sanjak che comprendeva le terre della sua famiglia in Macedonia. Iacopo aggiunge la nota: “un gran signore, già  Ali Bey figlio di Evrenos… [dei 1500 guerrieri del sanjak] la maggioranza  sono suoi schiavi”. Nel sedicesimo secolo il nome “Evrenos” come designazione di un sanjak era scomparso, sebbene le terre di famiglia rimanevano intatte, e membri della famiglia mantenevano un diritto ereditario al governatorato. La lista di sanjak del 1527 registra un membro della famiglia Evrenos come governatore di Kruševac in Serbia, e membri della famiglia Mihailoglu come governatori di sanjak di Vidin e Nikopol sul Danubio in Bulgaria. Fu a membri della famiglia Malkoch che il Sultano assegnò il governatorato ereditario della Bosnia dopo la sua conquista nel 1463.

  I poteri locali e le pretese agli uffici dei grandi signori di frontiera e dei loro discendenti limitavano la discrezionalità del Sultano nell’organizzare il territorio e nel fare nomine ai governatorati in Rumelia. Nondimeno, sembra che almeno dalla metà del quindicesimo secolo, i sovrani ottomani tentarono di  restringere la loro influenza. Non sembra che essi  avessero più parte nei consigli centrali di governo, come avevano nel quattordicesimo ed inizio del quindicesimo secolo, e sembra che nessuno di essi sia arrivato oltre il rango di governatore di sanjak. Le famiglie, comunque sopravvissero – nel caso delle famiglie Evrenosoghlu e Muhaloghlu, fino ad oggi – e la loro influenza locale continuò.

  Dinastie semi-indipendenti anche sopravvissero in alcune aree delle province anatoliche ed arabe. Questo non erano, comunque discendenti dei signori ottomani di frontiera, ma piuttosto signori che erano localmente tropp potenti per poter essere rimossi dal Sultano. Per esempio, nelle paludi dell’Iraq meridionale e nelle propaggini desertiche dell’Arabia il Sultano si sforzò  di guadagnarsi la fedeltà di capi tribali di fatto indipendenti dando loro il titolo di Governatore di sanjak. Fu ad esempio con questi mezzi che Selim II (1566-74) nel 1567 tentò di porre fine alla ribellione dell’arabo delle paludi, Ibn Ulayyan, nel delta del Tigri e dell’Eufrate. Nella Turchia del sud-est, i territori dei signori curdi erano anch’essi semi-indipendenti. Erano divenuti parte dell’Impero dopo la battaglia di Chaldiran nel 1514, come risultato di negoziati con l’agente di Selim I (1512-20), Idris di Bitlis. Nel 1609, Ayn Ali annotò il loro status formale. Elencando i sanjak della provincia di Dyarbekir egli nota che essa possiede dieci “distretti ottomani” e, in aggiunta, sei “distretti dei signori curdi”. In questi casi, quando un signore moriva, il governatorato non andava ad un estraneo, ma a suo figlio. Sotto altri aspetti, comunque, essi apparivano simili a normali sanjak ottomani nel fatto che le entrate erano registrate ed allocate a tenutari di feudi che andavano in guerra sotto i loro signori. In aggiunta, comunque, Ayn Ali  notava che c’erano cinque “sanjak sovrani” con i loro signori di cui veniva disposto come “proprietà privata”, e che erano al di fuori del sistema del governo provinciale. Ayn Ali  registra simili distretti indipendenti o semi-indipendenti nella provincia di Çildir nella Turchia del nord-est e, più famosi, nella provincia di Van dove i Khan di Blitis governavano indipendentemente fino al diciannovesimo secolo. C’erano altre aree, anche che godevano di autonomia o semi-autonomia. Nella seconda metà del sedicesimo secolo, Kilis divenne governatorato ereditario della famiglia Janbulad, mentre Adana rimase sotto il dominio della dinastia pre-ottomana dei Ramazanoghlu. Nel Libano, Ayn Ali si riferisce ai capi drusi con la nota “ci sono signori non-musulmani sulle montagne”

  C’erano altre enclavi autonome nell’Impero, che ricevessero o meno  riconoscimento formale come sanjak ma, arrivati al sedicesimo secolo, queste erano delle eccezioni. La maggior parte dei sanjak in tutto l’Impero erano sotto il governo di persone nominate non ereditariamente, che non avevano relazioni familiari o territoriali permanenti con l’area.

  L’ufficio di governatore di sanjak era simile a quello di governatore generale in una scala più modesta. Come il governatore generale il governatore di sanjak traeva il suo reddito da una prebenda, che consisteva normalmente di rendite dalle città, attracchi , porti presenti nei confini del suo sanjak. In aree dove non esistevano città o dove le entrate che tipicamente andavano al governatore di sanjak erano state assegnate al governatore generale o al Sultano, allora avrebbe tratto le sue entrate da imposte agricole. Il primo registro catastale ottomano di Shköder nell’Albania del nord, per esempio, mostra che nel 1485, le rendite dei dazi, degli attracchi e dall’industria della pesca del lago Boyana erano state assegnate al Sultano, mentre il governatore del sanjak traeva le sue rendite dalla città di Paje e dai villaggi circostanti. Un governatore di sanjak di prima nomina poteva ricevere da 150.000 a 200.000 akce all’anno. Per la metà del sedicesimo secolo, 200.000 sembra essere stata una cifra normale. Egli poteva, comunque, ricevere un incremento delle sue entrate, sia come ricompensa per la bravura in battaglia o per qualche altra ragione o ricevendo una nomina nuova e più lucrativa nell’area. Un governatore anziano di sanjak poteva aspettarsi di ricevere da 500.000 a 600.000 akce, probabilmente mentre serviva in un distretto con alto reddito.

  Come il governatore generale, il governatore di sanjak era anche un comandante militare. il termine sanjak significa “bandiera” o “stendardo” e, in tempi di guerra, i cavalieri che avevano feudi nel suo sanjak si radunavano sotto il suo vessillo . Le truppe di ciascun sanjak, sotto il comando del loro governatore, si sarebbero aggregate come un esercito e combattevano sotto la bandiera del governatore generale della provincia. In questo modo, la struttura di comando sul campo di battaglia rispecchiava la gerarchia dei governi provinciali.

  All’interno del suo sanjak, un governatore era responsabile soprattutto per il mantenimento dell’ordine e, con la cooperazione dei tenutari di feudi, per l’arresto e la punizione dei malfattori. Per questo, normalmente riceveva metà delle multe imposte sui miscredenti, con il tenutario di feudo sulle cui terre si era verificato il misfatto che riceveva l’altra metà. I governatori di sanjak avevano anche altri doveri – per esempio la caccia ai banditi, le indagini sugli eretici, la fornitura di provviste per l’esercito, o l’invio di materiali per la costruzione di navi – se il Sultano lo comandava. I governatori sulle frontiera avevano anche funzioni militari speciali. Verso la fine del quindicesimo secolo, per esempio, il governatore sanjak di bosnia aveva il dovere di fare raid annuali, normalmente in Ungheria. Similarmente, la famiglia Mihaloghlu non solo deteneva il governatorato ereditario di Vidin, ma anche il comando dei razziatore (akinci), le truppe che nel quindicesimo e sedicesimo secolo avevano terre esenti da imposte in Rumelia in cambio di raid annuali attraverso il danubio o della funzione  di avanguardia e truppe d’assalto  dell’esercito ottomano. I governatori di sanjak nelle regioni di confine potevano allo steso modo avviare negoziazioni con l’altra parte del confine riguardo, ad esempio, la restituzione di schiavi fuggiti o il ritorno di prigionieri, secondo i termini dei trattati.

  Un governatore di sanjak non aveva, comunque, autorità su tutti i sudditi del sovrano nel suo distretto. Ciò che definiva l’autorità era soprattutto il diritto di prelevare imposte e specificamente i diritti di intascare le pene pecuniarie. I governatori di sanjak prelevavano imposte da terre e proprietà che avevano come prebende, e chiaramente avevano piena autorità in queste aree, come avevano anche riguardo le terre assegnate ai tenutari di feudi, dove avevano usualmente il diritto di intascare metà delle pene pecuniarie. Comunque, alcune aree o proprietà formavano una prebenda del Sultano o del governatore generale, e alcuni feudi erano “liberi”, ciò che significava che il tenutario teneva per sé tutte le pene pecuniarie. In queste aree, gli uomini del governatore di sanjak non avevano diritto di entrare. In aggiunta, le terre e le proprietà private, e quelle che appartenevano alle fondazioni, non ricadevano sotto l’autorità del governatore del sanjak. A questo riguardo, il governo entro un sanjak non era uniforme. Province e sanjak non erano, comunque, le uniche divisioni amministrative dell’Impero. Ogni paese e città nei regni del Sultano aveva un giudice, che agiva come giudice e notaio nel suo distretto giudiziale, e anche come ufficiale reale che assicurava l’esecuzione dei comandi del Sultano. Il giudice, a differenza del governatore del sanjak, aveva autorità in tutta la sua area, con il suo potere che formava ciò che è stato chiamato “un sistema parallelo” di amministrazione.

  Prima del 1600 circa il governatore del sanjak, oltre il giudice, era forse la figura più importante nella amministrazione provinciale ottomana. Nondimeno la mancanza di documenti risalenti a prima della metà del sedicesimo secolo rende impossibile sapere chi erano i governatori dei sanjak o come progredivano le loro carriere. Prima del sedicesimo secolo, molti presumibilmente detenevano diritti ereditari come discendenti di precedenti signori o dinastie. Oltre queste, i sultani dovevano aver nominato alcuni uomini cresciuti nella loro casa. Agli inizi del sedicesimo secolo una struttura chiara era emersa.

  Come era stato il caso sin dal quattordicesimo secolo, figli dei sultani regnanti ricevevano governatorati di sanjak una volta raggiunta l’età della pubertà. Secondo il cosiddetto “libro delle leggi di mehmed il conquistatore” i membri maschili della famiglia reale in linea femminile avevano anch’essi il diritto di ricevere un governatorato di sanjak, ma non a nomine superiore a questa. Le famiglie dei signori di frontiera della Rumelia avevano anche un diritto automatico, o a un governatorato in generale o a quello di uno specifico distretto. Nella Turchia orientale e nell’Iraq del nord, i signori curdi e i govarnatori di “sanjak sovrani” governavano per diritto dinastico. Un numero molto maggiore di governatori di sanjak, comunque, erano diplomati del Palazzo e, in questo senso, membri della stessa casa del Sultano. Un libro di leggi del regno di Selim II di fatto elenca i quindici “agha dello sperone” aventi le qualifiche per il governatorato. Questi erano l’agha dei giannizzeri e il suo secondo in comando, i comandanti delle sei divisioni della cavalleria di palazzo, il Cancelliere, il Maestro dello stendardo, il Capo portiere, il Maestro delle stalle, il Capo assaggiatore e il Capo falconiere. Nel 1609, Ayn Ali doveva ripetere questa lista con alcune omissioni. Non è chiaro se a promozione a governatore di sanjak era sempre così lineare, ma alcune carriere seguivano certamente questo percorso. Lutfi Pasha, per esempio, che doveva divenire gran visir nel 1539, aveva servito come maestro dello stendardo e capo portiere nel Palazzo prima di “uscire” per diventare governatore di sanjak di Kastamonu. Sokollu Mehmed, che doveva divenire gran visir nel 1566, aveva servito come portiere prima di “uscire” nel 1546 come governatore di sanjak di Gallipoli e come ammiraglio.

  Comunque i governatori di sanjak che erano stati promossi da queste posizioni di rango più elevato  nel palazzo formavano una minoranza. Ce n’erano molti di più che si erano spostati dal palazzo o dal servizio del governo centrale, a un posto minore nel governo provinciale come intendente dei registri dei feudi e da lì erano avanzati fino a diventare un governatore di sanjak. Negli anni ’70 del 1500, più di un terzo di governatori provinciali avevano raggiunto  la loro posizione attraverso questa via. Un gruppo più piccolo, – poco più del dieci per cento in questo periodo – doveva la sua ascesa al fatto di essere un parente o un membro della casa del governatore. Questo schema di reclutamento era probabilmente tipico del sedicesimo secolo fino agli anni ’80 del 1500.

  La durata di un governatore di sanjak era normalmente meno di tre anni. Come regola, poteva attendersi una nuova nomina in un differente sanjak, spesso nella stessa provincia o regione, e spesso con la possibilità di un incremento del valore della sua prebenda La procedura per la nuova nomina non è chiara in tutti i suoi aspetti. I documenti indicano che era il governatore generale  che raccomandava il candidato, che doveva presentare la raccomandazione al Gran Visir, per essere raccomandato al Sultano. Quando il Sultano aveva approvato, il Consiglio Imperiale avrebbe mandato un decreto al Governatore generale informandolo della nomina e ordinandogli di mettere insieme le prebende  da cui il nuovo governatore del sanjak doveva trarre le sue entrate. Il governatore generale  avrebbe allora dato al candidato un memorandum di nomina da portare al Palazzo, dove egli avrebbe ricevuto lettere patenti che gli conferivano la sua nuova posizione. Era a questo punto che egli ufficialmente assumeva l’ufficio.

  I governatori di sanjak non potevano, dunque fare carriera in un unico sanjak. Ciascun incarico era, come regola, di breve durata, sebbene lo spostamento da distretto a distretto consentiva di incrementare  le entrate a ciascun nuovo incarico. Perdipiù, durante il quindicesimo e sedicesimo secolo, rivestire il ruolo di governatore di sanjak era, come regola, un passo necessario per cercare la promozione a governatore generale. Al di fuori dei sanjak ereditari,comunque, ogni nomina era un dono del Sultano, e gli spostamenti frequenti impedivano al governatore di acquistare un forte seguito locale e di stabilirsi come signore indipendente.

 

 

 

LE PROVINCE: I FEUDI

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  Le terre senza un sanjak ricadevano normalmente in tre categorie. Anzitutto c’erano le terre di proprietà privata. In secondo luogo, c’era la terra che faceva parte di una fondazione, e in terzo luogo c’era la terra che era a disposizione del Sultano. Le terre private erano relativamente poche, dal momento che i sultani tendevano a tenere quanta più terra possibile sotto il loro controllo, ma anche perché le leggi musulmane sull’eredità ponevano l’accento sulla divisione della proprietà tra gli eredi alla morte del proprietario. Le famiglie preferivano, dunque, non tenere la proprietà in questa forma. Le terre delle fondazioni, d’altra parte, erano diffuse in tutto l’Impero. Queste erano terre o proprietà le cui rendite andavano a finanziare lo scopo  che il fondatore aveva indicato nell’atto fiduciario, tipicamente una moschea, un ospizio, un ponte o una fontana. Le rendite potevano anche, comunque, andare a mantenere il fondatore, la sua famiglia e i suoi discendenti e, dal momento che le fondazioni erano perpetue e la loro proprietà indivisibile questa era la forma legale in cui le famiglie spesso preferivano tenere le loro terre. La categoria più diffusa di terre entro la maggior parte dei sanjak ottomani era comunque baglik o miri. Entrambe queste parole  avevano il semplice significato di “appartenere a” o “a disposizione del sovrano” ed erano queste terre che il sovrano distribuiva come feudi.

  I governatori di sanjak non avevano, sembra, diritto di entrare nelle terre di proprietà privata, o che appartenevano alle fondazioni, ma solo nelle terre miri. In questo senso un sanjak ottomano consisteva di un conglomerato di feudi in una particolare area, i cui assegnatari servivano in guerra  sotto il vessillo del governatore del sanjak, e aveva al suo interno certe aree dove il governatore non aveva alcuna autorità.

  Verso il 1500, la terminologia per i tenutari di feudi ottomani si era stabilizzata. Il termine per i feudi più piccoli, con un valore fino a 20.000 akce all’anno, era timar. Un feudo più grande, con un valore fino a 100.000 akce all’anno era un subashilik, conosciuto più comunemente, dopo il 1500, come uno zeamet. Il possedimento più vasto, con un valore annuale di 100.00 akce o superiore era un hass.

  Un tipico timar consisteva di un villaggio o gruppo di villaggi, e i campi intorno, che il Sultano aveva dato ad un cavaliere, che aveva il diritto di prelevare le imposte dai suoi contadini e, in cambio, forniva al Sultano servizio militare. In aggiunta, era responsabile per il mantenimento dell’ordine sulla sua terra, con il diritto normalmente si intascare metà delle pene pecuniarie dei puniti. Questi doveri richiedevano chiaramente che egli risiedesse nel suo sanjak, e normalmente sullo stesso timar, dove avrebbe anche goduto di una estensione di terra per suo uso privato. Il tenutario del timar  non possedeva comunque la proprietà della terra da cui traeva le sue rendite. Piuttosto, la teneva come una concessione che il Sultano poteva revocare e avrebbe fatto, specialmente se il cavaliere non si presentava per il servizio militare.

  La distribuzione della terra  come timar era così un modo di mantenere una ampia e permanente forza di cavalleria, che il Sultano poteva chiamare a servire nell’esercito durante ogni stagione di campagna. Erano questi tenutari di timar che  costituivano il grosso degli eserciti ottomani dalla fine del quattordicesimo alla fine del sedicesimo secolo.

  Le origini del sistema chiaramente risalivano al periodo pre-ottomano. Di maggior rilievo è il fatto che gli imperatori bizantini  cominciarono, dalla fine dell’undicesimo secolo, ad allocare terre come feudi per mantenere soldati. Essi non davano, comunque, la proprietà della terra ai soldati, e la concessione era revocabile. La parola greca per tale feudo era pronoia, e l’apparizione di questo termine nel quattordicesimo e quindicesimo secolo in Serbia e nel territorio albanese posseduto dai veneziani suggerisce che il feudo sul modello bizantino era diventato diffuso nella penisola balcanica. Sembra probabile, dunque, che quando Osman e Orhan  fecero le loro conquiste nelle bizantine Bitinia  e Tracia, essi avrebbero trovato intatto il sistema delle pronoia e come il territorio ottomano si ampliò verso occidente oltre il reame di Bisanzio i loro successori avrebbero incontrato simili strutture di tenuta di feudi. In origine, dunque, il timar ottomano sembra essere stato  un adattamento del pronoia bizantino. Sia le pronoia che i timar erano  concessioni di terra fatte dal sovrano ad un soldato; entrambe erano revocabili, e in entrambi i casi  il soldato non diventava il proprietario della terra. C’erano anche singolari similarità di vocabolario. La parola greca pronoia significa letteralmente “cura, attenzione”; il termine turco timar significa esattamente la stessa cosa. La parola greca per la tenuta di contadini su una pronoia    è zeugarion, che significa letteralmente “giogo”, “paio (di buoi)”; i termini turchi per una simile tenuta , chift o boyunduruk, significavano la stessa cosa. La unità di misura bizantina della terra, di quaranta passi è la stremma. La parola significa letteralmente “torcere”, con riferimento alla corda che misurava. L’equivalente ottomano per un lotto di quaranta passi quadrati è dönüm, una parola che significa letteralmente “girare”. IL termine ottomano per “tasse collegate  dovute al tenutario di un timar” è bad-i hava o “vento dell’aria”, una frase che sarebbe strana se non fosse che il termine bizantino per un simile gruppo di tasse è aër o aërikon. Questi termini che sono fondamentali per il tenutario ottomano suggeriscono un modello bizantino per il sistema.

  C’è ulteriore evidenza che il sistema ottomano della tenuta dei feudi era un adattamento di una pratica pre-ottomana. Nella gran parte della Anatolia centrale e sud-orientale la tenuta dei timar non si conforma allo schema che si trova in Rumelia, Anatolia occidentale e altrove nell’Impero, dove tutte le rendite di un timar andavano a sostentare un cavaliere. Invece, le rendite venivano divise. Una porzione, che includeva normalmente le imposte sulla terra stessa andavano ad un cavaliere che, come il tenutario del timar, aveva il dovere di fare il servizio militare. Questa porzione era a disposizione del Sultano per la distribuzione e la revoca discrezionale. L’altra porzione, che normalmente includeva la tassa sul raccolto, apparteneva al proprietario privato che poteva disporne come voleva. Le origini di questo sistema di rendite divise si trovano chiaramente in un periodo pre-ottomano e, dal momento che l’area  nel quale operava corrisponde pià o meno ai regni dei selgiuchidi dell’Anatolia, è ragionevole assumere che era una eredità dei selgiuchidi e dei principati che succedettero loro. I registri catastali ottomani offrono anche evidenza che indicano questa origine. Un registro risalente al tempo di Mehmed II, per esemio, registra che due porzioni private di rendite erano state comprate dal tesoro selgiuchide e dal Sultano nel 1284 e 1285. Un altro registro del 1520 annota che il Sultano selgiuchide Alaeddin II aveva concesso la porzione privata nel 1255. I registri ottomani registrano transazioni simili occorse sotto i Karaman e gli Akkoyunlu, successori dei selgiuchidi nell’Anatolia centro-meridionale e sud-orientale.  Gli Ottomani sembrano di fatto aver mantenuto più o meno intatto il sistema che trovarono.

  C’erano dunque due tipi di timar, uno dove tutte le imposte andavano a mantenere un cavaliere, l’altro dove una porzione andava a mantenere un proprietario privato. Il primo tipo discende dalla pronoia bizantina, il secondo continua la pratica dei selgiuchidi dell’Anatolia. Non sorprendentemente, quando il Sultano introduceva il sistema dei feudi nelle terre di nuova conquista, dove non esisteva in precedenza, come in Ungheria dopo il 1541, era il primo tipo di timar, con nessun proprietario privato, che introducevano.

  L’allocazione di terre come timar forniva il Sultano di un esercito permanente di cavalieri, dal momento che gli stessi cavalieri riscuotevano le imposte dai loro timar, sollevando il tesoro dall’incombenza di riscuotere le imposte e pagare  i salari. Nondimeno, il sistema presentava i suoi problemi. Primo, c’era la questione della mobilizzazione. Quando il Sultano ordinava una campagna, necessitava di conoscere il numero di truppe disponibile e le obbligazioni di ciascun uomo riguardo la fornitura di cavalli, armi, tende e seguito armato; necessitava anche di essere certo che gli uomini si sarebbero riniti e aggregati all’esercito principale nel punto designato. Tutte queste cose erano difficili quando i cavalieri erano dispersi in tutto l’Impero. Secondo, c’era il pericolo che i cavalieri, in particolare in aree remote, convertissero i loro timar in proprietà privata che sarebbe sfuggita al controllo del Sultano.

  Il governo era attento  a evitare che questo avvenisse. Faceva questo anzitutto con una sorveglianza burocratica. Subito dopo la conquista di un distretto, un ispettore  faceva un inventario delle risorse tassabili, mostrando come queste erano distribuite,come timar ai cavalieri, zeamet ai loro ufficiali o hass, assegnate al Sultano, ai governatori generali o ai governatori del sanjak. Qualsiasi problema che non riusciva a risolvere, veniva sottoposto dall’ispettore al Consiglio Imperiale. Egli sottoponeva al controllo del Sultano il prospetto completato. Una volta approvato l’ufficio catastale della capitale doveva codificare i risultati in un “registro dettagliato”. Questo tipicamente  mostrava tutte le città, villaggi, borgate, tribù e terre coltivate in un sanjak. Per ogni insediamento  o tribù  forniva i nomi dei capi maschi della casa, gli scapoli e, in alcune aree cristiane, le vedove, insieme con le terre che coltivavano. Li avrebbe annotati come “giogo”, “mezzo giogo” o “meno di mezzo giogo”. Registrava anche i senza terra. In aggiunta, il registro avrebbe mostrato il reddito stimato per ogni tassa  imposta su ogni comunità. Avrebbe mostrato come queste entrate erano divise tra tenutari dei feudi e il reddito totale annuale di ciascun feudo, che fosse timar, zeamet o hass. Una tipica annotazione in un registro avrebbe avuto dunque l’inizio: “Villaggio di X”, con sotto l’intestazione: “Timar di A, figlio di B”. Sotto ci sarebbe stata una intestazione “villaggio di X”, con sotto il nome di ciascun capofamiglia maschio, con una indicazione delle dimensioni del loro terreno. Sotto di questo avrebbe elencato le tasse che gli abitanti del villaggio pagavano, insieme con il loro reddito stimato, e finalmente una stima della somma totale, dalla informazione in questi volumi dettagliati, l’ufficio del catasto compilava registri riassuntivi,che mostravano  il tenutario del timar e gli altri beneficiari delle rendite in un sanjak, e il valore dei loro feudi. Questi registri, a loro volta, fornivano le informazioni per i registri dell’adunata  che elencavano i nomi di tutti i cavalieri in un sanjak. Erano questi  che consentivano al comandante in tempo di guerra di consultare la lista a fronte degli uomini che erano comparsi e di individuare ogni assente.

  Il problema con i registri dettagliati era che essi divenivano sorpassati  quasi immediatamente. Il registro ovviava a questa difficoltà annotando anzitutto i cambiamenti sui margini. Frequentemente, ad esempio c’erano nuovi assegnatari dei timar e, in questo caso una nota marginale avrebbe registrato il nome della nuova persona, insieme con la data e il luogo della nomina. In un dettagliato registro di Tessalonica risalente a circa il 1445, per esempio, appare una nota a margine del “Timar di Lagato Rayko”: “Morto. Impiccato quando fu provato essere un brigante. Trasferito a suo figlio Kraso. Luglio 1451, Sofia”. Un altro esempio da un registro del 1445 di Skopje annota a margine del “Timar di Musa, del seguito di Isa Bey [signore di confine]”: “Dato al giannizzero Yusuf di Stanimaka: ha reso servizio alla fortezza, 16 Luglio 1463. Campo a Kachanik”. A questo è aggiunto: “Dal momento che questo Yusuf di Stanimaka ha commesso omicidio questo timar è stato tolto  e dato al custode dei cancelli, Kirik Musa, schiavo del Sultano… Agosto 1466. Campo a Prilep”. Queste note a margine erano sufficienti per alcuni anni, ma il passaggio di una generazione richiedeva un nuovo registro. Divenne consuetudine, dunque, ogni venti anni circa, di fare un nuovo registro, registrando di nuovo tutti i dati necessari. Una copia del registro per ciascun sanjak rimaneva nell’Ufficio del Registro di Istanbul; il governatore del sanjak teneva l’altra.

  Questo sistema di tenuta dei registri metteva in grado il governo del Sultano di tenere traccia dei nomi e del numero di assegnatari di timar in tutto l’Impero, e così anche di conoscere il numero totale di cavalieri disponibili per la guerra. Rendeva anche possibile controllare la consistenza delle obbligazioni di ciascun cavaliere. Un cavaliere doveva condurre con sé in campagna non solo un cavallo, ma anche le sue armi e la sua armatura, tende e uno o due seguaci armati, il livello dei suoi obblighi dipendendo  dal valore della rendita del suo Timar. Molti dei registri che sopravvivono dal quindicesimo secolo registrano questi obblighi insieme con altri dettagli del timar. Per esempio, un timar che appare nel registro albanese del 1431-32 nota che un certo “Abdullah, [ex] paggio delle pantofole [del Sultano]” deteneva un timar del valore di 5310 akce. Per questo, egli doveva presentarsi in campagna “di persona” con armatura completa, un uomo armato, un attendente e una tenda. La pratica di scrivere queste “note su uomini e tende” nei registri scomparve nel sedicesimo secolo ma per allora  l’esistenza di un codice generale che esponeva le obbligazioni degli assegnatari dei feudi le aveva rese non necessarie. Il valore delle entrate del cavaliere, confrontato col codice, avrebbe determinato il livello delle sue obbligazioni.

  I registri erano gli strumenti più importanti attraverso i quali il Sultano sorvegliava e controllava i suoi cavalieri assegnatari di timar. La pratica stessa di distribuire terre come timar, secondo lo schema delle pronoia bizantine deve datare dalle prime decadi dell’Impero e probabilmente perfino dal tempo di Osman. La pratica,comunque, di creare dei registri, si sviluppò più tardi. I primi registri completi o frammentari datano dal 1431-32, ma questo  dimostra un sistema già sviluppato di registrazioni , suggerendo che ispettori e impiegati avevano compilato tali registri per parecchie decadi almeno. Nell’assenza di una chiara evidenza, è impossibile essere certi ma è probabile che la pratica iniziò nel regno di Bayezid I (1389-1402). Questo emerge da una diatriba contro la centralizzazione del governo sotto Bayezid, che appare nelle cronache popolari ottomane del tardo quindicesimo secolo. Queste fanno il commento che quando Hayreddin Chandarli e Kara Rüstem “vennero alla corte ottomana, essi riempirono il  mondo di sotterfugi : inventarono i registri dei conti e iniziarono ad ammassare moneta. Quando Chandarli Ali divenne Visir, l’immoralità aumentò”

  Gli ottomani evidentemente ereditarono il sistema di tenuta dei registri dagli Ilkhan, i signori supremi dell’Anatolia selgiuchide dal 1243. Questo è evidente dal fatto che il linguaggio dei registri, e dei documenti del Tesoro in generale è persiano, e dall’adozione della stessa scrittura cifrata per scrivere i numeri che appare nei resoconti degli Ilkhanidi. I registri ottomani mostrano anche alcune delle caratteristiche delle pratiche fiscali Ilkhanidi che seguirono le riforme di Ghazan Khan (1295-1304), in particolare il concetto di anno fiscale, e l’uso di una singola unità di annotazione, nel caso ottomano l’akce di argento. I registri dei timar, in particolare, assegnano ad ogni timar un valore annuale presunto in akce, ed era questa cifra che determinava le obbligazioni del cavaliere. Questi residui di pratiche evidentemente ilkhanidi nei registri suggerisce anche che fu Bayezid I che le introdusse, dal momento che fu lui che si annetté i territori selgiuchidi e ilkhanidi nella Anatolia centrale e settentrionale e, per un breve periodo, Karaman. E’ possibile che fu dalle cancellerie che trovò in queste aree che gli ottomani derivarono il loro sistema.

  Fino al tardo sedicesimo secolo, i registri furono il mezzo principale per tenere sotto controllo gli assegnatari di timar. Nel tardo quindicesimo secolo,comunque, il Sultano acquistò un nuovo mezzo di controllo. Nel 1487, durante il regno di Bayezid II, una nuova ricognizione fiscale e catastale del sanjak di Bursa diede luogo alla emissione di un nuovo registro che conteneva, come introduzione, un libro di leggi che esponeva in dettaglio le tasse e le multe dovute dai soggetti passivi del distretto ai tenutari dei feudi. In futuro, tutti i nuovi registri si aprirono con un simile libro delle leggi, che poteva fungere da fonte di riferimento nello stabilire l’entità dei diritti dei tenutari di timar e di altri feudi, specialmente i diritti alle imposte. Nel sedicesimo secolo, ciascun distretto ebbe il suo Libro delle leggi, che subiva una revisione ad ogni nuova ricognizione del sanjak e creazione di un nuovo registro. Il regno di Bayezid II vide anche la compilazione di un libro generale delle leggi, che mirava a sintetizzare le regole che definivano l’appartenenza alla classe militare – cioè alla classe degli esenti da imposte – molti dei quali erano assegnatari di timar, le regole che definivano i servizi dovuti dai tenutari dei feudi, le obbligazioni dei soggetti che pagavano le imposte, i regolamenti riguardanti le imposte e altre materie, incluse le leggi criminali. Questo libro generale delle leggi rappresenta un intento di armonizzare, per quanto possibile, la pratica dell’assegnazione di timar in tutto l’impero. Esso apparve nelle sue prime versioni nei tardi anni ’90 del 1400. Seguirono ulteriori recensioni , fino all’apparizione della versione finale intorno il 1540. La funzione del libro delle leggi era presumibilmente di dare un quadro normativo alla pratica dell’assegnazione di timar, e fornire una autorevole fonte di riferimento in caso di dispute. E’ improbabile, comunque, che questo progetto fosse stato completamente coronato da successo dal momento che in molti luoghi è evidente che le norme del libro delle leggi variano con il variare di ciò che appare nei registri.

  I registri e i libri delle leggi consentivano al Sultano di tenere sotto controllo il numero e le identità dei tenutari di feudi, il valore dei loro feudi e i servizi dovuti, e le leggi che governavano la tenuta dei feudi, nell’Impero  e in ciascun sanjak. In aggiunta, egli giunse a controllare, per quanto gli fu possibile, il modo dell’assegnazione.

  Nel quattordicesimo e all’inizio del quindicesimo secolo il modo di distribuzione dei timar era probabilmente informale e, almeno nelle aree di confine, non completamente sotto il controllo del Sultano. Alcuni dei primi tenutari di timar sarebbero stati i sopravvissuti dal regime pre-ottomano che avevano mantenuto il loro status dopo la conquista ottomana. Tali gruppi emersero in ciascuna fase della espansione ottomana. I primi registri rimasti della Rumelia mostrano tenutari di timar cristiani. Similmente, i registri anatolici mostrano un largo numero di feudi ereditari in possesso di famiglie o tribù, qualche volta indicanti specificamente che queste provengono dai tempi pre-ottomani. Un registro della provincia di Karaman, per esempio, registra un “gruppo di cavalieri del suddetto villaggio, discendenti di Yavash Bey, [che possedette il villaggio in virtù di] un atto di Mehmed Bey di Karaman”. Dopo l’annessione del Kurdistan agli inizi del sedicesimo secolo, i signori curdi continuarono a possedere terre come feudi ereditari in cambio  del servizio militare. Comunque, molti tenutari di timar agli inizi dell’Impero erano probabilmente parenti, schiavi e seguaci del Sultano e dei suoi signori: certamente i registri della Rumelia del quindicesimo secolo registrano timar in possesso degli uomini dei grandi signori delle terre di confine. I registri della seconda metà del quindicesimo secolo, comunque, suggeriscono una crescente regolarità nel sistema di nomina e un crescente controllo centrale, un processo che culminò in una serie di decreti del Sultano tra il 1531 e il 1536, che puntavano a regolarizzare la distribuzione di timar e a portarla sotto pieno controllo.

  Per far questo, era necessario innanzitutto stabilire chi aveva diritto ad un timar. In primo luogo c’erano i salariati a corte, tra i giannizzeri o nelle sei divisioni o nel seguito dei pasha. Come mostrano le prime registrazioni giunte fino a noi, c’erano sempre tenutari di timar provenienti da queste categorie. Comunque, due decreti degli anni ’30 del 1500, essi stessi probabilmente una revisione delle leggi del tempo di Bayezid II, tentano di regolarizzare tali nomine specificando  il valore dei timar che essi devono ricevere. Un custode del cancello del palazzo, per esempio, aveva diritto a un timar di 15.000 akce annuali, come avevano pure certe categorie di ufficiali dei giannizzeri. Alla morte di un pasha, il suo maggiordomo riceveva un timar del valore di 14.000 akce, ilsuo capo portiere un timar del valore di 13.000 akce, mentre il suo maestro delle stalle e tesoriere  ricevevano entrambi feudi del valore di 8.000 akce. Per quelli che erano sul libro paga del Sultano il trasferimento da un incarico salariato ad un timar probabilmente rappresentava un abbassamento, perché implicava la privazione del salario e l’abbandono del palazzo, che era la fonte più prolifica di patronato.

  Cortigiani e soldati, che avevano goduto in precedenza di un salario, formavano una minoranza di tenutari di timar, come pure gli occupanti dei feudi ereditari. La maggioranza era formata da quelli che avevano ereditato dai propri padri. Ciò che un figlio ereditava, comunque, era un diritto a un timar in generale, piuttosto che del timar di suo padre in particolare. Questo diritto era pure soggetto a restrizioni, che un decreto del 1531 indirizzato al governatore generale di Rumelia cominciò a codificare. Secondo  questo documento, se il tenutario di uno zeamet del valore da 20.000 a 50.000 akce annuali moriva in battaglia e aveva tre “valenti” figli, questi dovevano ricevere timar rispettivamente di 6.000. 5.000 e 4.000 akce rispettivamente. Se lo stesso tenutario dello zeamet doveva morire a casa allora due dei suoi figli avrebbero ricevuto il diritto a feudi del valore di 5.000 e 4.000 akce. Il documento continua in questo modo, mostrando diritti degli eredi a timar di differente velore, terminanto con coloro il cui timar vale meno di 10.000 akce. In questo caso, se il tenutario di timar muore in battaglia due “valenti” figli ricevono timar di 3.000 e 2.000 akce; se muore a casa entrambi ricevono timar di 2.000 akce. E’ chiaro da queste regolamentazioni  che non tutti i figli avevano diritto ad un timar. Se un feudo valeva più di 20.000 akce annuali, tre figli, e se valeva meno due figli, ereditavano il diritto. Un decreto del 1536 reitera questo ultimo punto “Per quanti figli gli sopravvivano, [i timar] devono essere dati a due dei suoi figli, in accordo col mio comando precedente”

  Un figlio con un diritto ereditario poteva occupare un timar a qualsiasi età. Comunque, se il tenutario di un timar era ancora un bambino, doveva mandare un uomo armato in guerra al suo posto, e servire di persona una volta raggiunta la maturità. Questo è quanto stabilisce il decreto del 1536, con la precisazione che, fino a quel tempo, ogni tenutario di timar sopra i dieci anni di età doveva andare in campagna, ma che “ora che le campagne sono distanti” l’età del servizio era sedici anni.

  I decreti degli anni ’30 del 1500  suggeriscono che, per quel periodo, i tenutari di timar e zeamet erano arrivati a formare, entro certi limiti, una casta ereditaria, con ingresso limitato. Questa era una tendenza che i decreti tendevano a rinforzare. L’ordine del 1531, al governatore generale di Rumelia, riportava che figli di soggetti ordinari avevano ricevuto illegalmente feudi e stavano usando la loro posizione per ricavare denaro e per “trasgredire e interferire”. Il Consiglio Imperiale aveva confiscato i feudi di alcuni di questi “estranei”. Comunque, il decreto continua, dall’8 marzo 1531, nessuno di coloro il cui timar è segnato in un registro può essere designato come “estraneo” o avere tolto il suo timar. Questo stabiliva chi, da quella data in avanti,  era membro della casta militare. In secondo luogo, il decreto stabiliva chiaramente quali dei figli del tenutario di feudo avevano diritto ad un timar e di quale valore. Terzo, il decreto provava a far cessare pretese fraudolente. Un ordine del 1536 a Lutfi Pasha, quando era governatore generale della Rumelia stabilisce che “truffatori che pretendono di essere figli di cavalieri” accade che possano domandare timar. In tal caso, continua l’ordine, dieci tenutari di timar dovrebbero verificare l’identità del pretendente.

  Queste regole tendevano a limitare l’ingresso nella classe dei timarioti. Nondimeno estranei indubbiamente acquistavano timar, e c’era un limitato riconoscimento ufficiale del loro diritto di farlo. Non tutti i figli automaticamente erano qualificati per ottenere un timar alla morte del loro padre. Quelli esclusi potevano, comunque, acquisire il  diritto ad un timar prima della morte mediante servizio volontario nell’esercito. Gli ordinari soggetti che pagavano le tasse  non avevano alcun diritto di acquistare timar, ma Lutfi Pasha fornisce le prove che, di fatto, essi lo ottenevano, quando stabilisce le regole per questo riconoscimento: “se un soggetto ordinario rende eccezionali servigi e per il crescente favore reale riceve un timar e diviene un cavaliere, non dovreste offrire protezione ai suoi parenti, padre o madre”. In linea di principio, comunque, dopo gli anni ’30 del 1500, l’acquisto di un feudo seguiva regole stringenti.

  Le regole di successione richiedevano una esecuzione . Il governo ottomano cercava di ottenerla stabilendo delle procedure per registrare e controllare le nomine a tenutari di timar e zeamet. Alcuni di tali sistemi devono essere esistiti dalla fine del quattordicesimo secolo, quando la pratica di tenere registri evidentemente iniziò, ma è solo dall’inizio del sedicesimo secolo in avanti che sopravvivono i documenti.

  Potevano volerci anni perché una persona qualificata per un timar potesse ottenerlo: la conquista di un nuovo territorio che rendeva disponibili nuove terre, o una guerra in cui moriva un gran numero di cavalieri, fornivano le migliori opportunità. Il primo stadio del processo era, da parte del governatore generale o del governatore del sanjak, la redazione di una lista di candidati e l’invio in un registro sigillato al Gran Visir a Istanbul o dovunque egli fosse in campagna. Il Consiglio Imperiale avrebbe a questo punto redatto un decreto in nome del Sultano, che ordinava al governatore generale di dare un timar e lo consegnava al candidato. Il passo successivo era per il candidato di portare questo decreto col diploma di nomina di suo padre al governatore generale, che avrebbe controllato la validità del diploma o, se esso era andato perduto, guardare il timar di suo padre nel registro. Il candidato doveva anche produrre un testimone o dei testimoni della classe militare che potessero attestare che egli era il figlio di un cavaliere. Il governatore generale avrebbe allora, quando ne diveniva disponibile uno, conferire un timar vacante. Questa non era comunque la fine del processo. Se il timar era in Rumelia e valeva meno di 6.000 akce l’anno o in Anatolia e valeva meno di 5.000 akce o nelle province di Karaman, Rum o Maraş e valeva meno di 3.000 akce allora il governatore generale della provincia poteva lui stesso concedere il diploma di nomina. Questi erano “timar senza memorandum”.Se, comunque, il timar valeva di più, il candidato doveva acquisire un diploma del Sultano da Istanbul. Il decreto del 1531 indirizzato al governatore generale di Rumelia rende le regole più rigorose: da quella data, tutti i candidati che ricevono un timar per la prima volta hanno bisogno di un diploma del Sultano. E’ dubbio, comunque, se questa regola fu osservata universalmente.

  Perché un candidato acquisisse un diploma del Sultano, il governatore generale doveva scrivere un memorandum menzionando il candidato, i testimoni e indicando il timar, insieme al suo valore. Se il diploma del padre del candidato era perso, egli avrebbe scritto sul retro: “Il diploma del padre, emesso [nel tale anno] è perso” Il candidato doveva allora, nel termine di sei mesi, cambiare il memorandum del governatore generale con un diploma del Sultano.

  Questo richiedeva  che lui o il suo agente  viaggiassero fino ad Istanbul, e si recassero all’ufficio del controllore dei registri immobiliari, dove un impiegato  avrebbe copiato il memorandum nel libro giornale delle allocazioni di timar nell’appropriato sanjak. L’ufficio avrebbe anche stabilito se il valore del timar, come appariva nel memorandum, coincideva con il suo valore come registrato  nel registro riassuntivo dei timar. L’ufficio doveva anche controllare  se l’allocazione avrebbe dato luogo al frazionamento del nucleo del feudo. In tal caso, la nomina era invalida. Una volta che i controlli erano stati completati e il memorandum registrato, esso arrivava al capo impiegato, che avrebbe autorizzato l’emissione di un diploma in nome del Sultano. Il richiedente poteva allora prenderlo e tornare al suo timar come un cavaliere regolarmente nominato.

  Una volta in possesso  del timar, un cavaliere aveva l’opportunità di aumentare le sue entrate. Ogni timar aveva un nucleo indivisibile di terre e rendite. Comunque, era possibile aggiungerne altre a questo nucleo. Per fare questo un tenutario di timar  avrebbe dovuto fare una richiesta al governatore generale, al governatore del sanjak o all’ufficiale tenutario di zeamet, che poteva presentare una richiesta a suo nome. Dopo aver consultato i documenti, il controllore dei registri immobiliari poteva concedere l’incremento. La più grande opportunità di acquistare supplementi ad un timar era dopo una battaglia, quando i timar dei morti in guerra divenivano disponibili. Invero, impiegati e registri accompagnavano l’esercito in campagna, rendendo possibile redistribuire timar dopo uno scontro con un nemico. La seguente, per esempio, è una annotazione che garantisce un supplemento ad un timar in un registro fatto vicino la scena dell’azione, immediatamente dopo la battaglia navale di Lepanto nel 1571: “Yalakabad [nel sanjak di Kocaeli]: il timar di Ivaz [comprendente] il villaggio di Harmanli e altri, [del valore di] 5.000 akce annuali. Daud, che possiede un timar del valore di 3.000 akce annuali nel suddetto distretto e ha diritto ad un timar del valore di 7.000 akce, ha fatto richiesta sostenendo che il soprannominato è morto e il suo timar vacante, e ha richiesto [che sia assegnato a lui]. Questo è stato stabilito, con il surplus di 1.000 akce

  Non solo i tenutari di timar potevano ottenere un incremento nel valore dei loro timar, essi potevano anche perderli del tutto. Prima del 1531, sembra che i governatori generali avevano un proprio potere di rimuovere tenutari di timar. Il decreto del 1531, comunque, proibisce loro di attribuire crimini a cavalieri e di togliere loro i timar come punizione stabiledo che, in futuro, se un cavaliere commetteva una trasgressione, il governatore generale avrebbe dovuto sottoporre il fatto al Consiglio Imperiale, che avrebbe preso la decisione se confiscare o meno. Documenti della fine del sedicesimo secolo indicanti che  il consiglio reintegrava cavalieri che i governatori generali  avevano rimosso senza un ordine in proposito, indicano che questo è ciò che accadeva nella realtà. Una volta privato del suo timar, un cavaliere poteva “unirsi alla schiera degli artigiani o commercianti  o, entrando nel seguito di un governatore generale poteva sperare di acquistare un nuovo timar. Il processo di reintegrazione è un’altra materia che il decreto del 1531 cerca di regolare.

  Entro la metà del sedicesimo secolo, dunque, il governo del Sultano aveva stabilito procedure per controllare l’allocazione e la tenuta dei timar, e per determinare il livello del servizio che un cavaliere doveva  fornire. La base del sistema era la tassazione dei contadini, che il governo cercava di controllare, in primo luogo assicurando che la terra rimanesse coltivata, e in secondo luogo determinando il livello della tassazione.

  Lo status di contadino su terre distribuite come timar deve essere variato da area ad area, in accordo con pratiche e condizioni locali. Nondimeno, certe regole che tendevano ad assicurare che la terra fosse sotto continua coltivazione sembrano essere state applicate ai contadini dei timar in tutto l’Impero. I contadini non erano, strettamente parlando, legati alla terra, ma in linea di principio la legge proibiva loro di tenere una terra non coltivata senza pagare una compensazione al tenutario del timar. Un libro di leggi del 1583 per un sub-distretto di Sivas esprime questo concetto generale: “Dal momento che è un costume accettato prelevare la tassa per interruzione della coltivazione da coloro che abbandonano la terra e sfruttano un’altra fonte di sussistenza, questa legge è considerata valida nel suddetto sub-distretto”. Libri di leggi di altri sanjak forniscono maggiori dettagli. Un regolamento datato 1539 per il sanjak di Vize sembra essere tipico: “Se un contadino va in un altro luogo e sono più di dieci anni dal momento che ha abbandonato il luogo precedente e le sue terre rimangono non coltivate, secondo la legge, il suo cavaliere deve esigere da lui la tassa per l’interruzione della coltivazione. Se sono meno di dieci anni il cavaliere, con la conoscenza del giudice di quel tempo, deve rimuoverlo e riportarlo alle sue terre” In breve, se un contadino lasciava che un terreno fosse non coltivato, doveva tornare a coltivarlo o, dopo un certo periodo, pagare la compensazione. Se, comunque, un altro coltivatore prendeva il suo posto, egli pagava solo la tassa del giogo  sul suo terreno per l’anno della sua partenza. Lo scopo della legge non era tanto legare il contadino alla terra, quanto mantenere la terra coltivata.

  Altre norme regolavano l’accesso del contadino alla terra. Colui che subentrava in un terreno doveva pagare una tassa di entrata al tenutario del timar, e godeva della sicurezza del possesso per tutto il tempo che continuava a coltivare il suo possedimento. Se, però, egli lo lasciava incolto  per tre anni, l’assegnatario del timar aveva il diritto di scacciarlo. La stessa regola poteva anche applicarsi se egli convertiva terra arabile in terra da pascolo, dal momento che la terra da pascolo produceva meno introiti fiscali e la trasformazione avrebbe avuto come effetto una diminuzione di rendita per il timar. Infine, il possesso della terra da parte dei contadini era ereditario, ma solo da padre in figlio. Figlie e altri parenti potevano succedere, ma solo se il tenutario di timar li considerava capaci di coltivare e se pagavano un prezzo di entrata.

  Il proposito di queste norme era di massimizzare le rendite della terra per i tenutari del timar, che erano per la più parte cavalieri, e di assicurare la forza dell’esercito del Sultano.

 

 

 

LE PROVINCE: LE PROVINCE TRASFORMATE

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  Il governo provinciale ottomano, come si era sviluppato tra il quattordicesimo e la metà del sedicesimo secolo era un sistema razionale. Divideva l’Impero in province, le province in sanjak e i sanjak in feudi; e cioè in hass, zeamet e timar. I governatori generali, i governatori di sanjak e i tenutari di feudi traevano il loro reddito direttamente dalle fonti di reddito che il Sultano  aveva assegnato loro e, in cambio, essi servivano il Sultano nel governo provinciale, e anche come esercito di cavalieri. La gerarchia del governo provinciale era allo stesso tempo una gerarchia militare. Nelle campagne, i governatori generali erano comandanti in capo di tutte le truppe delle loro province; i governatori dei sanjak comandavano tutti i cavalieri che avvevano timar e zeamet  nel loro sanjak. C’era una gerarchia di comando anche tra i tenutari di feudi, con alcuni dei tenutari di zeamet che operavano come ufficiali al comando di contingenti di assegnatari di timar. Anche gli assegnatari di timar andavano in guerra alla testa di un seguito di uno o più uomini armati.

  Il sistema era chiaramente efficace in entrambe le sue funzioni. Per gran parte del sedicesimo secolo – un periodo per il quale sono disponibili documenti e alcuni studi moderni – sembra che vi sia stato  un incremento di popolazione dell’Impero e nella grandezza e nel numero di insediamenti, suggerendo che questo era, nel complesso, un periodo di prosperità e stabilità nelle province ottomane. Il relativo buon ordine del governo provinciale può aver giocato una parte in questo. Più ovviamente, comunque, il sistema espletava le sue funzioni militari. Anno dopo anno, il Sultano radunava un esercito di cavalieri dalle province, che poteva dimostrare con le vittorie il proprio valore.

  Intorno al tardo sedicesimo secolo ci fu un drastico cambiamento. Gli eserciti ottomani non godevano più delle vittorie dei tempi anteriori. La guerra con l’Austria del 1593-1606 portò disastri e terminò in uno stallo. In modo ancora più umiliante, le guerre con l’Iran dopo il 1603 portarono sconfitte e perdite territoriali. Osservatori contemporanei che commentavano questo declino dalle precedenti glorie trovavano un’ampia ragione di questo nel guastarsi del governo provinciale e, dal momento che erano le province che supportavano il grosso dell’esercito, c’era chiaramente una connessione.

  In Anatolia, in particolare, i commentatori notarono l’impoverimento e la fuga dalla terra che accompagnarono la ribellione dei Jelali. Un autore anonimo che presentò ad Osman II (1618-22) un trattato sui problemi dell’Impero e su come curarli rimarcava: “Per esempio, nella provincia di Sivas c’era tale indigenza e carestia che divenne ben noto che i contadini mangiavano non solo gatti e cani, ma anche carne umana”. Tali condizioni, egli continua, hanno condotto a una drastica caduta delle entrate. In precedenza il Tesoro di Sivas aveva coperto non solo le spese della provincia, ma aveva rimesso otto milioni di akce annualmente al Tesoro imperiale. Ora, egli dice, non rimette mai più di un quarto di milione. L’autore notava anche come visir e governatori provinciali non possedevano più uomini del seguito e “schiavi valorosi” e armature per questi, pronti ad andare in campagna nel momento che il Sultano lo ordinava. In contrasto con questo vecchio ordine, egli descrive la farsesca campagna di Ahmed I contro i Jelali nel 1605, con coloro che avevano uffici che lo consideravano come un viaggio di nozze o di piacere”, con molti che arrivavano in ritardo.

  Ciò, comunque, che colpiva gli osservatori con maggior forza era il collasso del sistema dei timar, che aveva fornito un esercito di cavalieri e provveduto a mantenere l’ordine. Nei vecchi tempi, commenta l’anonimo autore, i feudi in Rumelia, Anatolia e nelle province arabe avevano prodotto 200.000 combattenti ed era con questi che il sovrano aveva conquistato territori. Ora, egli continua, molti di costoro sono scomparsi. Il vecchio sistema di allocare i timar attraverso i governatori generali è collassato e invece di andare a uomini che si recavano in combattimento, i timar andavano a persone prive dei requisiti o cadevano nelle “ceste” degli uomini importanti. Per “ceste” l’autore si riferiva alla pratica, che divenne comune agli inizi del diciassettesimo secolo di piazzare da parte di uomini importanti i propri uomini come assegnatari di timar per incassarne le rendite. In una domanda  all’autore il Sultano stesso notava che “Visir, governatori generali e altri titolari di uffici” avevano concesso timar ai membri del proprio seguito “fino ai gatti e ai cani”. Il risultato era una perdita  del numero di timar che ancora producevano guerrieri. Invece, sostiene l’autore, quelli che andavano in campagna erano “per la più parte turchi, zingari, ex briganti e persone che avevano comprato il loro timar”. La crisi nel vecchio sistema di allocazione e registrazione dei timar aveva anche condotto a dispute sul loro possesso. Lo scrittore riformatore  Kochi Bey, nel trattato che scrisse per Murad IV (1623-40) nel 1631-32, commenta che, poiché i feudi erano allocati  da Istanbul solo uno su dieci era non disputato. Ayn Ali, nel suo trattato del 1609, aveva notato la stessa cosa. “Quando è una faccenda di servizio in campagna”, egli commenta tristemente, “non appare un uomo su dieci timar, ma nel periodo di esazione delle imposte dieci si disputano un timar.

  Gli scrittori riformatori collocarono la ragione del declino nella corruzione del corpo politico. “Perché”, scrive l’autore del trattato anonimo, “la porta della corruzione è aperta, il volto delle province rovinato”. Il processo, essi sostengono, iniziò col regno di Murad III (1574-95).

  Gli scrittori riformatori erano accurati nei loro resoconti sia sul “declino” che sul periodo di inizio. Nel diciassettesimo secolo la nomina agli uffici di rilievo implicava spendere denaro. Perdipiù, documenti rimasti dell’epoca confermano la loro percezione dello spopolamento delle province, almeno l’Anatolia, e la diminuzione nel numero di timar. Nel 1573, per esempio, c’erano 592 timar e 51 zeamet nel sanjak di Aydin nell’Anatolia occidentale. Nel 1632-33, i numeri erano rispettivamente 261 e 31, un declino di quasi il 40%. I documenti di assegnazione  mostrano anche che, nel 1563-4, intorno al 70% dei timar inizialmente concessi nel sanjak di Aydin andavano ai figli dei tenutari di timar. Nel 1588-9, durante il tempo di Murad III, questa cifra era crollata al 19%, e nel 1610 a meno del 10%. Questa perdita di tenutari di timar come casta ereditaria era qualcosa che gli scrittori riformatori lamentavano come una causa della catastrofe del loro tempo.

  Per quanto siano accurate queste descrizioni dei sintomi del “declino” gli scrittori riformatori  stavano indubbiamente semplificando nella loro analisi delle sue cause. Sebbene i sintomi di questa trasformazione divennero acuti, come gli scrittori riformatori notavano, durante il regno di Murad III, ci sono segni di cambiamento  precedenti in quel secolo. Kochi Bey e altri guardavano indietro ai timarioti  dei giorni di Solimano I come ad una valorosa casta militare chiusa, ma questo quadro sembra troppo ottimistico. Negli anni ’30 del 1500  il Sultano certamente prese delle misure per limitare l’accesso ai ranghi dei timarioti, ma questo fu probabilmente perché la mancanza di nuove terre da distribuire stava già divenendo evidente, piuttosto  che per uno sforzo deliberato di formare una casta militare. Perdipiù, l’assegnazione di un timar, ai livelli più bassi imponeva  pesanti oneri di servizio in cambio di una rendita molto modesta e segni di scontento sono già evidenti  prima e durante il regno di Solimano I. Nel 1511, per esempio, i timarioti si unirono alla rivolta di Shah Kulu. Successivamente nel secolo, il fatto che il principe ribelle Bayezid fu capace nel 1558-9 di attrarre timarioti alla sua causa è una indicazione che questi non erano a loro agio nella loro posizione. Le lunghe guerre con l’Iran e l’Austria imposero ulteriori pesi, richiedendo che, durante campagne che durarono per più di un decennio, si svernasse sul campo. Durante queste decadi inoltre i timarioti dell’Anatolia, che non servivano in guerra, facevano fronte al compito di mantenere la pace in una regione in crescente ribellione.

  Un sintomo di scontento durante questo periodo fu, progressivamente, il rifiuto di combattere e la diserzione. Durante la guerra iraniana del 1578-90, i timarioti frequentemente cercavano di evitare il servizio. A questo riguardo un ordine del 1583 al governatore del sanjak di Bozok è tipico. Il preambolo del decreto nota che cavalieri con timar di valore inferiore a 3000 akce annuali non erano andati in campagna, ma invece erano rimasti a mantenere la sicurezza nel sanjak. “Comunque”, continua il preambolo “si è udito che molti dei cavalieri, grandi e piccoli, nella provincia di Rum, sono rimasti dov’erano, ciascuno avendo avuto, con qualche scusa [per rimanere a casa], un Nobile Comando del Sultano… essi rimangono indietro e ricevono decreti [che li esentano dal servizio] per la minima scusa”. Lo scontento tra i cavalieri, che era già chiaro durante la guerra con l’Iran, si trasformò, durante le guerre austriache, in diserzione e congedo , il caso più noto verificandosi dopo la battaglia di Mezö-Keresztes nel 1596. Il risultato, insistono gli storici musulmani, fu di trasformare i disertori in briganti.

  Gli oneri del servizio, sia per il soldato in campagna che per la milizia locale che combatteva  i ribelli, rese il possesso di timar poco attraente, almeno per quelli con feudi di basso valore. Questo divenne in particolar modo vero alla fine del sedicesimo secolo, un periodo in cui l’inflazione diminuiva il reddito, le guerre erano prolungate, c’era poca speranza di prendere bottino, e nuove entrate a seguito della conquista di nuovi territori non erano più  disponibili. Lo scontento risultante tra i timarioti e la conseguente diserzione e ribellione, erano indubbiamente un fattore nel collasso del sistema dei timar, che gli scrittori del diciassettesimo secolo osservarono nel loro tempo. C’erano comunque altre cause, militari ed amministrative.

  Lo sviluppo militare che mise in crisi la cavalleria timariota fu l’uso crescente in guerra di armi da fuoco individuali  e, con questo, la pratica del combattimento da posizioni difese da trincee. Questo richiedeva un crescente numero di fanti a spese della cavalleria. Fino alla fine del sedicesimo secolo i cavalieri avevano superato di molto gli uomini appiedati negli eserciti ottomani. Alla metà del sedicesimo secolo i giannizzeri – i corpi di fanteria permanenti del Sultano – contavano 10-12.000 unità in tutto,mentre c’erano normalmente 40.000 cavalieri in un singolo esercito. Comunque, durante la guerra del 1593-1606, la cavalleria ottomana provò di essere molto inferiore sul campo di battaglia alla fanteria austriaca. La risposta del governo ottomano fu dunque di espandere il numero di fanti, ciò che fece incrementando il numero dei giannizzeri e reclutando fanti nelle province tra i giovani che sapevano come usare le armi da fuoco.

  Questa soluzione comportava un grosso problema. Il pagamento per i giannizzeri e la fanteria di leva era fatto dal Tesoro centrale, che si trovò incapace di soddisfare la domanda per i pagamenti in contanti, un problema che l’inflazione  della fine del sedicesimo secolo aggravò. Una soluzione era di svalutare la moneta metallica. Nel 1585, allo scopo di pagare i giannizzeri e altre truppe della casa imperiale, il governo ridusse il contenuto di argento dell’akce di almeno il 50%. Come risultato  di questo  ci fu una ribellione  dei giannizzeri nel 1589, per protestare contro il pagamento con una moneta svalutata. Successivi pagamenti e una ulteriore svalutazione nel 1600 di poco meno del 30%, condusse ad ulteriori disordini dei giannizzeri nel 1593 e nel 1606. Questa soluzione, dunque, causava solo ulteriori problemi. Un altro sistema era il prestito. Nel 1591 il governo si fece prestare 70.000 pezzi d’oro  per pagare i salari dei giannizzeri e, dopo di questo, ci furono alcuni anni in cui il Tesoro non ricorse al credito per far fronte alle sue obbligazioni.

  C’era, comunque, un’altra soluzione, e questa era l’incremento delle fonti di reddito disponibili per il Tesoro. Fino alla fine del sedicesimo secolo, il governo aveva assegnato la maggior parte delle tasse in Rumelia, Anatolia e Siria a timarioti che le riscuotevano direttamente come fonte di reddito. Queste tasse non andavano, dunque, direttamente al tesoro. Un modo per superare i deficit del tesoro fu dunque di convertire timar e zeamet in appalti dell’esazione delle imposte il cui reddito gli esattori trasferivano direttamente  a Istanbul. Sembra probabile che il primo trasferimento su larga scala avvenne nel 1597, a seguito della confisca dei timar appartenenti ai disertori di Mezö-Keresztes. Da allora in poi, il numero di concessioni esattoriali aumentò a spese dei timar, uno sviluppo che rispecchiò il cambiamento  nella composizione dell’esercito. Meno cavalieri necessitavano meno timar per mantenersi, mentre il crescente numero  di fanti richiedeva più concessioni esattoriali come fonti di contante per i loro salari. Questo fu un fattore importante nel collasso del sistema dei timar, che disturbava così tanto gli scrittori riformatori del diciassettesimo secolo.

  Un altro fattore fu un cambiamento graduale nel modo di allocare i timar. I decreti degli anni ’30 del 1500 avevano formalizzato  il diritto ai feudi e, allo stesso tempo, c’era una procedura giuridicamente regolata di allocazione. La tenuta del timar divenne nel complesso ereditaria all’interno della classe militare e la distribuzione avveniva attraverso la raccomandazione del Governatore generale, ed era soggetta alla ratifica del Sultano. Nel tardo sedicesimo secolo, le eccezioni a questo schema divennero comuni.

  Durante le lunghe guerre del 1579-90 e del 1593-1606 divenne normale per i comandanti dell’esercito sul campo allocare timar per rimpiazzare cavalieri che erano morti in battaglia o che erano assenti alla chiamata alle armi dandoli talvolta  a uomini che si facevano avanti senza una raccomandazione da un patrono. Nel diciassettesimo secolo, Kochi Bey doveva puntare il dito in particolare contro questa categoria di timarioti come causa di declino. Nel 1584, egli scrisse, Özdemiroghlu Osman Pasha, il comandante della campagna iraniana, iniziò a dare timar del valore di 3.000 akce a “estranei”, ma solo a uomini che avevano prestato un eccellente servizio. Da allora, però, i feudi andarono, senza riguardo al merito, “a giovani di città e contadini” che non avevano alcun diritto per nascita.

  Più importante, comunque, nel trasformare il sistema dei timarioti fu la crescente influenza del palazzo. All’inizio del sedicesimo secolo era poco frequente  per il palazzo, senza un memorandum da parte del governatore generale, emanare un decreto di allocazione di un timar. Di fatto le allocazioni di questo tipo erano sufficientemente rare da meritare una nota esplicativa nel registro. Successivamente nel secolo queste note sparirono, suggerendo che il Palazzo cominciava ad esercitare un maggiore controllo. Nel 1586, con l’emanazione di un decreto che privava i governatori generali del diritto di distribuire zeamet, cioè feudi del valore di più di 20.000 akce annuali, questa tendenza divenne esplicita. Con questi sviluppi, il vecchio sistema effettivamente collassò.

  Questi cambiamenti nel metodo di allocazione portarono con sé nuovi tipi di timarioti. Ciò che diviene particolarmente degno dinota è il largo numero di timar che sostentavano schiavi o persone del seguito dei visir, dei governatori generali e altri titolari di uffici, i registri annotando questi uomini come “il seguace di X”, “l’uomo di Y” o “al seguito di Z”. Tali timar erano sempre esistiti, e, in verità, qualche tempo dopo il 1541 Lutfi Pasha stabilì che i gran visir dovessero mantenere i loro uomini mediante timar. Nel tardo sedicesimo secolo, comunque, la pratica divenne più diffusa e, nel diciassettesimo, divenne standard. Una nota in un registro dell’inizio del diciassettesimo secolo stabilisce come regola: “E’ costume che i timar dei servitori registrati di un visir, in caso di morte del timariota, debbano essere dati di nuovo al suo servitore”.

  Non erano comunque solo coloro al seguito di visir e governatori che ricevevano timar in questo modo. Verso la fine del sedicesimo secolo, uomini dal seguito di altri membri del Consiglio Imperiale, come il cancelliere o il capo tesoriere, o i seguaci degli ufficiali di palazzo, come il Capo dispensiere o il Capo giardiniere, potevano anche ricevere il loro pagamento  sotto forma di timar. Era anche comune,  per titolari di uffici ancora più modesti, come impiegati della cancelleria o membri delle sei divisioni, ottenere timar per i loro servitori. Le principesse similmente acquistavano feudi per il loro entourage, persone che chiaramente non avevano nessuna obbligazione di servire nell’esercito. Divenne di fatto consuetudine aggiungere  liste di timarioti esenti  alle liste di leva militare di cavalieri e l’espunzione per mancata comparsa al tempo della campagna era valida solo se il nome dell’assente non appariva nella lista degli esenti. Anche allora, se una persona perdeva il suo timar perché non aveva risposto alla chiamata, poteva continuare a tenerlo se riusciva a provare di essere al seguito di un uomo importante.

  Per la metà del diciassettesimo secolo, dunque, il timariota aveva cambiato le sue caratteristiche. Meno feudi sostentavano cavalieri, e più feudi sostentavano i titolari di uffici e i loro seguaci. Alcuni andavano a concessionari i cui sponsor ne incameravano la rendita, una pratica che Murad IV abolì formalmente  quando, nel 1631, confiscò tali timar e li riallocò a uomini in servizio attivo. Le riforme di Murad comunque non durarono. Documenti indicano che  il cambiamento nel sistema dei timar fu permanente. Dalla fine del sedicesimo secolo, la pratica di redigere registri dettagliati dei timar di ciascun distretto cessò. Invece, l’ufficio dei registri immobiliari cominciò a compilare registri delle varie case raggruppate entro unità tassabili, insieme con altre fonti di entrate governative. Per mantenere nota  dei timar il governo  iniziò, dalla metà del diciassettesimo secolo, a tenere liste sommarie, ma il vecchio sistema di registri dettagliati non tornò più in vita. Queste nuove procedure amministrative  indicano che, in quest’epoca, i timar non erano il principale sostentamento dell’esercito né il mezzo più importante di distribuire rendite.

  Il declino del sistema dei timar si accompagnò ad un cambiamento nel sistema di governo provinciale. Fino alla fine del sedicesimo secolo, la gerarchia di tenutario di timar, di zealet, governatore di sanjak e governatore generale era stata anche quella del comando militare. Alla fine del secolo anche questo cominciò a cambiare. Con il cronico deficit nelle rendite del tesoro divenne possibile per gli esattori delle tasse acquistare il governatorato, per se stessi o per quelli nominati da loro, a condizione che aumentassero le entrate delle province o sanjak. Per la stessa ragione, non era più inconsueto, per un tesoriere, ricevere l’incarico di governatore generale. Con questo sviluppo, il governo provinciale cominciò a perdere il suo carattere militare.

  Ci furono anche altri cambiamenti, nel modo di nomina del governatore provinciale. Fino alle ultime decadi del sedicesimo secolo, era normale nominare governatori di sanjak dai ranghi più bassi della amministrazione provinciale, cosicché, tipicamente, una carriera poteva condurre da un incarico nel palazzo ad una posizione nell’Ufficio dei registri o del Tesoro di una provincia, e da lì al governatorato di un sanjak. Negli anni ’60 del 1500 circa due terzi dei governatori di sanjak avevano ricevuto la loro carica in questo modo. Era normale, anche, che un governatore generale dovesse  aver servito in precedenza come governatore di sanjak. Nel 1570 circa  quattro quinti dei governatori generali  avevano ricevuto questo incarico per tale via. Nel 1580 comunque, questo schema cominciò a cambiare con nomine dal palazzo e,  in via crescente, da altri grandi case,  iniziando ad essere in maggior numero  rispetto ad uomini con una preventiva esperienza di governo provinciale. Per il 1630, solo un quarto circa dei governatori di sanjak e dei governatori generali erano giunti alla loro posizione da un precedente incarico provinciale. Allo stesso tempo, un altro cambiamento  minò l’integrità del vecchio sistema di province e sanjak.

  Dagli anni ’80 del 1500 in poi pochi governatori di sanjak servirono in un particolare incarico per più di tre anni: intorno agli anni ’30 del 1600 più della metà serviva per meno di un anno. Questo era un risultato, presumibilmente della crescente competizione per l’ufficio, che aveva l’effetto non solo di abbreviare i periodi di servizio, ma anche di aumentare il tempo passato senza un ufficio. La perdita di posizione portava ad una perdita di reddito e così, per compensare questo divenne comune da parte del Sultano fare concessioni di rendite vitalizie, che servivano per mantenere governatori rimossi dalla carica nei periodi tra due nomine. Tali concessioni erano state meno comuni nel periodo anteriore, ed avevano l’effetto di minare il vecchio sistema di province e sanjak. Tradizionalmente i governatori avevano il loro hass, il feudo che produceva il loro reddito, nella loro area di giurisdizione, che fosse un sanjak o una provincia. Concessioni vitalizie, però, significavano che le terre o altre fonti di reddito che formavano le entrate prevalenti di un governatore si trovavano fuori della sua area di governo, producendo una frammentazione del vecchio sistema provinciale, alle spese soprattutto dei sanjak. Negli anni ’30 del 1600, inoltre, alcuni sanjak, come Bayburt nella provincia di Erzurum o Smederovo nella provincia di Buda furono aboliti e assegnati come rendita al governatore generale.

  Entro la metà del diciassettesimo secolo, dunque, il governo provinciale ottomano era molto differente  da ciò che era stato un secolo prima. La cosa più degna di nota era la caduta del numero di timar, e l’assegnaizone di timar come appalto di imposte o ad assegnatari non-militari del palazzo o di altre grandi case. Il mutamento nella natura dei timar aveva la controparte nella natura del governo provinciale. Fino alla fine del sedicesimo secolo, i governatori provinciali erano anche stati comandanti militari Col declino del numero di timar e la nomina di alcuni governatori con responsabilità fiscali piuttosto che militari, questo stato di cose cessò, eccetto forse che nelle aree di confine. Questo fu uno sviluppo che minò i governatori di sanjak in particolare, le cui funzioni principali erano state di tenere d’occhio  i timarioti del loro sanjak e di chiamarli a battaglia. La crescente distribuzione di rendite vitalizie dal loro distretto a uomini che risiedevano fuori del sanjak tendeva anch’essa a frammentare la loro area di comando, e ad enfatizzare la loro perdita di autorità.

 

 

 

LA LEGGE: COMUNITA’ LEGALI

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  L’Impero ottomano era una entità politica  musulmana, ma con una vasta popolazione non-musulmana che nella maggior parte dei distretti delle province europee  formavano la maggioranza della popolazione. La popolazine musulmana stessa era eterogenea. Gli uomini delle tribù curde dei confini orientali, i turcomanni dell’Anatolia, o i beduini di Siria, Egitto e della penisola araba avevano poco in comune con la gente musulmana delle città e dei paesi. Le comunità shi’i e kizilbash che si trovavano soprattutto nell’Anatolia centrale, Iran e Libano professavano una forma di Islam in contrasto con l’ortodossia sunnita dei sultani.

  La struttura legale  dell’Impero rifletteva questa diversità. Non ci può essere dubbio che gli uomini delle tribù, dei villaggi in aree remote e le popolazioni kizilbash che professavano fedeltà allo shah safavide piuttosto che al Sultano ottomano seguivano i loro costumi nel risolvere dispute e fare i loro affari. Allo stesso tempo, le comunità cristiane ed ebree godevano di autonomia legale in materie riguardanti la comunità, sotto l’egida dei loro leader religiosi. I sultani, comunque, mantennero la loro autorità sulle comunità non musulmane attraverso il sistema della nomina. I rabbini o prelati di grado più elevato  mantenevano il loro ufficio in virtù di un mandato  regio. Questo implicava probabilmente un pagamento in contanti , ma, una volta nominato, il titolare dell’ufficio acquisiva esenzione dalle imposte e autonomia fiscale nella sua comunità, come mostra un mandato-tipo della fine del quindicesimo secolo per la nomina di un metropolita greco: “Perché il destinatario di questo nobile decreto, il prete chiamato X, ha portato fiorini europei come dono al mio Nobile Tesoro, io gli ho concesso la posizione di metropolita di Y. Io ho comandato che, in qualsiasi modo i precedenti metropoliti abbiano esercitato la loro autorità sui preti, monaci e altri cristiani di quell’area, [egli debba fare lo stesso]; e di qualunque chiesa, vigna, orto di cui questi avessero la disponibilità anche egli debba averne la disponibilità. Egli deve essere esente da… imposte. I preti, monaci e altri cristiani devono riconoscerlo come loro metropolita, e ricorrere a lui in casi che pertengono alla sua autorità di metropolita”. I capi delle comunità armene ed ebree godevano di una simile libertà nel regolare gli affari della loro comunità. Essi esercitavano questo potere, tuttavia, in virtù della loro nomina da parte del Sultano.

  Le leggi ecclesiastiche, ebraiche e consuetudinarie erano tutte, dunque applicate correntemente nell’Impero. Nondimeno, la legge islamica aveva sempre la precedenza. Già presumibilmente nel quattordicesimo secolo, i sultani ottomani stabilirono una rete di Corti islamiche, cosicché ogni città nell’Impero ne aveva una che serviva sia la città che l’area circostante. Tutti i sudditi del Sultano, dunque, ricadevano sotto la giurisdizione di una corte islamica. I musulmani usavano esclusivamente queste corti, sia nei casi in cui erano coinvolti solo musulmani,sia nei casi che coinvolgevano musulmani e non-musulmani. Comunque, le corti erano anche aperte a non-musulmani che, come i documenti attestano, spesso portavano i loro affari perché fossero giudicati lì, sfidando le loro autorità religiose. Occasionalmente, per esempio, donne ebree traevano vantaggio dalle più generose norme della legge islamica per reclamare la loro eredità attraverso le corti islamiche piuttosto che attraverso le corti ebree. Un musulmano d’altro canto non aveva accesso ad una corte non-musulmana, né lo aveva un non-musulmano in un caso che coinvolgesse un musulmano. Le corti islamiche erano dunque le corti principali . Esistevano in ogni distretto; erano aperte a tutti, senza riguardo alla religione; e per casi misti, e casi che coinvolgevano solo musulmani erano le uniche corti riconosciute .

 

 

 

LA LEGGE: LA LEGGE RELIGIOSA

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  Sebbene i sultani ottomani fossero i garanti della legge islamica – la shari’a – essi non ne erano l’origine. La legge islamica non era la creazione di uno stato o di un sovrano musulmano, ma piuttosto la creazione e la proprietà comune della comunità musulmana, indipendentemente da divisioni politiche. La sua origine data dall’ottavo secolo, dalle discussioni dei giuristi che formalizzarono i suoi concetti fondamentali e la sua terminologia. Entro il decimo e undicesimo secolo essa aveva raggiunto una eleganza classica nella sua forma letteraria e sottigliezza e sofisticatezza nel suo apparato concettuale.

  Allo stesso tempo, i giuristi avevano sviluppato una teoria dell’origine della legge che le dava una legittimazione indiscutibile. Essi individuarono come fonte direttamente la rivelazione divina. Dio aveva fatto conoscere la sua parola eterna al genere umano nel Corano, che aveva rivelato attraverso il profeta Maometto. Il Corano era dunque la prima fonte della legge. La seconda erano le testimonianze dei detti e delle azioni del profeta, che Dio aveva scelto come esempio per l’umanità. Il Corano è invero la fonte di alcune leggi , come le norme che consentono ad un uomo di sposare fino a quattro mogli, e la base per alcune materie disciplinate dalla legge, tra cui importanti le regole per l’eredità. La diretta influenza del Corano è comunque limitata. Le tradizioni del profeta erano una fonte più abbondante di autorità legale. Queste probabilmente di fatto emersero in parallelo con la legge stessa, e servirono a giustificare dottrine di nuova formulazione proiettandole indietro al tempo del Profeta ma, quale che sia la loro origine, lo studio delle tradizione divenne un elemento importante nella scienza legale islamica. Per integrare queste fonti divine, i giuristi riconobbero anche il valore dell’analogia, l’unanimità dell’opinione dei giuristi e le consuetudini come basi supplementari della legge.

  La credenza circa l’origine divina della legge le diede un prestigio che la elevò al disopra della autorità politica del momento. Era il sovrano che portava ad esistenza la legge facendo eseguire i decreti, ma nessun governante poteva alterarne la sostanza. L’interpretazione e trasmissione della legge rimaneva sempre nelle mani delle persone colte – gli ulema – che, in virtù del loro ruolo come guardiani della tradizione, godettero sempre una posizione di potere nelle societàù islamiche.

  La legge islamica  non fu comunque, monolitica. Ci fu una distinzione tra la legge dei sunniti e la legge degli sciiti, e la legge sunnita stessa, in un periodo precoce della sua storia si divise in quattro scuole. Queste erano  le lscuole Hanafi, Shafi’i, Maliki e Hanbali, ciascuna che prende il nome dal suo supposto fondatore. Le differenze tra le dottrine  delle scuole non erano grandi ma, una volta stabilita, ciascuna scuola divenne virtualmente refrattaria all’influenza delle altre. La lealtà nei confronti di una scuola divenne la caratteristica dei giuristi islamici, la maggiore originalità dei quali si manifestò nella difesa delle dottrine della scuola. Qui, per esempio, il giurista hanafi Marghinani (m. 1198) difende il punto di vista hanafi che un regalo diviene proprietà del donatario  solo dopo che lui ne ha preso possesso. Egli rifiuta l’opinione maliki che offerta e accettazione sono sufficienti per trasferirne la proprietà: “Secondo l’opinione di Malik la proprietà [del donatario] è stabilita prima che prenda possesso, per analogia con la vendita… Ma noi [hanafi] seguiamo la parola del profeta – pace e benedizione su di lui –: ‘Il dono non è permesso prima che l’oggetto donato  sia stato preso in possesso’. L’intenzione di questo è di negare che la proprietà [è trasferita] perché la [mera] ammissibilità [del dono] è stabilita senza [prenderne possesso. Gli hanafi stabiliscono anche la presa di possesso] perché fare un dono è un atto volontario e stabilire la proprietà prima che [il donatario] prenda possesso renderebbe titolare per mezzo di un agente volontario, di qualcosa che egli non ha voluto, cioè la consegna [del regalo]…”. La tradizione della scuola divenne un marchio distintivo della giurisprudenza hanafi e questo ebbe anche un effetto sulla pratica della legge. Solo in due casi, per esempio, i giuristi hanafi permettono agli aderenti alla loro scuola di ricorrere ad un giudice non hanafi per la soluzione di problemi. La legge hanafi non permette ad una donna il cui marito l’ha lasciata senza mezzi di sostentamento, di cercare di ottenere l’estinzione del matrimonio, né permette lo scioglimento da un giuramento. In questi due casi, comunque, i giuristi hanafi permettono di ottenere la estinzione del matrimonio  o lo scioglimento da un giuramento  da un giudice Shafi’i, dal momento che entrambe queste cose sono consentite dalla scuola Shafi’i. Questa comunque è una rara eccezione alla esclusività della dottrina e della pratica di ciascuna scuola.

  Contrariamente, comunque, a quanto ci si potrebbe aspettare, i confini quasi impenetrabili tra le scuole di legge non conducono ad una eccessiva rigidità  nel pensiero  e nella pratica, dal momento che, in se stessa, ciascuna scuola ammette divergenze di opinioni. A dispetto della teoria della rivelazione divina come sorgente della legge  il metodo che i giuristi di fatto usano per legittimare una dottrina è di attribuirlo ad uno dei primi giuristi della scuola. Gli hanafi tipicamente ricollegano opinioni legali al nome del fondatore della scuola, Abu Hanifa (m. 750), o ai nomi dei suoi discepoli, Abu Yusuf (m. 798) e al-Shaibani (m. 805). Nella letteratura hanafi, è comune trovare opinioni opposte attribuite a queste figure, con ciascun punto di vista che rappresenta una dottrina legittima all’interno della scuola. Sulla questione, per esempio, se sia permesso a due non musulmani di fare da testimoni ad un matrimonio tra un musulmano e una non musulmana il giurista Quduri (m. 1037) scrive: “Secondo Abu Hanifa e Abu Yusuf è permesso; ma Muhammad [al-Shaibani] dice che non è permesso”. Sulla questione se il proprietario di una casa o il suo attuale occupante  paghi il prezzo di sangue quando è trovato un cadavere nel fabbricato e l’uccisore è ignoto, Abu Hanifa e al-Shaibani rendono responsabile il proprietario. Abu Yusuf, d’altro canto, stabilisce la responsabilità per l’attuale occupante. In entrambi questi esempi entrambe le dottrine sono valide e i giudici possono scegliere quella più adatta al caso particolare. Per ogni problema, dunque, a meno che non coinvolga una dottrina fondamentale, una scuola può offrire due o più soluzioni, pemettendo flessibilità nel dibattito giuridico e nella pratica legale.

  Per quanto riguarda il suo contenuto la legge islamica copre tutti gli aspetti della vita islamica. Qualsiasi testo legale di maggiore ampiezza  inizia con gli “atti di fede”, gli atti rituali che il genere umano, come suo schiavo, deve a Dio. Queste sono le leggi che ogni musulmano deve conoscere almeno nei loro fondamenti e che, in molti modi, definiscono la vita del musulmano. La preghiera, per esempio, è obbligatoria e perché sia valida il fedele deve essere ritualmente puro. Ottenere questo stato richiede una abluzione rituale  dopo la maggior parte delle emissioni corporee e perfino dopo il sonno, con la conseguenza che la mera esistenza fisica serve come costante ricordo del comando di dio. La richiesta di pregare cinque volte in un giorno ad ore stabilite, di seguire la preghiera comune il venerdì e di digiunare annualmente nel Ramadan non solo ricordano ai musulmani le loro obbligazioni verso Dio, ma definiscono anche il loro senso del passare del tempo e, attraverso la preghiera ella congregazione e il digiuno universale, creano un senso di comunità religiosa. La preghiera del Venerdì ha anche un aspetto politico. La legge richiede che chi guida la preghiera sia o il sovrano musulmano stesso, o la persona nominata dal Sultano, e dunque è attraverso la preghiera obbligatoria della congregazione che il sovrano musulmano irradia la sua autorità e la congregazione manifesta la sua obbedienza.

  La sezione più corposa dei manuali più comprensivi di legge islamica regola le transazioni tra persone. E’ qui che i giuristi discutono per esempio il matrimonio, il mantenimento, il divorzio e l’eredità o, nel campo del commercio e dei diritti di proprietà, la vendita, il diritto di prelazione, il noleggio, il pegno e la donazione. In questa sezione i giuristi espongono pure le norme per la fondazione e il mantenimento di fondazioni, le norme sulle prove e la procedura dinanzi ad una corte e altre materie importanti per la vita di ogni giorno della comunità. Comunque, sebbene questa sezione della legge tratta principalmente di affari secolari, considerazioni rituali e religiose sono sempre presenti. Nella prima sezione del suo capitolo  sulla vendita invalida, per esempio, Quduri ricorda al lettore che la vendita è invalida quando “uno o entrambi gli oggetti scambiati è [ritualmente] proibito, come è la vendita di una carogna, di sangue, di vino o di maiale”, queste essendo cose che sono proibite per i musulmani e perciò di nessun valore commerciale. Inoltre, i giuristi includevano nella stessa sezione, come trattazione degli affari secolari dei musulmani, capitoli che  riguardano più strettamente una relazione individuale con Dio. Esempi sono i capitoli sui giuramenti, la macellazione rituale e i tabù religiosi riguardo la caccia. In breve, allora, la legge islamica è una legge religiosa, ed è la sua aderenza ad essa che forma e definisce una società islamica.

  Una ulteriore caratteristica della legge islamica è la tendenza a dedicare energia e spazio alle discussioni di casi che non hanno alcuna applicazione nella realtà. I giuristi frequentemente prendono una norma pratica di diritto per poi discutere di ramificazioni ipotetiche in ancor più minuto dettaglio. Questa preoccupazione per i dettagli che spesso hanno scarsa o nessuna verosimiglianza è un elemento importante della giurisprudenza islamica. La legge, di fatto era vista solo in parte come offerente un sistema pratico legale. Presa come un tutto, rappresenta la volontà di dio o almeno lo sforzo dell’uomo di scoprire la volontà di Dio. E’ pertanto un atto di devozione esaminare ogni minuto aspetto di una regola legale, per quanto remota dal mondo reale, perché è così facendo che l’uomo viene a conoscere l’infinità di Dio. Non c’è mai stata una realistica aspettativa che  il genere umano possa, in pratica, conformarsi alla legge in ogni dettaglio. Questo rimane una pia aspirazione,ma mai una realtà effettiva.

  Un’altra caratteristica della legge è il suo conservatorismo e, in certi punti, il suo arcaismo. Questo si può più chiaramente vedere nei passaggi dove i giuristi conservano dai testi precedenti regole che non hanno applicazione nei loro tempi, o parole il cui significato essi probabilmente non intendono più. Per esempio, quando si discute la somma prefissata a compensazione per un omicidio preterintenzionale, i testi legali fino al diciannovesimo secolo persistevano nell’esprimere la somma dovuta intermini di differenti categorie di cammelli, usando lo stesso vocabolario tecnico per i cammelli che il fondatore della scuola aveva usato nell’ottavo e nel  nono secolo.

  L’arcaismo  non era necessariamente una barriera all’applicazione della legge. Nel caso della compensazione per la morte o la lesione, per esempio, era possibile convertire la tariffa espressa in cammelli in una somma di moneta o altro valore, cosicché le regole divenivano applicabili in pratica. Nondimeno, la legge rimaneva conservatrice. I giuristi continuavano a trasmettere il materiale, e invero esatte frasi e passaggi di testi che avevano ereditato dai loro predecessori. Specialmente, essi continuavano a lavorare nel quadro di concetti che i fondatori delle svuole avevano stabilito tra l’ottavo e l’undicesimo secolo.

  Questo non significa, comunque,che l’innovazione era impossibile. Nei commentari, in particolare, discutendo casi ipotetici legati ad una norma giuridica, i giuristi potevano sviluppare sub-norme di una varietà quasi infinita. Inoltre, la manipolazione di concetti esistenti  poteva creare nuove discussioni legali e soluzioni. Sulla questione della terra e della tassazione, per esempio, i giuristi trattano la terra come un bene  di proprietà privata, il cui statuto fiscale dipende da ciò che accadde alla terra al tempo della conquista islamica. Se essa era rimasta in proprietà degli infedeli, la terra pagava e avrebbe continuato a pagare imposte più alte, anche se in seguito venduta ad un musulmano rispetto alla terra la cui proprietà passò al conquistatore islamico. Questa era una finzione giuridica. In realtà la maggior parte della terra nel mondo medievale islamico era tenuta in possesso feudale, per mezzo della quale un governante distribuiva l’occupazione della terra  a soldati o a esattori delle imposte in cambio per servizio militare o fiscale. I giuristi musulmani presero nota di questa realtà e tentarono di descrivere il possesso feudale. Nondimeno, essi lo fecero in termini mutuati dalle leggi classiche sulla terra e la tassazione, che essi continuarono ad esporre e discutere in dettaglio. Dal sedicesimo secolo i giuristi ottomani tentarono anche di spiegare il sistema dei timar nel quadro della teoria legale classica. Le leggi dell’omicidio presentano un altro esempio di come i giuristi potessero manipolare le norme esistenti per creare una nuova soluzione. In caso di omicidio indiretto, dove A ordina a B di uccidere C, la legge stabilisce la colpevolezza dell’uccisore a contratto B. A meno che A non abbia costretto fisicamente B a compiere l’atto, egli non è colpevole. In pratica, comunque, un giudice potrebbe considerare l’intenzione di A di uccidere e il suo ordinare a B di farlo, come colpevole. Seguendo la teoria classica, egli dovrebbe dichiarare la colpevolezza nei riguardi di B, l’effettivo uccisore. Comunque, la legge consente anche ai giudici o alle altre autorità di imporre punizioni a loro discrezione, normalmente rimanendo nel vago riguardo alle offese a cui si applicano, e riguardo il livello della punizione. Il giudice può pertanto invocare questo potere, e imporre una punizione discrezionale all’assassino indiretto, A. In questo modo, egli potrebbe, combinando due norme disponibili, soddisfare le esigenze della giustizia senza sconvolgere la struttura concettuale della legge. Questa era, comunque, una manipolazione pratica della legge, piuttosto che uno sviluppo concettuale.

  A dispetto del suo conservatorismo, dunque, la legge islamica forniva i materiali per un sistema legale funzionale e flessibile. Comunque, in tre aree in particolare esso ha avuto una applicazione pratica molto limitata. Queste erano il possesso di terre, la tassazione e la legge criminale. Nel caso del possesso della terra e della tassazione i giuristi trovarono  modi di descrivere ciò che stava avvenendo in pratica ma ciò che essi stavano facendo era creare finzioni legali per descrivere una situazione esistente che essi non avevano creato e non regolavano. Una nozione islamica di legge cerimoniale, comunque, difficilmente può essere considerata esistente .

  La legge islamica tratta  l’omicidio e la lesione alla persona come, in termini occidentali, l’illecito civile. Sono la persona che ha subito la lesione o i parenti del deceduto che portano avanti le pretese di giustizia nei confronti dell’accusato, piuttosto che le autorità. Solo nel caso di cinque offese – fornicazione, accuse false di fornicazione, consumo di vino, furto e brigantaggio – la legge rende le autorità responsabili per la persecuzione e la richiesta di una punizione prestabilita. Allo stesso tempo, comunque, impone così tanti ostacoli procedurali per arrivare ad un verdetto di colpevolezza che le pene per queste offese rimangono  simboliche piuttosto che reali. Un procedimento per fornicazione che, se coronato da successo porterebbe alla lapidazione o alla fustigazione richiede quattro testimoni maschi dell’atto. Una dichiarazione di colpevolezza per furto, che porterebbe alla amputazione di un membro, può essere evitata se l’accusato dichiara semplicemente che pensava di essere il proprietario dei beni rubati. L’effetto di queste punizioni è dunque retorico. Esse simboleggiano l’enormità dell’offesa agli occhi di Dio, ma non sono penalità reali da applicare in questo mondo. In aggiunta a queste punizioni fisse, i giuristi riconobbero il diritto delle autorità di infliggere penalità a loro discrezione, ma non sistematizzarono mai la regola. Il risultato era di passare la responsabilità per la legge penale al governo secolare.

  In pratica, dunque, la legge islamica ha regolato rituali religiosi e molte aree della vita secolare. Comunque, nel campo del possesso di terre, della tassazione e della legge criminale è la legge secolare che ha dominato. Questo era vero sia per l’Impero Ottomano che per altre parti del mondo islamico.

  La conservazione, trasmissione ed applicazione di un corpo di leggi  richiede uffici e istituzioni permanenti. Le origini della legge islamica giaceva forse nei dibattiti tra gruppi che raccoglievano informazioni intorno a studiosi di grande levatura. Dall’undicesimo secolo, comunque, la tipica istituzione dell’istruzione islamica era il collegio presso una moschea sostentato da una fondazione. Dalle sue origini nell’undicesimo secolo in Iran e Iraq, il collegio divenne una caratteristica istituzione in tutto l’intero mondo islamico. Era lì che i professori insegnavano la legge e le altre scienze islamiche, e dove alcuni di essi composero i manuali di legge che preservavano la tradizione e servivano come testi per studenti. Nella gerarchia della stima era il giurista che scriveva e i cui libri presentavano la legge nella sua forma più pura che godeva della posizione più rispettata.

  I collegi mantennero e  insegnarono la legge, ma non erano essi che la rendevano effettiva. Questo era iil dovere dei mufti e dei giudici. Il mufti era un giureconsulto che offriva opinioni autorevoli – fatwa – su tutte le questioni legali che chiunque, dal monarca al suo più umile suddito  poteva chiedere. In molte parti del mondo islamico, egli otteneva la sua posizione i formalmente attraverso la reputazione di studioso sebbene nell’Impero Ottomano dopo il quindicesimo secolo i mufti erano normalmente ufficiali nominati. Era il mufti che  agiva come mediatore tra la legge divina e gli affari del genere umano e in questa capacità occupava il gradino successivo della stima pubblica, al disotto dei giuristi autori di opere. Come questi ultimi, egli non aveva alcun potere esecutivo. Una fatwa è una opinione, non un editto, e perché sia eseguita occorre l’approvazione  da parte di un giudice o di un governatore. Il giudice – o qadi – d’altro canto aveva poteri esecutivi. In teoria, almeno, il mufti doveva la sua posizione alla sua conoscenza della legge di Dio, e era in linea di principio superiore persino al monarca, un concetto che il cerimoniale ottomano manteneva facendo stare in piedi il Sultano di fronte al Gran Mufti. Il giudice, d’altro canto, era una persona nominata dal monarca a cui il sovrano aveva delegato autorità ed era in virtù di questa delega di potere che i suoi giudizi nelle corti erano vincolanti. Essi non erano, comunque validi come precedenti. Il decreto di un giudice era efficace solo riguardo il caso cui si applicava. Un testo autorevole o una fatwa, d’altro canto, era universalmente valido.

  Erano le figure del giurista autore di scritti, dell’insegnante, del mufti e del giudice che preservavano la legge islamica e la facevano eseguire nell’Impero Ottomano, come facevano in tutto il mondo islamico.

 

 

 

LA LEGGE: COLLEGI, MUFTI E GIUDICI

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  Al tempo dell’erezione dell’Impero Ottomano, nel quattordicesimo  secolo, la legge islamica era pienamente formata sia nella sua sostanza che per quanto riguarda le istituzioni ed era forse questa eredità della legge che, imponendo norme legali e religiose ebbe un ruolo maggiore di altri fattori nel determinare la forma futura della società ottomana.

  I turchi che, nel quattordicesimo secolo, costituivano la popolazione musulmana dei reami ottomani e degli altri principati dell’Anatolia occidentale, erano largamente illetterati e ignoranti di tutto tranne che i rudimenti della loro fede. Ciò che essi conoscevano sembrano averlo acquisito dai contatti dei loro antenati con musulmani di lingua persiana nell’Iran e nell’Anatolia selgiuchide. Il vocabolario religioso di base del turco rimane, fino ad oggi, persiano nelle sue origini. E’ comunque chiaro  dalle iscrizioni sui loro edifici e dalle traduzioni e adattamenti che essi commissionarono di opere arabe e persiane che i governanti del quattordicesimo secolo dell’Anatolia occidentale adottarono  rapidamente le forme di cultura e letteratura dell’antico mondo islamico. Essi adottarono anche la legge islamica, specificamente lale gge dalla scuola Hanafi, che era stata corrente in Anatolia sotto i selgiuchidi e che,sotto l’egida dei sultani ottomani doveva divenire la scuola dominante della legge islamica nel Medio Oriente. Per stabilire un sistema legale,comunque, era necessaria la fondazione di collegi per addestrare i professori, i mufti e i giudici che erano essenziali per questa operazione.

  Il cronista Ashikpashazade attribuisce ad Osman (c. 1324-62) la fondazione ad Iznik del primo collegio ottomano. Egli aggiunge  che nominò Davud di Kayseri come primo professore. Di Davud lo studioso del sedicesimo secolo Tashköprüzade scrive: “Studiò nella sua terra natale e poi viaggiò fino al Cairo per studiare esegesi coranica, le tradizioni [del profeta] e i principi della giurisprudenza sotto i suoi studiosi. Si distinse nelle scienze razionali e acquistò la scienza mistica… Il Sultano Orhan costruì un collegio nella città di Iznik. Da ciò che  ho udito da fonti attendibili, questo fu il primo collegio ad essere costruito nei regni ottomani, ed egli nominò Davud di Kayseri alla carica di professore”. Dato il lasso di tempo tra gli eventi descritti e le fonti, non è chiaro se queste storie siano accurate in ogni aspetto. Esse sono comunque plausibili nei loro dettagli e certamente accurate in senso generale.

  Nella prima metà  dell’esistenza dell’Impero non c’erano tradizioni di studi islamici nei territori ottomani. Era necessario, dunque, importare insegnanti per fornire lo staff dei nuovi collegi. La tradizione fa di Davud un nativo di Kayseri, dove aveva anche studiato. Questa città dell’Anatolia centrale era diventata un centro di istruzione e cultura durante l’era selgiuchide e il trasferimento di Davud a Iznik era dunque un esempio di come gli Ottomani e gli altri governanti dell’Anatolia occidentale trapiantarono  la cultura del vecchio mondo islamico nei territori occidentali appena conquistati. E’ pure significativo che Tashköprüzade  menzioni il viaggio di Davud al Cairo per proseguire i suoi studi. Sebbene Kayseri era stata una città musulmana dal momento delle conquiste e degli insediamenti selgiuchidi nel tardo undicesimo e dodicesimo secolo, come centro di cultura era insignificante in confronto con le grandi città del vecchio mondo musulmano, come Damasco o Il Cairo.

  Per gli studiosi provenienti dall’Anatolia, i viaggi di istruzione in queste città erano parte della loro educazione. Il successore di Davud di Kayseri ad Iznik fu Molla Alaeddin, conosciuto come Kara Hoja, che, secondo Tashköprüzade “si recò nella terra di Persia e studiò con i suoi studiosi prima del suo ritorno in Anatolia e della sua nomina ad Iznik”. Uno degli alunni di Molla Alaeddin fu Molla Shemseddin Fenari (1350-1431) che Tashköprüzade riferisce essere “professore a Bursa al collegio del Monastero e giudice lì, oltre che mufti nei reami ottomani. Anche Fenari, dopo il suo studio ad Iznik, era andato al Cairo per completare la sua educazione. Così fece pure il giurista e mistico Sheikh Bedreddin, che doveva guidare la ribellione contro Mehmed I (1413-21) nel 1416. Alcuni studiosi dell’Anatolia si stabilirono nelle città in cui avevano studiato, e fecero carriera lì. Un esempio nella prima metà del quindicesimo secolo è il giurista Ihn Humam (m. 1457), un nativo della città anatolica di Sivas.

  Questi viaggi presso i centri di apprendimento del vecchio mondo musulmano erano chiaramente esenziali per trasferire la legge e la cultura musulmana al giovane Impero Ottomano. Alla fine, con l’appoggio di nuovi collegi da parte dei sultani e dei loro facoltosi seguaci, e con l’annessione per conquista dei collegi pre-ottomani in Anatolia, l’Impero ottomano era divenuto  lui stesso, per il 1500, un importante centro di cultura. Sebbene i viaggi in cerca di conoscenza rimasero la caratteristica della vita degli studiosi musulmani essi non furono più richiesti per gli studenti ottomani. Invero, la prospettiva di patronato da parte del Sultano cominciò ad attirare studiosi da fuori l’Impero nella capitale ottomana. Perdipiù, la conquista della Siria e dell’Egitto nel 1516-17 portò i vecchi centri di cultura a Damasco e al Cairo nei regni del Sultano. Per la seconda metà  del quindicesimo secolo, e specialmente durante il sedicesimo e diciassettesimo, furono studiosi che operavano nei regni ottomani, come Molla Husrev (m. 1480), Ibrahim di Aleppo (m. 1569), Ibn Nujaym (m. 1563) o Timirtashi (m. 1595) che andavano producendo i manuali più riputati della legge hanafita.

  Era il sistema di collegi  nell’Impero che fece da supporto a questo aumento degli studi, come pure l’addestramento di nuove generazioni di insegnanti e mufti e la provvista di giudici per le corti. Ogni collegio dell’Impero era una fondazione indipendente, con il suo proprio patrimonio, membri e amministratori. Nondimeno, per la prima metà del sedicesimo secolo si era sviluppata una gerarchia di collegi con i salari pagati ai professori e, in un certo grado, i libri sui quali si insegnava che stabilivano il posto entro di essa. Al livello più basso c’erano quelli che pagavano i loro professori 20 akce algiorno; in cima, dagli anni ’70 del 1400 c’erano gli otto collegi che Mehmet II (1451-81) aveva istituito intorno alla sua moschea in Istanbul. Dopo che Solimano I (1520-66) ebbe completato la costruzione  della moschea Süleymaniye nel 1557, i collegi aggregati a questa moschea vennero ad occupare una posizione uguale a quella degli otto collegi di Mehmed II. Con l’elaborazione di questa gerarchia, i sultani cercarono di controllare la progressione degli studenti e insegnanti attraverso i collegi.

  Il cosiddetto Libro delle leggi di Maometto II, in questa sezione forse datato agli inizi del sedicesimo secolo, espone in una forma altamente idealizzata, come deve procedere la carriera di un insegnante. Diplomandosi, uno studente  dovrebbe diventare candidato per un ufficio, e poi ricevere un incarico di professore di 20 akce al giorno. Egli dovrebbe a qusto punto proseguire  attraverso il sistema dei collegi in passi da 5 akce, spostandosi in un collegio che paga 25 akce, poi in un collegio da 30 akce, e così via fino a che non raggiungeva uno degli otto collegi. Questi potevano essere il trampolino per la nomina a giudice in una grande città con un reddito di 500 akce al giorno. Da questa posizione era possibile diventare un giudice militare che siede nel Consiglio Imperiale.

  La sistematizzazione dei collegi portò anche a tentativi di controllare il progresso degli studenti. Un Libro delle leggi per studiosi, non datato ma probabilmente della prima meta del sedicesimo secolo, prova in particolare di assicurare che gli studenti continuino a studiare i “rispettabili libri” secondo “il vecchio costume” e non puntare ad una veloce promozione mediante petizioni”. Invece, ciascun studente, completato un corso con un professore  dovrebbe ottenere un certificato che dichiari quanto ha letto del libro e il professore del grado successivo non lo dovrebbe accettare  senza previo esame del certificato. Il Libro  crea anche un sillabo nominando, in forma abbreviata, i titoli dei libri che uno studente dovrebbe studiare  a ciascun grado. In particolare, i professori a ciascuno stadio dovrebbero insegnare testi e commentari sulla giurisprudenza. Il Libro conclude con l’affermazione che ogni professore o studente  che non osserva queste regole dovrebbe subire una severa punizione.

  Un secondo Libro delle leggi che apparentemente fu destinato ai collegi interni dell’Impero – cioè quelli di Istanbul e delle vecchie capitali Bursa ed Edirne – reitera queste regole. Dopo un preambolo,dove il Sultano stabilisce che “Si sente che l’insegnamento e l’apprendimento sono in decadenza… che i vessilli della scienza sono rotti… e i collegi vuoti di insegnamento e apprendimento”, il Libro insiste di nuovo che nessuno studente debba iniziare un libro fino a che non ha pienamente padroneggiato  quello che precede nel sillabo. Solo quando  essi hanno adeguatamente studiato tutti i libri ad un livello particolare essi dovrebbero ricevere un certificato dal professore, che permetta loro di procedere al grado successivo. In particolare, il Libro afferma,  studenti hanno raggiunto il più alto grado nei collegi in un anno o anche meno. In futuro, gli studenti dovrebbero leggere tutti i libri richiesti a ciascun livello e raggiungere gli otto collegi in non meno di cinque anni. Il Libro conclude che i collegi dovrebbero essere sotto sorveglianza, e che qualsiasi professore che disobbedisca al comando subisca la destituzione. Alla fine del diciassettesimo secolo, un decreto di Mehmed III (1595-1606) ripeteva questi editti.

  Sebbene essi fossero nominalmente indipendenti, i collegi vennero a formare,  durante il sedicesimo secolo,  qualcosa che si avvicinava ad un sistema imperiale, con nomina e sillabi sotto il controllo del Sultano.  Essi erano, di fatto, un elemento vitale nel governo ottomano, più ovviamente perché fornivano  l’addestramento legale necessario per i giudici. Essi fornivano anche opportunità di carriera per i nati musulmani – perlopiù turchi in Anatolia e Rumelia, Arabi in Siria, Egitto ed Iraq – che si trovavano esclusi dalle scuole di palazzo e così da carriere come governatori provinciali e visir.

  Entro il sedicesimo secolo, il diplomato di un collegio aveva la scelta di tre carriere in particolare. Poveva, con le giuste connessioni, entrare nel servizio degli scrivani , nel governo del Sultano o in una grande casa. Altrimenti, aveva la scelta di una carriera di insegnante o una carriera come giudice. In ogni caso egli necessitava, come primo passo del sostegno  di un membro anziano della professione colta , che lo poteva nominare candidato per un ufficio “al servizio” , nominalmente del Sultano, ma in pratica di uno dei giudici militari che effettivamente aveva fatto le nomine. Se uno studente proveniva da una delle famiglie di studiosi che erano emerse durante il sedicesimo secolo e giunsero a monopolizzare  gli uffici più alti nelle professioni istruite, egli poteva guadagnare il sostegno del suo insegnante o di altri membri della professione, qualche volta fornendo un servizio, come assistente in un collegio o impiegato nell’ufficio di un giudice militare.

  Fino agli anni ’30 del 1500, il sistema di sponsorizzare i candidati era chiaramente casuale. Comunque, durante il suo periodo come giudice militare di Rumelia tra il 1537 e il 1545, la figura ottomana più rinomata, Ebu’s-su’ud (c. 1490-1574) riformò il sistema, a seguito di lamentele provenienti da diplomati riguardo il fatto che il giudice militare dell’Anatolia, Chivizade Muhiyeddin stava impedendo la loro cooptazione come candidati  per l’ufficio. Da quel momento i giudici militari dovettero tenere uno speciale registro per iscrivere i candidati, mentre coloro che tenevano un alto ufficio avevano il diritto di nominare candidati ad intervalli di sette anni. Allo stesso tempo, Ebu’s-su’ud fissò il numero  di candidati che i titolari di uno specifico ufficio  potevano nominare a dieci per ciascun giudice militare, cinque per i giudici di Istanbul, Edirne e Bursa e tre per i giudici di altre importanti città. In pratica, la nomina di candidati sembra essere avvenuta ad intervalli di meno di sette anni, ed era consuetudine per il Sultano decretare investiture cerimoniali in grandi occasioni di stato, o di onorare la nomina di un nuovo giudice militare o Gran Mufti. Nondimeno, le misure che Ebu’s-su’ud introdusse ebbero l’effetto di controllare  la cooptazione di candidati nelle professioni istruite e presumibilmente evitare che i titolari degli uffici più alti potessero monopolizzare la nomina dei candidati.

  Se il candidato sceglieva di seguire una carriera come insegnante, poteva attendersi una nomina iniziale in un collegio provinciale con un basso stipendio. Da lì egli poteva avanzare con occasionali periodi senza ufficio attraverso la gerarchia dei collegi. Quelli che avevano maggior successo potevano alla fine arrivare ad uno degli otto collegi o, dopo il loro completamento nel 1557, in uno dei collegi dalla moschea Süleymaniye. Era soprattutto il posto di un uomo di cultura in un particolare collegio e il livello del suo stipendio che determinava il suo rango nelle professioni istruite. Questo divenne chiaro dalla raccolta di biografie a cura di Nev’izade Atai (1583-1636), di studiosi attivi tra i regni di Solimani I (1520-66) e Murad IV (1623-1640). Le biografie di Atai sono normalmente poco più che una annotazione dei collegi nei quali ciascuno studioso aveva insegnato, e di quali altri uffici era stato titolare. Per esempio, nel suo resoconto di un certo Molla Mahmud, che fu attivo  durante il regno di Ahmed I (1603-17), ci dice solo che il tutore reale, storico e Gran Mufti, Sa’deddin, lo aveva sponsorizzato per l’ufficio; e che dopo che egli aveva raggiunto il grado di un collegio da 40 akce al giorno – il grado più basso che Atai considera degno di menzione – nel 1605 divenne professore al collegio di Ibrahim pasha e poi, nel 1608, al collegio di Sinan pasha. Nel 1611 si spostò ad Edirne, dove morì l’anno seguente. Per le figure più importanti, Atai fornisce anche aneddoti e forse anche una lista dei loro scritti. Nondimeno, è sempre la progressione attraverso la gerarchia dei collegi che fornisce l’abbozzo del suo resoconto, indicando quanto era diventata fermamente stabilita la struttura delle carriere delle professioni colte.

  Una carriera di giudice seguiva uno schema simile  a quello di insegnante di collegio. E’ possibile che,fino alla prima metà del quindicesimo secolo i governatori di sanjak e altre autorità locali potessero nominare e promuovere giudici. Certamente nel 1431 il catasto dell’Albania del sud mostra che il governatore di sanjak concesse una aggiunta al feudo  del giudice di Kanina, “in accordo con la lettera del governatore Zaganoz Bey”. Entro il sedicesimo secolo, comunque, un aspirante giudice doveva prima cercare la raccomandazione di un membro con maggiore anzianità nella gerarchia delle professioni colte per diventare un candidato “al servizio” di uno dei giudici militari di Istanbul. Una nomina come giudice o come giudice deputato in una delle piccole città dell’Impero seguiva.

  Nei primi stadi delle loro carriere i giudici potevano guadagnare più dei professori nei collegi con un livello equivalente. Il salario nominale più basso che un giudice riceveva, che fosse pagato in contanti o che tenesse un feudo, era 25 akce a giorno, in confronto alle 20 akce di un insegnante novizio. In aggiunta, egli riceveva tasse  e altri emolumenti. In un altro aspetto, comunque la carriera aveva limitazioni. Se un candidato sceglieva inizialmente di servire come giudice piuttosto che come professore in un collegio, egli avrebbe servito per tutta la sua carriera in piccole città e non avrebbe mai potuto, come regola, assurgere a giudice di una città di grandi dimensioni. Queste posizioni – i grandi “seggi di Molla” – erano riservate ad uomini che erano saliti attraverso i collegi , normalmente per divenire professore agli otto collegi o al collegio Sülaymaniye. Un esempio di questo è la carriera di Ebu’s-su’ud, la cui prima nomina come insegnante nel 1517 fu presso un collegio da 30 akce a İnegöl. Nel 1525 egli era al collegio Sultaniyye a Bursa, una fondazione di Mehmed I, e, due anni più tardi, ad uno degli otto collegi. Nel 1533, Solimano I lo nominò giudice di Istanbul, effettivamente la posizione di giudice di più alto rango nell’Impero, e successivamente,nel 1537, giudice militare di Rumelia.

  Un candidato, dunque, che intraprende una carriera come giudice avrebbe trovato che, al più alto livello,  il suo sentiero era bloccato ed egli non poteva arrivare a diventare giudice di Bursa, Istanbul, Edirne, Il Cairo, Damasco o Baghdad. Queste limitazioni della carriera non si applicavano comunque solo ai giudici. In misura crescente durante il sedicesimo secolo e in modo più marcato durante il diciassettesimo e diciottesimo, le più alte posizioni giudiziarie divennero riservate a poche famiglie dell’élite e un professore di collegio proveniente da fuori di questo circolo non aveva maggiori chance di un “seggio di Molla” di quanto avesse il giudice di una piccola città. Era presumibilmente, dunque, per compensare gli aspiranti frustrati ad alte posizioni che, durante la fine del sedicesimo secolo, divenne possibile, allargando l’area della giurisdizione delle corti, designare giudici minori come “seggi dei molla”. Alcuni di questi nuovi seggi  divennero permanenti. Altri erano ad hominem. Atai riporta la carriera di un certo Molla Sinan, che fornisce un esempio.  Egli era diventato candidato per un ufficio dopo aver servito come scrittore di memorandum per il giudice militare, Abdurrahman (m. 1575), e poi iniziò una carriera come giudice, servendo in città gloriose come Tire e Alaşeir”. Poi, attraverso il matrimonio, divenne il protégé di un certo Ramazan Pasha, attraverso il quale egli acquistò un posto come ispettore finanziario e, con esso l’opportunità di accumulare ricchezza. In considerazione della sua nuova posizione, egli comincio a guardare le cariche di giudice presso piccole città come troppo umili per lui e a cercare un “seggio di Molla”. A questo fine, entrò nel seguito del Gran Visir Ibrahim Pasha, comandante dell’esercito in Ungheria. Questo deve essere stato nel 1599-1601. Il Visir, nel suo interesse, si accertò che la carica di giudice di Tire fosse elevata al rango di un “seggio di Molla” e che vi fosse nominato Molla Sinan. I “seggi di Molla” delle grandi città, che garantivano accesso ad uffici più alti rimanevano comunque il monopolio delle élites.

  I giudici erano forse le figure più importanti della amministrazione giornaliera dell’Impero Ottomano. Ogni città, paese, villaggio e insediamento nell’Impero ricadeva sotto la autorità di un giudice e ogni individuo nel distretto giudiziario, quale che fosse la sua religione, aveva il diritto di ricorrere davanti alla corte del giudice. Perdipiù l’assenza di avvocati e il fatto che il pubblico sembra aver avuto libero accesso al giudice o al suo deputato a tutte le ore, assicurava che le corti svolgessero i loro affari molto velocemente.

  Le funzioni dei giudici erano anche molto vaste. In primo luogo, presiedeva la sua corte, amministrando nella maggior parte dell’Impero la legge hanafi, senza tenere conto della religione o delle scuole legali delle parti in causa. La sua corte era aperta a chiunque  desiderasse fare una causa o un reclamo. I giudici ottomani agivano anche come notai, assicurando l’osservanza delle corrette forme legali e fornendo  documenti scritti degli atti come, per esempio, matrimonio, divorzio, vendita  e acquisto di beni immobili, creazione di fondazioni. Qualche annotazione  dai registri della corte di Ankara per due giorni nel gennaio del 1583 danno un’idea della routine giornaliera di un giudice. Un uomo domanda la restituzione di beni dati in garanzia. Un altro chiede una compensazione dall’uomo che ha ammazzato la sua bestia da soma. L’amministratore di una fondazione domanda dieci monete d’oro che gli sono dovute. Il giudice annota che un villaggio ha pagato 340 akce in luogo di orzo all’agente che è andato a raccogliere orzo per i cammelli del Sultano.  Un uomo  dichiara per iscritto che non sposerà più la sua fidanzata  e che le parti hanno restituito  tutti i beni scambiati nel quadro degli accordi pre-nuziali. Un uomo si fa garante  per un altro in una transazione concernente un cavallo. Sostenendo che suo marito ha divorziato da lei una donna chiede che paghi la controdote  e anche il mantenimento per il periodo  durante il quale ella non può legalmente rimaritarsi. L’abitante di un villaggio si lamenta di un altro che suona uno strumento musicale.

  La corte, sembra si riunisca normalmente presso la casa del giudice, dove questi, in tutte le sue funzioni, ha l’assistenza  di un delegato, che può condurre dei procedimenti in sua assenza, e di un impiegato o più impiegati che si occupano dei documenti e può fare indagini al di fuori della corte. I registri dei giudici  documentano anche, dopo ciascun caso, il nome di un gruppo semipermanente  di “testimoni del procedimento”. La loro funzione non è comunque chiara. Essi sembrano aver agito  come una memoria collettiva dei procedimenti della corte, e potrebbero essere richiesti, ad esempio, di stabilire la validità dei documenti. Come persone che conoscono la località e i suoi abitanti, essi forse offrono consiglio riguardo i casi, allo stesso tempo tenendo d’occhio la probità del giudice. Una persona che sottopone una questione alla corte incontra quindi non solo il giudice o il suo delegato, e l’impiegato della corte, ma anche un gruppo di testimoni permanenti.

  Le funzioni di un giudice, comunque, non erano tutte strettamente legali. I registri delle corti e i documenti del Consiglio Imperiale  mostrano che il Sultano indirizzava comandi ai giudici per svolgere una vasta serie di doveri. Erano, ad esempio, principalmente i giudici che erano responsabili per l’arruolamento di rematori per il servizio sulle galee della flotta imperiale, o per organizzare la raccolta di provviste lungo il percorso di marcia dell’esercito. Un esempio dei decreti che il Consiglio Imperiale emanò nei confronti dei giudici nel Giugno e luglio  1564 dà un’idea  dell’ampiezza dei loro doveri. Il giudice di Chernomen riceve un ordine di chiamata alle armi dei razziatori della Rumelia, dopo che il loro governatore ha riportato che non si sono radunati come dovevano. I giudici di Kilia e Akkerman dovevano sovrintendere la vendita di pecore ai mandriani che andavano ad Istanbul per portare rifornimenti alla capitale. Il Sultano ordina ai giudici di Plovdiv e Sofia di destinare artigiani e commercianti – un macellaio, un cuoco, un sellaio, un ciabattino e altri – all’esercito di Rumelia, sotto il comando del Governatore generale. I giudici i cui distretti si trovano lungo il percorso dell’esercito devono garantire gli approvvigionamenti. Il giudice di Antalya doveva procurare una galeotta per assicurare un celere passaggio verso l’Egitto di un messaggero che portava un importante decreto dal Sultano al governatore generale. Sembra, di fatto, che fossero i giudici, sia nelle loro funzioni amministrative che giudiziarie, a fornire supporto e continuità per l’autorità del Sultano.

  Il ruolo dei mufti nell’establishment legale musulmano è più difficile da definire. Il mufti di Istanbul giunse a diventare, nel sedicesimo secolo, non soltanto il Gran Mufti  ma anche la figura di rango superiore nella gerarchia religiosa e legale. Gli altri mufti  non erano così importanti. Sembra che nel quindicesimo e sedicesimo secolo fossero i professori dei collegi  a fungere da mufti. Bayezid II, per esempio, stabilì che il professore del collegio che egli fondò ad Amasya nel 1486 doveva anche fungere da mufti della città. La biografia di Atai, comunque, dà l’impressione  che, dalla metà del sedicesimo secolo almeno, il Sultano  nominava anche mufti salariati in importanti città e paesi, come Tessalonica, Damasco o Rodi. Sembra, comunque, che non esistano documenti sopravvissuti delle loro attività, e le nomine come mufti sembrano non aver mai formato la parte più importante di una carriera. L’ufficio di mufti che Atai registra appare normalmente come intervallo tra incarichi di giudice. Atai chiarisce anche che i professori di collegio, ufficialmente o non ufficialmente, continuavano ad agire come mufti. Un Libro delle leggi di Aleppo, datato 1570, fornisce un esempio. Il testo riporta come sia sorto un problema quando un certo  Mehmed Celebi stava facendo un nuovo accatastamento del sanjak. Durante il corso di questo lavoro un gruppo di proprietari terrieri e di amministratori di terre di fondazione andò da lui per lamentare che le loro terre pagavano la decima, laddove altre terre private e di fondazioni  non la pagavano “Se”, essi protestavano, “è legittimo prelevare la decima, perché non è prelevata da tutte queste terre? E se è contrario alla nobile Shari’a noi chiediamo che venga abolita”. La reazione dell’agrimensore fu di cercare una opinione in materia  dal Professore del collegio di Husrev Pasha ad Aleppo, che emise una fatwa che stabiliva: “La decima canonica  è obbligatoria per tutti loro”. L’agrimensore allora presentò la fatwa al palazzo e ricevette un decreto del Sultano basato sulla sua decisione: “Tu dovrai prelevare la decima canonica da tutti loro  e riscuoterla per il Tesoro”. Questo era un caso di un ufficiale del governo che richiedeva una fatwa ad un mufti, che successivamente costituì la base per un decreto. I giudici potevano anche consultare i mufti su questioni legali, esattamente come i membri del pubblico su una qualsiasi questione. Sotto questo aspetto, i mufti giocavano  una parte vitale nell’adattare le norme ereditate dalla legge islamica e dalla religione ai problemi della società dei loro tempi. Nell’Impero Ottomano comunque sono solo le fatwa dei Gran Mufti – i mufti di Istanbul – che sono sopravvissute in gran numero. Poco si conosce dei mufti provinciali, e il servizio come mufti nelle province sembra non aver mai costituito una carriera di un certo rango, come quella di giudice o professore.

  Sembra che i giudici dei piccoli paesi e i professori dei collegi in generale rimanessero all’interno della loro professione. Nondimeno, le biografie di Atai registrano molti casi di insegnanti che ricevevano nomine da giudici e viceversa. Un certo Molla Abdullah, per esempio, entrò nella professione docente  come candidato del Gran Mufti, Zekeriyya Efendi (m.1593). Dopo essere progredito attraverso il sistema, divenne, nel 1624, professore al Collegio Süleymaniye ad Iznik, con – senza dubbio come consolazioone per una carriera senza sbocchi – “il grado  degli otto collegi”. L’anno seguente, lasciò il collegio per diventare giudice a Tire. Una biografia di poco precedente serve a mostrare come una persona poteva servire da Mufti, insegnante e giudice nel corso di una singola carriera. Molla Ma’rifetullah iniziò una carriera di insegnante come candidato “di alcuni uomini di cultura”. Nel 1584 era professore al collegio di Küçük Çekmece vicino Istanbul. Cinque anni più tardi, accettò un posto di Mufti di Rodi. Poi, nel 1590, ricevette una promozione a giudice di Damasco, uno dei grandi “seggi di Molla” dell’Impero. Fu probabilmente il prestigio del suo incarico che lo indusse a rifiutare ciò che era in effetti una retrocessione a giudice di Erzurum nel 1595. Invece, si trasferì presso il Collegio del Sultano Mehmed a Medina. Successivamente si trasferì come mufti di Cipro, poi a Damasco, morendo in Istanbul nel 1606 mentre attendeva un nuovo incarico.

  Nelle sue biografie, Atai fornisce molti esempi di incarichi che rappresentavano una posizione onorata durante la permanenza in carica di un particolare individuo, come ad esempio posti di professori tenuti “col rango degli otto collegi”, o posti di giudice in piccole cittadine tenuti come grandi “seggi di Molla”. Questo indicava  che, dopo la metà del sedicesimo secolo, per molti professori, giudici e mufti, non c’era speranza di raggiungere l’apice della professione, e che questo rango era un premio di consolazione.

  C’erano tre ragioni per questo. Prima, le posizioni al vertice della gerarchia erano molto poche. Durante il sedicesimo secolo, il mufti di Istanbul emerse come la figura più importante nell’establishment colto, ma questo era un solo incarico. I mufti nelle province non godevano di effettivo prestigio o influenza. I giudici di rango più  elevato dell’Impero erano i giudici militari che sedevano nel Consiglio Imperiale, ma ce n’erano soltanto due, e la carica di giudice nelle grandi città – cioè “seggi di molla” che non erano puramente onorari – erano pochi. C’erano solo otto cariche di professore negli Otto Collegi e, dopo la costituzione del collegio Süleymaniye, un po’ di più oltre questi , ma non  a sufficienza per soddisfare tutti gli aspiranti. Perdipiù, questi collegi di élite agivano come colli di bottiglia. Per diventare giudice di una grande città era normalmente necessario aver servito come professore negli otto collegi. Per diventare un giudice militare, era a sua volta necessario aver servito come giudice di una grande città, e il mufti di Istanbul aveva generalmente servito come giudice militare. Cominciando dagli otto collegi, dunque, c’era uno stretto controllo su chi poteva occupare le posizioni giudiziarie e di insegnamento di rango più alto nell’Impero. Il secondo fattore che limitava le opportunità di una persona era l’affollamento nel sistema. Al livello più alto, questo conduceva ad una fiera competizione tra i candidati per gli incarichi e a periodi molto brevi negli uffici. Al livello più basso, conduceva alla comparsa in Anatolia di bande di studenti di collegio senza prospettiva di impiego che si dedicavano al brigantaggio come mezzo di sussistenza. Infine, gli ambiziosi trovavano che un ristretto numero di famiglie già monopolizzava le posizioni al vertice. Questo fenomeno divenne più pronunciato dalla fine del sedicesimo secolo in poi. Gli occupanti del posto di Gran Mufti servono da esempio.

  La tradizione ottomana menziona Molla Shemseddin Fenari come il primo che tenne questo ufficio, tra il 1424 e il 1431. Il suo discendente, Fenarizade Nuhiyeddin doveva occupare la stessa posizione dal 1543 al 1545. Per allora, comunque, i più potenti aspiranti all’incarico erano i due giudici militari, Ebu’s-su’ud e Chivizade Nuhiyeddin. Chivizade era il primo ad avere la carica di mufti, dal 1539 fino alla sua rimozione quattro anni più tardi. Il suo successore  era il suo rivale, Ebu’s-su’ud, che rimase in carica  fino alla sua morte nel 1574. Il suo immediato successore,comunque, era Hamid Mahmud, il figliastro di Chivizade. La rivalità tra le due famiglie chiaramente continuò. Il successore di Hamid Mahmud  fu Ma’lulzade Mehmed, il figliastro di Ebu’s-su’ud e, alla sua cessazione nel 1582, il figlio di Chivizade, Hajji Mehmed assunse l’ufficio. Fu l’ultimo della famiglia di Chivizade ad occupare questa posizione. Intanto, le fortune della famiglia di Ebu’s-su’ud continuarono con il figlio di suo cugino, Sun’ullah, che fu per quattro volte Gran Mufti tra il 1599 e il 1608. Per allora, comunque, erano emersi potenti rivali. Nel 1598, Mehmed III nominò il tutore suo e di suo padre, Sa’deddin, come mufti. Questo periodo della carica durò solo l’anno e mezzo che precedette la sua morte, ma i suoi discendenti mantennero una pretesa di famiglia per mezzo secolo. Il suo figlio maggiore, Mehmed, era Gran Mufti tra il 1601 e il 1603, e di nuovo tra il 1608 e il 1615, mentre il suo figlio più giovane, Es’ad, occupava l’incarico tra il 1644 e il 1646. Tre anni più tardi il nipote di Sa’deddin, Bahai Efendi fu nominato Mufti. L’avversario con maggior successo alle aspirazioni della famiglia di Sa’deddin fu Zekeriyyazade Yahya. Comunque, era egli stesso figlio di un precedente Gran Mufti, Zekeriyya Efendi, che aveva occupato l’incarico nel 1592-93, cosìcché anche lui poteva vantare una pretesa dinastica.

  Dalle loro  posizioni come Gran Mufti o giudice militare i membri di successo delle dinastie colte potevano usare il loro patronato per promuovere i loro parenti. La famiglia di Ebu’s-su’ud fornisce un esempio. Grazie all’influenza di suo padre il figlio maggiore di Ebu’s-su’ud, Mehmed, ricevette la sua prima nomina di insegnante, al collegio di Kasim Pasha, all’età di tredici anni con lo stipendio insolitamente alto di 50 akce al giorno. Nel 1551, all’età di circa 26 anni era professore presso gli Otto Collegi. Suo fratello, Shemseddin Ahmed divenne, all’età di diciassette anni, professore al collegio che il Gran Visir Rüstem Pasha aveva recentemente fondato ad Istanbul. Entrambi questi figli morirono giovani, lasciando Ebu’s-su’ud con l’incarico di educare i suoi nipoti. Il maggiore dei due, Abdülkerim, divenne professore presso il collegio di Mahmud Pasha, secondo il biografo Manq Ali, “in onore di suo nonno, e contrariamente al costume”. Morì nel 1573-74, essendo già diventato, non ancora trentenne, professore di uno dei collegi presso la moschea Süleymaniye. Comunque, con la morte di suo nonno, perse la sua fonte di patronato e, per usare le parole di Atai, “il veloce destriero sul sentiero della prosperità inciampò nella pietra della sfortuna”. La sua carriera non ebbe avanzamenti  fino a che, nel 1580 egli ricevette l’incarico di professore presso il nuovo collegio delle moschea del Sultano Selim II ad Edirne. Morì in questa città pochi anni dopo. Ebu’s-su’ud non offriva il suo patronato  solo ai suoi figli e nipoti. Come giudice militare di Rumelia nel 1537, fu in grado di portare suo cugino Ja’fer ad Istanbul, dove intraprese una carriera che culminò nel periodo di sei anni in cui tenne l’ufficio  di giudice militare dell’Anatolia. Il fratello di Ja’fer, Lutfullah, era professore presso gli Otto Collegi dal 1562 fino alla sua morte nel 1568. Suo figlio Sun’ullah doveva diventare Gran Mufti. Ebu’s-su’ud non era nient’affatto insolito nel promuovere la sua famiglia. Entro un sistema politico quasi senza istituzioni collettive  e dove il potere e il patronato risiedevano in famiglie e entourages, questa era l’unica via per avanzare nella carriera.

  Delle posizioni a cui aspiravano i membri di queste famiglie di uomini di cultura, l’incarico di giudice di una grande città non differiva, essenzialmente, dall’incarico di giudice di una piccola città. I due giudici militari, comunque, erano membri del Consiglio Imperiale e, come tali, partecipavano al governo ai più alti livelli, sia attraverso le discussioni formali del Consiglio che attraverso contatti informali con il palazzo e le grandi personalità dell’Impero. Nel Consiglio essi avevano particolari responsabilità per le faccende giudiziarie. Questo risulta chiaramente dalle note che gli impiegati avevano aggiunto alle bozze dei decreti del Sultano contenuti nei volumi che sopravvivono a partire dalla metà del sedicesimo secolo.

  Queste mostrano che i giudici militari erano, in primo luogo, responsabili per la sottoposizione al Consiglio Imperiale di lettere e petizioni che chiedevano rimedi giuridici e che essi ricevevano dai titolari di uffici e da membri del pubblico. Nel maggio 1560, per esempio il Sultano – o piuttosto il Consiglio Imperiale che agiva in nome del Sultano – emise un comando indirizzato al giudice di Bursa di indagare e riferire riguardo una lamentela da parte della comunità armena contro un individuo che aveva “causato agitazione” contro due chiese. Le bozze del decreto riportano una nota: “Il giudice militare [dell’Anatolia] le sottopose”. Nello stesso mese, il Consiglio ricevette una lettera dal professore del Collegio di Mehmed Pasha ad Iznik, che lamentava che qualcuno aveva senza necessità costruito dei bagni, che stavano sottraendo sia acqua che denaro dai bagni che appartenevano alla fondazione che sostentava il collegio. In risposta, il giudice di Iznik ricevette l’ordine di non consentire la costruzione di nuovi bagni in città. La nota aggiunta alla bozza indicava che il testo del decreto incorpora le esatte parole dell’ordine del giudice militare: “Il Giudice Militare [dell’Anatolia] sottopose [la lettera]. Perché ha scritto il suo comando sulla petizione, il decreto è stato scritto in conformità”. Una simile nota appare su un decreto, anch’esso del maggio 1560, emesso in risposta ad una lettera del governatore del sanjak di Sultanönü,che riportava i sospetti di un caso complesso di omicidio. Il decreto, che incorporava gli ordini del giudice militare, ordina a lui e al giudice di Eskişehir di infliggere “il costume accettabile” – cioè la tortura – al sospetto, e di riportare ciò che ne sarebbe derivato. Aggiunge enfaticamente che il sospetto non deve essere ucciso. Un altro decreto, questa volta del giugno del 1560, emesso in risposta ad una lettera del giudice di Beypazar, ordina l’esecuzione di un attaccabrighe per violenze carnali su ragazzi, e dei suoi complici, se ripetono l’offesa. Il testo reca la nota: “Il giudice militare [dell’Anatolia] sottopose [la lettera], e il decreto è registrato incorporando le sue parole”.

  I giudici militari erano anche i principali agenti nello svolgimento di un’altra delle funzioni del Consiglio Imperiale. Dalla fine del quindicesimo secolo, la classe militare – cioè, chiunque ricevesse un feudo o un salario dal Sultano, – ricadde sotto una giurisdizione separata dal resto dei sudditi del Sultano. In materia criminale, le autorità locali sottoponevano i casi al Consiglio Imperiale, dove essi venivano esaminati dai giudici militari. Nel novembre 1559, per esempio, il giudice militare dell’Anatolia ordinò al giudice di Iznik di giustiziare il subashi – il titolare di uno zeamet con la responsabilità di mantenere  l’ordine e di infliggere le punizioni – nel suo distretto, dopo che era venuto alla luce che c’era lui dietro  l’assassinio di un gruppo di donne sulla pubblica strada. Nel luglio del 1560, dopo aver ricevuto una lettera dai giudici di Ayazmend e Bergama, il giudice militare ordinò al governatore del Sanjak di Bursa di torturare il subashi di Bergama, che era sospettato  di aver ucciso il custode del castello di Bergama. Nel settembre del 1560, il giudice militare della Rumelia ordinò al governatore del Sanjak e al giudice di Vidin di indagare su un caso dove un cavaliere del sanjak era sospettato di averne ucciso un altro. In tutti questi casi, le autorità esecutive dovevano riportare gli esiti al Consiglio Imperiale.

  In questo saggio dell’attività dei giudici militari sono solo le note degli impiegati sulla bozza dei decreti che rendono chiaro che era stato il giudice militare che aveva presentato la materia al Consiglio e preso la decisione circa cosa fare. I decreti stessi furono emessi in nome del Sultano. Lo stesso saggio comunque, suggerisce anche che i giudici militari potevano emanare comandi indipendentemente, nel loro nome o nel nome del Sultano. Una nota aggiunta alla bozza di un decreto del giugno del 1560 registra che “un comando scritto dal giudice militare [dell’Anatolia]” è stato dato allo stesso messaggero che stava portando il decreto del Sultano. Perdipiù, un comando del Sultano al Governatore generale dell’Anatolia concernente il sospetto “nel caso della ragazza chiamata Halime” nota che “il mio nobile comando è stato scritto a voi  dal mio giudice militare”, suggerendo che i giudici militari potevano emanare in modo indipendente ordini in nome del Sultano.

  In aggiunta alle loro responsabilità in materie giudiziarie nel Consiglio Imperiale, erano i giudici militari che erano responsabili per le nomine – di nuovo in nome del Sultano – dei professori e dei giudici tra i candidati  all’ufficio che erano “al servizio” di essi nella capitale. Il sistema di nominare i candidati  che Ebu’s-su’ud introdusse poco dopo il 1537 sembra essere durato fino al diciassettesimo secolo.

  Come membri del Consiglio Imperiale, i due giudici militari occupavano le più alte posizioni esecutive nella gerarchia legale e colta. Comunque, durante il sedicesimo secolo il Gran Mufti li sorpassò in rango e prestigio. La tradizione asserisce che Molla Fenari tra il 1424 e il 1431 era il primo a tenere questo ufficio, ma è difficile rintracciare con certezza persino i nomi dei suoi successori, ciò che suggerisce che nel quindicesimo secolo la carica di Gran Mufti mancava del prestigio che doveva acquisire più tardi. Questo era un fenomeno del sedicesimo secolo e oltre, ed avvenne, sembra, in parte come un risultato del classico punto di vista musulmano della superiorità morale del mufti sul giudice,ma principalmente attraverso il prestigio personale di due dei più grandi titolari dell’ufficio. Questi furono Kemalpashazade (1525-1534) ed Ebu’s-su’ud (1545-1574). Il cosiddetto Libro delle leggi di Maometto II che,in questa sezione, probabilmente data dalla seconda metà del sedicesimo secolo, stabilisce in modo non equivoco che il Gran Mufti è il vertice delle professioni colte, ed era allora normale per il mufti di aver servito in precedenza come giudice militare.

  A dispetto della sua eminenza, il Gran Mufti non possedeva poteri esecutivi e non era un membro del Consiglio Imperiale. Comunque, lo stesso ufficio conferiva prestigio e i Gran Mufti si muovevano nei circoli politici più alti, spesso godendo di accesso al Sultano. Ebu’s-su’ud, per esempio era un confidente di Solimano I. Sa’deddin era stato insegnante di Murad III e mehmed III e rimase un consigliere di entrambi. Suo figlio Es’ad divenne patrigno di Osman II (1618-22). Con queste connessioni, i granMufti esercitavano influenza in politica,ma questo non era il loro ruolo formale. La funzione pubblica del Gran Mufti, come quella delle sue controparti più umili, era di emanare delle fatwa in risposta a quesiti legali e di altro genere, che chiunque dal Sultano in giù, poteva chiedere. Il suo status come il più eminente interprete della legge di Dio era tale che persino il Sultano doveva tenere conto  della sua opinione e l’autorità delle sue fatwa erano tali che, dal tempo dell’ufficio di Kemalpashazade divenne consuetudine scegliere e pubblicarle in antologie. Questi volumi di fatwa sevivano non solo come lettura edificante,ma  aiutavano anche i giudici e altri che cercavano una guida nella soluzione di problemi legali.

  Prima dell’incarico di mufti di Ebu’s-su’ud, il processo di scrivere le fatwa era informale, come è evidente dal resoconto del Gran Mufti, Ali Jemali (1503-1525) che appare nel volume di biografie di uomini colti di Tashköprüzade. “Egli era solito”, scrive Tashköprüzade, “vivere all’ultimo piano della sua casa, dove aveva un cesto che pendeva. Il richiedente  vi poneva [il suo quesito scritto su ] un pezzo di carta e lo agitava. Il Molla avrebbe allora sollevato [il cesto], scritto e dato giù la sua risposta”. Questa e altre procedure informali chiaramente limitavano il numero di fatwa che il mufti poteva emettere e fu per accelerare il processo che Ebu’s-su’ud, mufti dal 1545 al 1574, riformò il sistema. Da questo periodo, fino alla abolizione dell’Ufficio delle fatwa nel ventesimo secolo, il quesito non poteva arrivare direttamente al mufti,ma invece andava agli impiegati del mufti, che erano esperti nella legge e nell’arte della formulazione legale,. Questi riesponevano il quesito secondo un formato standard e lo passavano al mufti, che avrebbe scritto la sua risposta sotto la domanda ed aggiunto la sua firma, pronta per essere presa da colui che aveva fatto la richiesta. Il sistema di Ebu’s-su’ud accelerò il processo in tal misura che il suo impiegato Ashik Celebi poteva ricordare come [Ebu’s-su’ud] cominciasse a scrivere  risposte dopo la preghiera dell’alba ed era sicuro che il lavoro terminasse per la chiamata alla preghiera pomeridiana. Egli le contava e nella prima occasione furono emesse e siglate 1412 fatwa e nella seconda occasione furono emesse e siglate 1413 fatwa”. Nel secolo seguente  il sistema divenne più sofisticato mano a mano che le abilità degli impiegati aumentarono. Per la fine del diciassettesimo secolo era normale scrivere in bozza  una questione in modo che  richiedeva non più di un “si” o un “no” come risposta, lascinando al mufti il compito di aggiungere un “si” o un “no” e la sua firma. Dato che gli impiegati affidabilmente ordinavano le fatwa in una pila per il “sì” e in una pila per il “no” egli  non doveva neanche leggere la domanda. Era così lo staff permanente dell’ufficio del mufti, piuttosto che i mufti stessi, che mantenavano gli standard e la continuità nell’emissione delle fatwa, e che succesivamente raccoglievano e ponevano in antologie le fatwa.

   L’ufficio del Gran Mufti, come le corti dei giudici, era aperto a chiunque fosse fisicamente capace  di presentarsi con una domanda. Comunque, dal momento che le fatwa sono, in principio, dichiarazioni generali della legge piuttosto che giudizi su casi particolari, essi sono in forma strettamente anonima con i dettagli circa il nome, il tempo o la località rimossi. Questo rende difficile stabilire  chi pose la domanda originale e in quali circostanze. Comunque, molte domande devono essere venute dal pubblico, che desiderava risolvere un dubbio  o una disputa, o cercava una fatwa per rafforzare la propria posizione in una causa che portava all’attenzione di una corte. Altre domande dovevano provenire dai giudici che cercavano una guida nel risolvere una causa o in altri problemi. Nella fatwa seguente, per esempio, Ebu’s-su’ud sembra rispondere alla domanda di un privato che vuole conoscere la corretta procedura per macellare gli animali, probabilmente alla Festa del Sacrificio: “Quando un animale da macello deve essere macellato, quante zampe devono essere legate, e quali devono essere lasciate libere?”. Risposta: “Tre delle zampe sono legate. La zampa destra deve essere libera e l’animale deve giacere sul fianco sinistro”. La seguente domanda sembra essere giunta ad Ebu’s-su’ud da parte di un giudice che chiedeva soluzione ad un difficile problema: “X produce prove che A è stata sua moglie da una certa data. Y produce pure prove che essa è stata sua moglie dalla stessa data. Quali prove sono accettabili?”. Risposta: “Se le due date sono le stesse non è da accettare alcuna prova. Le due prove si contraddicono l’una con l’altra”.

  L’autorità dei mufti era tale che persino i sultani e gli uomini di stato sentivano il bisogno di consultarli sulla legalità di certe azioni  politiche. Ci sono fatwa, per esempio, che servirono a giustificare l’esecuzione dello Sheikh Bedreddin nel 1416, emesse in questo caso da un Molla persiano; o per giustificare la guerra nel sedicesimo secolo contro i Safavidi; l’esecuzione di suo figlio Bayezid ad opera di Solimano; l’attacco a Cipro nel 1570, in violazione di un trattato di pace; o la deposizione di sultani nel diciassettesimo secolo. In questi casi le fatwa avevano esattamente la stessa struttura di quelle che trattavano con materie meno importanti, con domande e risposte poste nello stesso linguaggio anonimo. Non ci potevano comunque essere dubbi sul fatto che in questi ultimi casi i mufti  conoscevano esattamente la realtà della situazione riguardo alla quale manifestavano un’opinione, e in quasi tutti i casi  erano preparati a dare al Sultano, o ad altre autorità la risposta che cercava. La situazione nel diciassettesimo secolo era che se essi rifiutavano era probabile che perdessero la loro posizione. “Ma talvolta ”, commentava il console inglese sir Paul Rycaut negli anni ’60 del 1600: “Sono inviate dal Gran Signore al Mufti domande che questi non può risolvere con soddisfazione della propria coscienza, e secondo i fini del Sultano; a causa di che, il bene dello stato incontra ritardi e impedimenti. In questo caso il mufti è senz’altro destituito dal suo infallibile ufficio, e viene introdotto un altro oracolo, che possa risolvere  le difficili domande  con una sentenza più  favorevole. Se non lo fa, è degradato come il precedente, e così capita al successivo, fino a che non ne viene trovato uno che sia in grado di interpretare in accordo con ciò che meglio concorda con gli interessi del Sultano”.

 

 

 

 

LA LEGGE: LA LEGGE SECOLARE

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  Dal quindicesimo secolo e probabilmente da prima, la legge sacra – la shari’a – regolava la maggior parte degli affari giornalieri dei musulmani nell’Impero Ottomano e anche molti aspetti della vita dei non-musulmani. Non era comunque l’unico sistma legale in vigore nell’Impero, ma coesisteva anche con la legge secolare ottomana o kanun.

  Il kanun regolava aree in cui le disposizioni della legge religiosa  erano o mancanti  o troppo in contrasto con la realtà tanto da essere inapplicabili. Queste, nell’Impero Ottomano come negli altri stati islamici, erano soprattutto le aree della legge criminale, del possesso della terra e della tassazione. Le origini della legge secolare erano nelle consuetudini ed era un lungo uso che in primo luogo dava loro la legittimazione. La fine del quindicesimo e del sedicesimo secolo comunque videro il Sultano emanare versioni scritte della legge e la loro modifica tramite decreti che le davano il carattere duplice di legge sultanica e consuetudinaria. Arrivati al sedicesimo secolo la consapevolezza della disparità tra la legge religiosa e la legge secolare condussero Kemalpashazade e successivamente, su comando imperiale, Ebu’s-su’ud a ridefinire e sistematizzare le leggi ottomane sulla terra e la tassazione in termini che mutuavano dai giuristi hanafi. Nel fare questo, essi seguivano la tradizione dei loro  predecessori medioevali che pure essi avevano cercato di spiegare la realtà del possesso feudale e della tassazione usando termini e concetti della legge classica. Come i loro predecessori, ciò che produssero erano finzioni legali che soddisfacevano le pie aspirazioni senza sconvolgere la realtà legislativa.

  La base della legge secolare ottomana era la distinzione tra i sudditi del Sultano che pagavano le tasse e i suoi servitori che ricevevano un salario o sotto forma del possesso di feudo o direttamente dal Tesoro. La legge secolare determinava la relazione tra queste due classi. Questo era differente dalle distinzioni che si trovano nella legge religiosa, dove è la classificazione in maschi e femmine, liberi o schiavi, musulmani o non musulmani o nemico non musulmano che determinano lo stato legale di una persona e i suoi diritti e obbligazioni. Nella classificazione secolare dei sudditi ottomani, coloro che sono esenti da imposte sono conosciuti come la classe militare – gli askeri. L’aggettivo descrive la loro funzione più o meno accuratamente, dal momento che la maggior parte dei membri della classe erano soldati, cavalieri timarioti, o altrimenti giannizzeri e membri delle sei divisioni della cavalleria di palazzo che ricevevano i loro salari dal Tesoro. Comunque, in aggiunta a questi uomini e ai visir e ai governatori provinciali, che servivano come comandanti dell’esercito, la classe militare comprendeva anche i cortigiani del palazzo e i membri delle professioni religiose, dell’insegnamento e legali. Il termine generale per un membro della classe di persone che pagavano le tasse era un termine arabo che veniva dalla legge religiosa, ra’iyyet o, al plurale, re’aya (“gregge”). La grande maggioranza di questi erano contadini coltivatori e, nel suo senso tecnico il termine ra’iyyet è riferito ad un contadino che coltivava un appezzamento di terreno in virtù di un accordo contrattuale col possessore del feudo come rappresentante del Sultano. In senso generale il termine si riferiva a tutti i soggetti ottomani che non erano membri della classe militare.

  La formulazione di una terminologia per descrivere i soggetti che pagavano le imposte e i soggetti che non le pagavano, è il risultato di tentativi fatti alla fine del quindicesimo secolo di definire il loro status legale. Una delle cose che lo aveva reso necessario era  l’istituzione di una giurisdizione separata per la classe militare. Questo, se dobbiamo credere alla storia che ci riporta Spandounes, avvenne su ordine di Bayezid II (1481-1512) e avvenne , come molti cambiamenti istituzionali nell’Impero Ottomano, per caso. Spandounes ci dice come Bayezid nominò un governatore di sanjak come ispettore del mercato ad Istanbul, per fornirlo di un reddito mentre non aveva assegnato altro ufficio. Come ispettore del merato egli disobbedì ad un decreto del giudice di Istambul, Yusuf Kirmasti (1494-98), sostenendo che, dal momento che riceveva la sua autorità direttamente dal Sultano, il giudice non aveva alcuna giurisdizione. Quando, dopo furiosi contrattempi, il giudice provò a perseguirlo, nessuno aveva voglia di fornire prove contro l’ispettore del mercato, e allora il Sultano “privò il suddetto giudice del suo incarico e emanò un comando secondo cui nessuno poteva avere potere o autorità sopra schiavi che ricevevano un salario   dal Sultano, e il suo comando è stato osservato fino ad oggi”. Spandounes aggiunge che “ora, se qualcuno ha un contrasto con un timariota o un subashi, egli li deve far rispondere al governatore del sanjak o, se sono in Istanbul, all’agha [dei giannizzeri] o ai pasha [del Consiglio Imperiale]”.

  Il decreto di Bayezid II che poneva la classe militare sotto una giurisdizione separata da quella degli ordinari soggetti di imposta richiese una chiara definizione di chi appartenesse a quale gruppo. La distinzione tra la classe militare e la classe dei soggetti di imposta deve essere emersa informalmente nel quattordicesimo secolo con la concessione di terre e salari al seguito del Sultano. La compilazione dei registri catastali dalla fine del quattordicesimo secolo in poi, che registrava i redditi e la loro distribuzione tra i timarioti, forniva una registrazione di chi apparteneva alla classe militare in ciascun sanjak. Essi non fornivano però una definizione legale, né erano esaustivi. In caso di disputa, era presumibilmente la consuetudine e la decisione locale che determinava lo status di una persona come soggetto di imposta o militare. Comunque, il decreto di Bayezid poneva la classe militare sotto una giurisdizione separata e non ci volle molto dopo di ciò perché apparisse una formulazione. Il Libro della legge emanato nel 1499 su comando di Bayezid, definiva chi apparteneva alla classe militare: “I cavalieri che servono nelle campagne del Sultano appartengono alla classe militare, quando sono in servizio e dopo che si sono ritirati dal servizio, per tutto il tempo che il cavaliere che si è ritirato non è registrato come un soggetto di imposta (ra’iyyet) appartenente ad un’altra persona. Gli schiavi maschi e femmine del Sultano,  dopo l’emancipazione, appartengono essi stessi alla classe militere nel il tempo in cui sono sposati ad un soggetto della classe militare. I giudici, i professori, i mufti e gli amministratori e supervisori delle fondazioni – cioè i titolari di uffici che sono conferiti servendo la Sublime Porta – sono membri della classe militare. I seguenti hanno pure status militare: il figlio del membro della classe militare, per tutto il tempo che ha uno stato riconosciuto, e non è registrato presso nessuno come soggetto di imposta; le sue mogli alle quali è attualmente sposato; gli schiavi di un membro della classe militare, che servono nella classe militare dopo l’emancipazione, i cui mezzi di sostentamento  provengono dalla classe militare e che non sono registrati come ra’iyyet di nessuno; la figlia di un cavaliere sposata ad un cavaliere, per tutto il tempo che è maritata con il cavaliere”.

  La relazione legale e fiscale tra la classe militare e i soggetti di imposta – principalmente, all’atto pratico, tra timarioti e contadini – forma l’oggetto principale della legge secolare. Questo emerse come un corpo di codici scritti durante il regno e per comando di Bayezid II. Il primo di questi codici è il Libro della legge che forma la prefazione al dettagliato prospetto catastale del sanjak di Bursa, datato 1487. Questo espone le imposte e le ammende che i governatori del sanjak e i tenutari di feudi possono esigere dai contadini e dai pastori, e le condizioni alle quali i contadini possono occupare la terra. Il suo anonimo compilatore ci dice in un preambolo piuttosto involuto, che le sue fonti erano “le consuetudini e le regole per le tasse stabilite per salda consuetudine”, “i registri catastali ottomani” e “i decreti dei sultani”. Dicendoci questo egli fornisce un resoconto non solo del suo codice in particolare, ma della legge secolare in generale: le sue basi sono le consuetudini consolidate, come registrate nei registri catastali e modificati attraverso comandi del sovrano. Un’altra caratteristica di questo Libro della legge, che esemplifica il genere,  è che si concentra sui dettagli e le eccezioni, senza prima enunciare i principi o spiegare i termini. Il compilatore non espone, ad esempio le norme per l’eredità di tenute contadine ma tratta solo quelli che sono casi controversi, come i diritti ereditari delle vedove e degli orfani. Riguardo gli orfani il codice dice: “Stabilire il pagamento di una tariffa di ingresso per l’accesso alla terra è una novità rigettata e proibita. La terra di suo padre è trattata come proprietà ereditabile. Se la terra lasciata dal padre dell’orfano è data ad un altro sulla base del fatto che non è coltivata, quando l’orfano giunge ad età matura e domanda la terra essa deve essere restituita all’orfano”. Sulle vedove stabilisce: “Una donna non deve lasciare incolta la terra di cui ha la disponibilità. Fino a quando paga decime e tasse  è contro la legge prenderle la terra”.

  Il Libro della legge di Bursa del 1487 fornisce un modello per i futuri codici. Gran parte di questi erano pure essi Libri della legge per sanjak, che tipicamente formavano la prefazione al prospetto catastale di un distretto elencando tasse locali e altre regole. La base dei loro regolamenti erano le consuetudini locali che, come mostra il vocabolario Slavone, ungherese, greco e in altro linguaggio tecnico non-turco, erano spesso pre-ottomane. L’esempio più evidente della adozione di una pratica locale appare, comunque nei Libri della legge dei sanjak dell’Anatolia sud-orientale, che Selim I aveva conquistato tra il 1514 e il 1516. I primi Libri della legge per questi sanjak si aprivano con l’affermazione che erano “in accordo con la legge di Hasan padishah”, un riferimento al sovrano Akkoyunlu del distretto, Uzun Hasan, che era morto nel 1478. I compilatori credevano, dunque di star ripristinando la legge Akkoyunlu e non sembra esserci ragione di dubitare la loro affermazione, sebbene alcune specifiche norme  chiaramente datano da prima del periodo degli Akkoyunlu. La struttura  di questi Libri delle leggi consiste nello stabilire quelle che erano state le norme degli Akkoyunlu, notando  se erano state confermate o abolite e convertendo il valore delle imposte pecuniarie in moneta ottomana. Alcune clausole dal Libro della legge per Ergani, datato 1518, forniscono un esempio: “… e da ciascuna famiglia essi usavano esigere un giorno di lavoro… Una pecora  era presa da ciascuna famiglia come imposta della festività… e da ciascuna famiglia essi usavano esigere una imposta termürjik, una tenge, che è di due akce ottomani… Le disposizioni di cui sopra sono state confermate tali e quali”

  Molta parte della legge secolare ottomana ha dunque la sua origine nelle pratiche locali e nelle leggi di dinastie precedenti. Nondimeno, a dispetto di questa diversità,  essa tendeva nel corso delle decadi a divenire più omogenea. La uniformità totale non era possibile, data la diversità dei popoli e delle economie locali entro l’Impero, ma certi statuti, come quelli che fissano la quota della tassa annuale sui possedimenti dei contadini, le imposte sulle messi o le imposte occasionali , come la tassa sulla sposa, gradualmente si avvicinarono l’una all’altra . Questo processo non era casuale. Sebbene un sanjak poteva, negli anni successivi alla sua conquista, aver seguito le leggi del regime precedente, i Libri della legge suggeriscono che i compilatori dei successivi registri catastali avrebbero portato la regolamentazione sui terreni e le imposte in accordo più stretto con ciò che essi consideravano come “legge ottomana”. Invero, occasionalmente  questa legge entrò in vigore immediatamente dopo la conquista ottomana. I primi registri per l’Anatolia sud-orientale, per esempio,  conservano i testi delle “Leggi di Hasan Padishah” degli Akkoyunlu, ma i registri stessi indicano che, in alcune materie il nuovo regime ottomano esigette imposte non secondo la “Legge di Hasan Padishah”, ma secondo la “legge ottomana”. Perdipiù, in questa e altre regioni i nuovi Libri della legge compilati durante il sedicesimo secolo al tempo dei nuovi prospetti delle terre e delle imposte, talvolta  registrano un cambiamento nella percentuale o la abolizione di una tassa, sulla base del fatto che la vecchia imposta “non era legge ottomana”.

  La nozione di una specifica “legge ottomana” deve la sua origine a Bayezid II. Fu lui che,poco dopo il 1500, emanò un comando ad un ufficiale anonimo di compilare in un volume rilegato: “… tutte le leggi consuetudinarie ottomane… che sono il pilastro  del buon ordine nei pubblici affari di tutti i popoli”. Il risultato di questo comando fu il Libro della legge del 1499, che recava come materia principale le obbligazioni dei timarioti e dei soggetti di imposta in tutte le parti dell’Impero. In aggiunta, il compilatore inseriva capitoli che si applicavano solo a gruppi locali, come i Valacchi della penisola balcanica o i Turcomanni dell’Anatolia. Il lavoro nel suo complesso è un collage. Accanto alle clausole che il compilatore sembra aver composto egli stesso,  altre chiaramente hanno le loro origine in decreti del Sultano, fatwa, registri catastali e i Libri della legge dei sanjak. La raccolta fu un successo, che esiste ancor oggi in decine di copie , e fu sottoposta a parecchie revisioni  fino a che non raggiunse la sua forma finale intorno a circa il 1540. Esso fornì, per la prima volta, un codice universalmente applicabile di leggi secolari e una fonte  di riferimento per definire la “legge ottomana”. Subito dopo la promulgazione diviene comune trovare nei Libri della legge dei sanjak riferimenti alla “legge ottomana”. Nel Libro del 1528 del sanjak di Kütahya, per esempio, la clausola che espone le imposte sulle vigne e gli orti inizia: “una imposta è prelevata dal prodotto delle vigne e degli orti secondo quanto è nella legge ottomana”. Una clausola  che specifica la percentuale della tassa sulle pecore in un libro della legge del sedicesimo secolo del sanjak anatolico di Bozok dice: “Dopo che il parto degli agnelli è terminato in maggio, secondo la legge ottomana, gli agnelli e le pecore devono essere contati, e deve essere prelevato un akce ogni due animali. Niente dovrebbe essere prelevato in aggiunta a questo…”. Clausole come queste mostrano l’effetto che ebbero codice di Bayezid e le sue successive revisioni sulla standardizzazione della legge.

  Sebbene i servizi dovuti dai timarioti e le tasse dovute dai contadini formino la parte principale del Libro della legge di Bayezid II, il lavoro  di fatto si apre con quelli che in origine erano due codici criminali indipendenti. Il primo di questi esiste separatamente come sezione di apertura in quello che viene chiamato, in modo fuorviante Libro della legge del Sultano Mehmed Khan, una compilazione non sistematica che data circa il 1490. Il secondo codice, che si occupa principalmente con offese capitali, sembra datare  dalla fine degli anni ’90 del 1400, dal momento che ha una clausola che indica che la classe militare ora ricade direttamente sotto la giurisdizione del Sultano e non dei giudici. Nelle revisioni successive del libro della legge, i compilatori amalgamarono i due codici in un unico codice. Leggi criminali appaiono anche, piuttosto a caso, nei Libri della legge dei sanjak. Il Libro della legge del 1487 di Bursa, per esempio, stabilisce: “150 akce sono esatti da chi rimuove un occhio e 100 akce da chi infligge una ferita che lascia scoperto l’osso…” e così via. Clausole simili appaiono  nei Libri della legge di altri sanjak. La ragione per queste leggi penali nei libri della legge è che erano i membri della classe militare,specialmente i subashi, che erano responsabili per l’arresto e la punizione dei criminali, e che incassavano anche le ammende  come parte delle proprie entrate. L’applicazione della legge criminale era dunque un aspetto della relazione tra la classe militare e soggetti di imposta.

  I libri della legge, comunque, non ci dicono quasi nulla sulle procedure della legge criminale, più o meno limitandosi ad elencare il tariffario delle ammende e altre punizioni. E’ difficile, dunque, stabilire come era il processo legale tra l’arresto e la punizione, e anche se il codice penale del Libro della legge del 1499 e delle sue revisioni successive fu mai applicato in pratica.

  Circa la questione delle offese capitali, Spandounes all’inizio del sedicesimo secolo stabilisce inequivocabilmente che il caso doveva essere portato dinanzi ad un giudice. “Nessun governatore di sanjak” egli scrive “per quanto la sua carica sia della massima importanza, può condannare a morte senza il permesso del giudice… Un subashi arresta il malfattore, lo sottopone a tortura e gli strappa una confessione del suo crimine, prima di portarlo a comparire di fronte ad un giudice. Se è condannato, il subashi lo mette a morte”. L’affermazione di Spandounes conferma ciò che appare  nel Libro della legge di Bursa del 1487. Questo proibisce la somministrazione della pena di morte prima che le infrazioni del miscredente siano provate “in presenza del giudice della regione”. E’ probabile, dunque, che in pirncipio, casi che coinvolgono la pena di morte vadano di fronte ad un giudice. La pratica era probabilmente molto più varia. I riferimenti alla pena capitale sono rari nei documenti delle corti dei giudici, e clausole occasionali nei Libri della legge dei sanjak suggeriscono che i governatori  avrebbero talvolta, presumibilmente per il loro arricchimento, commutato la pena in una ammenda. Il Libro della legge di Bursa, per esempio, proibisce questa pratica. Una clausola simile appare in un libro della legge  del 1540 per i Boz Ulus, un gruppo tribale nel nord della Siria e del sud-est dell’Anatolia. Questo stabilisce che “le persone che meritano la pena capitale… devono essere giustiziate. Non una moneta deve essere presa al posto della pena capitale”. Il fatto che alcune clausole appaiono di nuovo nel Libro della legge del 1570 per Aleppo suggerisce che la norma è stata violata: “Moneta in luogo dell’esecuzione capitale non deve essere accettata da persone che meritano tale pena”. Queste clausole suggeriscono che in casi capitali le autorità esecutive tendevano o a scavalcare le corti o almeno ad ignorare le loro sentenze.

  Gran parte delle infrazioni meno gravi sembrano essere competenza delle autorità esecutive. Certamente capita di trovare casi nei registri dei giudici, ma  vengono annotati solo i fatti del caso e le affermazioni dei testimoni, senza  registrare un verdetto o una punizione. Queste presumibilmente erano competenza dei subashi. In molti casi, tuttavia  sembra molto probabile  che il subashi o altre autorità militari erano responsabile per l’intero processo dall’arresto – sebbene questo poteva essere responsabilità delle comunità o di privati individui – alla punizione, scavalcando del tutto le corti. Nell’assenza di documenti, comunque, questa può essere solo una supposizione.

  In accordo con i codici criminali, la punizione per infrazioni non capitali consistevano normalmente di frustate, ammende o una combinazione di entrambe. Non è certo che le autorità seguissero il codice fedelmente. Esse dovevano comunque esigere delle ammende, dato che formavano una parte delle entrate della classe militare, e una piccola prova suggerisce che, al tempo  almeno della sua promulgazione sotto Bayezid II, le disposizioni del codice erano osservate. Per l’accoltellamento prescrive una punizione inconsueta: “Il reo dovrebbe avere il coltello infilato nelle sue braccia ed essere portato in giro”. Spandounes fornisce la prova che questo era ciò che effettivamente accadeva, quando nota: “Se una persona leva un’arma contro un’altra, il giudice lo fa… infilzare con cinque sei o sette coltelli e portare così conciato nelle pubbliche piazze”.

 

 

 

L’ESERCITO: IL QUATTORDICESIMO SECOLO

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  I primi resoconti sulla guerra ottomana  sopravvivono nelle cronache bizantine di Pachymeres e Giovanni Cantacuzeno. Né l’uno né l’altro  forniscono molti dettagli, e Pachymeres è particolarmente confuso. Nondimeno è il solo che ci fornisca un rapido sguardo sui guerrieri turchi ai tempi di Osman (c. 1324). Sembra che la maggior parte degli uomini ottomani fosse a cavallo, ed esperti in imboscate ed attacchi a sorpresa. Pachymeres descrive ad esempio  un assalto ad una forza bizantina sotto il comando di un certo Mouzalon “inaspettatamente,mentre erano addormentati”. In un passaggio successivo egli ci dice come gli uomini di Osman  misero in rotta un altro comandante bizantino, Siouros, vicino ad una fortezza chiamata Katoika. Ancora una volta fu la sorpresa che travolse i greci. “Essi vennero attaccati di notte, da circa cinquecento nemici in pieno assetto di guerra, che avevano eluso la vigilanza e occupato le strade verso la fortezza. Un numero maggiore attaccò dalla parte opposta”. I turchi uccisero  coloro che resistettero” mentre donne e bambini, una folla innumerevole, che tentava di scappare verso la fortezza facevano da bersagli per le forze del nemico che l’aveva in precedenza occupata”

  In questa descrizione dell’attacco a Mouzalon, Pachymeres accenna alle tattiche di battaglia di Osman. Quando le forze bizantine si erano riprese e tentavano di inseguire i turchi, questi si ritirarono sulle montagne e “avendo trovato là una posizione sicura si fermarono e cominciarono a tirare ai Bizantini, circondandoli con colpi da ogni parte”. Presi insieme questi passaggi suggeriscono  che le forze di Osman consistevano soprattutto di arcieri a cavallo, la cui tattica offensiva era la sorpresa e la cui tattica difensiva era la ritirata veloce verso un terreno che forniva difese naturali. Era forse un esercito di razziatori armati alla leggera ma efficaci. E’ probabile,comunque, che a dispetto delle sue vittorie su una forza bizantina piccola e evidentemente disorganizzata a Bapheon i suoi uomini non fossero in grado di sconfiggere un esercito disciplinato in un incontro regolare.

  Nondimeno, è chiaro da Pachymeres che Osman riuscì a guadagnare il controllo delle campagne nella Bitinia bizantina. I villaggi e gli insediamenti rurali non avevano difesa nei confronti dei suoi raid. Era anche probabilmente il suo controllo del territorio circostante, piuttosto che la padronanza delle tecniche di assedio che gli consentirono di catturare quantomeno le fortezze e città bizantine minori. “Egli usò le fortezze”, ci dice Pachymeres, “come luoghi per ammassare al sicuro i suoi tesori”

  Le città protette da mura sopravvissero come roccaforti bizantine, ma, fa capire Pachymeres, non senza soffrire grandemente. “Prousas (Bursa)”, egli afferma, “ebbe la parte maggiore di tutti questi guai” e nella sua descrizione di Pegai, egli mostra come anche città ben difese soffrivano per il loro ruolo di rifugio dalla campagna. “Anche Pegai, una città della costa, sperimentò questi rovesci. La popolazione circostante era confinata all’interno della città, e, per coloro che erano scampati alla spada, cattive condizioni produssero una epidemia di peste”. Nondimeno esse continuarono a resistere. Pachymeres annota anche un attacco alla città di Nikaia (Iznik). Osman, egli riferisce,  distrusse le messi e le vigne e poi attaccò la fortezza di Trikkokia che controllava l’accesso alla città. Egli assediò Nikaia con tutte le sue forze e riempiendo i fossati difensivi con pali, pietre, alberi e detriti, tentò di prendere d’assalto le mura. L’attacco, alla fine, fallì. La sopravvivenza di Nikaia e delle altre città della Bitinia suggeriscono che gli uomini di Osman mancavano della disciplina, delle abilità militari e del supporto materiale per sostenere lunghi assedi di luoghi ben difesi.

  Il quadro dei primi guerrieri ottomani come, essenzialmente, razziatori altamente mobili emerge anche dalla descrizione di Giorgio Cantacuzeno della battaglia a Pelekanon, combattuta nel 1328 tra Orhan (c. 1324-1362) e l’imperatore bizantino Andronico III. Cantacuzeno descrive la forza di Orhan come “un esercito di fanti e cavalieri”, sebbene la descrizione che segue indica che la maggioranza combatteva a cavallo. Egli nascose per una imboscata parte delle sue forze, con l’istruzione di attaccare se i greci avessero preso il sopravvento. Cantacuzeno descrive il corpo principale come arcieri a cavallo con i destrieri più veloci. Questi ebbero istruzione da Orhan di non combattere a distanza ravvicinata ma gettarsi all’improvviso sull’imperatore, ritirarsi con un nugolo di frecce quando i bizantini avessero contrattaccato e attaccare di nuovo quando si ritiravano. Egli aveva posto forze di riserva dietro un’area accidentata che forniva una difesa naturale.

  Cantacuzeno dà l’impressione che la tattica di Orhan non funzionò. Quando i greci contrattaccavano, i suoi arcieri a cavallo non potevano  fermare la carica, e invece si volsero in fuga finché non raggiunsero il terreno accidentato dietro di loro. Alla fine, comunque, l’imperatore non potè assicurarsi la vittoria perché i turchi erano circondati da profondi valloni e il campo era protetto da trincee naturali. In queste erano molti arcieri  le cui frecce impedirono la vittoria bizantina. L’imperatore non poté mandare il suo esercito, a causa del terreno accidentato” I dettagli di questa narrazione richiamano la descrizione di Pachymeres dell’attacco notturno di Osman contro Mouzalon e Siouros. Anche le forze di Osman consistevano  largamente di arcieri a cavallo e adottavano l’imboscata come strategia. Anche esse si erano rivelate incapaci di sostenere un attacco disciplinato, ma erano capaci di evitare la sconfitta mediante una scelta attenta di posizioni difensive. Sembra dunque che l’uso di arcieri a cavallo, imboscate e ritirate strategiche in un terreno accidentato erano elementi essenziali delle prime tecniche di combattimento ottomane.

  Questa era una forma di guerra più adatta ai raid che agli assedi o alle battaglie campali. Nondimeno, non fu prima della fine del sedicesimo secolo che divenne finalmente obsoleto. Durante i secoli di espansione, gli ottomani guerreggiarono una quasi ininterrotta kleinkrieg lungo le frontiere dell’Impero che continuò  persino durante i periodi di pace formale. Caratteristico di questo modo di far guerra erano raid e contro-raid attraverso la frontiera alla ricerca di razzia, specie di schiavi e animali. Gli stessi razziatori potevano anche precedere gli eserciti ottomani nelle loro campagne regolari per terrorizzare il nemico prima dell’attacco principale. Le tattiche delle truppe di razziatori erano quelle dei seguaci di Orman e Orhan, ma, nella seconda metà del quattordicesimo secolo, la loro funzione era come ausiliari, non come  corpo principale dell’esercito.

  La creazione di un esecito che era capace di condurre efficaci assedi e battaglie campali fu il lavoro di Orhan e Murad I (1362-89). Fu durante il regno di Orhan che le grandi città di Prousas (Bursa), Nikaia (Iznik) e Nikomedia (Izmit) caddero, sebbene, almeno nel caso di Prousas, una breve cronaca greca indica che fu la fame piuttosto che l’assalto che costrinse la città ad arrendersi. Con Orhan che controllava la campagna, la sua capitolazione finale era inevitabile. Lo stesso fu indubbiamente vero per altre città della Bitinia. Comunque, la cattura verso la fine del regno di Orhan di Ankara nel 1354 e Dimetoka nel 1359 o 1360, suggerisce che per questo tempo le sue truppe avevano appreso l’arte degli assedi. Questo diviene più evidente durante il regno di Murad I. Specialmente durante la sua ultima decade, la conquista e il controllo di castelli e città fortificate divenne un elemento essenziale della strategia ottomana. In Macedonia Murad conquistò Serrai nel 1383 e Tessalonica nel 1387, dopo un assedio di quattro anni. Come preludio ad un attacco  contro la Serbia del sud, nel 1386, egli catturò Nish nella valle della Morava, secondo la versione del cronista Neshri, dopo aver stabilito quale parte della fortezza era vulnerabile  ai colpi degli arcieri. Nel 1388, il visir di Murad, Chardarli Ali, ridusse lo zar Sisman alla condizione di vassallo dopo una campagna sistematica contro i suoi castelli nella Bulgaria orientale.

  E’ chiaro, dunque, che durante il corso del quattordicesimo secolo, gli Ottomani appresero come condurre assedi. Alcuni riferimenti dall’ultima decade del secolo indicano che essi erano giunti a padroneggiare le tecniche del blocco e della posizione di tiro  e della scalata alle mura. Nel 1394, Bayezid I (1389-1402) pose d’assedio Costantinopoli, tentando dapprima di bloccare l’accesso alla città col costruire un castello sulla costa asiatica del Bosforo nel suo punto più stretto. Poi attaccò la città, secondo una dossologia greca della Vergine, “con innumerevoli macchine da guerra”. Cosa fossero diviene più chiaro  dal resoconto di Giovanni Chortasmenos che scrive “Ora essi portano avanti dei trabocchi per assediare la città… e fanno uso di molte macchine, facendo crollare le mura della città e assalendo i bastioni”. Sembra che, in questo periodo gli Ottomani giungessero ad usare anche torri d’assedio. Nella sua descrizione dell’assedio di Larende del 1398 da parte di Bayezid, Schiltberger ci dice come “egli costruì piattaforme” contro le mura. Questi passeggeri riferimenti alla tecnologia dell’assedio non menzionano le tecniche di mina, ma questo probabilmente riflette l’inadeguatezza delle fonti piuttosto che una assenza delle mine. Certamente per il 1422, le tecniche di mina erano diventate parte della tecnica ottomana di assedio. Nel suo resoconto dell’assedio di Constantinopoli in quell’anno, il greco Kananos descrive come gli attaccanti scavarono gallerie di mina da dietro le loro difese alle mura della città e, “come era costume negli assedi”, dettero fuoco ai pali di legno che sostenevano le camere sotterranee. Quando le gallerie di mina collassavano, lo stesso faceva la sezione delle mura sopra il terreno.

  Nello stesso tempo in cui appresero l’arte dell’assedio, gli ottomani divennero anche maestri delle tattiche sul campo di battaglia, come divenne chiaro dalla sconfitta inflitta da Murad I ai due despoti di Serbia nella battaglia di Maritsa nel 1371. Nelle battaglie campali il Sultano comandava ciò che era in grande maggioranza un esercito di cavalieri. Da resoconti della battaglia di Nicopoli conto i crociati nel 1396, sembra che la cavalleria ottomana  faceva affidamento sulla propria manovrabilità e continuò, come al tempo di Osman, ad usare le tattiche dell’imboscata e della finta ritirata. Sembra che, a Nicopoli, la cavalleria pesante francese sconfisse le forze che le si opposero direttamente, ma scoprì che così facendo Bayezid li aveva attirati in un’imboscata da parte della cavalleria posizionata ai fianchi.

  Tra il 1300 e il 1400, dunque, le forze militari ottomane  erano cambiate da una forza di razziatori radunati intorno al sovrano, ad un esercito disciplinato, capace di intraprendere assedi e battaglie regolari. Le due istituzioni che furono alla base  di questa trasformazione furono chiaramente i due gruppi che sono familiari dai secoli successivi, la cavalleria timariota e i giannizzeri. L’istituzione  dei timarioti fu probabilmente uno sviluppo precoce, dal momento che istituzioni simili erano esistite nelle terre che gli Ottomani avevano conquistato. L’istituzione deve  essere venuta in esistenza al tempo del regno di Murad I. Il possesso di un timar  sollevava il cavaliere dalla dipendenza dal saccheggio come fonte di sostentamento e, cosa più importante, creava una obbligazione contrattuale di servire il Sultano laddove questi lo richiedeva. I giannizzeri erano un corpo di fanteria, forse istituito da Murad I, che non solo formavano una unità dell’esercito, ma agivano anche come guardia del corpo personale del Sultano. Come milizia permanente che combatteva insieme e si addestrava insieme all’uso delle armi, essi acquistarono uno spirito di corpo che, sin dagli inizi della loro storia, li rese eccezionali combattenti. Sul campo di battaglia essi combattevano al centro, intorno alla persona del monarca. in aggiunta a questi corpi di uomini, i sultani potevano anche chiamare i razziatori armati alla leggera in Rumelia e le truppe dai principati vassalli che, come i cavalieri e i giannizzeri, avevano il dovere contrattuale di servire in guerra.

  Entro il 1400, dunque, molte delle truppe dell’esercito ottomano servivano su base contrattuale, consentendo al Sultano di chiamare alle armi un numero di truppe affidabili che poteva essere calcolato in anticipo, anno dopo anno. Fu questo, più di ogni altra cosa, che costituì la base dei successi militari ottomani.

 

 

 

L’ESERCITO: DAL 1400 AL 1590: LE TRUPPE

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  La struttura militare che emerse durante il corso del quattordicesimo secolo rimase,nella sua essenza, intatta fino alla fine del sedicesimo, con la cavalleria timariota e i giannizzeri che formavano i corpi più importanti dei combattenti.

  Di questi i timarioti formavano la stragrande maggioranza, sebbene la prima affidabile determinazione del loro numero non appare fino al 1525. Un riassunto delle ricevute e delle spese dell’Impero registra 10.618 timarioti nelle province europee e 17.200 in Asia Minore e Siria. Ciascuno di questi cavalieri  doveva portare un certo numero di seguaci armati, e questo avrebbe portato il numero disponibile a più di 50.000 uomini. Non tutti di questi avrebbero servito nello stesso tempo, ma il numero è abbastanza elevato da mostrare che formavano l’elemento più importante dell’esercito ottomano.

  Più famosi dei cavalieri timarioti ma meno numerosi erano i Giannizzeri. Al tempo della sua fondazione nella seconda metà del quattordicesimo secolo il corpo dei giannizzeri consisteva di forze qualche centinaio di fanti che servivano come guardia del corpo del Sultano. In questo ruolo essi erano una forza efficace e, non avendo altra fonte di protezione e patronati, affidabilmente leali al Sultano. Negli stadi finali della battaglia di Ankara nel 1402, furono i giannizzeri che rimasero a combattere intorno al Sultano quando il resto dell’esercito ottomano aveva disertato o era fuggito. Alla battaglia di Varna nel 1444, quando una larga parte della cavalleria aveva abbandonato il campo, furono i giannizzeri che rimasero al loro posto accanto a Murad II (1421-1451) e, decisivamente catturarono e uccisero il re ungherese. Il loro numerò evidentemente  aumentò durante il corso del quindicesimo secolo. Una fonte greca dai primi anni ’80 del 1400 riferisce che c’erano 5.000 giannizzeri alla salita al trono di Mehmed II (1451-81), e che Mehmed raddoppiò questo numero al tempo delle guerre con Uzun Hasan neiprimi anni ’70. Il loro numero rimase un po’ al disopra o al disotto di 10.000  per gran parte del secolo successivo. Le cifre dei libri paga mostrano 10.156 giannizzeri nel 1514. Nel 1527, c’erano 7.886 giannizzeri e 3.553 novizi; nel 1567 essi erano 12.798 e 7.745 rispettivamente. A parte questi, c’erano giannizzeri che servivano in guarnigioni delle province. Nel 1560, ad esempio, c’erano 3.377 giannizzeri nelle fortezze delle province di Buda, alla frontiera con l’Austria.

  Prima della seconda metà del sedicesimo secolo il governo ottomano sembra aver ristretto con cura il numero di giannizzeri. Questa era in parte, senza dubbio, una misura per controllare le spese e in parte per accordarsi alla massima di Lutfi Pasha, Gran visir dal 1539 al 1541 secondo cui: “Le truppe dovrebbero esser poche, ma esse dovrebbero essere eccellenti”. Un’altra ragione per restringere il numero fu probabilmente anche per ridurre il loro potere. I giannizzeri erano un corpo di élite e parte della loro efficacia era il terrore che incutevano nel nemico. Ma ciò che era egualmente importante era la paura che ispiravano nei sultani. La lealtà dei corpi alla dinastia ottomana non fu mai in dubbio ma questo non escludeva slealtà a specifici sovrani. Fu – almeno in parte  – una ribellione dei giannizzeri che costrinse all’abdicazione di Mehmed II alla fine del suo primo regno nel 1446, e al ritorno di suo padre Murad II al trono. Furono i giannizzeri che forzarono l’abdicazione di Bayezid II (1481-1512) in favore di Selim I (1512-1520), e furono i giannizzeri che  uccisero Osman II (1618-22) e portarono Mustafa (1617-18; 1622-23) al trono. Nel breve interregno tra la morte di Maometto II e la salita al trono di Bayezid II, i giannizzeri insorsero e saccheggiarono distretti della capitale. Dopo la vittoria a Chaldiran nel 1514, furono loro che costrinsero Selim I a ritirarsi da Tabriz, ed essi insorsero di nuovo nel 1525. Come gruppo armato di stanza ad Istanbul i giannizzeri erano una forza potente nella politica interno dell’Impero come erano sul campo di battaglia.

  I timarioti e i giannizzeri erano la componente principale ma non la sola degli eserciti ottomani. Le sei divisioni di élite di cavalleria regolare reclutate largamente dai diplomati nelle scuole di palazzo accompagnavano il Sultano in campagna, così come in occasioni cerimoniali. E’ impossibile stabilire la data della loro istituzione,ma è chiaro che essi  esistevano già al tempo di Maometto II, quando una fonte greca fissa il loro numero a 600 cavalieri (sipahi), 600 portatori di spada  (silahdar), 700 stipendiati  (ulufejis) alla sinistra e alla destra, e 400 stranieri (gureba) alla sinistra e alla destra. Durante il corso del sedicesimo secolo questi numeri triplicarono. Nel 1527 essi erano rispettivamente 1.993, 1.587, 1.007 e 415; e nel 1567 3.331, 2.785, 2.546 e 2.589. L’incremento nel numero fu proporzionalmente più alto di quello dei giannizzeri, ma essi erano ancora pochi in confronto dei timarioti dalle province. Per il 1607 il loro numero  era aumentato ancora, a 7.805 cavalieri, 7.683 portatori di spada, 3.448 stipendiati e 1.903 stranieri. Per allora, comunque, la crescita del numero dei giannizzeri era molto più grande.

  In contrapposto ai giannizzeri c’erano gli azab. Anche questi erano fanti, reclutati, secondo Iacopo da Promontorio nel 1475 “tra gli artigiani e i contadini”. Le cronache ottomane si riferiscono all’esistenza di azab già nel 1389, ma questo potrebbe essere un anacronismo. E’ chiaro, comunque, che  il corpo degli azab esisteva già  al tempo delle guerre ungheresi degli anni ’40 del 1400, e può risalire al 1400. IL metodo di reclutamento del corpo, almeno alla fine del quindicesimo ed inizio sedicesimo secolo è chiaro dal Libro della legge di Bayezid II del 1499. Questo testo suggerisce che il governo faccia la leva principalmente nelle città, nominando il giudice locale e i subashi per metterla in atto, e chiedendo anche la cooperazione dell’Imam e di un altro rappresentante da ciascun quartiere della città. Qui essi devono convocare ed esaminare tutti i giovani idonei alla guerra, rigettando quelli non aventi l’età, i disabili, i troppo anziani o gli schiavi. Dai rimanenti essi avrebbero selezionato gli azab. In aggiunta al fatto di procurare questi combattenti, la gente del quartiere doveva anche fornire moneta per le loro spese fino ad un limite di 300 akce per azab. Il sistema per ripartire la leva sia di uomini che di moneta era in base al numero delle famiglie, come spiega il Libro della legge: “Se, per esempio, ricade su venti famiglie di fornire un azab, tra le venti persone fornite dalle venti famiglie in quel quartiere una persona idonea deve essere arruolata al servizio degli azab. Le spese per quella dovrebbero essere riscosse dalle rimanenti diciannove famiglie…” Solo se il gruppo incaricato di famiglie non fornisce un giovane idoneo, coloro che si occupano della leva devono cercare altrove. Essi debbono anche nominare un garante per ciascun giovane, così che se egli si rende irreperibile sia possibile recuperare il suo compenso. Infine, per assicurare la regolarità delle procedure e prevenire una serie di abusi che il Libro enumera, era richiesta la compilazione di registri della leva: “Da ciascun distretto giudiziario da dove sono arruolati gli azab, ci dovrebbero essere due registri. Uno dovrebbe rimanere con i giudici e uno dovrebbe andare a Palazzo, cosicché quando c’è una chiamata degli azab o si cerca un garante, è possibile  consultare o il registro che è presso il giudice, o il registro che è arrivato a palazzo… e agire di conseguenza”.

  Gli azab, a differenza dei giannizzeri non erano un corpo di truppe regolari e sebbene Iacopo di promontorio nel 1475 stima i loro effettivi in 6.000 uomini, è chiaro che il loro numero di fatto fluttuava secondo la necessità militare. Un resoconto della campagna di Chaldiran nel 1514, per esempio, stabilisce che c’erano 10.000 azab provenienti dall’Anatolia e 8000 dalla Rumelia che servivano nell’esercito di Selim I. Per la stessa campagna Menavino indica cifre più alte, fissando il numero a 30.000. Né gli azab erano corpi di élite come i giannizzeri. Erano coscritti la cui vita era sacrificabile. Come i giannizzeri, comunque, essi servivano sia sul campo di battaglia che nelle fortezze. Spandounes nel 1513 registra la presenza nelle guarnigioni sia di azab che di giannizzeri, scrivendo degli azab: “Sono più numerosi dei giannizzeri, e se sono in un castello gli uni guardano un forte e gli altri un altro; se sono di guarnigione in una città, i giannizzeri stanno nella cittadella e gli azab nella città, perché i giannizzeri sono più abili e determinati. Questi azab hanno una paga da tre a cinque akce al giorno, e molti provengono dall’Anatolia”. Documenti ottomani da tutto il sedicesimo secolo continuano a registrare la presenza sia degli azab che dei giannizzeri nelle fortezze. Dalla seconda metà del sedicesimo secolo, comunque, gli azab sembrano aver perso la loro importanza come truppe da battaglia. Negli anni ’40 del 1500 già l’ospitaliere Antoine Geuffroy commenta: “come fanti gli ottomani non hanno che i giannizzeri, almeno non altri che valgano alcunché…”

  L’ultima importante categoria di combattenti nell’esercito ottomano erano i razziatori – akinci. Questi erano i cavalieri armati alla leggera della Rumelia che, più di ogni altro soldato ottomano tennero viva la tradizione marziale dell’inizio del quattordicesimo secolo. Emersero nella penisola balcanica prima del 1400 come un peculiare corpo di soldati, con i loro propri leader ereditari e una propria struttura di comando. Come razziatori armati alla leggera essi combattevano al di fuori del periodo delle campagne regolari, e in modo indipendente dal corpo principale dell’esercito; la loro esistenza era sintomatica del continuo kleinkrieg lungo i confini dell’Impero.

  Costantino Mihailović, che combatté con l’esercito ottomano  tra il 1453 e il 1463, e Iacopo di Promontorio nel 1475 forniscono le prime descrizioni di queste truppe. Mihailović nota che “essi vivono per mezzo di bestiame e allevamento di cavalli”. Egli era probabilmente nel giusto per quanto riguarda l’allevamento dei cavalli, dal momento che i razziatori si procuravano da sé le proprie veloci cavalcature, e successivamente Spandounes doveva rilevare come “essi sono tutti ben montati, perché hanno eccellenti cavalli”. La loro principale fonte di sostentamento dal territorio sembra, comunque essere venuta dalla coltivazione delle messi, riguardo la quale il Sultano li esentava dalla tassazione. Iacopo scrive: “Essi hanno il privilegio di sostentarsi sulle tenute del Sultano, quel tanto che due o tre paia di buoi possono arare, senza pagare imposta”. Un quarto di secolo più tardi,comunque, Spandounes doveva osservare: “Essi non hanno salari, e, a dispetto di questo, pagano l’imposta sulla loro avena e altro cibo che producono nel luogo dove vivono con le loro famiglie. Similmente, essi pagano le spese dei timarioti o delle truppe di guarnigione presso le loro città”

  Gran parte delle loro entrate, comunque, provenivano dal bottino, che lo ammassassero durante le campagne regolari o da incursioni indipendenti attraverso la frontiera. Mihailović descrive i loro raid come “… simili alle piogge torrenziali che cadono dalle nuvole. Da queste tempeste vengono grandi inondazioni, fino a che i corsi d’acqua straripano dai loro argini, e tutto ciò che quest’acqua investe, porta via e perdipiù distrugge… Così anche i razziatori turchi non si fermano a lungo, ma laddove colpiscono, bruciano, saccheggiano, uccidono e distruggono ogni cosa, cosicché per molti anni i volatili non vi cantano”. I pochi resoconti turchi delle incursioni dei razziatori confermano entusiasticamente il resoconto di Mihailović. Il cronista Ashikpashazade fu di servizio come razziatore a Skopje durante gli anni ’30 e ’40 del 1400 e, scrivendo del momento successivo ad un raid attraverso la Sava nel 1440, commenta: “acquistai un bel giovinetto di cinque-sei anni… e in occasione di quel raid acquistai sette schiavi dai razziatori. Per come stavano le cose, se l’esercito si fosse messo in marcia la folla dei prigionieri sarebbe stata più numerosa delle truppe”.

  Queste incursioni dei razziatori servivano a due scopi. Da un punto di vista militare, esse servivano a terrorizzare il nemico e ad indebolire l’opposizione, specialmente durante l’avanzata in una grande campagna. Comunque, durante la stessa campagna, l’indisciplina dei razziatori poteva renderli più un rischio che un valido strumento. Un decreto del 1560 illustra questo punto. Il Sultano aveva ordinato al comandante dei razziatori, Turahan, di Azov in Crimea, di proteggere il distretto contro attacchi russi. Turahan, però  trovò che la regione era nella morsa si una carestia, con nessuna opportunità di saccheggio o bottino. In tale circostanza egli non poteva ulteriormente controllare i suoi uomini e scrisse al Sultano: “Non c’è da predare da nessuna parte. I razziatori e i loro ufficiali sono uomini adatti solamente a predare. Non sopportano di stare fermi per quattro o cinque giorni di seguito, e non possono essere soggetti a disciplina”. Sebbene efficaci nel proprio gruppo, essi non erano adatti alla guerra regolare. A parte la loro funzione militare, il bottino che i razziatori ottenevano riforniva i mercati dell’Impero, soprattutto con schiavi. Questo traffico era profittevole anche  per i sultani che  prelevavano una percentuale dei prigionieri come reclute per i giannizzeri o le scuole di palazzo. In aggiunta, probabilmente dalla fine del quattordicesimo secolo, essi prelevavano anche una tassa su questi prigionieri come i loro proprietari li trasportavano attraverso gli stretti dall’Europa all’Asia Minore.

  La forma di guerra che i razziatori praticavano  chiaramente risaliva agli inizi dell’Impero. Comunque, non fu probabilmente fino a quando il potere ottomano non fu saldamente stabilito nella penisola balcanica , verso la fine del regno di Murad I che essi emersero come una peculiare organizzazione militare. Con l’annessione dei principati di Bulgaria negli anni ’90 del 1300, e la fissazione del Danubio come la frontiera con l’Ungheria, l’organizzazione dei razziatori prese la forma che  doveva mantenere  nei due secoli successivi. Durante il quattordicesimo e il quindicesimo secolo, i signori dei domini di frontiera emersero come leader dei razziatori. Particolarmente importante a questo riguardo era la famiglia Mihaloglu, che aveva terre ereditarie a Vidin, una fortezza sul Danubio che guardava, dalla parte opposta, al regno di Ungheria. Al servizio sotto questi signori c’erano ufficiali, conosciuti come dovijas, e sotto di essi, gli ordinari razziatori. Quando il Sultano desiderava arruolare per una campagna egli mandava, secondo Spandounes agli inizi del sedicesimo secolo “un mese prima della campagna un messaggero per avvertirli che dovevano  riunirsi nel tal giorno di tale mese e nel tale posto, dove avrebbero trovato un capitano inviato dal Sultano per condurli contro i cristiani”.

  Il servizio come razziatori era forse, nei primi tempi, volontario. Dal sedicesimo secolo, però, e probabilmente molto prima, era divenuto consuetudine arruolare e inserire formalmente in registri le truppe. Un ordine del governatore del sanjak di Vidin, non datato ma probabilmente del sedicesimo secolo, ci dà un’idea della procedura. Il governatore del sanjak doveva  girare per le città e i villaggi della Rumelia, e coscrivere razziatori che avessero un buon cavallo e armi e armature idonee per la campagna. Doveva anche arruolare i figli dei razziatori morti o ritiratisi dall’attività. Come con gli azab, i registri che documentavano la coscrizione contenevano i nomi non solo di ciascun razziatore e di suo padre, ma anche  il nome  di un mallevadore che avrebbe dovuto garantire la sua comparsa al momento della campagna. Al tempo della mobilizzazione, i coscritti dovevano apparire con un turbante o un copricapo rosso, armati con una spada e una lancia impavesata . Il governatore del sanjak che faceva la costruzione doveva presumibilmente inviare una copia del registro completato al palazzo. Questo era certamente il caso in un comando del 1560, che informa il governatore del sanjak di Vulčitrn che un membro di una delle divisioni di cavalleria del palazzo sarebbe arrivato per assisterlo nel compilare un registro dei Razziatori e gli ordinava di mandarlo a palazzo appena fosse completo.

  Le stime sul totale dei razziatori a disposizione del Sultano variano. Iacopo di Promontorio nel 1475 fornisce una stima di 8.000, di cui 6.000  disponibili per una campagna, mentre gli altri 2000 rimanevano indietro a guardare la frontiera. Ai tempi di Iacopo e ancora prima devono esserci stati razziatori nel personale che seguiva i signori dei domini di frontiera. Una cronaca del sedicesimo secolo stabilisce che 20.000 razziatori accompagnarono la prima campagna di Solimano nel 1521, e questo potrebbe essere un numero caratteristico del secolo. Geuffroy fornisce il numero di 60.000. Questo numero era probabilmente una esagerazione, ma forse non è del tutto fantastico, dal momento che richiama ciò che Kochi Bey doveva scrivere negli anni ’30 del 1600. Ricordando il glorioso sedicesimo secolo egli nota che  usavano esserci 20.000 razziatori registrati ma quando c’era una campagna il comandante dei razziatori attraversava il danubio con 40-50.000 truppe, alcune di queste razziatori registrati e alcuni volontari e altri ausiliari che erano abili con i cavalli.

  Fino alle prime decadi del sedicesimo secolo i razziatori molto probabilmente servirono durante una campagna sotto i signori dei domini di confine della Rumelia.  Per la metà del sedicesimo secolo, la loro organizzazione era  caratterizzata da due “ali”, l’”ala sinistra” e l’”ala destra”, la loro aggregazione che era in accordo con l’area della Rumelia dove vivevano. I nomi delle “ali”, comunque  – “i seguaci di Mihaloglu” e “i seguaci di Turahan” – mostrano che l’associazione con i signori della frontiera era continuata almeno di nome. L’apparizione nel 1560 di un certo Turahan come leader dei razziatori suggerisce – se era realmente un membro della dinastia dei Turahanoghlu – che una associazione  personale tra i razziatori e le vecchie famiglie può essere rimasta fino al tardo sedicesimo secolo.

  Questo era un periodo in cui i razziatori persero la loro importanza  come forza militare. Fino alla fine del sedicesimo secolo, i razziatori formavano un elemento importante nell’esercito ottomano, combattendo nelle campagne sia in Europa che Asia. Il loro ruolo più significativo era stato  quello di guerrieri di confine, specialmente nello sferrare attacchi attraverso le frontiere fluviali nel regno di Ungheria,e, dopo l’annessione della Bosnia nel 1463, nel lanciare raid da lì in territorio veneziano e ungherese. I loro raid a nord del Danubio e nel 1498 persino in Polonia, sembrano essere diventati particolarmente intensi durante il regno di Bayezid II, un periodo in cui il Sultano intraprese poca attività bellica regolare in Europa. Nel 1526, comunque, il loro ruolo cambiò. La battaglia di Mohacs mise fine al regno indipendente di Ungheria e nel 1541, l’Ungheria, o quella parte di Ungheria sotto la sovranità ottomana divenne una provincia ottomana. Con la sparizione della vecchia frontiera del Danubio, alcune delle funzione dei razziatori sembrano essere svanite pure esse. La nuova frontiera con l’Austria sembra essere stata meno vulnerabile ai raid rispetto alla vecchia frontiera ungherese, specialmente con la costruzione di una linea di efficaci difese di confine. Razzie e saccheggi regolari, come Mihailović aveva descritto nel quindicesimo secolo  cessarono . Il Libro della legge per il sanjak di Smederovo sul Danubio fornisce una illustrazione di questo cambiamento. Nella versione compilata nel 1516, una clausola elenca i balzelli prelevati sulla banchina di Smederovo sulle categorie di bottino che i razziatori portavano attraverso il danubio dopo le loro razzia. nella versione del 1560 questa clausola era scomparsa.

  Nondimeno, persino se i raid annuali attraverso i confini cessarono, i razziatori mantennero ancora la loro vecchia funzione di infastidire il nemico prima di una campagna e anche di organizzare spedizioni punitive al di fuori dei periodi di guerra regolare. Quando ad esempio il Sultano ricevette rapporti su attacchi austriaci contro la Transilvania nel 1565 – un anno in cui l’assedio di Malta assorbiva molte delle risorse militari dell’Impero – egli ordinò al governatore del sanjak di Chernomen di andare “con i razziatori dell’ala sinistra, seguaci di Mualoghlu” a Srem e saccheggiare ilterritorio nemico. Egli avrebbe “razziato gli abietti infedeli, preso schiavi i loro figli e mogli,  saccheggiato e depredato i loro possedimenti e proprietà…” cosicché “questo sarebbe stato una lezione per loro”. Lo stesso comando gli ordina di non perdere alcuna truppa regolare per le quali i razziatori erano, in questa spedizione, un sostituto

  La fine dei razziatori come forza militare efficace avvenne nel 1595. In questo anno il gran visir Koja (“l’anziano”) Sinan Pasha condusse la sua spedizione in Valacchia. Il suo esercito includeva un largo contingente di razziatori e, nel momento in cui essi attendevano per attraversare il Danubio a Giurgiu, rientrando in territorio ottomano, le forze valacche li attaccarono e sterminarono praticamente al completo. “La maggior parte dei razziatori” scrive lo storico ottomano Na’ima “erano sulla riva opposta e non un uomo si salvò. In quel momento il nucleo dei razziatori fu sterminato ed essi si estinsero”. DI fatto, i residui della organizzazione sopravvivevano ancora. Negli anni ’30 del 1600 Kochi Bey riferisce che ce n’erano 2.000, ma che il resto di essi o aveva rinunciato a quello status o era stato assorbito entro altre unità dell’esercito. La scomparsa della organizzazione dei razziatori non significa comunque che gli ottomani cessarono di devastare il territorio nemico come tattica militare. Sembra, comunque che dalla fine del sedicesimo secolo le truppe tartare del khanato di Crimea divennero più importanti in questo ruolo. Esse avevano partecipato a precedenti campagne ma non  in modo importante. Nella metà del sedicesimo secolo Lutfi Pasha aveva messo in guardia dall’impiegare tatari. “E’ vero”, scrisse “che i tatari sono soggetti alla dinastia ottomana, ma sono popoli riottosi, e non possono essere costretti a servire durante una campagna”. Con la fine dei razziatori, comunque, la loro importanza militare aumentò.

  Tra la fine del quattordicesimo secolo dunque e la fine del quindicesimo secolo la cavalleria timariota, i giannizzeri, le sei divisioni, gli azab e i razziatori erano stati i più importanti contingenti delle truppe combattenti ottomane. Allo stesso tempo, il Sultano manteneva un corpo di non-combattenti che agivano come soldati del genio  per l’esercito. Questi erano le truppe appiedate – yaya – e gli Esentati – müsellem. E’ possibile che si siano originati nel quattordicesimo secolo come corpi rispettivamente di fanteria e cavalleria, ma per l’inizio del quindicesimo secolo avevano perso il loro ruolo di combattenti. Come la cavalleria timariota essi non ricevevano paga dal Tesoro. Invece,  ricavavano il denaro per le campagne dalle loro organizzazioni. Il Sultano arruolava questi uomini in Anatolia e Rumelia, e li divideva in gruppi di trenta, allocando a ciascun gruppo un lotto di terreno per la coltivazione ed esentandoli dalle tasse sul loro prodotto e da tassazioni straordinarie. In ognuno di questi gruppi, c’erano cinque uomini “di campagna”, che andavano in guerra a turno, e il resto erano “aiutanti”, che erano responsabili per il pagamento di 50 akce ciascuno  per il mantenimento dei primi. Un Libro della legge del 1531 riporta che, fino al tempo di Bayezid II, gli aiutanti paganano questo ammontare ciascun anno, senza riguardo al fatto che vi fosse o meno una campagna. Per prevenire dispute tra i due gruppi, Bayezid stabilì che, da quel moment in poi, il denaro era dovuto solo quando erano in campagna.

  L’organizzazione di questi uomini somigliava alla organizzazione dei timarioti sotto un governatore di sanjak. Sia gli appiedati che gli esenti in una particolare area erano sotto il comando del loro governatore piuttosto che del governatore del sanjak dove avevano le terre. Come per i cavalieri timarioti, un certo numero di essi serviva come ufficiale col titolo di “comandante di truppa” o “comandante di fanteria”. In Rumelia gli uomini delle tribù turche – gli yürük – svolgevano gli stessi doveri delle truppe appiedate dell’Anatolia, sulla base, sembra, di una organizzazione simile.

  Complessivamente, questi ausiliari militari non erano numerosi. Nel 1521 in Anatolia c’erano ufficialmente 2.584 gruppi di Esenti e 7.668 gruppi di truppe appiedate. In Rumelia nel 1552 c’erano 1.337 gruppi di yürük e 810 di esentati. I loro doveri, secondo Ayn Ali agli inizi del diciassettesimo secolo, erano di trainare cannoni, sgombrare le strade e portare provviste per l’esercito. Queste erano indubbiamente le loro funzioni fondamentali, ma chiaramente i loro doveri erano di fatto più vari. Per esempio, un libro della legge di Gallipoli, datato 1518, richiede agli esentati a cavallo, tra le altre cose, di tenere d’occhio le coste e le insenature e dare immediatamente avviso ai villaggi e alle fortezze se vedevano qualche nave che poteva rappresentare un pericolo. In aggiunta, essi dovevano svolgere compiti impegnativi  nell’arsenale navale di Gallipoli, come ad es. trascinare le navi in secca.

  Durante il corso del sedicesimo secolo, l’organizzazione degli appiedati e degli esentati sembra essere divenuta disordinata e inaffidabile. Certamente, un ordine del 1540, che disponeva la coscrizione di nuove reclute e la corretta registrazione dei membri e delle terre che tenevano suggerisce che la diserzione era comune. Nel 1582, il Sultano ordinò l’abolizione di entrambi i gruppi. Immediatamente dopo, cambiò idea e la coscrizione iniziò di nuovo. Entro il 1600, comunque, i due corpi di appiedati ed esentati non esistevano più. Ayn Ali nel 1609 notava che quelli che in precedenza ne erano stati membri erano stati tutti registrati come ordinari soggetti di imposta

 

 

 

L’ESERCITO: 1400-1590: LE ARMI

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  La prima arma ottomana  di cui è traccia è l’arco turco, utilizzato da cavallo. Questa era un’arma che continuò a giocare un ruolo importante sia in battaglie terrestri che marittime fin entro il sedicesimo secolo, anche se i guerrieri successivi persero  l’abilità di tirare da un cavallo al galoppo. In qualche momento, però, gli ottomani adottarono la balestra, forse principalmente per uso nelle fortezze. Ancora all’inizio del diciassettesimo secolo il “libro dei giannizzeri” nota che il corpo dei giannizzeri conservava scorte di queste armi.

  In aggiunta all’arco, le truppe ottomane recavano con sé una varietà di armi. Spandounes, per esempio, descrive gli azab come aventi “archi, spade, scudi e dei tipi di piccole asce”; descrive i razziatori che utilizzavano “spade, piccoli scudi e nient’altro”. Verso la metà del sedicesimo secolo, comunque, l’ungherese Bartolomeo Georgevits li vede equipaggiati di “lance, giavellotti, frecce e randelli di ferro”. La cavalleria timariota sembra essere stata e rimasta fino al diciottesimo secolo, abile nell’uso della spada corta. Queste truppe probabilmente, di fatto, usavano una grande varietà di armi, dal momento che la legge richiedeva che portassero il proprio equipaggiamento in battaglia. Essi avrebbero dovuto dunque, fare affidamento su ciò che gli artigiani locali producevano e ciò che era disponibile nei mercati locali. Un Libro della legge del 1502, che regola le pratiche di commercio della capitale della Rumelia, Edirne, elenca fabbricanti di archi, frecce, di spade e pugnali, tra gli artigiani della città. Esso si riferisce anche, nello specificare la qualità minima per categorie di selle, a un tipo chiamato “sella del razziatore”. Queste clausole suggeriscono che i razziatori e i timarioti compravano il loro equipaggiamento nei mercati cittadini. La legge richiedeva anche ai cavalieri timarioti di fornire la propria armatura nella forma, sembra, di un elmetto e di una cotta leggera di maglia a copertura della parte superiore del corpo. Un documento del Novembre 1515, nell’ordinare una rivista delle truppe nella primavera seguente, minaccia di decapitazione o amputazione di un braccio i soldati senza un elmetto o bracciale rispettivamente. La legge richiede anche che il cavaliere fornisse l’armatura del cavallo.

  I giannizzeri e i cavalieri delle sei divisioni, comunque, ricevevano le loro armi e armature da un sistema di fornitura centrale. La manifattura e mantenimento di queste erano la responsabilità dei corpi degli armieri, un corpo di uomini che il Sultano reclutava attraverso la Raccolta. Il corpo probabilmente si originò nel quindicesimo secolo e il suo numero crebbe per riflettere il numero di giannizzeri e cavalieri del palazzo. Questi erano, sembra, circa 500 armieri nella metà del sedicesimo secolo e quasi 6.000 nel 1630. Essi mantenevano la fornitura di ogni tipo di equipaggiamento, incluse armi da fuoco individuali e attrezzi da trincea per gli assedi.

  Lo sviluppo militare più importante durante il periodo della crescita dell’Impero Ottomano era, comunque, l’introduzione di cannoni e di altre armi da fuoco. Queste armi vennero in uso nell’Europa occidentale durante il corso del quattordicesimo secolo e, da lì si diffusero  nella penisola balcanica. Nel 1378 cannoni erano posizionati  sulle mura di Dubrovnik e, durante la decade successiva, cominciarono ad essere usati regolarmente nel regno di Bosnia e anche, si può supporre, in Serbia. Le truppe ottomane potrebbero dunque averli incontrati  durante i raid e le campagne nei Balcani occidentali durante gli anni ’80 del 1300. Comunque gli ottomani non adottarono cannoni su larga scala fino al secolo successivo. Riferimenti al loro uso di armi da fuoco durante il regno di Bayezid I sono inaffidabili. Negli anni ’20 del 1400, comunque, essi avevano iniziato ad usare cannoni negli assedi. Kananos, per esempio, nel suo resoconto dell’assedio di Costantinopoli del 1422, si riferisce a “grandi bombarde” che dice non avere alcun effetto. Ci sono altri riferimenti isolati all’uso ottomano di cannoni nelle prime tre decadi del quindicesimo secolo, ma non erano ancora fattori importanti in guerra.

  Questo cambiò con le guerre ungheresi degli anni ’40 del 1400. Durante le campagne del 1443-44, l’esercito del Sultano non aveva artiglieria da campo. Gli ungheresi, di contro,  avevano sviluppate tattiche di battaglia che basavano sul wagenburg. Questo era una fortezza mobile che consisteva di carri incatenati insieme per fornire un muro protettivo per le truppe che trasportavano armi da fuoco individuali, con cannoni piazzati sugli stessi carri o nelle aperture tra i veicoli. La incapacità della cavalleria ottomana di travolgere queste fortificazioni costò quasi loro la guerra. La efficacia di questa tattica è chiara dal libro Guerre sante del Sultano Murad, un resoconto turco anonimo ma contemporaneo della campagna. Qui,l’autore fa consigliare Turhan al Sultano: “Mio Padishah, comanda alle truppe dell’islam di ritirarsi dai wagenburg, perché se non lo fanno questi… infedeli faranno fuoco con i loro cannoni e archibugi e l’esercito dell’Islam sarà sconfitto”. In un altro passaggio, dove descrive il coraggio di un prigioniero turco l’autore gli fa dire al re di Ungheria: “Tu fai affidamento sui tuoi carri e speri che la casa di Osman li attacchi, e di respingerli con cannoni e archibugi. Ma non sai che essi hanno capito il tuo trucco… Essi non attaccheranno i tuoi carri. Essi ti circonderanno ad una distanza tale da essere fuori della portata dei cannoni”. L’uso dei wagenburg portò gli ungheresi molto vicino alla vittoria. Nel 1443, fu il clima invernale e il bloccarsi  dell’esercito al passo di Zlalitsa che evitò la loro ulteriore avanzata. A Varna nel 1444, fu la stupidità del re di Ungheria nell’uscire dai ranghi che condusse alla sconfitta.

  Era comunque una tattica che gli ottomani furono molto veloci ad adottare. Quando gli Ungheresi li incontrarono di nuovo nella seconda battaglia di Kosovo nel 1448 essi trovarono che il Sultano aveva fatto attestare  i suoi ranghi dietro una fortificazione “simile ad un castello” di carri e scudi puntuti che i giannizzeri difendevano con armi da fuoco. Una volta che l’esercito ottomano iniziò ad usare questa tattica, gli ungheresi non ebbero più un vantaggio strategico, e l’esito della battaglia fu una decisiva vittoria ottomana.

  Durante la campagna di Varna era l’artiglieria che dette agli ungheresi superiorità sul campo di battaglia, sebbene alla fine non la vittoria. In un altro teatro della guerra, comunque, l’artiglieria fu cruciale per la sconfitta degli Ungheresi. Per evitare che l’armata di Murad II attraversasse per arrivare in Europa e scontrarsi con l’invasione ungherese gli alleati cristiani avevano bloccato gli stretti. Il Sultano, comunque, poté portare il suo esercito attraverso il Bosforo nel suo punto più stretto a dispetto del blocco delle navi borgognoni. Ciò che frustrò gli sforzi dei borgognoni, a parte il vento e le forti correnti, erano i cannoni che il Sultano aveva installato su entrambe le coste per coprire il suo passaggio. Il cannone sulla costa asiatica fu fuso sul posto. Le batterie sulla costa europea le acquistarono dai genovesi di pera, che  fornirono Murad anche di armi da fuoco per la campagna che iniziava.

  Sotto molto aspetti, dunque, le guerre ungheresi furono cruciali nello sviluppo militare ottomano. Condussero all’adozione di artiglieria da campo e alla tattica del wagenburg. Per di più l’alleanza di Murad II con i Genovesi aprì una strada per il trasferimento di tecnologia militare agli ottomani. Fu da questo periodo che essi adottarono i cannoni su larga scala, e divennero esperti nella loro costruzione. Sotto un aspetto, comunque, gli Ottomani non  si impadronirono delle pratiche del nemico. Alcuni resoconti ottomani enfatizzano l’efficacia della piastra dell’armatura ungherese durante la battaglia di Varna e la seconda battaglia di Kosovo, ma non esiste alcuna prova che suggerisca che questo fosse qualcosa che gli Ottomani adattarono per il loro proprio uso.

  Dopo il 1444, comunque i cannoni e successivamente gli archibugi giocarono  un ruolo sempre più importante in materia bellica per gli Ottomani. Nel 1446 Murad II distrusse il muro dell’Hexamilion attraverso l’istmo di Corinto con il fuoco dei cannoni. Anche in questa occasione, come nel caso del Bosforo del 1444, egli trasportò il metallo da fondere sul sito di battaglia e lo fuse sul posto. Questa doveva rimanere una pratica ottomana fino alla fine del quindicesimo secolo. Nel 1453, comunque, gli ottomani acquistarono ciò che probabilmente era il loro primo sito permanente per la manifattura di cannoni. In quest’anno, Mehmed II  prese la città genovese di Pera, opposta a Costantinopoli, e con essa le sue fonderie di cannoni. Questo, con i suoi edifici, materiali ed artigiani, quasi certamente formò il nucleo  della fonderia imperiale ottomana di cannoni, parte della quale esiste ancor oggi.

  La caduta di Costantinopoli nel 1453 testimonia la efficacia dell’artiglieria ottomana negli anni che seguono le guerre ungheresi: la città cadde perché il cannone di Mehmed II riuscì ad aprire una breccia nel muro. Ciò esemplifica anche il tipo di cannone che gli Ottomani predilessero. Ciò che colpiva gli osservatori contemporanei circa queste armi erano le loro dimensioni. Il più grande, in accordo con il fiorentino Tedaldi, lanciava “una pietra di undici spanne e tre dita di circonferenza che pesava millenovecento libbre” e richiedeva, secondo il cronista greco Doukas, una squadra di sessanta buoi e duecento uomini per il trasporto da Edirne a Istanbul. Doukas riferisce anche che fu il lavoro del fonditore ungherese di cannoni, Urban,che aveva lasciato il servizio dell’Imperatore quando il Sultano gli offrì una paga migliore. Fu il suo cannone che distrusse le mura e consentì alle truppe ottomane di entrare nella città.

  La efficacia di questo cannone era evidente per tutti gli osservatori e fu forse questa esperienza che incoraggiò gli Ottomani a concentrarsi sulla produzione di cannoni molto grandi per il resto del secolo. Dopo il fallito assedio di Jajce nel 1464, per esempio, il veneziano Malipiero riportò che prima della loro ritirata gli assedianti ottomani gettarono cinque cannoni da assedio “ciascuno lungo diciassette piedi” nel fiume Vrbas per evitare che cadessero nelle mani del nemico. Era probabile, anche che la difficoltà di trasportare questi grandi cannoni in un unico pezzo che condusse gli ottomani a continuare la pratica della fusione sul posto, apparentemente da rottami di bronzo, sul campo. Il cannone mostruosamente grande  per abbattere le mura e terrorizzare il nemico non fu, comunque la sola forma di artigliera ottomana di questo periodo. Descrizioni  degli assedi menzionano altri tipi di artiglieria, in particolare mortai per  sparare in alto sopra fortezze o mura cittadine. Sembra,anche, che gli ottomani usassero artiglieria da campo che,per sua natura, deve essere portatile. Furono, affermano in modo convincente le fonti ottomane, l’artiglieria e gli archibugi che assicurarono la vittoria su Uzun Hasan nel 1473. L’uso di grandi cannoni da assedio fu, comunque, una caratteristica del guerreggiare ottomano.

  Per il 1500, questi grandi cannoni erano obsoleti. Sebbene capaci di infliggere grande danno, essi avevano due principali difetti. Anzitutto, il calore che un singolo colpo generava  limitata il numero dei colpi possibili in un giorno. In secondo luogo, le dimensioni e il peso rendevano impossibile, una volta installato al suo posto, spostare il cannone in una diversa sezione delle difese. Questi erano problemi che in Europa l’artiglieria francese doveva risolvere nella seconda metà del quindicesimo secolo. La loro soluzione fu di usare, invece di un singolo grande cannone, batterie di cannoni più piccoli. Questi non potevano lanciare i grandi proiettili dei cannoni giganti, ma invece, sparando rapidamente e in successione potevano lanciare lo stesso peso del colpo del cannone più grande contro un muro difensivo. Inoltre, questa artiglieria leggera era più facile da spostare e così poteva essere usata contro un qualsiasi punto della difesa. L’efficacia di questa nuova tecnica divenne chiara quando il re francese, Carlo VIII invase l’Italia nel 1494.

  Gli ottomani appresero presto questa strategia. Nel 1501, una flotta francese salpò per l’Egeo e pose sotto assedio la fortezza di Mitilene nell’isola di Lesbo. Il comandante della flotta, Philippe de Clèves, era un teorico della guerra e in particolare dell’uso delle armi da fuoco sulle galee. gli fu capace quindi di sbarcare le sue truppe con successo sotto la copertura del fuoco delle galee e di  trasportare l’artiglieria davanti alla fortezza. Qui, la mobilità e efficacia dei suoi cannoni impressionarono particolarmente i due autori ottomani di un resoconto dell’assedio, che commentarono anche l’uso francese di palle di cannone in ferro. L’assedio alla fine fallì per una scarsa organizzazione degli assalti piuttosto che per deficienze dell’artiglieria.

  Gli ottomani appresero molto velocemente la lezione della campagna italiana di Carlo VIII e dell’assalto francese a Mitilene. Entro una decade essi avevano abbandonato l’uso dei cannoni giganti come principale artiglieria d’assedio e cominciarono ad adottare tecniche francesi nella manifattura e uso dei cannoni. Spandounes, che scrive nel 1513, rileva il cambiamento: “Nel passato essi avevano solo artiglieria di grosso calibro, che trasportavano con grande travaglio. Essi portavano i suddetti pezzi e li rifondevano sul campo dove si trovavano. Comunque, da non molto un grande numero di marinai e altri soldati, perfino cannonieri e fonditori sono andati a Costantinopoli e sin dal momento che il re Carlo venne a Napoli questi hanno mostrato loro sia come fondere e montare l’artiglieria sia come usarla”

  Altre fonti confermano ciò che dice Spandounes. Un documento della fonderia di cannoni imperiale ad Istanbul tra il 1522 e il 1525 mostra che il 97% dei cannoni – cioè 1027 pezzi – costruiti durante quegli anni erano di dimensioni piccole o medie. Similmente, un inventario dei cannoni immagazzinati a Belgrado del 1536 mostra che, di 485 cannoni, l’82% consisteva di cannoni piccoli. Gli Ottomani continuarono a produrre e usare grandi cannoni – Basilischi – ma in numerro più piccolo rispetto ai pezzi più leggeri. Questa è anche l’impressione che emerge dal resoconto del savoiardo Jean Maurand della fonderia di cannoni nel 1544. Qui, al di fuori dell’edifico egli vide “un gran numero di cannoni di tutti i tipi: cannoni con una forcella, colubrine, pezzi da campo, Basilischi, mortai e i cannoni leggeri noti come esmirigli e versi”. Furono comunque ancora i cannoni grandi che lo impressionarono maggiormente. Egli si diffonde specialmente  sugli undici basilischi e sui mortai che gli ottomani avevano usato nell’assedio di Rodi ventidue anni prima. Questi erano così grandi che “un uomo poteva  entrare nella cavità della bocca inginocchiandosi”. Al tempo di Maurand, comunque, gli artiglieri ottomani usavano i Basilischi non come arma principale ma come integrazione delle batterie più leggere, per far cadere mura già indebolite. Per esempio, all’assedio di Famagosta nel 1571, Pietro Bizari descrive una batteria ottomana come “dotata di settantaquattro cannoni che facevano fuoco, dei quali quattro erano di dimensioni terrificanti e spoporzionate, conosciuti generalmente come Basilischi”.

  Spandounes attribuisce agli Ottomani l’adozione dello stile dell’artiglieria francese come dovuta all’importazione di tecnici stranieri. La sua osservazione deve, almeno in parte, essere vera, data la facilità con cui la tecnologia militare attraversò confini culturali. Gli ottomani avevano probabilmente guadagnato la loro prima conoscenza dell’artiglieria nei Balcani, prima che il contatto con i Genovesi li familiarizzassero con le tecniche italiane di uso e manifattura. Il fonditore di cannoni di Mehmed II, Urban, fu ungherese, e praticava un mestiere che si era diffuso in Ungheria dal sud della Germania. Nel 1456, il fonditore di cannoni tedesco Jörg di Nuremberg entrò a servizio del re di Bosnia. Quando Maometto II conquistò la Bosnia prese Jörg prigioniero e lo impiegò come fonditore di cannoni fino alla sua fuga a Vienna nel 1480. Spandounes indica che questo traffico di tecnici continuò nel tardo quindicesimo e all’inizio del sedicesimo secolo, un punto che Maurand conferma con la sua affermazione che c’erano quaranta o cinquanta tedeschi che producevano pezzi di artiglieria nella Fonderia. Circa nello stesso periodo di Maurand, l’ambasciatore francese D’Aramon sostenne che molti “francesi, veneziani, genovesi, spagnoli e siciliani” che gli ottomani avevano catturato in terra e in mare, lavoravano nella fonderia dei cannoni. Nella metà del sedicesimo secolo anche il viaggiatore francese de Nicolay asserì che gli ebrei che erano emigrati nell’Impero ottomano dopo la loro espulsione dalla Spagna portarono con sé una conoscenza della creazione di artiglierie.

  L’importanza di questi fonditori e artiglieri stranieri al servizio del Sultano era che essi rappresentavano una via per la trasmissione della tecnologia: la produzione e uso delle artiglierie era un business internazionale. Essi erano comunque una minoranza. La gran parte degli uomini responsabili per la manifattura, mantenimento e uso dell’artiglieria erano membri dei corpi dei cannonieri , un corpo che era forse venuto ad esistenza nella metà del quindicesimo secolo, quando l’artiglieria venne  a formare un elemento regolare ed importante negli assedi e nelle tattiche sul campo di battaglia. Per il sedicesimo secolo la fonte principale di reclutamento per questo corpo era attraverso la Raccolta. Elenchi di cannonieri indicano anche la presenza di nati musulmani e cristiani con una tendenza, mano a mano che il secolo progrediva, dei musulmani a superare in numero i cristiani. Il corpo dei cannonieri, dunque, forniva un gruppo di esperti indigeni , mentre l’impiego  di tecnici stranieri era un mezzo per l’acquisizione di nuova conoscenza tecnica.

  La maggior parte dei cannoni ottomani erano fusi in bronzo. La transizione al ferro saldato  che sembra essere occorsa durante la metà del quindicesimo secolo, fu comunque, graduale. Ancora nel 1514, nella sua enumerazione dei cannoni ottomani della campagna di Chaldiran, Menavino menziona “duecento grandi bombarde di bronzo e un centinaio in ferro”. I resoconti, comunque, della fonderia di cannoni di Istanbul tra il 1522 e il 1525 suggeriscono  che, a quel tempo, i pezzi dell’artiglieria ottomana erano esclusivamente in bronzo. Questo era ancora l caso quando Evliya Celebi descrisse la fonderia un centinaio di anni più tardi negli anni ’60 del 1600. Il rame per fare il bronzo era disponibile in tutto l’Impero, in particolare dalle miniere in Kastamonu nel nord dell’Anatolia. L’altro componente della lega, stagno, sembra essere stato più rare e in una certa quantità almeno, era importato. I resoconti sulla fonderia,comunque, mostrano che i fonditori integravano la fornitura di nuovo minerale con bronzo da rottami. Questo arrivava alla fonderia specialmente nella forma di cannoni obsoleti, dallo stock del giardino del Sultano o direttamente alle banchine della fonderia. Altri pezzi di bronzo, come vecchi calderoni anneriti, integravano la provvista di cannoni vecchi o rovinati. Le palle di cannone in ferro, introdotte probabilmente dopo l’assedio francese di Mitilene, nel 1501, venivano prodotte dagli ottomani non alla fonderia di cannoni di Istanbul, ma ai centri di produzione del ferro, in particolare Samokov in Bulgaria.

  Similmente, fu la disponibilità di salnitro che sembra aver determinato i siti delle fabbriche per produrre polvere da sparo, con i principali centri di produzione nel sedicesimo e diciassettesimo secolo a Buda, Temesvár, Belgrado, Tessalonica, Gallipoli e Istanbul in Europa, a Bor in Anatolia, ad Aleppo, Baghdad e nello Yemen e in Egitto. L’Impero era, sembra, autosufficiente per quanto riguarda il salnitro tranne casi eccezionali, quando le ostilità si prolungavano, come nella guerra con l’Iran nel 1578-90, o la guerra austriaca del 1593-1606. I tentativi del tesoro di monopolizzare la produzione assicurando che, quando una nuova fonte di salnitro veniva alla luce diveniva parte dei possedimenti personali del Sultano. Lo zolfo, d’altro canto, era meno abbondante. Le conquiste di Solimano I (1520-66) nell’Anatolia orientale portarono i giacimenti  nei distretti di Van e Hakkari sotto il controllo ottomano e ulteriori forniture erano disponibili da vicino il Mar Morto, e da Melos e la Moldavia. Nondimeno, era ancora necessario importare solfo, specialmente dall’Iran. Il terzo ingrediente della polvere da sparo è il carbone. In molti luoghi era facilmente disponibile, ma alcune aree di produzione erano virtualmente senza alberi, ciò che costringeva i produttori a trovare alternative, come radici di arbusti e tamerici della penisola del Sinai. Il processo di raffinazione del salnitro consumava anch’esso grandi quantità di combustibile, ma a questo scopo poteva servire qualsiasi tipo di combustibile.

 

 

 

L’ESERCITO: LA TATTICA

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  La Forma tipica della guerra ottomana erano gli assedi e le scaramucce  lungo i confini dell’Impero. Battaglie campali erano rare, ma quando si verificavano erano spesso decisive. La battaglia di Varna, per esempio, nel 1444, determinò la dominazione ottomana piuttosto che ungherese nella penisola balcanica. La conquista ottomana di Siria ed Egitto nel 1516 e 1517 fu lo sbocco delle due battaglie a Marj Dabiq e Raydaniyya. Fu la battaglia di Mohacs nel 1526 che mise fine al regno indipendente di Ungheria.

  La formazione dell’esercito ottomano sul campo di battaglia sembra essere rimasta, essenzialmente, invariata tra la fine del quattordicesimo secolo e la fine del sedicesimo. Era  in massima parte un esercito di cavalieri con, di regola, la cavalleria anatolica e di Rumelia posizionate separatamente in ciascuna ala. Nel centro c’erano i giannizzeri, che  proteggevano anche il Sultano se dirigeva l’esercito di persona. Sebbene essi fossero fanteria e in piccolo numero furono i giannizzeri che fornirono un nucleo stabile per la linea di battaglia ottomana.

  Le quasi-sconfitte che gli Ottomani subirono durante le guerre ungheresi della metà del quindicesimo secolo, li incitò a fare maggior uso di armi da fuoco e ad adottare la tattica del wagenburg. La disposizone delle forze in campo, comunque, con i giannizzeri al centro e la cavalleria alle ali, sembra essere rimasta invariata. La differenza era che il centro del campo che i giannizzeri occupavano era diventato una forte posizione fortificata. Fu anche probabilmente dopo le guerre di Ungheria che i giannizzeri iniziarono a portare armi da fuoco. Queste dovevano dimostrarsi particolarmente efficaci nelle guerre contro Uzun Hasan nei primi anni ‘7’ del 1400. Mancando di armi da fuoco, Uzun Hasan tentò ma non riuscì ad ottenere  una fornitura da Venezia e, nel suo incontro con l’esercito ottomano, questa mancanza fu cruciale. Il cronista ottomano Neshri, annota che  “Uzun Hasan non aveva mai visto una battaglia con cannoni ed archibugi e così fu senza difesa contro gli Ottomani”. La cronaca veneziana di Malipiero rimarca lo stesso concetto: “Bayezid II migliorò la qualità degli archibugi dei giannizzeri, a seguito dei rovesci nella guerra contro i mamelucchi in Cilicia tra 1485 e 1490”.

  A questo stadio erano solo i giannizzeri che avevano armi da fuoco. Gli archibugi non erano pratici da portare a cavallo e la fanteria irregolare – gli azab – probabilmente non serviva abbastanza a lungo da apprendere un uso efficace dell’arma. Fu solo alla fine del sedicesimo secolo che le armi a base di polvere da sparo divennero sufficientemente diffuse da rendere possibile reclutare gli archibugieri tra la popolazione. Durante la seconda metà del quindicesimo secolo e per molto del sedicesimo dunque, le armi da fuoco individuali furono un importante elemento delle tattiche ottomane sul campo di battaglia, specialmente  nel difendere la posizione fortificata al centro. Il loro uso, tuttavia, fu limitato, in un esercito che era essenzialmente un esercito di cavalieri.

  Due resoconti della prima metà del sedicesimo secolo danno un buon quadro dell’ordine di battaglia ottomano in questo periodo. Uno di questi appare nella proclamazione della vittoria di Selim I a seguito della battaglia di Marj Dabiq nel 1516. Il Sultano stesso era al centro della linea di battaglia con le guardie del corpo giannizzere. Sulla linea di battaglia c’erano 10.000 uomini, inclusi gli archibugieri, probabilmente giannizzeri. Di fronte a questi c’erano 300 carri con cannoni. Da ciascun lato c’erano cavalieri dalle sei divisioni, con i cavalieri di Crimea e i timarioti di Anatolia e Rumelia da ciascun lato. Qualche anno più tardi, intorno il 1541, Paolo Giovo diede un resoconto dell’ordine di battaglia che conferma largamente,ma con maggiori dettagli, ciò che si legge nella proclamazione di Selim. Il Sultano, egli dice prende la sua posizione al centro, sotto la protezione dei solak – il gruppo interno dei giannizzeri che fungevano da sua guardia del corpo – e dei giannizzeri. Molti di questi portavano lunghi archibugi. Alla destra  e sinistra c’era la cavalleria delle sei divisioni. Di fronte ai giannizzeri c’erano i cannoni, e più avanti sul fronte, gli azab. Un altro gruppo di azab proteggeva il retro dell’esercito. La cavalleria di Rumelia e Anatolia era disposta da ciascun lato del fronte più avanzato degli azab. Giovio menziona anche il ruolo dei razziatori. Questi cavalcavano di fronte all’esercito e cercavano di indurre il nemico a venire in contatto con gli azab. Queste truppe erano probabilmente viste dal Sultano come largamente sacrificabili. Già nel 1475 Iacopo di Promontorio aveva commentato: “Quando  si viene al combattimento essi sono mandati avanti come maiali, senza alcuna pietà, e muoiono in gran numero”. Quando gli azab cedevano e si dividevano, il nemico incontrava l’artiglieria e poi, dietro i cannoni, i giannizzeri. Il ruolo della cavalleria sulle ali era di circondare il nemico come questo si avvicinava alla posizione fortificata al centro della linea ottomana.

  Il comandante delle forze in Ungheria tra il 1564 e il 1568, Lazarus Schwendi, è testimone dell’efficacia di queste tattiche. Egli mette in evidenza che le forze cristiane non dovrebbero permettere agli ottomani di attirarli nel raggio di azione dei wagenburg, la fortificazione mobile al centro della linea. Egli commenta anche l’eccellenza dei giannizzeri come tiratori: “ci sono circa 12.000 archibugieri con lunghi archibugi che essi manovrano in modo eccellente”. Altri europei, per esempio, all’assedio ottomano di Malta nel 1565, commentano pure il fuoco accurato dei giannizzeri. Schwendi, sembra, considerava gli ottomani come invincibili sul campo di battaglia e durante l’estate, quando essi potevano mobilizzare un esercito al completo. Egli consiglia invece che gli austriaci attacchino le fortezze di confine in inverno, quando gli ottomani non potevano resistere efficacemente, e che “fortezze valide e ben equipaggiate” erano  la maniera migliore per sconfiggere i turchi. L’atteggiamento di Schwendi è difensivo, e indica che le tattiche ottomane sul campo di battaglia rimasero efficaci funo alla fine delle guerre degli anni ’60 del 1500.

  Nell’identificare le “fortezze valide e ben equipaggiate” come l’arma migliore contro gli ottomani schwendi caratterizza l’arte bellica del periodo. Gli assedi erano più comuni che le battaglie campali ed erano una forma di guerra in cui gli ottomani giunsero ad eccellere. Agli inizi del quattordicesimo secolo, essi erano stati capaci di prendere castelli e città fortificate solo affamandole fino a farle capitolare. Ma per la fine del secolo essi avevano adottato con successo l’equipaggiamento e le tecniche dell’assedio medievale, usando mangani per lanciare pietre contro e sopra le mura, torri d’assedio per dare alle truppe attaccanti una piattaforma su cui combattere da cui assaltare i difensori sugli spalti e mantellette per ripararsi dai proiettili. Essi avevano anche appreso l’arte della mina. Essi continuarono ad usare queste tecniche  molto dopo il quattordicesimo secolo. Nel 1453 per esempio fu il fuoco dei cannoni che fece una breccia nelle mura di Costantinopoli, ma  i cannoni erano solo uno degli strumenti che gli ottomani usavano per colpire le difese della città. Il cronista ottomano, Tursun Bey, riferisce che Mehmed II  portò sotto le mura mangani e gallerie di mina. I resoconti dei difensori europei riferiscono pure essi di torri d’assedio. Queste e altri “obsoleti” metodi di assedio continuarono nel secolo seguente. Ci sono riferimenti all’uso di mantellette all’assedio di Otranto nel 1481, Malta nel 1565 e Nicosia nel 1570, e dell’uso di mangani all’assedio di Rodi nel 1522. A malta nel 1565, gli attaccanti costruirono una torre d’assedio che poteva contenere cinque o sei archibugieri. Anche lo scavo di gallerie di mina rimase una specialità degli ingegneri ottomani agli assedi.

  Nondimeno,dalla metà del quindicesimo secolo l’artiglieria divenne il fattore cruciale negli assedi. La funzione dei cannoni era di distruggere le fortificazioni, ma le bocche da fuoco ottomane dalla metà del quindicesimo secolo includevano anche mortai per far fuoco sopra le mura per demolire edifici e terrorizzare la popolazione all’interno. Sembra, per esempio, essere stato un mortaio gigantesco che distrusse il morale degli abitanti durante l’assedio ottomano di Mitilene nel 1462.

  L’artiglieria era uno degli elementi nella guerra d’assedio. Egualmente importante era il lavoro di scavatori  e minatori nello scavare  le trincee per avvicinarsi e la costruzione dei terrapieni che proteggevano gli assedianti e la loro artiglieria dal fuoco nemico, e nel minare dal disotto le mura della fortezza. Queste erano arti nelle quali gli ottomani eccellevano. C’era, nel diciassettesimo secolo, un corpo separato di genieri , ma non è chiaro quando nacque. E’ possibile che un tale lavoro fosse in precedenza il dovere degli appiedati e degli esentati.

  Il primo stadio di un assedio era sconfiggere qualsiasi forza fosse al di fuori delle mura e confinare il nemico nella fortezza. Poi, con la copertura delle tenebre  gli scavatori avrebbero scavato le trincee di approccio ad angoli retti con le mura. Queste erano sinuose, per fornire protezione dai colpi nemici che sarebbero potuti giungere direttamente da un estremo della trincea ad un altro. Da questi approcci, le trincee parallele alle mura irradiavano ad angoli retti. Una volta che queste erano completate gli assedianti ottomani portavano l’artiglieria e i gabbioni  e quando questi erano al loro posto cominciavano il bombardamento. I gabbioni, che servivano per proteggere gli scavatori e i soldati nelle trincee. attirarono l’attenzione del viaggiatore francese De Nicolay, che li vide all’assedio di Tripoli nel 1551: “I gabbioni sono fatti di grandi tavole spesse tre pollici… Quando i turchi desiderano attaccare qualche posizione essi li mettono sul terreno,nella forma di una losanga, incardinando le tavole una all’altra. Poi, quando sono state piazzate in file, le riempiono di terra. Questo è una invenzione molto utile, perché i colpi possono solo schizzare via da loro  e non fanno loro alcun danno” Come le trincee si avvicinavano al fossato di fronte al forte, gli assedianti avrebbero spesso usato la terra estratta dagli scavi o le macerie che i cannoni avevano staccato dalla fortezza per livellarlo e avvicinarsi alle mura. Descrivendo l’assedio di Famagosta nel 1572, Bizari riferisce che “i Turchi avevano già gettato così tanta terra contro il fossato, che l’avevano posto al livello dei bastioni, e poi posto travi per traverso da entrambi i lati per servire da supporto. Questi si estendevano fino al muro. E per far sì che noi non li colpissimo con i nostri cannoni, si proteggevano con canne, sacchi di lana e fascine”.

  Le trincee erano gli elementi più essenziali in un opera d’assedio dato che fornivano copertura e era attraverso di esse che gli uomini e l’artiglieria si avvicinavano alle fortezze. La scienza dell’assedio ottomana  comunque, coinvolgeva iniziative più elaborate. Il quattordicesimo e quindicesimo secolo talvolta videro la costruzione di fortezze di blocco per prevenire l’accesso al luogo che era sotto assedio. Negli anni ’90 del 1300 Bayezid I costruì un castello sulla costa asiatica del Bosforo per impedire l’accesso a Costantinopoli mentre dava l’assedio alla città. Allo stesso scopo, nel 1452-53 Mehmed II costruì un secondo castello opposto a quello di Bayezid, sulla costa europea. Nel 1440 murad II aprì il suo fallito assedio di Belgrado con la costruzione di un forte a sud della città per bloccare l’accesso.

  Molte di queste opere, comunque gli ottomani le costruirono immediatamente al di fuori della fortezza o città sotto assedio. Per esempio, essi iniziarono l’assedio di Nicosia nel 1570 costruendo “una fortezza sulla montagna che prende il nome di Santa Marina, a centosettanta passi di distanza dai bastioni e dalle strade di Podocattaro e Carrasa”. Da lì, essi iniziarono a sparare nella città, colpendo case e altri edifici, ma senza causare molto danno. Successivamente innalzarono un forte “su una collina che gli abitanti chiamano San Giorgio”, sparando ai tetti delle case, ma di nuovo senza fare danni alle difese. Due altri forti seguirono, e solo quando essi riuscirono ad atterrare le difese della città da queste posizioni gli attaccanti si fecero più vicini. Lo stadio successivo delle operazioni dimostrò come gli Ottomani potevano costruire fortezze  più vicine alle mura della città. Quando la forza assediante si avvicinò alla controscarpa del fossato intorno alla vecchia città di Nicosia “essi scavarono e fecero terrazze che erano quasi pari alle nostre fortezze chamate Podocattaro, Constantia, Anaba e Tripoli, Fronteggiando queste, essi costruirono quattro belle fortezze, con grande lavoro e diligenza, circa cinquanta passi dalle nostre mura”. Da queste posizioni essi erano in grado di martellare le mura. Lavori simili apparvero all’assedio di Famagosta nel 1572. Bizari descrive come, all’inizio dell’assedio, “i turchi iniziarono a creare piattaforme per piazzare cannoni per il bombardamento e a fare casematte e bastioni per il fuoco degli archibugieri”.

  Nello stesso tempo che le forze assedianti costruivano queste fortificazioni di terra e macerie sopra il terreno, i loro minatori avrebbero scavato sottoterra. Il metodo originale era di costruire una camera sotto le mura o le torri della fortezza e di rivestire i supporti di legno  che sostenevano il soffitto con pece o altro materiale combustibile. I minatori avrebbero allora dato fuoco ai supporti e si sarebbero ritirati. Come il soffitto della mina collassava, così avrebbe fatto il muro sopra il terreno. Nel sedicesimo secolo, l’uso di polvere da sparo per far esplodere gallerie di mina incrementò l’effetto distruttivo di questa tecnica. La polvere da sparo comportava tuttavia grossi rischi. All’assedio di Famagosta un gran numero di assedianti persero la loro vita quando una mina ottomana scoppiò sotto i loro piedi.

  Lo stadio finale dell’assedio, quando il fuoco dei cannoni e le mine avevano indebolito la fortificazione e colpi di freccia e d’arma da fuoco avevano decimato  i difensori, era un assalto generale, quando la forza assediante tentava di entrare dalle brecce nel muro. Una volta che un esercito ottomano era entrato in una fortezza, città o paese, non c’era più nessuna speranza di resistenza efficace.

 

 

 

L’ESERCITO: DOPO IL 1590: LA RIVOLUZIONE MILITARE

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  Il successo degli eserciti ottomani  nell’ultima decade dal sedicesimo secolo sembrava giustificare la cautela che Schwendi aveva consigliato negli anni ’60 del 1500. Tra il 1570 e il 1572 gli ottomani si impadronirono di Cipro. La guerra con l’Iran tra il 1578 e il 1590 portò all’Impero nuovi territori nel Caucaso e nell’Azerbaijan, e dimostrò anche  la capacità ottomana di mantenere un esercito  sul campo per più di un decennio. Quando scoppiò la guerra con l’Austria nel 1593, ventisette anni dopo l’ultima campagna ungherese di Solimano I, il comandante ottomano, Koja Sinan Pasha, non avrebbe potuto avere dubbi sulla superiorità militare ottomana. Ciò che la guerra rivelò di fatto fu che le tattiche militari ottomane stavano divenendo obsolete.

  Nel suo resoconto del primo anno di guerra il letterato ottomano Ta’likizade, mette in evidenza un ostacolo immediato che dovette affrontare l’esercito di Sinan Pasha. Egli riferisce come a Belgrado la popolazione locale disse ai comandanti ottomani che, nei tempi passati, se gli fosse stato riferito di un nuovo forte austriaco in Ungheria il Sultano avrebbe ordinato la sua immediata distruzione. Comunque, la lotta a Cipro e contro l’Iran avevano portato a trascurare la frontiera ungherese, dando agli Austriaci l’opportunità di costruire nuove fortificazioni. Questo lavoro ebbe luogo dalla fine degli anni ’70 del 1500.

  Nella parte meridionale del confine, tra il medio corso della Drava e il medio corso della Sava e attraverso  la Croazia fino all’adriatico, le montagne formavano una difesa naturale. L’unica grande fortezza che gli Austriaci costruirono  su questa linea era a sud, a Karlovac sul fiume Kupa. Per proteggere il resto della frontiera croata essi costruirono una catena di torri di guardia e posero nella zona di confine a sud della Drava dei mercenari Serbi e Tedeschi. In Ungheria a nord della Drava, le paludi fornivano una certa difesa ma non erano sufficienti per fermare l’avanzata di un esercito. Perdipiù, il Danubio forniva una via d’acqua fin dentro l’Austria. Era in Ungheria, dunque, che gli Austriaci concentrarono le loro difese, costruendo o ricostruendo fortezze a Kanizsa nel sud e a Györ, Komarom, Ersekujvar e Eger nel nord. Essi iniziarono anche a fortificare grandi città con bastioni difensivi. Posizioni che non erano direttamente sotto il controllo imperiale, vennero fortificate dai proprietari terrieri locali con muri di terra compressa tra pesanti tronchi. Le fortezze nuove e ricostruite erano in gran parte il lavoro di ingegneri italiani, che usavano il disegno più moderno.

  Non furono, comunque, le nuove difese che mostrarono la debolezza tattica degli ottomani. Già nel 1570 la cattura di Nicosia aveva mostrato che l’arte dell’assedio ottomana era ancora efficace contro le fortezze moderne dotate di bastioni. L’unico problema tecnico incontrato dagli assedianti, secondo Bizari, era che, all’inizio dell’assedio i bastioni di terra, assorbivano – come erano stati designati per fare – l’impatto delle palle di cannone, rendendole inefficaci. Durante la guerra di Cipro la non modernizzata fortezza di Famagosta si rivelò  un ostacolo molto più serio delle moderne fortificazioni di  Nicosia. Anche durante la guerra austriaca, gli assedianti ottomani furono capaci di prendere Györ nel 1594, Eger nel 1596, Kanizsa nel 1600 ed Esztergom nel 1605, a dispetto  del loro progetto migliorato. Sembra sia stato il sistema difensivo nel suo complesso, e gli scontri al di fuori delle fortezze, piuttosto che i forti ammodernati che misero a dura prova le risorse ottomane.

  Il problema più grande per gli ottomani non era la nuova architettura militare, ma piuttosto la superiorità austriaca sul campo. Essa si fondava in primo luogo sull’aumentato uso di armi da fuoco. La guerra del 1593-1606 non fu, di fatto la prima occasione nella quale gli ottomani avevano incontrato questo problema. Alla battaglia di Lepanto nel 1571, la superiore potenza di fuoco era stato un fattore nell’assicurare la vittoria della coalizione cristiana. La risposta ottomana a questo era stata di emanare ordini che i timarioti che dovevano servire nella flotta l’anno successivo dovevano imparare l’uso degli archibugi o avrebbero perso i loro timar, e di reclutare giovani che non appartenevano alla classe militare ma che sapevano come usare le armi da fuoco individuali. Comunque, non ci fu una applicazione sistematica di queste misure nella decade successiva e i comandanti ottomani non sembrarono aver applicato la lezione appresa sul mare agli eserciti terrestri. Inoltre, nelle guerre con l’Iran dal 1578 al 1590, gli ottomani fronteggiavano un avversario che era debole dal punto di vista dell’artiglieria.

  Questo non era il caso nel 1593, come rendono evidente i resoconti sia ottomani che europei. Nel 1594 Bernardino de Mendoza notò come “molte delle vittorie di questi tempi sono una conseguenza dell’artiglieria, o dell’abilità degli archibugieri” e Achille Tarducci commentava in particolare sulla efficacia dei tedeschi che avevano “abbandonato la vecchia tattica delle guerre difensive per passare all’offensiva, nelle fortezze e sul campo”. Queste nuove tattiche diedero agli austriaci una nuova fiducia in sé che sgomentò gli ottomani, inducendo un commentatore, Hasan al-Kafi a scrivere: “Attraverso l’uso di certe armi, il nemico sta cominciando a riportare vittorie contro di noi… Il nemico ha cominciato a prendere il sopravvento  attraverso l’uso di certi strumenti di guerra, nuovi tipi di armi e cannoni, che i nostri soldati tardano ad introdurre”. Di queste nuove armi cui allude Hasan al-Kafi, tre in particolare sembrano aver colpito lo storico Pechevi, che partecipò a queste guerre. I primi due erano i cannoni a lungo raggio e i moschetti, che erano più pesanti degli archibugi e richiedevano un supporto per la canna. Entrambi giocavano la loro parte nel riuscire quasi a sconfiggere gli ottomani a Mezö-Keresztes. L’altro strumento era il petardo, una bomba per far esplodere le porte delle fortezze o distruggere le mura.

  Nuove armi richiedevano nuove tattiche, e anche qui gli ottomani furono lenti ad adattarsi. Il cambiamento più significativo era nella composizione degli eserciti. I soldati di fanteria dotati di picche e armi da fuoco superarono in numero la cavalleria, in qualche caso  assommando ai tre quarti delle forze austriache che fronteggiavano gli ottomani. Poco dopo il 1600, in un memorandum al gran visir Yemishchi (“il fruttivendolo”) Hasan Pasha, il comandante  in Ungheria, Lala Mehmed Paha, commentò come questo aveva influito negativamente sulle fortune ottomane: “Molte di queste maledette truppe  sono fanti e archibugieri. La maggior parte delle truppe dell’Islam sono cavalieri e non solo sono pochi i loro fanti, ma gli esperti nell’uso dell’archibugio sono rari. Per questa ragione, c’è un gran disordine  nelle battaglie e negli assedi”

  Una conseguenza dell’aumentato numero di armi da fuoco e di truppe di fanteria fu che la guerra sul campo divenne più statica, con eereciti che facevano grande uso di lavori di sterramento e di posizioni di trincea che la cavalleria non poteva facilmente sopraffare. Anche qui, come il resoconto  della guerra fatto da Pechevi rende chiaro, gli ottomani erano lenti ad adattarsi. Fu il rifiuto delle truppe giannizzere e jelali di trincerarsi e la loro richiesta per rinforzi di cavalleria che condusse al disastro sull’isola di Csepel nel 1603. La fanteria austriaca era egualmente letale fuori delle sue posizioni fortificate, usando la strategia che il comandante austriaco Basta aveva messo a punto per sopraffare la cavalleria ottomana. Egli raccomandava in particolare che i moschettieri e archibugieri sotto la protezione dei picchieri dovessero sparare alla cavalleria che avanzava delle salve controllate. Sembra che siano stati questi quadrati di picche, con gli archibugieri ad ogni angolo o che formavano una copertura dai due lati che consentirono agli austriaci a Mezö-Kerersztes di avanzare quasi senza incontrare opposizione  fino all’accampamento ottomano. A Kanisza nel 1600, gli ottomani fuggirono di nuovo di fronte al fuoco austriaco,  alla fine vincendo solo perché gli austriaci credettero che la loro fuga fosse un trucco.

  La risposta ottomana alle tattiche austriache fu di incrementare il numero di soldati di fanteria espandendo il corpo dei giannizzeri, cosicché  esso contava quasi 40.000 effettivi alla fine della guerra, e reclutando, per la durata di una singola campagna, uomini che sapevano come usare armi da fuoco. Essi cominciarono anche ad adottare nuove armi, come il petardo, appreso dagli austriaci. E’ anche possibile che Lala Mehmed Pasha, il comandante ottomano di maggior successo nella guerra, avesse cominciato ad adottare le nuove tattiche sul campo di battaglia dal momento che, come implica Pechevi, egli era certamente consapevole del loro significato.

  L’uso aumentato della fanteria ebbe importanti conseguenze sul campo di battaglia e fuori. Il fatto più significativo fu che i giannizzeri smisero di essere un corpo di élite. Con gli effettivi in aumento, il reclutamento fu ampliato fino ad includere Turchi e altri musulmani per nascita. Nello stesso tempo, per alleviare il peso sul Tesoro, i giannizzeri ebbero il diritto di guadagnarsi da vivere fuori del corpo. Pagare un tale numero di persone nondimeno richiese un aumento delle entrate, che il Tesoro ottenne in parte convertendo alcuni timar in appalti esattoriali , e,così facendo, alterando la struttura fiscale e amministrativa dell’Impero. Un effetto del reclutamento di truppe irregolari come fanteria fu anche di mettere in difficoltà il tesoro. All’inizio del diciassettesimo questo provocò una seria rivolta in Anatolia. Le truppe di fanteria congedate, esperte nell’uso delle armi da fuoco furono una fonte di reclutamento delle bande di Jelali la cui soppressione richiese tutta la forza dell’esercito ottomano.

  L’incremento nell’uso della fanteria e l’adozione di nuove armi consentì alla fine agli ottomani di mantenere la loro posizione in Ungheria. Alcune debolezze militari comunque rimasero. L’esercito ottomano non sembra abbia adottato la tattica, che Basta raccomanda, di sparare delle salve. In una formazione di giannizzeri, per esempio, era solo la prima linea che poteva usare le proprie armi, e il fuoco, anche se accurato, era irregolare. Per di più, la produzione standard di cannoni ottomani, e le conoscenze matematiche degli artiglieri sembrano essere state in ritardo rispetto a quelle dei rivali europei. Durante il corso del diciassettesimo secolo, le abitudini mentali che produssero la “rivoluzione scientifica” europea vennero ad influenzare in modo crescente la conduzione della guerra. Questa fu una corrente intellettuale che non attraversò i confini dell’Impero Ottomano, rendendo difficile per gli ottomani afferrare i principi teorici che erano alla base della nuova scienza militare della costruzione delle fortezze, degli assedi, delle tattiche sul campo e dell’artiglieria. Tuttavia non fu fino alla disastrosa guerra con la Lega Santa dal 1683 al 1699 che questo divenne penosamente evidente. Sul fronte orientale, gli ottomani dovevano soffrire umiliazioni all’inizio del diciassettesimo secolo per mano dello Shah Abbas. Le vittorie iraniane non rifletterono, comunque, alcuna superiorità strutturale. Il fatto era che semplicemente lo Shah Abbas era un brillante stratega militare così come un esperto di politica, e capace di sfruttare l’impegno bellico degli ottomani in Austria e Anatolia così come le loro ricorrenti crisi politiche e i fallimenti nella leadership.

 

 

 

LA FLOTTA: GLI OTTOMANI E IL MARE

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  Nel Secolo successivo alla occupazione di Gallipoli nel 1354, gli unici passaggi sul mare che erano vitali per l’integrità dell’Impero Ottomano erano presso gli stretti che dividevano i suoi territori asiatici e europei. Questa situazione cambiò con la conquista di Costantinopoli nel 1453. La nuova capitale ottomana era una città la cui esistenza dipendeva dal rifornimento di cibo e altri beni via mare, e questo richiedeva una  flotta per proteggere i porti e le rotte marittime dai pirati e dall’azione del nemico. Fu poco dopo il 1453, pure, che il Sultano iniziò ad usare la flotta come strumento di conquista, con Mitilene nel 1462, e Negroponte nel 1470 che caddero per assalti anfibi.

  Fu solo negli ultimi anni del quindicesimo secolo, con azioni contro Venezia nel golfo di Corinto ed al largo delle coste meridionali e occidentali del Peloponneso  che la flotta ottomana cominciò ad operare fuori dell’Egeo. Nella seconda decade del sedicesimo secolo, comunque, due eventi resero necessario estendere il raggio operativo della flotta. Il primo di questi fu una conquista sulla terraferma. Nel 1517 Selim I conquistò l’Egitto e, nella decade successiva, la provincia divenne una importante fonte di cibo per la capitale e di entrate per il Sultano. Le comunicazioni erano convenenti solo via mare, e divenne dunque essenziale per Sultano mantenere una flotta che fosse capace di proteggere  il traffico navale tra Istanbul e l’Egitto. La necessità di tenere questa rotta sgombra dai predoni deve essere stata una ragione per l’assalto ai pirateschi cavalieri di Rodi nel 1522. La conquista dell’Egitto portò anche a entrate per il Sultano provenienti dal commercio tra l’oceano indiano e il Mediterraneo. Questo comunque, coinvolse un conflitto navale con i portoghesi che, nelle stesse decadi, si erano stabiliti nell’oceano indiano e stavano tentando di deviare il traffico dalla sua vecchia rotta attraverso il Mar Rosso e di guadagnare un monopolio per i loro vascelli. La acquisizione delle città sante rese anche il Sultano responsabile per la sicurezza, dai portoghesi e altri predatori delle rotte di pellegrinaggio attraverso il Mar Rosso dal sud dell’Asia e dall’Africa.

  Il secondo evento che incoraggiò gli ottomani a rafforzare la flotta fu la sottomissione al Sultano di Hayreddin Barbarossa, il sovrano di Algeri. Ciò estese i reami ottomani al Mediterraneo occidentale e nel Sultano diede ad Algeri un protettore contro la Spagna. Più tardi nel secolo, le conquiste di Tripoli nel 1551, Jerba nel 1560 e Tunisi nel 1574 rafforzarono la  presenza ottomana nel Nord-Africa ma anche, come l’acquisizione di Algeri condussero ad una inevitabile rivalità navale con la Spagna, che stava cercando di stabilire roccaforti sulla costa del Nord-Africa. Questi fattori resero il possesso di una flotta efficiente essenziale  sia per la sopravvivenza del suo impero che per la sua espansione.

 

 

 

LA FLOTTA: NAVI

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  Murad I (1362-89) dovette aver costruito navi da guerra a Gallipoli dopo aver ripreso la città e il suo porto dai Bizantini nel 1377, ma la prima notizia affidabile di una flotta ottomana data dal 1392, durante il regno di Bayezid I (1389-1402). Fu, comunque, Mehmed II (1451-81) che iniziò a costruire navi su una vasta scala per guerre di conquista. Dettagli di queste prime flotte di guerra sono mancanti, ma è chiaro che, nel costruirle, le maestranze ottomane adottarono i tipi di vascello che erano comuni in tutto il Mediterraneo.

  Il vascello da combattimento di base era la galea a remi. Nella forma in cui era emersa durante il Medio Evo, la galea era un vascello stretto, lungo da cinque a sei volta la sua larghezza. Una galea standard aveva da ventiquattro a ventisei banchi di remi da ciascun lato, con normalmente  tre rematori per ciascun banco. Una piattaforma rialzata correva tra i banchi di ciascun lato. Essa aveva un solo albero con  una vela latina e aveva una piattaforma per il combattimento a prua. Le galee leggere, che i corsari preferivano particolarmente, avevano meno di ventiquattro  banchi per i remi da ciascun lato, mentre le galee pesanti, tipo quelle che trasportavano il comandante della flotta, ne avevano ventisei o più. Sulla prua esse avevano un ariete che sembra aver avuto la funzione di danneggiare lo scafo nemico e nell’immobilizzarlo durante il combattimento ravvicinato.

  I tratti fondamentali del progetto di una galea non cambiarono tra il medioevo e il diciottesimo secolo, quando la galea sparì alla fine dal Mediterraneo. Ci furono, comunque, alcune modificazioni nel corso dei secoli. La più importante di queste era l’aggiunta dell’artiglieria nella second ametà del quindicesimo secolo. Le galee avevano i cannoni sul davanti, ciò che consentiva loro di far fuoco sul nemico  prima di attaccarsi ad esso e di abbordarlo. Quando la flotta ottomana per la prima volta usò artiglieria di bordo non è sicuro, ma certamente una incisione veneziana che raffigura la battaglia del Peloponneso del 1499 mostra le galee ottomane con unico grande cannone che poteva ruotare, montato su un asse verticale sulla prua. Durante il sedicesimo secolo, come sulla terra, i cannoni di bronzo rimpiazzarono i cannoni in ferro saldato , e il numero  di cannoni aumentò. Lo standard per le galee ottomane nel sedicesimo secolo era probabilmente lo stesso che Katib Celebi specificò come standard nella metà del quindicesimo secolo, cioè un cannone sulla linea centrale, che sparava una palla di circa trenta libbre o più, affiancato da due colubrine.

  L’aggiunta dell’artiglieria  fu lo sviluppo più importante nel disegno delle galee durante il quindicesimo secolo. Ulteriori modifiche  intervennero durante il sedicesimo e diciassettesimo. Fino alla mea del sedicesimo secolo le galee standard avevano tre rematori per banco,con ciascun rematore che azionava un remo separato, un sistema conosciuto in italiano come “alla sensile”. Alla metà del secolo, tutte le flotte del Mediterraneo sembra si siano convertite ad un sistema dove i rematori su un singolo banco azionavano un singolo remo,un sistema conosciuto come “al scaloccio”. La nuova soluzione rese possibile incrementare il numero di rematori su un banco e ridurre il numero di  abili rematori richiesti. La flotta ottomana, a giudicare dai rapporti veneziani, adottò il sistema “al scaloccio” intorno al 1560. Un altro cambiamento  venne verso la fine del secolo, quando le galee standard cominciarono ad avere due piuttosto che un albero. Anche i carpentieri ottomani fecero questa modifica. Nel diciassettesimo secolo essi iniziarono pure a costruire galee con una “poppa a melone”, cioè una poppa che era arrotondata e rinforzata, per renderla più resistente alle onde. Un piccoli cambiamento finale  venne quando l’ammiraglio Ali Celebi (che tenne la carica nel 1617 e nel 1618-19) abolì come superfluo il “salva-vita”, una vela che la ciurma usava per rimettere in mare galee che si erano arenate.

  Uno sviluppo più significativo  nel disegno delle galee del sedicesimo secolo avvenne accidentalmente. Nel 1570, quando Venezia iniziò a costruire una flotta per contrastare gli attacchi ottomani a Cipro, i carpentieri dell’arsenale convertirono le loro galee mercantili in navi da guerra. Il lavoro fu frutto di improvvisazione, ma di improvvisazione riuscita. Le galee mercantili erano più lente e ingombranti  delle galee da guerra, ma più capaci, e così consentirono ai costruttori di montare altri cannoni, inclusa artiglieria che poteva far fuoco lateralmente. Il peso aggiuntivo consentì anche  di dominare in battaglia le ordinarie galee da guerra. Il comandante spagnolo della flotta della Lega Santa, Colonna, riconobbe certamente il potenziale di questi vascelli quando, rispondendo alle obiezioni al suo piano di inseguire la flotta ottomana  nel 1570, notò che queste “galeazze veneziane erano come fortezze che torreggiavano sul nemico e che sparavano dall’alto su di lui”. La battaglia di Lepanto l’anno successivo giustificò il suo ottimismo. Le galeazze giocarono un ruolo importante nella vittoria della Lega Santa contro gli ottomani

  La tecnologia delle galeazze era comunque conservatrice ed era un vascello che gli ottomani potevano facilmente imitare. Nell’inverno che seguì la sconfitta a Lepanto  il Consiglio Imperiale istruì il capo carpentiere dell’arsenale in modo da costruire una nave che avrebbe dovuto essere “mossa dai remi e capace di far fuoco da prua, da poppa e dai fianchi” senza pericoli per i rematori. Quando l’ammiraglio , Uluj Ali, ebbe approvato i piani, l’arsenale a Sinope costruì tre e l’arsenale di Istanbul uno o due dei nuovi vascelli e, dal 1572, le galeazze formarono una parte regolare della flotta ottomana. Katib Celebi annota che, nella metà del diciassettesimo secolo, essi trasportavano ventiquattro cannoni.

  La facilità con cui i carpentieri ottomani imitarono le galeazze veneziane contrasta con la loro lentezza nell’introdurre i galeoni, cioè vascelli a vela con alti fianchi, capaci di far fuoco con bordate . Sotto questo aspetto, comunque, questo era tipico delle costruzioni navali del Mediterraneo in generale. I veneziani costruirono qualche nave di questo tipo alla fine del quindicesimo secolo, ispirando Mehmed II ad ordinare una nave simile dall’arsenale di Istanbul. La bargia di Mehmed, comunque, affondò al varo, e né gli arsenali veneziani né gli arsenali ottomani continuarono a sperimentare con questi vascelli. L’unica eccezione furono un paio di cocche che combatterono con la flotta ottomana nel 1499. Queste erano vascelli ibridi,con remi, ma con la velatura di un galeone. A parte quell’anno, sembra che la galea nelle sue varie forme fosse l’unico vascello da guerra ottomano. Questo era anche vero delle altre marinerie mediterranee e, fino al sedicesimo secolo, non mise in svantaggio la flotta ottomana contro i rivali nel Mediterraneo.

  L’Impero Ottomano comunque non era solo un potere Mediterraneo e, nei suoi incontri con i portoghesi nell’oceano indiano e nel Golfo, le galee ottomane non poterono reggere al superiore potere di fuoco dei caracchi  portoghesi e non erano adeguate per la navigazione oceanica. Nel diciassettesimo secolo essi si trovarono di fronte a problemi simili nel Mediterraneo. Questo secolo vide l’apparizione ivi di mercanti armati dall’Olanda, Francia e Inghilterra. Dal momento che in molte circostanze una galea non rappresentava una minaccia per un galeone  completamente armato, questo cambiò i metodi della guerra navale nel Mediterraneo e persuase l’arsenale veneziano a intraprendere la costruzione di galeoni. Di conseguenza, quando gli ottomani dichiararono guerra a Venezia nel 1645, e lanciarono un attacco a Creta, essi si trovarono di fronte una flotta che era tecnologicamente superiore alla propria. Per tenersi al passo con la flotta veneziana gli ottomani  iniziarono a costruire galeoni con dieci in costruzione nel 1650. Comunque, né le navi in sé stesse né i tentativi di raccogliere ciurme tecnicamente capaci, ebbero successo, e non fu fino al 1682 che il galeone divenne la nave da guerra standard nella flotta ottomana. I (musulmani) nordafricani, comunque, padroneggiarono le tecniche di costruzione e manovra dei galeoni ben prima dei carpentieri e marinai della flotta ottomana. Questo  avvenne forse perché i domini  di Algeri, Tunisi e Tripoli attrassero corsari dal nord-Europa come dal Mediterraneo, e furono forse questi uomini che trasferirono le abilità dal teatro atlantico.

  Con questo non si vuol dire che  gli arsenali navali ottomani non costruissero per niente navi a vela. Un documento del 1487 registra due vascelli a vela – una bargia e un gripar – che portavano rispettivamente 83 e 45 cannoni. Questi chiaramente erano vascelli per il trasporto dell’artiglieria, e furono come vascelli da trasporto che le bargia ottomane continuarono a funzionare per tutto il sedicesimo secolo. Una di queste accompagnò perfino una flotta di galee nell’oceano indiano nel 1564, ma apparentemente portava solo provviste e non era armata. In aggiunta alle bargia altri vascelli specializzati accompagnavano le flotte da guerra ottomane. I documenti elencano, ma non descrivono “navi delle pietre”, presumibilmente per il trasporto di palle di cannone o materiali per la riparazione di porti e fortificazioni, e “navi dei cavalli”. Queste erano, secondo  un resoconto del diciassettesimo secolo, dotate di una vela quadra  con un basso pescaggio per il trasporto di cavalli o artiglieria, con una apertura a poppa per far salire a bordo i cavalli. Queste erano le navi che accompagnavano la flotta del Mediterraneo. Altri vascelli specializzati servivano sui fiumi navigabili dell’Impero.

 

 

 

LA FLOTTA: LA COSTRUZIONE DELLE NAVI

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  il primo e, per più di un secolo il più grande, cantiere navale nell’Impero Ottomano era a Gallipoli. Fu lì che alla fine del quattordicesimo secolo  Bayezid I costruì e riparò la sua flotta e, se dobbiamo credere al resoconto dell’ambasciatore aragonese presso Tamerlano che vide le navi nel 1402, aveva una capacità per circa quaranta galee. E’ abbastanza probabile che, già a quel tempo, i capitani e le ciurme delle navi fossero residenti permanenti della città. Questo era certamente il caso nel 1474, quando i loro salari comparivano nel primo  registro rimasto di spese del governo a Gallipoli. In quest’anno c’erano 92 distaccamenti di questi  marinai, ciascuno con un capitano al suo comando, con ciascun distaccamento forse rappresentante la ciurma di una singola galea. Questo numero evidentemente rimase costante fino al 1518, quando c’erano 93 distaccamenti. Come cantiere per la costruzione di navi,comunque, Gallipoli sembra essersi espanso dopo il 1518. Nel 1522, l’anno della conquista di Rodi, un bailo veneziano riferì che altre navi erano in costruzione. Per il 1530 ne esistevano 30, con altri incrementi nel 1530 e 1565-66.

  Il documento del 1518 riporta anche le spese dei carpentieri che costruivano e riparavano le navi. Questi, mostra il documento, cadevano in categorie differenti. In primo luogo c’erano otto piccoli gruppi di uomini che si erano specializzati in costruzione di navi – magazzinieri, costruttori di remi, , costruttori di carrucole e pulegge, lavoranti con la stoppa  – o nella manutenzione e uso dei cannoni – armaioli, artiglieri e bombardieri. In tutto c’erano 81 uomini, i calafatori con 26 e gli artiglieri con 28 uomini, che formavano i gruppi più grandi. Il gran numero di calafatori  suggerisce che il loro compito principale era la manutenzione piuttosto che la costruzione di navi. I numeri aumentarono lievemente negli anni seguenti, raggiungendo 127 unità nel 1530, ma non furono mai grandi. I  documenti mostrano che molti di questi uomini erano novizi del corpo dei giannizzeri, che servivano come apprendisti artigiani prima di essere arruolati nel corpo dei giannizzeri. Il gruppo più numeroso di artigiani, comunque, erano uomini con impiego temporaneo che l’arsenale assumeva, presumibilmente dai vicini distretti della costa, quando c’era lavoro, e licenziava al completamento dello stesso. Per i compiti pesanti ma che non richiedevano abilità, come trascinare in secca le navi, gli appiedati e gli esentati del distretto di Gallipoli fornivano la forza lavoro.

  L’arsenale navale ad Istanbul aveva una organizzazione simile. Quando Maometto II il conquistatore conquistò la città genovese di Pera nel 1453, acquistò con essa il vecchio arsenale genovese, con i suoi moli e i suoi scali di costruzione  sulla costa del Corno d’Oro. Egli evidentemente lo espanse  durante il suo regno  quando intraprese la costruzione di una grande flotta da guerra. Non fu comunque che nel sedicesimo secolo che essa sorpassò Gallipoli come centro principale per la costruzione e la manutenzione delle navi. Selim I (1512-20), secondo il resoconto di Lutfi Pasha, progettò la costruzione di 300 bacini  che avrebbero occupato l’intera lunghezza del Corno d’Oro, ma non completò mai il lavoro. Nondimeno, entro il 1522, c’erano 114 bacini,  entro il 1557 123 bacini e questo numero sembra essere rimasto stabile fino alla metà del diciassettesimo secolo. Nel 1653, essi erano circa 120. Ciascun bacino aveva due scali di costruzione  coperti dove era possibile costruire o ospitare galee, dando all’arsenale una capacità di costruire o riparare circa 250 galee nello stesso momento. Tra il 1546 e il 1549, l’ammiraglio Sokollu Mehmed costruì un magazzino dietro ciascuno bacino e recintò l’intera area.

  Come a Gallipoli, c’erano maestranze permanenti e temporanee. Quelle permanenti erano ancora novizi che formavano gruppi di calafatori, carpentieri, fabbricanti di remi, bombardieri, fabbri, “riparatori”, fabbricanti di carrucole e pulegge e lavoratori con la stoppa. Il loro numero era piccolo, con i calafatori – 40 uomini nel 1530 – che costituivano il gruppo più grande di un totale di 90 artigiani. Molti degli artigiani venivano comunque da fuori. Essi erano perlopiù, secondo un resoconto veneziano, maestranze greche  provenienti da Istanbul, Galata e le isole vicine; ma quando il lavoro era urgente, essi sarebbero venuti da tanto lontano quanto Lesbo e Chio. I mastri carpentieri rimasero largamente anonimi. Nel 1553 il bailo veneziano menzionò un mastro greco, che chiama Michele Benetto, con tre o quattro mastri sotto il suo comando. Nel 1562, un altro bailo riferisce che c’erano carpentieri veneziani che lavoravano nell’arsenale, che avevano molto migliorato lo standard della costruzione di navi. Oltre questi, non sussiste alcuna informazione. Erano sempre gli appiedati e gli esentati che portavano avanti i compiti pesanti nell’Arsenale, servendo per periodi di sei mesi.

  All’inizio del diciassettesimo secolo l’organizzazione delle maestranze sembra essere cambiata. C’erano molti lavoratori permanenti – 838 nel 1604 – che rappresentavano una varietà maggiore di competenze, inclusi i fabbricanti di remi e i fonditori di bronzo e il reclutamento non era più esclusivamente o principalmente tra i novizi. Il loro numero totale, comunque,declinò durante il secolo, cosicché nel 1648, al tempo della guerra di creta, ce n’erano solo 368. Sembra probabile dunque che per risparmiare denaro, il governo tornò alla pratica  di assumere il grosso della forza lavoro quando sorgeva la necessità. Il numero degli impiegati permanenti sembra comunque essere stato molto più alto che durante la prima parte del sedicesimo secolo.

  Gallipoli e Istanbul non erano gli unici siti di costruzione di navi nell’Impero. C’erano installazioni permanenti a Izmit ad est della capitale, a Sinope sul Mar Nero, a Suez nel Mar Rosso e per un po’ durante il sedicesimo secolo, a Basnar nell’Iraq meridionale. Per costruire lo scafo di una galea, comunque, non era necessario uno speciale bacino e, negli anni in cui la necessità si faceva pressante, come nel 1571-72, dopo la perdita di due terzi della flotta nella battaglia di Lepanto, il Governo avrebbe ordinato la costruzione di navi extra in specifici punti delle costa del Mar Nero e del Mediterraneo e l’arruolamento forzato di artigiani per fare il lavoro. L’inverno del 1571-72 vide la fabbricazione di più di 100 vascelli fuori di Istanbul e Gallipoli. Gli scafi completati dovevano andare all’arsenale principale per  ricevere i loro accessori  e l’artiglieria.

  Di tutti i poteri mediterranei l’Impero Ottomano possedeva le risorse più abbondanti per le costruzioni navali. Il legname, per esempio, era disponibile dalle dense foreste dell’Anatolia nord-occidentale, vicino agli arsenali ad Istanbul, Gallipoli e Izmit, e dalle pendici ricche di foreste lungo le coste meridionali del Mar Nero. Tale disponibilità era l’invidia degli osservatori stranieri del sedicesimo e diciassettesimo secolo, e non mostrò segni di esaurimento fino alla fine del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Oggi, l’area è largamente deforestata. Già nel sedicesimo secolo, e probabilmente prima, il governo aveva riservato tratti di foresta per il legname per le navi, nominando guardie per proteggere le piante. Gli abitanti di specifici villaggi in queste aree  abbattevano gli alberi e li tagliavano nelle forme desiderate, ricevendo un salario dal tesoro per il loro lavoro. Dal momento che le foreste erano vicine al mare, la fase successiva era di trainare il legname per via di terra  al porto più vicino e di trasportarlo tramite navi agli arsenali. Sembra che giudici e ufficiali nominati specificamente quando si intraprendeva il lavoro per sovrintendere alle operazioni. Nel diciassettesimo scolo, lo stesso sistema continuò con qualche perfezionamento. Per l’arsenale di Istanbul, il commissario per il legname determinava l’ammontare di legno richiesto da ciascuna area, e lo specificato numero di abitanti dei villaggi che avrebbero portato avanti il lavoro. Questi, a loro volta, ricevevano i loro salari nella corte del giudice dall’agente del commissario. Il Tesoro, comunque,  sopperiva solo per un quinto ai costi, il resto provenendo da tasse straordinarie prelevate nei distretti di produzione del legname. Gli arsenali potevano, quando era richiesto, comperare legname extra da mercanti ma, dal momento che il legno della riserva era molto più economico, i salari e i costi di trasporto essendo al disotto delle tariffe di mercato, essi chiaramente preferivano non fare così.

  Ci fu una simile continuità tra il sedicesimo e diciassettesimo secolo nel procurarsi altri materiali. Nel sedicesimo secolo le aree principali per la fornitura di tele per le vele e per le tende delle galee erano Gallipoli, la Grecia meridionale – specialmente Atene, Levadhia e Evvoia – e la regione egea dell’Anatolia, sebbene  i tessuti potevano, come nel 1560, venire da lontano come dall’Egitto ed Aleppo. L’organizzazione del lavoro aveva qualche somiglianza con l’abbattimento del legname, col giudice locale o il commissario da Istanbul che distribuiva il lavoro tra i villaggi e soprintendeva alla produzione. Di nuovo, erano i tessitori che avevano la responsabilità di tagliare  e imballare le stoffe finite, prima di mandarle per terra o per mare, agli arsenali. Nella maggior parte dei casi, le entrate locali coprivano i costi della produzione e del trasporto. Nel diciassettesimo secolo, lo stesso sistema di produzione continuò, nelle stesse aree, sebbene Gallipoli sembra essere emersa come il fornitore più importante, specialmente di tele per navi. Le consegne di vele e teloni dall’Egitto divenne anche più regolare. Fu anche probabilmente durante il diciassettesimo secolo che il sistema cominciò a specificare esattamente quanta tela ciascuna famiglia doveva produrre e ad allocare specifiche parti  di imposte locali per il pagamento della produzione.

  Le attrezzature e i cordami per la flotta venivano dalle aree di produzione della canapa. Nel sedicesimo secolo queste erano sulle coste anatoliche del Mar Nero ad ovest di Samsun, e sulle coste della Bulgaria, con piccole quantità che provenivano da Tire, nell’entroterra di Izmir. Di queste, Samsun era il luogo più importante. Nel 1539, l’arsenale di Istanbul acquistò 156 tonnellate da quest’area, come pure circa 20 tonnellate dalla Bulgaria. Nel diciassettesimo secolo, Samsun divenne, ancora più importante come fornitrice di corda. nel 1656, Katib Celebi riferisce che ogni anno la regione produceva 395 tonnellate di canapa per l’uso della flotta. La canapa era, di regola, filata in corde nell’area di produzione prima di essere inviata.

  Sia nel sedicesimo che nel diciassettesimo secolo erano soprattutto le miniere e le fonderie di Samokov in Bulgaria che fornivano i chiodi, le ancore e le parti di ferro delle galee. Queste normalmente arrivavano ai siti di costruzione delle navi già pronte. Il costo di trasporto era comunque enorme. Nel 1606-7,per esempio, l’arsenale di Istanbul acquistò 162.000 chiodi da Samokov per 198.608 akce. Il costo del trasporto da Samokov al porto di Tekirdagi sul mar di Marmara e da lì ad Istanbul era di 188.014 akce,con costi addizionali di 29.451 akce per pagare i salari di due impiegati, un impiegato addetto alla pesatura e un fabbro.

  Lo scafo delle navi, quando completo, richiedeva catrame e stoppa per calafatare, e sego o altro tipo di grasso per ungerlo al disotto della linea di galleggiamento. C’era una provvista abbondante di catrame da varie parti dell’Impero: Vlorë in Albania, Pazardzhik in Bulgaria, Mytilene, Thasos e le coste dell’egeo nord-occidentale, e dal vicino Samsun nel Mar Nero. Queste aree continuarono a fornire gli arsenali nel diciassettesimo secolo, quando il Governo destinò le entrate da Dürres e Peć al pagamento di 115 tonnellate ciascuna da Vlorë e i dazi di Mitilene al pagamento di una provvista annuale di circa 17 tonnellate da Lesbo. Queste cifre  suggeriscono che, nel sedicesimo secolo, Vlorë continuò ad essere la più importante fonte di approvvigionamento. La stoppa per calafatare era ottenibile a buon mercato da tutto l’Impero, il costo più grande essendo quello del trasporto, piuttosto che per la sostanza stessa. Il processo successivo dopo la calafatura era quello di oliare il vascello, e questo richiedeva sego in grande quantità. Oliare una galea richiedeva, secondo Katib Celebi, circa 350 chili di sego, e era necessario portare avanti le operazioni tre volte l’anno, una volta prima che il vascello lasciasse l’arsenale, e due volte durante la campagna. Il sego forniva anche il materiale per le candele della nave e per il sapone, necessario specialmente per i calafatori. L’abbondanza degli animali nell’Impero sembra comunque  aver assicurato che non ce ne fosse mai scarsità, con le consegne nel sedicesimo e diciassettesimo secolo che provenivano principalmente dalla Rumelia, Valacchia e Moldavia.

  Una volta che una galea era completa, essa riceveva i suoi cannoni e la sua ciurma.

 

 

 

LA FLOTTA: GLI AMMIRAGLI

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  L’ammiraglio della flotta del Mediterraneo, – il Kapudan pasha  era la figura di grado più elevato nella marina militare ottomana. La sua carica, comunque, emerse come un incarico ben definito al servizio del Sultano solo durante il corso del sedicesimo secolo. Non c’è nessun documento sugli ammiragli prima del 1453, ma dopo queta data – e probabilmente prima – divenne consuetudine per il governatore del sanjak di Gallipoli comandare la flotta, evidentemente perché Gallipoli era la più importante base navale e cadeva entro suo sanjak. Questo comando, comunque, non era automatico. Nel 1475, per esempio, era il visir Gedik Ahmed Pasha che comandò la flotta che salpò contro Azov e Caffa e anche la flotta che portò le truppe da Vlorë ad Otranto  nel 1481. Nondimeno, sembra che, durante il regno di Maometto II, era il governatore del sanjak di Gallipoli che era di principio il comandante della flotta, se non sempre in pratica. Un episodio della carriera del Gran Visir Mahmud Pasha illustra questo punto. Nel 1469-70 Mehmed II lo licenziò dal suo incarico da Gran Visir e nominò  invece governatore del sanjak di Gallipoli. La ragione per questa apparente degradazione era il progettato attacco all’isola veneziana di Negroponte. Questo richiedeva una grande flotta e, come governatore del sanjak, Mahmud aveva il compito di costruire le navi e di prendere il comando di loro quando fossero state varate. Per quell’anno almeno il governatorato di Gallipoli era divenuto uno degli incarichi più importanti dell’Impero e richiedeva un uomo con le abilità di Mahmud Pasha per essere ricoperto. Dopo la caduta di Negroponte Mahmud ritornò al visirato.

  Come semplici governatori di Sanjak gli ammiragli non occupavano una posizione impotante nell’establishment di governo ottomano, eccetto quando un personaggio di grande levatura occupava l’incarico, come fu il caso durante la permanenza in carica di Mahmud Pasha, e anche tra il 1506 e il 1511, quando Hersekzade Ahmed Pasha fu ammiraglio nell’intervallo tra due  incarichi come gran visir. Fu solo nel 1533, durante il regno di Solimano I (1520-66) che l’incarico di ammiraglio acquistò sia una chiara definizione che uno status elevato. Questo fu dovuto in parte all’aumentata importanza degli affari marittimi, ma specialmente alla illustre reputazione del nuovo ammiraglio.

  Nel 1533, Solimano concesse la carica ad Hayreddin Barbarossa, il conquistatore di Algeri. Era chiaramente impensabile  rendere quest’uomo un semplice governatore di sanjak. Invece la nomina venne insieme a quella di governatore generale  della nuova provincia dell’Arcipelago, che il Sultano creò espressamente per Barbarossa staccando i sanjak costieri della Grecia e della Turchia occidentale dalle esistenti province di Rumelia e Anatolia.

  La provincia dell’arcipelago fu così una creazione ad hominem, ma una che nondimeno durò. Non fu, comunque, che fino a dopo il regno di Solimano I che la provincia venne ad esistere permanentemente di suo proprio diritto, con l’ammiraglio come suo governatore generale. Quando Barbarossa  morì nel 1546, il suo successore era il capo portiere del Sultano, Sokollu Mehmed, che resse l’ammiragliato come suo primo incarico fuori del palazzo. Data la mancanza di rinomanza di Sokollu a questo stadio della sua carriera, il Sultano chiaramente non intese nominarlo governatore generale. Invece, come gli ammiragli prima di Barbarossa, ricevette l’incarico col governatorato del sanjak di Gallipoli. Questo era anche vero del suo successore, Sinan Pasha. Sinan, comunque, era fratello del Gran Visir, Rüstem Pasha, e fu probabilmente su insistenza di Rüstem che Solimano  fece tornare in vita la defunta provincia dell’Arcipelago e nominò Sinan come governatore generale. E’ chiaro comunque che il Sultano considerava questa come una nomina ad hominem, dal momento che il successore di Sinan, Piyale, ricevette l’incarico di ammiraglio come governatore del Sanjak di Gallipoli. Il decreto del Sultano che lo nominava ammiraglio nel Gennaio 1555 reca scritto: “Io ho aumentato i miei favori allo zeamet del capo portiere, Piyale e, con effetto da… [8 gennaio 1555], l’Ammiragliato e il sanjak di Gallipoli con la sua hass del valore di 550.000 akce è stato concesso a lui…” Piyale ricevette la promozione a governatorato generale della rinata provincia dell’Arcipelago nel 1558, dopo essersi distinto nelle azioni contro gli spagnoli in nord-Africa.

  Nel 1566, alla salita al trono di Selim II, Piyale ricevette una promozione al visirato. Il suo successore come ammiraglio fu l’agha dei giannizzeri, Müessinsade Ali. Egli ricevette l’ammiragliato con la Provincia  dell’Arcipelago. Questo fu probabilmente come riconoscimento del suo corrente status ma dal periodo della sua nomina l’esistenza della provincia era divenuta stabile, con gli ammiragli come governatori generali.

  Divenire ammiraglio non richiedeva una precedente esperienza sul mare. Il fatto importante che determinava la possibilità di essere scelto per l’incarico  era che l’ammiraglio fosse anche un governatore provinciale, e le nomina all’ammiragliato seguivano tipicamente lo schema delle nomine alle province. E’ abbastanza comune, dunque, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, trovare che gli ammiragli erano diplomati al servizio del palazzo. Sokollu Mehmed e Piyale sono entrambi esempi e, nel secolo seguente le cose non cambiarono. Katib Celebi nota nel suo elenco di ammiragli che, per esemio, “Dervish Pasha” – successivamente gran visir – “si diplomò presso le scuole di palazzo il 18 gennaio 1606 mentre era capo giardiniere con l’incarico di ammiraglio” o che “Hafiz ahmed si diplomò a palazzo  e divenne ammiraglio nel 1608”. Alcuni successivi ammiragli avevano anche, come Müezzinzade Ali, servito come agha dei giannizzeri o, come Jigalazade Sinan, che divenne  ammiraglio nel 1591, come governatori nelle province. La mancanza di esperienza sul mare non conduceva necessariamente all’incompetenza; Piyale Pasha e Jigalazade Sinan per esempio essendo stati comandanti di flotta di successo. Comunque, questo non fu sempre il caso, ciò che conduce Katib Celebi a stabilire, come primo dei trentanove principi per una gestione efficace della flotta: “Se l’ammiraglio stesso non è un corsaro egli dovrebbe consultarsi con i corsari riguardo la guerra per mare. Egli dovrebbe ascoltare, e non agire sulla base della sua propria opinione”.

  L’insistenza di Katib Celebi sul prendere consiglio dai “corsari” è una indicazione dell’importanza, nella flotta ottomana, dei pirati musulmani del nord-Africa, le cui attività predatorie servirono in effetti come una scuola navale per addestrare marinai. All’occasione, i corsari nord-africani fornivano alla flotta ottomana non solo capitani di galee, ma anche ammiragli. Il più famoso  di questi fu Hayreddin Barbarossa. La seconda nomina del genere fu quella di Uluj Ali, che sopravvenne all’ammiragliato in un periodo di crisi successivo alla battaglia di Lepanto. Egli iniziò la sua carriera come corsaro algerino, ma nel 1556 venne ad Istanbul per servire come capitano nella flotta ottomana, con un salario giornaliero che rifletteva la sua importanza. Egli successivemente  ritornò ad Algeri come Governatore generale, e fu come governatore generale che combatté a Lepanto. Alla morte in tale battaglia di Müezzinade Ali, egli gli succedette come ammiraglio. Il suo succesore nel 1588, Uluj Hasan Pasha, era stato nel suo seguito  e, come il suo patrono, aveva vissuto come corsaro in Algeri. L’ultimo dei seguaci di Uluj Ali a servire come ammiraglio fu Ja’fer Pasha, che mantenne l’incarico  per due anni dal 1606. Dopo questo, l’unica figura nautica  ad occupare l’ufficio nel 1616-17 e di nuovo nel 1617-19, fu Celebi Ali Pasha, il figlio di un governatore generale di Tunisi, originario della isola egea di Kos. Queste figure, comunque, furono eccezioni nella serie di uomini della terraferma che servirono come ammiragli.

  L’ammiraglio della flotta del Mediterraneo era  il comandante navale più alto in grado dell’Impero. Oltre lui, comunque, cerano capitani di squadroni con base fuori Istanbul e Gallipoli,che erano capaci di operare indipendentemente dal suo comando. Queste flottiglie e i loro capitani appaiono dapprima in doocumenti della metà del sedicesimo secolo, sebbene essi devono essere esistiti da molto prima. Il più vicino ad Istanbul era il Capitano di Kavalla, che comandava uno squadrone di galee che pattugliava l’Egeo del nord a sud fino a Lesbo. La sua funzione più importante, almeno secondo i documenti della seconda metà del sedicesimo secolo era scortare, fino ai Dardanelli,  le navi che trasportavano grano dalla Grecia settentrionale e centrale alla capitale, difendendole dai pirati e  evitando anche la vendita illegale di grano. Allo stesso tempo, uno squadrone più piccolo, di sole due galee nel 1566, operava sotto il comando del governatore del sanjak di Lesbo, proteggendo l’isola e la vicina costa. C’era una flotta più grande – dieci galee nel 1566 – sotto il comando del governatore del sanjak di Rodi. Questa isola e le sue dipendenze dominava le rotte tra l’Egitto e Istanbul, e l’entrata del mare Egeo e il Mediterraneo orientale tra la Turchia del sud e Cipro. In considerazione della sua posizione strategica, Solimano I deve aver stabilito una flotta lì immediatamente dopo la sua conquista nel 1522.

  Durante lo stesso periodo, i governatori di altri sanjak sulla costa egea della turchia qualche volta ricevettero ordini di pattugliare i tratti di mare al largo dei loro sanjak con una o più galee. Le uniche navi, comunque, che stazionavano permanentemente fuori Istanbul e Gallipoli sembrano essere state quelle a Kavalla, Lesbo e Rodi. Dopo il 1566, comunque, quando la provincia dell’Arcipelago dell’ammiraglio divenne una istituzione permanete divenne consuetudine per otto dei governatori di sanjak nella provincia fornire  una o più navi alla flotta imperiale quando essa prendeva il mare, suggerendo che i vascelli fossero permanentemente in stato di disponibilità nei sanjak. Durante questo periodo come ammiraglio, tra il 1616 e il 1619, Celebi Ali incrementò il numero di tali vascelli, richiedendo che Chio, Naxos e Mahdia fornissero ciascuno una nave.

  La rete di piccole flottiglie, concentrate specialmente nell’Egeo servivano sia per fornire rinforzi alla flotta imperiale, sia per difendere le rotte marittime verso la capitale da pirati e attacchi nemici. C’erano altri squadroni con capitani indipendenti al di fuori di quest’area. Quando conquistò l’Egitto nel 1517, Selim I acquistò due importanti porti. Il primo era Alessandria, che il cartografo Piri Reis descriveva nel 1526 come “un porto chiave, specie per i paesi arabi”. Il secondo era Suez, che forniva una base per le flotte nel Mar Rosso e l’Oceano Indiano. E’ probabile che Selim nominò un ammiraglio in Egitto immediatamente dopo la conquista, sebbene  il primo documento ottomano circa l’”Ammiraglio di Egitto” è del 1528. Egli era comandante sia delle flotte di Suez che di Alessandria fino al 1560, quando il Sultano creò una amministrazione separata a Suez. La funzione della flotta di Alessandria era  proteggere il Mediterraneo orientale e le rotte di traffico dall’Egitto, cooperando in questo dovere con il governatore del sanjak di Rodi. La flotta a Suez era per la difesa del Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Il Governo, comunque, riconobbe anche  l’ingresso del mar rosso a Bab al-Mandab come avente una grande importanza strategica e probabilmente un po’ prima del 1560, vi stabilì una flottiglia sotto il comando del “capitano dello Yemen” o “Capitano di Mocha”. Nel 1565, questo capitano comandava uno squadrone di sei galee, equipaggiate a Suez. E’ comunque improbabile, date le vicissitudini del dominio ottomano nello Yemen, che sopravvisse a lungo.

  Queste flotte in Egitto e nel Mar Rosso erano dipendenti dall’ammiraglo ad Istanbul. Così pure, erano le navi che operavano sotto capitani indipendenti sul Danubio e i suoi tributari. Il primo di questi “ammiragliati” era a Buda, dove Solimano I deve aver creato una flottiglia  immediatamente dopo la sua annessione nel 1541. Una flotta,comunque si dimostrò insufficiente e nel 1560, il governatore del sanjak di Mohacs chiese al Sultano un nuovo squadrone nel suo distretto, dal momento che il nemico stava attaccando le isole del Danubio, in un punto troppo lontano a sud perché le navi lo raggiungessero da Buda. Riferimenti al “Capitano di Mohacs” in anni successivi mostrano che il Sultano rispose alla richiesta. La terza flotta di Rumelia era sulla Sava, che unisce il Danubio a Belgrado. Il primo riferimento a un “Capitano della Sava” data dal 1556, suggerendo che il Sultano aveva forse anche creato la sua flotta dopo l’annessione dell’Ungheria.

  In aggiunta a queste flottiglie stabilite in permanenza sotto il comando di capitani o governatori di sanjak, i sultani talvolta crearono comandi temporanei per  flotte dalla breve durata. Negli anni ’80 del 1500, per esempio, la creazione dell’ufficio di “Capitano del mar Caspio” seguì le conquiste ottomane nel Caucaso. La flotta più importante fuori istanbul era  comunque la flotta di Algeri. Erano soprattutto gli algerini che portavano avanti raid continui contro le navi cristiane nel Mediterraneo e oltre, e che  formavano anche, quando combattevano sotto il comando del loro governatore generale, il contingente più valido della flotta ottomana. Nondimeno,la loro partecipazione alla guerra marittima ottomana era più o mano volontaria. Nei suoi decreti il Sultano poteva ordinare al governatore generale di Algeri puramente di “incoraggiare” i capitani corsari a unirsi alla flotta, ma non poteva esercitare il controllo diritto che egli poteva esercitare sugli altri comandanti navali dell’Impero.

 

 

 

LA FLOTTA: CAPITANI E CIURME

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  Prima del 1533, gli ammiragli con grande probabilità risiedevano a Gallipoli, il luogo dell’arsenale e la città principale del loro sanjak. Dalla nomina di Hayreddin Barbarossa nel 1533, essi risiedevano a Galata – la vecchia città genovese di Pera, e il luogo dell’arsenale imperiale – dove essi avevano giurisdizione, sembra, non solo sull’arsenale stesso, ma anche sulla circostante area urbana. Sotto l’ammiraglio c’era il commissario – emim – e il custode – kethüda – dell’arsenale. Il commissario era responsabile per il controllo finanziario e l’amministrazione, con impiegati di dipartimento che lavoravano sotto la sua supervisione. Il custode era il rappresentante dei capitani e delle ciurme e comandava un distaccamento di galee quando la flotta era in mare. Entrambi gli incarichi  presumibilmente datavano dalla metà del quindicesimo secolo, quando Mehmed II si impadronì ed estese i cantieri genovesi, e entrambi rimasero fino al diciassettesimo secolo. La carriera normale fino alla carica di guardiano era sembra aver servito come comandante di galea nell’arsenale a Galata.

  I capitani  delle galee e altri vascelli nella flotta imperiale erano residenti vicino agli arsenali principali  a Gallipoli e Galata, ciascuno con un distaccamento di uomini conosciuti come azab al loro seguito. Questi distaccamenti, sembra, rappresentavano le ciurme di singole navi. Il primo documento sopravvissuto su di essi viene da Gallipoli nel 1474, ma essi erano esistiti presumibilmente da molto più tempo. Essi sopravvissero fino al tardo diciassettesimo secolo, quando i galeoni finalmente scalzarono le galee come i principali vascelli da combattimento nella flotta ottomana. Entro questi gruppi di azab, quelli con la posizione di maggiore anzianità e rango al disotto del capitano avevano il titolo “marinaio” – yelkenji – o “capo della camera”  oda bashi – e di regola erano questi uomini che ricevevano un incarico come capitano quando ne rimaneva vacante uno. Ciò che il documento abbastanza scarno non chiarisce, comunque, è come il governo reclutava gli azab o quali fossero i loro doveri.

  Un ordine all’ammiraglio del 1572 di reclutare 342 azab “secondo le consuetudini e la legge” e di arruolarli tra gli uomini che fossero “capaci di combattere e di fare la guerra”, disponendo la loro paga e mandando il registro dei loro nomi e salari al palazzo. Ciò che il decreto potrebbe descrivere è una leva di giovani delle province, simile alla leva della fanteria azab per l’esercito. Se questo è il caso,  è improbabile che gli azab fossero marinai per ambiente di provenienza, ma piuttosto avrebbero appreso il mestiere attraverso il servizio sulle navi, nella funzione di sovrintendenti dei rematori o timonieri. Essi pure, sembra, portavano armi, e dalla seconda metà del sedicesimo secolo, erano equipaggiati con archibugi.

  Sebbene  ciascun capitano  e il suo distaccamento di azab sembrino, in linea di principio, rappresentare la ciurma di un singolo vascello, il numero dei documenti esistenti  sembra mostrare che  c’erano normalmente più distaccamenti di quante fossero le navi. C’erano 93 distaccamenti a Gallipoli nel 1518, ed è improbabile che i cantieri avessero la capacità di questo numero di vascelli. A Galata nel 1571 c’erano 227 distaccamenti, di nuovo probabilmente più distaccamenti delle navi. Nello stesso anno c’erano 150 “capitani senza distaccamento” addizionali, cioè capitani che non comandavano un gruppo di azab, ma erano  in lista per ricevere un comando quando ce ne fosse stato uno vacante. La stessa organizzazione continuò nel diciassettesimo secolo. All’epoca c’erano 440 distaccamenti, inclusi 34 a Gallipoli. In aggiunta, c’erano, nel 1604, 56 “capitani senza un distaccamento”. In questo periodo c’erano ovviamente più distaccamenti che navi.

  Se il numero dei distaccamenti crebbe nel diciassettesimo secolo  ci fu un decremento nel numero di azab in ciascuno. A Gallipoli nel 1518, i distaccamenti erano piccoli, consistendo normalmente di uno skipper e tre azab. Un documento del 1571, comunque, suggerisce che, a quel tempo, ci sarebbero dovuti essere “12  azab in ciascuna  delle duecento navi”. Nel diciassettesimo secolo il numero di azab in ciascun distaccamento iniziò a  diminuire di nuovo. Il numero di “capitani senza distaccamento” scese dal 56 nel 1604 a 30 nel 1608. Questo suggerisce che un distaccamento di azab  non rappresentava più la ciurma di una singola galea o di altri vascelli, come era stato fatto evidentemente nel sedicesimo secolo, ma piuttosto  che l’ammiraglio semplicemente cominciava a distribuire gli azab esistenti tra i comandanti esistenti senza riguardo al fatto che lo servissero in mare, e per risparmiare soldi riducendo il loro numero totale.

  Per tutta l’epoca delle galee, dunque, i capitani tipicamente emersero dai ranghi degli azab, ricevendo la loro promozione a comandante di un vascello in base alla raccomandazione dell’ammiraglio, del custode dell’arsenale o di qualcuno dei comandanti della flotta. In aggiunta, il Sultano qualche volta nominava corsari musulmani come comandanti di galee o, dal momento che la marineria era un mestiere internazionale, stranieri.

  La forza motrice per le navi veniva dalle vele e dai remi, e gli uomini che se ne occupavano formavano la maggioranza della ciurma di una galea, con una normale galea che richiedeva, secondo Katib Celebi, circa 150 rematori e 20 addetti alle vele e alla manovra . Entrambi i gruppi di uomini provenivano da arruolamenti annuali. Un documento degli anni ’30 del 1500 registra un arruolamento di 57 addetti alle vele da Çeşme, sulla costa egea della Turchia. Dal 1604, e probabilmente da prima, uno specifico distretto del sanjak di Gallipoli forniva addetti secondo una percentuale teorica di uno per ogni sette famiglie, il numero effettivo variante  secondo la domanda. L’arsenale poteva anche, in caso di necessità, assumere addetti alle vele per una stagione.

  Occuparsi delle vele e della manovra di una nave era una abilità nautica, e i pochi documenti che sopravvivono suggeriscono  che il governo arruolasse addetti dalle aree costiere tra coloro con qualche conoscenza di navi. Per servire come rematore, comunque, il governo considerava come unica qualificazione la salute e la forza, e richiamava molti rematori dalle aree interne della Rumelia e Anatolia. Nella metà del sedicesimo secolo alcuni europei commentavano sulla inefficienza dei rematori ottomani ma, dati i numeri richiesti – nel 1539 ad esempio c’erano 23538 rematori in una flotta di circa 150 navi – era chiaramente poco pratico cercare uomini con esperienza.

  Secondo Katib Celebi, la pratica di arruolamento forzato di rematori per la flotta iniziò nel 1501. Comunque, la parziale sopravvivenza  di un documento che mostra una leva del 1499-1500 fa vedere che ciò non è pienamente accurato. E’ anche difficile immaginare come Maometto II potesse aver manovrato le sue navi, in particolare l’enorme flotta che attaccò Negroponte nel 1470, senza l’arruolamento forzato di rematori. E’ possibile, comunque, che l’arruolamento non divenisse un evento regolare fino alla guerra con Venezia del 1499-1503. La prima vasta evidenza documentale appare nella metà del sedicesimo secolo.

  Questo rivela che era il tesoro  che gestiva la leva, il servizio nelle galee essendo essenzialmente una forma di tassazione. Circa tre mesi prima del momento in cui la flotta doveva salpare, erano emanati decreti indirizzati ai giudici delle aree che dovevano fornire i rematori. Se necessario, potevano seguire ulteriori disposizioni urgenti che ordinavano ai governatori generali e ai governatori di sanjak di assistere i giudici. I principi dell’arruolamento erano gli stessi che si applicavano al reclutamento della fanteria azab. Il giudice divideva il suo distretto giudiziario in quartieri, villaggi, borghi e comunità, e entro queste divisioni, un dato numero di famiglie doveva tirare fuori un rematore. Qualche tempo dopo il 1541, Lutfi Pasha scrisse una famiglia ogni quattro doveva mandare un rematore, scelto tra i giovani uomini robusti. Di fatto, la percentuale variava secondo le dimensioni della flotta e dell’area dove il governo faceva l’arruolamento. Per esempio, nel 1551, prima della campagna di Tripoli, il Tesoro arruolò un rematore ogni 23 famiglie. Nel 1570-71, per la invasione di Cipro, la percentuale era di una ogni quindici famiglie, nell’anno successivo, dopo la catastrofe a Lepanto, era uno ogni sette o otto. I rematori ricevevano una paga, ma le famiglie del gruppo che non fornivano la persona dovevano provvedere un anticipo in moneta per la copertura del salario di un mese. La tariffa era di 106 akce per un musulmano e di 80 per un non musulmano.

  Il servizio sulle galee era ovviamente impopolare e gli ordini ai giudici richiedevano che nominassero dei garanti della presentazione degli uomini arruolati.  Qualche volta il nome di un singolo garante appare  accanto al nome del rematore qualche volta appare un gruppo, e talvolta “tutti gli abitanti del villaggio/quartiere”. Questi garanti  davano in pegno le loro persona, o proprietà o entrambe. Una volta che l’arruolamento era completato, il giudice mandava gli uomini sotto sorveglianza militare all’arsenale, o in qualunque punto dovevano unirsi alle navi. Con essi, mandava un registro, che  metteva in grado le autorità che ricevevano queste persone di verificare che erano arrivate tutte.

  Per i rematori il viaggio fino alla costa deve essere stato duro come il servizio medesimo. Tutti i distretti in Turchia e nella penisola balcanica erano suscettibili di leva, e non semplicemente quelli che erano vicini al punto di imbarco, ciò che richiedeva agli uomini di viaggiare a piedi da luoghi distanti come l’Albania centrale o l’Anatolia ad Istanbul o altri punti sulla costa. Per manovrare la flotta che doveva assediare Chio nel 1566, il Tesoro chiamò rematori dalle provincie di Anatolia, Karaman e Rum in Turchia; dai distretti di Albania, Epiro e Tracia in Rumelia; e dalle isole e sanjak nella Grecia del sud che appartenevano alla provincia dell’Arcipelago. Questi erano i rematori per la flotta imperiale. Gli squadroni dell’Egitto e delle altre località trovavano gli uomini per il completamento delle ciurme localmente.

  Nel diciassettesimo secolo, il sistema per arruolare rematori rimase essenzialmente lo stesso che era stato nel sedicesimo secolo. In un aspetto, tuttavia, era diventato più sistematico. A partire da poco dopo il 1600, i registri delle tasse cominciarono a mostrare esattamente quali famiglie e in quali sanjak erano tenute alla leva. Molte di queste erano della Turchia occidentale e centro-occidentale. Un registro del 1640 per esempio mostra 62.946 famiglie, che fornivano 6.634 rematori. Questo indica che una famiglia ogni nove doveva fornire un uomo, con le restanti che pagavano una tassa che copriva il suo salario e mantenimento. Il numero totale era sufficiente per sopperire a 40 o più galee.

  Questo sistema era chiaramente adeguato nella prima metà del diciassettesimo secolo, un periodo durante il quale non vi furono spedizioni navali su larga scala e le necessità annuali della flotta non variavano molto. Comunque, con lo scoppio della guerra di Creta nel 1645, la domanda della flotta aumentò e il governo iniziò nuovamente, come aveva fatto nel sedicesimo secolo, ad arruolare rematori dall’Anatolia centrale e dalla Rumelia. Esso introdusse una misura interamente nuova. Dal 1646, iniziò a prendere rematori dagli artigiani e commercianti di Istanbul – tavernieri, titolari di mescite di boza, portieri e acquaioli – e dai greci, armeni, ebrei della città. Per questo servizio ricevevano  esenzione dalle altre tasse di guerra. A parte i portatori d’acqua, queste persone non dovevano servire di persona. Essi dovevano invece raccogliere il denaro  per assumere i rematori e mandarli all’Arsenale, o altrimenti pagare una multa. Nel 1646 essi procurarono 337 rematori; nel 1656-57, dopo il disastro ai Dardanelli, 2108.

  Molti dei rematori della flotta provenivano dall’arruolamento obbligatorio, ma, presumibilmente dai primi tempi c’erano metodi alternativi di reclutamento. Un modo era di cercare volontari. I riferimenti a questi sono scarsi, ma ordini ai giudici di Izmit, Silivri e Slatitsa tra il 1571 e il 1574 ingiungono di  assumere rematori per 900 e 1000 akce, e nel 1585, resoconti dell’arsenale  registrano 1.139 rematori assunti per 900 akce e 2.475 per 1000. Queste cifre – se rappresentano volontari, sono consistenti e probabilmente insolite, dal momento che i volontari non sembrano essere apparsi nuovamente in un qualche numero fino alla guerra di creta.

  I criminali imprigionati fornivano una provvista più stabile di rematori. Non c’era alcuna legislazione che stabilita quali trasgressioni erano punibili con la galea: decreti che destinavano i criminali alle navi  stabiliscono solo che gli uomini dovrebbero essere per esempio “criminali e sediziosi” o “colpevoli di una grave offesa,ma non meritevoli della pena capitale”. E’ abbastanza chiaro, di fatto, che il criterio per infliggere questa punizione era la necessità della flotta in ciascun tempo . Nel 1571-72 per esempio, dopo la battaglia di Lepanto, i giudici da ogni parte dell’Impero, lontano come Buda e ad est fino a Van ed Erzerum, ricevevano ordini di mandare alle galee di istanbul tutti i prigionieri nei loro distretti e tutti i criminali arrestati dopo la ricezione dell’ordine. Nel 1648 e 1651,durante la guerra di Creta, ci furono trasferimenti di prigionieri dalle “segrete di Istanbul” all’Arsenale. I prigionieri sembrano anche aver costituito una larga parte dei rematori nelle flottiglie locali. Erano, forse, le circostanze dell’Impero piuttosto che la natura del crimine che conducevano alla punizione nelle galee. Era, comunque il crimine che determinava la lunghezza della sentenza. Le trasgressioni più serie  erano punibili con la vita, ma per altre trasgressioni il rematore – se sopravviveva – guadagnava la sua liberazione dopo un minimo di sei mesi. Dal momento che l’arsenale aveva una copia delle annotazioni nel registro del giudice riguardante all’accusato e emetteva una ricevuta all’uomo che lo scortava, era possibile tenere traccia dei criminali nelle galee e di quanto a lungo avevano servito.

  Infine, i prigionieri di guerra erano un’altra fonte di manodopera,ma non sembrano esserci documenti circa il loro numero. E’ chiaro, comunque, che la maggior parte dei rematori veniva dai confini dell’Impero.

 

 

 

LA FLOTTA: LE TRUPPE

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  Tra la ciurma delle galee, solo gli azab erano soldati. In aggiunta alla loro ciurma, dunque, le galee della flotta ottomana trasportavano truppe. Resoconti veneziani dalla età del sedicesimo secolo stimano che il complemento normale erano 60 soldati. Dopo la sconfitta del 1571, il Consiglio Imperiale, presumibilmente su consiglio dell’ammiraglio Uluj Ali, elevò il numero a 150.

  Nel chiamare le truppe alle armi il governo ottomano non distingueva tra l’esercito di terra e la flotta. Uomini destinabili al servizio militare  potevano servire sia nell’uno che nell’altra, secondo il bisogno. E’ naturale pertanto che la maggioranza degli uomini combattenti nelle galee erano, come nell’esercito di terra, cavalieri timarioti, insieme con un contingente molto minore di giannizzeri. Questo era lo schema nella metà del sedicesimo secolo, quando documenti della chiamata alle armi divengono disponibili, ma è improbabile che le cose siano state differenti un secolo prima. I documenti della chiamata per la campagna di Jerba del 1560, di Malta del 1565, di Chio nel 1566  di Cipro nel 1570-71 mostrano che i timarioti che serviano nela flotta venivano dalle province di Rumelia e dell’Arcipelago, e da tutte le province della Turchia centrale e occidentale. Come quando combattevano a terra, essi servivano  nella flotta sotto il comando del governatore e di altri ufficiali da loro sanjak. Questi, o invero  un qualsiasi dei comandanti della flotta potevano raccomandare che ricevessero aggiunte ai loro timar per l’eccellente servizio. Di nuovo, come per l’esercito di terra, i decreti che chiamavano alle armi i timarioti, richiedevano loro di portare seguaci armati, armi, armature e provviste. I decreto stabilivano anche dove dovevano unirsi alle navi. Nel caso di uomini dall’Anatolia, questo era tipicamente presso le fortezze dei Dardanelli.

  Sembra che, per molto del sedicesimo secolo, la grande maggioranza delle truppe nella flotta fossero timarioti. Comunque, se i numeri erano insufficienti, il Consiglio Imperiale poteva ordinare  all’ammiraglio, come fece prima della campagna di Jerba, di imbarcare guardie di fortezze o, come prima dell’assedio di Malta nel 1565, azab e volontari. Le flottiglie locali, specialmente le flotte dell’Egitto potevano disporre di truppe da altre fonti, ma queste erano poche in confronti col numero dei timarioti. Era l Consiglio Imperiale che emanava i decreti di chiamata alle armi, ma presumibilmente dopo una consultazione con l’ammiraglio per quanto riguarda il numero richiesto e i punti di imbarco.

  Il sistema funzionò bene fino al 1571. in questo anno,comunque, la sconfitta a Lepanto provocò una crisi di  manodopera e di tattiche di battaglia. Molti timarioti persero le loro vite nella battaglia e i rimanenti erano riluttanti a servire di nuovo nella flotta Nel 1572, il governo era alla fine stato in grado di raccogliere solo 4.396  timarioti e 3.000 giannizzeri contro una richiesta di 15-20.000 combattenti. Questo fu dunque una grave carenza di manodopera. Ci fu anche una crisi per quanto riguarda gli armamenti.

  E’ chiaro che l’ammiraglio attribuì la sconfitta, in parte almeno, alla superiorità nemica quanto a potenza di fuoco e numero di combattenti. Per rimediarvi la flotta che fu posta in mare nel 1572 doveva trasportare tra i banchi di ciascuna galera due archibugieri e un arciere. Per ottenere questo, i decreti che chiamavano alle armi i timarioti alla campagna del 1572 richiedevano ad essi e ai loro seguaci di portare in guerra archibugi  e archi, con un decreto che ordina ad un governatore di sanjak di emanare il suo annuncio per tempo per consentire ai timarioti “che non lo sanno già fare, di imparare l’uso dell’archibugio”. Questo non risolveva comunque il problema. Persino se i timarioti  avessero imparato ad usare armi da fuoco, il numero totale di archibugieri sarebbe stato comunque inadeguato. Per eliminare la carenza il governo arruolò un inconsueto numero di volontari. Ogni governatore di sanjak che riceveva un comando per arruolare timarioti, doveva anche arruolare volontari, organizzare questi in gruppi di dieci uomini e mandarli alla flotta, dove avrebbero ricevuto una assegnazione di paga e biscotto. In Rumelia, i governatori ricevettero istruzioni di arruolar solo “volontari” laddove i governatori generali e i governatori del sanjak nella Turchia sud orientale e Siria dovevano arruolare specificamente “Curdi e altri” volontari, i Curdi essendo “rinomati per il loro valore”. Tutti questi uomini dovevano essere esperti nell’uso degli arcibugi. I governatori di sanjak allo stesso tempo ricevettero ordini di acquistare  archibugi appartenenti a chiunque non fosse volontario.

  La crisi dopo Lepanto non sembra aver portato cambiamenti permanenti nel modo in cui il governo arruolava truppe per la flotta, eccetto forse nel chiedere abilità nell’uso dell’archibugio. Nel diciassettesimo secolo, la maggioranza dei combattenti erano ancora timarioti. L’unico cambio dal sedicesimo secolo fu una razionalizzazione nell’area della leva. Dopo il 1600, sembra che i timarioti che servivano nella flotta provenivano normalmente dalla provincia dell’Arcipelago, i cui dieci sanjak producevano una cifra teorica di 4.500 uomini. In aggiunta a questi, quando il governo abolì i corpi degli appiedati e degli esenti in Anatolia, riallocò le loro terre come 1.039 timar teorici, assegnati all’ammiraglio, sufficienti per produrre forse 3-4.000 uomini di truppa. Insieme con gli uomini dall’arcipelago questi erano sufficienti per una flotta di circa 50 navi e dal momento che non vi furono grandi campagne navali tra il 1574 e il 1645, questo fu sufficiente a fornire la flotta imperiale per il suo giro annuale nel Mediterraneo  orientale e nel Mar Nero durante questi anni. Come nel sedicesimo secolo, un variabile numero di giannizzeri servivano anche nella flotta.

  In aggiunta a questi combattenti, ciascuna galea trasportava due o tre artiglieri – le galeazze che cominciarono ad apparire nella flotta dopo il 1571 ne richiedevano di più – e anche armaioli per la manutenzione delle armi.

 

 

 

LA FLOTTA: TATTICHE

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  Lo schema della guerra navale ottomane e invero nel Mediterraneo, era molto simile allo schema della guerra di terra. La forma più tipica di combattimento non era il grande scontro tra flotte, ma piuttosto un continuo kleinkgrieg di attacchi alle coste nemiche e alla marina mercantile nemica . Questa era la forma di guerra che le flotte ottomane esercitavano tra la fine del quattordicesimo e la metà del quindicesimo secolo. Era il saccheggio delle navi e degli insediamenti cristiani  che sostentavano le province  ottomane in nord-Africa e in particolare fornivano una fonte di ricchezza per l’avamposto ottomano di Algeri. I cavalieri di san Gioivanni giocavano un ruolo simile nel Mediterraneo cristiano, e fu contro questi e altri predatori cristiani che gli ammiragli facevano i loro giri annuali, anche durante periodi di pace formale.

  Quando la flotta imperiale ottomana  intraprendeva una azione era tipicamente un assalto anfibio  ad una fortezza costiera o insulare, piuttosto che una battaglia nel mare aperto. Quasi tutte le vittorie navali ottomane, dalla conquista di Mitilene nel 1462 alla cattura di Chania nel 1645, erano di questo tipo. Scontri tra le flotte nel mare aperto come le grandi battaglie campali sulla terraferma erano infrequenti e, a differenza delle battaglie della terraferma raramente decisive nel determinare il corso degli eventi. La vittoria navale veneziana nel 1416 fu forse un fattore nel ritardare la creazione di una efficiente flotta ottomana da guerra fino a dopo il 1450. La più famosa vittoria a Lepanto non impedì comunque la conquista ottomana di Cipro o la conquista di Tunisi tre anni più tardi. La vittoria veneziana fuori dei Dardanelli nel 1656 causò severi problemi per gli ottomani, ma non segnò la fine della invasione di Creta. Dalla metà del quindicesimo secolo, dunque, le funzioni più tipiche della flotta ottomana erano assedi e raid sulle coste nemiche. La flotta serviva anche a proteggere gli invii ottomani e le coste e qualche volta a restaurare la autorità del Sultano in province della periferia dell’Impero.

  La natura delle galee limitava il raggio d’azione della flotta ottomana. Le galee erano vascelli lunghi, lenti in acqua, con un basso pescaggio. Non erano in grado di reggere il mare grosso e non potevano, dunque, prendere il mare  in inverno, prendendo il largo in linea di principio se non spesso in pratica, nell’equinozio invernale, e facendo ritorno in Ottobre o agli inizi di Novembre. Era possibile rischiare di tenere piccole flotte o singoli vascelli nel mare durante l’inverno, ma non intere flotte. Durante la prima metà del sedicesimo secolo, le maestranze ottomane cominciarono a costruire galee più grane e lunghe, con “poppe a melone”, per resistere meglio alle tempeste, ma questo non prolungava la stagione di campagna. La limitata stagione  marittima a sua volta limitava il raggio operativo della flotta. L’altro vincolo  al raggio di azione delle galee era la dimensione della sua ciurma.

  Nel 1656 Katib Celebi stimò che una galea trasportava 330 uomini, inclusi 196 rematori e 100 guerrieri. Una galeazza ottomana, dice, portava una ciurma di 600 uomini, e una galea pesante una ciurma di 800 uomini. Nel secolo precedente, i numeri erano stati più ridotti, dal momento che le galee avevano tre piuttosto che quattro rematori su ciascun banco, e 50 piuttosto che 100 guerrieri, ma i numeri erano comunque molto alti. Nello stesso tempo, lo spazio di immagazzinamento su una galea era limitato. non era possibile, dunque,  immagazzinare a bordo più di dieci giorni di  rifornimento di cibo ed acqua. L’acqua era ottenibile dai torrenti e fiumi  lungo la costa e la conoscenza della loro ubicazione era presumibilmente  tradizionale entro la flotta militare ottomana. In aggiunta, la mappa del Mediterraneo di Piri reis, completata nel 1526, ma ancora in uso a metà del diciassettesimo secolo, identifica  le fonti di acqua intorno alle coste del Mediterraneo. I rifornimenti di cibo erano un problema più grande.

  Dal momento che una galea non poteva trasportare viveri per una intera stagione, era necessario rifornire la flotta in punti prestabiliti della costa o, come a Malta nel 1565 o Creta nel 1651, trasportare cibo per nave. Questo richiedeva un’attenta pianificazione anticipata. Il cibo base e probabilmente l’unico che il governo forniva era il biscotto e le richieste della flotta erano enormi. Per esempio,  resoconti del tesoro registrano 2.305 tonnellate di biscotto per la flotta che riconquistò Herceg Novi nel 1539. Acquistare la farina, macinarla e cuocervi biscotti e trasportarla  sulla costa era una notevole operazione e una notevole spesa.  Il Tesoro  raccoglieva il denaro localmente, e distribuiva il lavoro su una vasta area. Nel 1566, per esempio, ordinò biscotto per la flotta da Arta, Patrasso, Navplion, Farsala, Trikkala e Gjirokastër in Albania e Grecia centrale e meridionale e da Tessalonica nel nord. Nel diciassettesimo secolo prima del 1645, quando le dimensioni della flotta erano più predicibili, Istanbul e Gallipoli erano i maggiori centri di cottura, ma la pratica del sedicesimo secolo di distribuire il lavoro alle province dei dintorni  continuò. Sotto questo aspetto, Volos era particolarmente importante. Serviva non solo come banchina d’attracco dell’importazione di grano dalla Grecia centale, ma anche come centro per la preparazione del biscotto per la flotta. Per esempio, nel suo giro della provincia dell’arcipelago nel 1618, Celebi Ali prese una consegna di biscotto che era stato cotto a Volos e lo trasportò a Evvoia per la raccolta da parte della flotta.

  Una conseguenza di questa necessità di rifornirsi di cibo ad intervalli frequenti era una cosa che le galee non potevano fare con sicurezza  se erano lontane dalle loro coste e se  le rotte marittime erano insicure. Questo, combinato con la breve stagione di campagna, limitava il loro raggio di azione. Per questa ragione la flotta ottomana non poteva dominare  il Mediterraneo occidentale senza una base per l’inverno e un rifornimento di provviste. Questo fu possibile solo per breve tempo quando, in collaborazione  con il Re di Francia la flotta ottomana, nel 1543-44, poté svernare a Tolone. Per la stessa ragione, la flotta di galee cristiane  non poteva assumere il controllo del Mediterraneo orientale. Persino dopo la grande vittoria a Lepanto la flotta della Lega Santa non ebbe scelta che di ritornare  alle sue basi prima dell’arrivo dell’inverno.

  Le galee determinavano la natura della guerra nel Mediterraneo tanto quanto la determinava il raggio operativo delle flotte. In quanto vascello a remi con un basso pescaggio, la galea non poteva fare affidamento sul vento  ed era capace di operare solo vicino alla costa. Per il calafataggio, l’oliatura e l’effettuazione delle riparazioni era facile da portare a secco su una riva sabbiosa. Queste caratteristiche lo rendevano utile specialmente come battello pirata, particolarmente in un giorno senza vento, quando la preda restava in bonaccia. La sua abilità di avvicinarsi alla costa era anche utile quando bombardava fortezze costiere, una delle principali funzioni di una flotta di galee. Egualmente, se un nemico attaccava tali fortezze, uno squadrone di galee presso la spiaggia poteva fornire una linea di difesa contro la flotta attaccante, mentre essa stessa trovava difesa sotto i cannoni del forte.

  Prima della introduzione dell’artiglieria, verso la fine  del quindicesimo secolo, il metodo principale di guerra delle galee era lo speronamento e l’abbordaggio. L’artiglieria non cambiò questa pratica. Una galea trasportava cannoni sulla sua prua e si avvicinava al nemico con la prua davanti, sperando di sparare almeno una salva prima che gli uomini sulla piattaforma anteriore tentassero l’abbordaggio. Era importante non consentire al nemico di attaccare i fianchi del vascello, dove poteva infliggere il danno più grande. La vulnerabilità dei fianchi della galea e la disposizione dei cannoni non davano ai comandanti altra scelta che adottare una formazione fianco a fianco , con tutte le prue delle navi che fronteggiavano da fronte la flotta o la fortezza nemica. Il successo dipendeva dal mantenere questa formazione e, quando  ci si trovava di fronte la flotta nemica, dal prenderla di fianco e rompere i suoi ranghi. Nel 1656 Katib Celebi descrisse la linea di battaglia ottomana ideale: “in battaglia le galee dovrebbero essere disposte in file. La nave dell’ammiraglio dovrebbe essere nella retroguardia, con cinque vascelli ad accompagnarla, tre dietro e due davanti.

  La flotta ottomana, dunque, dalla fine del quattordicesimo secolo in poi, adottò la prevalente tecnica della guerra nel Mediterraneo. Sembra, comunque, che i costruttori di navi e i marinai ottomani  tendessero ad essere meno competenti dei loro rivali europei, specialmente veneziani. Nel quindicesimo secolo le flotte di Mehmed II, in particolare quella che attaccò Negroponte nel 1470, si basavano su una soverchiante superiorità nel numero delle navi, non su abilità tattiche superiori. Perfino all’apice  del potere navale ottomano, nella metà del sedicesimo secolo, gli osservatori commentavano talvolta sulla inadeguatezza della flotta ottomana. Nel 1558, per esempio, il bailo veneziano notò una mancanza di abilità , evidentemente in confronto con le maestranze veneziane, tra i carpentieri dell’arsenale imperiale, e descrisse le galee stesse come “non resistenti oltre un anno e quando esse andavano al disarmo era penoso lo stato di rovina in cui le si vedeva”. Anche alcuni ottomani erano consapevoli delle manchevolezze. Scrivendo dopo il 1541 Lutfi Pasha commenta la importanza degli affari marittimi, ma nota anche che “nella  organizzazione delle spedizioni navali gli infedeli sono superiori a noi” 

  Nel diciassettesimo secolo, anche Katib Celebi menziona ulteriori problemi  sebbene fossero probabilmente comuni a tutte le flotte del Mediterraneo. Mette in particolare in guardia  circa l’uso di prigionieri di guerra e condannati come rematori. Questi, dice, sono proni all’ammutinamento e “un numero incalcolabile di navi sono state perse in questo modo. I capitani dovrebbero mescolare anche prigionieri con “più affidabili turchi”, dall’arruolamento annuale. Sotto questo aspetto, loda Jigalazade Sinan Pasha, che fu due volte ammiraglio tra il 1591 e il 1605, per aver posto tre prigionieri con tre “turchi”, in modo che la nave fosse sicura. Dà anche il consiglio su come attaccare un nemico. Una battaglia marittima, egli ammonisce, è una “trappola mortale”, e se la flotta attacca quando è presso la riva di fronte alle coste ottomane, le truppe sulle galee nuoteranno a riva per sfuggire il combattimento. La flotta non dovrebbe mai muovere battaglia in queste circostanze. Se, d’altra parte, il nemico è presso la riva sulle coste ottomane, l’attacco è sicuro e gli uomini non possono sfuggire. L’unica via per salvare la loro vita è di rimanere al proprio posto e combattere.

  Il vantaggio di cui godevano gli ottomani nella guerra navale non era dunque nella costruzione delle navi, nella abilità marinara o nel combattimento, ma piuttosto nell’abbondanza di materiali, denaro e uomini, che consentivano la rapida costruzione di nuove flotte. Era forse la facilità con cui essi tendevano a rimpiazzare le navi che spiega la evidente miserevole vista delle loro galee al ritorno dal mare. Era un vantaggio che godevano dal quattordicesimo alla fine del diciassettesimo secolo.

  Durante il corso del quindicesimo e sedicesimo secolo, la flotta ottomana aveva adottato le tattiche standard delle galee del Mediterraneo. Dopo il 1600, essa si trovava di fronte  a due nuovi problemi strategici. Il primo di questo era transitorio . L’altro doveva rendere la guerra con le galee obsoleta.

  Il primo problema  era l’apparizione di razziatori cosacchi nel Mar Nero, da cui gli ottomani avevano escluso flotte straniere sin dalla conquista di Caffa nel 1475. Dalla fine del sedicesimo secolo, i cosacchi del Dniepr e del Don cominciarono a fare frequenti e distruttivi raid contro gli insediamenti costieri e, per contrastarli, il governo ottomano fortificò città e villaggi lungo le coste, mandò forze via terra per scontrarsi con i razziatori e mandò la flotta imperiale, o distaccamenti di essa per scontri sul mare. Negli scontri navali,comunque, i cosacchi godevano di un vantaggio. Per i loro raid essi usavano shayka; cioè barche a remi portatili con fondo piatto e senza chiglia, che potevano usare in acque basse e canneti. Le galee ottomane avevano anch’esse un basso pescaggio, ma  molto meno degli shayka, e i Cosacchi utilizzarono questa differenza a loro vantaggio. Nel 1614 navi della flotta imperiale  inseguirono  i cosacchi dopo che questi ebbero attaccato Sinope, ma non furono capaci di seguirli lungo il Dniepr. L’anno seguente, quando l’ammiraglio Jigalazade Mahmud Pasha attaccò le shaika i cosacchi lo attirarono  verso la riva fino a che le sua galee non finirono in secca. Per questa ragione Katib Celebi consigliava che una flotta di galee, in un incontro con i Cosacchi, dovesse sempre cercare di mandare le shayka in mare aperto, e non dovesse attaccare in vicinanza della riva. In questo caso le galee sarebbero finite in secca. L’abilità degli shayka di nascondersi nei canneti presentava anch’essa problemi. Le galee potevano  mantenersi in acque più profonde ed assediarli, ma i loro bombardamenti erano inefficaci  contro un nemico invisibile che poteva scivolare via nell’oscurità. Per contrastare queste tattiche, dagli anni ’30 del 1600 anche le flotte ottomane  iniziarono ad usare barche a remi a fondo piatto, che imbarcavano truppe e artiglieria, per inviarle nei canneti. Questa fu la tattica che il custode dell’arsenale, Piyale, usò nel 1639 nel suo combattimento con i cosacchi nello stretto di Kerch. Questa tattica, insieme con la riconquista di Azov nel 1642 e la rifortificazoine di Ochakov alle bocche del Dniepr alla fine portarono i Cosacchi sotto controllo.

  Nel lungo periodo, il problema più importante per le flotte ottomane  fu il cambiamento nella natura della guerra navale. Nei primi quarantacinque anni del diciassettesimo secolo  non ci furono guerre importanti nel Mediterraneo, e la funzione della flotta ottomana era stata di mantenere l’Egeo e il Mediterraneo orientale libero da predatori e occasionalmente di sopprimere ribellioni. Una flotta di galee era risultata adeguata per questo compito. Fu durante questo periodo, comunque, che  le navi nord-europee cominciarono ad apparire nel Mediterraneo in numero crescente e sebbene il loro scopo era il commercio, esse trasportavano pesanti armamenti. La tecnica del fondere cannoni di ferro, che erano più a buon mercato dell’artiglieria di bronzo, aveva reso questo possibile. Questi vascelli con i loro alti fianchi e la capacità di sparare grandi bordate erano superiori in combattimento alle galee da guerra mediterranee.

  I veneziani, ma non gli Ottomani, si erano impadroniti della tecnica di  costruzione e di manovra dei galeoni da guerra, col risultato che quando scoppiò la guerra con Venezia  nel 1645, la flotta veneziana aveva un chiaro vantaggio in battaglia. Gli unici galeoni della flotta ottomana venivano da Algeri che, nel 1645 fornì uno squadrone di venti vascelli. A parte questi, il governo ottomano  affittò battelli dagli olandesi e, alla fine degli anni ’40 del 1600, cominciò a costruirne di propri. Katib Celebi ci dice come il gran visir prese la decisione dopo una discussione con “certe persone” che gli dissero che i galeoni nemici potevano usare il vento per assalire la flotta ottomana forzandola a disperdersi. Essi potevano parimenti ancorarsi fuori dei Dardanelli, impedendo l’uscita delle galee ottomane. La potenza di fuoco dei galeoni era chiaramente schiacciante. Katib Celebi ricorda anche come, quando la discussione stava proseguendo, il Gran mufti  Abdurrahim lo aveva convocato e gli aveva chiesto se gli ottomani avevano usato galeoni in guerre navali in passato. Egli aveva risposto che nelle campagne su larga scala, aveva usato galeoni per i trasporti, ma solo le galee per combattere. Aggiunse che costruire i galeoni non era un problema: la difficoltà stava nel trovare una ciurma e degli artiglieri capaci. Katib Celebi rinforzò il suo scetticismo circa l’introduzione di galeoni dandogli consigli su come una galea dovesse affrontare un galeone fornendo esempi di scontri vittoriosi del passato. Una galea, egli scrive, non dovrebbe cercare immediatamente lo scontro con un galeone, ma dovrebbe prima immobilizzarlo distruggendone timone e velatura, traendo vantaggio  dal fatto che i cannoni dei fianchi del galeone avevano una gittata più limitata di quella dell’artiglieria di una galea. Gli eventi dovevano provare che Katib Celebi aveva ragione. L’adozione del galeone da parte della flotta ottomana non fu un successo. I galeoni nella flotta del 1656 non poterono evitare una schiacciante sconfitta ottomana e, nel 1662, il gran visir mise fine all’esperimento. Nel 1669, la guerra di creta terminò in una vittoria per gli ottomani, ma l’inadeguatezza della flotta era stato uno dei fattori principali per il suo prolungarsi.

 

 

 

QUALCHE CONCLUSIONE

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  l’Impero Ottomano era uno stato dinastico dove il Sultano, in apparenza godeva di un potere assoluto. Egli era sia il leader politico che il comandante militare in tempo di guerra. Ogni  titolare di ufficio nell’Impero occupava la sua posizione in virtù di un decreto  che lo vincolava personalmente al servizio del Sultano. che lo poteva promuovere, destituire e giustiziare in base alla sua volontà. Il Sultano era apparentemente dotato di pieni poteri, ed era stata consuetudine fin dal tempo di Machiavelli, comparare l’assolutismo ottomano con la posizione dei monarchi in Europa, dove la prerogativa della nobiltà restringeva il potere dei re. Questo quadro tradizionale è comunque una eccessiva semplificazione

  Il potere del Sultano, specialmente tra la metà del quindicesimo e la metà del sedicesimo secolo era invero notevole, ma non era senza limiti e il suo accrescimento era stato un processo graduale. I primi due sultani avevano probabilmente spartito l’autorità con i loro fratelli e figli, e fu solo la pratica del fratricidio o del confinamento dei figli in governatorati provinciali che finalmente che alla fine diede al Sultano regnante  una autorità incontestata entro la dinastia. Questo fu uno sviluppo probabilmente del regno di Murad I. Il fratricidio rimuoveva i rivali dinastici ma non diede al Sultano i pieni poteri. L’assenza di una nobiltà nel senso europeo non significava l’assenza di magnati locali, e una caratteristica del primo Impero Ottomano è l’emergere di signori di frontiera e altri dinastie con pretese ereditarie alla terra o all’ufficio. La dinastia di Evrenos in Macedonia e la famiglia di visir Chandarli sono esempi. I primi sultani non potevano ignorare le pretese di queste famiglie che fungevano da alleati piuttosto che da servitori del sovrano. Dalla seconda decade del quindicesimo secolo, comunque, il Sultano normalmente escludeva i signori della frontiera dai consigli centrali dell’Impero, sebbene non dal comando dell’esercito e da uffici provinciali, e nessun Chandarli servì come visir dopo il 1500.

  La diminuita influenza di queste famiglie aumentò il potere personale dei sultani, ma la espansione dell’Impero nel quindicesimo e sedicesimo secolo inevitabilmente aumentarono il numero di signori locali e di fazioni entro i suoi confini. L’assorbimento di questi nell’élite governante ottomana fu una caratteristica specialmente ma non esclusivamente degli anni tra il 1450 e il 1520. Alcune dinastie locali fuggirono al tempo della conquista ottomana, come avevano fatto alcuni membri della famiglia Zenevis quando si stabilirono a Corfù dopo  la conquista ottomana del loro territorio ereditario nel 1418. Altri, comunque, non fuggirono né resistettero, ma invece entrarono al sevizio del Sultano e ricevettero uffici di visir o uffici provinciali. Se essi erano cristiani la conversione offriva un ingresso immediato  nella classe governante ottomana. In questo modo essi erano capaci di mantenere o persino aumentare la statura politica e sociale di cui avevano goduto  prima della conquista, ma il loro status, originariamente ereditario era ora divenuto dipendente dal patronato del Sultano. Con questi mezzi, il Sultano cooptò membri delle dinastie locali per servire piuttosto che opporsi ai suoi interessi. Era un sistema che incrementava il potere del Sultano senza ricorrere a una brutale soppressone. Non era comunque un metodo che funzionava in tutto l’Impero. Alcuni  poteri locali, come i capi tribali in Kurdistan, non erano eradicabili. In questi casi, i sultani provarono ad assicurasi la lealtà attraverso negoziazioni e la concessione di titoli ottomani.

  Il Sultano probabilmente godette della maggiore acquisizione di potere durante il sedicesimo secolo, precisamente il periodo in cui l’immagine del Sultano ottomano come sovrano assoluto divenne fissa. Fu in questo periodo che i diplomati delle scuole di palazzo, molti dei quali erano entrati nel servizio imperiale tramite la Raccolta, vennero a monopolizzare molti dei posti di governo nell’Impero o come visir nella capitale o come governatori nelle province. Questi erano uomini con nessuna base di potere al di fuori del Palazzo, la cui educazione era per il servizio della dinastia e le cui carriere dipendevano interamente dal patronato reale. Il sistema di far sposare potenti visir a principesse ottomane era un mezzo per assicurare la loro lealtà quando avessero lasciato il palazzo e stabilito entourage loro propri, legandoli con la famiglia imperiale.

  Tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo, la fondamentale natura dell’Impero non era cambiata. Nel quattordicesimo secolo, l’Impero Ottomano era stato, in essenza, una struttura di personali alleanze tra i sovrani ottomani,  i signori di frontiera e altri magnati. Fuori da questo nucleo interno, i sultani ottomani usavano  il matrimoni, la forza o altri mezzi per ridurre dinastie indipendenti  a confini dell’Impero allo stato di vassalli o alleati. Il sistema  era tale da dipendere dai legami personali tra grandi famiglie. Nel sedicesimo secolo erano ancora legami personali che mantenevano la struttura dell’Impero. Per questo tempo, comunque, la appartenenza alla classe governante dell’Impero non era più in virtù di legami di sangue con una potente famiglia, ma in virtù di una educazione ricevuta nella casa del Sultano. Assumendo un incarico e il reddito che l’incarico produceva, l’incaricato avrebbe creato il suo proprio entourage e, con esso, i suoi propri clienti e seguaci, ma i legami si patronato  avrebbero continuato a legarlo al Sultano. La sua relazione col Sultano era personale – questo non era cambiato dal quattordicesimo secolo – ma la reazione non era più quella di alleato ma di cliente. questo era un cambiamento che rifletteva il crescente potere del Sultano. Fu presumibilmente per tenere gli incaricati di uffici come clienti e per impedire che fondassero basi di  potere indipendente che divenne consuetudine spostare governatori provinciali ad intervalli regolari da una località ad un’altra.

  Nondimeno, a dispetto della loro crescita in autorità tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo, il potere del sultani ottomani non fu mai assoluto, dal momento che vi erano dei freni , formali ed informali, che limitavano  la loro libertà di azione. Fu la loro adozione dell’Islam che impose il limite formale. Prima del ventesimo secolo l’Islam esprimeva se stesso, soprattutto, con la legge che, sebbene molto flessibile in pratica, era nella sua esenza immutabile. Perdipiù, l’interpretazione della legge non era la funzione del monarca ma di giuristi. I sultani ottomani non potevano creare un corpo indipendente di leggi al di fuori delle aree del possedimento terriero, delle imposte e della legge criminale, dove la legge islamica in pratica non operava . In queste aree, comunque, era il costume  piuttosto che la volontà del Sultano che formava la legge. Il prestigio della legge islamica creava anche una posizione privilegiata entro l’Impero per i giuristi che erano i suoi interpreti ufficiali. Era il Sultano che nominava uomini in posizioni legali, ma dal momento che, durante il corso del sedicesimo secolo, i posti di grado più elevato dell’establishment legale divennero il monopolio di alcune famiglie, la sua libertà di scelta era molto limitata. Perdipiù erano queste figure legali di grado più elevato  che in pratica nominavano i giudici e gli altri ufficiali legali perfino se lo facevano in nome del Sultano. Il Sultano quindi non faceva la legge o ne controllava l’applicazione. Questo faceva comunque parte delle sue pretese alla legittimità. Dall’inizio del  sedicesimo secolo, come risposta in particolare alla “eresia” dei safavidi, i sultani ottomani cominciarono a  presentarsi come i soli legittimi difensori della legge religiosa, e a pretendere che il loro governo era una precondizione  del suo attuarsi . Attraverso lo stesso strumento, comunque la legge poteva anche giustificare la loro rimozione. Le figure legali di grado più elevato dell’Impero giovarono una parte importante nella deposizione sia di Mustafa I che di Ibrahim, in entrambi i casi  citando la legge sacra come giustificazione per l’atto.

  Sebbene non ci fossero freni formali sul Sultano nel suo ruolo esecutivo informalmente ce n’erano molti. Il ruolo originale del sovrano ottomano era quello di leader in guerra. I primi sultani conducevano i loro esercito sul campo e, a giudicare da ciò che ci dice Ashikpashazade, sembravano conoscere di persona  non solo i loro comandanti ma anche molti dei loro soldati, e avere personalmente distribuito ricompense e punizione. Con il graduale ritirarsi del Sultano dalla pubblica vista l’era del comando faccia a faccia arrivò alla fine. I sultani, comunque, continuarono a guidare eserciti fino alla metà del sedicesimo secolo e, sebbene è improbabile che essi avessero ancora contatto con i soldati comuni, rimasero in carica delle operazioni e furono capaci, se lo desideravano, di intervenire nelle nomine e promozioni fatte durante la campagna. Dalla fine del sedicesimo secolo, con poche eccezioni, il sovrano non andava più in battaglia e molti dei suoi poteri passarono in pratica al comandante sul campo. Questo, in effetti, diede al comandante dell’esercito un ruolo più importante nel governo dell’Impero. In affari non-militari c’erano pure dei limiti all’area di controllo del Sultano. Nei primi tempi, i sovrani ottomani devono aver trattato personalmente molti affari di stato ma, come l’impero si espanse il peso degli affari di governo rese impossibile per i sultani persino essere a conoscenza di tutte le decisioni prese in loro nome. Ciò che teneva l’Impero insieme a questo stadio non era il diretto controllo del Sultano di tutti gli aspetti del governo, ma piuttosto la preposizione dei governanti, dei comandanti militari e delle altre autorità come suoi clienti. Il Sultano  mantenne il controllo sopra la classe governante piuttosto  che sopra individuali atti di governo. Le frequenti esecuzioni che rimasero una caratteristica della politica ottomana servirono come un costante memento di questo fatto.

  Il Sultano,dunque, non aveva autorità sulla legge religiosa e in pratica probabilmente giocava un ruolo modesto nel governo giornaliero dell’Impero. I visir, comunque, chiaramente deferivano le questioni più importanti alla decisione del Sultano e, quando egli decideva di intervenire personalmente nel governo la sua parola era decisiva. Nonimeno c’erano sempre restrizioni circa ciò che egli poteva fare. Una barriera permanente al potere assoluto del Sultano era il corpo dei giannizzeri. La funzione originale e perdurante fino al tardo sedicesimo secolo di questo corpo era di proteggere la persona e la posizione del monarca e, rivestendo questo ruolo, era una forza che dava stabilità politica. Quali che fossero le crisi che l’Impero o sultani individuali fronteggiavano la dinastia stessa non era mai minacciata. I giannizzeri, comunque,come forza armata erano anche in una posizione di poter difendere i loro interessi e assicurarsi i loro propri fini politici. Nella sua Storia di Maometto il Conquistatore Tursun Bey ci racconta una storia di come questo Sultano punì gli ufficiali dei giannizzeri dopo che il corpo aveva tentato di estorcere un bonus mediante minacce di ribellione armata. Lo scopo di Tursun nell’includere questo racconto era di istruire i futuri sultani su come tenere i giannizzeri sotto controllo, ma non ebbe effetto. Le richieste dei giannizzeri potevano essere decisive nell’ascesa e deposizione di sultani, nella condotta delle campagne e nell’prelevare denaro dal tesoro.

  I giannizzeri erano un freno altamente visibile della autorità personale del Sultano. Meno visibile era l’influenza della sua corte. Le decisioni richiedevano informazione e consultazione ed erano i cortigiani che erano meglio piazzati per informare e consigliare. Nel quattordicesimo e all’inizio del quindicesimo secolo i sultani sembravano aver presieduto di persona agli incontri di ciò che sarebbe divenuto il Consiglio Imperiale e, all’occasione, essere entrati in contatto con i sudditi. Dalla metà del quindicesimo secolo, come si ritirarono dalle riunioni del consiglio e divennero meno visibili al mondo esterno, il loro circolo di contatti si restrinse, una tendenza che divenne più pronunciata dalla metà del sedicesimo secolo quando essi non presero parte, eccetto che in occasioni molto rare alle campagne militari. Questo significa che chiunque poteva guadagnare l’orecchio del Sultano e controllare le informazioni che lo raggiungevano poteva influenzare le sue decisioni. Nella dottrina politica ottomana, questo era il dovere del gran visir solamente, e,in un senso formale, questo era vero. Il gran visir era presidente del Consiglio Imperiale che emanava decreti in nome del Sultano e come tale si consultava col Sultano dopo ciascuno dei suoi incontri. E’ chiaro comunque che le informazioni potevano raggiungere il Sultano per altri mezzi e che persone che erano al suo servizio ogni giorno  come il barbiere che curava la sua barba, i paggi della camera privata o gli eunuchi anziani erano ben piazzati per poterlo influenzare come il gran visir. E’ difficile, comunque, stimare l’influenza dei cortigiani, dato che questi contatti hanno lasciato  pochi documenti scritti. Solo  poche figure, come Sa’deddin, il tutore reale alla fine del sedicesimo secolo, o l’esorcista del Sultano Ibrahim, Jinji Hoja, divenner ben conosciuti a sufficienza per ricevere l’attenzione dei cronisti musulmani. Gli scrittori ottomani di consigli pretendevano che fu al tempo di Murad III che i cortigiani e le favorite cominciarono ad acquistare potere, ma questa è probabilmente una esagerazione. E’ forse  più vero dire che  essi divennero più influenti in questo periodo di quanto lo fossero stati nei regni precedenti.

  I cortigiani non possedevano alcuna autorità politica, ma erano nondimeno in una posizione tale da poter influenzare il sovrano. Lo stesso è vero per le donne dell’harem imperiale. Alcune, come la matrigna di Mehmed II, Mara hanno esercitato esercitato poteri politici informali prima del sedicesimo secolo, ma fu durante il sedicesimo secolo che l’influenza dell’Harem divenne quasi istituzionale, con le concubine favorite e successivamente le regine madri che esercitavano una influenza sulla politica dinastica e imperiale. Questo era qualcosa che gli ambasciatori stranieri riconoscevano quando essi stabilivano contatti informali con l’harem in parallelo con le loro relazioni formali con i visir.

  Il grado in cui il sovrano consentiva a questi freni di limitare il suo esercizio del potere  dipendeva in larga misura dalla sua personalità. I primi dieci sultani ottomani chiaramente possedettero la autorità personale che consentiva loro di dominare la politica e, fino ad un certo punto, di tenere sotto controllo le fazioni politiche. L’undicesimo Sultano, Selim II, chiaramente trascurava gli affari di stato, e consentì a molto del suo potere di passare al suo figliastro, il gran visir Sokollu Mehmed Pasha,che governò efficacemente in sua vece. Agli inizi del diciassettesimo secolo, comunque non c’erano figure politiche la cui personale autorità consentiva loro di compensare la debolezza del Sultano in modo da dominare le fazioni rivali,come aveva fatto Sokollu Mehmed durante il regno di Selim II. Nell’Impero Ottomano, il potere erapersonale piuttosto che istituzionale, e , per rimanere stabile, il sistema politico richiedeva un forte Sultano o ina figura autorevole che agisse in sua vece, come Sokollu o i visir Köprülü nella seconda metà del diciassettesimo secolo.

  Nondimeno l’Impero aveva una notevole resilienza. Nel 1402, la sconfitta alla battaglia di Ankara avrebbe potuto condurre alla sua dissoluzione. Invece, un centinaio di anni più tardi, era cominciata la sua ascesa  allo status di potenza mondiale, mentre l’Impero del conquistatore di Bayezid, Tamerlano era scomparso. All’inizio del diciassettesimo secolo, l’Impero Ottomano si trovava di fronte a insuccessi bellici su due fronti, ad una ribellione in Anatolia, a sultani deboli e a instabilità politica. Nondimeno sopravvisse. La ragione per questa capacità di  sopportare crisi probabilmente sta in due istituzioni. In primo luogo il servizio burocratico continuò a funzionare, assicurando che le funzioni giornaliere di governo come la tassazione e l’equipaggiamento degli eserciti potessero continuare a dispetto del rapido cambio dei visir. Alla fine del sedicesimo secolo inoltre, il servizio  adattò il suo sistema di conti  per venire incontro  ai nuovi modi di riscuotere tasse  e di reclutamento delle truppe. In secondo luogo, le corti e il sistema legale continuarono a funzionare e a godere la fiducia dei sudditi del Sultano per quanto riguarda il regolamento dei loro affari. Fu, sembra, la continuità in queste funzioni mondane di governo che assicurò la sopravvivenza dell’Impero.

  L’Impero Ottomano era, soprattutto, una organizzazione militare. Persino quando i sultani non conducevano più i loro eserciti di persona, essi rimasero di principio, leader di guerra. La richiesta che Mehmed III accompagnasse l’esercito in Ungheria nel 1596 mostra come persistesse la nozione che la presenza del Sultano sul campo di battaglia avrebbe condotto al successo. Non c’era alcuna distinzione tra il governo civile e il comando miliare. La struttura politica dell’Impero rifletteva la struttura dell’esercito con visir e governatori provinciali che agivano anche come comandanti in guerra. L’espansione dell’Impero tra il 1300 e il 1590 è una testimonianza della efficacia del sistema militare ottomano. Parecchi fattori contribuirono al suo successo con le armi. In primo luogo, il Sultano aveva a disposizione una abbondante riserva di uomini e di materiale bellico, che pochi dei suoi rivali potevano eguagliare. Secondo, dalla fine del quattordicesimo secolo la pratica di registrare le rendite e obbligazioni dei cavalieri timarioti significava che il governo aveva una documentazione permanente delle truppe a sua disposizione. Allo stesso tempo, lo stabilimento dei giannizzeri e delle sei divisioni di cavalleria creò un piccolo esercito permanente, le cui abilità in guerra e spirito di corpo, acquisito vivendo e combattendo insieme forniva un nucleo stabile agli eserciti ottomani. Inoltre,  tutte queste truppe avevano una obbligazione contrattuale di servire il Sultano, con la diserzione o la mancata apparizione durante le campagne che portava alla perdita dei mezzi di sussistenza. Questo rese possibile per il Sultano di arruolare in ogni tempo un numero predicibile di truppe disciplinate. Infine, fino alla fine del quindicesimo secolo, gli ottomani erano stati abili nello sviluppare armi e tattiche, e molto veloci ad assorbire le lezioni apprese dai loro nemici. La padronanza delle tecniche di assedio nel quattordicesimo secolo, e l’adozione dell’artiglieria e dei wagenburg nel quindicesimo sono evidenze di questa adattabilità.

  Divenne chiaro, comunque, durante la guerra austriaca del 1593-1606 che l’esercito ottomano aveva perso la sua superiorità sia come armi  sia come tattica, e che aveva grandissime difficoltà ad adattarsi ai nuovi metodi, specialmente di guerra sul campo. Questa perdita di supremazia doveva divenire ancora più evidente nelle guerre della fine del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Nondimeno, persino durante questi tempi di travagli, la abilità ottomana di rifornire e mantenere esercito in campo fu notevole, una testimonianza delle risorse e del sistema amministrativo dell’Impero,  come pure della sua bravura militare.