L’IMPERO OTTOMANO,
1300-1650 |
CRONOLOGIA: L’IMPERO OTTOMANO NEL 1650
CRONOLOGIA: PRIMA DEGLI OTTOMANI
CRONOLOGIA: L’EMIRATO
OTTOMANO: DAL TRIONFO AL DISASTRO, 1300-1402
CRONOLOGIA: L’EMIRATO
OTTOMANO: LA GUERRA CIVILE E LA RIPRESA, 1402-1451
CRONOLOGIA: L’IMPERO OTTOMANO:
CONQUISTA E CONSOLIDAMENTO, 1451-1512
CRONOLOGIA: L’APOGEO DELL’IMPERO, 1512-1590
CRONOLOGIA: IL PERIODO DEI
GUAI PER GLI OTTOMANI, 1590-1650
CRONOLOGIA: DALL’ASSEDIO DI
VIENNA AI GIORNI NOSTRI, 1683-1922
LA DINASTIA: RIPRODUZIONE E
STRUTTURA FAMILIARE
IL PALAZZO: IL CONSIGLIO IMPERIALE
LE PROVINCE: LE PROVINCE TRASFORMATE
LA LEGGE: COLLEGI, MUFTI E GIUDICI
L’ESERCITO: IL QUATTORDICESIMO SECOLO
L’ESERCITO: DAL 1400 AL 1590: LE TRUPPE
L’ESERCITO: 1400-1590: LE ARMI
L’ESERCITO: DOPO IL 1590: LA
RIVOLUZIONE MILITARE
LA FLOTTA: GLI OTTOMANI E IL MARE
LA FLOTTA: LA COSTRUZIONE DELLE NAVI
CRONOLOGIA:
L’IMPERO OTTOMANO NEL 1650
Nel
1650, l’Impero Ottomano occupava terre in Europa, Asia e Africa. In Europa, il
territorio ottomano comprendeva molta parte della penisola Balcanica a sud dei
fiumi Danubio e Sava e le terre dell’Ungheria centrale a nord. I principati di
Transilvania, Valacchia, Moldavia e la Crimea, che giacevano tra l’Ungheria e
il Mar Nero erano tributari del Sultano ottomano. In Asia l’Impero si estendeva
ad est dal Bosforo al confine montuoso con l’Iran e a sud fino alle sorgenti
del Golfo, e allo Yemen nel sud-ovest della penisola araba. In Africa le terre
dell’Impero comprendevano parte del litorale occidentale del Mar rosso, la
ricca provincia egiziana e gli avamposti semi-autonomi di Tripoli, Tunisi e
Algeri. Nel Mediterraneo, Cipro e molte delle isole dell’arcipelago dell’Egeo
erano ottomane. Entro il 1669 lo divenne anche Creta.
Gli
europei nel diciassettesimo secolo, come fanno ancor oggi, normalmente si
riferivano all’Impero come “l’Impero Turco”, e si riferivano al suo popolo – o
almeno alla popolazione musulmana – come “Turchi”. Queste designazioni sono,
comunque, solo parzialmente corrette. La popolazione dell’Impero era eterogenea
quanto a religione, linguaggio e struttura sociale. Come fede del Sultano e dell’élite
di governo l’Islam era la religione dominante, ma le Chiese ortodosse greca ed
armena mantenevano un posto importante nella struttura politica dell’Impero, e
provvedevano alla numerosa popolazione cristiana che, in molte aree, superava
quella musulmana. C’era anche una consistente popolazione di ebrei Ottomani. A
seguito dell’arrivo di ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492, Tessalonica era
diventata la città con la più numerosa popolazione ebrea del mondo. Al di fuori
di questi gruppi principali c’erano numerose comunità cristiane e non
cristiane, come i Maroniti e i Drusi nel Libano. I gruppi linguistici erano
vari e si sovrapponevano allo stesso modo delle comunità religiose. Nella
penisola Balcanica popolazioni di lingua slavonica, greca e albanese erano
indubbiamente la Maggioranza, ma accanto ad esse c’erano consistenti minoranze
di turchi e i valacchi, dall’idioma neolatino. In Anatolia, il turco era il
linguaggio della Maggioranza, ma c’era anche un’area di lingua armena e greca
e, ad oriente e a sud, di lingua curda. In Siria, Iraq, Arabia, Egitto e
Nordafrica la gran parte della popolazione parlava dialetti arabi con, al
disopra di loro, una élite che parlava turco. Comunque in nessuna provincia
dell’Impero c’era un unico linguaggio. La struttura sociale dell’Impero era
anche variata. L’economia dell’Impero Ottomano era quasi totalmente agricola, e
la gloria dei sultani, come gli scrittori politici enfatizzavano di frequente,
si basava sul lavoro dei contadini. Comunque, il tipo di agricoltura e
allevamento, così come la struttura sociale dei villaggi e delle famiglie
contadine, variava con differenti tradizioni e con le differenze del terreno e del clima. In contrasto con i
contadini, una parte della popolazione dell’Impero conduceva una vita semi-nomade, una esistenza
pastorale, spesso in contrasto con i
popoli stanziali e con i governanti. Tra questi gruppi c’erano i Beduini nei
margini deserti dell’Arabia, Siria ed Egitto, i valacchi della penisola Balcanica
e le tribù di lingua turca dell’Anatolia, della Siria del nord e dell’Europa
sud-orientale.
Verso
la metà del diciassettesimo secolo l’élite politica e militare tendeva ad
essere costituita da persone di discendenza albanese o caucasica (tipicamente,
georgiani, abkhazi o circassi). Le figure legali e religiose che componevano lo
staff dei collegi, delle corti di giustizia e delle moschee erano più di
frequente turchi, nei Balcani occidentali bosniaci o, nelle province che
parlavano arabo, arabi. L’Impero Ottomano era, in breve, multinazionale. Certi
gruppi certamente godevano un vantaggio
nella competizione per gli uffici politici, e le rivalità tra fazioni etniche
era un importante elemento nella politica ottomana. In principio, tuttavia,
esistevano discriminazioni solo sul piano religioso. Solo i musulmani potevano
ottenere cariche politiche o fare carriera nella burocrazia , ma anche qui una
discendenza musulmana non era necessaria. Molti, se non la maggior parte di
coloro che detenevano cariche politiche erano musulmani di prima o seconda
generazione convertiti dal cristianesimo. Erano gli uffici giudiziari che erano
appannaggio delle vecchie famiglie musulmane. Un vitale organo del
governo,comunque, rimaneva aperto ai non-musulmani. Molti di coloro che si
imbarcavano nella impresa rischiosa ma potenzialmente lucrativa dell’esazione
delle tasse erano cristiani o ebrei.
L’Impero
Ottomano non era, dunque, esclusivamente islamico; né era esclusivamente turco.
Piuttosto, era un Impero dinastico nel quale l’unica lealtà richiesta ai suoi
molteplici abitanti era la fedeltà di suddito al Sultano. La lealtà richiesta a
coloro che non avevano incarichi consisteva solo nel non ribellarsi e nel
pagare le tasse, in denaro, in natura o sotto forma di servizi. Anche queste
erano spesso negoziabili. Alla fin fine, era la persona del Sultano e non le
identità religiose, etniche o di altro genere che tenevano insieme l’Impero.
Nondimeno,
non è del tutto errato riferirsi ai “ben protetti regni” (designazione
tradizionale musulmana) del Sultano come all’”Impero turco”. Nel Seicento i
circoli colti di Istanbul non si sarebbero identificati come turchi e spesso,
in frasi come “Turchi di malaffare ” o “Turchi insensati” usavano la parola
come insulto. Nondimeno, la lingua turca, in una forma rifinita e perfezionata
era il linguaggio del governo e la lingua franca dell’élite. Un Visir poteva,
per origini, essere albanese, Croato o Abkhazi, ma per quanto riguardava le
occasioni ufficiali e in campo letterario usava il turco e non la sua lingua
nativa. Come linguaggio del potere il turco aveva prestigio in tutto l’Impero.
Inoltre, a dispetto della terminologia spregiativa che abbiamo visto, l’élite
ottomana sembra abbia sempre considerato i turchi musulmani come i sudditi più
fedeli e affidabili. L’insediamento di colonie turche nei Balcani aveva
accompagnato la conquista ottomana nel quattordicesimo e quindicesimo secolo; e
gli anni successivi alla conquista di Cipro nel 1573 avevano visto la
deportazione forzata di turchi dall’Anatolia. I deportati non erano popolazioni
tranquille nelle zone di origine, ma l’intenzione era di farne un nucleo di
leali sudditi Ottomani. I sultani deportarono anche gruppi non turchi, come gli
ebrei portati a Cipro dopo il 1573, per stimolare la vita commerciale
dell’isola. Anche gli ebrei avevano una reputazione di sudditi fedeli.
La
ragione per il predominio della religione turca e la posizione importante anche
se non privilegiata dei turchi risiede nelle origini dell’Impero e nella storia
dell’Anatolia nei due secoli e mezzo che precedettero la fondazione di tale
Impero.
CRONOLOGIA:
PRIMA DEGLI OTTOMANI
La dinastia più importante e duratura
nell’Anatolia pre-ottomana era stata quella dei Selgiuchidi di Rum, che avevano
governato nell’Anatolia centrale per gran parte del dodicesimo e tredicesimo
secolo. La dinastia si era estinta poco dopo il 1300.
Le origini dell’Impero Ottomano risalgono a
uno dei piccoli emirati formatisi nell’Anatolia occidentale durante la
decadenza del sultanato selgiuchide di Rūm. Eponimo e fondatore dello
stato e della dinastia ottomana è un Othman morto nel 1326; ma già suo padre
Ertoghrul aveva cominciato a estendere in Bitinia il primitivo feudo presso
Angora ricevuto dai Selgiuchidi.
l’Impero
Ottomano sorse intorno al 1300 nel nord-ovest dell’Anatolia, ad est della
capitale bizantina, Costantinopoli. Era solo uno dei numerosi piccoli
principati che erano emersi in Anatolia nelle ultime due decadi del tredicesimo
secolo su un territorio che aveva in precedenza fatto parte dell’Impero
bizantino. I signori di questi territori e i loro seguaci erano turchi
musulmani, e la loro presenza in Anatolia indica non solo un cambio nella
sovranità, ma anche un cambio nell’etnia e nella religione. Da Greca e
cristiana quale era nell’undicesimo secolo, intorno al 1300 l’Anatolia era
diventata principalmente turca e musulmana.
Le
origini di questo cambiamento risiedono nell’undicesimo secolo. A metà del secolo una confederazione di tribù
turche dalla Transoxiana conquistarono l’Iran, e nel 1055, occuparono Baghdad,
stabilendola come la capitale della grande dinastia Selgiuchide. La conseguenza
di questi eventi non fu semplicemente l’insediamento di un nuovo reggente a
Baghdad, ma anche, con l’arrivo di turchi dall’Asia centrale, l’alterazione
dell’equilibrio etnico del medio oriente. Molti di questi sopravvenuti turchi
avrebbero colonizzato l’Anatolia.
Una
data conveniente per marcare l’inizio di questo fenomeno è il 1071. In
quest’anno il grande Sultano selgiuchide sconfisse i bizantini a Manzikert
nell’Anatolia orientale. Alla battaglia seguì il rapido collasso del dominio
bizantino nell’Anatolia orientale e centrale e lo stabilirsi nei decenni
successivi del governo di un ramo della dinastia Selgiuchide. L’area sotto la
sovranità bizantina si ridusse al territorio nell’Anatolia occidentale, tra il
mare Egeo e l’altopiano centrale. Il collasso
delle difese bizantine e la comparsa di una dinastia musulmana
indubbiamente incoraggiarono l’immigrazione di turchi, come pure la geografia.
Sembra che i turchi che avevano migrato dalla Transoxiana in Medio Oriente
erano, principalmente, pastori seminomadi, e l’Anatolia era adatta al loro
stile di vita. Le zone costiere del Mediterraneo e le pianure del nord della
Siria fornivano un inverno dal clima mite, mentre in estate essi e le loro
greggi avrebbero seguito il ritirarsi della neve fino ai pascoli alti dei monti
Tauri e dell’altopiano anatolico. Furono forse più questi fattori che il
collasso del dominio bizantino che incoraggiarono i primi immigrati turchi a
penetrare in Anatolia. Molti, presumibilmente, abbandonarono la pastorizia e si
insediarono in villaggi.
I
turchi indubbiamente erano un elemento importante dei regni dei Selgiuchidi di
Anatolia. Essi comunque non facevano parte della classe dirigente. Il
linguaggio del governo nel dodicesimo e tredicesimo secolo era il persiano, e
c’era una netta divisione tra l’élite delle città che parlava persiano e i
turchi nelle zone rurali. Sarebbero stati gli eventi del tredicesimo secolo che
avrebbero elevato lo status politico delle popolazioni di lingua turca
dell’Anatolia. Gli stessi eventi dovevano provocare anche la frammentazione
politica dell’Anatolia e della penisola Balcanica che avrebbe reso possibile
l’insediamento del principato che sarebbe poi diventato l’Impero Ottomano,
oltre che favorirne la rapida espansione.
La
prima di queste crisi interessò la penisola Balcanica piuttosto che l’Anatolia.
Nel 1204, l’esercito cristiano della quarta crociata conquistò Costantinopoli e
stabilì nella città un imperatore latino. Con la capitale in loro possesso i
leaders della crociata si divisero il territorio bizantino nella Grecia e
l’arcipelago dell’Egeo, costringendo il governo bizantino all’esilio a Nikaia
(Iznik) e confinando il territorio da esso governato all’Anatolia occidentale.
Durante il corso del secolo, gli imperatori bizantini riconquistarono alcune terre nella Grecia continentale e nel
Peloponneso, ma l’area rimase comunque un mosaico di piccoli principati. Il più
durevole beneficio della crociata andò a Venezia, che acquistò fortezze nel
Peloponneso e nell’Egeo, la più importante delle quali era Negroponte (Evvoia)
sulla costa orientale della Grecia continentale. Al tempo della invasione
ottomana della penisola Balcanica nel quattordicesimo e quindicesimo secolo, i
territori a nord erano diventati ugualmente frammentati. Per un po’ durante il
quattordicesimo secolo essi trovarono unità politica sotto lo zar serbo Stefano
Dusan (morto nel 1355), le cui terre comprendevano la Serbia oltre che gran
parte della Macedonia, della Tessaglia, dell’Epiro e dell’Albania. Alla sua
morte, comunque, i suoi successori divisero il territorio in piccoli
principati. La stessa cosa avvenne in Bulgaria. Alla morte dello zar Alessandro
nel 1371, le sue terre tra il Danubio e i monti Balcani furono divise tra tre
principati distinti. Questa frammentazione della penisola Balcanica, che iniziò
con la quarta crociata, era un fattore che sfruttarono più tardi i
conquistatori Ottomani
La
quarta crociata, comunque, non sconvolse gli equilibri in Anatolia.
L’imperatore bizantino mantenne il controllo della Anatolia occidentale e
rimase in pace con il Sultano Selgiuchide ad oriente. Verso la metà del
tredicesimo secolo, comunque, il sultanato selgiuchide subì una catastrofe. Nel
1243 un esercito mongolo – parte di una forza di invasione che entro il 1258
aveva conquistato Iran, Anatolia ed Iraq – sconfisse un esercito selgiuchide a
Kösedağ
e ridusse il Sultano alla condizione di vassallo. Da questo momento il suo
signore era l’Ilkhan, il sovrano mongolo dell’Iran.
La
conquista mongola in quanto tale non intaccò il dominio bizantino nell’Anatolia
occidentale. Fu, comunque, un fattore del collasso del dominio bizantino in
quest’area. I mongoli erano un popolo di pastori, e necessitavano i pascoli dei
territori selgiuchidi di nuova conquista, non solo per le loro greggi, ma
specialmente per i cavalli che erano essenziali per il loro successo militare.
Sembra verosimile, pertanto, che la competizione con i mongoli costrinse molti pastori turchi a cercare nuovi territori
ad occidente. Essi trovarono questi territori nella Anatolia bizantina, dove le
valli dei fiumi conducevano giù dall’elevato altopiano al clima più dolce delle
sponde dell’Egeo, una caratteristica che era adatta alle loro migrazioni estive
e invernali. La migrazione turca verso occidente divenne più facile dopo il
1261.
In
questo anno, l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo riconquistò
Costantinopoli. Era una vittoria, come poi si vide con infelici conseguenze.
Una volta stabilito in Costantinopoli, l’imperatore usò le sue risorse contro i
nemici ad occidente, ignorando l’apparentemente sicura frontiera dell’est. Nel
momento in cui le fortezze bizantine e l’organizzazione militare caddero in
abbandono, l’invasione dall’est divenne più facile e si verificò una migrazione
turca, attraverso le difese crollate, in direzione del mare. Nell’ultima decade
del tredicesimo secolo, l’Anatolia occidentale sperimentò la stessa trasformazione nella sua
composizione etnica che aveva sperimentato l’Anatolia centrale e orientale nell’ultima decade dell’undicesimo secolo.
Come nell’undicesimo secolo, questo cambio dell’etnia da principalmente greca a
principalmente turca ebbe importanti conseguenze politiche
Queste
conseguenze politiche rifletterono in gran parte i cambiamenti politici in
quello che una volta era il regno selgiuchide. Dopo il 1243, i sultani
selgiuchidi persero il loro potere a favore dei governanti mongoli, e il loro
territorio divenne un avamposto occidentale degli Ilkhan dell’Iran. Nel 1302,
l’ultimo Sultano selgiuchide morì. La sua morte coincise con un periodo di
indebolimento del controllo ilkhanide sull’Anatolia, e rese possibile per
governatori locali, signori e banditi di stabilirsi come signori indipendenti.
Così, all’inizio del quattordicesimo secolo,
ciò che era stata l’Anatolia selgiuchide e ilkhanide si frammentò in un
caleidoscopio di principati. Il più grande, duraturo, e il più temuto come
rivale dagli Ottomani era l’emirato di Karaman, nella Anatolia
centro-meridionale, con la vecchia città di Konya, ex capitale dei Selgiuchidi,
come città principale.
Lo
stesso fenomeno si produsse negli ex territori bizantini dell’Anatolia
occidentale. Il dominio bizantino non sopravvisse all’immigrazione turca della
fine del tredicesimo secolo e per il 1300 il dominio turco aveva rimpiazzato
quello greco, con una serie diprincipati turchi stabilitisi sull’ex territorio
dell’imperatore bizantino. Sulla costa meridionale, intorno ad Antalya, si
stendeva il principato di Teke, A nord di Teke e verso l’interno c’erano i
territori del principato di Hamid, intorno ad Isparta e il principato di
Germiyan, con la sua capitale a Kütahya. All’estremità meridionale
della costa egea si stendeva il principato di Menteshe. A nord di Menteshe
c’erano Aydin e Saruhan, con Tire e Manisa come rispettive capitali. A nord di
Saruhan, con la zona costiera in parte lungo i Dardanelli, c’era l’emirato di
Karesi. A nord-ovest di Karesi, nella ex provincia bizantina di Bitinia, c’era
l’emirato di Osman, il fondatore della dinastia ottomana. I suoi territori
dovevano formare il nucleo dell’Impero Ottomano.
Una
caratteristica particolare distingueva i principati che erano emersi nei
territori ex bizantini e selgiuchidi dalle entità politiche che avevano
rimpiazzato. Ora i governanti e i loro seguaci, e non semplicemente i sudditi,
erano turchi. Erano anche musulmani. Le moschee che costruirono durante il
corso del quattordicesimo secolo testimoniano della loro fede, mentre i titoli altisonanti
che adottarono nelle iscrizioni delle moschee mostrano il loro desiderio di
emulare i sultani selgiuchidi e i governanti dell’antico mondo islamico.
Nondimeno, i frammenti in lingua turca
che sopravvivono dall’Anatolia del quattordicesimo secolo suggeriscono
che questi nuovi signori turchi erano “gente rozza e illetterata”, largamente
ignorante dei principi della fede islamica di facciata che professavano.
Questo
era il mondo nel quale emerse il futuro Impero Ottomano: fortemente turco e di
incerta fede islamica. Come l’Impero si espanse divenne sempre più
multinazionale, sia nella popolazione dei sudditi che nel corpo politico. Allo
stesso tempo, la fede islamica dei governanti, che si espresse attraverso
l’adozione della legge islamica e l’imposizione del rituale formale islamico,
divenne sempre più ortodossa. Nondimeno, l’uso del turco come linguaggio del
governo e l’elemento turco della popolazione – entrambi riflessi delle origini
dell’Impero – davano allo stato un carattere turco.
CRONOLOGIA:
L’EMIRATO OTTOMANO: DAL TRIONFO AL DISASTRO, 1300-1402
La
tradizione ottomana menziona Osman figlio di Ertughrul come il fondatore
dell’Impero Ottomano, e riferisce di come egli si dichiarò sovrano indipendente
a Karajahisar, un luogo che probabilmente corrisponde alla città bizantina di
Malagina, nella bassa valle del fiume Sakarya. Questo è quanto nella narrazione
tradizionale appare storicamente vero. Come Osman e i suoi seguaci arrivarono a
stabilirsi in quest’area è materia di speculazioni, dal momento che i tardi
resoconti Ottomani sono certamente mitici. E’ possibile comunque che un disastro naturale fornì la
prima spinta. A dispetto delle sue preoccupazioni riguardo il fronte
occidentale, l’imperatore bizantino Michele VIII riorganizzò la sua frontiera e
verso l 1280 aveva completato una serie
di fortificazioni lungo la riva del fiume. Ma, nella primavera del 1302
il Sakarya andò in piena e, come risultato delle inondazioni, cambiò il suo
corso, rendendo inutili le nuove difese. E’ probabilmente questo evento che
consentì agli uomini di Osman di attraversare il fiume e di insediarsi nella
provincia bizantina di Bitinia.
In
pochissimo tempo, i razziatori turchi avevano raggiungo il mar di Marmara. Il
cronista contemporaneo Pachymeres descrive come la notizia delle vittorie di
Osman di diffuse e attrasse i turchi dalle altre aree dell’Anatolia occidentale
sotto la sua bandiera e come la sua forza divenne forte a sufficienza per
sconfiggere un esercito bizantino vicino a Nicomedia (Izmit), lasciando la
Bitinia indifesa di fronte ai suoi raid. Dalla loro base nella valle del
Sakarya, dove Osman aveva occupato le vecchie postazioni fortificate bizantine,
i suoi uomini razziavano le campagne ad ovest, costringendo gli abitanti a
rifugiarsi nelle città fortificate. Queste rimanevano sicure, dal momento che
Osman ovviamente mancava delle capacità militari per stringere un vero e proprio assedio: il
suo assalto a Nikaia fallì. Al tempo della sua morte a metà degli anni ’20 del
1300, Nikaia, Prousas (Bursa), Nicomedia (Izmit) e Pegai non erano ancora
cadute.
Fu
Osman a fondare l’Impero Ottomano e a dare il suo nome alla dinastia degli
Ottomani – o Osmanli, ma fu sotto il suo figlio Orhan (1324?-1362) che il piccolo
principato cominciò ad acquistare una fisionomia più stabile. Il territorio di
Osman non comprendeva grandi città. Nel 1326, però, la città di Bursa cedette
per fame e divenne, da quella data, la prima capitale degli Ottomani. L’anno
successivo, a seguito di un terremoto che danneggiò le sue fortificazioni, gli
uomini di Orhan occuparono la città bizantina di Lopadion (Ulubat), in
direzione dei Dardanelli. Questi disastri persuasero l’imperatore Andronico III
a guidare un esercito in Bitinia nel 1328, ma fu costretto a tornare indietro
quando Orhan intercettò la sua avanzata a Pelekanon, a due giorni di marcia da
Costantinopoli, impedendogli di proseguire. Con il percorso via terra tra la
città e la Bitinia ora impraticabile, la caduta delle rimanenti città bizantine
fu inevitabile. Nikaia fu la prima a cadere, nel 1331. Nicomedia seguì la
stessa sorte nel 1337, riducendo il
territorio bizantino in Asia a poche miglia ad est di Costantinopoli.
L’espansione ottomana non fu solo a spese di Bisanzio. Nel 1345-46 Orhan si
annetté l’emirato turco di Karesi, il cui territorio lungo i Dardanelli forniva un punto di
attraversamenti dall’Asia in Europa. Meno di dieci anni dopo, nel 1354, il
figlio di Orhan, Süleyman Pasha occupò Ankara ad est
del territorio di suo padre ma tale è l’oscurità del periodo che non è chiaro a
chi strappò la città.
Fu
ancora Orhan che per primo stabilì una testa di ponte in Europa. Lo fece
sfruttando una guerra civile a Bisanzio tra gli imperatori rivali Giovanni (VI)
Cantacuzeno e Giovanni (V) Paleologo. Cantacuzeno cercò alleati tra i signori
turchi dell’Anatolia occidentale e, nel 1346, strinse un patto con Orhan,
dandogli in sposa sua figlia Teodora. La strategia ebbe successo e, nel 1347,
Cantacuzeno entrò in Costantinopoli e si proclamò imperatore, con Giovanni V
come co-reggente. Ma fu Orhan che guadagnò di più da questa situazione. Nel
1352, nel momento in cui la guerra infuriò di nuovo tra Giovanni V e il figlio
di Cantacuzeno, Matteo, il padre chiese aiuto ad Orhan, garantendo alle sue
truppe, guidate da Süleyman Pasha, una fortezza nella
penisola di Gallipoli. Questo fu il primo territorio che gli Ottomani
occuparono in Europa. Ulteriori conquiste scaturirono da un disastro naturale.
Nel Marzo 1354, un terremoto distrusse le mura di Gallipoli e di altre città
lungo i Dardanelli, che furono subito occupate da Süleyman, portando con sé
coloni turchi dall’Anatolia.
Nel
1354, Cantacuzeno abdicò, lasciando Giovanni V come solo imperatore. Orhan non aveva legami familiari con Giovanni
V, a dispetto della volontà dell’imperatore di formare un’alleanza
matrimoniale, e così non era obbligato a restituire i possedimenti europei. Al
contrario, continuò per un certo tempo a sostenere le pretese di Matteo
Cantacuzeno al trono bizantino, mentre i suoi uomini razziavano e alla fine
conquistavano gran parte della Tracia orientale. Nel 1359 o 1361 – la data non
è chiara – Orhan catturò Dhidhimoteichon (Dimetoka), sgombrando il passaggio
lungo la costa settentrionale dell’Egeo verso Tessalonica.
Alla
morte di Orhan nel 1362 il suo regno aveva acquisito i caratteri che dovevano
distinguerlo fino al ventesimo secolo. Comprendeva terre sia in Asia che in
Europa, città come insediamenti rurali; e il sovrano aveva costruito le prime
moschee e istituzioni religiose che distinguevano il suo principato come una
entità politica musulmana.
Sembra,
da un breve riferimento letterario, che il figlio di Orhan, Murad I
(1362-1389), ascese al trono dopo una guerra civile. Per la fine degli anni ’60
del 1300 egli era comunque saldamente al potere e il suo regno in Anatolia e in
Europa cominciò ad espandersi rapidamente. Ad est si annetté i principati
turchi che si stendevano in un arco tra le sue terre nell’Anatolia nord
occidentali ed Antalya sul mar Mediterraneo. Le cronache ottomane presentano
queste annessioni come pacifiche. Murad avrebbe acquistato una parte del
principato di Germiyan come dote a seguito del fidanzamento di una principessa
Germiyanide con suo figlio, Bayezid. Avrebbe ottenuto tramite un acquisto
Hamid, a sud di Germiyan. Di fatto, il matrimonio con la principessa e
l’annessione di Hamid seguirono una campagna militare. Una cronologia del
1439-40 ci dice che nel 1375-6 “Gli eserciti Germiyanidi e tartari furono messi
in rotta e furono conquistati Kütahya, alcune delle fortezze di
Germiyan e il territorio di Hamid”. Ad est l’espansione portò Murad a contatto
col più potente degli emirati anatolici, quello di Karaman, e questo contatto
portò alla guerra. Nel 1387, per vendicare un precedente attacco Karamanide,
Murad invase l’emirato e costrinse il signore di Karaman, Alaeddin Ali, a
sottomettersi.
Il
controllo di Germiyan, Hamid e del territorio a sud diede a Murad il controllo
di una rotta di traffico dalla sua capitale a Bursa fino ad Antalya e con tutta
probabilità aumentò le sue ricchezze molto più di quanto aumentò le terre del
suo reame, ma le sue conquiste europee furono meno spettacolari.
Il
suo regno, comunque, iniziò con una sconfitta che avrebbe potuto fermare del
tutto le conquiste ottomane in Europa. Nel 1366 Amedeo di Savoia, il cugino
dell’imperatore Bizantino Giovanni V, catturò Gallipoli sulla sponda europea
dei Dardanelli, una conquista che avrebbe potuto consentire ai bizantini di
bloccare il passaggio dei turchi attraverso gli stretti. Poi, nel 1369,
l’Imperatore andò a Roma per procurarsi l’assistenza del Papa. Nondimeno, il
successo bizantino fu temporaneo. La continua avanzata ottomana nella penisola
Balcanica suggerisce che i rinforzi continuarono a traversare dall’Asia minore
e nessun aiuto venne dall’Europa. Qualsiasi vantaggio i bizantini avessero
posseduto lo persero di nuovo nel 1377, quando l’imperatore Andronico IV
cedette Gallipoli a Murad in cambio del suo aiuto in una guerra civile contro
suo padre e i suoi fratelli.
La
prima grande vittoria di Murad in Europa venne, probabilmente, nel 1369, quando
forze turche occuparono Adrianopoli (Edirne). La città occupa una posizione
strategica alla confluenza dei fiumi Maritsa e Tundzha, dando accesso alla
Bulgaria centrale ed orientale, e alla Tracia occidentale. Fu dunque
probabilmente il pericolo incombente per i territori che si stendevano a ovest
di Edirne che motivò i due signori serbi di Macedonia a formare una alleanza
contro Murad e ad attaccare le sue forze sul fiume Maritsa nel 1371. Entrambi
persero le loro vite nella rotta che seguì e, nelle parole di una breve cronaca
greca: “Da allora i musulmani cominciarono a invadere l’Impero dei cristiani”.
La
pressione che queste forze musulmane esercitavano era sia politica che
militare. Il regno dello zar di Bulgaria divenne vassallo di Murad a seguito
del suo matrimonio, in data incerta, con Thamar, la sorella dello zar Sisman.
La conquista della Tracia e della Macedonia, comunque fu mediante guerra. Raid
turchi iniziarono immediatamente dopo la battaglia di Maritsa, con la gente di
Tessalonica che sopportò il primo attacco nel 1372. Nello stesso anno, il papa
Gregorio XI provò senza successo a formare un’alleanza antiturca, rimarcando
come le colonie latine nella Grecia centrale e meridionale si trovassero sotto
minaccia di attacchi Ottomani. Ciò che era cominciato con dei raid, portò ad
una conquista permanente. Nel 1383 un’armata ottomana sotto il comando del
Visir Hayreddin Chandarli catturò Serrai e assediò Tessalonica. Quattro anni
dopo, nel 1387, la città cadde. Il blocco di Tessalonica, comunque, occupò solo
una frazione delle forze di Murad. Verroia cadde probabilmente nel 1385-86, e
Bitola poco dopo, portando tutta la Macedonia
del sud sotto il controllo ottomano entro il 1387. Per la fine degli anni ’80,
i turchi avevano anche cominciato raid verso sud-ovest, nell’Epiro – nel 1386
Esau Buondelmonti, il despota dell’Epiro era vassallo di Murad – e verso sud,
nel Peloponneso. Nel 1387, in risposta a un invito di Teodoro, il despota
bizantino di Mistra, il signore turco Evrenos devastò i territori del
Peloponneso, attaccando non solo i ribelli contro il despota, ma anche gli
insediamenti Veneziani nella penisola. Nel mentre, a nord, l’espansione
ottomana proseguiva in direzione della Serbia.
Sofia
cadde probabilmente nel 1385. Nish seguì nella primavera o estate dell’anno
successivo, rendendo possibile a Murad di entrare nel territorio del signore
serbo, il Principe Lazar. La sua invasione fu un fallimento. Lazar intercettò e
bloccò l’avanzata di Murad a Pločnik, probabilmente
nell’estate del 1386, e lo costrinse a ritirarsi. Per tre anni Murad non tornò
in Serbia. La sua avanzata verso occidente aveva dato all’emiro di Karaman,
Alaeddin Ali, l’opportunità di attaccare i suoi territori in Anatolia, e fu
contro Karaman che Murad condusse la sua campagna nel 1387. Durante lo stesso
anno lo zar bulgaro Sisman rinunciò alla sua alleanza con Murad, scatenando una
campagna guidata dal Visir Ali Chandarli per sottometterlo. Nell’estate del
1388 Sisman aveva accettato di nuovo la signoria di Murad. Ma fu un altro
evento del 1388 che richiamò Murad in Serbia l’anno seguente.
Sembra
probabile che il vassallo di Murad Giorgio Stracimirović
Balšić chiese a Murad truppe per attaccare Tvrtko, re di Bosnia, e che
Murad abbia risposto inviando un certo Shahin. Nell’Agosto del 1388, truppe
bosniache misero in rotta gli uomini di Shahin a Bileća, vicino
all’Adriatico e fu forse con l’intenzione di colpire definitivamente re Tvrtko
che Murad marciò verso occidente nel 1389. Il suo percorso, comunque sia, lo
condusse in Serbia e qui, il 15 Giugno 1389, si scontrò con l’esercito del
principe Lazar a Kosovo Polje. L’esito della battaglia sembra essere stato una
vittoria turca, dal momento che i turchi mantennero il terreno della battaglia,
ma con grandi perdite. Sia Murad che Lazar persero la vita nella battaglia.
Seguendo la tradizione ottomana, Bayezid, figlio di Murad, gli successe con un
colpo di mano sul campo di Kosovo.
Fonti
del quattordicesimo secolo suggeriscono che Murad si dava modestamente il
titolo di “emiro” e non ancora di “Sultano”. L’emirato the aveva stabilito
sulla base di quanto ereditato da Orhan consisteva di una federazione di signori sotto la sovranità ottomana. Le terre che
aveva ereditato intorno a Bursa in Anatolia e le terre in Tracia intorno ad
Edirne probabilmente caddero direttamente sotto il governo di Murad stesso o di
persone nominate da lui. Dopo il matrimonio Germiyanide del 1375-76, gran parte
dell’Anatolia ottomana cadde sotto il dominio di suo figlio, Bayezid. Il potere
politico nella penisola Balcanica era ampiamente nelle mani di governatori
musulmani locali , che questi fossero di origine turca, come Evrenos in Macedonia,
o convertiti dal cristianesimo, come la famiglia Mihaloglu nella Bulgaria
nord-orientale. In più, molti dei sovrani dinastici della penisola Balcanica,
come Esau Buondelmonti di Ioannina, Giorgio Stracimirović
di Zeta, Sisman e Ivanko in Bulgaria e l’imperatore bizantino e suo figlio
Teodoro di Mistra erano vassalli di Murad. Gli dovevano un tributo e dovevano
fornirgli truppe, ma in cambio ricevevano supporto contro i loro nemici.
L’Impero Ottomano doveva mantenere una simile struttura fino a dopo il 1450.
La
notizia della morte di Murad a Kosovo aveva raggiunto l’Anatolia nei mesi
successivi ed incoraggiò i principati confinanti a strappare territori
Ottomani. Una fonte contemporanea menziona in particolare che Alaeddin di
Karaman aveva riconquistato Beyşehir e che il signore di
Germiyan aveva pure tentato di riprendersi le sue terre perdute. La risposta di
Bayezid venne all’inizio del 1390. Entro Marzo di quell’anno aveva conquistato
i tre principati delle coste egee dell’Anatolia – Saruhan, Aydin e Menteshe,
ripreso Beyşehir dal principato di Karaman e in questa stessa campagna o
in una successiva le terre che rimanevano al principato di Germiyan. Questa
campagna, sebbene ampliò i territori di Bayezid, non assicurò la pace. Durante
il suo corso, uno dei vassalli anatolici di Bayezid, Süleyman Pasha di
Kastamonu, cambiò il suo vassallaggio da Bayezid a Burhaneddin, il signore di
gran parte dell’Anatolia centrale, e la campagna successiva di Bayezid fu
contro Süleyman Pasha, che si concluse con l’esecuzione di questi e
l’annessione del suo regno. Successivamente Bayezid continuò verso est contro
Burhaneddin, con l’esercito rafforzato dall’unirsi alle sue forze di signori
del nord dell’Anatolia. Fu sconfitto a Çorumlu, ma evidentemente non in modo
così serio da impedire la sua ulteriore avanzata. In Dicembre, comunque, il
tempo, il terreno e gli eventi che si stavano verificando in Europa lo
forzarono a ritornare ad ovest. Nel corso della campagna aveva annesso
Kastamonu, e forse ottenuto la sottomissione dei signori dei clan del nord
dell’Anatolia. L’esercito che conduceva era molto differente da quello dei
primi due sovrani Ottomani. Egli aveva ora al suo seguito l’imperatore
bizantino suo vassallo, Manuele II, con un contingente di truppe bizantine e
anche, secondo una testimonianza di Manuele, contingenti serbi, Bulgari e
albanesi.
Nel
1392, la preoccupazone principale di Bayezid sembra sia stata riguardo la
Serbia. Dopo la battaglia di Kosovo la Serbia fu minacciata di invasione dal
regno di Ungheria dal nord e dagli Ottomani, dal sud e dall’est. Chiaramente
doveva accettare la sovranità di uno dei due per proteggersi dall’altro. Una
fazione in Serbia preferiva, sembra, Bayezid al re Sigismondo di Ungheria e per
formalizzare questo accomodamento Bayezid sposò Olivera, la sorella del figlio
e successore di Lazar Stefano Lazarević. Stefano divenne dunque
vassallo di Bayezid. Nello stesso momento Bayezid affermò la sua sovranità su
Giorgio Stracimirović di Zeta e Vlk Brankovic, signore di Priština. La
preoccupazione successiva di Bayezid fu la Bulgaria. Perché abbia dovuto invadere il territorio
dello zar Sisman nel 1393 e catturare la sua capitale Tarnovo non è chiaro:
Sisman aveva forse, per la seconda volta, rotto il suo vassallaggio nei
confronti del signore ottomano. Questo era solo uno scontro preliminare. Due
anni più tardi, probabilmente per prevenire le conseguenze di una alleanza
antiturca tra il re Sigismondo di Ungheria e il Voivoda Mircea di Valacchia,
Bayezid condusse il suo esercito a nord del Danubio e si scontrò con i valacchi
in una battaglia violenta ma non decisiva. Al suo ritorno entrò a Tarnovo e
giustiziò lo zar Sisman, esiliando gli altri membri della dinastia come
governatori dell’Anatolia.
L’affermazione
della sovranità ottomana sulla Serbia, l’estinzione del regno dello zar di
Bulgaria e l’invasione della Valacchia crearono una minaccia per il regno di
Ungheria, che si estendeva a nord del Danubio. Di foronte a questo pericolo, il
re Sigismondo rinnovò i suoi sforzi per
formare una lega anti-turca. Non era difficile trovare alleati tra quelli le
cui terre Bayezid minacciava, il primo dei quali era l’imperatore bizantino
Manuele II. Nel 1394, Bayezid aveva assediato Costantinopoli, e era divenuto
evidente che la città non poteva sopravvivere senza assistenza da parte di
poteri stranieri. La speranza principale dell’Imperatore era Venezia, i cui
possedimenti nella parte continentale della Grecia soffrivano i raid turchi, e
le cui fortezze dell’Egeo erano poste sotto attacco dalle navi di Bayezid a
Gallipoli. Entro il 1396, Sigismondo, l’imperatore Manuele e Venezia si erano
accordati per fornire truppe e navi per muovere guerra a Bayezid. Un più
consistente contingente venne dalla
Francia e dalla Borgogna. Nel 1395 una tregua tra Francia e Inghilterra aveva
reso disponibili di cavalieri franco-borgognoni per avventure altrove e un
contingente sotto Giovanni di Nevers, il figlio del duca di Borgogna viaggiò
verso l’Ungheria per unirsi alla crociata di Sigismondo contro Bayezid.
Bayezid
si scontrò con i crociati nel 1396 a Nicopoli sul Danubio in Bulgaria. La sua
cavalleria leggera, che includeva un contingente sotto il comando di Stefano
Lazarevic, manovrò più abilmente dei cavalieri occidentali pesantemente armati
attirandoli entro una trappola e infliggendo loro una totale disfatta. I
sopravvissuti che Bayezid non giustiziò furono tenuti prigionieri in attesa di
riscatto. A seguito della sua vittoria, Bayezid rimosse l’ultimo signore
bulgaro indipendente, Stratsimir di Vidin, consolidando il dominio ottomano dei
territori a sud del Danubio. L’Ungheria, comunque, mentre esposta ai raid, non
subì l’invasione che re Sigismondo evidentemente aveva temuto. Nel 1397 Bayezid
condusse il suo esercito in Anatolia.
La
ragione della sua partenza dall’Europa per l’Asia era l’azione dell’emiro di
Karaman, Alaeddin che, mentre Bayezid si scontrava con i crociati a Nicopoli,
aveva attaccato e preso prigioniero il governatore generale dell’Anatolia. La
risposta di Bayezid fu decisa. Nel 1397 invase Karaman, occupò Konya, la sua
città principale, e giustiziò Alaeddin. Alaeddin era il suo fratellastro e,
quando marciò a sud per assediare Larende sua sorella, la vedova di Alaeddin
ordinò alla guarnigione di aprire i cancelli a Bayezid. Con la morte di Alaeddin
e lo spostamento della sua vedova a Bursa, Karaman divenne territorio ottomano
e una base per ulteriori conquiste nel nord-est. Questo coinvolse Bayezid in
ulteriori conflitti con Burhan al-Din di Sivas, che aveva già incontrato nella
sua prima campagna anatolica del 1391. Nel 1398, Bayezid espulse Burhan al-Din
da Sivas, si annetté i piccoli principati
vicino alla costa del Mar Nero e poi, successivamente alla morte di
Burhan al-Din, occupò Sivas. Subito dopo, probabilmente nel 1399, si impadronì
di Malatya, a est di Sivas, un avamposto settentrionale del Sultano mamelucco
del Cairo. Entro il 1401 egli era avanzato lungo la valle dell’alto Eufrate per
impadronirsi di Erzincan dal suo signore, Taharten.
Le
ambizioni di Bayezid nell’Anatolia orientale ebbero una fatale conseguenza. Il
periodo delle sue conquiste aveva coinciso con la crescita di un altro Impero
ad oriente. Tra gli anni ’70 e il 1400 Timur, detto anche Tamerlano, aveva,
partendo da umili origini, conquistato territori in Asia centrale, Russia
meridionale, Iran e Azerbaijan, e al di fuori di questi creò un Impero di
vassalli con capitale a Samarcanda. Entro il 1400 l’espansione di Timur verso
occidente e l’espansione di Bayezid verso oriente vennero in conflitto. Il
primo colpo giunse nel 1400, quando Timur saccheggiò Sivas. Nel 1401, condusse
il suo esercito in Siria, saccheggiando
Aleppo, Homs, Hama, Baalbek e Damasco, ritornando a passare l’inverno del
1401-2 a Karabagh nel Caucaso. Dispute con Bayezid circa la fedeltà di vassalli
fornirono a Timur una scusa per muovere guerra e, nel 1402, invase i territori
di Bayezid accampandosi in Luglio fuori Ankara.
La
strategia di Timur era sia politica che militare, e sfruttava i fragili legami
di vassallaggio dei soggetti di Bayezid in Anatolia. Nel 1390 i signori degli
antichi emirati di Germiyan, Saruhan, Aydin e Menteshe avevano cercato la
protezione di Timur dopo che Bayezid aveva annesso i loro territori. Egli ora
piazzò questi uomini in posizioni eminenti nel suo esercito. Allo stesso tempo
i suoi inviati avevano negoziato, con i capi tribali dell’Anatolia, le cui
truppe combattevano con Bayezid, la diserzione sul campo di battaglia.
Perdipiù, prima che la battaglia cominciasse, aveva occupato una posizione che
controllava l’accesso agli approvvigionamenti d’acqua, conducendo gli uomini di
Bayezid allo sfinimento prima della battaglia. La sua strategia ebbe successo.
Quando la battaglia iniziò i cavalieri dei vecchi emirati, vedendo i loro
vecchi capi nell’esercito di Timur disertarono. Così fecero, come stabilito, le
truppe tribali. Quando questi uomini cambiarono fronte, le forze sotto i suoi
figli Maggiore e minore, Süleyman e Mehmet, abbandonarono il
campo, lasciando Bayezid con solo la sua guardia del corpo giannizzera e il
contingente dalla Serbia di Stefano Lazarevic. La battaglia finì con Bayezid
prigioniero di Timur. Bayezid morì un anno dopo, ancora in prigionia.
Timur
fece seguire alla battaglia una campagna di massacro e saccheggio nell’Anatolia
occidentale, che durò fino alla estate del 1403. Egli morì nel 1405, durante i
preparativi per una campagna contro la Cina.
CRONOLOGIA:
L’EMIRATO OTTOMANO: LA GUERRA CIVILE E LA RIPRESA, 1402-1451
La campagna di Timur diffuse devastazione in
Anatolia, specialmente all’ovest. Alterò anche la configurazione politica. Dopo
la battaglia di Ankara, Timur ristabilì i vecchi emiri di Germyian, Saruhan,
Aydin e Menteshe nei loro precedenti regni, e reinstallò la dinastia di
Karaman, riducendo il dominio ottomano in Anatolia alla striscia di territorio
che correva da Amasya ad est a Bursa e al mar di Marmara ad ovest. Timur non
aveva toccato le terre ottomane nei Balcani, ma fu immediatamente dopo Ankara
che i principi cristiani di quelle regioni – L’imperatore bizantino, Venezia,
Genova e i Cavalieri di San Giovanni – forzarono il figlio di Bayezid a siglare
un trattato a Gallipoli, cedendo Tessalonica all’Imperatore e facendo altre
meno significative concessioni. Le stesse terre ottomane erano divise; il
figlio Maggiore di Bayezid, Süleyman, governava in Europa, e il
suo figlio più giovane, Mehmed, da Amasya fino a nord-est di Ankara . Un terzo
figlio, Isa, tentò di stabilirsi nell’Anatolia occidentale. Un altro figlio,
Musa, dopo che Timur lo ebbe liberato, venne sotto la custodia di Mehmet. Un
altro, Mustafa, scomparve, con tutta probabilità prigioniero a Samarcanda.
Mancando un accordo sulla successione a Bayezid, una guerra civile era
inevitabile.
Nel
1403 Süleyman era il più potente dei successori di Bayezid. Col trattato di
Gallipoli aveva ceduto Tessalonica e qualche altro territorio,ma aveva
ereditato i domini europei di suo padre intatti. Una alleanza che Sigismondo di
Ungheria propose tra sé e Stefano Lazarevic di Serbia non si concretizzò mai. Invece,
nel 1409 le forze di Süleyman assistettero il fratello di Stefano, Vlk
Lazarevic e Giorgio Brankovic nel devastare il reame di Stefano e nello
stabilirsi come sovrani nella Serbia del sud. L’azione di Süleyman lo rese
signore di tutti e tre i principati
serbi. In Anatolia il principe Mehmed doveva fronteggiare una Maggiore
opposizione al suo dominio. Dal campo di battaglia di Ankara si ritirò a Tokat,
nel nord est, dove fronteggiò gli attacchi e le ribellioni dei signori locali e
dei leader tribali. Fu solo quando ebbe allontanato questi pericoli che potè spingersi verso ovest per sfidare il
suo fratello Isa per il possesso dell’antica capitale Bursa. Isa non offrì
significativa resistenza. Fuggì nel Karaman e “lì scomparve”. La fuga di Isa
non pose fine ai guai di Mehmet. Nel 1404, sentendo al sicuro i suoi territori
europei, Süleyman attraversò gli stretti verso l’Anatolia e, con le sue forze
superiori, occupò Bursa, respingendo Mehmed ad Amasya e confinando il suo regno
ai territori Ottomani ad est di Ankara. Per i successivi 5 anni Süleyman fu
signore di parte dell’Anatolia occidentale e dei Balcani Ottomani.
La
mossa decisiva che Mehmet fece contro Süleyman era politica piuttosto che
militare. Egli aveva in custodia il fratello, Musa, e nel 1409 lo liberò.
Liberato dalla prigionia, Musa attraversò il Mar Nero per arrivare in Valacchia
dove entrò in una alleanza matrimoniale col voivoda Mircea. Con le truppe
fornitegli dal suo patrigno attraversò il Danubio in territorio di Süleyman e,
in assenza di suo fratello, invase la Bulgaria orientale e la Tracia e occupò
Gallipoli. Il risultato del successo di Musa era esattamente ciò che desiderava
Mehmed. La necessità di ristabilire il suo dominio nei territori europei
costrinse Süleyman a ritirarsi dall’Anatolia dell’ovest, consentendo a Mehmed
di occupare i territori che aveva conquistato. La sua vittoria fu completa
quando, nell’estate del 1410, l’Imperatore bizantino trasportò Süleyman e i
suoi uomini attraverso gli stretti per confrontarsi con Musa.
Süleyman
rapidamente guadagnò una situazione di vantaggio, costringendo Musa a vivere
“come un brigante sulle montagne”. Sei mesi dopo Süleyman era morto. La causa
fu il suo alcolismo. All’inizio del 1411, Süleyman era in Edirne e mentre, per
citare una breve cronaca greca, “si dilettava tra i cibi e beveva grandi coppe
di vino, l’esercito di suo fratello si avvicinò. Süleyman ignorò tutti gli
avvertimenti finché non fu troppo tardi. Quando la fazione di Musa occupò
Edirne egli fuggì verso Costantinopoli. Gli uomini di Musa lo catturarono e lo
strangolarono lungo la strada.
Il
regno di Musa fu breve. Egli fronteggiava l’ostilità non solo di suo fratello
Mehmed in Anatolia, ma anche del despota serbo che devastò le sue terre nella
valle della Morava, e dell’imperatore bizantino, che liberò il fratello di
Süleyman, Orhan, per opporsi al suo dominio. Fu questo atto ostile che condusse
Musa, brevemente e senza successo, ad assediare Costantinopoli nel 1411. Mentre
fronteggiava questi nemici Musa soffrì della diserzione a favore di Mehmed di
parecchi dei più potenti signori delle marche di frontiera, ufficialmente
perché si era impadronito del loro denaro e dei loro possedimenti in uno
sforzo, presumibilmente, di riempire le sue casse in un periodo in cui le incertezze
della guerra e della politica avevano azzerato il gettito delle imposte.
Nondimeno, nel 1411, egli sconfisse Mehmed e nell’anno seguente condusse
rappresaglie contro la Serbia. Alla fine del 1412, quando Mehmed tentò di
invadere per la seconda volta, condizioni atmosferiche disastrose lo forzarono
a ritirarsi. Nel 1443, comunque, dopo aver ricevuto l’atto di amicizia di
Lazarevic in Serbia e assicurando il suo confine occidentale con una alleanza
matrimoniale col signore di Dulgadir, traversò il Bosforo per la terza volta. A
Luglio sconfisse ed uccise suo fratello fuori delle mura di Sofia.
La
morte di Musa lasciò Mehmed I (1413-1421) come solo sovrano dei territori
Ottomani in Europa e in Asia. La sua eredità, comunque, era fragile, con nemici
determinati a distruggere i suoi frazionati domini. Il primo ad attaccare fu
l’emiro di Karaman, che aveva cinto d’assedio Bursa già durante l’ultima
campagna di Mehmed contro suo fratello. Quando i Karamanidi si furono ritirati
dopo il ritorno di Mehmet in Anatolia, l’imperatore Manuele provò senza
successo a negoziare con Venezia una sovvenzione contro i turchi. Quando il suo
piano fallì, di nuovo rilasciò dalla prigionia il figlio di Süleyman, Orhan,
con la speranza che, in alleanza con Mircea di Valacchia, egli trionfasse su
Mehmet. Ma anche questo piano fu un fallimento, ma nel 1414 si presentò
un’altra alternativa quando il capitano di una galea Veneziana prese a bordo
l’inviato di un uomo che dichiarava di essere Mustafa, il figlio di Bayezid che
era scomparso durante la battaglia di Ankara nel 1402. I Veneziani si
rifiutarono di cooperare perché sostenere Mustafa avrebbe messo a rischio le
loro relazioni con Mehmed. Mustafa,comunque, si doveva dimostrare utile per gli
altri nemici di Mehmed.
Questi,
comunque, non agirono immediatamente, dando a Mehmed l’opportunità di
vendicarsi dell’emiro di Karaman. Nel 1415 Mehmed assediò Konya, costringendone
l’emiro a cedere le terre occidentali di Karaman che aveva preso agli Ottomani
dopo la loro sconfitta ad Ankara. Da Karaman, Mehmed iniziò la pacificazione
dei vecchi emirati dell’ovest dell’Anatolia, ristabilendo la sua sovranità ed
annettendo Saruhan e parte di Aydin. Come governatore egli nominò Alessandro
Sisman, un discendente della dinastia bulgara. L’anno 1415 fu quindi un anno di
rinnovata avanzata ottomana.
Nell’anno
seguente, comunque, Mehmed fronteggiò tre crisi. La prima era la conseguenza
dell’aggressione delle sue navi,che avevano cominciato ad attaccare i Veneziani
ed altri insediamenti nell’arcipelago dell’Egeo. Nell’Aprile 1416, dopo che la
diplomazia ebbe fallito, uno squadrone Veneziano distrusse la flotta ottomana
fuori dei Dardanelli. La flotta ottomana non rappresentò più una minaccia fino
al 1450. La seconda crisi si ebbe in Agosto, quando l’uomo che aveva contattato
Venezia nel 1414 affermando di essere Mustafa, il fratello di Mehmed, si recò
in Valacchia e, alla testa di una forza di turchi e di valacchi, attraversò il
Danubio ed entrò nelle terre di Mehmed. L’invasione fallì. Mehmed sconfisse
l’esercito di Mustafa, costringendolo a rifugiarsi presso la bizantina
Tessalonica. Mehmed pose la città sotto assedio.
Fu
lì che fronteggiò la sfida più temibile alla sua sovranità, quando due rivolte
scoppiarono simultaneamente, una nella Dobrugia, nel nord-est della Bulgaria,
l’altra nella penisola di Karaburun, sul litorale Egeo dell’Anatolia che
fronteggia Chio. Il leader della rivolta bulgara era Sheikh Bedreddin, un
giurista e mistico che aveva servito come giudice militare di Musa in Rumelia
tra il 1411 e il 1413. Il leader della rivolta nel Karaburun era Börklüje
Mustafa, un derviscio carismatico. Le fonti ottomane plausibilmente affermano
che i due uomini fossero in collusione. Entrambe le ribellioni erano la
conseguenza dell’instabilità e insicurezza che avevano seguito la sconfitta ottomana ad Ankara nel 1402.
Resoconti Ottomani della ribellione sono di parte, ma interamente credibili
nell’affermare che Bedreddin trovò gran parte del suo supporto in Dobrugia tra
gli ufficiali e i tenutari di feudi che Musa aveva nominato durante il suo
regno in Rumelia, e che Mehmed aveva allontanato prendendo il potere.
Bedreddin, che appare aver aspirato al sultanato sulla base delle sua affermata
discendenza dai Selgiuchidi, annunciò che, come Sultano avrebbe reintegrato gli
spossessati nei loro possessi. La rivolta di Börklüje
Mustafa aveva un differente carattere. Era, così risulta, una rivoluzione
popolare millenarista centrata sulla persona di Börklüje
che predicava, secondo lo storico greco Doukas, l’eguaglianza di musulmani e
cristiani e la comunione della proprietà. I seguaci di Börklüje, secondo Doukas, erano
“contadini ignoranti”.
In Bedreddin ricorre il tema mistico del
mistero della vita e della divinità del cambiamento, un tema popolare nelle zone
di confine. “Ogni cosa è immersa in un processo di creazione e distruzione”
scrisse Bedreddin, “non c’è un qui e un aldilà; ogni cosa è un singolo
istante”.
Entrambe
le ribellioni fallirono. La rivolta in Dobrugia collassò quando un agente del
Sultano catturò Bedreddin e lo portò di fronte al Sultano nel Serraglio dove,
in accordo con la fatwa di un molla (insegnante della legge islamica)
persiano fu impiccato nella piazza del mercato. La resistenza dei seguaci di Börklüje
fu più forte. Essi sconfissero dapprima l’esercito di Sisman, il governatore di
Saruhan, e poi quello di Ali Bey, un altro governatore ottomano nell’Anatolia
occidentale. Fu solo quando Mehmed inviò un esercito sotto i comando di Bayezid
Pasha che fu capace di sopprimere la ribellione. “Bayezid Pasha”, scrive
Doukas, “uccise tutti coloro che incontrò sul suo cammino non risparmiando
un’anima, giovani o vecchi, uomni o donne”. Börklüje
Mustafa e i suoi dervisci furono portati ad efeso e giustiziati. A dispetto
della sconfitta le memorie furono dure a morire e una setta che si rifaceva a
lui sopravvisse nella Dobrugia per almeno due secoli dopo la sua morte.
A
beneficiare dei guai di Mehmet fu l’emiro di Karaman, che quando Mustafa invase
i domini Ottomani in Europa, aveva razziato l’Anatolia ottomana fino a Bursa.
Come rappresaglia nel 1417 Mehmed invase Karaman, giungendo con il suo esercito
fino a Konya. Egli comunque si astenne dall’attaccare la città. Invece, nello
stesso anno, guidò una seconda spedizione in Anatolia contro Isfendyaroghlu di
Sinope, una campagna che gli lasciò il controllo di Kastamonu e delle sue
miniere di rame, e confinò Isfendyaroghlu nei territori intorno Sinope. Tre
anni più tardi in oscure circostanze, gli Ottomani occuparono anche la colonia
genovese di Samsun sulla costa del Mar Nero. Le conquiste di Mehmed nei Balcani
furono di portata eguale a quelle in Anatolia. Nel 1417, i Veneziani erano
allarmati nell’apprendere che una forza ottomana aveva tolto Vlöre,
sulla costa adriatica, a Rugina, la “Signora di Valona”, e temettero che navi
ottomane potessero apparire nell’Adriatico per impadronirsi del commercio
Veneziano. Invece, in quello stesso anno, Hamza Pasha conquistò Gjirokastër, la
roccaforte del clan Zenevis. Vlöre e Gjirokastër insieme davano al Sultano un
consistente territorio nel sud dell’Albania. Questo avvenne nel 1418. Lo stesso
anno Mehmet guidò in persona una spedizione contro Mircea di Valacchia,
forzandolo a sottomettersi e occupando le fortezze che controllavano i punti di
attraversamento del Danubio.
Nel
1421 Mehmet morì. Suo figlio, Murad II (1421-1451) non prese possesso di un
regno indiviso. Per sfruttare le incertezze della successione, l’imperatore
bizantino Manuele II liberò lo zio di Murad, Mustafa, dalla custodia in
Tessalonica, e fu per vendicarsi contro l’imperatore per questo atto che nel
1422 Murad assediò Constantinopoli. L’assedio durò fino a Settembre, quando il
Sultano si ritirò, non tanto per la resistenza bizantina, ma per un rinnovato
conflitto dinastico.
La
causa fu l’apparire nell’Ottobre 1422 del suo fratello più giovane, Mustafa “il
piccolo” e fu solo dopo la sua sconfitta che Murad poté volgersi contro i
nemici esterni. Durante il tempo delle lotte di Murad con i due Mustafa, Drakul
il voivoda di Valacchia aveva attraversato
il Danubio e invaso la Rumelia ottomana. Allo stesso tempo Isfendyaroghl di
Sinope aveva riottenuto i territori a Kastamonu di cui Mehmet I si era
impadronito. Dopo la morte del Mustafà più giovane Murad condusse personalmente
il suo esercito a Kastamonu per riprendersi il territorio perduto e le sue
miniere di rame, mentre un governatore di confine della Rumelia condusse una
spedizione distruttiva nella Valacchia. L’esito di entrambe le campagne era di
ridurre sia Drakul che Isfendyafoghlu al vassallaggio,con Murad che sposava una
principessa Isfendyaride.
Queste
campagne restaurarono la stabilità nel regno di Murad, e entro venti anni egli
aveva, con l’eccezione del Karaman e dell’alta valle dell’Eufrate, ripreso i
territori persi dopo la Battaglia di Ankara. La perdita più importante in
Europa in questo momento era Tessalonica e nel 1422 le forze di Murad attuarono
un blocco intorno alla città. Un anno dopo i bizantini non poterono più
sostenere gli assalti e cedettero Tessalonica a Venezia. Nello stesso anno, una
serie di raid nel Peloponneso dal governatore locale Turahan ricordò ai
cristiani firmatari del trattato del 1403 di Gallipoli che il loro vantaggio
politico nei confronti degli Ottomani era evaporato.
Mentre
Tessalonica era sotto assedio, Murad diresse le sue forze contro gli emirati
dell’Anatolia occidentale. Nel 1424 mandò un esercito contro Juneyd, il signore
di Aydin, obbligandolo a rifugiarsi in una fortezza della costa e a cercare
aiuto dai Veneziani a Tessalonica e dal Karaman. Questi sforzi fallirono. Con
l’aiuto di navi genovesi gli assedianti Ottomani catturarono la fortezza e giustiziarono
Juneyd con la sua intera famiglia. Entro il 1425 Murad aveva in più annesso
Menteshe, portando sotto il suo dominio tutta la costa Egea dell’Anatolia. Tre
anni più tardi completò la sua conquista in Asia annettendo le aree montagnose
fitte di boschi lungo la costa del Mar Nero ad est di Samsun e nel 1428,
occupando Germiyan dopo la morte del suo ultimo signore dinastico.
Durante
questi anni l’assedio di Tessalonica continuò, spingendo i Veneziani a cercare
alleati contro il Sultano. Quando ricevettero aperture dal duca di Atene,
Antonio Acciajuoli, e da Teodoro, Despota di Mistra, i Veneziani
procrastinarono. La loro speranza era per un’alleanza con il re Sigismondo di
Ungheria. Questi piani non si materializzarono, anche se Sigismondo e Murad
erano entrati in conflitto. La causa era la disputata signoria vassallare sulla
Serbia. L’anziano Stefano Lazarevic aveva, così sembra, trasferito la sua lealtà
dagli Ottomani a Sigismondo e aveva, perdipiù promesso di lasciare in eredità
la fortezza danubiana di Golubats al re ungherese. Un’avanzata ottomana al
confine della Serbia sembra abbia costretto Stefano ad una nuova sottomissione,
ma nel 1427, il vecchio despota morì. Questo scatenò una guerra, con Sigismondo
che si appropriava di Belgrado, e Murad che per ritorsione catturava Golubats.
Il despota serbo Giorgio Brankovic si trovò stretto tra il sovrano di Ungheria
e il Sultano.
Nel
1430 era divenuto chiaro che Venezia non poteva aspettarsi alcun aiuto
dall’Ungheria per terminare l’assedio di Tessalonica e in Marzo di quell’anno
il Sultano stesso si accampò di fronte alla città. Alla fine del mese
Tessalonica cadde a seguito di un assalto generale. Nel trattato che seguì
Venezia cedeva la città e conveniva di pagare a Murad un tributo annuale per i
possessi Veneziani in Albania. Lo stesso anno, gli Ottomani conquistarono
Ioannina in Epiro. L’occasione fu la morte del despota Carlo Tocco nel 1429 senza
eredi legittimi. Il despotato passò al suo nipote, Carlo II, un protetto del re
angioino di Napoli. Murad chiaramente non desiderava vedere impiantata una
ingerenza angioina in Grecia e trovò una ragione per cacciare Carlo II. Carlo I
Tocco non aveva eredi legittimi, ma aveva avuto sei figli illegittimi che l’uno
dopo l’altro avevano risieduto alla corte di Murad ed era su richiesta
dell’ultimo, Ercole Tocco, che Murad mandò Sinan Pasha contro Ioannina nel
1430. Sinan Pasha occupò la città, ma invece di installare Ercole, la pose
direttamente sotto il dominio ottomano. Successivamente razziò e devastò i
domini di Carlo II ad Arta, per ricordare a tutti senza ombra di dubbio che
egli regnava come un vassallo di Murad.
Gli
anni dopo il 1430 videro l’incerto stabilirsi del dominio ottomano in Albania
centrale e meridionale. Questo cominciò con la presa dei territori a nord di
Gjirokastër che appartenevano ai clan
Arianit e Kastrioti, e poi una ribellione con successo degli sconfitti signori
e un assedio albanese a Gjirokastër.
La rappresaglia ottomana arrivò all’inizio del 1433, quando un esercito sotto
il governatore Ali, figlio di Evrenos, entrò in Albania, eliminò l’assedio a Gjirokastër e “distrusse i domini di
Giovanni Castriota”. Giovanni Castriota doveva continuare il suo governo a
Krujë come vassallo ottomano, col suo figlio Giorgio – il famoso Scanderbeg –
ostaggio presso la corte ottomana. Con buona parte dell’Albania sotto il suo
controllo Murad successivamente estese il suo dominio alla Serbia, questa volta
non con la forza, ma con un matrimonio. Nel 1435 sposò Mara la figlia del
despota Giorgio Brankovic, stabilendo suo padre come vassallo.
Il
matrimonio fu il primo passo per la conquista della Serbia. A dispetto dello
status protetto di vassallo di Brankovic, nel 1438 Murad condusse una campagna
che prima catturò Borač nel nord della Serbia, per
poi attraversare il Danubio e fare un raid devastante nella Transilvania. Nel 1439 prese Zvornik e
Srebrenica al confine con la Bosnia e, molto più importante, la fortezza di
Smederovo sul Danubio, ponendo la Serbia settentrionale sotto il suo controllo.
Il suo scopo finale, comunque, era il regno di Ungheria. Nel 1439, con la
Serbia sotto il suo dominio e il suo confine orientale sicuro dopo aver sconfitto
Ibrahim di Karaman nel 1437, era libero di agire. Il momento era propizio. Nel
1437, subito dopo la morte del re Sigismondo, una rivolta contadina aveva
scosso l’Ungheria. Nel 1440 il successore di re Sigismondo, Alberto II, morì,
lasciando un minorenne. Fu a questo punto che Murad attaccò, mettendo sotto
assedio la fortezza strategica di Belgrado e mandando razziatori entro il
regno.
L’assedio
di Belgrado fu un fallimento e la sconfitta segnò l’inizio di una crisi nel
governo ottomano. Questa non era inizialmente evidente. La guerra civile in
Ungheria per la successione a re Alberto permise a Murad di lanciare un nuovo
raid nel 1441, e la guerra civile a Bisanzio gli permise di intervenire a
sostegno del pretendente Demetrios. Demetrios, comunque, non riuscì ad
assicurarsi il titolo imperiale e il signore di Transilvania Janos Hunyadi
sconfisse l’incursione ottomana del 1441 e un’altra l’anno seguente. Queste
piccole vittorie, insieme alla elezione di re Vladislav III di Polonia come
Vladislav I di Ungheria chiaramente rialzarono il morale dei cristiani. Ma ciò
che temeva di più Murad era una nuova alleanza per una crociata.
Nel
1439, come prezzo per ricevere aiuti militari dall’Europa cattolica,
l’imperatore bizantino Giovanni VIII aveva accettato l’unione delle chiese
greca e latina sotto il primato di Roma. Papa Eugenio IV aveva un forte motivo
per onorare la sua parte di contratto ed organizzare una crociata a favore
dell’imperatore. La sua posizione come capo della Chiesa non era sicura, ma una
crociata coronata da successo avrebbe reso la sua posizione inespugnabile. Né
aveva difficoltà a ottenere supporto per il progetto. Soprattutto fu capace di
coinvolgere re Vladislav il cui regno era sotto attacco da parte degli
Ottomani. Anche Venezia, era pronta a partecipare, dato che una crociata
riuscita poteva condurre alla rioccupazone di Tessalonica e all’acquisto di
altri territori. Parimenti interessato era il duca di Borgogna: le credenziali
di crociato potevano condurre al suo riconoscimento come re. L’altro signore
deciso a partecipare era l’emiro di Karaman. Se l’emiro poteva attaccare Murad
ad oriente e attirarlo in Anatolia, le galere Veneziane, borgognoni, pontificie
e bizantine potevano bloccare il Bosforo e i Dardanelli e impedirgli di
attraversare gli stretti per incontrare l’esercito ungherese quando sarebbe
iniziata l’invasione dell’Europa.
La
difficoltà con questo piano era la coordinazione. Nel 1443, prima che la flotta
alleata fosse pronta Ibrahim di Karaman attaccò i territori di Murad in Anatolia.
Senza alcuna opposizione da parte dell’imperatore bizantino Murad attraversò
per andare in Anatolia e lo costrinse alla sottomissione prima di ritornare ad
Edirne. Qui apprese prima della morte del suo figlio favorito, Alaeddin, e poi,
in autunno, dell’invasione. Un esercito ungherese sotto Janos Hunyadi era
entrato e devastava la Serbia e avanzava verso Sofia, annientando o rigettando
le forze musulmane sulla sua strada. Gli ungheresi avevano il vantaggio non
solo della dimensione del loro esercito, ma anche della nuova tattica di
battaglia consistente nel creare fortezze mobili con i carri e nell’usare
l’artiglieria da campo che la cavalleria ottomana non era capace di avvicinare.
Alla fine, a dispetto della diserzione della sua cavalleria, Murad e i suoi
giannizzeri fermarono l’avanzata ungherese al passo di Zlatitsa nei monti
Balcani. Col rigido inverno entrambi gli eserciti si ritirarono.
Furono
probabilmente gli orrori della guerra d’inverno che convinsero Murad e
Vladislav a fare pace. Nell’estate del 1444 a Edirne i negoziatori concordarono
una tregua di dieci anni tra Murad e Vladislav e la cessione di Smederevo,
Golubats e altre fortezze a Giorgio Brankovic. In Agosto un inviato ottomano
viaggiò fino in Ungheria per ratificarne i termini. Fu allora che Murad prese
una decisione eccezionale. Rattristato senza dubbio dalla morte di Alaeddin e
dagli eventi della guerra invernale e con tutti i suoi confini apparentemente
sicuri abdicò a favore del suo figlio dodicenne, il principe Mehmed.
Questa
era un’opportunità che il papa non poteva lasciarsi sfuggire. Per consentire
alla crociata di continuare assolse il re di Ungheria dal suo giuramento di
tregua e nell’autunno del 1444 re Vladislav e Janos Hunyadi condussero
l’esercito ungherese in una distruttiva marcia verso Varna, sulla costa bulgara
del Mar Nero. Nella crisi, i Visir richiamarono Murad dal suo ritiro a Manisa.
Questa volta, comunque, le flotte alleate bloccavano gli stretti. Il Sultano,
comunque, scelse di attraversare il Bosforo e, come egli piazzò una batteria di
cannoni sulla costa Asiatica i genovesi di Pera piazzarono una batteria dal
lato europeo. Sotto la copertura di questi cannoni e su navi che i genovesi
avevano fornito, il suo esercito attraversò gli stretti. Il 10 Novembre 1444
gli eserciti si incontrarono a Varna con i cannoni ungheresi che ancora una
volta facevano fuggire la cavalleria ottomana. Comunque, in un momento
cruciale,il re di Ungheria uscì dai ranghi, consentendo ad un giannizzero di
farlo cadere da cavallo e ucciderlo. La morte del re decise la battaglia. La
vittoria ottomana, a sua volta, assicurò che la penisola Balcanica largamente
ortodossa cadesse sotto il dominio dei musulmani Ottomani piuttosto che della
Ungheria cattolica.
Da
varna, Murad ritornò a Manisa, ma non ad un pacifico ritiro. Durante la crisi
del 1443-44 costantino, il despota bizantino di Mistra si era impadronito di
territorio musulmano nel sud della Grecia e stava continuando i suoi raid,
mentre Giorgio Castriota, o Scanderbeg, aveva ripreso gli antichi domini dei
Castrioti in Albania centrale. Comunque, fu una crisi nel 1446 che costrinse il
Sultano ad uscire dal ritiro. Prima un incendio devastò Edirne. Poi, una
ribellione dei giannizzeri, che il principe Mehmed non poteva controllare, terrorizzò
la città, persuadendo il Gran Visir, Halil Chandarli, a richiamare Murad.
Al
suo ritorno al trono Murad si volse contro i vassalli ribelli. Nel 1447 invase
il Peloponneso e ridusse Costantino alla sottomissione. L’anno successivo
attaccò Scanderbeg in Albania ma a metà della campagna ricevette notizia che
Janos Hunyadi aveva invaso nuovamente le sue terre con un esercito di ungheresi
e valacchi. Abbandonando la campagna d’Albania, egli marciò a nord, e
nell’Ottobre 1448 affrontò Hunyadi sulla piana di Kosovo. Dopo una battaglia di
due giorni Hunyadi abbandonò il campo. L’eliminazione del pericolo ungherese
lasciò Murad libero, nell’inverno del 1448-49, di catturare Arta, l’ultimo dei
domini di Tocco sulla parte continentale della Grecia e, nel 1449 di attaccare
Scanderbeg confinandolo nella fortezza di Krujë. Contro la fortezza comunque i
suoi attacchi furono vani.
Questa
fu l’ultima campagna di Murad. Morì all’inizio del 1451.
CRONOLOGIA:
L’IMPERO OTTOMANO: CONQUISTA E CONSOLIDAMENTO, 1451-1512
Nel
1450, l’Impero Ottomano era un importante potere locale, che dominava
l’Anatolia del nord e dell’ovest e una larga parte della penisola Balcanica. In
gran parte di quest’area, comunque, il Sultano
esercitava il suo potere attraverso vassalli o governatori
semi-indipendenti. Nel contesto del medio oriente, il sultanato dei Mamelucchi
del Cairo era probabilmente più potente e certamente più prestigioso. Come
governanti delle città sante di Mecca, Medina e Gerusalemme, i sultani
Mamelucchi potevano vantare il primo posto tra tutti i monarchi islamici. Nel
contesto del sud-est europeo il regno di Ungheria ancora controbilanciava il
potere ottomano. Quanto ai mari, la forza ottomana era trascurabile. Nel 1512, l’Impero
Ottomano aveva acquisito una capitale
imperiale. I suoi territori sia in Anatolia che nella penisola Balcanica si
erano espansi grandemente. Il potere dei governatori locali era diminuito, ed
essi non erano più presenti nei consigli centrali dell’Impero. In Europa, a sud
del Danubio, il Sultano governava attraverso le persone da lui nominate
piuttosto che attraverso vassalli, sebbene le vecchie dinastie cristiane
dell’area spesso vennero a far parte, dopo la conversione, delle élite
governanti dell’Impero. In Anatolia, era solo ai confini che l’autorità del
sovrano dipendeva ancora dalla fedeltà dei vassalli. Le istituzioni dell’Impero
avevano anche cominciato a prendere la forma che sarebbe stata familiare nei
secoli successivi. Al momento l’Impero godeva di una superiorità militare sui
poteri confinanti – Ungheria a nord, il sultanato dei Mamelucchi in Egitto e Siria, e la dinastia Safavide in
Iran – ma sinora l’esercito ottomano non aveva dimostrato la sua superiorità in
guerra. L’Impero era anche emerso come una potenza navale, ancorché di piccola
scala.
Al
tempo della seconda ascesa al trono del principe Mehmed nel 1451 come Mehmed II
(1451-1481) il suo obiettivo immediato era conquistare Costantinopoli. Per
rendere dapprima sicuri i suoi confini, nel 1451 guidò una campagna contro Karaman il cui emiro,
alla morte di Murad, si era impadronitodi alcuni castelli alla frontiera
ottomana. La campagna una volta ancora forzò Karaman ad accettare la sovranità
ottomana. Allo stesso tempo Mehmed concluse trattati con Giorgio Brankovic di
Serbia, e Janos Hunyadi, il reggente ungherese. Per rendere sicuri i suoi
confini meridionali nel 1452 egli mandò il governatore Turhan a fare un raid
contro i despoti bizantini del Peloponneso, Tommaso e Demetrio. Nello stesso
anno, con i confini sicuri, cominciò a prepararsi per l’assedio costruendo un
castello sul lato europeo del Bosforo, di fronte all’altro sul lato Asiatico,
che Bayezid I aveva costruito durante l’assedio del 1394-1402. I cannoni dalle
due fortezze impedivano il passaggio delle navi. Nella primavera del 1453
l’esercito di Mehmed si accampò di fronte alla doppia cinta di mura della
città, mentre le sue navi si ancoravano nel Bosforo. I difensori furono capaci
di respingere molti degli assalti, a dispetto del loro diminuito numero. Essi
frustrarono i tentativi Ottomani di porre delle mine sotto le mura, o di usare
torri di assedio per portare gli assalitori al livello dei bastioni. La flotta
ottomana era incapace di impedire i rinforzi genovesi che provenivano dal mare,
o di rompere lo sbarramento che bloccava l’ingresso del Corno d’oro, l’estuario
che formava un fossato naturale da un lato delle mura della città. Alla fine,
gli assedianti trasportarono le navi via terra dal Bosforo al Corno d’oro, ma di
nuovo non infransero le difese. Ciò che alla fine determinò la fine vittoriosa
dell’assedio era il potere dell’artiglieria ottomana contro le mura dal lato di
terra . Il 29 Marzo, con i giannizzeri all’avanguardia, l’esercito di Mehmed
entrò nella città attraverso una breccia nel muro e cominciò un saccheggio di 3
giorni. Il giorno dopo la conquista il Sultano entrò nella città. La
ripopolazione e il restauro della metropoli semidistrutta fu una delle
preoccupazioni principali del suo regno.
La
conquista di Costantinopoli diede all’Impero Ottomano una capitale nel punto
dove si congiungevano i suoi territori europei ed Asiatici, sugli stretti che
collegavano il Mar Nero al Mediterraneo. Era una città che godeva anche di una
posizione speciale nella escatologia musulmana, e che era stata la sede
dell’imperatore romano. Il prestigio imperiale, escatologico e geografico della città innalzava lo status del suo conquistatore sia nel mondo
musulmano che nel mondo cristiano, ed è per la sua conquista che Mehmed II
rimase famoso. Questo era però solo l’inizio della guerra incessante che
contraddistinse il suo regno
Dopo
la caduta di Costantinopoli Mehmed si assicurò la resa di Pera, la città
genovese che fronteggiava la capitale bizantina dall’altro lato del Corno
d’oro. L’anno seguente egli attaccò la Serbia. In due campagne, nel 1454 e
1455, si impadronì di Novo Brdo e dei distretti delle miniere di argento della
Serbia del sud, confinanti a nord col territorio del despota Giorgio Brankovic.
Nel 1456, assediò la città ungherese di Belgrado, ma non ebbe successo. Le
forze di Janos Hunyadi non solo respinsero l’attacco, ma arrivarono ad un
soffio dal distruggere il campo ottomano. La vittoria salvò l’Ungheria da una
invasione su grande scala, ma non impedì la estinzione finale della Serbia. Nel
1457, Giorgio Brankovic morì, e suo figlio Lazar subito dopo, lasciando il
territorio esposto alla invasione da parte del re Mattia Corvino diUngheria o
di Mehmed II. Mehmed fu il primo ad agire. Nel 1458, un esercito sotto il
comando del Visir serbo Mahmud Pasha invase, e in virtù tanto dell’astuzia
politica di Mehmed che della sua forza militare, catturò Golubats, Smederovo e
altre fortezze chiave, portando la Serbia sotto il controllo ottomano, e
stabilendo il Danubio come il confine tra Ungheria e l’Impero Ottomano.
Le
conquiste che il Sultano fece nell’area dell’Egeo durante lo stesso anno furono
meno estese ma probabilmente più lucrative. La caduta di Costantinopoli aveva
allarmato i sovrani latini dell’area, che a ragione temevano che i loro stessi
possessi fossero ora minacciati. Venezia, in particolare, temendo per la
sicurezza di Negroponte, aveva annesso le isole Sporadi del nord per formare una linea di difesa a nord e,
allo stesso tempo, avviò negoziati con Mehmed. Questi portarono ad un trattato
che consentiva ai Veneziani di commerciare liberamente e di mantenere una
colonia con un bailo a Istanbul.
Furono
piuttosto le colonie genovesi che furono attaccate. Nel 1455 Mehmed mandò una
flotta che si impadronì dei due insediamenti genovesi di nuova Fokaia e vecchia
Fokaia sulla costa anatolica, con un occhio senza dubbio alle miniere di allume
del distretto. Poi, nel freddo del Gennaio 1456, lui stesso guidò un esercito
ad Enez, una colonia genovese nella Tracia occidentale, costringendo il suo
signore, Dorino Gattilusio, ad arrendersi cedendo Enez e il suo salgemma,
insieme con le isole di Samotracia, Imbros e Limni. Questi attacchi erano
chiaramente premeditati. La cattura di Atene, comunque, fu opportunistica. Nel
1451, il duca fiorentino di Atene, Nerio II Acciaiuoli, era morto, e sia il
nipote di Nerio che il nuovo marito della sua vedova si rivolsero al Sultano
per averne appoggio alle loro pretese sulla città. La risposta di Mehmed fu di
inviare Turahanoghlu Ömer ad occupare Atene. In quel
momento i poteri cattolici nell’Egeo erano così allarmati dall’aggressione di
Mehmed che nel 1456 il papa Callisto III e il suo precedente datore di lavoro,
re Alfonso di Aragona, misero insieme una flotta anti-ottomana che nel 1457
riconquistò Imbros e Limni.
Il
successo della flotta di Papa Callisto aveva già reso consapevole Mehmed del
pericolo di un intervento latino in Grecia e nell’Egeo, quando la
probabilità di ulteriori azioni dei
latini aumentò con la prevista alleanza
matrimoniale tra la figlia di Demetrio
Paleologo, uno dei despoti bizantini del Peloponneso, e un nipote di re Alfonso
di Aragona. Nel 1458, Mehmed invase. Alla fine della campagna gran parte del
Peloponneso era sotto il suo controllo,mentre Demetrio aveva concordato di
sposare la sua figlia a Mehmed e di lasciare il Peloponneso, accettando in
appannaggio delle terre in Tracia e le ricatturate isole di Imbros e Limni.
Comunque, egli non si decise a fare la mossa. Invece, combatté con suo fratello
Tommaso, provocando un altro attacco ottomano nel 1460. Per la fine dell’anno,
tutto l’ex Peloponneso bizantino era nelle mani di Mehmed, Demetrio era partito
per i suoi nuovi territori e Tommaso era fuggito a Roma. Solo le colonie
Veneziane rimanevano indipendenti dal Sultano.
I
successivi obiettivi di Mehmed erano le enclavi indipendenti che rimanevano
lungo le coste meridionali del Mar Nero, con montagne che le dividevano dal
territorio ottomano a sud. La prima di queste fu la colonia genovese di Amasra,
che soccombette senza combattere nel 1459. Due anni dopo Mehmed lanciò una seconda campagna,
mandando una flotta lungo la costa del Mar Nero, mentre egli guidava il suo
esercito via terra. Il suo primo obiettivo era Sinope, il territorio di
Isfendyaroghlu Ismail. Come ad Amasra, la flotta dal mare e l’esercito sotto le sue mura lo
persuasero ad arrendersi. In cambio di Sinope, ricevette terre vicino Bursa.
Mehmed, nel mentre, continuò la difficile marcia verso Trabzon, una enclave
greca sotto il dominio di un Imperatore dei Comneni, la dinastia che aveva
governato a Costantinopoli prima del 1204. La caduta di Trabzon nel 1461 portò
alla fine dell’ultimo vestigio dell’Impero bizantino.
La
successiva campagna del Sultano, nel 1462, fu contro il signore ribelle di
Valacchia, Vlad l’impalatore, che aveva rifiutato di pagare il tributo al
Sultano, ucciso il suo agente e terrorizzato i territori Ottomani in Bulgaria.
La fuga di Vlad e la sottomissione della Valacchia portò gran parte delle coste occidentali del
Mar Nero sotto il controllo ottomano, facendo dell’Impero Ottomano il potere
dominante nell’area, una posizione che Mehmed migliorò nello stesso anno con la
costruzione di due fortezze presso i Dardanelli per controllare il passaggio
delle nati tra esso e il Mediterraneo. Fu anche nel 1462 che Mehmed continuò la
sua guerra contro i genovesi conquistando l’isola genovese di Lesbo e
portandola sotto il diretto governo ottomano.
Il
suo successivo obiettivo fu il regno di Bosnia. Nel 1463 condusse il suo
esercito verso occidente, e entro l’anno il regno era caduto. La prima grande
fortezza a capitolare fu Bobovac, e da lì l’esercito procedette verso Travnik.
Udendo che il re era fuggito a Jajce,il Sultano mandò Mahmud Pasha al suo
inseguimento. Mahmud Pasha alla fine catturò il re Stefano a Kljuć
e con la sua esecuzione, il vecchio regno di Bosnia si estinse. Mahmud Pasha
continuò la campagna impadronendosi di parte delle terre del duca Stefano
Vukčić-Kosača in Erzegovina. Le terre che rimanevano al Duca
furono prese da Mehmed nel 1466. La conquista di Serbia, Bosnia ed Erzegovina
ora portò il confine ottomano con l’Ungheria lungo la Sava, e a sud lungo il
Vrbas fino all’Adriatico.
Nel
1463, mentre la campagna di Bosnia utilizzò la Maggior parte delle risorse di Mehmed,
la guerra scoppiò nel Peloponneso. All’inizio dell’anno, Turahanoghlu Ömer
si era impadronito della città Veneziana di Argos, e questo fu l’incidente che
portò il senato Veneziano, allarmato già da un po’ di tempo per le conquiste di
Mehmed nel Peloponneso e l’Egeo a dichiarare guerra.
Dapprima
gli eventi sembrarono giustificare i calcoli Veneziani. Per la fine del 1463
Venezia aveva ripreso Argos, ocupato Monemvasia e guadagnato controllo di
Maggior parte del Peloponneso. Nell’Egeo, la flotta Veneziana catturò Limni.
Diplomaticamente, Venezia aveva costruito un’alleanza che includeva il re di
Ungheria, il Papa, il duca di Borgogna e nell’est, i Karamanidi. Il
coinvolgimento dell’Ungheria produsse immediati risultati. Al ritiro di Mehmed
dalla Bosnia, il re Mattia Corvino invase e catturò la fortressa di Zvečaj
e Jajce, e l’anno successivo una flotta Veneziana attaccò Lesbo. Nel 1464,
comunque, i piani Veneziani collassarono. L’attacco a Lesbo non ebbe successo
e, sebbene la spedizione del Sultano in Ungheria mancò di riprendere Jajce, il
suo esercito sotto Mahmud Pasha frustrò un tentativo ungherese di catturare
Zvornik. In quello stesso anno, l’emiro di Karaman morì, minando i piani
Veneziani per un alleanza ad oriente. Morì anche il papa Pio II, e con lui i piani per una
crociata. Nondimeno, il Senato Veneziano rifiutò una proposta di pace da Mahmud
Pasha, confidando forse nel fatto che un nuovo alleato ad oriente distruggesse
il Sultano ottomano.
Questi
era Uzun Hasan, il signore dell’Impero Akkyunlu che durante il quindicesimo
secolo era asceso a divenire un grande
potere in Iran, Iraq e Anatolia sud-orientale. Nel 1464 Uzun Hasan si era
rivelato un nemico del Sultano ottomano. La causa delle ostilità fu la
successione dell’emiro di Karaman, che era morto lasciando sei figli da una
principessa ottomana e uno, Ishak, da una madre differente. Per bloccare la
successione di un parente di Mehmed II al trono di Karaman, Uzun Hasan
intervenne e pose Ishak come emiro. Allo stesso tempo mandò una ambasciata a
Venezia, proponendo un’alleanza anti-ottomana. Venezia accettò questa proposta,
lasciando Mehmed a fronteggiare un’alleanza di Venezia e dell’Ungheria ad ovest
e Uzun Hasan ad est. Quando, nel 1465, egli preparò una spedizione punitiva per
salvare la sua posizione, le sue truppe si rifiutarono di combattere. La guerra
costante le aveva lasciate esauste e impoverite.
Nondimeno,
l’alleanza non produsse nulla. Invece, nel 1465, Mehmed mandò una piccola forza
a Karaman e cacciò Ishak, piazzando il suo cugino, Pir Ahmed, sul trono. Con il
pericolo sorto al suo confine orientale, nel 1466 il Sultano condusse una
spedizione ad ovest. Il suo obiettivo
era Scanderbeg – Giorgio Castriota – che aveva rioccupato i domini di suo padre
nel 1444, e da allora aveva resistito ai tentativi Ottomani di ricatturare le
sue terre. Per laf fine del 1466, l’esercito di Mehmed l’aveva confinato nella
fortezza di Krujë. Nell’inverno, comunque, egli
venne in Italia e, avendo ottenute truppe del re Ferrante di Napoli, fu capace
di rompere l’assedio di Krujë e ricatturare i suoi territori perduti. Nel 1467
Mehmed invase di nuovo l’Albania, costringendolo a fuggire. Egli morì nel 1468,
lasciando Krujë a Venezia. I Veneziani erano, di fatto, i beneficiari della
lotta di Mehmed in Albania, usando l’opportunità nel 1466 di impadronirsi
dell’isola di Imbros e delle terre intorno ad Atene. La risposta di Mehmed era
stata di cominciare la costruzione di una flotta, forse per attaccare
Negroponte, ma il contrattacco di Scanderbeg nel 1467 minò questi piani
Egli
non attaccò neanche i Veneziani nel 1468. Invece, preparò una campagna in Asia,
il cui scopo originario erano forse i territori del Sultano mamelucco di Siria.
Venne fuori, però, che il suo cugino karamanide, Pir Ahmed si rifiutò di unirsi
alla campagna o di agire come guida, frustrando ogni piano di attaccare i
Mamelucchi, dal momento che Karaman si estendeva tra il loro territorio e i
regni anatolici del Sultano. Invece Mehmed attaccò Karaman, occupando molti dei
domini di Pir Ahmed a nord dei monti Tauri e nominando suo figlio Mustafa come
governatore. Una seconda campagna nel 1469 consolidò la sua posizione.
Come
l’assenza di Mehmed impegnato in Albania aveva dato a Venezia l’opportunità di
catturare Imbros e una parte dell’Attica, la campagna karamanide diede al
capitano generale Veneziano Niccolò da Canal l’opportunità nel Luglio 1469 di
razziare Enez sulla costa della Tracia. Questa volta, comunque, la rappresaglia
fu rapida. Nel Giugno del 1470 una flotta, che un osservatore stimò in
quattrocento navi, lasciò i Dardanelli, mentre il Sultano conduceva un esercito
via terra. La destinazione di entrambe le forze era Negroponte, l’isola
Veneziana di fronte alla costa orientale della Grecia. La flotta ottomana era
troppo numerosa perché Canal potesse combatterla ed egli rimase un osservatore
nel momento in cui le truppe ottomane attraversarono un ponte dalla terraferma,
saccheggiarono l’isola e catturarono la sua capitale, Chalkis. Con la caduta di
Negroponte, Venezia aveva perso il suo più importante centro strategico e
commerciale nell’Egeo, ma questo non fu l’unico colpo subito. Dopo la conquista
dell’isola, una forza ottomana sotto il comando di Hass Murad Pasha – un rampollo della dinastia imperiale bizantina,
ricatturò molte delle fortezze del Peloponneso che Venezia aveva conquistato a
partire dal 1463.
Nondimeno,
a dispetto di questi disastri, Venezia rigettò un’offerta di pace che Mehmed
fece nel 1471, sperando senza dubbio che un’alleanza con Uzun Hasan avrebbe
portato ad una vittoria sul Sultano. Il conflitto tra Mehmed e Uzun Hasan era
invero inevitabile, la questione essendo chi doveva dominare Karaman. A
dispetto delle campagne ottomane del 1468 e del 1469, uno dei principi
karamanidi, Kasim, si era ribellato e, durante l’assedio ottomano di
Negroponte, aveva attaccato Ankara. In risposta, nel 1471 e 1472 Mehmed mandò due spedizioni a Karaman, sottomettendo non solo il nord del
paese, ma anche l’interno montuoso fino alla costa mediterranea. Fu durante la
seconda di queste campagne che Uzun Hasan attaccò, sostenendo di voler
reinstaurare il fuggitivo Pir Ahmed sul trono di Karaman, e Kizil Ahmed, figlio
di Isfendyaroghlu Ismail, a Sinope. In coincidenza con questa incursione,i
Veneziani fecero raid distruttivi contro i porti Ottomani di Antalya e Izmir.
Il figlio di Mehmed, il principe Mustafa, respinse l’incursione degli
Akkoyunlu,ma solo dopo che essa aveva causato gran danno e catturato la città
di Kayseri.
In
previsione di un altro attacco degli Akkoyunlu in Anatolia, i Veneziani,
all’inizio del 1473, organizzarono un sabotaggio dell’arsenale navale ottomano
di Gallipoli che ebbe parziale successo e in estate sbarcarono artiglieria
sulla costa del Mediterraneo, pronta per essere presa in consegna da agenti di
Uzun Hasan. A favore dei Karamanidi essi conquistarono Silifke ai piedi dei
monti Tauri. Nel frattempo, Mehmed preparò un esercito per combattere Uzun
Hasan e marciò verso est. Nel loro primo scontro, sull’alto Eufrate, all’inizio
dell’Agosto del 1473, gli Akkoyunlus sconfissero un distaccamento dell’esercito
ottomano ma, in una battaglia vicino Bayburt, Uzun Hasan fuggì, terrificato
dall’artiglieria ottomana. Egli non aveva bocche da fuoco e non aveva
recuperato quelle che i Veneziani avevano lasciato sulla spiaggia del
Mediterraneo.
La
scofitta di Uzun Hasan permise a Mehmed di attaccare gli alleati del Sultano
Akkoyunlu. Nel 1474 diresse raid dalla Bosnia nella terraferma Veneziana e
cominciò una campagna contro le fortezze Veneziane in Albania con un assalto a
Shkodër (Scutari) nel nord del paese. L’assedio fallì,
probabilmente per paura di un attacco ungherese. Nello stesso anno, Gedik Ahmed
Pasha condusse una campagna contro l’ultima roccaforte karamanide nella catena
dei Tauri. Nel 1474 l’emirato di Karaman era estinto.
Venezia
nel frattempo continuò a credere che sarebbe stato ancora possibile concludere
una pace col Sultano o costruire un’alleanza anti-ottomana coinvolgendo i
signori italiani, il Re di Polonia, il Re di Ungheria o il Granduca di
Moscovia. Le speranze aumentarono all’inizio del 1475, quando Süleyman
Pasha, il comandante ottomano all’assedio di Shkodër condusse i suoi esausti
uomini in Moldavia per punire il suo reggente, Stefano, per non aver pagato il
tributo dovuto al Sultano. Stefano mise in rotta l’esercito di Süleyman Pasha,
infliggendo pesanti perdite e aumentando le speranze dell’ambasciatore
Veneziano presso il Sultano di poter negoziare una pace. Tutto quello che
ricevette fu una promessa che la flotta ottomana non avrebbe attaccato i Veneziani
per sei mesi. Gli Ottomani mantennero questa promessa dal momento che nel 1475
la flotta salpò contro la città genovese di Caffa (Fodosiya) in Crimea.
L’occasione fu una richiesta di aiuto del Khan tataro di Crimea, le cui terre
circondavano Caffa e che ora, come risultato di una faida nella famiglia
regnante, si trovava rifugiato nella città. La flotta, sotto Gedik Ahmed Pasha,
catturò prima Caffa, e poi la città genovese di Tana (Azov) allo sbocco del
Don, e altre fortezza in Crimea. Il khan rifugiato, Mengli Giray, fu
reinstallato nel khanato ma come vassallo del Sultano ottomano.
La
cattura delle città genovesi in Crimea e la sottomissione del Khan tataro
confermò la già dominante posizione di Mehmed nella regione del Mar Nero, e fu
presumibilmente per rinforzare il suo controllo di quest’area che condusse il
suo esercito nel 1476 in un inconcludente campagna contro il ribelle Stefano di
Moldavia. Quando il suo esercito ritornò ad Edirne nell’Autunno, egli ebbe
notizia che durante la sua assenza gli ungheresi avevano costruito tre fortezza
tra il Danubio e la Morava per bloccare l’accesso a Smederovo. A dispetto di un
minacciato ammutinamento, il Sultano proibì al suo esercito di sciogliersi e
invece lo condusse attraverso la neve verso la Morava. I fossati dei forti
erano ghiacciati e fu avvicinandosi passando sul ghiaccio per porre delle
fascine contro le mura e minacciando di dare loro fuoco che gli attaccanti
forzarono la guarnigione ad arrendersi e così scongiurarono la minaccia a
Smederovo.
Le
campagne contro la Crimea, ma la Moldavia e le fortezze ungheresi avevano
distolto risorse ottomane da Venezia. Nel 1477 comunque, il Sultano attaccò la
citta Veneziana di Lepanto (Navpaktos) nel golfo di Corinto e la vecchia
cittadella di Skanderbeg, Krujë. Entrambi gli assedi fallirono,
ma lo stesso anno vide un raid nella terraferma Veneziana. Nel 1478, ci furono
rinnovati assalti in Albania, dove il
primo posto a essere messo sotto assedio era Shkodër. Fu anche l’ultimo a
cedere. Prima che il Sultano arrivasse presso la città in persona, si era
assicurato la caduta di Krujë. Giunto a Shkodër si rese conto che la cittadella
non sarebbe caduta se non si fosse prima impadronito dei luoghi intorno. A tal
fine mandò distaccamenti per catturare Zhabljak, Drisht e Lezhë. All’inizio
dell’autunno il corpo principale dell’esercito partì, lasciando Evrenosoghlu
Ahmed a continuare il blocco. Tentativi Veneziani di mandare rinforzi a Shkodër
fallirono.
All’inizio
del 1479 il senato Veneziano capì che non c’era altra scelta se non di fare la
pace col Sultano. Gli sforzi di creare un’efficace alleanza anti-ottomana
avevano fallito e Venezia da sola mancava delle risorse per continuare la
guerra. In Gennaio prese la decisione di cedere Shkodër,
e nei negoziati che seguirono , cedette l’isola di Limni e accettò di pagare un
tributo annuale di 10.000 ducati d’oro. La ratifica del trattato nell’Aprile
del 1479 portò alla fine quella guerra di sedici anni.
Ma
non portò alla fine le ambizioni di conquista di Mehmet. I suoi pensieri ora
erano rivolti probabilmente all’invasione della stessa Italia, dal momento che
l’obiettivo successivo furono le isole Ionie di Levkas, Cephalonia e Zante. Il
signore di queste isole era Leonardo Tocco, la cui moglie era una nipote di re
Ferrante di Napoli. La sua rimozione era pertanto necessaria se le truppe
ottomane dovevano attaccare il regno di Ferrante nel sud dell’Italia. Nel 1479,
comunque, Gedik Ahmed Pasha si impadronì delle isole e, l’anno successivo
attraversò l’Adriatico verso Otranto, all’estremità d’Italia, dove catturò e
occupò la fortezza. Mentre Gedik Ahmed operava in Italia, il Visir Mesih Pasha
condusse un attacco contro Rodi, la roccaforte dei Cavalieri di San Giovanni,
che li metteva in grado di predare le navi che passavano tra l’Egeo e il
Mediterraneo. Uno scopo dell’attacco era forse di preparare la via per una
invasione dei domini Mamelucchi di Siria e Egitto, una operazione che sarebbe
stata più sicura se il suotano poteva controllare il corridoio marittimo tra
Istanbul e la costa del levante e l’Egitto.
L’assedio
fu un fallimento. Nondimeno nel 1481 il Sultano condusse col suo esercito una
campagna ad oriente, apparentemente contro i Mamelucchi. Dopo pochi giorni di
marcia da Istanbul egli morì. Il suo esercito non lo rimpianse. Invece, i
giannizzeri tornarono ad Istanbul e assoggettarono la città a parecchi giorni
di saccheggio finché, come misura temporanea, il Gran Visir piazzò il nipote di
Mehmet, Korkud sul trono.
Alla
fine del suo regno Mehmed aveva consolidato ed esteso il territorio ottomano
fino a comprendere, in Europa, gran parte delle terre tra il Danubio e la Sava
a nord e il Peloponneso a sud. In Asia minore egli aveva aggiunto ai domini
Ottomani parti della costa del Mar Nero, la valle dell’alto Eufrate e il
vecchio emirato di Karaman. Questi due blocchi di territori dovevano
costituire, nei secoli successivi, il cuore dell’Impero Ottomano.
Il
regno del figlio di Mehmed II, Bayezid II (1481-1512) doveva mostrarsi molto
differente dai trent’anni di incessanti conquiste di suo padre. Una delle
ragioni era la personalità del nuovo Sultano. In contrasto con suo padre, che
si diceva egli odiasse, a Bayezid chiaramente non piaceva la guerra. Invero
alcuni sudditi lo criticarono sommessamente per la sua riluttanza a condurre un
esercito in battaglia. Comunque c’erano anche ragioni sociali e politiche. Con
la prosecuzione delle sue guerre Mehmed non solo aveva spinto all’esaurimento i
suoi uomini, ma aveva anche messo a dura prova le risorse fiscali dell’Impero. Egli
aveva levato imposte sui possedimenti dei contadini, aveva svalutato la moneta
d’argento e aveva, in modo ancora più controverso incamerato alcune proprietà
private o appartenenti a enti caritativi e le aveva redistribuite come feudi
militari. Questa misura aveva suscitato tanto scontento che una delle prime
misure di Bayezid fu di restituire le proprietà ai titolari originari. E da
ultimo, la sopravvivenza e la prigionia in Europa di suo fratello Gem
significava che i poteri europei tenevano un ostaggio che garantiva la
non-aggressione di Bayezis contro l’occidente.
Il
regno del nuovo Sultano iniziò con una guerra civile tra Bayezid e Gem. Lo
scontro terminò con la fuga di Gem che si affidò alla protezione dei Cavalieri
di San Giovanni, prima a Rodi e poi in Francia, dove la sua presenza come
ostaggio politico nelle mani dei cavalieri doveva dominare la politica estera
di Bayezid nella prima metà del suo regno. Nel 1483 egli convenne di pagare un
tributo annuale a Rodi per la sicurezza di Gem, trasferendo il suo pagamento a
Roma quando, nel 1489, Gem fu dato in custodia al Papa. Questo accordo con i
cavalieri e successivamente col Papa era di cruciale importanza per scongiurare
il pericolo sia di una guerra civile sia di una guerra con l’Europa cattolica.
Allo stesso tempo egli prese altre misure per assicurare la pace. Rifiutò di
consentire a Gedik Ahmed Pasha di ritornare ad Otranto e ratificò nel 1479 un
trattato con Venezia liberando i Veneziani dall’obbligo di versare un tributo.
Nel 1483, dopo una serie di razzie e contro-razzie attraverso il confine,
stipulò una tregua di 5 anni con Mattia Corvino re d’Ungheria. Nel 1490, egli
stabilì di non attaccare Venezia, gli stati papali o Rodi. Queste misure, egli
sperava, avrebbero assicurato che Ungheria, gli stati italiani e i Cavalieri di
San Giovanni non usassero Gem come un’arma contro l’Impero Ottomano. Con questi
mezzi egli sperava di rendere saldo il suo trono.
La
necessità di assicurare la pace con l’occidente non significava comunque
assenza di guerra. nel 1483 il governatore generale della Rumelia invase e alla
fine annetté l’Erzegovina e nell’anno seguente Bayezid guidò una spedizione
contro la Moldavia. Il pretesto erano i raid del voivoda Stefano contro la
Bulgaria, i suoi sforzi distaccare la Valacchia dal vassallaggio rispetto al
Sultano e gli attacchi a navi ottomane fatti da pirati con basi nel delta del
Danubio. L’esercito di Bayezid catturò prima Kilia e poi Akkerman, entrambi
importanti centri commerciali. Stefano contrattaccò nel 1485 ma non riuscì a
riprendere la fortezza, un fallimento che confermava il dominio ottomano sul
Mar Nero. L’anno 1485 vide anche l’inizio della guerra contro i Mamelucchi.
Un
conflitto tra questi due imperi islamici era probabilmente inevitabile.
L’annessione ottomana del Karaman aveva portato gli Ottomani e i Mamelucchi al
confronto diretto, con i monti Tauri che formavano un confine mal definito tra
i due poteri. la questione di chi dovesse assicurarsi la lealtà delle tribù
turcomanne della regione doveva rivelarsi una fonte di conflitto tra di essi,
come lo fu l’aiuto che Bayezid mando al sul vassallo Alaeddevle di Dulgadir, le
cui terre erano a ridosso sia del territorio ottomano che del territorio
mamelucco. Nel 1485 la guerra scoppiò quando Bayezid rigettò le proposte di
pace mamelucche e il governatore generale di Karaman occupò Adana e Tarso nella
Çukurova.
Nell’anno
seguente, i Mamelucchi rovesciarono questi successi. Un esercito memelucco
ricatturò Adana e poi, nella battaglia che seguì, catturò il governatore
generale dell’Anatolia, Hersekzade Ahemd Pasha, e altri notabili Ottomani. Fu
forse questa sconfitta che incoraggiò le tribù turcomanne dei monti Tauri a
sollevare una ribellione anti-ottomana intorno alla figura del pretendente al
trono di Karaman. Il Gran Visir ottomano Daud Pasha fu in grado di reprimere
questa ribellione nel 1487, ma la posizione ottomana era nondimeno divenuta
precaria. Consapevole che i Mamelucchi cercavano alleati cristiani e tentavano
al contempo di far sì che Gem venisse liberato, Bayezid preparò una nuova
campagna per il 1488. IN questo anno, come Hadim Ali Pasha condusse un esercito nella Çukurova,
Hersekzade Ahmed Pasha – liberato dalla prigionia al Cairo – si preparò ad
appoggiarla con una flotta. Anche questa spedizione fu un disastro, con i
Mamelucchi che si assicurarono una grande vittoria nella pianura tra Adana e
Tarso. Nello stesso anno, il vassallo di Bayezid, Alaeddevle di Dulgadir,
defezionò passando ai Mamelucchi. Allora, in 1490, come i Mamelucchi posero assedio
a Kayseri, Bayezid si preparò ad andare in guerra di persona. Questa minaccia,
sembra sia stata sufficiente a persuadere i Mamelucchi, che non avevano mai
posseduto le risorse per sfruttare il loro vantaggio militare, a negoziare. In
base alla pace conclusa nel 1491, gli Ottomani rinunciarono alle loro pretese
alla Çukurova e alle sue città, e fu ripristinato il confine anteguerra tra i
due poteri.
Con
la fine della guerra contro i Mamelucchi, Bayezid sperava di trarre vantaggio
dalla instabilità politica dell’Ungheria seguita alla morte di Mattia Corvino e
dalla apparente volontà della guarnigione di Belgrado di defezionare a favore
degli Ottomani. Quando arrivò a Sofia nel 1492, la crisi politica in Ungheria
era cessata con l’intronamento di un nuovo re. Invece, egli mandò raid entro
l’Ungheria e la Transilvania mentre conduceva un esercito in Albania per
sopprimere la ribellione di Giovanni Castriota che, secondo la tradizione della
sua famiglia, non aveva riconosciuto la signoria ottomana a partire dalla morte
di Mehmed II. La spedizione non fu del tutto coronata da successo: la
ribellione albanese continuò fino a poco
dopo il 1500. La spedizione ebbe comunque una imprevista conseguenza. Come
l’esercito ritornò attraverso Prilep un derviscio “nudo”, a piedi scalzi e a
capo scoperto tentò di assassinare Bayezid. Il terrorizzato Sultano ordinò –
invano, come risultò poi – l’espulsione di tutti i dervisci di tale setta dai
suoi regni e, cosa più importante, si ritirò in una certa misura dall’occhio
del pubblico. L’incidente segnò uno stadio nel processo graduale di
allontanamento dei sultani dal contatto con i propri sudditi.
Tre
anni più tardi, nel 1495, Bayezid fronteggiò la crisi che aveva temuto per 15
anni. Nel 1594 il re francese Carlo VIII invase l’Italia, catturò Roma e
assunse la custodia di Gem. Nel Gennaio 1495, con Gem come sua più potente
arma, annunciò una crociata contro i turchi,provocando panico ad Istanbul e il
rafforzamento delle sue mura per ordine di Bayezid. Per proteggersi da attacchi
da ovest Bayezid negoziò un trattato triennale con l’Ungheria e attese
l’invasione.
L’invasione
non ebbe mai luogo. In Febbraio Gem morì e gli eventi forzarono Carlo ad
evacuare l’Italia lasciando Bayezid in grado di trattare più liberamente con i
poteri europei. Per cominciare, ignorò la tregua con l’Ungheria, permettendo
alle truppe ottomane di catturare alcuni forti ungheresi in Bosnia. Rispose
anche all’appello del suo grande nemico, Stefano il grande, quando il re
Giovanni Alberto di Polonia, rifiutando di accettare la sovranità ottomana
sulla Moldavia provò a rimpiazzare Stefano col suo fratello, Sigismondo. Su
richiesta di Stefano gli uomini di Bayezid espulsero le truppe del re e nel
1498 razziatori Ottomani e tatari fecero una devastante razzia nella Polonia.
Bayezid riaprì anche le ostilità con Venezia. Era consapevole, comunque, delle
deficienze del potere navale ottomano: i successi che suo padre aveva ottenuto
sul mare erano dipesi da una schiacciante superiorità nel numero di navi e
uomini. Nel 1498, dunque, Bayezid aumentò le dimensioni della flotta e ingaggiò
corsari sperimentati come capitani navali. La pirateria doveva essere, nei
secoli successivi, la più importante scuola di arte della navigazione e di
guerra navale per i marinai Ottomani e i corsari dovevano provvedere gli
ammiragli Ottomani di Maggior successo. Fu Bayezid che stabili lo stretto
legame tra pirateria e flotta imperiale ottomana.
La
pirateria da entrambi di lati fu anche una delle cause di frizione che condusse
alla guerra con Venezia. Nel 1499, il rimpatrio del corpo di Gem dall’Italia e
il suo pubblico funerale rimossero la paura sempre presente che voci della
sopravvivenza del principe avrebbero potuto incoraggiare il dissenso e in
questo anno, Bayezid dichiarò guerra. La prima vittoria ottomana venne alla
fine di Agosto, con la caduta di Navpaktos nel golfo di Corinto. Allo stesso
tempo il Sultano mandò razziatori in territorio Veneziano in Dalmazia e poi in
Friuli, convincendo i Veneziani che avrebbero dovuto cercare di terminare la
guerra con la diplomazia. Comunque, l’ambasciata preso Bayezid fallì e nel 1500, essi soffrirono serie perdite con
la caduta in Agosto delle fortezze costiere di Methoni, Koroni e Navarino nel
Peloponneso.
Queste
perdite incentivarono una ulteriore attività diplomatica Veneziana. Alla fine
di Maggio 1501 i negoziatori avevano costruito una tripla alleanza tra il
papato, Venezia e l’Ungheria e, in aggiunta, persuasero i re di Francia e
Spagna a contribuire alla guerra. Con l’aiuto di questi alleati Venezia
cominciò a registrare delle vittorie. In Dicembre del 1500, con rinforzi
spagnoli occupò Cefalonia. Nel 1501 una flotta congiunta franco Veneziana
attaccò Mitilene, la principale fortezza di Lesbo ma non riuscì nell’intento.
Tuttavia nel 1502,con l’assistenza armata del papato, Venezia conquistò l’isola
di Lefkada, stabilendo almeno temporaneamente un dominio nelle isole Ionie con
il controllo di Corfu, Lefkada, Cefalonia e Zakynthos. Bayezid, comunque, compensò questa perdita con la cattura nello
stesso anno del porto Veneziano di Dürres nell’adriatico.
Entro
il 1502 la guerra aveva mandato in rovina Venezia e poiché Bayezid aveva
ottenuto i suoi obiettivi, egli era disposto a trattare la pace. In base al
trattato del 1503, mentre manteneva i privilegi commerciali, Venezia abbandonò
Methoni, Koroni, Navpaktos e Dürres e cedette Lefkada a Bayezid.
nello stesso anno, il Sultano concluse una tregua di sette anni con l’Ungheria.
La guerra aveva portato a Bayezid importanti guadagni territoriali in Grecia.
Lo scontro con gli artiglieri francesi all’assedio di Mitilene aveva insegnato
agli artiglieri Ottomani le tecniche di artiglieria più aggiornate.
Soprattutto, aveva stabilito l’Impero Ottomano per la prima volta come potere
navale.
Il
trattato del 1503 segnò l’inizio di un disimpegno ottomano dall’Europa che
doveva durare fino al 1521. Nelle prime due decadi del sedicesimo secolo,
furono gli eventi all’est che dovevano preoccupare di più i sultani. Il primo
segno di questi guai fu una rivolta nel 1500 dei turcomanni Turgut e Varsak dei
monti Tauri, raccolti intorno ad un pretendente karamanide. Il Gran Visir,
Mesih Pasha, fu capace di sopprimera la rivolta senza molto impegno. Questo
comunque era stato un incidente locale, laddove le future rivolte in Anatolia
dovevano acquisire un carattere internazionale ben più pericoloso. La ragione
per questo era lo stabilimento della dinastia Safavide in Iran
La
dinastia prende il suo nome dal suo antenato, Safiy al-Din, leader all’inizio
del quattordicesimo secolo di un ordine religioso ad Ardabil sul mar caspio.
Durante il corso del quindicesimo secolo la natura dell’ordine cambiò quando i
discendenti di Safiy al-Din cominciarono a proclamarsi divini e, allo stesso
tempo, adottarono le dottrine dell’islam sciita. Con la pretesa di divinità
venne anche una pretesa di potere politico e un attivo programma di
proselitismo non solo in Iran, ma anche in Siria, e soprattutto in Anatolia. I
sostenitori più attivi dell’ordine Safavide erano le tribù torcomanne dell’Anatolia,
molte delle quali migrarono in Iran. Fu il supporto di questi uomini,
conosciuti come kizilbash (“testa
rossa”) dal loro caratteristico copricapo, che portò lo Shah Ismail al potere a
Tabriz nel 1501. Furono loro che combatterono negli eserciti che sconfissero i
suoi nemici in Iran e Iraq. Nel 1501 Ismail si impadronì di Tabriz e di tutto
l’Azerbaijan; nel 1503, sconfisse l’ultimo Akkoyunlus ad Hamadan e estese il
suo governo all’Iran centrale e meridionale. Nel 1504 conquistò le province di
Mazendaran e gurgan sul mar caspio. Tra il 1505 e il 1507 annetté Diyarbekir a
nord della Sira. Nel 1508 conquistò l’Iran sud-occidentale e Baghdad. Shirvan
seguì nel 1509, e Korasan nel 1510. Nel giro di dieci anni, dunque, Ismail
aveva stabilito un’entità politica che era alla pari dell’Impero Ottomano
quanto a risorse; che nella sua professione sciita professava una religione che
era ostile al sunnismo dei sultani Ottomani; e il cui leader messianico
reclamava la fedeltà di molte migliagia di sudditi del Sultano.
La
reazione di Bayezid a questo nuovo pericolo fu molto cauta. Quando Ismail
chiamò a raccolta i suoi aderenti a Erzincan nell’Anatolia orientale prima del
suo ingresso a Tabriz, Bayezid mandò un esercito sul suo confine occidentale ma
non intervenne. Dopo che Ismail ebbe proclamato se stesso Shah nel 1501,
Bayezid ordinò l’arresto dei simpatizzanti Safavidi nei suoi regni e la loro
deportazione nel Peloponneso. Chiuse anche il suo confine orientale per quanto
poteva fare. Comunque, dal momento che non fermò anche il traffico carovaniero
i missionari Safavidi furono in grado di entrare nei suoi regni attraverso
questa via. Bayezid cercava di non provocare guerra. Egli era pronto, nel 1505,
a ricevere unì’ambasceria da Ismail che avanzò pretese su Trebisonda e protestò
per i raid che l’allora governatore di Trebisonda, il figlio di Bayezid Selim,
aveva effettuato in territorio safavide. Nel 1507, anche Bayezid consentì allo
Shah Ismail di attraversare il suo territorio in una campagna contro Dulgadir,
di nuovo semplicemente mandando un esercito al confine come precauzione.
La
timidezza di Bayezid di fronte al pericolo costituito dai Safavidi furono il
prodotto sia della sua età che della sua infermità. Queste furono le cause di
un’altra crisi nei suoi ultimi anni, la lotta per la successione tra i suoi
figli , Korkud, Ahmed e Selim.
Fu
durante il corso di questo conflitto,
nell’Aprile del 1511, che una terrificante ribellione scoppiò a Teke, nella
Anatolia sud-orientale, l’area sotto il governo del principe Korkud. Il suo
leader era un certo Shah Kulu – “schiavo dello Shah” il cui padre era stato al
servizio del nonno dello Shah Ismail, Sheikh Hayder. Alla morte di suo padre,
Shah Kulu aveva mandato agenti per fare proselitismo alla causa safavide nella parte orientale della Rumelia, mentre i
suoi aderenti locali a Teke pretendevano, come riporta il principe Korkud che
“egli è dio, egli è un profeta. Il giorno del giudizio sarà di fronte a lui.
Chiunque non obbedisce a lui è senza fede”. Non furono solo i credenti che si
unirono alla ribellione. Secondo dei resoconti, molti dei suoi seguaci erano
cavalieri, che sostenevano che dei truffatori li avevano privati dei propri
feudi lasciandoli indigenti. Di fronte alla ribellione Korkud si ritirò a Manisa
mentre i ribelli sconfiggevano la forza che egli aveva mandato contro di loro e
occupavano Antalya. La vittoria successiva dello Shah Kulu nella sua avanzata
verso nord fu contro il governatore generale dell’Anatolia, Karagöz
Pasha. Come Shah Kulu si avvicinò a Kütahya, Karagöz Pasha attaccò di nuovo ma,
in un contrattacco, Shah Kulu lo sconfisse e lo uccise, impalandolo e – secondo
quanto riportato dal principe Korkud a Bayezid – arrostendo il suo corpo. Da
Kütahya avanzò fino a Bursa. Fu per una urgente richiesta da Bursa che finalmente in Giugno il Gran Visir Hadim
ali Pasha e il principe Ahmed condussero una forza contro i ribelli, forzando
Shah Kulu a ritorarsi nel Karaman e poi a Sivas. Hadim Ali, nel frattempo,
lasciò il principe Ahmed e si pose all’inseguimento con un piccolo
distaccamento di giannizzeri. Lo scontro vicino Sivas fu l’ultima vittoria di
Shah Kulu. Egli sconfisse e uccise Hadim Ali, ma sembra che egli stesso
rimanesse ucciso, lasciando i ribelli senza un capo a fuggire attraverso il confne
verso l’Iran.
La
ribellione di Shah kulu aveva screditato sia il governo di Bayezid sia le
pretese alla successione di Korkud, che aveva abbandonato Teke ai ribelli e
Ahmed, la cui caccia ai ribelli era stata senza apprezzabili risultati. E’
chiaramente con questa consapevolezza che Selim si ribellò. Nell’Aprile del
1512 entrò nella capitale e dodici giorni dopo Bayezid abdicò a suo favore. Il
vecchio Sultano morì nel Giugno seguente.
Il
regno di Bayezid, a dispetto della guerra civile al suo inizio e alla sua fine
e della sconfitta nella guera contro i Mamelucchi segnava uno stadio importante
nell’evoluzione dell’Impero. Il fallimento ottomano conto i Mamelucchi aveva
indotto il Sultano a migliorare le armi dei giannizzeri e a rendere più stretto
il controllo dei cavalieri nelle province. La sua ricostruzione della flotta e
il suo incoraggiamento dei capitani corsari aveva prodotto una flotta che
eguagliava quella di Venezia e aveva esteso il potere navale ottomano nel
Mediterraneo. Le sue conquiste, in paragone a quelle di suo padre erano
limitate ma nondimeno significative, estendendo il controllo ottomano sul
litorale del Mar Nero e del Peloponneso e pacificando l’Albania. Più importanti
comunque furono le sue innovazioni istituzionali. Fu Bayezid che iniziò la
sistematica codificazione della legge consuetudinaria ottomana che,
essenzialmente, regolava i rapporti tra gli assegnatari di feudi e i contadini
sulla loro terra e le obbligazioni militari di tali assegnatari. Fu così nel
regno di Bayezid che ciò che quelle che oggi si definiscono “istituzioni
ottomane classiche” ricevettero la loro “classica” formulazione.
CRONOLOGIA:
L’APOGEO DELL’IMPERO, 1512-1590
La
Prima preoccupazione di Selim I (1512-1520), dopo essersi assicurato il trono,
fu di sconfiggere e uccidere i suoi fratelli. Il suo obiettivo successivo fu la
distruzione dei Safavidi e dei loro seguaci entro il suo regno. La sua campagna
iniziò con una investigazione nelle regioni dove Shah Kulu e ribelli di minor
conto avevano reclutato seguaci e continuò con la esecuzione di capibanda e la
rimozione di assegnatari di feudi che avevano agito slealmente. Poi preparò
l’attacco allo Shah Ismail. La fonte immediata che lo provocò fu l’aggressione
safavide a Tokat nel 1512, nonché il sostegno dello Shah Ismail al principe
Ahmed nella guerra civile e il fatto che aveva dato rifugio, subito dopo, al
figlio di Ahmed, il principe Murad. Selim ottenne anche, in una mossa che
chiaramente definiva una nuova pretesa degli Ottomani di essere i difensori
dell’islam sunnita, una fatwa che
dichiarava Ismail e i suoi difensori eretici, la cui distruzione era non solo
legittima, ma anche obbligatoria. Con questo appoggio legale per la sua azione,
Selim lasciò Istanbul per intraprendere la campagna contro lo Shah Ismail.
Nell’Agosto
del 1514 l’esercito di Selim ottenne una schiacciante vittoria a Chaldiran in Azerbaijan. La cavalleria
safavide, come Uzu Hasan nel 1473, non poté resistere all’artiglieria
dall’accampamento fortificato al centro della linea di battaglia di Selim. Da
Childiran Selim marciò verso est e entrò a Tabriz con l’intenzione di continuare la campagna il successivo anno.
I gianizzeri comunque rifiutarono di passare l’inverno a Tabriz, costringendolo
a ritirarsi ad Amasya.
A
dispetto di questo smacco Selim non abbandonò la guerra contro i Safavidi, ma
nei due anni seguenti la battaglia di Chaldiran li espulse dal sud-est
dell’Anatolia e da gran parte dell’Anatolia orientale e dell’Iraq del nord. Egli
ottenne questo in parte attraverso la persuasione. Il suo inviato era un uomo
di cultura curdo e notabile, Idris di Bitlis, che aveva servito inprecedenza
sotto i sovrani Akkoyunlu. Nel 1515 Selim lo mandò ad assicurarsi la alleanza
dei capi curdi dell’Anatolia del sud-est e del nord dell’Iraq, e per la fine
dell’anno tutti eccetto uno avevano riconosciuto la signoria di Selim. Tra i
capi curdi fedeli a Selim c’era Sharaf al-Din, che offrì la sua alleanza a
Selim in cambio del riconoscimento dei suoi diritti ereditari come sovrano di
Bitlis.
Il
comandante delle operazioni militari fu Biykli (“che porta i mustacchi”) Mehmed
Pasha, il conquistatore di Bayburd e Kigi, che Selim aveva installato come
governatore di Erzincan dopo la vittoria a Chaldiran. La prima azione di Mehmed
Pasha nel 1515 fu di assediare l’importante fortezza di Kemah nell’alto
Eufrate. Kemah cadde in Maggio e, all’incirca nello stesso momento,
imbaldanziti dalle vittorie ottomane e dalla propaganda di Idris, gli abitanti
di Amid (Diyarbakir) si ribellarono contro i loro governanti Safavidi. La
risposta safavide fu di sottometterla ad un assedio che durò fino a Settembre,
quando Mehmed Pasha arrivò con una numerosa forza curda e prese possesso della
città. Da lì procedette a Mardin e prese la città, ma non la cittadella.
Nell’estate del 1516, la sconfitta ad opera sua dell’ultimo esercito safavide
che rimaneva in Anatolia condusse alla sottomissine di Sincar, Ergani, Siverek,
Birecik e Urfa. Alla fine della guerra, la cittadella di Mardin capitolò,
estinguendo completamente il dominio safavide nell’Anatolia del sud-est, e
dando all’Impero Ottomano un esteso confine con il reame mamelucco in Siria.
Per
allora, Selim aveva anche esteso la sua sfera di influenza fino ad includere
Dulgadir e la regione di Adana, la scena delle sconfitte ottomane nella guerra
del 1485-90. A Dulgadir sfruttò una frattura tra i membri della dinastia
regnante. Nel 1514 Allaeddevle di Dulgadir si era rifiutato di partecipare alla
campagna di Chaldiran, ma il suo nipote ribelle, Ali, aveva combattuto con
l’esercito ottomano e, come ricompensa Selim l’aveva nominato governatore di
Kayseri, un distretto i cui territori confinavano con Dulgadir. Nel 1515, con
l’assistenza di un esercito ottomano
sotto il governatore generale della Rumelia, ali attaccò e sconfisse Alaeddevle
e, come riconoscimento della vittoria, Selim lo nominò reggente del principato.
Nello stesso anno, Selim ottenne evidentemente la fedeltà di Ramazanoghlu Piri,
il governatore ereditario di Adana, dal momento che lo nominò governatore
ottomano di Adana e dei distretti circostanti.
I
territori delle dinastie Ramazanoghlu e Dulgadir avevano formato una zona
cuscinetto tra Ottomani e Mamelucchi, e l’imposizione della sovranità ottomana
su entrambi, insieme con l’occupazione ottomana di Diyabekir doveva certamente
rendere tese le relazioni tra Selim e il Sultano mamelucco, Qansuh Ghawri,
epersuadere Qansuh a ricevere favorevolmente una ambasceria che arrivò dallo
Shah Ismail, proponendo un’alleanza contro il Sultano ottomano. Consapevole
della possibilità di una alleanza malelucco-safavide, nel 1516 Selim si preparò
a condurre una spedizione in oriente. In Giugno, egli lasciò Istanbul,
congiungendosi con la parte principale dell’esercito ad Elbistan nel territorio
di Dulgadir. Sembra che a questo punto Selim fosse incerto se procedere verso
est contro Ismail o se attaccare i Mamelucchi in Siria. Alla fine fu l’azione
del Sultano mamelucco che lo costrinse a prendere una decisioine. Temendo una
invasione ottomana Qansuh aveva guidato il suo esercito dal Cairo ad Aleppo e
aveva anche, come scoprì Selim, cercato aiuto presso lo Shah Ismail. Selim
chiaramente non poteva attaccare Ismail
con una armata mamelucca al suo confine.
All’inizio
di Agosto, comunque, cominciò la marcia contro Qansuh. Il 24 Agosto gli
eserciti si incontrarono a Marj Dabiq, a
nord di Aleppo, e, di nuovo sembra che sia stata la superiorità
dell’artiglieria ottomana ad aver provocato la rotta dei Mamelucchi. Lamorte in
battaglia del Sultano mamelucco e la fuga dell’esercito egiziano consentì a
Selim di occupare la Siria quasi senza resistenza. All’inizio di Ottobre 1516
egli entrò a Damasco e, non essendovi alcuna truppa egiziana a nord della
penisola del Sinai, nominò governatori Ottomani di Aleppo, Damasco, Tripoli,
Gerusalemme e altri distretti della Siria, del Libano e della Palestina. A
questo stadio sembra che non avesse ancora deciso di invadere l’Egitto. I
pericoli dell’attraversamento del deserto del Sinai, e il pericolo di un attacco
da Ismail consigliavano cautela. Alla
fine, comunque, le esortazioni di Khairbay, un ex comandante mamelucco del suo
entourage, e l’azione del successore di Qansuh, Tumanbay, che scatenò un
contrattacco a Gaza e giustiziò un ambasciatore ottomano condusse Selim ad
abbandonare le sue cautele. All’inizio
del Gennaio del 1517 lasciò Gaza, attraversò il deserto col suo esercito
e, alla fine del mese, sconfisse l’esercito di Tumanbay a Raydaniyya, fuori del
Cairo. Rimase al Cairo fino alla fine dell’anno. Trascorse l’inverno del
1517-1518 a Damasco, pianificando una
nuova campagna. Quando, tuttavia, l’esercito si riunì a Maggio sull’eufrate,
esso si rifiutò di muoversi ulteriormente. Per la seconda volta le ambizioni di
Selim avevano perso il contatto con la
capacità delle sue truppe.
Egli
tuttavia continuò a pianificare, ad estendere l’arsenale navale ad Istanbul e a
preparare una grande flotta, la cui destinazione i Veneziani supposero fosse
Rodi. Assunzione ragionevole dal momento che, fino a quando Rodi rianeva
inpossesso dei cavanleri di malta, la rotta via mare tra Istanbul e le province
di Egitto appena conquistate non sarebbe stata mai sicura. Questi preparativi
navali segnarono uno stadio importante nell’emergere dell’Impero Ottomano come potenza marittima, coincidendo, come
essi coincisero, con un’espansione del territorio musulmano nel Mediterraneo
occidentale. Questo fu il risultato di una impresa privata. Nella prima decade
del sedicesimo secolo due fratelli, Hayreddin Barbarossa e Uruj, erano stati
attivi come pirati lungo le coste
meridionali e occidentali dell’Anatolia, godendo della protezione del figlio di
Bayezid, Korkud. L’esecuzione di Korkud da parte di Selim e la persecuzione dei
suoi sostenitori nel 1513 costrinse i fratelli a fuggire nelle coste del
Nordafrica, dove si stabilirono non semplicemente come pirati, ma alla fine
come signori di Tunisi e Algeri. Nel 1519, comunque Hayreddin si trovò in una
posizione difficile. Suo fratello era morto; sul continente egli frontggiava
una opposizione politica locale; e sul mare fronteggiava il potere marittimo
della Spagna. Egli quindi aveva bisogno di un protettore e lo trovò nel Sultano Ottomano. Tunisi e
Algeri divennero province ottomane semi-autonome, estendendo il potere del
Sultano nel Mediterraneo occidentale e segnando l’inizio di un lungo conflitto
con la Spagna.
Selim
morì nel 1520. Il suo regno di otto anni aveva raddoppiato le dimensioni
dell’Impero che aveva ereditato agiungendo ad esso il precedente territorio
safavide nell’Anatolia orientale e sud-orientale; tutti i territori dell’Impero
mamelucco in Egitto, Siria, Libano, Palestina ed Hejaz; e in aggiunta Tunisi ed
Algeri nel Nordafrica. L’acquisizione dai Mamelucchi delle tre città di Medina,
Mecca e Gerusalemme diede ai sultani Ottomani la supremazia tra i monarchi
musulmani e avallarono la pretesa di Selim di essere il solo difensore
ell’ortodossia islamica contro l’eresia safavide. Comunque, a fronte di questa
gloria ci fu anche un memento della forza della propaganda safavide e della
opposizione al governo ottomano in Anatolia, specialmente tra i popoli tribali.
Nel 1519 apparve nel’Anatolia centrale un ribelle ispirato alla religione
chiamato Jelal, le cui pretese di divinità richiamavano quelle di Shah Kulu. Le
truppe ottomane soffocarono l’insurrezionie solo con la più grande difficoltà.
La
successione a Selim I fu pacifica, dal momento che il suo unico figlio,
Süleyman, non aveva fratelli che gli disputassero il trono. In Siria, comunque,
egli fronteggiò subito una sfida, quando il governatore generale di daasco,
Janbedi Ghazali, un ex mamelucco che si era aleato con Selim, si dichiarò
sovrano indipendente. Una campagna condotta da Shehsuvaroghlu Ali di Dulgadir e
dal governatore generale della Rumelia immediatamente soppressero la ribellione
di Janberdi, mentre il nuovo Sultano si preparava per la sua prima campagna. Al
momento della sua ascesa al trono egli mandò un ambasciatore al principe Lajos
di Ungheria per rinnovare il trattato che suo padre aveva concluso con il re.
Lajos, però, forse aspettandosi che Janberdi avesse la meglio, trattò con
disprezzo l’ambasciatore. Nel 1521, dunque, Süleyman condusse la sua prima
campagna contro l’Ungheria.
L’obiettivo
della spedizione era Belgrado e in Luglio il Sultano mandò il Gran Visir avanti
con una piccola forza per assediare la città. Lui stesso, invece di andare
dritto a Belgrado, assediò e catturò Šabac sulla Sava a ovest, mandando
una forza armata attraverso il fiume a saccheggiare il territorio tra essa e il
Danubio. Questa azione diversiva non aveva alcuno scopo, e se il Gran Visir non
avesse disobbedito all’ordine di congiungersi con Süleyman a Šabac, è
improbabile che Belgrado sarebbe caduta. Comunque, la città aveva una
guarnigione di soli settecento uomini e, senza un’azione di soccorso da parte
del Re, cadde alla fine di Agosto del 1521. Questa fu la prima grande vittoria
di Süleyman. Per la seconda campagna del suo regno, Süleyman fu capace di fare
uso della marina di suo padre. Nell’estate del 1522, una flotta e un esercito
partirono per Rodi, il Sultano stesso viaggiando via terra fino a Marmara. Nel
Dicembre del 1522, dopo un assedio di cinque mesi, e a dispetto della forza
delle fortificazioni, Rodi capitolò. Il primo Gennaio 1523 i Cavalieri di San
Giovanni lasciarono l’isola. Il loro
ordine, comunque continuò ad esistere e, dalla loro nuova base di Malta,
continuarono ad abbordare navi musulmane.
La
conquista di Belgrado e di Rodi erano doppiamente importanti. In primo luogo,
stabilivano la reputazione di Süleyman come del Sultano che aveva avuto
successo laddove i suo grande antenato, Mehmed il conquistatore, aveva fallito.
In secondo luogo, entrambi i luoghi erano strategicamente importanti. Belgrado
alla confluenza del Danubio e della Sava era la chiave per conquistare
l’Ungheria dal sud. Rodi occupava una posizione di rilievo nei confronti dei
bracci di mare che conducevano dal
Mediterraneo verso l’Egeo e in particolare la rotta tra Istanbul e l’Egitto.
La
spedizione successiva di Süleyman sfruttò la sua vittoria a Belgrado. Le
relazioni diplomatiche con l’Ungheria non erano migliorate e allora, nel 1525,
i giannizzeri si ribellarono lamentando che la mancanza di campagne li aveva
privati dell’opportunità di bonus e di saccheggi. Nel 1526, Süleyman condusse
il suo esercito in Ungheria e il 29 Agosto mise in rotta l’esercito ungherese a
Mohacs. Il fuoco dell’artiglieria ottomana si era dimostrato fatale per la
cavalleria pesante ungherese. In Settembre Süleyman entrò a Buda, la capitale,
lasciandola dieci giorni dopo facendo scoppiare
una crisi che doveva occuparlo attraverso tutto il suo regno. Fu una
crisi, in Anatolia, a costringerlo a ritornare in fretta ad Istanbul. In un
momento in cui l’esercito imperiale era vittorioso in Ungheria, una ribellione
era scoppiata nell’Anatolia centrale, che richiedeva un deciso intervento di
forza per essere riportata sotto
controllo. Così nel 1527, una seconda e più feroce ribellione sotto la guida di
un derviscio millenarista chiamato
Kalenderoghlu sconfisse l’esercito che Süleyman avava mandato a sopprimerlo. Ci volle
l’abilità politica del Gran Visir Ibrahim Pasha, per sconfiggere i ribelli. Il
problema era che il 1522 aveva visto l’annessione ottomana di Dulgadir, e
l’esecuzione del suo ultimo sovrano indipndente Shehsuvaroghlu Ali. Allo stesso
tempo, gli assegnatari di feudi di Dulgadir avevano perso i loro feudi, cosa
che aveva condotto molti di loro ad unirsi alla ribellione di Kalenderoghlu.
Con la promessa della restituzonie dei loro feudi, Ibrahim Pasha li staccò dal
nucleo di ribelli, per poi vincere in battaglia questo gruppo di diminuita
consistenza. Questa non fu l’ultima ribellione. Ci furono ulteriori
sollevazioni nella Čukurova nel 1528 e, per il
resto del secolo, fu solo stabilendo una rete di informatori, particolarmente
contro i simpatizzanti dei Safavidi, che Süleyman e i suoi successori
mantennero ordine in Anatolia.
La
più grave crisi politica comunque, fu in Ungheria. Il re Lajos aveva perso la
vita nella battaglia di Mohacs e, quando Süleyman lasciò il paese nel 1526, il
trono ungherese era vacante. In Novembre, gli stati ungheresi elessero Janos
Szapolyai come suo successore. Comunque l’Arciduca Ferdinando d’Austria, della
famiglia degli Asburgo, fratello del sacro romano imperatore e re di Spagna
Carlo V, e fratellastro di re Lajos – non accettò la decisione e, in Dicembre,
si fece incoronare re di Ungheria. L’arbitro della disputa fu il vincitore di
Mohacs e nel 1528 Süleyman, non sorprendentemente, accettò Szapolyai come re.
Ferdinando rigettò la decisione e occupò Buda. La campagna di Süleyman del 1529
fu l’inizio di un conflitto ottomano-asburgico che doveva durare fino al
ventesimo secolo. Il Sultano marciò sull’Ungheria, rioccupò Buda, e in autunno
cinse d’assedio vienna. Il 14 Ottobre Süleyman, contrastato dal maltempo e da
una difesa molto determinata, si ritirò. Nel 1530 Ferdinando assediò Buda di
nuovo. Non ebbe successo, ma la sua occupazione della parte occidentale del
regno di Ungheria e le sue continue pretese alla corona ungherese resero
necessario per Süleyman intervenire ancora una volta in aiuto di re Szapolyai.
La campagna non fu di conquista: l’esercito ottomano riuscì solo, dopo un lungo
assedio, a catturare Koszeg e a fare raid in Stiria, ma fu sufficiente per
costringere gli Asburgo ad una tregua. Un accordo del 1533 confermò la
divisione esistente dell’Ungheria, con Ferdinando e Szapolyai che governavano i
rispettivi territori come tributari Ottomani.
La
tregua rese possibile a Süleyman di intraprendere una campagna contro i
Safavidi, per la quale il pretesto era stato fornito da due eventi. Dapprima,
nel 1528, un governatore safavide di Baghdad aveva offerto la città agli
Ottomani e, sebbene lo Shah Tahmasb I lo aveva giustiziato poco dopo, l’offerta
fornì il pretesto per successive pretese. Successivamente, Il governatore
safavide dell’Azerbaijan, Ulama Tekelu, aveva abbandonato gli Ottomani nel 1530
e allo stesso tempo orchestrato la disgrazia di Sharaf al-Din di Bitlis, che
allora offrì la sua lealtà a Tahmasb. Ordinando ad Ulama di catturare Bitlis,
cosa che questi non fece, Süleyman preparò una campagna. Nel 1533, il Gran
Visir ibrahim Pasha riprese Bitlis e, nel 1534, occupò Tabriz senza alcuna
resistenza da parte dello Shah. In quello stesso anno, Süleyman si unì con le
sue truppe a Ibrahim Pasha a Tabriz e poi condusse l’esercito a Baghdad che si
arrese alla fine di Novembre,di nuovo senza resistenza. Da Baghdad, l’esercito
intraprese una difficile marcia attraverso i monti Zagros verso Tabriz. Quando
il Sultano ritornò ad Istanbul nel 1536, egli aveva aggiunto all’Impero
Baghdad, Erzurum e, temporaneamente, Van.
A
dispetto del suo successo in terra nel rendere sicuri i confini occidentali e
nell’espandere i suoi territori orientali, Süleyman capì chiaramente che il suo
potere marittimo non era eguale a quello delle flotte cristiane riunite. In
particolare la flotta spagnola con base a Messina e le navi dei Cavalieri di
San Giovanni rimasero un pericolo costante e fu presumibilmente con questo in
mente che invitò Hayreddin Barbarossa a venire da Algeri per servire come
ammiraglio. La minaccia spagnola si concretizzò due anni più tardi quando, nel
1535, Carlo V – sacro romano imperatore e re di Spagna – condusse personalmente
una spedizione contro Tunisi. Questa vittoria spagnola, insieme con lo
scoppiodella guerra con Venezia l’anno seguente, condussero Süleyman ad
accettare le proposte di alleanza del re di Francia Francesco I, che necessitava
di un alleato contro il suo arcinemico Carlo V.
Nel
1537 Süleyman e Francesco pianificarono un attacco combinato ai territori
asburgici in italia. Francesco doveva invadere la lombardia, mentre Süleyman
doveva lanciare un attacco via mare dall’Albania al regno di Napoli, con
l’assistenza della flotta francese. Il piano fallì, Francesco non invase
l’Italia e in Agosto, invece di invadere Napoli, il Sultano assediò l’isola
Veneziana di Corfù mandando razziatori contro Bridisi e Otranto dalle quali si
ritirò quando non gli giunsero notizie dell’avvicinarsi del re di Francia.
Anche l’assedio di Corfù si rivelò un fallimento e in Settembre Süleyman si
ritirò. Nondimeno, la guerra con Venezia continuò. Nel 1538 Barbarossa catturò
gran parte delle isole Veneziane nell’Egeo che erano rimaste in mani Veneziane,
incluse Naxos, Paros, Santorini e Andros. La risposta Veneziana fu di cercare
alleati e in Febbraio del 1538 la Lega Santa di Papa Paolo III, Carlo V,
Ferdinando d’Austria e Venezia venne ad esistenza. Il momento per agire venne
nello stesso anno quando, dopo la cattura spagnola di Kotor sulla costa
dalmata, la sua flotta combinata sotto Andrea Doria intrappolò le navi di
Barbrossa nel Golfo di Prevesa. La battaglia che seguì fu la più famosa
vittoria di Barbarossa. Dopo aver sconfitto gli alleati, egli riprese Kotor,
forzando la guerra a raggiungere una conclusione nel 1540. In base al trattato
di quell’anno Venezia cedette a Süleyman le isole che Barbarossa aveva
catturato nell’Egeo, e anche Monemvasia e Navplion nel Peloponneso.
Süleyman
nel frattempo aveva condotto le sue truppe nel 1538 contro il voivoda di
Moldavia, Petru Rareş, che non aveva pagato il
tributo dovuto al Sultano, e che Süleyman sospettava di collaborare con
Ferdinando e di incitare il re di Polonia. In conseguenza dell’invasione,
Süleyman annetté il sud est della Moldavia, incluso il porto di Bendery sul
Dniestr, completando così il collegamento via terra tra Istanbul e la Crimea.
Gli
anni ’40 del 1500 videro un rinnovarsi del conflitto asburgico-ottomano e di
nuovo, come nel decennio precedente, il suo punto focale fu l’Ungheria, con un
teatro di guerra sussidiario nel Mediterraneo. La fonte del conflitto era un
trattato che Ferdinando di Austria aveva concuso con il re Szapolyai nel 1538.
In base ai suoi termini, ciascuno riconosceva il territorio dell’altro, ma le
terre di Szapolyai sarebbero passate alla sua morte a Ferdinando, facendone il
solo sovraano dell’Ungheria. Nel 1540 il re Szapolyai morì, lasciando un figlio
minorenne che il vescovo di Varasd, Giorgio Martinuzzi, si adoperò per fare
eleggere come re a Buda. Ferdinando cercò immediatemente di far valere le sue
pretese e in Settembre prese d’assedio Buda. L’operazione fu un fallimento, ma
nondimeno il suo esercito catturò Vác, Visegrad e Székesfehervár. Nel
1541 egli tentò di nuovo, ma Martinuzzi
resistette sufficientemente a lungo perché l’armata del Sultano venisse
e mettesse in rotta gli assedianti. Alla fine di Agosto, comunque, quando i
Giannizzeri occuparono la cittadella di Buda, divenne chiaro a Martinuzzi che
Süleyman non intendeva dichiararlo reggente di Ungheria. Invece, il Sultano
nominò un governatore generale ottomano per la parte centrale del Regno di
Ungheria e nominò il minore Giovanni Sigismondo come re di Transilvania – la
parte più orientale del Regno – sotto la tutela di Martinuzzi che, frustrato
nelle sue ambizioni, prese contatto con Ferdinando.
L’assedio
di Ferdinando a Buda era solo una delle azioni degli Asburgo contro Süleyman
nel 1541. Nello stesso anno, in coincidenza con l’assalto all’Ungheria, e
sperando senza dubbio di ripetere il successo che aveva ottenuto a Tunisi nel
1535, Carlo V condusse un attacco ad Algeri. L’impresa finì in un disastro.
Dopo che Hasan agha ebbe respinto gli
assedianti una violenta tempesta distrusse gran parte della flotta spagnola.
L’offensiva degli Asburgo del 1541 condusse non solo a una sconfitta sul campo,
ma incoraggiò anche Francesco I re di Francia a rinnovare l’alleanza con
Süleyman contro il loro comune nemico asburgico. Nella tarda estate del 1542,
quando l’esercito di Ferdinando attaccò Buda per la terza volta, un
ambasciatore francese conduceva negoziati ad Istanbul. Egli ritornò con
l’accordo per una azione congiunta nel 1543. Nella primavera di quell’anno Süleyman
condusse il suo esercito in Ungheria, estendendo i propri confini fino ai territori ad
occidente del Danubio con la cattura di Valpo, Siklos, Pecs, Székesféhervar e
Esztergom. Nel frattempo, la sua flotta sotto il comando di Hayreddin
Barbarossa prese d’assalto Nizza e svernò nel porto francese di Tolone.
Per
quanto l’apparire della flotta di Süleyman nel Mediterraneo possa essere
sembrata minacciosa agli Asburgo, il danno era solo temporaneo. Barbarossa si
era appoggiato ai francesi e una pace tra Carlo V e Francesco I pose
temporaneamente fine alla cooperazione franco-ottomana. In Ungheria, comunque,
la guerra continuava. Süleyman stesso non condusse più spedizioni, ma nel 1544,
il governatore generale di Buda catturò ulteriori fortezze asburgiche, incluso
Nógrad,
Hatvan e Simontornya nel nord-est di Buda. Nello stesso anno Ferdinando fece le
prime mosse verso la pace. Nel 1545 lui e il suo fratello Carlo V mandarono
ambasciatori ad Istanbul. Nel 1547 conclusero un trattato valido cinque anni
con Süleyman, che confermava lo status
quo territoriale. Ferdinando,
comunque, rinunciò alle sue pretese sul regno di Ungheria e convenne di pagare
30.000 ducati ogni anno per il territorio ungherese che egli continuava a
governare. Per Süleyman, il trattato aveva anche un significato simbolico, dato
che il testo non si riferiva più a Carlo come “imperatore”, ma semplicemente
come “re di Spagna” e fu da questo momento che il Sultano ottomano si considerò
“imperatore dei romani” o “Cesare”.
La
pace con gli Asburgo, come la pace nel 1533, lasciò Süleyman libero di condurre
una spedizione contro l’Iran, il pretesto per l’azione essendo la rivolta del
fratello dello Shah Tahmasb, Alqass Mirza, che aveva trovato rifugio presso la
corte ottomana. All’inizio del 1548, il Sultano mandò Alqass ai confini. Lui
stesso seguì in Aprile e, a Luglio, di nuovo occupò Tabriz senza resistenza.
Comunque, dopo soli cinque giorni, egli ritornò verso ovest e pose sotto
assedio Van, una fortezza che i Safavidi avevano ricatturato dopo la spedizione
di Süleyman del 1533-36. Van cadde in Agosto e il Sultano si ritirò ad Aleppo
per l’inverno. Nel 1549, le sue truppe intrapresero una spedizione per rendere
sicura la frontiera nord-orientale contro raid dalla georgia, ma nel suo
principale obiettivo la campagna fu un fallimento. Shah Tahmasb catturò suo
fratello Alqass Mirza, facendo cessare ogni speranza che Süleyman potesse
profittare della ribellione. Alla fine del 1549 il Sultano fece ritorno ad
Istanbul.
Durante
la sua assenza, gli eventi in Ungheria avevano di nuovo portato al conflitto
con gli Asburgo. Ferdinando non contravvenne al trattato del 1547 lanciando un
attacco diretto, ma invece, aprì negoziati con Martinuzzi che, nel 1549,
consentì a cedergli la Transilvania. Süleyman apprese di questi sviluppi
attraverso l’ambasciatore francese e ordinò al governatore generale di Buda di
intervenire. Comunque, né il governatore generale, né l’appello della madre di
Giovanni Sigismondo, Isabella, poterono far cambiare idea a Martinuzzi che nel
1551 la costrinse a cedere la corona di Transilvania. Come era avvenuto una
decade addietro questi eventi ebbero conseguenze di portata internazionale.
Avvantaggiandosi della preoccupazione del Sultano per la Transilvania
l’ammiraglio di Carlo V, Andrea Doria, nel 1550 catturò Mahdia e Monastir sulla
costa Tunisina, le roccaforti del corsaro turco Turgud Reis. A sua volta,
questa crescita del potere asburgico allarmò così tanto i Francesi che
all’inizio del 1551 il re francese Enrico II, propose che lui e il Sultano
formassero un’alleanza. Le loro flotte, egli suggerì dovevano cooperare nel
Mediterraneo, mentre la Francia invadeva il Piemonte e i Turchi attaccavano la
Transilvania.
L’alleanza
si rivelò un insuccesso come i tentativi passati di cooperazione. Nel 1551, il
papa negoziò una pace in Piemonte, la flotta francese rimase all’ancora a
Marsiglia e una invasione della Transilvania da parte del governatore generale
della Rumelia, Sokollu Mehmed Pasha, fallì. La mobilitazione della flotta
ottomana, comunque ebbe una importante conseguenza. Dopo il suo successo contro
Mahdia e Monastir, Andrea Doria attaccò l’isola di Jerba, davanti alla costa
dela Tunisia, quasi riuscendo a prendere Turgud prigioniero. Come rappresaglia,
Süleyman ordinò all’ammiraglio, Sinan Pasha, di attaccare Malta. Dopo aver
fatto un raid in Sicilia, Sinan si ancorò di fronte a Malta ma tutti gli
assalti contro l’isola fallirono e la flotta francese non apparve. Invece, una
parte della flotta ottomana si separò per andare verso il Nordafrica e
assediare Tripoli che i Cavalieri di San Giovanni avevano occupato nel 1530.
Tripoli cadde nell’Agosto del 1551. Nel frattempo, le parti in guerra cercavano
senza successo delle alleanze, Carlo V con lo Shah Tahmasb e Süleyman ed Enrico
II con i principi protestanti della Germania.
Da
questi approcci non scaturì nulla e gli sforzi per mettere in piedi una azione
franco-ottomana non ebbero più successo che nell’anno precedente. La flotta
ottomana prese il mare ad Aprile e incrociò davanti alla costa occidentale del
regno di Napoli, ma non prese contatto con la flotta francese fino a Settembre,
alla fine della stagione nautica. Per allora, però, Carlo V ed Enrico II
avevano fatto la pace.
Lo
stesso anno della sopra illustrata inconcludente campagna navale, vide un’altra
crisi in Transilvania. Nel Dicembre del 1551 Martinuzzi fu ucciso e un
mercenario spagnolo prese il potere al suo posto. Subito dopo ci fu una
ribellione a Szeged. Per superare le due crisi furono necessarie due campagne.
Per cominciare, il governatore generale di Buda soppresse la ribellione e poi
in Maggio il secondo Visir, Kara Ahmed Pasha, condusse una spedizione in
Ungheria. Apprendendo di questa campagna anche il governatore generale iniziò
un’offensiva, catturando Veszprem e poi un numero di fortezze più piccole a
nord di Buda. Kara Ahmed Pasha, nel frattempo si impadronì di Temesvar e Lipova
in Transilvania, e poi, unendo le sue forze con quelle del governatore
generale, si impadronì di Szolnok. La campagna si chiuse con un tentativo privo
di successo di assediare Eger.
La
campagna del 1552 fu solo un successo parziale. Condusse all’occupazione
ottomana di Temesvar e alla conquista di una parte delle Transilvania, ma non
reistallò Giovanni Sigismondo e sua madre né fece cessare le pretese di
Ferdinando al regno di Ungheria. Convinse però Süleyman che il suo confine
occidentale fosse sicuro a sufficienza da intraprendere la sua terza campagna
contro l’Iran, scatenata dai raid Safavidi del 1551. La spedizione non ebbe
successo, come quella del 1548-49. Süleyman avanzò fino a Nakhichevan, ma una
volta ancora le tattiche di Tahmasb di fare terra bruciata lo forzarono a
ritirarsi. Perdipiù lo Shah Tahmasb in questa occasione oppose una resistenza
armata, sconfiggendo il governatore generale di Erzerum fuori della città e
catturando alcune fortezze alla frontiera. La fine delle ostilità fu segnata
dal trattato di Amasya nel 1555, che confermò le frontiere esistenti tra l’Iran
e l’Impero Ottomano.
I
negoziati principali ad Amasya avvennero tra Süleyman e lo Shah Tahmasb. Vi
furono discussioni sussidiarie tra Süleyman e Ferdinando. In questa, Süleyman
pose come condizione della pace con Ferdinando, che questi abbandonasse le sue
pretese sul trono di Transilvania, cosa che Ferdinando era riluttante a
concedere. La risposta di Süleyman fu, l’anno successivo, di ordinare al
Governatore generale di Buda di catturare la fortezza di confine di Szigetvár, nella Transdanubia meridionale.
L’assedio fallì, ma causò sufficiente allarme negli stati transilvani da votare
a Giugno per reinstallare Giovanni Sigismondo ed Isabella. Il loro ritorno a
Cluj nel Settembre del 1556 pose fine alla crisi della corona transilvana.
Lo
stesso anno vide anche un cambiamento nella configurazione politica dell’Europa
dell’est. Nel 1556 Carlo V abdicò. Suo figlio Filippo II ereditò il regno di
Spagna e i paesi bassi spagnoli, ma non la corona del Sacro Romano Impero.
Filippo intavolò negoziati con Enrico II per cessare le ostilità tra la Francia
e la Monarchia asburgica, che aveva indotto il Sultano ad allearsi con la
Francia e la cui ultima manifestazione era stata una campagna navale
franco-ottomana contro il regno spagnolo di Napoli nel 1555. Gli alleati
avevano catturato alcune fortezze ma non vi stabilirono guarnigioni permanenti.
Nel 1559, comunque, filippo II di Spagna e Enrico II di Francia conclusero una
pace a Cateau-Cambresis privando Süleyman di un alleato contro la Spagna e
consentendo a Filippo di proseguire la guerra contro gli Ottomani nel
Mediterraneo senza paura della Francia. Il punto focale di queste ostilità era
la costa del Nordafrica. Nel 1556 l’ammiraglio ottomano, Piyale Pasha, in
cooperazione con il governatore generale di Algeri aveva catturato la fortezza
spagnola di Wahran ad ovest di Algeri. L’anno successivo, Piyale conquistò
Bizerta vicino Tunisi e nel 1558 razziò Ciudadela a Minorca. La risposta di
Filippo fu di occupare l’isola di Jerba, davanti le coste della Tunisia. Il suo
successo fu transitorio da, momento che, nel 1560, Piyale sconfisse la
guarnigione spagnola e rioccupò l’isola
Mentre
le principali azioni navali ottomane avevano luogo nel Mediterraneo, gli
scontri nell’oceano meridionale erano altrettanto importanti. Con la conquista
dell’Egitto nel 1517 Selim I aveva acquistato uno sbocco nell’Oceano indiano e
l’acceso al traffico, specialmente di spezie, che dal sud dell’Asia arrivava al
Mediterraneo. Qualche anno prima della conquista, comunque, i portoghesi
avevano stabilito una nuova rotta dalle Indie, via capo di Buona Speranza, a
Lisbona, e stavano tentando, con la forza delle armi, di stabilire un monopolio
di tali traffici. Già durante gli ultimi anni del regno mamelucco in Egitto
essi si erano impadroniti di vascelli mercantili che passavano per il Mar rosso
e poi, nel 1517, attaccarono il porto di Jedda nel Mar rosso. La minaccia da
parte dei portoghesi e, parimenti, l’opportunità per il Sultano di guadagnare
controllo dei traffici delle Indie fu oggetto di un memorandum che il
governatore di Jedda, Selman Reis, sottopose nel 1525. Il Sultano, comunque,
non vi prestò attenzione e non fu che negli anni ’30 del 1500, quando il
traffico delle spezie attraverso il Mediterraneo aveva raggiungo il livello
minimo e mancava il pepe nel palazzo, che il Sultano passò all’azione. Nel 1538
la flotta finalmente apparve sotto il comando del governatore d’Egitto Süleyman
Pasha, e salpò verso l’india per porre senza successo sotto assedio il forte
portoghese di Diu, sulla costa di Gujarat. Nel 1541, i portoghesi risposero con
un attacco senza successo contro Suez. La spedizione di Süleyman Pasha ebbe
comunque importanti conseguenze. Durante il viaggio verso Diu la flotta aveva
posto guarnigioni nelle aree costiere di Aden e dello Yemen, segnando il primo
passo verso la formazione di una frontiera di terra contro i portoghesi. Nel
1547 e nel 1552, gli Ottomani stabilirono se stessi nelle terre alte dello
Yemen con la cattura rispettivamente di Ta’izz e San’a.
All’inizio
degli anni ’40 del 1500 Süleyman stava cercando di negoziare con il re Giovanni
di Portogallo per il passaggio sicuro di navi mercantili musulmane, per
stabilire la linea Shihr-Aden-Zeila’ come la frontiera tra le flotte portoghesi
e ottomane, e per lo scambio di farina ottomana contro pepe portoghese. Questi
negoziati non produssero alcun risultato e incapaci di navigare con sicurezza
sull’oceano, le navi ottomane non riuscirono ad allontanare i portoghesi dalle
loro rotte marittime e dalle loro fortificazioni costiere. Comunque, le
operazioni di fronte alle coste arabe possono aver costituito un fattore nella
ripresa del traffico dele spezie nel Mediterraneo a partire dalla metà del
sedicesimo secolo.
La
conquita dell’Iraq diede agli Ottomani un secondo sbocco nell’oceano indiano,
attraverso il Golfo. Nel 1538, quattro anni dopo l’occupazione di Baghdad, il
signore locale di Basra, il porto al centro del Golfo, ricevette riconoscimento
formale come Goernatore generale ottomano ma non fu fino al 1546 che Basra
divenne in realtà una provincia ottomana. Comunque, a dispetto della sua
posizione, non poté svilupparsi come centro di traffici marittimi, in quanto i
portoghesi avevano, sin dal 1515,occupato Hormuz ed erano in grado a loro
piacere di impedire alle navi di passare tra il golfo e l’oceano indiano. Nel
1546, il governatore generale di Basra, Ayas Pasha, provò a stabilire Basra
come un punto di traffico e, presumibilmente con l’idea di rivaleggiare con i
portoghesi che erano ad Hormuz, occupò al-Hasa sulla costa occidentale del
golfo. Nel 1550, gli Ottomani occuparono Katif e, due anni dopo, cercarono di
rompere il blocco costituito da Hormuz. Nel 1552 Piri Reis salpò da Suez verso
il Golfo con una squadra di trenta vascelli. La sua prima azione fu di
catturare la piccola fortezza portoghese di Muscat. L’assedio di Hormuz comunque
fallì e invece Piri saccheggiò l’isola di Qeshm, ritornando a Basra col
bottino. Al suo ritorno in Egitto, il Sultano lo fece giustiziare per il suo
fallimento. Il primo tentativo di portare le navi indietro da Basra a Suez
fallì parimenti, perché i portoghesi bloccavano gli stretti. Allora, nel
1554, Seydi Ali Reis forzò il blocco, ma
una volta nell’oceano una tempesta lo allontanò dal Mar rosso e lo mandò verso
la costa dell’India.
Il
conflitto con i portoghesi continuò in modo intermittente. Nel 1555, per
rafforzare la posizione ottomana nel Mar rosso, il Sultano ordinò ad Özdemiroghlu
Osman Pasha di organizzare la provincia di Abissinia, inclusi i porti di
Sawakin e Massaua. Come con le province di Al-Hasa e Yemen, le entrate
dell’Abissinia non coprivano il costo di mantenere delle guarnigioni. Nondimeno
questo contribuì alla creazione della frontiera difensiva contro i portoghesi.
Pure, presumibilmente, per rafforzare la posizione ottomana nel golfo, come
anche per assicurare il controllo della lucrativa pesca delle perle avvenne
che, nel 1559, il governatore generale di Al-Hasa invase l’isola di Bahrein
provocando un contrattacco portoghese che lo constrinsero ad una umiliante
ritirata. Intorno al 1560 era diventato chiaro che i portoghesi non potevano
sfrattare gli Ottomani da Basra, Al-Hasa e Katif al centro del golfo, né dal
Mar rosso. Gli Ottomani, comunque, non potevano forzare il blocco ad Hormuz, né
sconfiggere i portoghesi nell’oceano. Invece, per assicurare la continuazione
del commercio essi ricorsero ai negoziati. Nel 1562 il governatore generale di
Basra mandò un inviato ad Hormuz per discutere con i portoghesi la ripresa del
traffico attraverso il golfo, mentre nel 1564 il Sultano stesso scrisse al Re
di Portogallo chiedendo che “egli concedesse il passaggio per terra e per mare
dei mercanti Ottomani che trafficavano con le zone a predominio portoghese”.
Nondimeno ostilità su una scala minore continuarono. Gli Ottomani, comunque,
non furono mai capaci di controllare le rotte marittime dal sud dell’Asia e la
ripresa del traffico delle spezie aveva più a che fare con la limitazione delle
risorse portoghesi che con la forza ottomana.
Al
Sultano questi eventi che avvenivano nelle propaggini dell’oceano meridionale
sembravano poco importanti a fronte delle sue preoccupazioni principali
riguardanti l’Ungheria, l’Iran e il Mediterraneo, che dominarono i suoi ultimi
anni. Egli doveva, prima, comunque, fronteggiare una guerra civile entro i suoi
regni. Da circa il 1550 la morte dell’anziano Süleyman era sembrata imminente,
conducendo inevitabilmente a una competizione per la successione. Nel 1553,
egli prevenne quello che sembrava un complotto contro il suo trono giustiziando
suo figlio, il principe Mustafa. Questo lasciò due sfidanti, i principi Bayezid
e Selim. Nel 1558, credendo che suo padre favorisse Selim, Bayezid si ribellò,
costringendo Süleyman a contrastarlo con un esercito guidato dal Visir Sokollu
Mehmed Pasha. Gli uomini del Sultano sconfissero Bayezid vicino a Konya nel
Maggio 1559, costringendolo a fuggire in Iran, dove divenne il soggetto di
negoziazioni tra lo Shah e il Sultano. Finalmente, nel 1562, quando Tahmasb si
fu assicurato un trattato di pace e di compensazione finanziaria dal Sultano
egli consentì ad un carnefice ottomano di entrare nella cella del principe e
terminare la sua vita.
L’accordo
con Tahmasb nel 1562 coincideva con la conclusione di una pace di otto anni con
Ferdinando e lasciò Süleyman libero di preparare le sue campagne finali. Le
incursioni di Piyale Pasha nel Mediterraneo orientale negli anni ’50 del 1500
avevano esteso il raggio di azione della sua flotta e offrivano la prospettiva
di ulteriori conquiste. Un preliminare essenziale, comunque, era la conquista
di malta che, nel punto in cui il tratto di mare è più stretto, dominava il
passaggio dal Mediterraneo orientale al Mediterraneo occidentale. L’assedio del
1565 fu comunque senza successo e nel 1566, quasi come in compensazione per la
sconfitta a malta, Piyale Pasha conquistò l’isola genovese di Chio. E’ comunque
significativo che Chio è nell’Egeo e si trova di fronte alla costa ottomana: la
sua conquista segnò la fine della espansione marittima ottomana in occidente.
L’ultima
campagna di Süleyman fu contro l’Ungheria. Nel 1564, Ferdinandi morì. Suo figlio, Massimiliano, desiderava
rinnovare la pace, ma in gran parte per trovarsi libero di portare avanti le
sue pretese nei confronti della Transilvania. Nel 1565, con gran parte delle
sue forze impiegate nell’assedio di Malta, Süleyman poté solo ordinare al Governatore generale di
Temesvar di intraprendere incursioni limitate in Transilvania. Una campagna in
grande stile seguì nel 1566. In Aprile
l’anziano Sultano lasciò Istanbul, trasportato per la Maggior parte del
percorso su una portantina. Mandando il Visir Pertev Pasha a occupare le terre
disputate a est del Tisza, il Sultano stesso mise sotto assedio Szigetvar. Morì
sul campo di battaglia nel 1566, due giorni prima che la fortezza si
arrendesse.
Durante
i suoi quarantasei anni di regno, Süleyman aveva aggiunto all’Impero territori
nell’Anatolia orientale, Iraq, nella zona del Golfo e del Mar rosso, l’Egeo, la
Moldavia e l’Ungheria. Alcuni di questi territori costavano in difesa più di
quanto essi fruttavano in imposte, ma tutti servivano ad enfatizzare lo status
di Süleyman come il sovrano di uno dei più grandi imperi del mondo. Il
territorio ottomano si doveva espandere ulteriormente durante i regni dei suoi
due successori, ma l’Impero non doveva più giocare quel ruolo internazoinale
che aveva giocato all’apogeo del potere di Süleyman. I re di Francia Francesco
I ed Enrico II avevano cercato di farselo alleato come pure, per un breve
tempo, i principi protestanti della Germania. Egli aveva fornito artiglieria e
artiglieri ai sovrani musulmani dell’India
e dell’Etiopia, ed aveva perfino, alla fine del suo regno, mandato navi,
artiglieria ed artiglieri ad Aceh, nell’isola di Sumatra. Allo stesso tempo, le
campagne del regno di Süleyman avevano mostrato che vi erano dei limiti
geografici alle sue ambizioni imperiali. Le campagne di Süleyman contro i
Safavidi nel 1548-49 e 1553-54 avevano mostrato che il territorio accidentato e
difficile nelle zone di confine tra i due imperi era sufficiente a frustrare le
aggressioni ottomane, anche quando i Safavidi non offrivano resistenza
militare. Nel sud, l’istmo di Suez era una barriera all’importazione di legname
dal Mediterraneo e altri materiali per la costruzione di navi nel Mar rosso e
al passaggio di navi da un mare all’altro. Più importante, l’ignoranza su come
costruire vascelli oceanici armati, rese impossibile per gli Ottomani sfidare i
portoghesi nell’Oceano indiano. Questi erano i problemi con cui dovevano
confrontarsi i successori di Süleyman
Selim
II (1566-1574) era l’unico figlio sopravvissuto di Süleyman e così poté godere
di una successione senza dispute. Egli era molto differente da suo padre,
avendo, apparentemente, una disposizione pacifica e un disgusto per gli affari
di stato. Lungo tutto il suo regno, delegò molte delle responsabilità di governo
al suo Gran Visir e figliastro Sokollu Mehmed Pasha. Al tempo della ascesa al
trono di Süleyman,Sokollu doveva fronteggiare tre problemi immediati: la guerra
in Ungheria, una rivolta di Zaydi Imam dello Yemen che aveva privato gli
Ottomani del controllo di gran parte della provincia e una rivolta araba nelle
paludi a nord di Basra. Sokollu agì con decisione in tutte e tre i casi. Nel
1567, una spedizione trasportata lungo il fiume alla fine impose la pace al
leader degli arabi nelle paludi, Ibn ‘Ulayyan. La ribellione finì quando il
sovrano formalmente lo insignì del titolo di governatore, un espediente che gli
Ottomani usavano per assicurarsi la fedeltà delle dinastie locali poste ai
confini estremi dell’Impero. La rivolta nello Yemen richiese tre anni per
essere repressa. Le operazioni incominciarono con la destituzione del
comandante Lala Mustafa Pasha, e con il suo rimpiazzo da parte del governatore
generale dell’Egitto, Koja (“l’anziano”) Sinan Pasha. Sinan Pasha catturò prima
Ta’izz e poi Aden in un assalto dal mare e da terra. Nel 1569, la fortezza di
Imam a San’a cadde, e la campagna terminò l’anno seguente con la presa di
Kawakaban. In Ungheria, Sokollu nel 1568 concluse una pace di otto anni con
Massimiliano, a condizione che l’imperatore pagasse un tributo annuale di
300.000 ducati.
Fu
forse la guerra con lo Yemen che condusse Sokollu, nel 1568, ad ordinare la
costruzione di un canale che collegasse Suez col Mediterraneo. Il progetto
avrebbe reso possibile inviare navi, truppe e materiale bellico direttamente
dal Mediterraneo nel Mar rosso e il facile trasporto di rifornimenti
all’arsenale navale di suez. Questo avrebbe portato benefici agli Ottomani sia
nella guerra allo Yemen che nella continuazione delle ostilità con i
portoghesi. Il piano comunque fallì, come pure un progetto simile nel 1569. Lo
stimolo immediato per questo fu la occupazione russa di Astrakhan sul volga,
vicino al punto dove il fiume sbocca nel Mar Caspio. I russi non minacciavano
direttamente i territori Ottomani, ma piuttosto presentavano al Khan di crimea
una alternativa alla fedeltà come vassallo al Sultano ottomano. Sokollu
progettò di scavare un canale tra il Don e il Volga, nel punto diminor distanza
tra i due fiumi, che gli avrebbe consentito di inviare una flotta direttamente
dal Mar Nero ad Astrakhan e nel mar caspio. Il progetto avrebbe anche permesso
l’invio di truppe contro l’Iran, bypassando le barriere montagnose
dell’Anatolia orientale e del Caucaso. Nell’Agosto 1569, l’armata
ottomano-tatara si accampò a Perevolok e iniziò il lavoro. Comunque, avevano
completato solo un terzo del canale quando l’abbreviarsi dei giorni e il freddo
crescente iniziarono ad ostacolare gli scavi. Nel frattempo il comandante della
spedizione, Kasim Pasha,aveva razziato il distretto di Astrakhan, ma la città
si era dimostrata troppo difficile da attaccare. In Settembre, Kasim Pasha
ordinò la ritirata. Circa metà dell’esercitò morì nei territori paludosi della
steppa e poi un incendio nel deposito delle provviste di azov significò che non
vi era possibilità di continuare la campagna l’anno successivo. I Visir avevano
concepito entrambi i canali come strumenti per superare le barriere geografiche
alle ulteriori conquiste. Col fallimento di entrambi i progetti, Il potere
marittimo e militare ottomano continuò ad operare entro i vecchi limiti.
La
campagna più grande del regno di Selim fu più convenzionale. Dal 1548, Cipro
era stata una colonia Veneziana. Nel 1570, a dispetto di una pace non ancora
scaduta con Venezia una flotta ottomana attaccò l’isola. L’invasione, sembra,
era desiderio personale del Sultano, e aveva acquistato il supporto di due dei suoi Visir, Piyale Pasha e Lala
Mustafa Pasha, che dovevano comandare rispettivamente le forze navali e terrestri.
Sokollu, temendo una alleanza di Venezia, Spagna, Cavalieri di San Giovanni e
Papa, si era opposto alla guerra. Nel 1570 Lala Mustafa catturò Nicosia. Nel
1571, dopo un prolungato assedio, si impadronì di Famagosta, sulla costa
orientale. La guerra, comunque, aveva prodotto il risultato temuto da Sokollu
e, nell’Ottobre del 1571, la flotta ottomana incontrò le navi della lega santa
di fronte a Lepanto (Navpaktos) nel golfo di Corinto. Nella battaglia che seguì
gli alleati cristiani distrussero gran parte della flotta ottomana. Tra i comandanti
Ottomani, solo Uluj Ali, il governatore generale di Algeri aveva combattuto con
successo e fu lui che ritornò con le rimanenti navi ad Istanbul. Lepanto, comunque, fu una
battaglia senza conseguenze strategiche. Come venne l’autunno, la flotta alleata
tornò immediatamente alle sue basi. Durante l’inverno del 1571-72, sotto la
direzione di Sokollu Mehmed gli arsenali Ottomani costruirono una nuova flotta
che apparve nel 1572 sotto il comando di Uluj Ali. Nel 1573, la guerra terminò
con la cessione di cipro agli Ottomani. In aggiunta alla frustrazione [arcaico:
sconfitta] dei vincitori di Lepanto, nel 1574 un’altra spedizione navale sotto
il comando di Uluj Ali e Koja Sinan Pasha riconquistò Tunisi dagli spagnoli
lasciando gran parte della costa africana ad est di Wahran sotto il controllo
ottomano.
Lo
stesso anno della conquista di Tunisi, Selim III morì e suo figlio Murad III
(1574-1595) ascese al trono. Dal momento che era l’unico figlio adulto di
Selim, la successione avvenne senza guerre civili.
Per
il primo anno del suo regno Murad mantenne come Visir Sokollu Mehmed Pasha.
Comunque aveva portato a Istanbul il suo proprio entourage di quando era
governatore a Manisa e costoro, in combutta con gli avversari di Sokollu,
indebolirono l’autorità del Gran Visir. Nel 1579, forse con l’incoraggiamento
di questi uomini, un postulante vestito da derviscio pugnalò a morte Sokollu a
casa sua. La sua scomparsa portò un cambiamento politico dalla pace alla
guerra. La morte dello Shah Tahmasb era avvenuta nel 1576 e l’anno successivo
era morto anche il suo successore, Ismail II. Il fratello di Ismail,
Khudabanda, gli era succeduto. Questa instabilità nel regno safavide aveva
incoraggiato gli Uzbechi ad invadere dall’est, e questo fornì agli Ottomani
un’opportunità di lanciare un’invasione da ovest. Le continue attività di
propagandisti Safavidi e una serie di defezioni di signori curdi alla frontiera
ottomana consentì al Sultano di sostenere che i Safavidi avevano violato i
termini del trattato di Amasya. Nel 1578 Lala Mustafa Pasha ricevette il
comando per conquistare Shirvan sul mar caspio, passando attraverso la georgia.
Sokollu sembra si fosse opposto alla guerra, che sarebbe stata inevitabilmente
combattuta su un terreno montagnoso e inospitale, ma i suoi rivali avevano
prevalso, e la sua mortenel 1579 aveva portato al potere il partito della
guerra.
La
campagna di Lala Mustafa del 1578 portò una serie di vittorie. Dopo aver
sconfitto un esercito safavide a Çildir, ricevette l’atto di
sottomissioine di Minuchehr, principe di Mesketian. In Agosto entrò a Tbilisi e
ricevette la sottomissione di Alexander Khan, principe di Kalkhetia. Poi, nella
sua marcia verdo est, l’esercito cominciò a soffrire per la scarsità di cibo,
il che condusse alla richiesta da parte dei giannizzeri di ritornare a casa.
Ricevendo notizie di questa situazione, il governatore safavide di Tabriz
lanciò un attacco sul fiume Kur, ma fu sconfitto da Özdemoroghlu Osman Pasha.
Verso la metà di Settembre, con il problema dei rifornimenti attenutatosi,
l’esercito raggiunse Eresh. Per la fine dell’anno, le altre città di Shirvan
erano cadute, e Lala Mustafa aveva nominato governatori sia di Shirvan che di
Daghestan. La debolezza della posizione ottomana, comunque, presto divenne
chiara quando i Safavidi incominciarono a riunire un esercito a sud del fiume
Kur a i nuovi governatori rifiutarono di passare l’inverno nelle loro province.
Invece, Özdemiroghlu Osman rimase con una forza ridotta e, per guadagnarsi la
fiducia degli abitanti del Daghestan sposò la figlia dello Shamkhal. Questo,
comunque riuscì solo a sottolineare i pericoli del coinvolgimento nelle vicende
politiche del Caucaso, nel momento in cui un nemico dello Shamkhal, Alexander
Khan fece defezione a favore dei Safavidi, come pure fece Simon Khan, principe
di Kartli. Questa era la situazione quando Lala Mustafa Pasha intraprese il
difficile ritorno a Erzerum nell’inverno del 1578-79.
Nel
1579, i Safavidi contrattaccarono, assediando le guarnigioni ottomane in
derbend e Tbilisi, e forzando Özdemiroghlu ad abbandonare
Shamaxi. Nessuno dei due assedi ebbe successo. Il Khan di Crimea venne in aiuto
di Derbend e un esercito sotto la direzione del governatore generale di
Dulgadir costrinse i Safavidi a ritirarsi da Tbilisi, a dispetto degli attacchi
dei loro alleati georgiani nei confronti delle forze di soccorso.
Nel
1580, Koja Sinan Pasha fu nominato comandante dell’esercito, e in Aprile partì
verso est per rinforzare la guarnigione a Tbilisi. Credendo, comunque che i
negoziati di pace con i Safavidi avrebbero avuto successo, abbandonò la
campagna che era in preparazione per il 1581. Questa fu una decisione che
indebolì seriamente la posizione ottomana nel Caucaso. Nel 1582, un esercito
safavide e georgiano si preparò ad assediare Tbilisi e mise in rotta una forza
ottomana che recava il soldo e gli approvvigionamenti della guarnigione. Anche
in Shirvan i Safavidi sfruttarono false voci di pace per sopraffare le
guarnigioni ottomane quando ebbero la guardia abbassata, mentre il Daghestan
allo stesso tempo si rivoltò ad Osman Pasha. Dalla sua roccaforte in Derbend,
egli mandò un inviato per domandare assistenza da parte di Istanbul. Nel Maggio
1583 la sua posizione sembrava senza speranza. Lo Shamkhal del Daghestan si era
alleato con il Governatore safavide di Gänjä, con l’intento di annientare
l’esercito di Osman Pasha e di terminare l’occupazione ottomana dello Shirvan.
Il risultato di questa azione fu una notevole vittoria ottomana dopo una
battaglia di quattro giorni a Meshale sul fiume Sana, che consolidò la
sovranità ottomana in Shirvan e Daghestan. Dopo la battaglia, Özdemiroghlu
fortificò Shamaxi e ritornò ad Istanbul.
La
battaglia di Meshale segnò un risollevarsi delle fortune ottomane. Nel 1583 un
nuovo comandante, Ferhad Pasha, condusse un esercito ad est, occupò erivan,
riparò e costruì fortezze in Georgia e guadagnò l’alleanza del principe della
Georgia, Simon Khan. Allo stesso tempo, riportò al Sultano che le truppe erano
stremate e che i sudditi Ottomani stavano soffrendo per il peso delle tasse.
Ricevette la replica che l’esercito non doveva tornare fino a quando i Safavidi
non fossero stati costretti alla pace. Lo scopo del governo era, sembra, di
catturare e occupare Tabriz. Questo obiettivo fu ottenuto da Özdemiroghlu
Osman Pasha nel 1585. Egli sconfisse un esercito safavide sotto la guida del
principe della Corona , Hamza Mirza, a Sufian e poi, traendo vantaggio da una
disputa tra fazioni Safavidi, in Settembre catturò Tabriz, con una resistenza
solo da parte della guarnigione. Entro un mese, le truppe occupanti avevano
costruito una nuova fortezza.
Una
volta ancora, dopo che Hamza Mirza aveva attirato all’esterno e sconfitto una
parte della guarnigione, Osman Pasha si trovò a fronteggiare la sconfitta in un
avamposto ottomano isolato. Nell’Ottobre del 1585, Osman Pasha morì, lasciando
la guarnigione sotto il comando del governatore generale di Diyarbekir, Jafer
Pasha. Per undici mesi, fino all’arrivo di una forza di soccorso sotto Ferhad
Pasha, egli sostenne un assedio safavide e, durante i suoi anni come comandante
a Tabriz, resistette ai tentativi Safavidi di ricatturare la città. Anche in
Georgia le fortune ottomane continuarono. Nell’estate del 1587, Ferhad Pasha
condusse una spedizione contro Minuchehr, che aveva abbandonato la sua fedeltà
agli Ottomani, e contro il patrigno di Minuchehr e precedente alleato degli
Ottomani, Simon Khan. Dopo averli sconfitti entrambi, occupò e dotò di
guarnigione Gori, la capitale di Simon Khan, e partì per rinforzare Tbilisi. Qui ridusse alla sottomissione Simon
Khan, facendo effettivamente della Georgia un possedimento ottomano. L’anno seguente un nuovo Shah,
Abbas I salì al trono in Iran.
La
guerra con gli Ottomani era solo uno dei problemi di Abbas. Egli doveva
fronteggiare una lotta di fazioni all’interno del suo stesso regno e una
invasione Uzbeka. Nel 1589, Gli Uzbeki catturarono Herat e avanzarono verso
occidente verso Mashhad. La preoccupazione di Abbas per questa guerra consentì
agli Ottomani di estendere il loro fronte sulla frontiera occidentale
dell’Iran. Nel 1588, mentre Ferhad Pasha occupò Gänjä
in Azerbaijan e ricevette il ributo dei principi georgiani, a sud Jigalazade
Sinan Pasha condusse un esercito da
Baghdad e prese Nihavend. Con una guerra su due fronti lo Shah Abbas non ebbe
altra scelta se non che cercare la pace. In Gennaio 1590, un ambasciatore
safavide arrivò a Istanbul. Il trattato dello stesso anno lasciò gli Ottomani
in possesso di tutti i territori che avevano conquistato in Azerbaijan e nel
Caucaso, e Nihavend, Luristan e Shehrizor nell’Iran occidentale.
Con questo trattato l’Impero Ottomano
raggiunse il suo punto di massima espansione
CRONOLOGIA:
IL PERIODO DEI GUAI PER GLI OTTOMANI, 1590-1650
La
Guerra con l’Iran aveva aggiunto vasti territori all’Impero Ottomano, ma con
grandi costi. Portare la guerra ad una conclusione vittoriosa aveva richiesto
un decennio di combattimenti nel terreno accidentato del Caucaso e
dell’Azerbaijan. Il continuo guerreggiare aveva portato ad agitazioni e
diserzione tra le truppe e il peso che gravava sul Tesoro aveva a sua volta
messo sotto tensione il tessuto sociale dell’Impero, con crescenti agitazioni e
brigantaggio che dovevano peggiorare nelle decadi successive. Non era una guerra
che aveva prodotto abbondanza di bottino, ed è improbabile che la tassazione
delle nuove province coprisse i costi delle loro guarnigioni. Perdipiù la
vittoriosa conclusione non era semplicemente un risultato della superiorità
militare ottomana. Doveva molto a guai interni della dinastia Safavide e
all’invasione Uzbeka, che costrinse gli Iraniani a combattere su due fronti
Questo
era chiaro a Ferhad Pasha , che era stato largamente responsabile delle
vittoria ottomana. Quando una nuova guerra minacciò di scoppiare in Ungheria,
Ferhad fu uno di quelli che vi si oppose. Agli inizi degli anni ’90 del 1500 i
raid dalla Bosnia attraverso il confine con l’Austria e le rappresaglie
Austriache resero tese le relazioni tra i due poteri, e crearono le condizioni
per una guerra. Il cronista Ibrahim Pechevi riferisce di un incontro alla
presenza del Sultano, dove Ferhad Pasha si oppose alla dichiarazione di guerra,
sulla base del fatto che le truppe erano esauste dopo la campagna Iraniana. Fu,
riporta Pechevi, il Gran Visir Koja Sinan Pasha, che, nella sua ambizione di
eclissare la fama di Ferhad Pasha come comandante, il principale avvocato della
guerra.
Sinan
Pasha ottenne quello che voleva e, nel 1593, partì alla volta dell’Ungheria
come comandante in capo. La campagna iniziò sotto buoni auspici con la cattura,
all’inizio dell’autunno di Vezprem e Paluta nell’Ungheria occidentale. Poco
dopo, comunque, divenne chiaro che l’esercito ottomano non poteva più vantare
la superiorità che aveva avuto trenta anni prima. Nel Novembre 1593, gli
Austriaci contrattaccarono, assediando Székesfehervár,
e mettendo in rotta una forza ottomana mandata ad aiutare la fortezza.
Abbandonando Székesfehervár
all’arrivo dell’inverno, essi nondimeno catturarono una serie di piccole
fortificazioni nel distretto. L’offensiva Austriaca continuò nel 1594, con la
cattura di Novigrad e l’assedio di Esztergom, sul Danubio ad ovest di Buda, e
di Hatvan, a nord-est. Gli assedianti misero di nuovo in rotta una forza
ottomana di soccorso a Hatvan. Fu solo quando Sinan Pasha si avvicinò con una
notevole forza che gli Austriaci si ritirarono, e l’offensiva continuò con la
cattura dapprima di Tata e poi di Györ, sulla strada tra Buda e Vienna. Pechevi
mette in rilievo, comunque, che fu solo “per grazia di Dio che Györ cadde. Il
fiume in piena aveva aveva allagato il fossato intorno alla fortezza, e gli
assedianti potevano avvicinarsi alle mura solo in un’unica fila attraversando
un ponte. Gli Austriaci non avevano alcuna ragione per arrendersi”. La
vittoria, comunque, riscattò alcune delle precedenti sconfitte.
L’anno
dopo portò il disastro. Nel 1595, su impulso dell’imperatore Austriaco, il re
di Transilvania Stefano Bathory, trasferì la sua fedeltà agli Asburgo. Nello
stesso tempo i voivoda di Moldavia e Valacchia si ribellarono, aprendo un nuovo
teatro di guerra e minacciando il controllo ottomano del Danubio, una via di
primaria importanza per il trasporto di approvvigionamenti e materiale militare
verso l’Ungheria. Il voivoda di Moldavia sconfisse una forza ottomana mandata
contro di lui e, nell’inverno 1594-95, il voivoda Michele di Valacchia
attraversò il Danubio e devastò un’area
della Bulgaria del nord. La campagna ottomana per sopprimere la sua ribellione
iniziò male,con la destituzione del comandante, erhad Pasha, e il suo rimpiazzo
da parte del suo rivale, Koja Sinan Pasha. Sinan Pasha, a dispetto di foreste,
paludi e delle tattiche di razzia de Valacchi, raggiunse bucarest e poi Tirgovişte,
fortificandole entrambe. Subito dopo, comunque, Michele contrattaccò,
massacrando la guarnigione a Tirgovişte e costringendo gli Ottomani a
ritirarsi fino al Danubio. A Giurgiu, Michele
distrusse il ponte sul fiume, e uccise le migliaia di soldati che erano
rimasti sulla riva sinistra. Nel mentre gli eventi in Ungheria non erano più
fortunati. In Agosto, gli Austriaci assediarono Esztergom. La fortezza cadde
quando il suo comandante, il figlio di Sinan Pasha, Mehmed, fuggì a Buda.
Nel
1595, Murad III morì. La successione al trono di suo figlio Mehmed III
(1595-1603) venne in un momento di severa crisi sui campi di battaglia e,
dietro le insistenze di Sinan Pasha e altri, nel 1596 il nuovo Sultano
accompagnò di persona l’esercito in Ungheria. Fu una campagna con risultati
alterni. Durante la marcia verso Eger, nel nord dell’Ungheria, giunsero notizie
che gli Austriaci avevano catturato Hatvan. Per controbilanciare questa perdita
l’assedio di Eger fu un successo e poco dopo gli Ottomani colsero una vittoria
inaspettata. Subito dopo la caduta di Eger, si scontrarono con un forte
esercito Austriaco vicino alla fortezza, nella pianura di Mezö-Keresztes
(Mezo-Keresztes). Di fronte alla superiorità dell’artiglieria e alle salve
degli archibugieri che si riparavano dietro le picche la battaglia si trasformò
in una rotta quando la cavalleria ottomana fuggì di fronte al nemico.
Incontrando pochissima resistenza, gli Austriaci raggiunsero l’accampamento
centrale ottomano e si diedero al saccheggio. Fu in questo momento che i
cammellieri, gli stallieri e altri servitori di palazzo che avevano
accompagnato la spedizione attaccarono, gridando “Gli infedeli fuggano!” Le loro grida incoraggiarono le sconfitte
truppe ottomane a ritornare all’attacco. All’arrivo della notte Pechevi stima
che fossero stati uccisi cinquemila Austriaci. La vittoria fu totale. Ma non
condusse ad ulteriori successi.
Nel
1597, il Visir Satirji Mehmed Pasha lasciò Istanbul per l’Ungheria. Il suo
unico successo fu di ricatturare Tata. Egli non riuscì neanche ad avvicinarsi,
né tanto meno a sconfiggere l’artiglieria Austriaca nelle trincee intorno a
Vac, sulla via a nord per Buda, e quello stesso anno gli Austriaci
ricatturarono Györ,
facendo esplodere le porte con una nuova arma, il petardo . A dispetto di
questi insuccessi, Satirji Mehmed rimase al comando. Nel 1598, ricevette
l’ordine di attaccare la Transilvania e di ripristinare l’obbedienza del Re.
Egli espugnò Csanad e poi, sotto una pioggia battente, prese d’assedio Varad. A
Varad giunse la notizia che un esercito di assedio Austriaco con 40 cannoni
stava mettendo sotto assedio Buda. Satirji Mehmed ripartì immediatamente, ma un
tempo disastroso, fiumi in piena e paludi ostacolarono il viaggio verso la
capitale ungherese. Seguirono fame, malattia e ammutinamento insieme alle
notizie che gli Austriaci stavano assediando Veszprem, Tata e Paluta. Alla fine
nessuna forza di salvataggio raggiunse Buda e Satirji Mehmed morì per ordine
del Sultano. I temuti disastri non si concretizzarono. Buda sopravvisse
all’assedio e, nel 1599, all’approssimarsi a Vac sul Danubio di un esercito
ottomano sotto il comando del Gran Visir Ibrahim Pasha gli Austriaci si
ritirarono. Ci furono solo piccoli successi Ottomani. Una forza sotto il
comando di Kuyuju (“lo scavatore di pozzi”) Murad Pasha prese Bobovac e
l’espediente di offrire denaro alla guarnigione francese non pagata di Papa li
persuase a cambiare contendente e per un certo tempo la fortezza cadde sotto
controllo ottomano.
L’anno
1600 portò una maggiore ricompensa, quando il governatore generale di Buda,
Mehmed Pasha espugnò Kanizsa nell’Ungheria sud-occidentale. La vittoria,
comunque, come la battaglia di Mezö-Kereresztes era, come Pechevi
descrive “una grazia di Dio”. Prima un magazzino di polvere esplose nella
fortezza e quando, di fronte ad una superiore potenza di fuoco Austriaca, i
giannizzeri fuggirono, le truppe Austriache fuori della fortezza credettero che
questo fosse un trucco. Invece di attaccare essi partirono, lasciando Kanizsa
sotto assedio. Con la loro partenza, la fortezza si arrese. Nel 1601, gli
Austriaci contrattaccarono, prendendo dapprima Székesféhervár, e poi mandando
un esercito a riconquistare Kanizsa. Una forza ottomana sotto Yemishchi (“il
fruttivendolo”) Hasan Pasha, che era succeduto al comando dopo la morte di
Ibrahim Pasha, non poté scalzare le forze Austriache trincerate che bloccavano
il passo per Székesféhervár. Kanizsa, comunque, sotto il comando di Tiryaki
(“il drogato”) Hasan Pasha, resistette ad un assedio che durò fino all’inverno
quando, di fronte ad una ostinata resistenza ed ad un freddo acuto, gli
Austriaci si ritirarono.
L’anno
dopo la difesa di Kanizsa, Yemishchi Hasan Pasha riconquistò Székesféhervár, mentre in Transilvania, Szekely Mózes,
un signore che era risentito per il trattamento da parte del generale Austriaco
Basta si ribellò al re e chiese l’aiuto ottomano. Entrambi gli eventi
sembrarono preannunciare un risollevarsi delle fortune ottomane. Come successe
poi, la ribellione di Szekely condusse ad un disastro. Nel 1602, Yemishchi
Hasan si preparò ad invadere la Transilvania, sostenendo che gli Austriaci
mancavano delle risorse per invadere l’Ungheria. Subito dopo la partenza
dell’esercito arrivò la notizia che gli austriaci avevano catturato Pest, sulla riva del
Danubio opposta a Buda. Yemishchi Hasan
tornò indietro, e trovò Pest in possesso degli Austriaci, e Buda sotto
assedio. Ritornò ad Istanbul in disgrazia ma, godendo del favore del Sultano,
scampò l’esecuzione, e quando si dimise, i giannizzeri insorsero a suo favore.
L’Agha dei giannizzeri, comunque, calmò i ribelli, e subito dopo Yemishchi
Hasan fu ucciso.
Prima
di lasciare l’Ungheria Yemishchi Hasan aveva nominato Lala Mehmed Pasha come
comandante. Il suo primo successo fu di allontanare da Buda le forze di assedio
asburgiche, ciò che gli permise di programmare la riconquista di Pest
sull’altra sponda. Per fare questo, egli doveva scacciare il nemico dall’isola
di Csepel, che bloccava l’accesso via fiume alla città. Lala Mehmed capiva
chiaramente che sconfiggere gli
Austriaci sull’isola richiedeva fanteria in posizioni di trincea, ed agì di
conseguenza. I giannizzeri, però, disobbedirono al comando, rifiutandosi di
trincerarsi e domandando rinforzi di cavalleria. Lala Mehmed si piegò alle loro
richieste con il risultato che, nel Luglio 1603, gli Austriaci annientarono le
forze attaccanti e rimasero in possesso di Pest. Nell’anno seguente, tuttavia,
la posizione ottomana cominciò a migliorare.
Un
fattore fu il capovolgimento delle fortune Austriache nei principati danubiani.
La rivolta del voivoda Michele nel 1595 aveva beneficiato l’Austria, sottraendo
risorse ottomane dal fronte ungherese. Per il 1600, però, Michele pretendeva
non solo la sovranità della Valacchia, ma anche di Moldavia e Transilvania, una
espansione di potere che danneggiava piuttosto che favorire gli interessi
Austriaci. Il generale Austriaco Basta risolse il problema facendolo uccidere,
più a vantaggio degli Ottomani che di se stesso. Poi, nel 1603 ci fu una nuova
rivolta in Transilvania, sotto la leadership di Stephan Bocskai, contro il
dominio dell’imperatore Austriaco. Un altro fattore della ripresa ottomana
furono le capacità militari di Lala Mehmed Pasha, che in quel momento combinava
le cariche di Gran Visir e comandante in capo delle forze in Ungheria. Nel
1604, lasciò Belgrado per l’Ungheria e, all’avvicinarsi del suo esercito, gli
Austriaci abbandonarono Hatvan e Pest, e cedettero Vac a seguito di un blocco.
Nell’autunno del 1604, egli intraprese senza successo l’assedio di Esztergom
prima di ritornare ad Istanbul. Qui ricevette dal nuovo Sultano, Ahmed I
(1603-1617), il permesso di incoronare Bocskai re di Transilvania, col titolo
di “Re di Ungheria”. Nel 1605 ritornò al fronte e questa volta conquistò la
modernizzata fortezza di Esztergom. Questo fu l’ultimo scontro di rilievo della
guerra.
Nel
1606 negoziati di pace iniziarono a Zsitvatorok nella terra di nessuno tra gli
imperi asburgico e ottomano, focalizzati sugli accomodamenti territoriali, sui
tributi dovuti al Sultano e sulla risoluzoine di dispute di confine. Qualche
dettaglio non si poté dirimere, col curioso risultato che le due parti
firmarono due versioni lievemente differenti del trattato. Quando i negoziatori
asburgici si recarono a Istanbul nel 1608 per ratificare il testo essi lo
rigettarono dal momento che trovarono che delle parti erano state cambiate e
che la clausola sulla eguale dignità degli imperatori era stata espunta. Non fu
che nel 1612 che ratificarono la versione
finale. Il trattato comunque funzionò. Non ci furono ostilità tra le due parti
fino agli anni ’60 del 1600, mentre la clausola che proibiva i raid attraverso
il confine e l’introduzione di una procedura per risolvere dispute di confine
diede una espressione formale al concetto di una frontiera pacifica e fissata.
Il kleinkrieg dei secoli precedenti
era finalmente cessato.
La
guerra dei tredici anni con l’Austria aveva portato Kanizsa, Eger e qualche
altra fortezza agli Ottomani, ma anche qualche perdita territoriale. Si era
aperta con la vanteria di Sinan Pasha che lui avrebbe “portato il re di vienna
prigioniero ad Istanbul” ed era finita con un compromesso. Aveva mostrato che
in quel momento gli Austriaci erano superiori agli Ottomani come armamento e
come tattica. Nondimeno, con la loro capacità di continuare la guerra e, negli
ultimi due anni, di conseguire una serie di vittorie, gli Ottomani avevano
mostrato una straordinaria resilienza, in particolare dal momento che in quegli
anni non stavano combattendo su un fronte ma su tre fronti.
Il
secondo fronte era ad oriente. Nel 1590, lo Shah Abbas aveva, di fronte agli
attacchi Uzbeki del Khorasan, concesso territorio agli Ottomani. Nel 1598,
comunque, ottenne una vittoria nei confronti degli Uzbechi e, subito dopo,
occupò Herat. Poi, usando la defezione a suo favore di un signore curdo come
una giustificazione per la guerra, nel 1603 entrò a Tabriz. La guarnigione era
in quel momento assente, alla caccia del ribelle curdo e, al suo ritorno soffrì
una sconfitta fuori della città. Da Tabriz, Abbas marciò su Nakhichevan. Dopo
la resa della guarnigione locale, proseguì verso Erivan. Le fortezze della
città resistettero all’assedio safavide per più di nove mesi, ma di fronte alla
malattia e alla fame e senza speranza di una forza di soccorso, capitolarono
nel 1604. Con la perdita delle fortezze, divenne chiaro che c’era bisogno di
intraprendere una campagna ad est, a dispetto di ciò che richiedeva il fronte
ungherese. Nella seconda metà del 1604, dunque, Jigalaze Sinan Pasha guidò un
esercito in direzione di Shirvan,
finché, presso il fiume Aras, le sue forze lo costrinsero a cambiare la sua
direzione per Tabriz. Marciando verso il sud di Varas egli passò l’inverno a
Van. Le forze dello Shah,comunque, avevano fatto razzie nella regione di Kars,
e sconfitto una forza di soccorso da Sivas, forzando Sinan Pasha ad abbandonare
van. Nel 1605, egli continuò verso Tabriz, con le forze Safavidi che lo
tenenevano d’occhio dalle montagne. Poi, ingannando Jigalazade riguardo la
direzione dell’attacco, lo Shah Abbas mise in rotta il suo esercito a Sufian.
Facendo seguito alla vittoria, egli catturò Gänjä in Azerbaijan, Tbilisi in
Georgia e pose sotto assedio Shirvan. Con la caduta di Shirvan sette mesi più
tardi nel 1606, lo Shah Abbas aveva ripreso tutto il territorio che gli
Ottomani avevno conquistato nella guerra del 1578-90).
Il
terzo fronte sul quale gli Ottomani si trovarono in guerra fu l’Anatolia. Le
agitazioni in quell’area erano divenute endemiche attraverso tutto il
sedicesimo secolo ma, nel 1596, scoppiò una ribellione di tale portata da
minacciare il dominio del Sultano. Fu un evento che le cronache musulmane
collegano direttamente alla battaglia di Meszö-Kerezstes. Nel1596, subito dopo
la battaglia, il Gran Visir, Jigalazade Sinan Pasha aveva privato dei loro
possedimenti i cavalieri che erano fuggiti dal campo di battaglia. Privati dei
loro mezzi di sussistenza, si unirono al primo dei grandi leader ribelli, Kara
Yazjij, lui stesso un ex delegato di un governatore. Quando il Sultano ordinò
al governatore generale di Karaman di attaccare i ribelli, egli fece defezone a
favore di Kara Yazjij, che si ritirò ad Urfa. Qui resistette ad un assedio di
due mesi. Il governo allora ricorse ad una lusinga, nominando Kara Yazjij come
governatore, prima di Amasya, e poi di Çorum. Come governatore, però, egli
continuò a saccheggiare l’Anatolia, provocando un’altra campagna governativa.
Nel 1601 Hasan Pasha, il figlio di Sokollu Mehmed Pasha,finalmente sconfisse i
ribelli vicino a Elbistan. Nel 1602 Kara Yazjij morì.
Questo
non pose fine però alla ribellione. Il comando dei Jelali, come finirono per
essere noti i ribelli, passò al fratello di Kara Yazjij, Mad Hasan, che, nel
Maggio del 1602, assediò Tokat e alla fine uccise Hasan Pasha. Nell’Agosto,
sconfisse un'altra forza governativa e pose d’assedio Ankara, estorcendo una
consistente somma dagli abitanti. Poi si mosse verso ovest e assediò un’altra
forza governativa a Kütahya. La risposta del Gran Visir,
Yemishchi Hasan Pasha fu nuovamente di offrire al ribelle il posto di
governatore, nominandolo governatore generale di bosnia. Questo fimosse il
porblema dall’Anatolia, dato che i suoi ribelli lo accompagnarono in Bosnia e
poi sul fronte ungherese, dove perirono nel disastroso attacco all’isola di
Csepel nel 1603. Nel 1606 il comandante in capo delle forze ungheresi ordinò
l’esecuzione di Mad Hasan. La partenza di Mad Hasan e dei suoi uomini non fece
comunque cessare le agitazioni in Anatolia, quando nuovi gruppi di ribelli si
unirono per assaltare città e villaggi e per esigere tasse illegali, provocando
una “grande fuga” dalle fattorie e dai villaggi verso Istanbul e altre grandi
città. Allo stesso tempo, il maltempo esacerbava le sofferenze della
popolazione.
Gli
sforzi del governo per sconfiggere i ribelli continuarono a fallire. Nella sua
marcia verso est nel 1605 Jingalazade ricevette l’ordine di scontrarsi con i
Jelali prima di attaccare i Safavidi. Egli non riuscì a farlo e, nello stesso
anno, il ribelle Tall Halil sconfisse un ex governatore generale di Aleppo a
Bolvadin, inducendo il Sultano Ahmed a ritenere di dover guidare la spedizione
di persona. Questo piano però fu un fiasco. Nel Novembre 1605 egli andò a
Bursa. Tall Halil si ritirò e il Sultano ritornò. Invece, offrì al ribelle il
governatorato e la carica di generale di Baghdad, e Tall Halil lasciò
l’Anatolia. La sua presenza a Baghdad, comunque, causò solo instabilità in
Iraq, mentre nell’Anatolia occidentale un’altra figura, Kalenderoghlu Mehmed
era emersa come leader dei ribelli. Una campagna delgoverno nel 1606 fallì
completamente. Era incerto se il suo obiettivo fosse la sconfitta di
Kalenderoghlu o dello Shah Abbas, e alla fine si ritornò indietro quando le
truppe non pagate si ammutinarono. Nel 1607 il potere ottomano in Asia sembrò
sull’orlo del collasso. Nel Gennaio, Kalenderoghlu sconfisse una forza
governativa vicino Nif, incoraggiando altri leader Jelali a unire le loro forze
alle sue. Nell’estate assediò Ankara. Una forza di soccorso lo scacciò, ma la
stessa subì una sconfitta a Ladik. Annunciando che stava andando ad assediare Üsküdar
e causando panico nella capitale, Kalenderoghlu avanzò verso Bursa. Nel 1607
occupò la città, lasciando solo la cittadella nelle mani del governo. Nel
sud-est, Adana e i passi montani dei Tauri erano nelle mani di un ribelle
chiamato Jemshid, ma la più pericolosa di tutte fu la ribellione di Ali
Janbulad in Siria.
Membri
della famiglia Janbulad avevano servito come governatori ereditari di Kilis sin
dal 1571. Nel 1603, un membro della famiglia, Hüseyn Janbulad, aveva, con la forza
delle armi stabilito se stesso come governatore generale ottomano di Aleppo.
Due anni dopo, quando Jingalazade Sinan Pasha gli aveva ordinato di prestare
servizio nella campagna iraniana, egli rimase ad Aleppo. Per vendicarsi, Jingalazade
lo aveva giustiziato e questo sembra abbia provocato la rivolta di suo figlio
Ali. La tattica del governo per sconfiggere Ali fu di nominare un signore
rivale, il libaneseYusuf ibn Sayf, governatore di Damasco, con l’ordine di
eliminare il ribelle. Ali Janbulad replicò con una tattica simile, alleandosi
con un certo Fakhr al-Din e altri signori della Siria e del Libano anzitutto
per sconfiggere Yusuf, e poi per spartirsi Siria e Libano. Nel Maggio 1606 egli
chiedeva al Sultano un visirato e il diritto di nominare i suoi propri uomini
in un’area ampia e strategicamente importante intorno ad Aleppo. Nello stesso
tempo, cercò un’alleanza con Kalenderoghlu e altri ribelli anatolici e con
governatori simpatizzanti. Lo scopo di Alì, che divenne chiaro, era di
autoproclamarsi sovrano indipendente.
Ciò
che frustrò le ambizioni di Ali fu la nomina nel 1606 di Kuyuju Murad Pasha
come Gran Visir. A differenza delle sue precedenti improvvisate campagne,
Kuyuju Murad pianificò la sua spedizione con grande cura, finalmente partendo
da Üsküdar nel Luglio del 1607. Per neutralizzare
Kalenderoghlu durante la campagna, egli lo nominò governatore di ankara. Fu
quando gli abitanti si rifiutarono di accettarlo che egli strinse d’assedio la
città. Allora Kuyuju Murad attraversò i monti Tauri e occupò adana,
giustiziando cinquecento seguaci del governatore ribelle. Da Adana, scegliendo
il percorso più inaspettato, si avvicinò ad Aleppo, mettendo in rotta le forze
di Ali Janbulad nell’ottobre 1607, e massacrando i suoi aderenti. In Novembre,
entrò ad Aleppo e giustiziò molti membri della famiglia Janbulad e durante
l’inverno ricevette la sottomissione dei confedereti libanesi e Siriani di Ali
Janbulad. Ali Janbulad fuggì verso ovest, prendendo contatto con il Jelali
Kalenderoghlu a Bursa ma, non raggiungendo alcun accordo con lui, accettò
invece il perdono del Sultano, che lo nominò governatore generale di Temesvár.
Qui, comunque, la popolazione lo rifiutò, e nel 1610 Kuyuju Murad ordinò la sua
morte.
La
sconfitta di Ali Janbulad lasciava ancora i ribelli col controllo di gran parte
dell’Anatolia. Nel Gennaio 1608 Kalenderoghlu sconfisse una forza sotto il
comando di Nakkash (“l’artista”) Hasan Pasha vicino a Mihaliç
e nell’estate bloccò il passaggio di un altro esercito che portava il tesoro di
Kuyuju Murad ad Aleppo. Kuyuju Murad nel frattempo fronteggiava severi problemi
nel preparare una nuova campagna. Kalenderoghlu aveva bloccato la sua
disponibilità di contante; a seguito di un duro inverno e di una primavera
tardiva, e in conseguenza dell’impoverimento delle campagne, la piena quota di
truppe non era arrivata dall’Anatolia; i rifornimenti dall’Egitto erano lenti
ad arrivare. Nel frattempo, comunque, egli distaccò alcuni dei Jelali minori da
Kalenderoghlu dando loro dei governatorati. Finalmente, nell’Agosto del 1608,
egli si scontrò con Kalenderlghlu e lo sconfisse a ovest di Malatya. Il ribelle
e i suoi seguaci fuggirono in Iran, mentre Kuyuju Murad, ignorando il comando
del Sultano di rimanere sul posto, ritornò ad Istanbul. Nel 1609 l’esercito si
era radunato ad Üsküdar, ma Kuyuju non si mosse. Invece, mandò un ex Jelali,
Zulfikar, ad attaccare il ribelle Musli Chavush, che lui stesso aveva nominato
governatore di Íçel durante la campagna contro Kalenderoghlu. Durante l’assenza
di Zulfikar, un altro ribelle, Yusuf Pasha apparve con i suoi seguaci per
chiedere perdono, che Kuyuju Murad concesse fino a che Zulfikar tornò con la
notizia della disfatta di Musli Chavush. Allora Kuyuju giustiziò Yusuf Pasha
nella sua tenda. Con la morte di Yusuf Pasha, Kuyuju sciolse l’esercito,
sebbene campagne contro i ribelli dell’Anatolia e dell’Iraq continuarono nel
1610 su una scala più piccola.
La
sconfitta dei Jelali lasciò il Gran Visir con due preoccupazioni. La prima era
ripristinare l’amministrazione fiscale e provinciale dopo la guerra con
l’Austria e la devastazione della ribellioone Jelali in Anatolia. Il risultato
fu un menorandum da un addetto della cancelleria, Ayn Ali, che predispone,
sulla base di registri dell’archivio uno schema ideale di organizzazione
fiscale, provinciale e militare. Il Sultano, da parte sua, desiderava un
monumento più vistoso alla vittoria sopra i ribelli, e ordinò la costruzione ad
Istanbul della moschea che porta il suo nome, la moschea del Sultano Ahmed o
“moschea Blu”. In realtà, comunque, la vita rurarle e la popolazione rurale
dell’Anatolia furono lenti a riprendersi. Resoconti fiscali redatti trent’anni dopo le campagne di Kuyuju
Murad Pasha mostrano che la popolazione non aveva raggiunto il livello di vita
del sedicesimo secolo.
La
seconda preoccupazione di Kuyuju Murad era rinnovare a guerra con l’Iran. La
sua canpagna, comunque, fu inconcludente. Nel 1611 egli morì a Diyarbekir e
l’anno seguente, Nasuh Pasha, ilsuo successore come grand Visir, concluse la
pace con lo Shah Abbas. Questa durò solo quattro anni. Nel 1615, col pretesto
che il tributo annuale di seta dovuto da parte dello Shah non era ancora
arrivato il Gran Visir, Öküz (“il bue”) Mehmed Pasha,
rinnovò la guerra e assediò erivan senza successo.
In
occidente, nel mentre, c’era pace, l’unico scontro avvenne sul mare tra la
flotta ottomana nel suo giro annuale del Mediterraneo orientale da un lato e
corsari che operavano sotto l’egida dei cavalieri di San Giovanni e del Duca di
Toscana, con cui i ribelli Ali Janbulad e Fakhr al-Din avevano stabilito
contatto. Più pericolosi di questi erano gli attacchi dei cosacchi dalle loro
basi lungo il Don e il Dniepr contro insediamenti lungo la costa del Mar Nero.
Questi attacchi crebbero di intensità in anni successivi del diciassettesimo
secolo, culminando in un raid contro Sinope nel 1614. Nell’anno seguente un
contrattacco ottomano fallì quando i cosacchi, nelle loro barche a fondo
piatto, attirarono l’ammiraglio Jigalazade Mahmud così vicino alla riva che le
sue galee finirono in secco. Nel 1623 essi attaccarono Yeniköy
sul bosforo, vicino la capitale, e per quattro anni, tra il 1637 e il 1641,
occuparono perfino Azov, all’estuario del Don, costringendo gli Ottomani a
rifortificare Ochakov, una fortessa che occupava una simile posizione
strategica sul Dniepr. Per mezzo secolo, la guerra con i cosacchi richiese una
serie di spdizioni marittime, con nuove strategie contro le loro barche a fondo
piatto e una costante vigilanza lungo le coste del Mar Nero. Questi scontri con
i cosacchi erano gli scontri navali più aspri fino al 1645.
La
conclusione della guerra Austriaca e la sconfitta dei Jelali non fece cessare
il “periodo dei guai” ottomano. Nel 1617 Ahmed I morì, facendo scoppiare una
crisi all’interno della dinastia. Dal momento che i figli di Ahmed non erano
ancora adulti, una fazione entro il palazzo fece sì che gli succedesse suo
fratello Mustafa I (1617-18,1622-23). Questo principe, comunque, era
mentalmente disturbato e, durante l’assenza del Gran Visir per una importante
campagna per ricatturare Tabriz, la fazione che si era opposta alla successione
di Mustafa provocò la sua detronizzazione e la sostituzione nel 1618 col figlio
Maggiore di Ahmed, Osman.
Il
primo anno del regno di Osman vide la conclusione di una pace con l’Iran che
confermava la frontiera in Georgia e faceva qualche lieve aggiustamento in
favore dello Shah Abbas al confine ottomano-safavide in Iraq. Per contrasto ci
fu una grave crisi nei rapporti con la Polonia. I raid cosacchi dal territorio
polacco sulle coste dell’Impero Ottomano e quelli tatari in Polonia avevano
condotto ad una tensione tra le due potenze. Anche la Moldavia offriva rifugio
ai cosacchi e furono gli eventi che vi si verificarono che condussero alla
guerra. Quando Caspar Gratiani successe come voivoda di Moldavia egli
intercettò lettere dal re di Transilvania, Bethlen Gabor e le rese note al re
polacco, Sigismondo. Quando il Sultano replicò deponendo Gratiani, il voivoda
si ribellò e si rifugiò in Polonia. La risposta ottomana fu decisa. Nell’Agosto
del 1620, il governatore generale di Ochakov, Iskender Pasha, raccolse le sue
forze e, in Settembre, mise in rotta gli eserciti congiunti di Polonia e
Moldavia a Ìaşi. Seguì una seconda
sconfitta dei polacchi. Il re sigismondo, a questo punto, desiderava la pace,
ma il Sultano, a dispetto della opposizione da parte dei giannizzeri, stabilì
di continuare la guerra, e non consentì all’inviato polacco di entrare in Istanbul.
Nel Maggio 1621, lasciò la capitale alla testa di un esercito e alla fine di
Agosto raggiunse Chotin sul Dniestr. Per metà Agosto tutti gli assalti alla
fortezza erano falliti e, a dispetto della determinazione di Osman di rimanere
sul campo per tutto l’inverno, l’ammutinamento del suo esercito lo costrinse ad
accettare i termini che il re Sigismondo andava proponendo. Agli inizi di
Novembre, l’esercito lasciò Chotin senza aver ottenuto nulla.
La
decisione di Osman doveva costargli la vita. La sua ambizione, sembra, era
restaurare l’Impero nella sua gloria originaria, riformando le sue istituzioni
e ribaltando le umiliazioni che Shah Abbas gli aveva inflitto. Un elemento del
suo piano era l’abolizione del corpo dei giannizzeri. Questo, almeno è ciò che
i giannizzeri credevano. Quando, nel 1622, egli attraversò il Bosforo con la
scusa di andare in pellegrinaggio, essi si ribellarono, credendo che la sua
intenziona fose di radunare un esercito in Siria e di usarlo per la loro
distruzione. Sotto pressione da parte dei Giannizzeri, Osman ritornò al
palazzo,ma rifiutò di ordinare l’esecuzione dei sei uomini che essi accusavano
di traviarlo. Il suo rifiuto provocò una ribellione dei giannizzeri che terminò
con la sua esecuzione e con la nuova ascesa al trono di Mustafa.
La
morte di un Sultano e l’intronamento di un altro che era mentalmente incapace
fecero sì che la stabiltà politica non ritornasse tanto presto. Gli stessi
giannizzeri, per espiare la loro colpa, chiesero l’esecuzione di Davud Pasha,
il Gran Visir che, nel breve tempo in cui aveva rivestito l’ufficio, aveva
condonato la morte del Sultano. Egli e l’agha dei giannizzeri persero le loro
vite, ma questo scatenò una competizione per il Visirato tra il giorgiano
Mehmed Pasha e l’albanese Mere (“vieni qui!”) Hüseyn Pasha. Anche le province
sperimentarono delle agitazioni. Nell’Anatolia orientale, Mehmed Pasha
l’abkhazi, governatore di Erzurum, sostenendo di vendicare il sangue di Osman,
si ribellò impadronendosi di Şebin Karahisar, Sivas, Ankara e, alla fine,
di Bursa. In Libano, Yusuf ibn Sayf affermò la sua indipendenza e in Iraq lo Shah Abbas catturò Baghdad.
L’opportunità era giunta per lui nel 1622, quando Bakr al-Subashi acquistò il
potere nella città e sconfisse una forza mandata contro di lui dal governatore
generale di Diyiarbekir, Hafiz Ahmed Pasha. Comunque, temendo un altro esercito
ottomano che stava avvicinandosi, egli andò le chiavi di Baghdad allo Shah
Abbas. Nello stesso anno i cosacchi attaccarono Yeniköy.
Il
primo passo per impedire la disintegrazione dell’Impero fu rimuovere il
Sultano. Nel 1623, dopo che un gruppo di ulema ebbe preso la decisione di
deporre Mustafa, una deputazione andò nel palazzo e negoziò con la madre del
Sultano. Mustafa fu detronizzato, ma la sua vita fu risparmiata.
Il
suo successore fu Murad IV, il dodicenne figlio di Ahmed I. Egli, o piuttosto
sua madre, Kösem Sultan, che fu la vera
reggente dell’Impero durante la minore età di suo figlio, – ereditò la
turbolenza politica, la rivolta di Kehmed Pasha l’abkhazi e la guerra con
l’Iran. Comprò la lealtà dei giannizzeri e delle altre truppe salariate con la
distribuzione di un bonus a seguito della salita al trono del figlio, con
grande costo del Tesoro interno e del Tesoro esterno. Allo stesso tempo, si
assicurò subito che il Gran Visir fosse di sua propria nomina ordinando
l’esecuzione di Kenankesh Ali Pasha, ufficialmente per il ritardo nel riportare
a palazzo la notizia della perdita di Baghdad. Nel 1624, il successore di Ali
come Gran Visir, Mehmed Pasha il Circasso, lasciò Istanbul con l’ordine di
sconfiggere il governatore ribelle di Erzurum e poi di procedere verso Baghdad.
Mehmed Pasha l’abkhazi subì una sconfitta vicino a Kayseri e si ritirò ad
Erzurum, mentre un’altra forza ottomana vinse gli Iraniani che si stavano
raggruppando a Kerkuk. Sia Erzurum che Baghdad però rimasero in mani nemiche.
Nel
1626, il successore di Mehmed Pasha come Gran Visir, Hafiz Ahmed Pasha, assediò
Baghdad per parecchi mesi. Dopo numerose schermaglie intorno alla città e una
grave sconfitta a Giugno, una rivolta dei giannizzeri lo costrinse a ritirarsi.
La guerra nell’Anatolia orientale e nel Caucaso non era più coronata da
successo. Ancora nominalmente un governatore ottomano, Mehmed Pasha l’abkhazi
disobbedì all’ordine di marciare contro
l’esercito safavide che assediava Ahiska. Invece, attaccò e sconfisse le forze
ottomane della regione di Erzerum, uccidendo i giannizzeri nella fortezza. Non
fu che nel 1628 che un esercito al completo sotto il comando del Gran Visir Hüsrev
Pasha fu capace di intrappolarlo ad Erzerum. Rendendosi conto di non poter
resistere ad un assedio, l’abkhazi si arrese e chiese una tregua. Il Sultano, a
differenza del solito, lo perdonò e, usando una tecnica già utilizzata per la
pacificazione dei ribelli anatolici, lo nominò governatore generale della
Bosnia.
La
scofitta di Mehmed Pasha l’abkhazi, il rinnovo nel 1629 del trattato di
Zsitvatorok e il coinvolgimento dell’Austria nella guerra dei 30 anni lasciò il
Sultano libero di usare tutta la sua forza contro l’Iran. La spedizione del
Gran Visir fu, nei suoi primi stadi, coronata da notevoli successi. Le forze
ottomane sconfissero quelle Iraniane negli scontri vicino Baghdad e
successivamente, nel 1630, il Gran Visir sconfisse un esercito safavide a
Mihriban e, durante la ritirata, si impadronì di Hamadan e Darguzin, con
l’intenzione di marciare su Ardabil e Qazvin. Fu lì che gli fu ricordato che il
sovrano voleva innanzitutto riprendere Baghdad e così ritornò indietro e cinse
d’assedio la città. Dopo il fallimento dell’assalto generale nel Novembre 1630,
Hüsrev
Pasha interruppe l’assedio e tornò a Mosul, consentendo al successore dello
Shah Abbas, lo Shah Safi, di ribaltare le conquiste ottomane.
Per
il suo fallimento nel catturare Baghdad il Sultano rimosse Hüsrev
Pasha e lo rimpiazzò con Hafiz Ahmed. Hüsrev Pasha sembra sia stato popolare
tra i giannizzeri e le sei divisioni di cavalleria del palazzo. La sua
rimozione fu la scintilla che fece scoppiare una violenta ribellione che si
estese oltre la capitale ai cavalieri dell’Anatolia. Con l’incoraggiamento del
Visir Rejeb Pasha, questi uomini vennero a palazzo nel Febbraio 1632 e chiesero
la testa del Gran Visir, del Gran Mufti e
di parecchi stretti collaboratori di Murad. Per pacificare i ribelli il Sultano
ordinò l’esecuzione dell’ultimo Gran Visir, Hüsrev Pasha, nel carcere di Tokat.
La sua morte rimosse un favorito dei ribelli, ma l’arrivo della sua testa ad
Istanbul infiammò la situazione. In Marzo, gli insorti chiesero altre
esecuzioni e, più pericolosamente per il Sultano, la custodia dei principi
Bayezid, Süleyman, Kasim ed Ibrahim. Il Sultano si piegò agli insorti per
quanto riguarda le esecuzioni, menre Rejeb Pasha e il nuovo Gran Mufti
accettarono di garantire la sicurezza dei principi. Fu a questo punto che i
ribelli discussero se detronizzare il Sultano. Comunque, alcuni dei soldati,
incluso anche l’agha dei giannizzeri,
rimasero leali al Sultano, e fu questi che informò Murad sul ruolo di Rejeb
Pasha e di Janbuladoghlu Pasha nel sobillare la ribellione. Il Sultano
sospettava in particolare Rejeb Pasha e in Marzo lo convocò a palazzo e lo fece
strangolare. Al suo posto nominò Tabani Yassi (“piedipiatti”) Mehmed Pasha.
Quando,
comunque, le truppe di cavalleria udirono che Murad aveva bloccato una parte
del loro soldo, la ribellione riprese vita. Questa volta il Sultano non
capitolò, ma chiamò nel palazzo i loro leader a gruppi e da ciascun gruppo
ottenne un giuramento di fedeltà. Poi contrattaccò, ordinanto la immediata
esecuzione dei ribelli catturati ad Istanbul e nelle province e la cessazione
di tutti i pagamenti che non facessero parte dei loro regolari salari.
La
sconfitta della ribellione salvò il trono di Murad, ma non fece finire i suoi
guai. Fu necessaria una spedizione sotto Küchük (“il piccolo”) Ahmed
Pasha per sopprimere i briganti in
Anatolia e per fermare la ribellione di Fakhr al-Din in Libano. Poi, nel 1633,
il fuoco distrusse gran parte di Istanbul, l’ultima di una serie di calamità
che sembra abbiano colpito il sovrano e l’abbiano reso sospettoso riguardo
tutto il suo entourage. Nel 1633 egli bandì il suo consigliere, Kochi Bey e
l’anno successivo, consigliato da sua madre, giustiziò il Gran Mufti, Ahizade.
Nel 1635 giustiziò il principe Süleyman e nel 1638 i principi Kasim e Bayezid,
provocando una crisi nella successione dinastica, visto che non aveva figli
viventi. Oltre alle frequenti e spesso arbitrarie esecuzioni, nel 1633, con
l’incoraggiamento di un potente gruppo di musulmani fondamentalisti mise al
bando caffè e tabacco. Durante questo periodo la penalità per chi fumava era la
morte.
Le
violente misure di Murad, comunque, non restaurarono l’ordine nell’Impero, e
non gli consentirono di restaurare la perduta gloria militare dei suoi predecessori.
Nel 1632, Shah safi invase la georgia e mise van sotto assedio. L’anno seguente
un esrecito sotto il comando del Gran Visir Mehmed Pasha, si riunì ad Üsküdar
ed avanzò fino a Diyarbekir. Entro Settembre, comunque, gli Iraniani avevano
tolto l’assedio e lo scoppio delle ostilità con la Polonia fece richamare
l’esercito. I continui raid tatari in Polonia e raid cosacchi in territorio
ottomano erano causa di tensione e nel 1633, la tensione condusse a
combattimenti sulla riva del Dniestr e ad una campagna sotto Mehmed Pasha
l’abkhazi. Gli assalti di Mehmed Pasha a Kamenets e alle fortificazioni
cosacche furono senza successo, e iniziarono le trattative. Quando queste non
condussero a nulla, Murad nominò Murtaza Pasha a capo della campagna polacca, con
pieni poteri di guerra e di pace. Egli lasciò Edirne nel 1634, e formalizzò un
accordo con la Polonia. Gli Ottomani dovevano far ritirare le tribù tatare
dalle steppe di Belgorod e i Polacchi dovevano tenere sotto controllo i
cosacchi. La pace lasciò libero Murad di intraprendere una campagna contro
l’Iran.
Nel 1635, nello stesso momento che inviava
Uzun Piyale in una spedizione navale contro i cosacchi, il Sultano lasciò
Üsküdar in persona alla testa del suo esercito. Per la fine di Luglio egli
aveva raggiunto Erivan e, entro una settimana, il comandante safavide si era
arreso e aveva offerto i suoi servigi al Sultano ottomano. Alla caduta della
città Murad mandò Kenan Pasha ad espugnare Ahiksa, mentre il corpo principale
dell’esercito proseguiva verso Tabriz. Qui, comunque, il Sultano cadde ammalato
e tornò a Van, con l’esrecito safavide che lo teneva d’occhio ma non attaccava.
Ad Izmit, sulla via di ritorno verso Istanbul, Kenan Pasha si riunì al Sultano
con la notizia della cattura di Ahiska.
La
campagna, sembrava, aveva avuto successo fino al momento in cui, nell’Aprile
1636, lo Shah Safi riconquistò Erivan e, poco dopo, sconfisse e uccise Küchük
Ahmed Pasha vicino a Mihriban. Murad non rispose immediatamente alla perdita,
ma infine, l’8 Maggio 1638, condusse il suo esercito da Istanbul, in compagnia
del Gran Mufti e dell’ammiraglio, a Baghdad. Durante il suo transito per le
province dell’Anatolia e dell’Arabia ordinò l’esecuzione di briganti e altri
miscredenti. A metà di Ottobre l’esercito si accampò fuori Baghdad e il 24
Dicembre il governatore safavide Bektash Khan, si arrese. Nel Gennaio del 1539,
Murad entrò nella città. Durante il viaggio di ritorno cadde malato a
Diyarbekir e non raggiunse la capitale fino a Giugno. Nel frattempo il Gran Visir,
Tayyar, (“il mercuriale”) Mehmed Pasha, negoziò il trattato di Qasr-i Shirin
con un inviato dello Shah, terminando una guerra che era proseguita ad
intermittenza dal 1603. Il trattato consegnava Baghdad all’Impero Ottomano,
ristabilendo il confine tra i Safavidi e l’Impero Ottomano che era stato
fissato col trattato di amasya nel 1555.
Murad
IV morì nel 1640 con la reputazione di colui che aveva restaurato l’ordine
nell’Impero e che, con le campagne di Erivan e Baghdad aveva rinverdito la
gloria militare ottomana. Il suo sucessore Ibrahim, per contrasto doveva
ricevere l’epiteto di “il matto”. Era il solo fratello sopravvissuto di Murad e
aveva sofferto, sembra, dei terrori da provati da giovane. Dal momento del suo
confinamento nel palazzo aveva assistito all’assassinio di Osman II, alla
deposizione di Mustafa e alla esecuzione dei suoi fratelli Süleyman, Bayezid e
Kasim. Fu solo con difficoltà, si racconta, e dopo che ebbe visto il cadavere
del fratello, che sua madre, Kösem Sultana e il Gran Visir Kemankesh
(“the bowman”) Mustafa Pasha lo persuasero ad ascendere al trono.
Nondimeno,
a dispetto dei suoi terrori, nei primi quattro anni del suo regno l’Impero,
sotto l’efficace controllo del Gran Visir, godette un periodo di stabilità.
Negli anni ’30 del Seicento, Murad aveva tentato di restaurare la sua forza
militare riassegnando a uomini in servizio attivo i feudi che non andavano più a sostentare un
servizio militare attivo. Nei primi anni anni ’40 Ibrahim e il suo Gran Visir
avevano ordinato un nuovo rilevamento fiscale e l’emissione di nuova moneta nel
tentativo di stabilizzare il Tesoro. Lo stesso anno vide la ratifica del
trattato con l’Iran e, con sollievo dell’Austria, in un momento di crisi nella
Guerra dei Trent’anni, il rinnovo del trattato di Zsitvatorok. Nel 1644
comunque questo periodo di tranquillità cessò e con esso la stabilità mentale
del sovrano. In quell’anno l’esorcista personale Jinji Hoja e i suoi alleati,
Sultanzade Mehmed Pasha e Yusuf Pasha avevano acquistato, apparentemente con il
supporto di Kösem sultana, controllo delle
nomine alle cariche di stato. Nel Gennaio 1644, essi provocarono l’esecuzione
di Kemankesh Mustafa e si installarono rispettivamente come giudice militare
dell’Anatolia, Gran Visir e Ammiraglio. Questo colpo di stato fu il primo
stadio della crisi.
Il primo elemento di questa fu lo scoppio
della guerra con Venezia. Nel Luglio 1644, pirati maltesi avevano catturato una
nave che trasportava l’ex capo degli eunuchi neri dell’Harem e molti altri
verso l’Egitto. La risposta ottomana fu di costruire una flotta che gli
osservatori ritenevano era destinata a malta. Di fatto, quando la flotta
apparve nel 1645, la sua destinazione era Creta. La conquista dell’isola era,
sembra, desiderio particolare del Sultano e, dal momento che si trovava sulla
rotta per l’Egitto, l’attacco da Malta era comunque da addebitare ai Veneziani.
Con il vantaggio della sorpresa, la campagna si aprì con dei successi. In
Agosto cadde Chania e l’anno seguente, a dispetto dei cambiamenti di fortuna tra
le fazioni al potere ci furono ulteriori vittorie. Recriminazioni reciproche
tra l’ammiraglio Yusuf Pasha e il Gran Visir, Sultananzade Mehmed Pasha,
condussero dapprima alle dimissioni di Sultanzade e poi alla esecuzione di
yusuf Pasha. Nondimeno, nel 1646, le truppe a Creta, sotto il comando di Mad
Hüseyn Pasha, catturarono Apokoroni e successivamente, dopo il fallito
tentativo di conquistare Souda, occuparono Rethymnon. Nello stesso momento Mad
hüseyn frustrò i tentativi Veneziani di attuare un blocco dei Dardanelli e di
stabilirsi a Tenedos. Nell’estate del 1647, Herakleion fu posta sotto assedio.
I successi di Mad Hüseyn contrastavano con i
problemi nella capitale. L’esecuzione di Kemankesh Pasha aveva inaugurato un
periodo di fiera competizione per l’incarico, che coincise con un
deterioramento dello stato mentale del Sultano. Sembra probabile che, al tempo
della sua successione, i consiglieri di Ibrahim fossero consapevoli che la sua
intelligenza era limitata: un trattato sul governo che lo scrittore di consigli
Kochi Bey scrisse per lui al momento della salita al trono è composto in
linguaggio opportunamente non complicato. Ciò che scatenò l’insanità mentale
sembra sia stata la crisi dinastica che suo fratello, Murad IV aveva lasciato
in eredità. Murad era morto senza eredi maschi in un momento in cui ibrahim non
aveva figli propri. Se Ibrahim fosse morto senza figli la dinastia si sarebbe
estinta. Il suo primo dovere, dunque, era di procreare eredi maschi, e questo
fu quello che fece con brama crescente. Il dovere si trasformò in una
ossessione e, come si ritirò nel mondo privato dell’Harem i suoi capricci
cominciarono a minare l’Impero. Nel 1647, fece giustiziare il Gran Visir, Salih
Pasha, accusandolo di non far applicare il bando delle carrozze nella capitale.
Al posto di Sahlil ibrahim nominò Musa Pasha, il marito di una delle sue amanti
preferite. Comunque, prima che Musa potesse raggiungere Istanbul, il
rappresentante del Gran Visir Hezarpare (“migliaia di pezzi”) Ahmed Pasha lo
persuase a nominare se stesso al suo posto. Per salvaguardare la sua propria
posizione Ahmed Pasha provvide ai capricci del Sultano, imponendo, tra l’altro
delle tasse per finanziare la sua ossessione per le pelli di zibellino e
l’ambra grigia.
La discesa del Sultano nella follia coincise
con un periodo di crisi politica e militare. Nel 1647 un contingente ottomano
pose l’assedio a Herakleion e i Veneziani bloccarono i dardanelli, impedendo
agli approvvigionamenti di raggiungere l’esercito. Una volta che gli Ottomani avevano
perso l’elemento della sorpresa, era diventato chiaro che i Veneziani avevano
la superiorità sul mare. Padroneggiando l’arte di costruire galeoni essi
godevano di un vantaggio, in particolare riguardo l’artiglieria navale, sugli
Ottomani, la cui flotta da guerra consisteva quasi interamente di galee a remi.
Anche in terra i Veneziani fecero progressi. In Dalmazia, il governatore
generale della Bosnia non riuscì a catturare Zadar e Šebenik, mentre i
Veneziani colpirono una serie di fortezze alla frontiera bosniaca. Nel 1647, in
un momento in cui il blocco degli stretti stava causando scarsità di cibo ad
Istanbul il Gran Visir Ahmed Pasha, rifiutò di ammettere a palazzo il
governatore generale della Rumelia che recava notizia della conquista Veneziana
di Klis. L’incoscienza del Sultano in un periodo di crisi condusse ad una
rivolta. Nel 1648, ricevendo l’ordine di pagare una notevole somma come “tassa
sui festeggiamenti” il governatore generale di Sivas, Varvar Pasha, si ribellò.
Con ciò contestava anche la pratica di rimuovere i governatori dai loro uffici
prima del termine previsto di tre anni. La ribellione non ebbe successo. Varvar
Ali sconfisse una forza governativa, ma subì la sconfitta e la esecuzione per
mano di Ibshir Pasha. Alla fine fu una sollevazione nella capitale che fece
cadere il Sultano.
Nel 1648 una flotta Veneziana bloccò con
successo i Dardanelli e impedì all’ammiraglio, Ammarzade, di trasportare
approvvigionamenti a creta. Egli pagò questo fallimento con la propria vita. In
Giugno un terremoto scosse Istanbul e fu preso da molti come un segno dell’ira
divina. In Agosto i comandanti dei giannizzeri chiesero al Gran Mufti,
Abdurrahim, una fatwa che
giustificasse l’esecuzione del Gran Visir. Il Gran Mufti fece ciò che gli era
stato chiesto e così, con la sua copertura, i cospiratori deposero e
giustiziarono prima il Gran Visir e poi lo stesso Sultano.
Il successore di Ibrahim fu il suo figlio di
sette anni Mehmed IV (1648-1487)
Nel momento dell’ascesa al sultanato del
bambino la figura più influente nel governo era sua nonna, Kösem sultana. Il
suo “regno” terminò con il suo assassinio nel 1651, probabilmente su
istigazione della madre di Mehmed, Turhan, che assunse la reggenza in
rappresentanza di suo figlio. Nel 1656, dopo un periodo di instabilità politica
e un momento di pericolo mortale che era seguito all’annientamento da parte dei
Veneziani di una flotta ottomana nei Dardanelli, Turhan cedette gran parte del
suo potere ad un anziano e quasi sconosciuto governatore provinciale che nominò
come Gran Visir. La sua intuizione fu notevole. Köprülü Mehmed Pasha, e, dopo
di lui, suo figlio Fazil Ahmed, rinverdirono le fortune dell’Impero, portando
non solo calma politica, ma anche successo militare. Fu Fazil Ahmed che portò
la guerra di Creta ad una conclusione vittoriosa nel 1669. Questo periodo
doveva durare fino alla decisione, nel 1683, di assediare Vienna.
CRONOLOGIA:
DALL’ASSEDIO DI VIENNA AI GIORNI NOSTRI, 1683-1922
Non solo l’assedio di Vienna fallì, ma
condusse direttamente alla formazione della Lega Santa, una coalizione di
potenze anti-ottomane (Austria, Polonia,Venezia, Russia). Nei sedici anni di
guerra che seguirono, l’Impero Ottomano soffrì sconfitte sul mare e in terra.
I
turchi dovettero sgombrare l’Ungheria (Buda e Pest furono riconquistate nel
1686) e, battuti da Eugenio di Savoia a Zenta (1697), concludere due anni dopo
la pace di Carlowitz, che sanzionava le perdite dell’Ungheria e della
Transilvania, nonché quella temporanea della Morea, riconquistata a Venezia
dalle campagne di F. Morosini.
In base al trattato di Carlowitz del 1699, il
Sultano cedette l’Ungheria agli Austriaci, e Atene e la Morea (Peloponneso) a
Venezia. Nel giro di quindici anni l’Impero aveva recuperato i territori persi
in Grecia ma l’Ungheria – la conquista più prestigiosa di Süleyman il magnifico
– era persa per sempre.
Era
la prima grande guerra che si chiudesse in perdita per l’Impero Ottomano. Venti
anni dopo, la pace di Passarowitz (1718), se restituiva ai turchi la Morea, li
obbligava a cedere all’Impero asburgico un tratto della Serbia settentrionale;
e mentre Venezia scompariva ormai dalla lotta, vi subentrava come nuovo
terribile nemico dell’Impero Ottomano la Russia, destinata d’ora innanzi ad
aver peso decisivo nella politica estera turca. Il trattato di Küciuk
Qainargè (1774), chiudendo appunto la
prima guerra russo-turca, toglieva ai Turchi la Crimea e inaugurava la
protezione russa sulle popolazioni greco-ortodosse dell’Impero. L’indebolirsi
della grande compagine ottomana era ormai evidente e inarrestabile. Sultani
energici come Selim III (1789-1807) e soprattutto Mahmud II (1809-1839)
tentarono di porvi riparo con organiche riforme soprattutto militari (sterminio
e soppressione nel 1826 dei turbolenti giannizzeri), ma non riuscirono a
impedire l’ulteriore disintegrarsi dell’Impero (insurrezione greca del 1821,
con susseguente distacco della Grecia dopo l’intervento europo a Navarino;
indipendenza effettiva dell’Egitto sotto Mohammed Ali e campagne egiziane sin
nel cuore dell’Anatolia; autonomia della Serbia sotto gli Obrenovic, 1830).
Accanto alle riforme militari, fu allora tentato tutto un radicale rinnovamento
di struttura dello stato per adeguarne le basi agli stati moderni europei. Fu
questo il periodo delle cosiddette Tanzimat
(“ordinamenti” o “riforme”), i cui atti fondamentali furono il rescritto
imperiale di Gülkāne (1839) e l’altro del 1856: abbandonando i principi
del diritto canonico musulmano, tali riforme sancivano l’uguaglianza dei
sudditi dinanzi alla legge, indipendentemente dalla confessione religiosa, la
libertà di coscienza e di culto, l'equa ripartizione delle imposte, mentre si
istituivano tribunali civili e penali distinti da quelli religiosi (già da
tempo speciali trattati, le cosiddette “capitolazioni”, sottraevano a qualsiasi
tribunale ottomano gli stranieri residenti nell’Impero). Ma neppure tali riforme
valsero ad arrestare la decadenza interna e internazionale dello stato
ottomano, nonostante l’interessato intervento in suo aiuto delle potenze
europee (guerra di Crimea, 1855). Si fece allora più vivace il moto liberale,
volto a ottenere una costituzione di tipo prettamente europeo. Questa, largita
nel 1876 dal Sultano ‘Abd ul-Hamid II (1876-1909), fu poi subito lasciata
cadere e lo stato ottomano fu retto da
quel despota astuto e sanguinario (“il Sultano rosso”) con un regime di
corruzione e di terrore. La seconda guerra russo-turca (1877-78) vide
frattanto, con le decisioni del congresso di Berlino, il quasi totale
sfasciarsi del dominio turco in Europa, con la creazione degli stati
indipendenti di Serbia, Romania, e (1885) Bulgaria. L’ultimo tentativo di
superare la crisi entro l’antico quadro dell’Impero plurinazionale fu la
rivoluzione radical-massonica dei Giovani Turchi (“Comitato Unione e
Progresso”) del 1908-09 che depose ‘Abd ul-Hamid e inaugurò un regime
costituzionale sotto Maometto V (1909-1918). Ma il processo di disintagrazione
continuò: con la guerra Italo-turca (1911-12) andava perduta la Libia, con le
due guerre balcaniche (1912-13) la Macedonia, la Tracia occidentale, le ultime
isole greche dell’Egeo, l’Albania.
L’esito
della prima guerra mondiale, in cui il regime dei Giovani Turchi trascinò la
Turchia a fianco degli Imperi centrali, dette il colpo di grazia al secolare
Impero Ottomano. Nel 1918 si staccavano da esso tutti i paesi arabi (Siria,
Palestina, Mesopotamia, Arabia) e il trattato di Sévres (1920), sanzionando
questi mutamenti territoriali e progettandone altri (indipendenza dell’Armenia,
autonomia del Kurdistan) metteva in forse l’unità e l’indipendenza stessa della
Turchia. Questa fu salvata dal movimento
di riscossa capitanato da Mustafa Kemal, che condusse dopo quattro anni di
lotta all’espulsione degli invasori stranieri dall’Anatolia e alla
restaurazione nel territorio prettamente turco di una gelosa sovranità
nazionale. Ma questa resurrezione segnò insieme la fine dell’Impero Ottomano,
abolito come sultanato nel 1922 e sostituito nel 1923 con la proclamazione
della Turchia. L’ultimo Sultano ottomano, Maometto VI, prese la via
dell’esilio.
LA
DINASTIA: RIPRODUZIONE E STRUTTURA FAMILIARE
L’Impero
Ottomano era uno stato dinastico, la cui esistenza continuativa dipendeva
dall’abilità del Sultano di generare eredi maschi e la cui stabilità politica
era, in una certa misura, dipendente dalla stabilità all’interno della famiglia
imperiale e del palazzo imperiale .
Questioni riguardanti la riproduzione dinastica, la struttura familiare e la
successione erano dunque materie di preminente importanza politica.
Erano
le regole della legge islamica o, più precisamente, della sua interpretazione
ad opera della scuola hanafita che determinava la struttura della dinastia.
Queste regole, se portate alla loro
logica conclusione, non costituivano una famiglia intorno alle persone del
marito e della moglie, ma piuttosto una famiglia patriarcale intorno alla
persona di un padre. Secondo la legge, dunque, il Sultano era il solo capo
della famiglia dinastica, allo stesso modo che egli era il solo sovrano
dell’Impero. Ancora per questa ragione legale, la nozione di una regina
formalmente riconosciuta – sebbene non una donna potente de facto – era aliena dall’Impero Ottomano come lo era alle altre
entità politiche islamiche.
Le
regole essenziali della legge di famiglia erano queste. Una donna poteva
maritarsi solo con un marito alla volta, che doveva anche essere socialmente
eguale alla sua famiglia. Un uomo, per contro, poteva maritarsi con quattro
mogli simultaneamente, e la sua moglie o mogli non necessitavano di essergli
eguali socialmente: Una donna musulmana non può, dunque, sposare un uomo
non-musulmano, poiché la sua religione lo rende socialmente inferiore. Un uomo
musulmano, d’altra parte, può sposare una donna non-musulmana, una regola che
doveva diventare un fattore importante
nella politica dinastica. Ciò che era più importante, tuttavia, per la
struttura della dinastia era la regola
che consente ad un uomo di possedere ed avere relazioni sessuali con tante
schiave quante la sua ricchezza può garantirgli. Un uomo può produrre figli
legittimi sia da una moglie che da una schiava. Tutti i bambini nati da una
moglie sono automaticamente uomini liberi, ed hanno un automatico diritto ad
ereditare. Così è anche è per i figli di una schiava, a patto che il padre li
riconosca come suoi propri. Quando l’uomo riconosce il figlio di una schiava la
madre schiava acquista uno stato privilegiato nella casa. Il suo padrone non la
può vendere e diventa automaticamente libera alla sua morte. Non c’è differenza
quanto a status legale tra il figlio della propria moglie e un figlio di una
schiava riconosciuto, dato che la discendenza legale è attraverso il padre
piuttosto che attraverso la madre. Queste stesse regole si applicavano alla
dinastia ottomana. Molti dei sultani erano progenie di madri schiave, e il
sultanato discendeva solo in linea maschile. Discendenti nella linea femminile
non avevano nessun diritto al trono, e il costume dinastico proibiva loro di
occupare un qualche ufficio superiore a quello di governatore provinciale.
La
legge permette anche, o perfino richiede, ad un uomo di confinare ogni moglie
nella casa e lo obbliga, in cambio di questo, di fornirle un adeguato
mantenimento. Per costume piuttosto che per legge, gli altri membri femminili
della famiglia tendevano a soffrire simili restrizioni, ed erano queste regole
legali e del costume che erano alla base della istituzione dell’harem, e
creavano effettivamente un mondo privato
femminile che contrastava con quello pubblico degli uomini. La dinastia
ottomana riproduceva questa struttura. All’interno del Palazzo, l’Harem era
quasi inaccessibile dai quartieri degli uomini, eccetto per il Sultano stesso e
gli eunuchi nominati suoi guardiani. L’Harem poteva, in certi periodi essere
stato un centro di potere politico, ma era invisibile al mondo esterno. La
sfera pubblica del palazzo era esclusivamente maschile.
Dal
momento che le donne non potevano ereditare il trono, il primo dovere di un
Sultano o principe ottomano era procreare eredi maschi, che poteva fare ,
legalmente, sia attraverso una moglie che attraverso una concubina schiava.
Prima del 1450, il Sultano normalmente si maritava, ma sembra che fin dai primi
tempi sia stato costume della dinastia
di riprodursi attraverso schiavi, le mogli avendo una funzione politica
piuttosto che riproduttiva.
Nella
tradizione ottomana la discendenza della dinastia inizia con il matrimonio del
primo sovrano, Osman (m. c. 1324), con Malhun, figlia del derviscio Edebali, e
madre del secondo regnante, Orhan (circa 1324-62). La storia è chiaramente
leggendaria, ma il nome Malhun può essere una versione abbreviata di una certa
“Malhatun figlia di Ömer Beg” il cui nome appare come
testimone della creazione di un negozio fiduciario del figlio di Osman, Orhan. É possibile che
questa donna fosse la moglie di Osman e la madre di Orhan. Il titolo di suo
padre “Beg” (“signore”), all’epoca suggerisce che si trattava di un signore
indipendente che aveva forse dato in moglie sua figlia a Osman per ragioni
poltiche. Questo, comunque è materia di speculazione. La madre del terzo
sovrano ottomano, Murad I (1362-1389) era anche, se si deve credere alla
tradizione ottomana, una moglie piuttosto che una schiava. Il suo nome, come
attesta una iscrizione a Iznik, era Nilüfer (“giglio d’acqua”), e la tradizione
la vuole figlia del sovrano greco di Yarhisar, che Osman aveva catturato e dato
in moglie a suo figlio, Orhan. Come la maggior parte delle storie degli inizi
degli ottomani, comunque, è abbastanza probabile che questo racconto sia una
invenzione: il nome della donna suggerisce che era una schiava.
Quale
che fosse lo status di Nilüfer, la preferenza ottomana per la
riproduzione attraverso le schiave sembra sia rimasta stabilita con Murad I. La
madre del suo figlio e successore, Bayezid I (1589-1402) era, come mostrano due
atti di negozio fiduciario che sono
pervenuti sino a noi, una certa Gülchichek (“rosa”) e, di nuovo, il suo nome
suggerisce che non era una donna nata libera. Il cronista Shükrullah scrisse
intorno al 1460 dei figli di Bayezid: “ebbe sei figli: Ertughrul, Emir Süleyman
(Rumelia, 1402-1411), il Sultano Mehmed (I, Anatolia, 1402-13; 1413-1421), il
principe Isa, Il principe Musa (Rumelia, 1411-13), e il principe Mustafa. Le
loro madri erano tutte schiave. Egli fa lo stesso commento per i figli di
Mehmed I: “Egli ebbe cinque figli: il principe Murad II (1421-1451), il
principe Mustafa, il principe Ahmed, il prinicipe Yusuf e il principe Mahmud.
Le madri di tutti loro erano schiave. Così pure era Hüma, la madre di Maometto
II (1451-1481) e Gülbahar, la madre di Bayezid II (1481-1512). Ayshe, la madre
del figlio e successore di Bayezid, Selim I (1512-1520) era un’eccezione. Ella
sembra essere stata la figlia di Alaeddevle, il sovrano di Dulgadir, che aveva
sposato Bayezid nel quadro di una alleanza politica prima della sua salita al
trono, quando era principe-governatore di Amasya.
Attraverso
la sua storia, la dinastia ottomana continuò a riprodursi tramite schiave, ma
tra il quattordicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo era anche consuetudine
limitare la riproduzione di ciascuna consorte ad un singolo figlio. Una volta
che avesse partorito al Sultano un erede maschio, la donna non entrava più nel
suo letto. Erano, sembra, questioni politiche riguardanti la successione che
determinarono questa pratica. Dal momento della sua nascita, ogni figlio di un
principe o Sultano era idoneo al trono, e così diventava il rivale politico dei
suoi fratelli. I principi comunque non crescevano insieme. Ciascuna madre
allevava separatamente il suo figlio e quando, all’età di dieci, undici o
dodici anni, il Sultano, come era costume, lo nominava governatore di una
provincia, sua madre lo accompagnava al suo nuovo incarico e diventava il suo
guardiano morale. In tal modo, ogni madre diveniva una delle figure con
maggiore autorità nella famiglia che si
formava intorno a suo figlio nella sua sede provinciale, e patrocinatrice della
sua causa nella lotta per il trono che
doveva inevitabilmente seguire alla morte del padre.
Questo
almeno era lo schema per quanto riguarda la riproduzione e le cure materne fino
al regno di Süleyman I (1520-1566). Questo
Sultano ruppe con il costume, a quanto pare non per ragioni politiche, ma per
amore. Nel 1521, il Sultano aveva un unico figlio vivente, Mustafa, la cui
madre era una concubina schiava chiamata
Mahidevran. Nello stesso anno egli procreò un altro figlio, Mehmed, da Hurrem,
la concubina che fonti europee ricordano come Roxelana. A questo punto, per
costume dinastico, egli non avrebbe dovuto avere più rapporti sessuali con
lei,ma invece, tra il 1522 e il 1531, lei partorì altri sei figli, incluso il
suo successore, Selim II (1566-74). Tanto era l’affetto per Hurrem che nel
1533, con un atto di rottura rispetto alla tradizione che sembra abbia
scandalizzato i suoi contemporanei, egli la liberò e la sposò. Quando lei morì
nel 1558, fu sepolta nella moschea Süleymaniye, vicino al mausoleo del Sultano,
come un segno duraturo del suo affetto. La posizione di Hurrem come madre di
più di un figlio alterò la struttura politica della dinastia. Differentemente
dalle precedenti madri di principi, ella non accompagnò i propri figli nel
governatorato delle province, ma rimase ad Istanbul al centro del potere, con
immediato accesso al Sultano. In questo senso prefigurava le potenti donne
della fine del sedicesimo e del diciassettesimo secolo.
Hurrem
stabilì un precedente. Prima della sua salita al trono il figlio di Süleyman,
Selim II, aveva procreato parecchie figlie e un figlio dalla sua concubina
preferita, Nurbanu, per nascita una veneziana di nobile, anche se illegittima
discendenza. Dopo la sua salita al trono egli procreò sei altri figli,
ciascuno, sembra, da madri differenti, ma
si differenziò dai suoi predecessori per il fatto che riconobbe il figlio avuto da Nurbanu, Murad
III (1574-1595), come suo legittimo erede, e seguì suo padre nel prendere –
apparentemente – Nurbanu come sua legittima moglie, dandole una posizione di
potere simile a quella di cui aveva goduto la sua matrigna Hurrem. A differenza
di Hurrem, però, Nurbanu sopravvisse al suo consorte e, tra il 1574 e la sua
morte nel 1583, continuò a godere di un ruolo politico come madre del Sultano
regnante, sebbene fosse a quanto pare residente nel Palazzo dopo la morte di
Selim II. Colei che le succedette, Safiye, ebbe una carriera simile. Anche essa
era una concubina favorita con cui Murad III a quanto pare aveva una relazione
monogamica fino alla morte del loro secondo figlio nel 1581. Tra questa data e
la sua morte Murad procreò, apparentemente su istigazione di sua madre,
diciannove figli da differenti concubine, ma fu comunque il figlio rimasto di
Safiye, Mehmed III (1595-1603) che ascese al trono nel 1595, con sua madre,
Safiye, come figura dominante. Il potere delle regine madri divenne
particolarmente pronunciato durante il diciassettesimo secolo, col lungo
“regno” di Kösem Mahpeyker, la favorita di Ahmed I (1603-1617). Era la madre di
quattro dei cinque figli di Ahmed, di cui due, Murad e Ibrahim dovevano
diventare sultani. Il suo periodo di potere iniziò nel 1617, quando il figlio
mentalmente debole di Ahmed I, Mustafa I (1617-1618, 1622-1623) ascese al
trono. Dopo la deposizione di Mustafà l’anno successivo il suo successore Osman
II (1618-1622) – figlio di Ahmed I da una madre differente – la bandì dal
Palazzo, ma lei tornò dopo l’uccisione di Osman nella rivolta dei giannizzeri. Il
successore di Osman era Mustafa, una persona dalla mente debole e la sua
successione al trono portò temporaneamente sua madre in una posizione di
potere. Mustafa, comunque, perse il suo trono dopo poco meno di un anno e fu
allora che il figlio di Kösem, il dodicenne Murad IV (1623-40) divenne Sultano.
Con la sua ascesa al trono Kösem effettivamente prese le redini del governo in
sue veci, e rimase la sua stretta consulente anche dopo che ebbe raggiunto
l’età adulta. Alla morte di Murad, il suo ultimo figlio vivente, Ibrahim
(1640-1648) succedette. Quando la sua instabilità mentale minacciò la sicurezza
del regno, Kösem sembra aver giocato un ruolo nel condurre gli affari di
governo e continuò a farlo dopo la deposizione di Ibrahim nel 1648, fino al suo
assassinio nel 1651 su istigazione, si vociferava, di Turhan Sultana, la madre
del nuovo Sultano Mehmed IV (1648-87). Per i successivi cinque anni Turhan fu
reggente in vece del figlio finché, col suo consenso, Küprülü Mehmed Pasha
assunse la carica di gran visir nel 1656, con poteri virtualmente sovrani. Da
questa data, il potere politico delle regine madri, svanì.
La
dinastia ottomana, dunque, si riproduceva quasi esclusivamente attraverso
concubine schiave. Prima del regno di Süleyman, il ruolo di queste donne
era di procreare ed educare ciascuna un singolo figlio. Erano loro le
responsabili per la crescita dei loro figli, ma non avevano parte nel governo
dell’Impero, eccetto forse nelle province alle quali il Sultano aveva assegnato
i loro figli come governatori. Col regno di Süleyman I, lo schema cambiò. Dal
periodo di Hurrem era abbastanza consueto, per una concubina, dare alla luce più di un figlio e, con la
morte del consorte, di assumere il ruolo di regina madre, con una potente
influenza su suo figlio, il Sultano regnante. Questo sviluppo raggiunse il suo
massimo con le carriere di Kösem e Turhan, due donne le cui forti personalità
sembrano aver tenuto insieme la dinastia
durante quasi quaranta anni di crisi dinastiche, politiche e militari.
La posizione e il potere della regina madre non fu mai formalizzato, ma
osservatori sia ottomani che stranieri erano consapevoli della sua realtà e
invero, in un sistema dove la prossimità al Sultano era una fonte di potere,
ciò sembrava quasi naturale.
A
dispetto della prefrenza della dinastia ottomana per la riproduzione attraverso
schiave concubine, nel primo secolo e mezzo di sovranità ottomana, i matrimoni
reali erano comuni. Il loro scopo, comunque, era sempre politico e mai
riproduttivo. La questione se Osman
sposò Malhatun e se la consorte di Orhan, Nilöfer era una moglie o una concubina
sono oggetto di speculazione. Il primo riferimento sicuro al matrimonio di un
principe ottomano appare nella cronaca bizantina dell’Imperatore Giovanni VI
Cantacuzeno che riporta, nella sua
versione della storia, come Orhan chiese la mano di sua figlia Teodora,
promettendo a Cantacuzeno che sarebbe stato “come un figlio, e avrebbe messo il
suo intero esercito sotto gli ordini di Kantacuzeno”. Il matrimonio ebbe luogo
nel 1346 e successivamente Orhan fornì
effettivamente truppe al suo patrigno, truppe che furono un fattore
della sua conquista del trono di Bisanzio nel 1346. Ciò che il matrimonio aveva
fatto era stabilire una alleanza tra le
due famiglie. Dopo l’abdicazione di Giovanni Cantacuzeno nel 1354, e la salita
al trono di Giovanni V paleologo, con cui Orhan non aveva legami di famiglia,
gli attacchi ottomani sul territorio bizantino ricominciarono di nuovo. Nel
medesimo tempo, Orhan continuò a sostenere la famiglia Cantacuzeno, mandando
truppe al figlio di Cantacuzeno, Matteo, nel suo tentativo fallito di strappare
il trono bizantino a Giovanni VI Paleologo. La soluzione di tale imperatore di
fronte alla aggressione ottomana fu di cercare di legare la sua propria famiglia
a quella di Orhan. Nel 1358 egli fidanzò sua figlia Eirene al figlio di Orhan
Halil, con la richiesta che il vecchio Orhan nominasse Halil suo successore. Di
nuovo, sperava che una alleanza familiare avrebbe avuto come conseguenza che
Orhan avrebbe risparmiato il suo territorio e avrebbe sostenuto il suo trono.
Il piano fallì: il matrimonio non si fece e Halil non successe a Orhan.
La
pratica di sposarsi con membri di dinastie straniere doveva continuare sotto il successore di
Orhan, Murad I, ma con una importante differenza. Il matrimonio di Orhan con
Teodora l’aveva reso partner eguale o, se si deve credere a Giovanni
Cantacuzeno, partner subordinato in una
alleanza. Al tempo di Murad, il matrionio era diventato uno strumento di
soggezione. Qualche tempo dopo il 1371 Murad sposò Thamar, la sorella delo Zar
di bulgaria Sisman di Tarnovo. Lo scopo
dell’unione era, è chiaro, ridurre Sisman allo stato di vassallo, che doveva
fedeltà a Murad, probabilmente il pagamento di un tributo e certamente la fornitura
di truppe all’esercito di Murad. Fu il mancato rispetto di quest’ultimo obbligo
da parte di Sisman che condusse Murad a inviare un esercito contro i suoi
domini nel 1388.
I
matrimoni di Bayezid furono similmente
strumenti di dominio politico. Il primo di questi ebbe luogo nei tardi anni ’70
del 1300, quando suo fratello sposò la figlia di Yakub, il signore del vicino
principato anatolico di Germiyan. La ragione era chiaramente un acquisto
territoriale, dal momento che la giovane principessa portava come dote la
capitale di Germiyan, Kütahya e altre città nel
principato. Nel 1394, quando successe al trono, Bayezid sposò la figlia della Contessa di Salona, un principato
francese ad est di Atene. Con la sposa, acquistò la metà della contea di sua madre.
Entrambi questi matrimoni erano, in termini legali, peculiari, dal momento che
la legge islamica non richiede che la sposa porti una dote, come queste due
donne invece evidentemente fecero. Queste acquisizioni di terre attraverso
matrimoni sembrano, dunque essere stati casi in cui i sultani ottomani avevano
adottato, a proprio vantaggio, i costumi dei loro vicini greci e latini.
L’altro matrimonio di Bayezid fu più convenzionale. Egli sposò, probabilmente
nel 1392, Olivera, la sorella di Stefano Lazarević di Serbia, ciò che
riduceva Stefano a vassallo, con l’obbligo di fornire troppe e tributi. In
cambio Bayezid poteva offrire a Stefano protezione, particolarmente contro le
ambizioni del re di Ungheria.
Accordi
matrimoniali come questi erano possibili
solo quando gli ottomani divennero un potere politico e militare dominante.
Durante la guerra civile che seguì la sconfitta di Bayezid ad opera di
Tamerlano nel 1402, i principi ottomani in guerra tra loro non contrassero
matrimoni per dominare i propri vicini, ma piuttosto per creare alleanze che
fossero utili nella lotta contro i loro fratelli. Così, quando il principe Musa
arrivò in Valacchia nel 1409, per sfidare l’ascesa di suo fratello Süleyman
in Rumelia, si assicurò l’alleanza del voivoda Mircea di Valacchia sposando la
figlia di questo sovrano. Quattro anni più tardi, quando aveva sconfitto
Süleyman, sposò la figlia illegittima del Despota Carlo Tocco di Ioannina, in
un tentativo di assicurarsi un’alleanza contro suo fratello, Mehmed. Mehmed,
nello stesso momento, si era sposato una principessa di Dulgadir, formando
un’alleanza in Anatolia che avrebbe protetto la sua frontiera sud-orientale da
un eventuale attacco Timuride, Mamelucco o Karamanide, mentre combatteva suo
fratello in Europa. Allo stesso tempo, il suo patrigno di Dulgadir gli fornì le
truppe per il suo attacco finale al principe Musa nel 1413.
Murad
II continuò la pratica di sposare membri di dinastie straniere. Nel 1423, il
signore di Kastamonu, Isfendyaroghlu, attaccò le terre di Murad, inducendo il
Sultano ad un riuscito contrattacco. Isfendyaroghlu cercò la pace e, come
condizione per la non-aggressione da parte di Murad, diede al Sultano in
matrimonio la sua figlia ancora bambina e acconsentì a fornire ogni anno truppe
per il suo esercito. Il secondo matrimonio di Murad, nel 1435, era con Mara, la
figlia del Despota Serbo Giorgio Branković, la cui fedeltà era essenziale perché
Murad potesse rendere sicura la frontiera lungo il Danubio con il regno di
Ungheria. Il matrimonio del suo figlio, Mehmed (III) nel 1450 a Sitti Hatun di
Dulgadir ebbe una simile funzione di rendere sicure le sue frontiere orientali
in Anatolia. Questo deve essere anche stato il proposito del matrimonio del
figlio di Mehmed, Bayezid (III) con Ayshe Hatun, figlia di Alaeddevle di
Dulgadir, le cui terre erano contigue alla provincia di cui il principe era
governatore.
Questo
fu l’ultimo matrimonio di un principe o Sultano ottomano con una principessa straniera. Ciò che
colpisce di più riguardo questi matrimoni è che essi sembrano, per la maggior
parte, essere stati sterili. Murad II alla fine procreò un figlio con la figlia
di Isfendyaroghlu, e Selim I era, eccezionalmente, il figlio di una
principessa, ma, in generale, la funzione delle spose dinastiche non era quella
di procreare, ma di assicurare la lealtà dei loro padri come alleati o vassalli
del Sultano ottomano, e nell’ultimo caso di vivere come ostaggi alla corte
ottomana. Il matrimonio per i sultani ottomani era un espediente politico.
Quando non fu più utile, essi interruppero la pratica.
I
matrimoni di principesse ottomane, per quel tanto che sopravvive nelle fonti,
sembrano aver seguito uno schema analogo. Prima della metà del quindicesimo
secolo, esse si sposavano a dinastie straniere. Da allora in poi i loro
matrimoni furono interni allo stato ottomano. Murad I maritò una delle sue
figlie a Süleyman Pasha, il signore di
Kastamonu, e un’altra figlia ad Alaeddin, il signore di Karaman, che il
fratello di lei, Bayezid I doveva sconfiggere ed uccidere nel 1397. Ci fu
un’altra unione con i Karamanidi nel secolo seguente, quando Ibrahim di Karaman
(m. 1463) sposò Hatun Sultana, una figlia di Mehmed I, da cui ebbe sei figli. I
fatti successivi alla morte di Ibrahim, quando questi si disputarono la
successione con un figlio di Ibrahim da un’altra madre, indicano che poteva
esserci un vantaggio per il Sultano ottomano in tali accordi. La disputa di
successione diede a Mehmed II un pretesto per interferire negli affari di
Karaman, e di risolvere la disputa a favore del suo cugino, Pir Ahmed.
Presumibilmente, quando Murad II sposò una figlia di Kasim, il figlio di Isfendyaroghlu
di Sinope, la cui figlia lui stesso aveva sposato, il suo scopo era di legare
le dinastie ottomana e Isfendyaride a vantaggio degli ottomani. Comunque, dal
momento che la discendenza avveniva il linea maschile, la prole delle
principesse sposate con dinastie straniere non era, in senso legale, ottomana,
e questi matrimoni non potevano dunque servire per stabilire rivendicazioni
territoriali ottomane. Perdipiù, dal momento che la legge proibisce ad una
donna musulmana di sposare un non-musulmano, le principesse erano disponibili
solo per matrimoni con dinastie musulmane, e non nelle dinastie cristiane dei
Balcani. Per queste ragioni, i patrimoni di principesse a signori stranieri
sembrano essere stato un elemento poco importante nella politica dinastica ottomana.
Dopo
circa il 1450, la pratica scomparve. Dal regno di Bayezid II si può datare con
sicurezza il costume stabile di trovare sposi per le sorelle, figlie e nipoti
del Sultano tra l’élite di governo dell’Impero. La figlia di Bayezid, Hundi Hatun,
per esempio, sposò Hersekzade Ahmed Pasha, che ricoprì l’incarico di Gran Visir
cinque volte durante il regno del suo fratellastro e sotto il suo successore
Selim I. Questa pratica non era di fatto nuova, dal momento che Chandarli
Mehmed, il fratello del Gran Visir di Murad II, Chardarli Halil, aveva sposato
la figlia di Mehmed I, Hafsa, e ci devono essere stati matrimoni simili. Dalla
metà del quindicesimo secolo, comunque, divenne pratica normale e probabilmente
invariabile.
Durante
la seconda metà del regno di Solimano I divenne consuetudine per
il Gran Visir sposarsi con membri della famiglia reale. Rüstem Pasha, per
esempio, Gran Visir tra il 1544 e il 1553, e di nuovo dal 1555 fino alla sua
morte nel 1563, sposò l’unica figlia di Solimano, Mhrimah (m. 1574). Sokollu
Mehmed, Gran Visir del figlio di Solimano, Selim II, divenne similmente
figliastro del Sultano. Questo schema di matrimonio doveva diventare la norma
verso la fine dell’Impero e chiaramente andava a beneficio della dinastia.
Legando gli uomini di stato alla famiglia reale veniva ridotto il rischio che
stabilissero delle famiglie che fossero indipendenti dal Sultano e, col
richiedere che i mariti delle spose reali divorziassero dalle loro mogli,
evitava che facessero alleanze matrimoniali con altre famiglie che avrebbero
potuto sfidare il potere del Sultano. Queste spose reali devono aver agito come
spie per il Sultano, riferendo sulle attività dei suoi ministri.
Lo
scopo del matrimonio, dunque, era sempre politico. Erano le concubine e non le
mogli che assicuravano la riproduzione
della dinastia.
Dopo
la riproduzione, l’elemento più essenziale nell’assicurare la continuità della
dinastia e così dell’Impero era la gestione della successione.
Come
esattamente il primo sovrano della dinastia ottomana raggiunse il
riconoscimento come signore supremo non è chiaro. La tradizione ottomana
individua l’inizio dell’indipendenza ottomana
nella prima recita in nome di Osman della preghiera del Venerdì, la
funzione religiosa attraverso la quale, nell’Islam, un sovrano annuncia la sua
sovranità. Questo, asserisce la tradizione,
ebbe luogo nella città di Karajahisar nella valle del Sakarya. I
cronisti hanno assegnato a questo evento
varie date, e spesso lo hanno abbellito in accordo con la propria particolare
visione della legittimazione al trono ottomano. Che sia accurata o no la
tradizione di Karajahisar, la sopravvivenza di una moneta che porta
l’iscrizione “(moneta) battuta da Osman, figlio di Ertughrul” conferma che gli
ottomani si consideravano sovrani indipendenti , dal momento che l’emissione di
moneta, come la celebrazione della preghiera del venerdì in nome del sovrano
equivaleva a una dichiarazione di sovranità. La successione nella dinastia
ottomana, dunque, inizia con la successione ad Osman.
Osman
fu seguito da suo figlio, Orhan il quale, secondo una tradizione del
quindicesimo secolo, succedette al trono durante la vita di suo padre. Una
seconda storia tradizionale ci dice come, alla morte di Osman, il fratello di
Orhan, Ali Pasha, volontariamente rinunciò
a tutte le pretese al trono e si ritirò in una vita di contemplazione.
Il primo di questi racconti potrebbe forse essere vero, ma il secondo è
certamente una leggenda che un cronista del quindicesimo secolo elaborò per
fornire un modello di come la successione avrebbe dovuto essere gestita, in
contrasto con le pratiche sanguinarie dei suoi giorni.
In
un aspetto, comunque, la storia del cronista è corretta. Anche se Orhan non
ebbe mai un fratello chiamato Ali Pasha, egli pare essere succeduto al
trono senza lo spargimento di sangue che
caratterizzò l’inizio dei regni successivi. Il negozio fiduciario di Orhan nel
1324 registra, tra i testimoni del documento, i nomi dei suoi quattro fratelli.
Uno di questi, Pazarlu, viene ricordato dalla cronaca di Giovanni Cantacuzeno,
come un comandante nella battaglia di Pelekanon nel 1328, suggerendo che al
tempo di Orhan, i fratelli del sovrano avevano qualche parte nel governo dei suoi regni. Così fecero anche
i suoi figli. Il figlio maggiore di Orhan, Süleyman Pasha, che morì prima di
suo padre nel 1357, era il comandante ottomano in Tracia negli anni ’50 del
1300, e prese Ankara nel 1354. Anche la cronaca bizantina di Niceforo Gregoras
riporta che il figlio di Orhan, Halil, era governatore delle terre del Golfo di
Izmit nel 1357. Prese insieme queste testimonianze frammentarie suggeriscono che, mentre Orhan era il sovrano
regnante che governava un reame indivisibile, i suoi fratelli e figli
continuarono a giocare un ruolo importante come governatori e comandanti
militari.
Perché
Orhan invece che altri fratelli sia dovuto succedere ad Osman non è chiaro. Ciò
che è certo, comunque, è che, dopo il suo regno, il modo della successione fu
molto differente. Intorno al 1400 il poeta Ahmedi, nella sua breve storia in
versi dei “re” ottomani scrisse del successore di Orhan, Murad I (1362-1389):
“I suoi fratelli divennero suoi nemici / Le loro faccende ebbero termine per mano sua / Essi furono
tutti distrutti dalla sua spada”. Sebbene Ahmedi non è preciso riguardo i
dettagli, il significato dei suoi versi – se si interpreta la parola “fratelli”
nel suo significato letterale – è chiaro. Dopo la sua successione Murad uccise
tutti i suoi fratelli, forse durante il corso di una guerra civile, e stabilì
un precedente che la dinastia doveva seguire per oltre duecento anni dopo la
sua morte. Dal tempo di Murad, la successione passò a un qualsiasi figlio del
Sultano che avesse sconfitto e ucciso i suoi fratelli o i pretendenti al trono.
Il
figlio di Murad, Bayezid I, (1389-1402) successe a suo padre dopo aver ucciso
suo fratello Yakub, secondo una versione tradizionale dei fatti ampiamente
diffusa, sul campo di battaglia di Kosovo nel 1389. Da allora, egli governò
come unico figlio vivente , fino alla sua sconfitta e cattura nella battaglia
di Ankara nel 1402, un evento che iniziò la più lunga crisi di successione
nella storia ottomana, la guerra civile del 1402-13.
Gli
eventi di questa guerra mostrano come sin da allora avessero messo saldamente
radice due principi della successione dinastica. Il primo, che sembra
risalire ai primi giorni del dominio
ottomano, era che il territorio ottomano era indivisibile. I figli di Bayezid
si combatterono fino alla morte
piuttosto che dividere le terre che erano rimaste loro dopo la vittoria di
Tamerlano. Il secondo principio era che nessuno degli eredi del Sultano godeva
di un privilegio successorio. Il sultanato passava a chiunque di essi fosse
stato in grado di eliminare la competizione. Questo sembra anche essere stato
un principio che i sudditi della dinastia riconobbero. Dei pretendenti al sultanato nella guerra civile solo Isa,
nella sua breve campagna del 1402-03 nell’Anatolia occidentale sembra essere
stato rifiutato dai suoi ipotetici sudditi e si basò sull’aiuto di dinastie
straniere. I suoi fratelli, Süleyman, Musa e Mehmed fecero
alleanze straniere, ma dovettero anche guadagnarsi l’accettazione e radunare
truppe nei territori che controllavano. I sudditi ottomani erano, sembra,
preparati ad accettare come sovrano quasi ogni erede legittimo di un Sultano
ottomano, senza riguardo a un qualsiasi ordine di precedenza.
Mehmed
I (1413-1420) uscì vincitore nella guerra civile, dopo che il suo fratello Musa
ebbe sconfitto e ucciso Süleyman nel 1411 e che ebbe lui
stesso sconfitto Musa due anni più tardi. Questi due fratricidi non fecero però
terminare la guerra civile. Dopo il 1411 l’imperatore bizantino aveva assunto
la custodia del figlio di Süleyman, Orhan e, in almeno due occasioni, tentò
senza successo di usarlo per fomentare un conflitto nelle terre ottomane. Più
importante, comunque, fu la sopravvivenza di Mustafa, probabilmente il più
giovane dei figli di Bayezid. Il suo fato nel seguito della battaglia di Ankara
è sconosciuto ma, nel 1415, egli era a Trabzon e l’anno successivo radunò un
esercito in Rumelia e condusse una rivolta senza successo contro suo fratello.
Anche egli fuggì per mettersi sotto la custodia dell’imperatore bizantino, ed era
ancora vivo quando Mehmed I morì nel 1421.
Sembra
– ma l’evidenza non è conclusiva – che Mehmed I tentò di far cessare la pratica
del fratricidio abbandonando il principio di indivisibilità e lasciando in
eredità le sue terre in Rumelia al suo figlio maggiore, Murad, e quelle in
Anatolia al suo figlio più giovane, Mustafa. I Visir di Mehmet, comunque, non
accettarono questo schema. Invece, nascosero la morte del vecchio Sultano e
chiamarono il suo figlio maggiore, Murad, il cui regno come Murad II (1421-51)
iniziò con una rinnovata guerra civile. La sua prima battaglia non fu,
comunque, contro suo fratello Mustafa, ma contro suo zio che portava il suo
stesso nome e che, quando l’imperatore bizantino lo liberò dalla prigionia,
fondò un regime di breve durata in Rumelia, battendo la sua propria moneta e
guadagnandosi la fedeltà dei signori locali. Mustafa sconfisse l’esercito di
Murad sotto il comando di Bayezit Pasha, uccidendo il suo comandante e,
proclamatosi Sultano ad Edirne, attraversò gli stretti diretto in Anatolia. Dal
lago Ulubat, più con l’inganno che con forze superiori, Murad rimandò indietro
Mustafà, di là dello stretto e in Edirne, dove lo catturò e impiccò come un
comune criminale. Questa non era la fine della guerra civile dal momento che, nella
seconda metà del 1422, con il sostegno dell’imperatore bizantino e di alcune
dinastie dell’Anatolia, suo fratello Mustafa “il piccolo” si era stabilito come
Sultano ad Iznik. Nel gennaio 1423, Murad attraversò gli stretti diretto ad
Iznik e, sconfitto suo fratello, lo fece strangolare.
Alla
sua morte nel 1451, Murad lasciò due figli, Mehmed II (1451-1481) già adulto e
un bambino della figlia di Isfendyaroghlu di Sinope. Il primo atto di Mehmed
nell'entrare nel palazzo di Edirne per
assicurarsi la successione fu quindi di ordinare l’esecuzione del ragazzo. La
successione di suo figlio Bayezid II (1481-1512) fu meno lineare.
Immediatamente
alla morte di Maometto II, i visir mandarono messaggi a suo figlio Bayezid ad
Amasya e a Gem a Konya. Bayezid fu il primo ad arrivare nella capitale e, col
supporto del Gran Visir Gedik Ahmed Pasha e, in modo decisivo, col supporto dei
giannizzeri, occupò il trono. Quando suo fratello Gem si proclamò Sultano a
Bursa, e Bayezid respinse la sua proposta di dividere le terre ottomane tra di
loro, fu Gedik Ahmed che sconfisse il principe a Yenişehir.
Gem, comunque, fuggì salvando la sua vita e si mise sotto la protezione del
Sultano mamelucco dell’Egitto. Nel 1482 ritornò in Anatolia, ma quando il suo
esercito fu disperso cercò rifugio presso i cavalieri di San Giovanni a Rodi. A
questo punto Bayezid fece un patto col gran maestro perché questi tenesse Gem
in custodia in cambio di un pagamento annuale. La sua mossa successiva fu di
giustiziare Gedik Ahmed, che sembra sospettasse di slealtà e il bambino di Gem.
In una nota di suo pugno scritta ad uno schiavo chiamato Iskender, scrisse: “…
Dovresti sapere che ho ucciso Gedik Ahmed. Tu non risparmiare il figlio di Gem,
ma strangolalo. Questo è estremamente importante, ma nessuno deve esserne a
conoscenza…”
La
custodia di Gem da parte dei cavalieri di S. Giovanni segnò l’entrata del
Sultano ottomano nella politica dell’Europa occidentale. I Cavalieri
trasferirono Gem nella sicurezza dei loro castelli francesi fino al 1489,
quando, contrariamente al patto, lo consegnarono al Papa. Bayezid non ebbe alternative
se non di trasferire il pagamento dai Cavalieri al Papa per mantenere Gem sotto
custodia e, specialmente, per evitare che cadesse nelle mani del re di Ungheria
o di altri potenziali nemici degli ottomani. Dato il pericolo che il rilascio
di suo fratello poteva provocare, nel 1490 Bayezid si astenne dall’attaccare
Venezia, gli Stati Papali o Rodi. Nel 1494, il Papa e il re di Napoli cercarono
di allearsi con Carlo VIII di Francia, ma inutilmente. Quando un trionfante
Carlo VIII entrò a Roma nel 1494, prese possesso di Gem dichiarando allo stesso
tempo che avrebbe diretto una crociata contro gli ottomani. La prospettiva del
principe ottomano Gem di ritorno come protegé del vittorioso re di Francia
causò panico ad Istanbul. Comunque, nel febbraio del 1495 Gem morì a Napoli
ancora sotto la custodia del re, e il pericolo passò. Nondimeno, non fu che al
ritorno, dopo molte negoziazioni, del corpo di Gem nel 1499 e alla sua
inumazione pubblica a Bursa che Bayezid poté essere certo che il suo trono era
sicuro.
Dieci
anni dopo, scoppiò una nuova crisi. Verso il 1509 Bayezid era anziano e malato.
Dal momento che la sua morte sembrava imminente, la lotta per succedergli
cominciò quando era ancora sul trono. Quella che era la prima mossa tra i suoi
eredi venne nel 1509, quando uno dei suoi figli, Korkud, fuggì da Antalya, dove
era governatore, in Egitto, probabilmente per ottenere il supporto del Sultano
mamelucco nella imminente battaglia per la successione. Ritornò un anno dopo ma
di nuovo, presumibilmente con un occhio al trono, disobbedì a suo padre
spostandosi da Antalya a Manisa, una residenza dei principi più vicina alla
capitale.
Lo
spostamento di Korkud a Manisa coincise con la violenta ribellione, iniziata
vicino Antalya del dissidente sciita Sciàkulu, che sconfisse le truppe di
Korkud e tutte le forze provinciali che il Sultano mandò contro gli insorti. La
rivolta aveva umiliato Korkud, ma fornì un’opportunità per suo fratello Ahmed,
il governatore di Amasya. Nel giugno 1511, Bayezid mandò un esercito sotto il
comando effettivo del gran visir Hadim Ali Pasha, un sostenitore di Ahmed, e il
comando nominale dello stesso Ahmed. La presenza di Ahmed a capo di un esercito
lo contraddistingueva come il figlio favorito per la successione anche se la
morte del Gran Visir nella battaglia finale con Sciàkulu tolse di mezzo un
potente sostenitore. La morte, poco dopo, del suo fratello Shehinscià, il
governatore di Konya, rimosse un altro ostacolo
alla successione di Ahmed.
Durante
questi eventi il figlio più giovane di Bayezid, Selim, si stava anch’egli
preparando per un conflitto con i suoi fratelli. Nel 1510 egli scrisse a suo
padre, lamentandosi del governatorato nella remota provincia di Trabzon sul Mar
Nero e chiedendogli una alternativa in Rumelia. Le sue lettere lamentarono pure
un complotto per portare Ahmed sul trono. Quando Bayezid rifiutò la richiesta,
egli lasciò Trabzon senza autorizzazione e attraversò il Mar Nero per andare in
Crimea dove, come disse all’inviato di Bayezid, egli avrebbe “guadagnato il Khan
della Crimea alla sua causa e stabilito una relazione matrimoniale con lui”.
Rifiutando l’offerta di Bayezid di un governatorato in Anatolia, egli salpò per
Kilia, in Moldavia con i suoi sostenitori e le truppe tatare, chiaramente
sperando di impadronirsi del trono con l’assistenza del Khan.
Bayezid,
nel mentre, ordinò al governatore di Rumelia di preparare una forza per
sbarrare il passo a Selim ma, prima che gli eserciti si incontrassero, gli
inviati di Bayezid persuasero il principe a ritirarsi offrendogli il
governatorato di Silistra sul Danubio, con il permesso di fare raid in
Ungheria. Questo gli offrì un’opportunità. Egli si ritirò a Stara Zagora e mise
insieme un esercito, ma, invece di attaccare l’Ungheria, marciò verso Istanbul
incontrando le forze di Bayezid non lontano dalla città. In questa occasione
Bayezid fu vittorioso, non lasciandogli altra scelta che tornare in Crimea e
chiedere perdono al padre.
Il
ritiro di Selim fu l’opportunità di Ahmed. Con l’incoraggiamento di suo padre e
del nuovo gran visir Hersekzade Ahmed Pasha, egli marciò su Istanbul, con
l’evidente scopo di succedere al trono durante la vita di suo padre, in tal
modo dando ragione alle proteste di Selim che la nomina di Ahmed come
comandante delle forze dell’Anatolia era una indicazione che lui era il
successore prescelto di Bayezid. Un Sultano ottomano, comunque, necessitava
dell’appoggio dei giannizzeri, cosa che Ahmed non poté ottenere. Nel Settembre
1511, All’avvicinarsi di Ahmed al Bosforo, i giannizzeri si ribellarono a
favore del principe Selim. Il fallimento di Ahmed nel reprimere i ribelli in
Anatolia aveva fatto perdere a lui e a suo padre il supporto militare da cui
dipendeva il sultanato. Un gruppo di giannizzeri doveva poco dopo apparire di
fronte a Bayezid e dichiarare: “Tu sei finito. Noi abbiamo bisogno di un
Sultano e così abbiamo fatto Sultano lord Selim… Il trono e il regno sono
suoi”. In queste circostanze, Ahmed non osò attraversare gli stretti.
Invece,
tornò in Anatolia e cominciò ad agire come sovrano indipendente, emanando
decreti e facendo nomine come se fosse Sultano. Con questo la bilancia della
politica cambiò. Come ribelle, Bayezid non poteva più sostenere Ahmed. Invece,
nominò Selim comandante di un esercito per pacificare sul figlio. Vedendo un’opportunità
Selim avanzò verso Istanbul. Così fece anche suo fratello Korkud, che vi arrivò
alla fine del marzo 1512, privo di truppe ma con il denaro per guadagnare i
giannizzeri alla sua causa. Lo sforzo di Korkud di acquistare il trono fallì.
Invece suo fratello Selim arrivò con un esercito e col supporto dei giannizzeri
forzò suo fratello ad abdicare. Ascese al trono nell’aprile 1512. Bayezid morì
poco dopo, probabilmente avvelenato, mentre Korkud si ritirò a Manisa.
Ahmed
non riconobbe il sultanato di Selim e continuò
ad agire come un signore indipendente. Nel luglio del 1512, Selim
attraversò gli stretti e arrivò a Bursa, costringendo Ahmed a ritirarsi ad
Amasya, e poi ad attraversare il confine orientale dell’Impero nell’Iran. Da
lì, scrisse a Selim, suggerendogli di dividersi il regno. Selim rifiutò la
proposta e, nel febbraio 1513 Ahmed ritornò all’attacco. Selim, nel mentre,
aveva cominciato sistematicamente ad eliminare i suoi rivali. Alla fine del
1512 fece uccidere i nipoti di Bayezid che risiedevano a Bursa e poi,
all’inizio dell’anno successivo, mandò una forza contro Korkud a Manisa.
Quando
queste truppe entrarono a Manisa Korkud era fuggito. Gli agenti di Selim lo
trovarono alla fine in una grotta vicino Antalya, dove si stava nascondendo nella
speranza di fuggire in Egitto o a Rodi, come aveva fatto suo zio Gem. Selim lo
prese prigioniero e il Capo Portiere Sinan
agha lo giustiziò nel marzo 1513, in una località ad un paio di giorni di
viaggio da Bursa. Ahmed, nel frattempo, nella sua avanzata verso est sconfisse
le forze di Selim guidate da Biykli (“che porta i mustacchi”) Mehmed agha e il governatore generale
dell’Anatolia. All’inizo di aprile, Selim lasciò Istanbul, lasciando suo figlio
Süleyman
a proteggere la città da attacchi da ovest . Il 15 aprile 1513 egli sconfisse
Ahmed a Yenişehir, e catturò il principe fuggitivo ad Izmit dove Sinan agha lo mise a morte. Questa non fu
comunque la fine dello spargimento di sangue dinastico. Ahmed aveva lasciato
suo figlio,Osman, a difendere Amasya in sua assenza ma quando il governatore di
sinope attaccò la città, Osman fuggì. Amasya si arrese e Osman divenne alla
fine prigioniero del governatore. Nel marzo del 1515, su ordine di Selim, fu
giustiziato, insieme al nipote di Ahmed, Mustafa, il cui padre,principe Murad,
era fuggitivo in Iran e in quel momento, l’unico possibile sfidante al trono di
Selim. Comunque, con l’esecuzione di Osman, Selim chiaramente pensava che il
suo trono fosse sicuro.
Nel
1520, Selim morì, lasciando un solo figlio, Solimano, che gli successe senza
dispute. Nel 1550, comunque, Solimano
era visibilmente anziano e, nel 1552 appariva malato. Un po’ di anni più
tardi, l’ambasciatore asburgico, Busbecq, doveva commentare che egli si dava
pena di nascondere la sua brutta cera con uno “strato di polvere bianca” e che
“si credeva generalmente che avesse un’ulcera incurabile o una cancrena alla
gamba”. Data l’apparente infermità del padre
era inevitabile che i suoi figli iniziassero a complottare per la
successione ed era parimenti inevitabile, data l’esperienza del nonno, che Süleyman
iniziasse a sospettare le loro intenzioni. La prima vittima dei suoi sospetti
fu il principe Mustafa, suo figlio maggiore. Nel 1553, forse per disperdere le
voci di una sua malattia prese personalmente il comando della spedizione in
Iran. Ad Eregli, prima che l’esercito imboccasse i passi attraverso i monti
Tauri egli convocò Mustafa nel suo padiglione e lo fece giustiziare in sua
presenza.
Perché
Süleyman
dovette sospettare proprio Mustafa è materia di speculazioni. Certamente, una
lettera non datata che il principe mandò ad Ayas Pasha contiene forti indizi
che stesse mirando al sultanato: “Lode a Dio, tra i pretendenti all’eredità la
capacità e atittudine che è in me, tuo sincero amico, è manifesta alla tua
nobile conoscenza”. Perdipiù, la sua popolarità tra i giannizzeri e tra altri
settori dell’esercito significava che, se avesse tentato un colpo di stato ,
avrebbe probabilmente avuto successo. Erano stati i giannizzeri, che avevano
costretto Bayezid a ritirarsi e portato Selim al potere. Gli storici
ottomani,comunque, hanno plausibilmente attribuito la fine di Mustafa ad una
cospirazione tra la moglie di Süleyman, Hurrem, la loro figlia, Mihrimah e il
marito di Mihrimah, il gran visir Rüstem Pasha. Mustafa era il figlio maggiore
di Süleyman, avuto dalla concubina Mahidevran. I suoi altri figli erano nati da
Hurrem, che voleva che uno di loro succedesse al trono e, a questo fine, voleva
togliere di mezzo Mustafa. Il suo complice nel complotto era il figliastro,
Rüstem Pasha, che la tradizione ottomana considera responsabile per la morte di
Mustafà. Invero, una petizione anonima a Süleyman accusa Rüstem Pasha di aver
falsificato una lettera inviata da Mustafa allo Scià dell’Iran, per implicare
il principe in una accusa di cospirazione col nemico. É comunque più probabile
che Hurrem e il gran visir, attraverso sua moglie Mihrimah, complottarono per
di far cadere Mustafa, ma era inevitabile che, come Solimano diveniva man mano
più anziano i suoi altri figli avrebbero dovuto prendere misure per assicurarsi la successione.
Solimano completò l’annichilazione della
fazione di Mustafa giustiziando il suo portabandiera, il suo stalliere e altre persone che ricoprivano cariche nel
suo entourage, e alla fine suo figlio. Con la morte, poco dopo, del terzo figlio
di Hurrem, Jihangir, rimasero due principi, Selim e Bayezid, entrambi figli di
Hurrem.
Solimano inizialmente sembrava favorire Selim,
portandolo con sé nella campagna contro l’Iran nel 1553-54. Subito dopo,
comunque, egli nominò Bayezid governatore di Kütahya, più vicino alla capitale
della residenza di Selim a Manisa, una mossa che sembrava indicare che favoriva
Bayezid. A questo stadio, era probabilmente la loro madre, Hurrem, che
manteneva la pace tra i principi e tra ciascuno di loro e il padre. Dopo la sua
morte, nel maggio 1558, la rivalità divenne più intensa.
Messo di fronte ai tentativi di entrambi i
principi di influenzare le fazioni a Istanbul, e ai tentativi di Bayezid di
danneggiare seriamente i commerci principali nell’area governata da Selim,
Solimano minacciò di rompere con tutte le leggi e i precedenti fissando la
successione in linea femminile e dando il trono al figlio di sua sorella,
Osmanscià. Allo stesso tempo, ordinò che Selim si trasferisse a Konya, e
Bayezid ad Amasya. Fu questa decisione che fece precipitare gli eventi della
guerra civile.
Dal momento che Amasya è più lontana da
Istanbul che non Konya, Bayezid protestò, ritardando la sua partenza per
Kütahya fino alla fone dell’ottobre del 1558, e poi procedendo lentamente, con costanti
minacce di voltarsi e tornare indietro. Allo stesso tempo, rimproverava suo
fratello di codardia, e chiese a suo padre maggiori rendite per se stesso e i
suoi figli. Quando Solimano, dopo aver promesso, non soddisfece le richieste,
il tono di Bayezid divenne ancora più stridulo: “Voi siete il Sultano del
mondo. Quando dite menzogne come questa, chi potrà credere in futuro alla
vostra parola?” Bayezid non limitò la sua sfida alle parole. Nel suo viaggio ad
Amasya, con prestiti e tassazioni alle città cominciò ad accumulare denaro
contante per un esercito e a reclutare truppe tra i tenutari scontenti di
feudi, tra gli uomini delle tribù e i contadini.
La tattica di Selim, che era probabilmente un
riflesso del suo carattere tanto quanto una deliberata strategia, era l’opposto
di Bayezid. Si presentava come figlio obbediente, assoggettandosi ad ogni
comando del padre. Nel mentre costringeva Bayezid ad andare ad Amasya, Solimano
consentì a Selim di stabilirsi a Bursa fino a quando Bayezid non superò Ankara.
Dal momento che Bursa era vicina alla capitale, La presenza di Selim avrebbe
dovuto consentirgli di bloccare il passo a Bayezid, come minacciò di fare, se
questi avesse dovuto tornare sui suoi passi e marciare su Istanbul. Quando
Selim finalmente andò a Konya, chiese a suo padre cannoni presi dalle navi ad
Izmir come difesa nel caso suo fratello dovesse attaccare. All’inizio del 1559,
ricevendo ancora rimproveri dal fratello, raggiunse Konya. A questo punto era
chiaro che era il favorito del padre. Dopo aver ordinato ai principi di recarsi
ad Amasya e Konya, Solimano aveva mandato il visir Pertev Pasha a Bayezid e il
visir Sokollu Mehmed Pasha a Selim, evidentemente per assicurarsi l’esecuzione
dei suoi ordini. Pertev Pasha tornò indietro dopo aver persuaso Bayezid a
continuare per Amasya, mentre Sokollu Mehmed rimase con Selim come suo
consigliere per tutta la crisi. Egli doveva più tardi sposare la figlia di
Selim, Ismihan, e occupare la carica di gran visir per tutto il suo regno.
In aggiunta a Sokollu, il sovrano ordinò ai
governatori generali dell’Anatolia e di Maraş di unirsi a Selim con le
loro forze e, quando Selim chiese che il governatore generale di Karaman lo
rinforzasse “con i cavalieri della sua provincia, per la eliminazione della sedizione
e la protezione dell’onore del sultanato” Solimano accettò. Ordinò anche a
Selim di arruolare truppe tra i contadini. Dal momento che Bayezid si era
rifiutato di disarmarsi a meno che suo fratello non facesse lo stesso, una
battaglia era inevitabile.
A questo punto il supporto di Solimano per
Selim era di dominio pubblico. Oltre alle forze che gli aveva già assegnato,
mobilizzò le truppe in Rumelia, Anatolia orientale e Siria, e mandò Rüstem
pasha ad Afyon, per tenere d’occhio gli sviluppi. La aperta partigianeria di
Solimano divenne più evidente quando ottenne una fatwa dal Gran Mufti
Ebu’s-su’ud, che stabiliva che era lecito per il Sultano combattere e uccidere
le forze del suo figlio ribelle. Allo stesso tempo, il supporto personale del
Mufti per Selim è evidente da una lettera che scrisse al principe durante la
sua lotta con Bayezid, dicendo che, come richiestogli, egli stava pregando per
un esito coronato da successo.
La dichiarazione che era un ribelle non lasciò
a Bayezid altra scelta che attaccare suo fratello prima che avesse tempo di
riunire il suo esercito. Selim, nel mentre, aveva ricevuto il comando di non
attaccare, ma di rimanere a Konya per scontrarsi con le forze di Bayezid. I due
eserciti si scontrarono alla fine del maggio del 1559. Dopo una battaglia di
due giorni, Bayezid risultò vittorioso.
Bayezid comunque fuggì salvando la vita e andò
ad Amasya, ancora una volta chiedendo il perdono del padre. Questo sarebbe
stato concesso da Solimano solo se egli avesse messo a morte coloro che “l’avevano
traviato”. Bayezid ignorò ampiamente l’ordine, giustiziando solo tre persone
del suo seguito. Nel frattempo, nel giugno del 1559, Solimano aveva mandato
Selim e Sokollu Mehmed alla testa di un esercito verso Amasya e ordinato ai
governatori di tutte le sue frontiere di intercettare Bayezid se egli avesse
dovuto fuggire, mentre egli stesso attendeva ad Üsküdar, pronto a mobilitarsi
contro suo figlio. Bayezid fuggì da Amasya con i suoi cinque figli e un
esercito che andò ingrossandosi mano a mano che fuggiva verso est, mantenendo i
suoi uomini attraverso prestiti forzosi e la requisizione di animali e
provviste. Rifiutandosi di dar battaglia ai governatori di Diyarbekir, Karaman
ed Erzurum che lo inseguivano, continuò la sua fuga fino a Sa’dchukur sul confine
con l’Iran. Qui sconfisse una forza limitata che lo stava inseguendo, ma questo
non migliorò le sue chances contro gli eserciti dei tre governatori generali,
di Selim e di Sokollu e, dietro di essi, di Solimano stesso. In Agosto
attraversò il confine con l’Iran.
Nell’ottobre del 1560 lo scià Tahmasb gli
diede un magnifico benvenuto nella sua capitale, Qazvin. Solimano, nel
frattempo, dispose le sue truppe lungo la frontiera da Erzurum a Baghdad,
“perché sarebbe stato inappropriato per l’esercito disperdersi prima che
giungessero notizie certe di Bayezid”. Egli era ora nella stessa situazione di
suo nonno, Bayezid II, quando Gem era prigioniero del re di Francia, Carlo
VIII. Tahmasb poteva, in qualsiasi momento, invadere il regno, con un principe
ottomano al suo seguito. Per evitare il danno, Solimano aprì negoziazioni con
lo scià, consentendo solo a Dicembre a Selim di tornare a Konya e all’esercito
di smobilizzarsi.
A Qazvin la posizione di Bayezid era
drammaticamente cambiata. Quando sorsero sospetti tra lui e Tahmasb lo scià,
invece di trattarlo come un ospite onorato, lo imprigionò con i suoi quattro
figli e cominciò a disperdere i suoi seguaci, mentre continuava a negoziare con
Solimano. Nel Luglio del 1561 Solimano era arrivato ad offrire 900.000 ducati
di tasca propria, 300.000 di tasca di Selim e la fortezza di Kars in cambio
della consegna di Bayezid a Selim. Tahmasb, comunque, continuò a rimandare
l’accordo finché, nel marzo del 1562 il suo inviato raggiunse la corte di Selim
in Kütahya con la proposta che la buona sorte di Selim dipendeva dalla
esecuzione di Bayezid e dei suoi figli e che Tahmasb avrebbe garantito questo
in cambio di una pace “fino al giorno della Resurrezione”. Selim e suo padre
accettarono la proposta e nel Luglio del 1562 i loro inviati raggiunsero Qazvin
per prendere in custodia Bayezid. Quando lo scià consegnò il principe l’uomo di
Selim, Ali agha, lo uccise, insieme
ai suoi quattro figli. Il Sultano, nello stesso momento, ordinò l’esecuzione
del suo quinto figlio, un bimbo che era con sua madre a Bursa. Con questo atto
Selim rimase il solo pretendente al trono ottomano. In cambio della sua
complicità Tahmasb guadagnò un trattato di pace, 500.000 ducati e doni per sé e
per i suoi figli.
L’esecuzione di Bayezid e dei suoi figli
iniziò un cambiamento nel modo di successione. Probabilmente dal tempo di Osman
I, era stata consuetudine per i figli del Sultano di servire come governatori
in Anatolia, e per ciascun figlio avere un titolo alla successione pari agli
altri. Dal tempo della morte di Bayezid, solo il figlio maggiore servì nelle
province, ed era quello che succedeva al Sultano. Il cambiamento, comunque,
avvenne per caso piuttosto che per mossa politica. Dopo il 1562, Selim era il
solo figlio vivente di Solimano, e successe al trono, senza essere sfidato da
pretendenti. Al tempo della sua successione come Selim II (1566-74) egli aveva
un solo figlio, il futuro Murad III (1574-95). I suoi altri figli furono
procreati solo dopo che era divenuto Sultano, e alla sua morte nel 1574,
nessuno di questi era vecchio a sufficienza da poter servire come governatore.
Tra i figli di Murad III, parimenti, solo il maggiore, il futuro Mehmed III
(1595-1603) divenne un governatore provinciale. Anche questo avvenne per caso.
A parte Mehmed, tutti i suoi altri figli erano nati dopo il 1581 e il più
anziano, al tempo della sua morte, aveva solo undici anni e solo in procinto di
vedersi assegnare un governatorato. Nondimeno, il precedente divenne pratica
consuetudinaria e, dopo il regno di Solimano, la maggiore età piuttosto che il
fratricidio dopo una guerra civile
vittoriosa divenne il normale principio di successione.
La pratica del fratricidio non aveva mai
guadagnato l’approvazione popolare. La storia di come il “fratello” di Orhan,
Ali Pasha volontariamente rinunciò alla sovranità in favore di Orhan iniziò a
circolare negli anni 1422-23, al tempo della guerra civile agli inizi del regno
di Murad II. Il racconto non riflette un evento storico reale, ma piuttosto il
desiderio dei contemporanei per una successione pacifica al trono e la fine
degli spargimenti di sangue dinastici. Il redattore del testo aggiunse persino
una morale al racconto: “in quei giorni i padiscià e i signori tennero consiglio con i loro fratelli. Essi
si onoravano e rispettavano l’un l’altro, essi non si uccidevano l’uno con
l’altro”. Quando i cronisti ufficiali tentarono di giustificare la pratica,
essi erano ricorsi all’iperbole. Mehmed Pasha di Karaman, cancelliere e visir
di Mehmed II, aggiunse alla sua storia dell’esecuzione del fratello di Bayezid,
Yakub, il commento: “Come non sarà nascosto a coloro capaci di intendere, c’era
la possibilità di un grande male nella continuazione della vita di Yakub. Il
Sultano si regolò con lui come era necessario e ‘la necessità giustifica ciò
che è proibito’ ”. Similmente, nel giustificare l’esecuzione del bambino figlio
di suo padre e della figlia di Isfendyaroghlu, da parte di Mehmed II,
Kemalpashazade agli inizi del sedicesimo secolo, scrisse: “Sebbene era ancora
un bimbo immaturo, la misura fu presa su consiglio di anziani pieni di
esperienza… e si vide che il miglior corso d’azione consisteva nell’espiantare
l’alberello del male a venire, prima che cacciasse foglie e rami”. Molto
famosa, comunque, è la clausola nel cosiddetto Libro delle leggi di Mehmed II, che giustificava il fratricidio: “A
chiunque dei miei figli il sultanato sarà dato [da Dio], è appropriato che
uccida i suoi fratelli per il buon ordine del mondo. La maggior parte degli ulema ha dichiarato questo come permesso”.
Questa clausola è, con grande probabilità, una aggiunta del sedicesimo secolo
al Libro delle leggi, da parte di
Selim I o di Mehmed III, per giustificare il loro modo di ascesa al trono, e
rappresenta un tentativo di combattere la repulsione popolare per quello che
era accaduto.
Né questi virtuosismi letterari, né la
generosa distribuzione di doni dopo ogni fratricidio poteva riconciliare
l’opinione popolare con la pratica. Un poema che lamenta la morte del principe
Mustafa nel 1553 e attacca suo padre era ancora in circolazione nel
diciassettesimo secolo, e per usare le parole di un altro poeta, Tashlijali
Yahya (m. 1575-76), “l’errore del principe non era stato precisato, il suo
peccato era sconosciuto…” e le “anime degli uomini si erano abbassate fino alla
polvere”. Un anno dopo la sua morte, un impostore che dichiarava di essere
Mustafa poté guadagnare un seguito in suo nome. Il principe Bayezid similmente
lasciò molti addolorati e molti che parteggiavano per lui. Nel 1565, le
autorità arrestarono un gruppo di uomini a Beyşehir per una
rappresentazione pubblica che metteva in scena la sua vita.
Il fratricidio reale non cessò, comunque, con
la successione senza dispute di Selim II, Murad III e Mehmed III. Il giorno
della ascesa al trono di Murad III nel 1574, il popolo di Istanbul fu testimone della uscita dal Palazzo della
bara di suo padre per andare nel mausoleo di Hagia Sofia e, di seguito ad essa,
delle bare dei cinque principini. Il medico ebreo di Murad III, Dominic di
Gerusalemme, riferisce di voci secondo le quali persino il Sultano avrebbe
esitato a ordinare la loro esecuzione. La notte dell’ascesa al trono di Mehmed
III nel 1595, “diciannove innocenti principi furono”, nelle parole dello
storico contemporaneo Pechevi, “trascinati dalle ginocchia delle loro madri e
uniti alla misericordia di Dio”. Quando il corteo di diciannove bare lasciò il
cancello del palazzo un altro cronista contemporaneo, Selaniki notò: “Iddio
Altissimo lasciò che gli angeli attorno al trono udissero le grida e i pianti
del popolo di Istanbul”.
Furono, a quanto pare, “le grida e i pianti”
che fecero cessare la pratica del fratricidio. Quando Mehmed III morì nel 1603,
lasciò due figli, il quattordicenne Ahmed e il suo fratello più giovane,
Mustafa. Entrambi furono confinati nel palazzo e fu una fazione nel Palazzo
interno che stabilì la successione di
Ahmed, presentando il nuovo Sultano sul trono come un fait accompli, prima di una riunione del Consiglio Imperiale. Ahmed
morì nel 1617, quando era meno di trent’anni, lasciando un problema di successione
per il quale non vi erano precedenti. Con la fine della pratica del
fratricidio, suo fratello Mustafa era ancora vivo e, per il nuovo principio di
anzianità, legittimato ad ereditare il trono. Mustafa, comunque, era
mentalmente debole, e questo presentava il dilemma se dare il trono a un
minore, Osman, o a un idiota, mustafa. Questa volta, le negoziazioni ebbero
luogo tra un rappresentante del Palazzo interno, Mustafa agha e due dignitari esterni, il gran visir deputato, Sofu Mehmed
Pasha e il gran Mufti Es’ad. Furono, secondo la versione di Pechevi, le parole
di Mustafa agha che risultarono
decisive. Egli argomentò che la pubblica disapprovazione sarebbe stata
inevitabile se un bambino fosse asceso al trono quando era disponibile un
candidato adulto, e che “il difetto di intelligenza di Mustafa veniva dalla sua
lunga reclusione… ed egli poteva recuperare il suo intelletto se fosse stato
per un po’ a contatto con la gente”. Fu la decisione di questo gruppo di
persone che portò Mustafa sul trono.
Le condizioni mentali di Mustafa, comunque,
non migliorarono. Egli aveva, ci dice Pechevi, l’abitudine di gettare monete
d’oro e d’argento, con le quali riempiva le sue tasche, agli uccelli e ai pesci
del mare, e ai poveri che incontrava per la strada” e quando “i visir gli si
presentavano per discutere le faccende del regno egli spigeva i loro turbanti e
scopriva le loro teste”. Lo stesso gruppo di persone che avevano pianificato la
sua ascesa a trono ora complottarono per la sua deposizione. Nel febbraio 1618
essi chiamarono i dignitari e le truppe a palazzo, dove Mustafa agha chiuse una porta in faccia a
Mustafa e, quando il trono fu approntato, rilasciò dall’altra Osman, il figlio
maggiore.
Mustafa,comunque, sopravvisse al suo
confinamento nel palazzo e, quattro anni dopo, salì al trono di nuovo, questa
volta attraverso la ribellione di una fazione differente. Durante l suo breve
regno, Osman aveva, sembra, perso fiducia negli ulema che erano, in particolare gelosi della influenza del suo
consigliere spirituale, Ömer Hoja. Più importante ancora, aveva perso il
sostegno dei giannizzeri a seguito del trattamento cui li aveva sottoposti
durante la campagna polacca del 1621 e perché, come ricorda il cronista
giannizzero Tughi, “quando si rendevano colpevoli di un comportamento
riprovevole, come essere trovati in una taverna, erano battuti con quattrocento
o cinquecento colpi, imbarcato nelle navi delle pietre per punizione, e i loro
mezzi di sussistenza e salari erano revocati”. Era chiaro ai giannizzeri che Osman
voleva rimpiazzarli con archibugieri arruolati in Anatolia.
Nel 1622 i giannizzeri si ribellarono,
chiedendo l’esecuzione del Gran Visir, Dilaver Pasha, di Ömer Hoja e di altri.
Quando Osman, contro il consiglio dell’ulema
anziano, rifiutò, i giannizzeri si aprirono la via nel palazzo. Rintracciarono
Mustafa e, secondo il racconto di Tughi, poiché la porta della sua camera era
all’interno dell’Harem (dove era assolutamente proibito entrare), si
arrampicarono sul tetto e, strappando via il piombo dalla volta e le sbarre
alle finestre, tirarono su Mustafa con una fune presa dalle tende della camera
del consiglio. Egli mancava di cibo e di acqua, dice Tughi, da due giorni. Lo
tirarono fuori a dispetto della dichiarazione degli ulema che ciò fosse illegale, fecero il giuramento di fedeltà,
forzando infine gli ulema a fare lo
stesso. Quando Osman finalmente acconsentì ai loro desideri e fece giustiziare
Dilaver Pasha e Ömer Hoja, era troppo tardi. Invece, essi portarono Mustafa e
sua madre al vecchio palazzo e poi alla Moschea dei giannizzeri. Nella moschea
un giannizzero che era una conoscenza di Pechevi, dato che aveva una certa
cultura, scrisse i comandi, in nome di Mustafa, che nominarono gran visir Davud
Pasha, e fecero altre nomine. Quando Osman apparve presso le baracche dei
giannizzeri e alla moschea nessuno ascoltò i suoi appelli. Invece, Davud Pasha
lo pose su un carretto e lo scortò al palazzo delle sette torri, dove ordinò la
sua esecuzione. Nel mentre, i giannizzeri riportarono indietro, a palazzo, Mustafa
e sua madre.
Il secondo regno di Mustafa durò poco più di
un anno. Egli era andato al trono attraverso una rivolta dei giannizzeri, che
lasciò temporaneamente il potere nelle mani di sua madre e del suo figliastro,
Davud Pasha. La rimozione come Gran Mufti del patrigno di Osman, Es’ad, era
chiaramente una mossa per rafforzare questa fazione. Il governo comunque non si
stabilizzò. Il visirato di Davud Pasha durò solo ventisei giorni, e egli perse
la sua vita nel Gennaio del 1623. Seguì una successione di gran visir, la cui
precaria occupazione della carica dipendeva dal supporto dei giannizzeri o
delle sei divisioni di cavalleria, che essi comperarono con donazioni
finanziate dal tesoro. C’erano frequenti disordini e saccheggi nella capitale,
e ribelioni nelle province. “In breve” scriveva Pechevi, “si sparse all’estero
la voce che il mondo stava andando in rovina e che il sultanato stava
crollando”. La soluzione del nuovo gran visir Kemankesh (“l’arciere”) Ali
Pasha, del gran mufti Yahya e degli altri grandi ulema, fu di deporre il Sultano di cui, nelle parole di Tughi, essi
dissero “Il nostro Sultano non ha potere di disporre; non ha parte nel legare e
nello sciogliere in materia di affari del regno , difetta di intelligenza. Ciò
che viene chiamato rescritto imperiale è di pugno della schiava Sanevber…” Gli ulema mandarono avviso alla madre di
Mustafa informandola che avrebbero messo alla prova l’intelligenza del figlio
con due domande: “di chi sei figlio?” e “che giorno della settimana è questo?”.
Il suo trono dipendeva dalla sua capacità di rispondere a queste domande. Sua
madre, comunque, prevenne anche questo esame e consentì alla deposizione di suo
figlio, a patto che scampasse alla morte.
Nel settembre del 1623, il Gran Visir e il
gran mufti fecero ascendere al trono il dodicenne Murad IV (1623-1640), il
secondo dei figli di Ahmed I a divenire Sultano. Allo stesso tempo, riportarono
indietro sua madre, Kösem, dal vecchio palazzo. Quando Murad morì diciassette
anni più tardi, solo un membro maschile della dinastia sopravvisse. Questi era
il figlio più giovane di Ahmed I, Ibrahim (1640-48). Dal momento che non vi
erano candidati rivali al trono, non ci poteva essere alcuna fazione ad opporsi
alla sua successione.
Dal momento della salita al trono di Mehmed
III nel 1595, il fratricidio non era più il mezzo per assicurarsi il trono.
Nondimeno, la pratica di padri che uccidevano figli o di fratelli che
uccidevano fratelli non si era interrotta del tutto. Poco prima della sua morte
nel 1603, Mehmed III aveva ordinato l’esecuzione del suo figlio maggiore
Mahmud, temendo che la sua popolarità fosse una minaccia al suo trono. Osman II
aveva fatto giustiziare suo fratello, Mehmed, nel 1620, a dispetto del rifiuto
del suo patrigno, il Gran Mufti Es’ad, di sanzionare l’assassinio. Murad IV
ordinò l’esecuzione prima dei suoi fratelli Bayezid e Solimano quando era in
campagna contro Erivan nel 1635, e poi di Kasim nel 1638.
Era la costante paura della esecuzione,
secondo i cronisti ottomani, ad aver offuscato la mente del fratello più
giovane e successore di Murad IV, Ibrahim (1640-48). Questo principe, scrisse
il contemponaneo Katib Celebi: “aveva speso gran parte del suo prezioso tempo
in prigione [nel Palazzo], e quando i suoi fratelli subirono il martirio, la
paura per la sua vita produsse uno squilibrio nel suo temperamento”. Fu questa
instabilità mentale a causare il successivo rivolgimento dinastico.
Nel 1648 le spese stravaganti di Ibrahim per
lussi vari in tempo di guerra avevano svuotato il tesoro e le sue nomine
inappropriate avevano creato una crisi politica. La decisione di rimuovere
prima il gran visir e poi il Sultano sembra essersi originata all’interno del
corpo dei giannizzeri, sebbene come complotto dell’ufficiale Murad agha, piuttosto che dei soldati comuni.
I giannizzeri cospiratori si allearono col gran mufti, Ahdurrahim e “i grandi Molla” e, durante una assemblea nella
moschea di Maometto il conquistatore e successivamente nella moschea dei
giannizzeri dichiararono deposto il gran visir, Ahmed Pasha e Koja Mehmed Pasha
nominato al suo posto. Gli uomini del nuovo gran visir trovarono Ahmed Pasha
che si nascondeva e allora “una fatwa
fu emessa e, dopo che fu strangolato, il suo cadavere fu gettato fuori… Quel
giorno nella Piazza, il popolo si affollò intorno al cadavere e lo fece a
pezzi”.
Con la rimozione del gran visir, i cospiratori
si accordarono sulla deposizione del Sultano e sulla ascesa al trono del suo figlio di sette anni Mehmed IV (1648-87). Quando la regina
madre, Kösem, rifiutò di mandare il
ragazzo alla moschea per la cerimonia del giuramento di fedeltà, la folla si
recò al palazzo, dove Kösem ancor resisteva, lamentando, secondo le parole di
Katib Chelebi: “Per tanto tempo avete permesso a mio figlio di fare tutto ciò
che voleva. Neanche una volta l’avete consigliato…”. La discussione durò per
due ore. Alla fine la regina madre capitolò solo quando minacciarono di entrare
nelle stanze interne del palazzo. Allora, “come era consuetudine, il trono fu
innalzato di fronte al cancello della felicità… il Sultano ascese al trono e
gli uomini che avevano il potere di legare e di sciogliere presentarono la loro
fedeltà”
Ibrahim, continua Khatib Celebi, fu
imprigionato nel palazzo. Comunque, quando si diffuse la voce che alcuni dei
cortigiani dell’interno del palazzo
stavano progettando di rimetterlo sul trono, il gran Mufti, Ahudurrahim, emanò
una fatwa che permetteva “la
deposizione e la esecuzione di un Sultano che ha causato disordini non dando le
posizioni tra gli ulema e
nell’esercito a uomini degni, ma a
persone indegne in cambio di somme di denaro”. Allora lo stesso gran Mufti, il
gran visir e l’agha dei giannizzeri entrarono nel palazzo interno con un
giustiziere, Ali il nero. Sbloccarono la porta della prigione di Ibrahim e Alì
entrò e strangolò il Sultano deposto. Il sultanato ora restava saldamente nelle
mani del figlio di Ibrahim, Mehmed IV. Il potere effettivo passò alla madre di
Mehmed, Turhan sultana.
Nell’assenza di ogni prefissata legge di
successione, oltre alla regola che il Sultano doveva essere un membro maschile
della Casa di Osman, e un’altra che proibiva la discendenza in linea femminile,
la gran parte dei sultani tra il 1362 e il 1648 erano andati al potere come
candidati di una fazione che aveva avuto successo. Prima della esecuzione del
principe Bayezid nel 1562, le fazioni in competizione si formarono intorno agli
stessi principi, quando essi servivano come governatori provinciali durante la
vita di loro padre. La effettiva o imminente morte del padre era un segnale per
la lotta fratricida tra i principi rivali e i loro sostenitori. Dal regno di
Selim II, il sistema cambiò Né il figlio di Selim, Murad III, né il figlio di
Murad, Mehmed III avevano fratelli che fossero vecchi a sufficienza per servire
da governatori provinciali, col risultato che entrambi andarono al trono senza
fazioni rivali a contestare le loro pretese. Questo stabilì una qualche sorta
di precedente dal momento che, dal tempo di Mehmed III, la successione era in
pratica per anzianità. Perdipiù, l’indignazione
in occasione della esecuzione da parte di Mehmed III dei suoi diciannove
fratelli pose fine alla pratica del fratricidio automatico all’ascesa al trono,
col risultato che il sultanato non passò più per ininterrotta successione da
padre a figlio.
Il principio di anzianità era fragile. Né
Osman II né Murad IV sentivano che esso dava sicurezza contro pretese rivali
dei loro fratelli, alcuni dei quali furono da essi giustiziati per assicurarsi
i propri troni. Né significava che i sultani potevano fare a meno del supporto
delle fazioni. Dopo il 1595, comunque, queste non poterono più formarsi intorno
alle persone dei principi, dal momento che i figli del sovrano non servivano
più come governatori delle province, ma rimanevano come prigionieri nel palazzo.
Ahmed I ascese al trono attraverso un colpo di stato dei cortigiani del Palazzo
Interno, che avevano nascosto la morte di Mehmed III al mondo esterno. Fu un gruppo più rappresentativo, composto di
membri anziani del Palazzo interno, della amministrazione civile e degli ulema che stabilì la successione a
favore di Mustafa, successivamente lo depose e fece Sultano Osman II. La caduta
e morte di Osman fu la conseguenza di una ribellione dei giannizzeri, che portò
Mustafa al trono per la seconda volta e temporaneamente mise il potere nelle
mani di sua madre e del suo fratellastro. Una alleanza tra il Gran Visir, il
Gran Mufti e gli ulema assicurarò la
rimozione di Mustafa dal trono e l’ascesa di suo nipote, Murad IV. Ibrahim non
aveva bisogno di fazioni per giungere al trono, dato che era l’unico candidato
sopravvissuto. Ma fu di nuovo un’alleanza, questa volta tra ufficiali dei
giannizzeri e ulema, che portò alla
sua caduta e alla ascesa al trono del suo figlio maggiore, Mehmed IV.
Nel 1650, la dinastia ottomana aveva regnato
per tre secoli e mezzo. L’Impero era l’eredità del Sultano regnante che, a sua
volta egli avrebbe lasciato al suo successore. La lunga continuità della dinastia
e la concezione dell’Impero come un tipo di proprietà personale rendeva
impensabile che il trono potesse passare a qualcuno che non fosse membro della
dinastia imperiale. Questi erano aspetti della sovranità dinastica che la
cerimonia della salita al trono serviva ad enfatizzare.
Il primo e più essenziale atto nella salita al
trono di un Sultano era il possesso effettivo del trono. Questo, da solo, lo
rendeva il sovrano. Il principio fu molto chiaro nel caso di Ahmed I nel 1603.
I visir, il gran Mufti e gli altri ulema
ricevettero notizia che il sovrano chiedeva la loro presenza di fronte al
trono. Nessuno di loro sapeva della morte di Maometto III, e si aspettavano che
apparisse. Invece, Ahmed I, allora ragazzo, emerse dal Palazzo Interno e ascese
al trono, lasciando i presenti senza altra scelta che accettare che fosse
Sultano. Fu da questo momento che il suo sultanato iniziò. Il principio che
l’occupazione fisica del trono segnava l’inizio del nuovo regno presumibilmente
datava dai primi anni della dinastia, come presumibilmente anche il secondo
elemento dell’incoronazione, il giuramento di fedeltà.
Il primo riferimento a questa cerimonia data
dal 1481, quando il cronista contemporaneo, Bihishti descrive la salita al
trono di Bayezid II: “prese il suo posto al cuore del trono simile al cielo. I
comandanti alla destra e alla sinistra e i soldati numerosi come stelle fecero
il loro atto di fedeltà e obbedienza, e l’umile e il grande fecero la loro
sottomissione”. La cerimonia, si potrebbe ritenere, era molto più vecchia di
Bayezid, e chiaramente ebbe origine come pubblica o semipubblica apparizione
del nuovo sovrano davanti alle sue truppe e ai sudditi più potenti. Bihishti dà
l’impressione di un grande raduno. Dalla fine del quindicesimo secolo, comunque,
il Sultano si ritirò progressivamente dalla vista pubblica. L’atto di fedeltà
divenne la prerogativa di un piccolo
gruppo di uomini potenti, che normalmente includeva il gran visir e il gran
Mufti, e aveva luogo dinanzi al trono nel Palazzo. L’idea dell’atto di fedeltà
cambiò pure essa nel corso dei secoli. In origine, si può supporre, atto di
acclamazione del nuovo Sultano, dalla metà del sedicesimo secolo acquistò un
significato giudiziario. Dagli anni ’40 del 1500 Solimano promulgò la nozione
che il Sultano ottomano era califfo, cioè successore del profeta Maometto e dei
“quattro califfi guidati rettamente” come capo supremo della comunità
musulmana. Nella teologia sunnita, il califfo acquista l’ufficio come effetto
di un contratto che fa con “gli uomini che possono sciogliere e legare” e
sembra, dunque, che dalla successione di Selim II nel 1566, una funzione
dell’atto di fedeltà fosse formare il contratto che confermava il Sultano
ottomano come “califfo dei musulmani”.
Dalla fine del sedicesimo secolo, altri
elementi vennero aggiunti alla cerimonia
di ascesa al trono, che servivano principalmente ad enfatizzare la continuità
della sovranità dinastica agli occhi del popolo della capitale. Dapprima
divenne consuetudinario che il seppellimento del Sultano deceduto seguisse
immediatamente l’intronamento del suo successore, una pratica che enfatizzava
la continuità legando le due cerimonie, e che evitava la conoscenza pubblica di
un interregno. Quando Mehmed II morì nel 1481, prima che il suo successore
potesse salire al trono, i giannizzeri dettero vita a tumulti e saccheggiarono
la capitale. Essi si fermarono solo quando i visir piazzarono il nipote di
Maometto, Korkud, sul trono fino a che suo padre, Bayezid, arrivò nella
capitale. La cerimonia di ritardare il funerale del vecchio Sultano fino
all’ascesa del nuovo, serviva a nascondere la morte di un Sultano e a evitare
che un tale periodo di anarchia si verificasse nuovamente. Il secondo nuovo
sviluppo nella cerimonia di ascesa al trono fu il pellegrinaggio ad Eyüp.
Eyüp è un sobborgo di Istanbul sul corno d’oro
dove, secondo una tradizione che data dal quindicesimo secolo, il corpo di Abu
Ayyub giace sepolto. Abu Ayyub, sostengono gli storici musulmani, era un
compagno del profeta, che cadde durante il primo assedio musulmano di
Costantinopoli. Una leggenda ottomana, che si formò tra il 1453 e l’inizio del
sedicesimo secolo ci dice che, dopo la conquista di Costantinopoli, il Sultano
ordinò alla sua guida spirituale, il derviscio Akshemseddin, di trovare la
tomba di Abu Ayyub, e il punto che Akshemseddin indicò divenne il luogo del
sepolcro. Durante il corso del sedicesimo secolo divenne il sito più popolare
del pellegrinaggio musulmano nella capitale o vicino alla capitale, legando la
città col Profeta e ponendo la sua conquista da parte di Maometto II entro la
tradizione apocalittica musulmana.
Dal momento della ascesa al trono di Selim II
nel 1566, il pellegrinaggio a Eyüp divenne un elemento essenziale della
cerimnia di ascesa al trono. Il contemporaneo Selaniki descrive come “in
accordo con l’antica legge degli ottomani il Sultano si mise in pellegrinaggio
per il mausoleo. Iniziando con Abu Ayyub, Colui che Aiuta il Profeta, andò al
mausoleo dei suoi potenti antenati, i sultani ottomani, e presso ciascun
mausoleo distribuì 30.000 akce in
elemosine”. Il pellegrinaggio serviva ad enfatizzare sia il rapporto dinastico
con il Profeta attraverso Abu Ayyub sia, attraverso la visita alle tombe degli
avi – che con le moschee reali loro associate dominavano il profilo della città
– la continuità della sovranità ottomana.
Prima del 1566, comunque, il pellegrinaggio
non era parte della cerimonia di ascesa al trono. La pratica cominciò sembra
nel 1514. In quest’anno Selim I si accampò vicino ad Eyüp all’inizio della sua
campagna contro i safavidi, nell’attesa dei trasporti per traghettare le sue
truppe attraverso il Bosforo. Durante il breve rinvio di qualche giorno, egli
fece parecchi pellegrinaggi alla tomba relativamente recente di Abu Ayyub e
allora, nelle parole del cancelliere e storico Jelalzade: “cercando l’aiuto
delle anime pure dei suoi antenati” visitò le tombe di suo padre e di suo
nonno. Suo figlio Solimano adottò la stessa procedura prima della partenza per
la campagna ungherese nel 1526. Una pratica che era cominciata nel 1514 quasi
accidentalmente divenne così un rituale. All’inizio fu una cerimonia che
precedeva una campagna militare, e Selim II la adottò alla sua salita al trono
probabilmente perché stava per partire immediatamente per unirsi all’esercito
ottomano a Belgrado, come questo ritornò dall’Ungheria col cadavere di suo
padre. Dal tempo di Selim II, tuttavia, divenne parte della cerimonia di ascesa
al trono. Da quel momento tutti i sultani ottomani appena intronati lasciavano
il palazzo per via d’acqua, risalivano il corno d’oro fino al mausoleo ad Eyüp e ritornavano per terra, passando per
il cancello nelle mura della città di Edirne e visitando ciascuna delle tombe
dei precedenti sultani. La cerimonia, a parte dimostrare la legittimazione
dinastica e islamica del nuovo Sultano, deve aver avuto un’altra funzione.
Dalla fine del quindicesimo secolo, i sultani si erano ritirati
progressivamente dalla pubblica vista e, in particolare, l’atto di fedeltà
aveva cessato di essere un evento pubblico. Il pellegrinaggio a Eyüp dunque
divenne una occasione per il popolo di Istanbul di acclamare il nuovo Sultano
prima che si ritirasse nel palazzo interno.
C’era un elemento finale nella cerimonia di
ascesa al trono. Nel diciassettesimo secolo, divenne consuetudine per il Gran
Mufti o altri alti dignitari religiosi cingere il nuovo Sultano con la spada
presso il sepolcro di Abu Ayyub. Il primo riferimento a questa cerimonia
appare, sembra nel resoconto di Pechevi della salita al trono di Mustafa nel 1617, suggerendo che questa
fosse stata la prima occasione nella quale ciò avvenne. E’ pensabile che il
gran visir e il Gran Mufti che lo avevano portato al trono desiderassero
compensare la visibile mancanza di capacità di Mustafa con un atto che investiva
cerimonialmente il Sultano di virtù marziali. Quale che sia sta l’origine, la
cerimonia del cingere con la spada doveva sopravvivere fino all’ascesa
dell’ultimo Sultano nel 1918.
Le cerimonie che circondavano l’ascesa al
trono di un nuovo Sultano presero la
loro forma finale nel 1617. In ogni
periodo, comunque, sembra che il momento in cui iniziava il nuovo regno era
quando il Sultano prendeva possesso del trono. Le cerimonie che seguivano lo
confermavano in questa dignità, ma non erano loro che lo facevano sovrano.
Questo indica una credenza che la sovranità fosse inerente alla casa di Osman,
e questa era una credenza che il sovrano doveva giustificare.
Il ruolo originario del Sultano ottomano era
quello di leader in guerra. Il primo sovrano ottomano, Osman, emerge dalla
descrizione da parte del contemporaneo cronista bizantino Pachymeres come un
comandante militare i cui successi contro le forze bizantine attrassero giovani
“affamati di bottino” da terre molto al di là del suo regno. Egli fu il primo in
una linea di sultani guerrieri che durò funo a Solimano I, la cui morte di
fronte alla fortezza di Szigetvar nel 1566 gli valse il titolo di “guerriero e
martire”. Fino a quel tempo, l’immagine del guerriero sembra essere stata un
sostegno essenziale dell’autorità del Sultano. E’ chiaro, per esempio, che
quando Bayezid II mancò di condurre il suo esercito in persona contro i
mamelucchi, tra il 1485 e il 1490, dovette fronteggiare severe critiche.
Critiche che il cronista e panegirista Tursun Bey cercò di rigettare ponendo la critica a Bayezid sulla bocca di
un giovane imberbe, e narrando come “un anziano [la cui saggezza è tanto]
profonda quanto il mare” avesse replicato dicendo: “E’ proibito indagare nei
segreti del sultanato…”. Fu sempre per contrastare queste critiche che Tursun
Bey presentò le conquiste di Kilia e Akkerman fatte da Bayezid come più grandi
persino delle vittorie di suo padre, Maometto il conquistatore.
Alla metà del sedicesimo secolo, comunque,
l’idea del Sultano che guida personalmente i suoi eserciti alla vittoria era un
anacronismo. La grande estensione dei confini dell’Impero tra il 1517 e il 1540
significava che non era più possibile aggiungere vasti territori all’Impero con
una campagna di un solo anno. La guerra invece divenne prolungata senza
spettacolari conquiste, e richiedeva che l’esercito per un certo numero di anni
di seguito svernasse vicino al fronte. Nello stesso tempo, l’incremento nelle dimensioni dell’Impero aggiunse
complessità alla sua amministrazione. In queste circostanze la rimozione del
sovrano dalla capitale per l’intera lunghezza di una campagna divenne
impossibie e, dal regno di Selim II, il Sultano raramente scese in campo col
suo esercito. Questo cambiamento di circostanze coincise anche con un cambio nel
carattere del Sultano. Prima di Solimano I, Bayezid II era stato una eccezione
nel possedere un temperamento pacifico. Dopo Solimano, pochi sultani avevano il
gusto della guerra.
Nondimeno, la nozione del Sultano come
guerriero persisteva. Nel 1596, dopo tre anni di guerra senza successo contro
gli Asburgo, Mehmed III, su insistenza dei giannizzeri, del gran visir e del
tutore di suo padre, Sa’deddin, accompagnò l’esercito in Ungheria. Sotto il
comando nominale del Sultano, le truppe ottomane catturarono Eger, e nella
battaglia di Mezö-Keresztes, strapparono una vittoria dalla sconfitta. Mehmed,
comunque rifiutò di “guidare” un’altra
campagna, e la guerra continuò per altri dieci anni. L’ultimo sussulto della
tradizione dei sultani guerrieri avvenne con il regno di Osman II, che condusse
una campagna senza successo contro la
Polonia nel 1621, e Murad IV, la cui riconquista di Erivan nel 1635 e Baghdad
nel 1638 gli dettero un posto nella tradizione ottomana come l’ultimo Sultano
che guidò di persona le sue truppe alla vittoria. Sia le campagne di Osman che
di Murad avvennero in un momento in cui l’élite ottomana era consapevole della
necessità di riformare e rinnovare le istituzioni dell’Impero e, in questo
contesto, esse erano un tentativo di ristabilire la vecchia tradizione del
Sultano come leader militare.
All’interno di una entità politica che
esisteva per fare guerra, il ruolo del Sultano come leader in guerra era
sufficiente a legittimare la sua posizione. La guerra, comunque, forniva una
legittimazione religiosa. Nella legge islamica, la guerra santa contro gli
infedeli è un obbligo della comunità musulmana e nelle loro battaglie contro i nemici
cristiani i sultani potevano atteggiarsi come ottemperanti la legge di Dio.
Divenne consuetudine in questo contesto riferirsi ai sultani in particolare e
alle loro truppe in generale come ghazi,
una parola che aveva un significato ordinario di “guerriero” o “razziatore” ma
che, quando i giuristi e gli storici islamici la adottarono come uno dei
termini per indicare una persona impegnata nella guerra santa, acquistò anche
il senso di “guerriero santo”. La nozione del Sultano come ghazi era particolarmente efficace come strumento di
legittimazione, dal momento che racconti epici di gesta eroiche contro gli
infedeli formavano anche un filone della cultura popolare musulmana, e i “Libri
della Guerra Santa” costituivano una branca della letteratura popolare. Il ghazi , dunque, è una figura che appare
sia nei lavori colti che negli intrattenimenti popolari. In conseguenza,
adottando “ghazi” come titolo, i sultani potevano rivolgersi a un vasto spettro
di seguaci musulmani. Sembra probabile che i sovrani ottomani adottarono questo
titolo durante il quattordicesimo secolo, seguendo l’esempio di precedenti
sovrani musulmani, ma manca una chiara evidenza. Il primo riferimento certo a
questa pretesa è nel lavoro del poeta e moralista Ahmedi che, nella sua breve
“Storia” in versi intorno al 1400, presenta i “re ottomani” e i loro seguaci
come guerrieri santi, e premette al passaggio una descrizione delle qualità di
un ghazi. In cronache successive,
queste virtù si attagliano quasi esclusivamente alla persona del Sultano. Per
la fine del quattordicesimo secolo, nelle parole del cronista Neshri, i sultani
ottomani erano diventati “I ghazi per eccellenza… dopo l’Apostolo di Dio
(Maometto) e i quattro califfi rettamente guidati”. Questa era un’idea che
doveva rimanere fino alla fine dell’Impero, persino quando i sultani si erano ritirati dalla leadership
in guerra. Negli ultimi anni dell’Impero questa idea conobbe un revival quando,
dopo l’eroica difesa di Pleven ad opera di Osman Pasha nel 1876, il Sultano
Abdülhamid II (1876-1909) aggiunse la parola “il Ghazi” al suo monogramma
imperiale che compariva all’inizio dei documenti, sulle monete e in luoghi
pubblici.
L’idea del Sultano come ghazi aveva due funzioni. Prima, giustificava le guerre del Sultano
contro i cristiani come l’ottemperanza del comando di Dio. In secondo luogo
giustificava il possesso da parte del Sultano dei territori in precedenza
cristiani. La terra che i musulmani
prendono dagli infedeli passa, per legge, sotto il dominio del Sultano
musulmano. I sultani erano quindi legittimati come sovrani della terra che
avevano strappato ai cristiani. Questo presenta un problema ovvio. Gli ottomani
combattevano contro musulmani tanto spesso quanto lo facevano contro i
cristiani, e conquistarono tanto territorio musulmano quanto cristiano.
Per giustificare la guerra cotro i musulmani,
i cronisti musulmani del quindicesimo secolo presentarono gli avversari
musulmani degli ottomani – per esempio i karamanidi – come recanti ostacolo
alla guerra santa. Intorno il 1460 lo storico Shükrullah ritraeva Murad I come
consultantesi con un Ulema e beneficiario di una sanzione religiosa per
attaccare i suoi vicini musulmani, perché questi stavano progettando di
attaccarlo da oriente, mentre egli conduceva la guerra santa in Occidente. Un
cronista anonimo del 1485, spiegò come i vicini musulmani del Sultano
incitavano gli infedeli contro gli ottomani in modo che, quando questi ultimi
erano occupati potevano “cogliere l’opportunità di attaccarli dall’altro
fianco”.
Nel sedicesimo secolo la propaganda ottomana
cambiò. Per tutto questo secolo, e nel diciassettesimo, i più potenti avversari
del Sultano erano i safavidi dell’Iran. Gli scià safavidi, a differenza dei
sultani ottomani, erano sciiti, e, più significativamente, reclamavano uno
status quasi-divino come capi
dell’ordine religioso safavide. Queste pretese eterodosse consentirono agli ottomani di presentare i Safavidi come
ribelli contro la legittima autorità dei sultani ottomani e, cosa più
importante, come apostati e infedeli. I Safavidi, dichiarò il Gran Mufti
Ebu’s-su’ud nel 1548, erano “ribelli e, da molti punti di vista, infedeli”.
Questa affermazione consentiva a Ebu’s-su’ud, come ai suoi predecessori e
seguaci, di decretare che la guerra contro i Safavidi era una legittima guerra
santa. L’eresia safavide era così tremenda che “combattere contro costoro è più
importante che combattere gli infedeli”.
Queste erano le giustificazioni per muovere
guerra ai Musulmani. Una ulteriore giustificazione, non tanto per muovere
guerra, quanto per acquistare territorio musulmano doveva emergere alla fine
del quindicesimo secolo. La più importante e longeva dinastia nell’Anatolia
pre-ottomana era stata quella dei Selgiuchidi di Rum che avevano governato
nella Anatolia centrale per gran parte del dodicesimo e tredicesimo secolo. La
dinastia si era estinta poco dopo il 1300. Una serie di leggende nelle prime
cronache ottomane ci dice come un Sultano selgiucide chiamato Alaeddin aveva
concesso terre a Sögüt, alla frontiera bizantina, al padre di Osman; e come lo
stesso Sultano avesse concesso ad Osman uno “stendardo formato con la coda di
un cavallo, un tamburo e vesti d’onore” come simboli di investitura. Il
proposito di questi racconti era chiaramente di dare agli ottomani
legittimazione legandoli ai Selgiuchidi. Le storie raggiunsero la loro forma
definitiva nel 1485, nella Storia degli
ottomani di Neshri. Nella versione di Neshri, fu Alaeddin I (m. 1237) che
concesse terre al padre di Osman e fu Alaeddin III (m. 1303) che mandò lo
stendardo, il tamburo e le vesti a Osman, e essendo lui stesso senza figli lo
nominò suo successore. Quest’ultimo sviluppo della storia fece degli ottomani i
legali successori dei Selgiuchidi e dunque i legittimi eredi del territorio
selgiuchide in Anatolia. Un ovvio corollario di questo era che le dinastie che
si erano stabilite sui vecchi regni selgiuchidi erano dei volgari usurpatori
delle terre che, di diritto appartenevano agli ottomani. La guerra contro di
essi e l’impossessamento dei loro territori era dunque legittimo. La
storiografia ottomana fino al dodicesimo secolo doveva inserire la storia di Neshri nel quadro dell’eredità
selgiuchide.
Questi elementi della propaganda e mitologia
ottomana legittimarono la guerra e l’acquisizione di territorio ad oriente e a
occidente. Comunque, le pretese del Sultano alla sovranità come membri di una
particolare famiglia richiedeva una ulteriore giustificazione. A questa
provvedeva la genealogia ottomana. L’”albero genealogico” ottomano sembra si
sia originato durante il regno di Murad
II (1421-51) in un momento in cui gli Ottomani sentirono la necessità di
riaffermare le loro pretese alla
sovranità dopo la sconfitta ad opera di Tamerlano e la guerra civile. La figura
chiave nella creazione di questa genealogia fu Yazijioghlu Ali, che Murad
sembra aver impiegato nella sua cancelleria negli anni ’20 del 1400.
Yazijioghlu trovò i materiali nelle leggende di Oghuz Khan, il mitico antenato
dei turchi occidentali. Oghuz Khan, in questa tradizione, era il nipote di Noè
attraverso Japhet, e ebbe sei figli e ventiquattro nipoti che erano antenati delle 24 leggendarie tribù
della turchia occidentale. Yazijioghlu tracciò la linea genealogica ottomana
attraverso il figlio maggiore e il nipote più anziano di Oghuz Khan, dando così
ai sultani ottomani un primato ereditario tra i monarchi turchi. Egli rinforzò
questo messaggio con un racconto di come, al momento del crollo della dinastia
selgiuchide, i sovrani turchi dell’Anatolia elessero Osman come loro signore
sulla base della sua discendenza. Yazijioghlu, di fatto, basò la sua genealogia
su una versione delle leggende di Oghuz che appare in una storia
universale che il cronista e uomo di
stato, Rashid al-Din compose per il sovrano Ilkhanide, Ghazan Khan (1295-1304).
Questa storia fornisce il nome del nipote da cui discende la casata ottomana
come Kayi. Altre versioni della genealogia
si svilupparono durante il corso del quindicesimo secolo, ma tutte facevano discendere gli ottomani dal figlio
maggiore del figlio maggiore di Oghuz Khan.
La genealogia di Oghuz venne fuori in un
momento in cui i sovrani musulmani dell’Anatolia e dell’Azerbaijan, che erano
immediati rivali degli ottomani, erano tutti turchi, e compilavano le loro
genealogie da un simile materiale turco. La genealogia ottomana serviva a
mostrare che i sultani ottomani erano superiori per discendenza a queste
dinastie vicine. Arrivati alla metà del sedicesimo secolo, quando la situazione
politica dell’Impero era piuttosto differente, e la cultura delle élite era
cosmopolita e islamica piuttosto che turca, la genealogia perse una parte della
sua forza di legittimazione. Nondimeno, rimase fossilizzata nella tradizione
storiografica fino al ventesimo secolo. Ci fu, comunque un cambiamento. Dalla
metà del sedicesimo secolo, sotto l’influenza
di una tradizione profetica che preannunciava la conquista di
Costantinopoli da parte del figlio di Isacco, gli storici iniziarono a
tracciare la prima genealogia attraverso Sem e Esau piuttosto che attraverso
Japhet. Questa genealogia è in contrasto
con la versione originale della discendenza dinastica, dal momento che dissocia i sultani dai turchi, che la
tradizione dipinge come discendenti di Japhet, e li lega, attraverso Sem agli
arabi (“semiti”). Questo, comunque, è collegato al carattere progressivamente
cosmopolita della élite ottomana del sedicesimo e diciassettesimo secolo, che
non avrebbe più compreso il significato della discendenza turca da Oghuz Khan,
ma per la quale un legame con gli arabi poteva indicare una connessione col
Profeta.
La genealogia di Oghuz, nelle sue varie
versioni, fornisce ai sultani una discendenza fisica che sostiene le loro
pretese alla sovranità. Per reclamare anche una legittimazione religiosa essi
avevano anche bisogno di una genealogia spirituale e di segni di una
approvazione divina. Essi acquistarono questo attraverso una serie di racconti
popolari che apparvero per la prima volta in cronache della fine del
quindicesimo secolo e successivamente vennero incorporati nella tradizione
storiografica. Secondo le credenze islamiche, Dio parla all’uomo attraverso i
sogni, e un certo numero di storie delle prime cronache ci dice come Dio
promise ad Osman e a suo padre, attraverso dei sogni, che avrebbe esaltato i
loro discendenti. Il più famoso di questi episodi, che divenne canonico nelle tradizioni successive, ricorre
nella cronaca di Ashikpashazade intorno al 1484, e descrive il sogno di Osman
quando era ospite del derviscio Edebali. In esso, Osman vede una luna che sorge
dal petto di Edebali e entra nel suo. Poi un albero cresce dal suo ombelico e
copre il mondo. Nell’ombra di questo albero c’erano montagne, con acqua che
scorrevano dai loro piedi, e popoli che bevevano le acque, coltivavano i loro
giardini e creavano fontane. Al mattino, Edebali interpretò il sogno come
significante che Dio aveva garantito ad Osman e ai suoi discendenti la
sovranità. Nello stesso tempo, fidanzò sua figlia con Osman. Ella divenne la
madre di Orhan, e in tal modo l’antenata femminile della dinastia.
La funzione della storia è di mostrare, in
primo luogo che Dio aveva voluto che la dinastia ottomana fosse regnante, e in
secondo luogo di fornirle una genealogia spirituale attraverso Edebali.
Edebali, che fosse realmente vissuto o leggendario, era una figura che occupava
una posizione importante nel lignaggio spirituale dell’ordine dei dervisci
Vefaiyye, al quale apparteneva anche Ashikpashazade. Nell’ordine Vefaiyye, come
in tutti gli ordini di dervisci, ogni maestro ha il suo proprio maestro
spirituale, andando indietro in una catena ininterrotta fino al fondatore
dell’ordine. Nel caso dei Vefaiyye, questo fu Abu’l-Wafa di Baghdad (m. 1107).
Da questo punto, l’ordine traccia la sua genealogia spirituale indietro fino al
Profeta Maometto e, attraverso l’angelo Gabriele, a Dio. La storia di
Ashikpashazade del matrimonio di Osman
con la figlia di Eebali, dunque, collega
i sultani ottomani al suo ordine, il Vefaiyye, e li fornisce della
discendenza spirituale che va indietro attraverso Abu’l-Wafa fino al Profeta.
Questa genealogia religiosa fa da complemento alla genealogia politica che va
indietro attraverso Oghuz Khan fino a Noè
Le genealogie della dinastia e le storie del
sogno derivano il loro materiale da credenze popolari, e in questo riflettono
le pretese relativamente modeste dei sultani nel quindicesimo secolo, quando le
storie apparvero. Nel sedicesimo e diciassettesimo secolo le pretese dei
sultani divennero più grandiose e, allo stesso tempo, più dipendenti dalla
tradizione colta.
Nel 1453 Mehmed II conquistò Costantinopoli e,
attraverso il suo possesso, acquistò dallo sconfitto imperatore bizantino la
pretesa al titolo imperiale romano. Questa prerogativa non ha però un posto
preminente nei titoli che si attribuivano i sultani fino ad un secolo più
tardi. Dal 1526 in poi, i principali avversari dei sultani furono gli
imperatori asburgici, di cui il più grande era Carlo V, re di Spagna e sacro
romano imperatore: la rivalità tra Solimano I e Carlo V fu un tema dominante
intorno alla metà del sedicesimo secolo. Nel 1547, Solimano concluse un
trattato con Carlo e suo fratello, Ferdinando d’Austria, in cui garantiva la
pace in cambio di un tributo per le terre che gli Asburgo avevano in Ungheria.
Nel testo del trattato, Carlo non si riferisce a se stesso come “Sacro Romano
Imperatore” ma semplicemente come “Re di Spagna” e è da questo momento che
Solimano riputò di aver strappato il titolo di Imperatore romano al suo rivale.
Da allora, attribuzioni come “Cesare dei Cesari” iniziarono ad apparire nei
titoli Ottomani. L’importanza per i sultani del titolo Romano divenne evidente
al tempo della negoziazione del trattato di Zsitvatorok nel 1606. L’imperatore
asburgico non accettava il titolo di “Re” ma neanche Ahmed I voleva concedere
il titolo di “Cesare”. Il compromesso che trovarono gli Ottomani fu, nel
diciassettesimo e diciottesimo secolo, di tenere il titolo “Cesare” e di rivolgersi
ai sovrani asburgici come a “Imperatori”.
La pretesa ottomana al titolo di Imperatore
Romano non fu la fine delle pretese
imperiali dei sultani. A metà del sedicesimo secolo, Solimano aggiunse
“Cosroe dei Cosroi” ai suoi titoli di Sultano, presumibilmente, dal momento che
“Cosroi” è un generico nome per gli antichi governanti dell’Iran, in
celebrazione delle sue vittorie sugli Scià safavidi. Dalla metà del suo regno
Solimano si diede il titolo di “Sultano degli Arabi, Persiani e Romani”.
Comunque, il titolo più importante che lasciò al suo successore era “Califfo” o
“Imam”, parole che, in un contesto politico implicano autorità suprema del
mondo islamico.
Il concetto di califfato deriva dalla teologia
e storiografia islamica. Gli storici musulmani sunniti dettero il titolo ai
quattro successori del Profeta – Abu Bakr, Umar, Uthman ed Alì – che essi
veneravano come i “Califfi rettamente guidati”. Da allora, il titolo divenne
parte in particolare di quelli dei sovrani abbasidi tra il 750 e il 1258. Queste
associazioni diedero al termine una dignità storica. Dal decimo secolo, i
teologi sunniti iniziarono a sviluppare una teoria del califfato,sebbene essi
preferiscano i termini “Imam” e “Imamato” a “califfo” e “califfato”. L’imam,
dal loro punto di vista, ottiene la carica come risultato di un contratto che
fa con uno o più “uomini col potere di legare e di sciogliere” e, perché il
contratto sia valido, l’Imam deve soddisfare un certo numero di condizioni.
Queste variano da scrittore a scrittore, ma una sulla quale tutti sono
d’accordo è che l’Imam deve appartenere alla tribù del Profeta, i Quraish.
Nella teoria sunnita, dunque, il califfato o imamato è contrattuale piuttosto
che ereditario.
Califfo, come titolo dei sultani ottomani,
appare per la prima volta nel 1424, ma il suo uso a quel tempo era retorico
piuttosto che specifico. Non fu che dal regno di Solimano I che il Sultano
iniziò a pretendere il titolo ex officio.
Il suo principale propagandista in questo fu il Gran Mufti, Ebu’s-su’ud che,
rendendosi conto che i sultani ottomani non potevano pretendere di provenire
dalla tribù dei Quraish – la genealogia era già fissata – ignorò la teoria
classica del califfato e invece asserì che il Sultano ottomano occupava questa
posizione per diritto divino. Egli era colui al quale “Dio Altissimo ha
concesso il califfato della Terra”. Egli asserì pure che i sultani ottomani
erano gli “eredi del Grande Califfato” – un riferimento ai “quattro califfi
rettamente guidati” – e che essi ereditarono la carica “di padre in figlio”.
Questo era un punto di vista che contraddiceva direttamente la teoria classica,
la cui sola influenza sugli ottomani sembra essere stata riguardo la forma del
giuramento di fedeltà. Queste asserzioni effettivamente resero i sultani
ottomani eredi diretti dei califfi rettamente guidati, che erano gli immediati
successori del Profeta. Fu dunque una pretesa che implicava sovranità
sull’intero mondo islamico. Era anche una pretesa che doveva durare, con molte
vicissitudini fino alla fine dell’Impero.
C’erano dunque molti fili conduttori nelle
pretese ottomane di legittimazione, ciascuno dei quali era emerso in un tempo
differente di fronte a circostanze diverse. La giustificazione originale del
diritto del Sultano a governare era come leader in guerra. Intorno al 1400 al
più tardi questo ruolo era stato santificato ed egli era divenuto un leader
della guerra santa. La guerra contro le dinastie musulmane era giustificata
perché queste lo distoglievano dal suo sacro compito. Agli inizi del
quindicesimo secolo, a seguito della sconfitta e della guerra civile, il
Sultano ristabilì le sue pretese a una legittima sovranità mediante la
creazione della genealogia da Oghuz. La fabbricazione, nello stesso secolo, di
una genealogia spirituale e di racconti che “provavano” che la sovranità
ottomana era stabilita da Dio, dettero una sanzione religiosa al sultanato, che
correva in parallelo alla sua discendenza secolare da Oghuz Khan. Intorno al
1500 il Sultano cominciò a legittimare il suo ruolo in Anatolia sulla fondazione
di una storia che faceva gli ottomani eredi legali dei Selgiuchidi. Dal 1453,
ma specialmente dopo il 1547, egli poteva pretendere di aver ereditato il
titolo di sacro romano imperatore, mentre le vittorie sui mamelucchi e safavidi
lo rendevano “Cosroe” e “sovrano degli Arabi e dei Persiani”. Nel sedicesimo
secolo, Solimano avanzò pretese sul titolo e la carica di Califfo. Di questi
strumenti di legittimazione, quelli di Guerriero Santo, successore dei
selgiuchidi e califfo dovevano sopravvivere fino al ventesimo secolo.
Nel
sedicesimo secolo, il sovrano governava i suoi domini in gran parte attraverso
gli “schiavi della porta”. Questi erano gli uomini che aveva reclutato per
servire come ministri, governatori provinciali o truppe e che pagava col Tesoro
o la concessione di feudi. Era, comunque un sistema di governo che aveva
impiegato due secoli per evolversi.
Un
resoconto di come i primi sultani governavano il loro principato e di chi entrò
al loro servizio può solo essere breve e altamente ipotetico. Le cronache del
quindicesimo secolo presentano il primo sovrano, Osman (m. circa 1324), che
distribuisce terre e uffici di comando ai membri della sua famiglia e ai
guerrieri del suo entourage. I nomi dei guerrieri sembrano, di fatto essere
invenzioni, derivanti da toponimi nell’Anatolia nord-occidentale piuttosto che
da accurate memorie storiche, ma l’idea che Osman delegasse i poteri alla sua
famiglia e ai compagni di ventura potrebbe nondimeno essere vera. Le stesse
pratiche probabilmente continuarono nel regno di suo figlio, Orhan (c. 1324-62). I nomi dei suoi
quattro fratelli e di una sorella appaiono come testimoni del suo negozio
fiduciario del 1324; la cronaca bizantina di Giovanni Cantacuzeno menzionano
suo fratello, Pazarlu, come comandante alla battaglia di Pelekanon nel 1328; e
suo figlio Süleyman Pasha, agiva come
comandante militare semi indipendente fino alla sua morte nel 1357. Suo figlio
Halil sembra essere stato governatore delle terre lungo il Golfo di Izmit alla
fine degli anni ’50 del 1300. L’impressione è quella di un modo informale di
governare, con cariche ripartite tra i membri della famiglia regnante e del suo
entourage.
Questo
sistema molto probabilmente cessò durante il regno di Murad I (1362-89). Murad,
sembra, fu il primo Sultano a giustiziare i suoi fratelli col risultato che i
regni ottomani non furono più il patrimonio condiviso di tutti i membri della
famiglia regnante. I figli dei sultani continuarono a svolgere il ruolo di
governatori provinciali e di comandanti dell’esercito, ma sotto la stretta
tutela dei loro padri e senza la libertà di azione di cui Süleyman
Pasha aveva apparentemente goduto.
Un
altro fattore che portò un cambiamento nel modo di governare era l’espansione
del territorio ottomano e l’emergere dei signori di frontiera. Nel momento in
cui i regni ottomani divennero più vasti, i signori vittoriosi acquistarono
terre e entrate nei nuovi territori, che li stabilirono come poteri locali con le
proprie truppe e un proprio seguito. Il più importante di questi signori fu
Evrenos (m. 1471) che, durante il regno di Murad, acquistò vasti possedimenti
in Macedonia, che i suoi discendenti dovevano mantenere fino al ventesimo
secolo. Altri signori di frontiera – segnatamente le famiglie di Mihal, Malkoch
e Turahan – si stabilirono nelle nuove terre conquistate in Europa alla fine
del quattordicesimo secolo e all’inizio del quindicesimo. E’ possibile che si
verificasse un fenomeno simile in Anatolia, ma le fonti sono troppo scarse per
permetterci altro che speculazioni. Come Evrenos e altri conquistatori si
stabilirono nei nuovi territori, un’altra famiglia, i Chandarli, emerse sia
come capi militari che consiglieri politici dei sultani. Il primo di questa
genealogia, Hayreddin Halil (m.1387), combinava il ruolo di comandante
dell’esercito e di Visir di Murad I. Per questa ragione, a tradizione ottomana
lo considera come il primo Gran Visir, una carica che i suoi discendenti
dovevano occupare fino al 1453. Nello stesso tempo, i conquistatori ottomani
frequentemente non rimuovevano la dinastie che avevano governato in tempi
pre-ottomani, ma invece le mantennero come vassalli sotto la sovranità
ottomana.
Questi
sviluppi resero la posizione di Murad I differente da quella di suo padre e di
suo nonno. Nel senso che egli non doveva più spartire l’autorità con i suoi
fratelli, che egli era più forte di loro. Nello stesso tempo, comunque,
l’apparizione dei signori di confine e la continuazione del governo di dinastie
locali semi-indipendenti chiaramente limitava il suo potere. Egli non era un
sovrano assoluto, ma piuttosto il più potente in una confederazione di grandi
signori, che erano suoi alleati e vassalli piuttosto che suoi servitori. Per
stabilire la loro posizione, dunque, Murad e i suoi successori dovevano
procurarsi un entourage che fosse di subordinati piuttosto che di confederati,
e la cui lealtà alla dinastia ottomana era fuori questione. La sorgente di un
tale seguito,nell’assenza di istituzioni moderne poteva essere solo la case del
Sultano e fu largamente attraverso membri della sua casa, impiegati come
governatori o soldati, che i sultani ottomani giunsero a governare l’Impero.
La
legge islamica e la tradizione si combinarono con le particolari circostanze
della dinastia ottomana per definire la natura della casa imperiale.
L’esclusione dal governo della linea femminile, la pratica del fratricidio tra
il 1362 e il 1595, e la reclusone dei principi, resero da allora il Sultano il
patriarca incontestato della dinastia, con severa limitazione del ruolo della
famiglia imperiale in senso allargato. Solo i figli del Sultano partecipavano
al governo dopo il 1362 e solo sotto sorveglianza come governatori provinciali.
Nell’assenza di parenti legati da vincoli di sangue a cui conferire l’ufficio o affidare i
poteri, il Sultano doveva rivolgersi ad altri membri della casa. Leggi e
precedenti determinarono chi essi dovessero essere.
La
legge islamica permette la schiavitù e, creando una categoria di “schiavi con
licenza”, rese possibile per essi portare avanti transazioni per conto dei loro
proprietari. Gli slavi potevano dunque diventare figure affidabili e
importanti. Per di più, a dispetto del loro stato servile, essi potevano, in
quanto facenti parte della élite della casa, occupare unrango sociale elevato.
La “(parte di) famiglia composta da schiavi”,dunque,divenne una caratteristica
della società islamica,e i sovrani islamici ebbero, dai primi tempi degli
Abbasidi nell’ottavo secolo, creato eserciti di truppe schiave e usato schiavi
nel governo dei loro reami. Questo era vero anche dei Selgiuchidi di Rum e
probabilmente anche delle dinastie succedutesi in Anatolia prima della
conquista ottomana. I Selgiuchidi nel tredicesimo secolo avevano impiegato sia
truppe schiave che comandanti militari, nel palazzo e nel governo, ed avevano
persino istituito una scuola a Konya per la loro educazione. Anche gli
imperatori bizantini impiegavano corpi di truppe straniere le cui origini li
ponevano in una condizione a parte rispetto a quella dei sudditi dell’Impero.
Con questi precedenti era forse inevitabile che i sultani ottomani
dovessero fondare le loro case sulla
istituzione della schiavitù e sull’impiego di “stranieri”. Perdipiù, con la
eliminazione di coloro che avevano rapporti di sangue col Sultano dalla casa e
dal governo la sua dipendenza dagli schiavi divenne più pronunciata. Il
reclutamento nel servizio imperiale normalmente, dunque, significava
reclutamento come schiavo.
La
legge islamica è chiara su chi può e chi non può essere ridotto in schiavitù.
In primo luogo proibisce la riduzione in schiavitù dei musulmani, ancorché
schiavi che si convertono all’Islam non perdono il loro stato servile. In
secondo luogo, definisce quali non-musulmani possono essere legalmente ridotti
in schiavitù. A questo proposito divide il mondo in regni musulmani e
non-musulmani e non garantisce nessuna protezione della vita o della proprietà
delle persone che vivono nelle terre non-musulmane. Questo significava in
pratica che era possibile uccidere o rendere schiavi non-musulmani che vivessero sotto una
sovranità non musulmana. Lo stato di un non musulmano che viveva sotto una
sovranità musulmana è differente. In virtù del pagamento di una tassa di
capitazione sui maschi adulti, essi godono dello stato di infedeli protetti. La
legge protegge le loro vite e proprietà e non possono essere ridotti in
schiavitù. Gli schiavi, dunque, si originano come prigionieri dal mondo
non-islamico. Una volta portati entro i regni dell’Islam essi divengono una
proprietà che i loro padroni possono vendere, affittare, lasciare in eredità o
dare in dono. Lo status è ereditario. I figli di schiavi hanno uno status
servile, ma se uno dei loro genitori è libero il bambino segue lo status di sua
madre. I proprietari possono anche rendere liberi gli schiavi mediante una
semplice dichiarazione verbale o con un certo numero di altri mezzi.
Gli
schiavi potevano dunque entrare in una casa mediante cattura, acquisto, eredità
o dono e i sultani ottomani acquistavano schiavi con questi mezzi
presumibilmente dalle prime decadi dell’Impero. Alla fine del quattordicesimo
secolo, comunque, il reclutamento di schiavi su vasta scala era diventato
sistematico, utilizzando due metodi.
Il
primo di questi era di imporre una esazione sui prigionieri che i soldati
ottomani riportavano dai raid e dalle guerre in territorio cristiano. La legge
che dà al sovrano musulmano il diritto a un quinto del bottino di guerra
giustificava la pratica, sebbene non esiste indicazione che i sultani
esigessero proprio questa quota. Sembra abbastanza possibile che la pratica
iniziò durante il tempo di Osman o di Orhan, ma le cronache musulmane situano
la sua origine nel regno di Murad I. La attribuiscono a Chandarli-Hajreddin e
ad un certo Kara Rüstem di Karaman che, esse (le
cronache) asseriscono, consigliarono Murad: “prenditi un quinto dei prigionieri
provenienti dai raid e se qualcuno non ha cinque prigionieri, prendi
venticinque akce per ogni
prigioniero. E’ dubbio che i dettagli di questo racconto siano autentici.
Comunque, i raid in Europa divennero più intensi e diffusi durante il regno di
Murad, aumentando il numero di prigionieri a disposizione. Nello stesso tempo,
Murad aveva bisogno di rafforzare la sua supremazia politica aumentando le dimensioni
della sua casa, e questi fattori forse si combinarono per rendere necessaria
l’istituzione di una esazione formale e regolare durante il suo regno.
Il
proposito principale dell’esazione era provvedere reclute per il corpo dei
giannizzeri, la fanteria della casa del Sultano, e i cronisti di fatto tendono
ad associare l’istituzione dell’esazione con la creazione di questi corpi.
Altre reclute, comunque erano destinate a servire direttamente nel palazzo o,
dopo la loro creazione in una data incerta, nelle sei divisioni di cavalleria
della casa.
Per
circa un secolo e mezzo dopo il regno di Murad I, la guerra e i raid
continuarono a essere una abbondante fonte di reclutamento per il servizio del
Sultano. Con l’istituzione, probabilmente durante il regno di Bayezid I
(1389-1402) di un corpo di razziatori che ricevevano terra e esenzione dalle
imposte in cambio di un’obbligazione a condurre razzie nel territorio nemico, i
raid divennero una attività formalizzata. Questo assicurò un flusso costante di
prigionieri, persino al di fuori dei periodi di guerra ufficiale. Il borgognone
Bertrandon de la Brocquière, per esempio, rammenta come, nel 1432, nella valle
del Maritsa in Bulgaria egli incontrò “circa venticinque uomini e dieci donne,
legati assieme con pesanti catene intorno al loro collo. Erano stati catturati
nel regno di Bosnia durante un raid da parte dei turchi e stavano venendo
portati ad Adrianopoli da due turchi per essere venduti”. Il cronista
Ashikpashazade ricorda con piacere una incursione sul Danubio nel 1440, dove “i
razziatori erano così pieni di bottino che vendevano schiave squisite per il
prezzo di un paio di scarpe”. Ogni guerra e ogni raid condotto con successo
produceva la sua messe di schiavi, e su questi il Sultano reclamava il diritto
di imporre una esazione.
E’
difficile, in assenza di documenti, stabilire quanto efficaci e sistematici
fossero i sultani nell’esigere la loro quota di prigionieri di guerra. Il regno
di Bayezid II (1481-1512), comunque, vide un tentativo di sistematizzare e
codificare la legge ottomana, e fu senza dubbio in questa occasione che
Bayezid, nel 1493, emanò un decreto per regolarizzare la raccolta di
prigionieri per il servizio imperiale. La disposizione era la risposta ad una
richiesta di istruzioni da parte di un certo Yusuf, che era l’ufficiale
responsabile della esazione dai giovani uomini catturati dai razziatori in
Rumelia. Il decreto stabilisce che “il comandante del raid deve essere
ricompensato con venticinque ragazzi di quelli che egli abbia riportato con i
propri sforzi, gli ufficiali incaricati dell’esazione con cinque ciascuno di
quelli che essi in persona avevano preso, gli ufficiali di rango più elevato
con uno di quelli che essi stessi avevano catturato, e gli ufficiali di rango
più basso con uno di due di quelli che avessero catturato essi stessi. Il
resto, dall’età di dieci a diciassette anni, deve essere preso da Yusuf. Se
qualcuno di quelli maggiori di sedici anni mostrano di essere idonei, anche
essi devono essere presi, pagando al proprietario trecento akce dal tesoro per ciascun giovane. I giovani non devono avere
deformità o malattie o mostrare segni di aver raggiunto la pubertà, o aver
iniziato ad avere la barba”. Per assicurare che i giovani prigionieri
raggiungessero la capitale, il decreto ordina sia all’ufficiale incaricato
dell’esazione che al comandante del raid di compilare un registro, che i loro
rappresentanti devono portare con i prigionieri. Questo consentiva alle
autorità di scoprire se qualcuno era scomparso tra il raggruppamento alla
frontiera e l’arrivo nella capitale. Esiste una copia dello stesso decreto in
cui la formula “Io [il Sultano] ho comandato…” è sostituita dalla frase: “la
legge è come segue…”, suggerendo che questo particolare decreto inviato a Yusuf
acquistò lo stato di una legge generale che regolava la raccolta di prigionieri
per il Sultano.
Guerre
e razzie in Europa continuarono ad essere una fonte di schiavi durante il
sedicesimo secolo, ma probabilmente non nella stessa scala di prima. Prima del
1526, la linea del Danubio e della Sava formavano il confine tra l’Impero
Ottomano e il regno di Ungheria, e raid attraverso i fiumi assicuravano un
continuo flusso di prigionieri. Comunque, dopo la sconfitta del re di Ungheria
a Mohacs, e l’insediamento sul trono di un re fedele al Sultano, l’Ungheria
cessò di essere un terreno da razziare. Nel 1541, l’Ungheria centrale divenne
una provincia ottomana, confinante con le ben fortificate terre asburgiche ad
occidente. In queste circostanze le regolari incursioni su vasta scala degli
ottomani non erano possibili. Perdipiù, nel 1595, la distruzione in battaglia
di molte migliaia di razziatori, mise fine alla loro organizzazione nella sua
forma tradizionale. Questi fattori limitarono il rifornimento di schiavi.
Scrivendo negli anni ’40 del 1600, lo storico Ibrahim Pechevi commentava che
era cessato il rifornimento di schiavi che aveva reso possibile ai governatori
della frontiera di mantenere larghi entourage.
Ad un certo punto la pratica di esigere una quota di prigionieri per il Sultano
deve essere cessata.
I
prigionieri, comunque, continuarono ad arrivare nell’Impero, specialmente con i
raid tatari nel territorio russo e polacco, dal Caucaso, e dall’africa
sub-sahariana attraverso l’Egitto e il Sultano continuò a reclutare schiavi da
queste fonti
E’
chiaro, nondimeno, che la fornitura di schiavi da fuori i confini dell’Impero
era insufficiente. I sultani dunque stabilirono una seconda e più affidabile
fonte di approvvigionamento. Questa era il devshirme
o “raccolta”, per mezzo della quale il Sultano prelevava gli schiavi tra i
propri sudditi cristiani. Nella legge islamica, la pratica era illegale, dal
momento che i non-musulmani nell’Impero avevano lo status di infedeli protetti
e così non avrebbero potuto essere messi in schiavitù. La questione della sua
legalità, comunque, sebbene soggetto di dibattito nel sedicesimo secolo, non
ebbe ripercussioni sulla pratica e la Raccolta divenne la fonte principale di
reclutamento per il servizio imperiale tra il quattordicesimo e la fine del
sedicesimo secolo, e la pratica non scomparve completamente fino al
diciottesimo secolo.
E’
impossibile stabilire esattamente quando iniziò la Raccolta. Comunque, un
semone del 1395 dal Metropolita di Tessalonica lamenta: “Cosa non deve soffrire
un uomo vedendo il figlio che ha partorito ed allevato… portato via dalle mani
di stranieri, improvvisamente e con la forza e costretto ad adottare costumi
alieni e diventare uno che adotta abiti, lingua, empietà ed altre
contaminazioni barbariche?” Due anni più tardi, un italiano, Caluccio di
Salutati, riferiva che i turchi “si impadroniscono di giovani di dieci-dodici
anni per l’esercito”. Entrambi i commenti sembrano riferirsi alla Raccolta,
indicando che l’istituto esisteva già negli anni ’90 del 1300. Dunque nacque
durante il quattordicesimo secolo. Questo era un periodo durante il quale i
turchi dell’Anatolia occidentale sembravano avere una comprensione limitata
della legge islamica e probabilmente, dunque, solo una nozione confusa degli statuti della schiavitù nei termini nei
quali le generazioni successive dovevano
intendere la Raccolta e lo status dei servitori del Sultano. Questo può
spiegare la pronta accettazione di un istituto che era, in termini islamici,
illegale.
Nel
1438, un certo Fratello Bartolomeo da Jano di nuovo fece riferimento alla
Raccolta nella sua Lettera sulla barbarie
dei Turchi. Ivi riporta come il Sultano pretendesse un decimo dei ragazzi
cristiani “da dieci a vent’anni”, che egli fa diventare suoi schiavi speciali e
portatori di scudi e, ciò che è peggio, Saraceni”. Egli parlava della pratica
come “qualcosa che il Sultano non era mai stato uso fare”, come se fosse
qualcosa di nuovo. Questo indica probabilmente che Fratello Bartolomeo
semplicemente ignorava che la Raccolta di giovani era un evento regolare, ma
probabilmente era cessato durante la guerra civile tra il 1402 e il 1413, ed
era solo allora che riprendeva di nuovo.
Riguardo
ad un aspetto il resoconto di Fratel Bartolomeo era sicuramene sbagliato. E’
improbabile che il Sultano raccogliesse giovani nella percentuale di uno su
dieci. Il serbo Costantino Mihailović, che servì nell’esercito
ottomano tra il 1453 e il 1463, di fatto si riferisce ai giovani che il Sultano
raccoglieva nei suoi regni come chilik,
una parola che chiaramente deriva dal Persiano chile-yek (un quarantesimo), e ovviamente rappresenta la
percentuale dell’esazione. Questa è anche la quota che appare in un documento
degli inizi del sedicesimo secolo, che serviva da modello per i decreti del
Sultano che ordinavano la raccolta dei giovani per il servizio imperiale. Il
testo comincia con: “Io [il Sultano] ho ordinato che, nel distretto giudiziario
di […], comprendente [x] famiglie, e in quello di […] comprendente [y]
famiglie, [a] e [b] giovani rispettivamente, per un totale di [c], siano
raccolti, al tasso di un giovane ogni quaranta famiglie…”
La
percentuale di raccolta dunque, era di un giovane ogni quaranta famiglie. Il
documento continua esponendo la procedura che la raccolta doveva seguire.
L’ufficiale incaricato doveva portare con sé un giannizzero e “andare senza
ritardo in questi distretti giudiziari per avvisare il popolo con un proclama…
e, senza trascurare un singolo villaggio, radunare tutti i figli degli infedeli
e dei notabili, insieme con i loro padri, e farli comparire davanti a sé e
ispezionarli personalmente. Se un infedele ha più di un figlio (l’ufficiale) deve registrarne e prenderne in
consegna uno valido per il servizio presso i giannizzeri, di età quattordici o
quindici anni, o, al massimo sedici, diciassette o diciotto; ma non deve
prendere il figlio di un uomo che ne ha solo uno e, dopo aver preso un figlio egli deve,
agendo correttamente secondo legge, rimandare indietro gli altri al loro padre.
Un’opera
degli inizi del diciassettesimo secolo, intitolata Le leggi dei Giannizzeri, che offre rimedi per i difetti del’epoca
del corpo dei giannizzeri facendo riferimento alle pratiche ideali del passato,
espone i principi della selezione. Gli ufficiali incaricati non devono prendere
i figli di uomini importanti, preti o uomini di buona discendenza. Essi non
devono prendere figli unici, perché questi aiutano i loro genitori nel lavoro
della fattoria, e se non vi fossero, il padre non riuscirebbe a coltivare la
sua terra e a pagare le tasse. Essi non dovrebbero prendere orfani, perché sono
“opportunisti e indisciplinati”; giovani strabici, perché sono “perversi e
ostinati”; giovani alti perché sono “stupidi”, o bassi, perché sono
“piantagrane”. Né dovrebbero prendere giovani con facce imberbi, perché
appaiono “disprezzabili al nemico”. Era anche proibito prendere uomini sposati
o artigiani. Gli uomini che si guadagnavano da vivere come artigiani non erano
preparati a sopportare le durezze del servizio.
C’erano
altre categorie che l’autore delle Leggi
escludeva. Soprattutto, non dovevano essere presi dei turchi. Questo perché, se
si fosse fatto questo, i loro parenti avrebbero preteso anch’essi di essere
schiavi del Sultano e di essere esentati dalle imposte, o cercare di entrare
nel corpo dei giannizzeri. Allo stesso tempo, i governanti non li avrebbero
visti come genuini schiavi imperiali, e ciò avrebbe condotto all’indisciplina.
I turchi sono pure descritti come “spietati e molto poco adusi alla devozione o
alla religione”. Invece, l’autore continua, il beneficio di prendere la prole
degli infedeli risiede nel fatto che “quando diventano musulmani essi diventano
fervidi credenti e nemici delle loro famiglie e dei dipendenti”. Questa era
probabilmente un’esagerazione. Un documento del 1572 mostra un giannizzero che
presenta una petizione al Sultano nell’interesse della sua famiglia in Albania,
indicando che non solo non è divenuto “loro nemico”, ma che neanche ha perso il
contatto con loro. Similmente, nel registro di corte di Istanbul per il 1612-13
c’è una annotazione che registra un caso in cui un governatore dell’Anatolia –
chiaramente proveniente dalla Raccolta – aveva collaborato con suo fratello, un
prete locale, per estorcere esazioni illegali alla popolazione del suo
distretto. Questi non possono essere stati casi isolati di contatti che sono
continuati. Nondimeno, ogni giovane prescelto con la Raccolta doveva i suoi
mezzi di sussistenza, incluso il suo salario regolare, e la sua futura
carriera, al Sultano e non ai familiari o alla sua gente e, in questo senso, il
legame più vitale con il suo ambiente natale era tagliato.
C’era,
comunque un gruppo di musulmani che poteva essere fatto oggetto di Raccolta, e
questo era il gruppo dei bosniaci. La ragione, secondo l’autore delle Leggi dei giannizzeri, era che al tempo
della conquista della Bosnia nel 1463 gli abitanti si erano subito sottomessi
al Sultano ed avevano accettato l’Islam. Quando il sovrano offrì loro un
privilegio in cambio di questo atto, essi chiesero di essere oggetto di Raccolta,
e da allora il Sultano aveva prelevato giovani da quella regione. Molti di
questi, ci dicono Le leggi dei
giannizzeri, venivano posto nel palazzo o nei giardini del palazzo. Le leggi dei giannizzeri è un’opera
dell’inizio del diciassettesimo secolo. Nondimeno, dal momento che i prospetti
catastali a partire dal 1463 mostrano che ci furono molte conversioni in Bosnia
dopo la conquista ottomana, questa storia di come la Raccolta iniziò in Bosnia
ha una qualche credibilità.
Le
zone dove il Sultano faceva la raccolta erano la penisola balcanica e
l’Anatolia, con la prima che forniva la maggior parte delle reclute,
presumibilmente perché era un’area con una maggioranza di popolazione
cristiana. Nell’Anatolia, la maggioranza della popolazione era turca, e
pertanto non idonea. Inoltre, alcune aree dell’Anatolia sembrano in certi
periodi essere state esenti. L’autore de Le
leggi dei giannizzeri ci informa che era contro i regolamenti prelevare
giovani per esempio dall’area tra Karaman ed Erzerum, “perché essi erano
mescolati con turcomanni, curdi e georgiani”. Né il Sultano estendeva la
raccolta alle terre arabe dopo la loro conquista nel sedicesimo secolo.
Queste
erano le aree e le popolazioni soggette al prelievo, e i principi in base ai
quali gli ufficiali incaricati facevano la loro selezione. Una volta che
avevano scelto e riunito i giovani, il compito successivo era portarli alla
capitale. Il primo passo era organizzare i giovani, in accordo col modulo del
sedicesimo secolo che abbiamo visto, in gruppi di 100-150 o di 200, secondo Le leggi dei Giannizzeri, e poi
compilare un registro separato per ciascun gruppo. Per ogni giovane, essi
dovevano, secondo quanto stabilisce il modulo, mostrare “il suo nome, il nome
di suo padre e il nome del villaggio e del possessore del feudo a cui il
villaggio appartiene, e una descrizione del giovane, in modo che se egli
scompare, il registro mostri chi sia e da dove viene, cosicché può essere
ripreso facilmente”. Una funzione dei registri era anche di evitare che attaccabrighe
prendessero parte alla consegna dei ragazzi , e di evitare episodi di
corruzione da parte di coloro che prelevavano i ragazzi, per esempio la vendita
privata come schiavi di coloro che avevano avuto in consegna. Così riuniti, i
ragazzi viaggiavano scortati dalle
guardie fino a Istanbul, passando le notti nei villaggi. Il modulo del decreto
proibisce che vi stiano per più di una notte, per minimizzare il peso per gli
abitanti del villaggio, che provvedevano cibo e alloggio. Una volta ad Istanbul
la scorta li portava dall’agha dei
Giannizzeri.
L’agha doveva innanzitutto accertarsi che
i ragazzi arrivati a Istanbul coincidessero con la descrizione dei registri,
annotando quelli che erano caduti ammalati e qualsiasi ragazzo non fosse
arrivato a destinazione. Come ulteriore precauzione contro le frodi, il decreto
richiedeva all’ufficiale incaricato di fare un secondo registro, cosicché
quando successivamente arrivava nella capitale, l’agha dei giannizzeri poteva comparare i due registri, un processo
che gli avrebbe consentito di scoprire ogni falsificazione. Le Leggi dei Giannizzeri descrivono il passo successivo nel procedimento. I due
ufficiali dei giannizzeri subordinati dell’agha,
– l’agha della Rumelia e l’agha dell’Anatolia – dovevano apparire
con i loro funzionari e, in presenza dell’agha
un chirurgo avrebbe esaminato e
circonciso ogni ragazzo quando veniva il suo turno. Essi avrebbero poi dovuto
destinare i ragazzi che avevano la migliore presenza al palazzo. Questi erano
quelli che avrebbero ricevuto una educazione nelle scuole del Palazzo e
talvolta, dopo aver servito la persona del Sultano, ricevere nomine a
governatori o altri uffici. Quelli fisicamene forti erano incaricati di
lavorare nei giardini del palazzo. Anche questo poteva condurre ad una
condizione privilegiata.
Ma
la destinazione di molti dei giovani,comunque, era il corpo dei giannizzeri, le
truppe personali di fanteria del sovrano. L’ammissione al corpo non era,
tuttavia, immediata. Laddove i ragazzi di bella presenza ricevevano una
educazione nel palazzo, i futuri giannizzeri ricevevano una differente forma di
addestramento. Il primo passo era di vendere ciascun ragazzo –
tradizionalmente, secondo Le leggi dei
Giannizzeri , per un pezzo d’oro – a
coltivatori turchi dell’Anatolia. Il
pagamento era simbolico: serviva ad evitare che questi ragazzi si rifiutassero
di lavorare sulla base del fatto che erano schiavi del Sultano. Essi rimanevano
“con i turchi” per circa sette o otto anni. La ragione di questa pratica era, in primo luogo, di abituare i ragazzi,
attraverso il regolare lavoro dei campi, al duro lavoro fisico. Per questa
ragione, le Leggi dei giannizzeri
insistono, era proibito venderli “a giudici o a persone istruite”, perché
queste non avevano terre dove il futuro giannizzero “sarebbe diventato abituato
alle privazioni”. Era egualmente proibito venderli ad artigiani o
commercianti perché, invece di andare in
guerra, si sarebbero guadagnati da vivere attraverso il mestiere; o al popolo
di Istanbul, perché i loro occhi si sarebbero spalancati vivendo nella città e
non avrebbero sofferto ristrettezze”. La seconda ragione per la pratica era
insegnare loro i rudimenti dell’Islam, attraverso il soggiorno in un ambiente
islamico e infine insegnare loro il turco. Prima della immissione su vasta
scala di turchi nei ranghi dei giannizzeri alla fine del sedicesimo secolo e
all’inizio del diciassettesimo, molto pochi
dei membri dei corpi avrebbero parlato turco come linguaggio nativo.
Era, comunque, la lingua franca di questo
corpo poliglotta di soldati e invero anche della élite dominante
dell’Impero e la sua acquisizione era essenziale.
La
supervisione dei ragazzi che erano “con i turchi” era responsabilità degli agha di Rumelia e Anatolia. Ognuno di
questi aveva uno staff di dieci-quindici uomini che erano responsabili per la
cattura e la vendita di ogni ragazzo che tentava di fuggire. Alla fine del
periodo, essi richiamavano i ragazzi, che per quest’epoca erano adulti, e
davano loro un salario di un akce al
giorno. Le Leggi dei Giannizzeri valuta in sette o otto anni il periodo che i ragazzi spendevano con coltivatori
turchi, ma questa era probabilmente più una media che un numero preciso.
Piuttosto, gli agha richiamavano i
giovani mano a mano che sorgeva la necessità di un rimpiazzo per le truppe.
Lo
stadio successivo non era, comunque, l’arruolamento delle reclute nel corpo dei
giannizzeri. L’ufficiale conosciuto come agha
di istambul destinava il giovane ad uno dei trentuno dormitori nelle baracche
dei novizi vicino all’entrata del Palazzo. Costoro, ci informano le Leggi, svolgevano compiti per il
Sultano. Esse menzionano in particolare il trasporto di legna per il palazzo, e
la conduzione del vascello che portava neve dalle montagne vicino Bursa alla
ghiacciaia del Sultano e la conduzione dei vascelli che portavano truppe sul
Bosforo ad Üsküdar e ritorno. Nel descrivere i
doveri dei novizi, l’autore delle Leggi
dei Giannizzeri compara sfavorevolmente la situazione dei suoi tempi quando
c’erano dodicimila novizi, ma solo dodici navi con l’età di Solimano I
(1520-1566), quando c’erano quattromila novizi e settantadue navi. Egli lamenta
anche la perdita di navi dovuta, ai suoi giorni, alla poca esperienza
marittima.
Questi
non erano gli unici compiti che svolgevano i novizi e non tutti i novizi
vivevano nelle baracche fuori del palazzo. Altri servivano nei vari giardini
imperiali o per esempio come garzoni di lavanderia o cuochi. Un numero più
significativo diventava apprendista nei cantieri navali di Istanbul o
Gallipoli, dove documenti del sedicesimo secolo li mostrano all’opera come
calafati, carpentieri, fabbricanti di remi, artiglieri, fabbri, fabbricanti di
carrucole e pulegge, fabbricanti di stoppa per calafatare. La pratica di
impiegarli nei cantieri continuò nel diciassettesimo secolo. Documenti della
fine del sedicesimo secolo li menzionano come fabbri e costruttori nei progetti
di costruzioni reali, come la moschea Selimiye ad Edirne ai primi anni ’70 del
1500. Altri, come completamento del loro servizio “con i turchi”, diventavano
apprendisti in unità tecniche dell’esercito, come gli artiglieri imperiali e
gli armaioli imperiali. Questo apprendistato nei cantieri, nelle costruzioni e
nelle unità militari potrebbe essere considerato, strettamente parlando, una
violazione della proibizione che i giannizzeri imparassero un mestiere, ma le
abilità che imparavano erano quelle essenziali per la prosecuzione della guerra
e così erano necessarie per l’efficienza dei Giannizzeri come unità militare.
Era dopo il loro servizio come novizi che il Sultano finalmente li distaccava
nei corpi dei giannizzeri. Questo accadeva non in occasioni prefissate, ma
quando capitavano necessità di rimpiazzi.
Verso
la fine del sedicesimo secolo la Raccolta come fonte di reclutamento per il
Palazzo e i corpi dei giannizzeri iniziò ad essere smantellata e, durante il
corso del diciassettesimo secolo, le Raccolte divennero sempre più rare. Dopo i
primi anni del diciottesimo secolo, cessarono del tutto. L’autore delle Leggi dei Giannizzeri che compose il suo
lavoro come esposizione per Ahmed I (1603-1617) di pratiche del passato come
basi per la riforma del presente, vedeva nel cambiamento del metodo di
reclutamento dei giannizzeri la fonte dell’anarchia. Successivi trattati sulle
riforme, durante i regni di Osman II (1618-1622) e Murad IV (1623-1640)
sostenevano questo punto di vista.
Cosa
esattamente sostituì la Raccolta come fonte di reclutamento per il palazzo non
è chiaro, sebbene alcuni nuovi venuti sembrano provenire dagli entourage di uomini di rango. Nel caso
dei giannizzeri, lo schema di ammissione al corpo è un po’ più chiaro. Dal
quattordicesimo secolo fino alla fine del sedicesimo, il reclutamento era
tramite il prelievo di prigionieri di guerra o attraverso la Raccolta. Fu
apparentemente solo durante il regno di Selim I (1512-20) che i giannizzeri
rivevettero permesso di sposarsi, e questo permesso si applicava solo agli
uomini ritirati dal servizio e ad alcuni degli ufficiali. Né potevano i
giannizzeri, essi stessi schiavi, acquistare concubine. Questo limitava il
numero di discendenti legittimi e così impediva che formassero una casta
ereditaria. Col tempo, quando il divieto del matrimonio divenne meno stretto,
divenne costume ammettere come novizi i figli dei Giannizzeri “che fossero
abili al servizio sulle navi”. Questo, comunque, formavano una piccola
minoranza. Liste di giannizzeri e novizi dal sedicesimo secolo mostrano
pochissimi di essi con un padre musulmano.
Fu
all’incirca dal 1570 che il vecchio schema di reclutamento cominciò a crollare.
Dal regno di Selim II (1566-1574), se si deve credere all’autore delle Leggi dei Giannizzeri, divenne quasi
consuetudinario accettare nei giannizzeri i figli dei membri delle sei
divisioni della cavalleria del Sultano, o di altri ufficiali della casa imperiale.
Egli (l’autore delle Leggi) vedeva
questo come fonte di corruzione. Molto peggio, comunque era l’ammissione di
giovani nati musulmani. Essi usavano vari mezzi per raggiungere questo scopo.
Alcuni, le Leggi ci dicono, pagavano
bustarelle ai funzionari per essere registrati come figli di cavalieri della
casa. Se essi avessero proclamato di
essere figli dei giannizzeri sarebbe stato
possibile verificare questa affermazione,ma essi evitavano questa
difficoltà sostenendo che i loro genitori appartenevano ad una differente unità
del corpo. Le leggi dei giannizzeri
descrive anche come, al tempo di Murad III (1574-95), i turchi si
presentassero alla consegna della
Raccolta, pagando i chirurghi che praticavano la circoncisione e persuadendo i
funzionari, che li registravano, a scrivere come nomi dei genitori “nomi senza
senso nel linguaggio degli infedeli”. Ancora di più, tuttavia, entravano nei
giannizzeri come protégés dei
comandanti e degli ufficiali. Questa pratica, viene descritta dalle Leggi come una “malattia”, che aveva
tolto del tutto la necessità della Raccolta.
Questo
cambiamento nel metodo di reclutamento, che consentiva l’ingresso nel corpo dei
giannizzeri di turchi e altri musulmani, era, per l’autore de Le leggi, un disastro che aveva condotto
alla perdita di valore militare e alla sconfitta in guerra. Negli anni ’30 del
1600 lo scrittore riformatore Kochi Bey, concordò con lui, notando che ai suoi
tempi e specialmente dopo gli anni ’20 del Seicento, il corpo aveva ammesso
“ragazzi di città di religione sconosciuta, turchi, zingari, tatari, curdi,
emarginati, lazi, turcomanni, mulattieri e cammellieri, portieri e pasticcieri,
briganti di strada e borsaioli e altre persone di vario tipo”. Anche lui
considerava un ritorno ai vecchi metodi come essenziale se il corpo dei
giannizzeri doveva riguadagnare la gloria passata.
Questi
autori erano indubbiamente accurati nelle loro osservazioni di come il
reclutamento dei giannizzeri era cambiato. La trasformazione non era però, come
credevano, semplicemente il risultato della corruzione. L’arruolamento nei
giannizzeri portava benefici, in particolare un salario regolare dal Tesoro e
questo senza dubbio incoraggiò gli inidonei a cercare di unirsi illegalmente al
corpo. Il fattore principale, comunque, era la crescita del numero di
giannizzeri tra la metà del sedicesimo secolo e il diciassettesimo secolo.
Documenti del tesoro ottomano registrano 786 giannizzeri nel 1527. Nel 1567 ce
n’erano 12.798 e, nel 1609, 39.282. Questa crescita avvenne in risposta ai
bisogni militari. Nel momento in cui l’uso di armi da fuoco aumentò durante il
corso del sedicesimo secolo, e specialmente durante la guerra con l’Austria del
1593-1606, la fanteria iniziò a giocare un ruolo più importante sul campo di
battaglia, col risultato che il numero dei soldati appiedati crebbe in
relazione al numero dei cavalieri. Un modo in cui gli ottomani soddisfacevano
questa domanda era incrementare il numero dei giannizzeri. Come risultato i
vecchi metodi di reclutamento non soddisfacevano la domanda per nuove reclute,
e il solo modo di aumentarne il numero era
ammettere turchi e altri gruppi che i regolamenti avevano in precedenza
escluso. Perdipiù, con l’espansione del numero, il ruolo dei giannizzeri era
cambiato. Essi non formavano più un piccolo corpo di truppe di élite della casa
imperiale, ma divennero invece uno dei contingenti più grandi dell’esercito
ottomano. Questo li poneva, in pratica se non in teoria fuori della casa
imperiale, e così facendo cambiò il loro
status, da schiavi della casa imperiale a uomini liberi. In queste circostanze
il loro reclutamento come schiavi non era più importante.
Gli
scrittori riformatori del diciassettesimo secolo posero molta enfasi sulla
ereditabilità dello status e sulla esclusione di gruppi che non avevano i
requisiti dall’acquisto dell’ufficio, e considerarono l’incapacità di seguire
questi principi come un segno di declino. In risposta a queste preoccupazioni,
Ahmed I (1603-17) di fatto abolì la pratica di ammettere i figli di titolari di
uffici diversi dai giannizzeri nel corpo, ma tale proibizione chiaramente non
faceva nessuna differenza. L’espansione del corpo in risposta ai nuovi metodi
di guerra rendeva inevitabili cambiamenti nel metodo di reclutamento dei
giannizzeri.
Dal
momento che il Sultano era il sovrano dell’Impero Ottomano, il centro del
governo era laddove capitava che egli fosse. Questo significava par excellence il Palazzo, ma quando
egli lasciava la sua residenza il governo lo seguiva. Prima della ascesa al
trono di Selim II (1566-74), tali assenze erano frequenti, dal momento che i
sultani spesso conducevano spedizioni militari in persona, e erano spesso
assenti dalla capitale durante la stagione delle campagne militari. Quando
questo accadeva, alcuni almeno dei ministri del Sultano lo avrebbero
accompagnato in campagna, come avrebbe fatto il Tesoro, per pagare gli stipendi
e fare acquisti e i funzionari con registri finanziari e di altro genere da
tenere, per esempio dei morti in battaglia e delle nuove nomine per rimpiazzare
i caduti.
I
primi sultani erano evidentemente molto mobili. Ibn Battuta nel 1333, descrive
Orhan (c. 1324-62) come possessore di “quasi cento fortezze, che continuamente
visita e mette in ordine”. Nel secolo seguente, i sultani divennero più
sedentari di quanto Orhan sia stato, ma un annalista che compilò una
cronologia del regno di Murad II
(1421-51) notava ancora se i sovrani durante l’estate conducevano la campagna
militare, rimanevano nella capitale Edirne o si recavano nel luogo di
villeggiatura estiva. Mehmed II (1451-81), sembra, continuò la pratica di spendere il tempo sui pascoli alti, almeno
come mezzo di sfuggire le epidemie di peste che colpivano Istanbul ma dopo il
suo tempo sembra che i sultani normalmente lasciassero il palazzo solo per
campagne militari, per spedizioni di caccia o viaggi di piacere. Dopo il 1566,
con le eccezioni di Mehmed III (1595-1603) che accompagnò l’esercito in
Ungheria nel 1596, Osman II (1618-22) che condusse la campagna polacca nel 1621
e Murad IV (1623-40) che ricatturò Erivan nel 1635 e Baghdad nel 1638, i
sultani non andavano più alla guerra di persona. Il Palazzo – o piuttosto i
Palazzi – erano diventati il loro luogo di residenza permanente, che lasciavano
raramente. Così, nel corso di trecentocinquant’anni, essi gradualmente si
ritirarono dal contatto giornaliero con i loro sudditi e, eccetto che in
occasioni cerimoniali, dalla pubblica vista.
Non
è chiaro se Osman, il primo della linea di successione ottomana, stabilì una
residenza permanente. La tradizione ottomana comunque, lo presenta che dichiara
la sua sua sovranità presso una città chiamata Karajahisar, che potrebbe
corrispondere alla città greca di Malagina, nella valle del Sakarya. Questa era
la sede di un vescovado bizantino ed è possibile che Osman prendesse ivi
residenza nel vecchio palazzo del vescovo. Fu anche a Malagina che il chierico
greco prigioniero Gregorio Palamas incontrò Orhan nel 1354, descrivendolo come
“un villaggio costruito su una collina, circondato da montagne… che gode di un
clima fresco anche durante l’estate” a due giorni di viaggio da Bursa. IL
successore di Orhan, Murad I (1362-89) sembra anche aver speso tempo nello
stesso luogo. I genovesi nel 1387 non conclusero il loro trattato con lui nella
capitale reale di Bursa, ma a Malagina. Il testo ricorda che fu “approvato in
Turchia in un piccolo insediamento chiamato Mallaine, abitato dal signore
suddetto”.
Ai
tempi di Orhan, comunque, Bursa era la capitale reale e il luogo dove era il
palazzo ottomano, sebbene dettagli di questo palazzo siano vaghi. Orhan deve
essersi impadronito o aver costruito una residenza reale a Bursa dopo averla
catturata nel 1326, e i suoi successori continuarono a risiedere lì, ai tempi,
fino al 1402, quando un distaccamento dell’esercito di Tamerlano saccheggiò la
città. Questa non sopravvisse al sacco come residenza principale, ma sembra
che, fino al sedicesimo secolo, membri della famiglia del Sultano, come i suoi
nipoti, vivessero lì.
IL
successore di Orhan, Murad I, costruì il primo palazzo di cui esiste una
descrizione, e che doveva diventare una residenza più importante di ciò che
sopravviveva o era stato ricostruito a Bursa dopo il 1402. Questo e il Vecchio
palazzo ad Edirne, che il viaggiatore ottomano Evliya Celebi doveva descrivere
quando era ancora in piedi nella seconda metà del diciassettesimo secolo. Murad
deve aver iniziato la costruzione immediatamente dopo la conquista della città,
probabilmente dunque all’inizio degli anni ’70 del 1300. Secondo Evliya, il principe Musa (Rumelia, 1411-13) estese e
fortificò l’edificio. Le sue massicce mura esterne, ci dice Evliya, formavano
un quadrato con un solo cancello di ferro nel lato nord. Questo è probabilmente
ciò che vide Bertrandon de la Brocquière nel 1433, quando era entrato nel
palazzo attraverso questo cancello, e aveva visto il Sultano Murad II emergere
dalle sue stanze in “un cortile molto ampio” e prendere il suo posto in una
galleria lungo il suo fondo. Questi resoconti suggerisono che gli edifici
all’interno del palazzo erano disposti intorno un cortile interno e un cortile
esterno.
Nel
1451, l’ultimo anno della sua vita, Murad II iniziò la costruzione di un
secondo palazzo ad Edirne, che doveva sosituire il Vecchio Palazzo come
residenza reale. Sebbene, al tempo del suo completamento, nel 1454, era già
cominciato il lavoro per un palazzo ad Istanbul appena conquistata, il palazzo
di Edirne continuò ad essere utilizzato.
Murad iniziò la costruzione fuori della città, sulla sponda occidentale del
fiume Tunca. Suo figlio, Mehmed II, continuò il lavoro di nuovo su un piano di
edifici disposti intorno un cortile interno e un cortile esterno. Egli costruì
anche un ponte dal palazzo all’isola nel fiume, che doveva servire come giardino e terreno di caccia. Sultani
successivi fecero delle aggiunte al palazzo. Solimano I (1520-66), fa notare
Evliya Celebi, passava l’inverno qui quando tornava dalle campagne ungheresi.
Egli aggiunse un ponte dalla sponda destra del fiume all’isola, depositi
d’acqua, e una camera imperiale nell’harem. Il suo successore aggiunse
chioschi, ma il palazzo doveva raggiungere le sue massime dimensioni durante il
regno di Mehmed IV (1648-87) che, come nota il suo contemporaneo Evliya Celebi,
“perché è appassionato di caccia spende molto del suo tempo nella città di
Edirne”.
La
conquista di Istanbul significava che il palazzo di Edirne non divenne la
principale residenza reale, eccetto che durante il regno di Mehmed IV. Nel
1454, Mehmed II ordinò la costruzione di un nuovo palazzo nel centro della
città, sul luogo del bizantino Foro del toro. Per il 1458 era completato. Lo
storico contemporaneo, Tursun Bey, ci informa che entro il quadrato formato dai
muri esterni, egli costruì un harem imperiale “nel cui cortile il sole non
poteva trovare un varco… deliziosi palazzi e padiglioni per la sua gioia e il
conforto dei suoi intimi e dei suoi paggi…, protetto dai fedeli e pii eunuchi”.
Tra gli edifici del palazzo e le mura esterne eglì creò un terreno di caccia
privato, “riempiendolo con bestie selvagge”. Questo palazzo non rimase a lungo
in uso come principale residenza del Sultano e sede del suo governo. Quando il
lavoro di costruzione fu finito, Mehmed II immediatamente ordinò la costruzione
di un nuovo palazzo. Dopo il suo completamento, il vecchio palazzo divenne
esclusiva residenza delle donne dell’harem imperiale.
Il
luogo che il nuovo palazzo doveva occupare sembra abbia lusingato le ambizioni
imperiali di Mehmed. La sua porta esterna conduceva ad Hagia Sofia – per la
mentalità imperiale ottomana un simbolo della sovranità romana – e occupava una
collina su un promontorio, consentendo una visuale dall’Europa sull’Asia e
attraverso il Bosforo che lega il Mar Nero al Mediterraneo. Il lavoro di
costruzione ebbe luogo durante gli anni ’60 e ’70 del 1400, secondo un piano
base che è sopravvissuto alle numerose aggiunte e alterazioni dei secoli
successivi.
Un
muro esterno divideva il nuovo palazzo e i suoi ampi giardini dalla città, con
le vecchie mura della città lungo il corno d’oro e il Mare di Marmara che lo
proteggevano dal lato del mare. IL palazzo stesso occupava la posizione più
alta in questo spazio. L’entrata era attraverso il cancello imperiale vicino
all’abside di Hagia Sofia e che
conduceva nel primo cortile. Una volta passato ilcncello il visitatore vedva a
sinistra la ciesa bizantina di Santa Irene, che serviva da armeria per il
palazzo e disposti intorno al cortile
c’erano i dormitori dei novizi, i magazzini e altre aree domestiche e di
servizio. Si potrebbe immaginare la corte come un’area di attività e di rumore.
All’altro lato, opposto al cancello imperiale c’era il cancello di mezzo,
crenellato e fiancheggiato da due “torri francesi”. Attraverso questo cancello
si accedeva alla seconda corte. L’entrata era permessa solo a membri della
corte e del governo, e a membri del pubblico che volevano presentare petizioni
al Consiglio Imperiale del Sultano. Nessuno, a parte il Sultano poteva entrare
nella corte a cavallo e la regola era dello stretto silenzio. I commentatori
del diciassettesimo secolo notavano l’uso dei linguaggio dei segni nel palazzo
e questo, senza dubbio, metteva in grado i cortigiani di comunicare.
Nell’angolo distante di sinistra, il visitatore vedeva la camera del consiglio
che Solimano I (1520-66) doveva rimpiazzare negli anni 20 del 1500 con un
edificio più imponente. Fu lì che il Concilio imperiale, l’organo centrale del
governo del Sultano, teneva le sue sessioni. Più avanti c’era il Cancello della
felicità,con un colonnato da ciascun lato. Alla destra c’erano le vaste cucine,
che l’architetto Sinan (m.1588) doveva rinnovare dopo un incendio nel 1574 e,
dietro il muro a sinistra, le stalle imperiali. Queste semplici strutture
formavano uno sfondo per l’elaborato cerimoniale di corte.
La
terza corte, oltre la Porta della felicità, era la residenza privata del
Sultano e inaccessibile non solo al pubblico ma perfino, eccetto che in
occasioni formali, agli uomini di governo dell’Impero. Immediatamente dietro la
porta c’era la camera delle petizioni, che Solimano I doveva ricostruire nello stesso periodo in cui costruiva la
nuova camera del consiglio. Era qui che il Sultano dava udienza e riceveva gli
ambasciatori esteri. Quando i decreti imperiali si riferiscono ai postulanti
che sottopongono le loro lettere “alla mia Soglia della felicità” o
“alla mia Sublime Soglia” si
riferiscono, metaforicamente al Sultano seduto nella camera delle petizioni
sulla soglia della Porta della felicità. Nell’angolo lontano a destra della
terza corte c’erano il Tesoro interno del Sultano e i bagni. Nell’angolo
lontano di sinistra c’era la stanza privata del Sultano. Dietro la corte, dove
il terreno scendeva bruscamente verso il
mare c’era un giardino. Sultani successivi dovevano aggiungere nuove strutture
alla terza corte, in particolare forse il padiglione di Erivan e il padiglione
di Baghdad, che Murad IV (1623-40) aggiunse per celebrare la riconquista di
queste città.
La
terza corte, come residenza privata del Sultano, dava accesso all’harem. Nel
piano originale di Mehmed II, questo sembra essere stato piccolo, ma risulta
che più donne vennero a vivere nel palazzo durante il corso del sedicesimo
secolo. Questa tendenza cominciò probabilmente durante il regno di Solimano I,
durante l’ascesa di sua moglie Hurrem, prima della sua morte nel 1558, e
divenne particolarmente pronunciato durante il regno di Mehmed III (1595-1603),
che spostò la sua camera privata nell’Harem. Fu durante il regno di Mehmed III
(1595-1603) che la regina madre e il suo entourage presero residenza nel palazzo. Esso crebbe
ancora di più agli inizi del diciassettesimo secolo, quando la pratica di
mandare i principi ai governatorati di Anatolia cessò e la pratica del
fratricidio reale non era più usuale. Alla morte di un Sultano, comunque, le
signore del suo harem lo abbandonavano per il vecchio palazzo che rimase, a
parte che per gli eunuchi, una residenza esclusivamente femminile.
I
due edifici nella terza corte, a ciascun lato del cancello principale, erano la
grande camera e la piccola camera. Era qui che i paggi del Sultano vivevano e
ricevevano la loro educazione. Dal momento che molti di questi dovevano essere
promossi dal servizio di corte nel Palazzo interno al servizio di governo
dell’Impero, le camere in qualche modo erano le fondazioni del potere del
Sultano.
Per
quanto possibile, i sultani governavano l’Impero attraverso membri della loro
propria casa, che avevano nominato ad uffici governativi. Questa era una
tendenza che divenne molto pronunciata alla fine del quindicesimo secolo. Nella
sua struttura, la corte del Sultano era tipica di una qualsiasi larga casata
nell’Impero Ottomano, o nel mondo islamico. Era
più grande, più ricca e più magnifica delle case dei visir, dei
governatori provinciali o di altri musulmani benestanti ma nella sua essenza
non differente.
Relativamente
pochi membri della casa imperiale erano legalmente liberi: il Sultano stesso, i
suoi figli e altri membri della famiglia, insegnanti e istruttori religiosi,
capi della preghiera , dottori, i muti, i nani e i lottatori che servivano per
il suo intrattenimento e alcuni altri. Il resto erano schiavi. In una grande
casa musulmana, comunque essere uno schiavo non
voleva necessariamente dire occupare una posizione infima, e l’affetto
che spesso i padroni avevano per i loro schiavi o liberti è evidente dai molti
negozi fiduciari che li nominano beneficiari. Perdipiù, lo stato servile non
necessariamente implicava una bassa posizione sociale. Il rango di una persona
in società dipendeva meno dal loro status di schiavi o persone libere che dallo
status della famiglia o casa a cui appartenevano. Uno schiavo in una casa
potente e ricca poteva avere un prestigio maggiore che una persona che era
libera ma povera. Era la vicinanza ai grandi che garantiva reputazione. La
posizione più onorata al disotto del sovrano stesso, era essere suo schiavo ed
era attraverso i loro schiavi, per quanto possibile, che i sultani governavano
l’Impero.
Il
Sultano acquistava alcuni dei suoi schiavi come doni. Bayezid II (1481-1512),
per esempio ricevette il giovane genovese Menavino, che lo servì come paggio
dal 1505 fino alla sua fuga nel 1514, da un pirata. Altri venivano acquistati.
Murad IV comprò il polacco Bobovi, che servì come musicista di palazzo fino
alla sua dimissione nel 1657, dai tatari che lo avevano catturato in un raid.
Altri arrivavano come prigionieri di guerra. La fonte più ricca, comunque, era
la Raccolta, il prelievo fatto sui sudditi non-musulmani del Sultano. Alcuni,
come il Gran Visir abkhazi Melek (“l’angelo”) Ahmed Pasha, non erano schiavi,
ma avevano ricevuto una educazione a palazzo dopo essere stati presentati al
Sultano.
Dal
giorno del suo completamento negli anni ’70 del 1400, i più privilegiati degli
schiavi del Sultano ricevevano la loro educazione nel Palazzo Nuovo, nella
Grande e nella Piccola Camera nella terza corte. Questa non era, comunque,
l’unica sede di una scuola di palazzo. Alcune di tali istituzioni erano
presumibilmente esistete nel Vecchio Palazzo ad Edirne nel quattordicesimo
secolo e nella prima metà del quindicesimo e una scuola continuò a funzionare
nel palazzo nuovo in quella città anche
dopo che Istanbul era diventata la residenza principale del Sultano. Entro Istanbul,
c’erano scuole fuori dello stesso palazzo. La prima di queste era il Palazzo di
Galata, una fondazione di Bayezid II (1481-1512); l’altra, dopo il 1536, era il
Palazzo di Ibrahim Pasha, nella piazza dell’Ippodromo. Nondimeno, la scuola
nella terza corte rimaneva la più prestigiosa. Ai tempi di Bobovi verso la metà
del diciassettesimo secolo, un paggio doveva servire da apprendista in uno dei
palazzi esterni prima di essere ammesso nella Grande o nella Piccola Camera.
I
paggi, ci dice il genovese Menavino, entravano nella scuola di palazzo 80-100
alla volta. Dapprima imparavano a parlare “turco volgare, la lingua franca del
palazzo e dell’élite cosmopolita dell’Impero. Dopo cinque o sei giorni
iniziavano a lavorare sull’alfabeto. I ragazzi trascorrevano l’intera giornata
sotto la supervisione e la feroce disciplina degli eunuchi e dei maestri della
scuola. Questi insegnavano loro l’alfabeto, la lettura e la recitazione del
Corano e gli articoli della fede islamica. Essi potevano poi procedere a studiare
l’arabo e il persiano “volgare e colto”, due linguaggi che erano
essenziali per scrivere e capire il
turco ufficiale e letterario e che erano entrambi in uso per la tenuta di
documenti legali e finanziari.
Menavino
entrò nella scuola di palazzo nel 1504. Quando Bobovi vi entrò un secolo e
mezzo dopo, il curriculum difficilmente sembra essere cambiato. Lo scopo
dell’educazione, mette in evidenza Bobovi, “non era di fare di essi grandi
studiosi, e non chiedeva più di un gran rispetto per i libri, specialmente il
Corano”. Il loro progresso, egli dice, dipendeva dai loro personali interessi.
Quelli che studiavano la legge islamica potevano alla fine sperare di acquisire
una posizione lucrativa come Imam in una delle Moschee Reali. Quelli che
padroneggiavano il persiano e la calligrafia potevano sperare di diventare
impiegati del Tesoro, del Consiglio Imperiale o nell’entourage di una persona
importante. Quelli che studiavano “la
legge e i decreti di giustizia” potevano ottenere un governatorato. Dal momento
che i paggi dovevano alla fine formare una classe militare, essi ricevevano
anche un addestramento nelle arti militari, con Bobovi che descrive il loro
addestramento e abilità nel tiro con l’arco, nel cavalcare, nella lotta e nel
lancio del giavellotto. Un diplomato delle scuole di palazzo aveva dunque
ricevuto sia una istruzione letteraria che un addestramento marziale. In
entrambi i casi comunque la loro educazione rimaneva medievale. La loro abilità
militare apparteneva, alla metà del diciassettesimo secolo, ai campi di gara
piuttosto che ai campi di battaglia, e era ancora i classici medievali persiani
che formavano i loro gusti letterari.
Durante
il periodo della loro educazione Menavino e Bobovi ci dicono, il giovane non
potevano abbandonare il Palazzo, il loro unico contatto con il mondo esterno
essendo tramite gli eunuchi chiamati i “ragazzi dei cancelli” . La loro
educazione formale terminava, ci dice Menavino con qualche contraddizione,
all’età di venticinque anni. Bobovi dice “dopo sette o otto anni”. Quelli che
lasciavano la scuola comparivano di fronte al Sultano che, ai tempi di
Menavino, “dava a ciascuno un mantello di broccato e uno dei suoi migliori
cavalli, e li ammoniva: “Se qualcuno aveva visto una malefatta nel palazzo, non
lo dovevano far sapere ma tenerlo per sé”. Quelli che lasciavano il palazzo in
questo momento, normalmente, sembra, erano aggregati ad una delle Sei Divisioni di cavalleria di
Palazzo. Questa non era una posizione esclusivamente militare o cerimoniale,
sebbene questi cavalieri combattevano in battaglia e cavalcavano da ciascun
lato del Sultano nelle campagne belliche e nelle processioni. Membri di queste
divisioni, come uomini con una educazione, spesso avevano altre funzioni, in
particolare come esattori delle tasse. L’aggregazione alla cavalleria di
palazzo era, osservava il veneziano Ramberti nella metà del sedicesimo secolo
“come una scala per salire a posizioni più alte”. Un cavaliere poteva anche
ricevere come moglie una ragazza dall’harem imperiale che, come lui, sarebbe
stata una schiava del Sultano.
Non
tutti i giovani lasciavano il palazzo avendo completato a loro educazione.
Quelli che rimanevano diventavano paggi delle camere del palazzo interno,
direttamente al servizio della persona del Sultano. L’organizzazione delle
Camere, come Menavino la descrive, rimase largamente intatta al tempo di
Bobovi. La camera con lo status più basso era, sembra, la dispensa, dove,
Menavino ci dice, 25 paggi di 20-22 anni, che servono sotto un eunuco sono
incaricati della cura di questa stanza dove c’erano giulebbe, dolci e ogni
sorta di spezie e tutto ciò che era necessario per la cucina privata del
Sultano”. Al disopra dei paggi della dispensa e di nuovo sotto la supervisione
di un eunuco, c’erano i paggi del Tesoro, responsabili per il tesoro personale
nella terza corte, dove “c’erano vari tipi di vesti di broccato, vasi d’oro e
argento di molti tipi, gioielli e monete…” A queste camere Ahmed I (1603-1617)
e Murad IV rispettivamente aggiunsero ed allargarono la Camera della Campagna ,
che Bobovi descrive come “la Camera dei paggi che servono il Sultano quando va
in viaggio”. La più prestigiosa comunque era la Camera privata.
Erano
i paggi di questa camera che servivano
il Sultano direttamente, e da cui egli sceglieva quelli che erano costantemente
al suo servizio. Già nel 1433, Bertrandon de la Brocquière aveva osservato
Murad II lasciare la sua stanza nel Vecchio Palasso ad Edirne con “solo quei
giovani che lo accompagnano sulla porta della camera”, suggerendo che a quella
data il Sultano già sceglieva un seguito
dai giovani della Camera Privata. Menavino, agli inizi del sedicesimo secolo
affermò che “i paggi principali e favoriti della Camera sono solo tre”
indicandoli come il portatore degli abiti, “che continuamente gli dà da bere e
porta i suoi abiti di cui necessita in caso di pioggia”; il portatore d’acqua,
“che porta l’acqua per lui dovunque egli vada, e camicie per cambiarsi” e il
portatore delle armi, “che trasporta i suoi archi, frecce e spada”. Nel secondo
grado c’erano quindici giovani che “rifacevano il letto, spazzavano,
accendevano il fuoco e cose simili. Nel secolo e mezzo successivo
l’organizzazione della Camera privata non sembra aver cambiato nella sua
essenza. Il numero di paggi che attendevano il sovrano sembra essere lievemente
aumentato – Ramberti nel 1548 ne menziona sei, e Bobovi nel 1658 ne menziona
quattro, il Portatore delle Armi, il Portatore degli abiti, il Portatore degli
speroni e il Signore del Turbante – e il numero totale di giovani nella Camera
era aumentato fino a 40 alla metà del diciassettesimo secolo.
Un
paggio che era passato di grado dalla
Dispensa alla Camera privata aveva dinanzi a sé
la prospettiva di una carriera negli uffici più elevati dell’Impero, la
camera privata stessa in alcuni aspetti simboleggiando gli ideali del governo
del Sultano. Un paggio poteva servirvi solo se aveva attirato l’attenzione del
Sultano, e la preferenza accordatagli dipendeva interamente dal patronato
reale. I paggi stessi erano schiavi, che svolgevano i compiti più umili per i loro padroni, sia pratici che
cerimoniali. Allo stesso tempo, essi occupavano una posizione di immenso
privilegio, dal momento che la prossimità al Sultano significava vicinanza alla
più grande fonte di potere e patronato. Allo stesso modo, i paggi che
assistevano più direttamente il Sultano potevano conversare con lui e, entro un
certo grado, controllare le informazioni che riceveva. In questo modo, essi
potevano iniziare ad esercitare il potere politico. Bobovi notava in particolare
la speciale posizione del Capo Barbiere, che faceva giornalmente la barba al
sovrano, e dunque, a differenza del Gran Visir, aveva l’opportunità di
parlargli ogni giorno. La Camera privata era, di fatto, un microcosmo di come il Sultano governava. Un
paggio poteva diplomarsi a palazzo per
diventare un governatore o visir e usare i suoi collegamento col palazzo per il
suo vantaggio politico. Ma non poteva mai scordare che era anche uno schiavo
che dipendeva dal patronato del Sultano per l’avanzamento ed era parimenti suscettibile, su ordine del
Sultano di degradazione e di esecuzione.
I
paggi della Camera non erano gli unici residenti del palazzo, sebbene essi
fossero quelli che entravano regolarmente in stretto contatto col Sultano ed erano, per questa ragione,
quelli che con più probabilità ricevevano promozioni nel mondo esterno. Essi
potevano anche diplomarsi per servire gli uffici nel palazzo che di nuovo li
portava faccia a faccia col Sultano: per esempio, come maestro dello stendardo
che conservava le bandiere e gli stendardi dell’esercito del Sultano; come il
maestro delle stalle che, già ai tempi di Menavino, aveva sotto di lui 900
uomini, e che assisteva il Sultano nel montare il suo cavallo; o come capo dei
portieri, che formavano un corpo militare, che sorvegliava i cancelli del
Palazzo con accesso privilegiato al Sultano: il Capo falconiere e Mastro dei
segugi, che lo accompagnava a caccia, e specialmente il Capo Giardiniere. I
giardinieri del palazzo, come implica il loro nome, lavoravano nei giardini del
palazzo, producendo fiori, frutti e verdure per il consumo del palazzo e per la
vendita. Essi erano anche soldati, e agivano come guardie del corpo reali.
Invero, durante la rivolta dei giannizzeri del 1622, che finì con la morte di Osman
II (1618-22), i giannizzeri esitarono prima di entrare nel palazzo per paura di
incontrare i giardinieri armati. Il Capo Giardiniere aveva anche, da prima del
tempo di Menavino, fino alla fine del diciottesimo secolo, giurisdizione sulle
spiagge del Bosforo fino al Mar Nero. Era anche timoniere della lancia da
parata del Sultano, ed era in questo ufficio, pone in rilievo Bobovi, che si
trovava nella posizione privilegiata di poter parlare col Sultano durante le
escursioni reali in barca.
C’erano
numerose altre gerarchie di schiavi nel palazzo: cuochi, pasticcieri,
maggiordomi che portavano il cibo dalle cucine agli appartamenti del Sultano o
nelle altre parti del palazzo, portatori d’acqua, taglialegna che tagliavano e
trasportavano legna. I giannizzeri novizi, chavushes che scortavano le persone dal
Sultano, agivano come cerimonieri durante le cerimonie e portavano i decreti
imperiali ad indirizzi fuori della capitale e così via. Con tutto il loro
ordine e decoro, le tre corti del Palazzo e il mondo isolato dell’Harem erano
affollati e suscettibili di epidemie come i quartieri senza spazio per muoversi della città fuori delle mura del
palazzo.
Di
tutti i residenti permanenti del palazzo il più potente, fino all’ultima decade
del sedicesimo secolo, era probabilmente il capo degli eunuchi bianchi. Egli
era l’agha (comandante) del cancello
che il Sultano promuoveva tra gli eunuchi del Palazzo Interno. Il Libro delle
Leggi attribuito a Mehmed II lo qualifica come il canale preferito per le
petizioni al Trono, dandogli l’opportunità di influenzare sia i postulanti che
il Sultano. Dalla fine del sedicesimo secolo, comunque, egli sembra aver perso
parte della sua influenza a favore del capo degli eunuchi neri, che si fregiava
del titolo di agha della dimora della
felicità, o, più colloquialmente, agha
delle giovani. Gli eunuchi della terza corte erano bianchi, mentre quelli
dell’Harem erano neri, e la influenza politica del capo degli eunuchi neri
iniziò a salire verso la fine del
sedicesimo secolo, quando le dimensioni
dell’harem crebbero e le potenti regine madri vi elessero residenza. Come unico
ufficiale anziano della corte con accesso sia al mondo maschile che al mondo
femminile del palazzo, l’agha delle
ragazze divenne una importante figura politica. Bobovi commenta: “questo
ufficiale di colore è più importante dell’agha
(bianco) del cancello perché, in aggiunta alle entrate maggiori, ha accesso più
facilmente al principe, e più occasioni di avvicinarlo a tutte le ore, anche quando si è ritirato
con la sua amante . Questi sono gli uomini che dirigono la parte migliore degli
affari dell’Impero e mentre non hanno probabilmente mai lasciato il Palazzo, in
cui sono entrati molto giovani, essi danno consiglio su interessi di stato e
usano il favorevole orecchio del padrone
a loro piacimento per ciò che vogliono”.
IL
PALAZZO: IL CONSIGLIO IMPERIALE
I
sultani governavano l’Impero attraverso la loro corte tanto quanto attraverso
organi formali di governo, e per questa ragione è normalmente impossibile
giungere alla fonte di importanti decisioni politiche, come quella se andare in
guerra o adoperarsi per la pace. Tali risoluzioni, sembra, erano il prodotto di
discussioni che raramente lasciavano un documento scritto. In una storia
alquanto dubbia, il giannizzero serbo Mihailović afferma che la decisione di
invadere la Bosnia nel 1436 fu il risultato di una conversazione privata tra
due visir, Mahmud Pasha e Ishak Pasha, che lui e suo fratello, il tesoriere di
corte, udirono nella cella del tesoro. Il Sultano poteva, se desiderava,
scavalcare le strutture formali di
governo, come Bayezid II fece nelle sue negoziazioni con i Cavalieri di San
Giovanni circa la custodia di suo fratello Gem. La dichiarazione di guerra nel
1593 fu, Ci informa Pechevi, il risultato di una discussione alla presenza di
Murad III tra il gran visir Koja (“l’anziano”) Sinan Pasha, il comandante della
recente campagna iraniana, Ferhad Pasha, il tutore e storico del Sultano,
Sa’deddin e il derviscio Hasan, falconiere e “maggiordomo del cancello” del
Palazzo. Di questo gruppo, Ferhad Pashà e Sa’deddin si opponevano alla guerra,
ma non poterono superare l’insistenza del Gran Visir. Quando la questione se
immettere galeoni nella flotta ottomana nacque all’inizio della guerra di Creta
della metà del diciassettesimo secolo, fu il Gran Mufti – che non aveva nessun
ruolo formale nel governo – che seguì in materia il consiglio di Katib Celebi.
Non ci fu mai, sembra, un meccanismo formale per le decisioni politiche. Tutte
le decisioni in teoria erano proprie del Sultano. Ciò che importava, dunque,
era il carattere del Sultano, e gli individui o fazioni cui prestava ascolto.
C’erano, comunque, istituzioni che prendevano
le decisioni amministrative e quelle politiche non cruciali. Di questi, il più
importante era il Consiglio Imperiale, il divan
che, sotto la presidenza del Gran Visir, agiva per conto del Sultano ed emanava
decreti in suo nome. Il suo luogo di riunione prima degli anni ’70 del
1400 è incerto. Dalla fine del
quattordicesimo secolo, presumibilmente si riuniva nel Vecchio Palazzo in Edirne o dove il
Sultano risiedeva in quel momento e, dopo la conquista di Istanbul inizialmente
nel Vecchio Palazzo. Dagli anni ’70 del 1400 il Consiglio normalmente si
riuniva nella stanza del consiglio nel secondo cortile del Palazzo Nuovo.
Durante le campagne belliche, tuttavia, si riuniva nella tenda del suo
presidente, il Gran Visir che questi innalzava sempre vicino al padiglione del
Sultano. Dalla seconda metà del sedicesimo secolo, quando il Gran Visir non
andava in guerra o altrimenti nominava un delegato durante la sua assenza, la
camera del consiglio era il luogo di riunioni durante tutto l’anno.
Quanto alle sue origini, il Consiglio era
presumibilmente un gruppo informale di signori che avevano la funzione di
consigliare il Sultano in materie politiche o militari e agivano come una corte
a cui i sudditi del Sultano potevano portare cause e lamentele. Queste erano
funzioni che doveva conservare in tutta la sua storia. E’ probabile che durante
il quattordicesimo secolo il Sultano stesso presiedeva agli incontri. Il
cronista egiziano, Ibn Hajar, trasmette un resoconto da parte di un dottore che
aveva avuto in cura Bayezid I (1389-1402), notando come il Sultano “si
assiedeva la mattina presto su una ampia altura, col popolo che stava da lui ad
una distanza tale che egli li potesse vedere. Se qualcuno aveva sofferto una
ingiustizia, glie l’avrebbe sottoposta ed egli l’avrebbe rimossa”. Il resoconto
non riporta nessuno con lui, ma è improbabile che sia stato solo. Il dottore di
Ibn Hajar stava forse riportando una apparizione pubblica del Sultano e dei
suoi consiglieri, il predecessore informale del Consiglio Imperiale.
La descrizione del Sultano che dispensa
personalmente giustizia, apparentemente all’aperto, è probabilmente tipica
della informalità del governo ottomano nel quattordicesimo secolo. Una storia
che Ashikpashazade racconta della morte di Maometto I (1413-21) indica che,
anche a quel tempo c’era l’aspettativa che il sovrano apparisse dinanzi ai suoi sudditi e
presiedesse assemblee semi-pubbliche del suo consiglio. Quando Maometto morì, i
visir cercarono di nascondere il fatto fino all’arrivo del sul ultimo figlio,
Murad, per prendere il trono. Essi continuarono a tenere un consiglio ogni
giorno presso “la porta” del Sultano – presumibilmente nel palazzo ad Edirne –
“conferendo feudi e governatorati e sovrintendendo agli affari”. Comunque,
quando un gruppo di soldati minacciarono di ribellarsi perché non avevano visto
il Sultano, i visir portarono il cadavere al cancello, con un giovane dietro a
muovere le sue braccia, cosicché sembrava che il sovrano fosse vivo e si
accarezzasse la barba. Una breve descrizione del Sultano e del suo consiglio
appare anche ne Le guerre sante del
Sultano Murad, figlio di Mehmed Khan (Murad II). Qui l’autore anonimo
presenta Murad II come presiedente – ovviamente non in pubblico – il consiglio
del 1444, che considerò le proposte di pace che aveva recato l’inviato del re
d’Ungheria.
Questi riferimenti sparsi suggeriscono che
probabilmente durante il quattordicesimo e certamente durante il quindicesimo
secolo, un piccolo gruppo di visir consigliava il Sultano su affari politici o
amministrativi, e aveva il potere di fare nomine in suo nome. In qualcuna delle
sue funzioni, lavorava in modo semi-pubblico e, nel suo ruolo giudiziario in
modo pubblico. Sembra anche che il Sultano spesso presiedeva il consiglio di
persona, suggerendo che le relazioni tra Sultano e visir erano ancora informali,
con i consiglieri del Sultano nel ruolo di alleati tanto quanto subordinati.
La tradizione ottomana attribuisce a Maometto
II l’abbandono della pratica di assistere al consiglio in persona. Da allora il
consiglio si riuniva sotto la presidenza
del Gran Visir: invero potrebbe essere
stata l’assunzione di questo ruolo che condusse alla definizione del gran
visirato come un ufficio formale dello stato. Menavino, comunque, indica che ai
suoi giorni il Sultano, – presumibilmente Bayezid II – continuava a convocare
il consiglio di fronte ad un pubblico, laddove “egli comincia a parlare e
ognuno a replicare a ciò che era stato proposto, secondo il loro giudizio, e
così si occupavano delle guerra e di tutte le materie dello Stato”. La
descrizione di Menavino delle elaborate cerimonie che accompagnavano le udienze
rende chiaro che esse erano molto differenti dalle riunioni apparentemente
informali del Sultano con il suo consiglio prima dei giorni di Maometto II. Era
ancora in queste occasioni che il Sultano, dispensando un mantello nero,
indicava quale dei suoi consiglieri o cortigiani aveva meritato la pena di
morte. Il boia uccideva gli uomini di alto rango mediante strangolamento e,
prima che un cavallo con una gualdrappa nera
potesse portare l’uomo ucciso alla sua casa un corriere andava avanti
a piazzare un’asta nera sopra il portale. Uomini di rango più basso
venivano decapitati, con le teste posate su un tappeto fuori del Palazzo.
Questi rituali di morte, accoppiati con la cerimonia dell’udienza simboleggiavano il potere assoluto del
Sultano nella propria casa, e lo stato infimo anche del suo consigliere più
potente. Allo stesso tempo, l’assenza del Sultano dai meeting giornalieri del
consiglio serviva ad enfatizzare la sua posizione distaccata .
Nondimeno, a dispetto della sua crescente
distanza dal consiglio, i sultani misero a punto un metodo per controllare le
sue deliberazioni. Guillaume Postel, che aveva accompagnato l’ambasciatore
francese ad Istanbul tra il 1536 e il 1538, e aveva ancora viaggiato per
l’Impero Ottomano tra il 1549 e il 1551,
descrive come, dopo le riunioni del consiglio, il gran visir “sarebbe andato a
riportare al Sultano tutta la verità: cosa era stato discusso e le questioni
importanti. Mentire in un tale momento era mortale, perché spesso il Sultano
stava ascoltando senza essere visto o notato da una finestra che dava sulla
suddetta camera. E se anche lui non fosse lì, uno pensa sempre che vi sia”. La
finestra che Postel descrive era, se l’affermazione del cancelliere Jelalzade
Mustafà è esatta, creazione di Solimano I, presumibilmente nei primi anni del
suo regno, dal momento che era da lì che nel 1527 egli osservava il processo
dell’eretico Molla Kabiz, che aveva predicato la superiorità di Cristo su
Maometto. Un’altra tradizione, comunque, attribuisce la costruzione della
finestra a Maometto II. I sultani dopo Solimano evidentemente continuarono a
guardare gli atti nella camera del consiglio, dal momento che Bobovi nel 1658
si riferisce ancora alla “finestra attraverso gli schermi della quale il
Sultano osserva l’assemblea del Consiglio Imperiale”. Comunque egli suggerisce
che durante il tempo della sua
permanenza nel palazzo il Sultano – in
riferimento probabilmente a Murad IV – aveva incominciato a partecipare di
nuovo ad alcune almeno delle riunioni del consiglio. Egli descrive queste
occasioni come molto più informali di quanto erano di solito nel secolo
precedente: “[il Sultano] spesso partecipa a questa assemblea di persona, dove
presenta gli argomenti su cui deliberare e riceve consigli da ciascuno”.
Sebbene l’appartenenza al Consiglio Imperiale
divenisse più estesa nel corso degli anni, i titoli e le funzioni dei suoi
ufficiali erano diventate fisse già nel regno di Maometto II al più tardi. I
visir erano responsabili specialmente di materie politiche e militare. Essi non
solo trattavano con questioni attinenti la guerra nel consiglio, ma servivano
anche sul campo di battaglia, o in modo indipendente o sotto il comando del
Sultano o di un visir di rango superiore. Oltre ai visir sedevano nel consiglio
i giudici militari (kadi’asker) (kadiasker), il giudice capo dell’Impero,
che erano responsabili per le materie giudiziarie che venivano di fronte al
consiglio. Al disotto di loro sedevano i tesorieri (defterdar) che emanavano decreti finanziari in nome del Sultano, e
il cancelliere. Il titolo turco di cancelliere, – nishanji – o, nella sua forma araba, tevki’i, significa letteralmente “quello che imprime la sigla del
Sultano sui documenti”. Questa era essenzialmente la sua funzione, dal momento
che l’apparizione della sigla del Sultano
su un documento era una garanzia della sua autenticità, e era il
cancelliere che controllava gli impiegati che redigevano i decreti e altri
documenti, assicurando che il loro contenuto fosse corretto e che si
conformassero alle rigide convenzioni della cancelleria ottomana. Questi erano i membri del consiglio
che prendevano parte alle sue discussioni.
Il numero dei visir nel Consiglio Imperiale
crebbe nel corso dei secoli. E’ impossibile determinare quanti ve ne fossero
durante il primo secolo di esistenza dell’Impero ma nel 1421 tre era
probabilmente il numero abituale. Ashikpashazade indica Hajji Ivaz Pasha,
Bayezid Pasha e Chandarli Ibrahim come i visir al tempo della morte di Maometto
I in quest’anno. Lo stesso era vero un secolo più tardi. Menavino, agli inizi
del sedicesimo secolo, si riferisce ai “tre pasha”, ma alla metà del secolo
erano normalmente quattro. Comunque, il numero non era fisso. L’ospitaliere
Antoine Geuffroy, nota nella sua Breve
descrizione della corte del Gran Turco del 1546, che c’erano quattro visir,
“ma spesso ce n’erano solo tre, come fu una volta il caso”. Il momento iniziale
per questo incremento di numero può essere stata la nomina a membro del
consiglio da parte di Solimano I dell’ammiraglio Hayreddin Barbarossa
all’inizio del 1540. Da quel tempo fino al 1566, c’erano usualmente quattro
visir. Dal 1566 ce n’erano cinque e dal 1570-71 sette. Per un certo tempo nel
1642 ce n’erano undici, ma dal momento che in quest’epoca uomini col rango di
visir spesso prestavano servizio nelle province, essi non potevano essere
membri a tempo pieno del Consiglio Imperiale. L’unico governatore provinciale
che acquisì ex officio il diritto di
partecipare alle riunioni del consiglio fu il Governatore generale della
Rumelia. Un diario della campagna di Solimano contro i Safavidi del 1533-36
reca detto: “fu stabilito che quando c’è un Consiglio il Governatore generale
della Rumelia debba recarsi al Consiglio e sedere con i Pasha. Il Governatore
generale dell’Anatolia non dovrebbe in linea di massima intervenire. Se capita
che si tratti di una materia che gli deve essere sottoposta, allora siede con i
Pasha”. La sua presenza dunque non era regolare, ma solo quando c’era una
materia che ricadeva nella sua sfera di competenza.
La tradizione ottomana fa risalire la
creazione dell’incarico di giudice militare al regno di Murad I, e dal momento
che, sin dai primi giorni dell’Impero, il Sultano deve aver avuto necessità di
un consigliere legale nel suo consiglio, questa tradizione è probabilmente
corretta. C’era, sembra, solo un giudice militare nel consiglio fino agli
ultimi anni di Maometto II. La creazione di un secondo giudice fu, secondo il
biografo del sedicesimo secolo Tashköprüzade, opera del Gran Visir, Mehmed
Pasha di Karaman. A quel tempo, ci dice Tashköprüzade, il solo giudice militare
era Molla Kastellani, e Mehmed Pasha, temendo l’effetto sul Sultano del suo
esplicito amore della verità e ritenendo
necessario contrastare la sua influenza, propose che da quel momento i
giudici fossero due. Fu Mehmed Pasha che nominò Kastellani come giudice
militare di Rumelia, mentre promosse il giudice di Istanbul a giudice militare
dell’Anatolia. Da quel momento in poi, questi due ufficiali divennero membri
regolari del Consiglio Imperiale. Agli inizi del diciassettesimo secolo, il
continuatore di Tashköprüzade riferisce che, dopo la sua conquista della Siria
e dell’Egitto, Selim I (1512-20) creò un terzo giudice militare per
rappresentare gli affari legali di queste province. Comunque, l’inimicizia tra
colui che era stato nominato e il Gran Visir, Piri Pasha, presto condusse
all’abolizione della carica. Da quel momento ci furono normalmente due giudici
militari sebbene nel 1545 l’italiano Luigi Bassano ne indichi tre.
Il numero dei tesorieri del Consiglio
Imperiale crebbe parimenti nel corso degli anni. Nel quindicesimo secolo ce
n’era forse uno. Nel 1526, ce n’erano due. Questi, sembra, erano responsabili
per i possedimenti e le rendite imperiali rispettivamente in Rumelia ed Anatolia. Nel 1539 c’erano tre
tesorieri e, dal 1587, quattro, che sovrintendevano alle rendite di Rumelia,
Anatolia, Istanbul e “del Danubio”; cioè, della costa ovest e nord del Mar
Nero. Questi erano i tesorieri nel Consiglio Imperiale. Ce n’erano altri nelle
province, in particolare ad Aleppo, un incarico che risale probabilmente alla
conquista della Siria nel 1516. L’incremento nel numero chiaramente riflette la
crescente importanza del Tesoro, specialmente dalla fine del sedicesimo secolo.
Questo era un periodo in cui l’inflazione e guerre progressivamente più costose
e meno profittevoli condussero a deficit nelle entrate e nella occasionale
incapacità di pagare le truppe. Nel 1572, il governo svalutò l’akce d’argento. Un’altra svalutazione
del 50% nel 1584 condusse a tumulti presso i giannizzeri. Ulteriori
svalutazioni e ritardi di pagamento seguirono nel 1589, 1593 e 1606. Ci furono
altre crisi man mano che si procedeva nel diciassettesimo secolo. In queste
circostanza raccogliere moneta divenne un dovere primario del Consiglio, ciò
che condusse ad un incremento del numero e dello status dei tesorieri.
L’ufficio di cancelliere deve risalire ai
primi giorni dell’Impero. Documenti ottomani del quattordicesimo secolo sono
estremamente rari, ma i pochi che sopravvivono suggeriscono che i sultani già
possedevano una cancelleria. Di fatto, la prima sigla esistente del Sultano,
che era, almeno nominalmente, compito del cancelliere apporre, appare nel
negozio fiduciario di Orhan del 1324. L’ufficio può, dunque, risalire a questo
periodo. Sembra che non ci sia mai stato più di un cancelliere nel Consiglio
Imperiale, a dispetto del crescente numero di impiegati del suo dipartimento,
mano a mano che gli affari dello stesso Consiglio aumentarono nel sedicesimo e
diciassettesimo secolo. Fino agli inizi del sedicesimo secolo ci può essere
stato – a meno che non si tratti di un riferimento ad un semplice tesoriere –
un altro membro del Consiglio, il Saggiatore , dal momento che Spandounes parla
di “un ufficio che si occupava del peso della moneta, che occupava anche un
posto nel consiglio dei pasha”. Il riferimento, comunque, sembra essere
l’unico.
I membri del Consiglio Imperiale – visir,
giudici militari, tesorieri e cancelliere – rappresentavano le differenti
branche del governo del Sultano e, dal sedicesimo secolo, la loro posizione
divenne, più o meno, mutuamente esclusiva. I giudici militari o i cancellieri,
per esempio, non diventavano, di regola, visir. Ciascuna posizione tendeva a
rappresentare l’apice di una carriera specializzata, di governatore o
comandante militare nel caso dei visir, nella professione colta e legale nel
caso dei giudici militari, nei servizi finanziari nel caso dei tesorieri, o nel
servizio degli scribi nel caso dei cancellieri. Questo, comunque non era sempre
stato il caso. Sembra esserci stata una maggiore fluidità nelle funzioni dei
membri del consiglio prima della fine del quindicesimo secolo. Chandarli
Ibrahim, per esempio, divenne Visir nel 1420, dopo aver servito dal 1415 come
giudice militare. Mehmed Pasha di Karaman assurse al gran visirato nel 1476, dopo aver occupato la cancelleria
per dodici anni. Tali cambiamenti di funzione sembrano essere stati rari nel
sedicesimo secolo.
Ci fu un cambiamento, a partire dalla metà del
quindicesimo secolo, nel background dei membri del consiglio, almeno dei visir.
Ciò che colpisce di più nel secolo precedente la conquista di Costantinopoli è
il diritto ereditario al visirato di una singola famiglia. Il primo di questi
fu Chandarli Hayreddin Pasha che, secondo la tradizione ottomana, iniziò la sua
carriera come giudice a Bilecik, Iznik e Bursa. Nella stessa tradizione viene
nominato da Murad I come giudice
militare e finalmente, nel 1380, visir. In questa posizione egli agì sia come
governatore che come comandante militare, ruoli che i visir dovevano
conservare. Egli morì a Sarrai nel 1387. Sul figlio, Chandarli Ali, gli
succedette come visir di Murad I, di Bayezid I e del figlio di Bayezid,
Süleyman (Rumelia, 1402-11), su incarico del quale fu uno dei negoziatori del
trattato di Gallipoli del 1403. Egli
morì nel 1406. In quest’anno suo fratello, Ibrahim, era giudice a Bursa. Entro
il 1415 Mehmed I lo aveva nominato giudice militare. Nel 1420 egli divenne
secondo visir di contro a Bayezid Pasha primo visir e dopo la morte di
quest’ultimo per mano dello zio di Murad II, Mustafa, gli succedette come primo
visir. Morì nel 1429.
La linea di visir dei Chandarli continuò con il figlio maggiore di Ibrahim,
Halil che fu primo visir nel 1443. Entro il 1447 il figlio di Chandarli Halil,
Süleyman, che morì prima di suo padre, era giudice militare. La caduta di Halil
si verificò con l’ascesa al trono di Maometto II. Il Sultano evidentemente lo
detestava, dal momento che fu responsabile della sua deposizione dal trono nel
1446 e la reinstallazione di suo padre dopo l’abdicazione di quest’ultimo. Più
importante, comunque, fu il fatto che Halil si era opposto all’assedio di
Costantinopoli nel 1453 e invero, secondo il resoconto di Leonardo di Chio, che
era nella città assediata, di fatto collaborò con i difensori. Non molto tempo
dopo il Sultano fece giustiziare Chandarli Halil.
Questa non fu, comunque, la fine dell’era dei Chandarli. Nel 1453, il
figlio di Chandarli Halil, Ibrahim era giudice in Edirne. Nel 1465 Mehmed II lo
nominò giudice militare e, otto anni dopo, tutore di suo figlio Bayezid ad
Amasya. Alla sua salita al trono nel 1481 Bayezid lo portò col suo entourage da
Amasya alla capitale, nominando Chandarli Halil giudice militare della Rumelia.
Nel 1486, egli divenne visir e finalmente, nel 1498, gran visir. Due anni più
tardi morì nella campagna contro Navpaktos (Lepanto). Ibrahim fu l’ultimo dei
Chandarli ad occupare il visirato.
L’esecuzione di Chandarli Halil da parte di
Mehmed II era chiaramente un atto di ripicca personale piuttosto che politico. Nondimeno, esso
rappresenta un momento di cambiamento nell’istituto del visirato. Prima del
1453, molti – se non tutti – i visir sembrano essere stati uomini liberi di
discendenza turca e musulmana. Dopo il 1453, visir turchi musulmani furono
l’eccezione. Invece, il Sultano si appoggiò ad uomini che erano stati cresciuti
nella casa reale, piuttosto che su uomini dalle casate musulmane che godevano
di potere indipendente e influenza.
Nelle province, membri delle grandi famiglie musulmane, specialmente
quelle dei signori di frontiera della Rumelia,continuarono a prosperare e a
ricevere uffici dal Sultano, ma come governatori provinciali piuttosto che
visir nella capitale.
Nondimeno le nomine al visirato da parte di
Maometto II e Bayezid II indicavano che questi sultani erano ancora attenti ad
imbrigliare interessi dinastici locali al servizio degli interessi ottomani. Un
certo numero di visir che essi nominarono non erano stati “sollevati dalla
polvere” come doveva diventare il caso nel sedicesimo secolo, ma erano
piuttosto i rampolli di precedenti
dinastie cristiane. Il visir che servì più a lungo Maometto II era Mahmud
Pasha, che occupò il posto per gran
parte del periodo dal circa il 1455 alla sua esecuzione nel 1474. Le origini di
Mahmud non sono certe. Comunque un
documento ragusano del 1458 lo accosta alla famiglia slavonica di nome
Andjelovic, suggerendo che la storia che egli fosse un discendente degli
Angelos signori di Tessaglia fosse corretta. Sembra, anche, che durante il suo
visirato, membri della sua famiglia continuarono ad esercitare il potere in
Serbia dal momento che, nel suo resoconto della cattura della fortezza serba di
Smederovo nel 1458 il cronista Neshri sostiene che il fratello di Mahmud era
nella fortezza al tempo dell’assedio e che fu lui che negoziò la resa. Fu forse
anche per le connessioni serbe di Mahmud che il Sultano lo pose al comando
della spedizione che finalmente sopraffece il Despotato di Serbia nel 1458-9, e
il regno di Bosnia nel 1463.
Mahmud Pasha non era l’unico membro di una
“nobile” famiglia cristiana che serviva il Sultano in questo periodo. L’origine
del suo rivale, Mehmed Pasha “il greco” era così ben conosciuta da divenire il
suo soprannome. E’ realmente possibile che egli provenisse da una “nobile”
famiglia bizantina. Questo era certamente il caso di Hass
Murad Pasha, che servì non solo come visir nel Consiglio Imperiale, ma anche
come governatore della Rumelia fino alla sua morte nel 1473 nella guerra contro
Uzun Hasan. Egli era un Paleologo, un membro della famiglia imperiale
bizantina, come era Mesih Pasha, che, come visir, comandò il fallito assedio di
Rodi nel 1480. Bayezid II lo doveva nominare gran visir in tre occasioni, tra
il 1485 e la sua morte nel 1501. Come Hass
Murad e Mesih Pasha, Hersekzade (“il figlio del duca”) Ahmed Pasha, cinque
volte gran visir tra il 1497 e il 1516, era anche progenie di una famiglia
regnante. Suo padre, Stephen Vukčić-Kosača, il duca di San Sava,
era il sovrano di un territorio nel sud
est della Bosnia. E’ dal suo titolo “Herceg” (“Duca”) che l’Hercegovina prende
il suo nome. Questo figlio sembra essersi convertito all’Islam ed essere
entrato nella corte di Mehmed II nel 1473-74. L’ultimo visir di tale
discendenza fu Dukaginzase Ahmed, un membro della famiglia albanese Kukagjin,
discendente dal Duca Giovanni di Shkodër. Come Hersekzade anche egli sembra
essersi convertito e aver ricevuto una educazione alla corte di Mehmed II. Bayezid II lo promosse a
governatore generale dell’Anatolia. Sotto il successore di Bayezid, Selim I,
egli divenne Secondo Visir e finalmente Gran Visir fino alla sua esecuzione nel
1515.
Non tutte le nomine di Mehmed II e Bayezid II
seguirono questo schema. Altri visir di origini non musulmane, come l’albanese
Daud Pasha, Gran visir tra il 1485 e il 1497, probabilmente entrarono nel
servizio del Sultano attraverso la Reccolta
piuttosto che con conversione volontaria. Iskender Pasha, che era visir
tra il 1489 e il 1496 era il figlio di padre genovese e madre greca da
Trebisonda. Alcuni visir di questa era furono ancora di discendenza turca
musulmana. Chandarli Ibrahim era il più
ovvio esempio, ma mehmed Pasha, che fu visir successivamente nel regno di
Mehmed II e di nuovo tra il 1483 e il 1485 era anche membro di una potente
famiglia turca. Suo nonno, Yörgüch e suo padre, Hizir, erano stati tutori in
Amasya del futuro Sultano Murad II e Bayezid II rispettivamente. Piri Mehmed
Pasha, gran visir tra il 1518 e il 1523 era anche un turco musulmano.
Nondimeno, una caratteristica saliente dell’era tra la ascesa al trono di
Mehmed II e l’ascesa di Solimano I è il numero di visir di “nobile” discendenza
cristiana. Nominando questi uomini alle posizioni più alte del governo il Sultano andava assimilando
membri delle precedenti famiglie regnanti della penisola balcanica nella élite
ottomana. Questo sistema di assimilazione consentiva anche al Sultano di
sfruttare connessioni familiari per scopi politici e, come il destino sfortunato
di Mahmud Pasha e di Dukaginzade Ahmed esemplifica, di portare la casta
dominante pre-ottomana fermamente sotto il controllo del monarca.
Per quando Solimano I ascese al trono nel 1521
questo processo era stato completato e nessun altro visir emerse da questo
background. Sembra che molti dei visir dopo il 1521 provenissero dalle parte
occidentale della penisola balcanica, sebbene ci fossero eccezioni. Özdemiroghu
Osman Pasha, gran visir nel 1584-5 era un turco, e Jigalazade Sinan, brevemente
gran visir nel 1596, era un genovese, Scipione Cicala, che l’ammiraglio Piyale
Pasha aveva fatto prigioniero nel 1560 e presentato al Sultano.
I visir del sedicesimo secolo non erano
comunque discendenti di dinastie regnanti, ma piuttosto la discendenza di contadini. Tipicamente,
essi erano venuti a Palazzo come giovani che il Sultano aveva prelevato dai
suoi sudditi cristiani, attraverso la Raccolta. Nel Palazzo, essi avevano
studiato nella grande e nella piccola camera nella terza corte e poi, dopo aver
progredito attraverso i ranghi dei paggi e aver tenuto un ufficio entro il
palazzo, il Sultano li nominava governatori provinciali. Dalle province, se
godevano del favore del sovrano, essi potevano ritornare nella seconda Corte
come visir del Consiglio Imperiale. Lutfi Pasha, Gran Visir tra il 1539 e il
1541, diede un resoconto della sua
carriera. Egli era, per origini, un albanese, e venne nel palazzo, si
può presumere, attraverso la Raccolta. Questi dettagli li omette e, cominciando la sua
“autobiografia” nel Palazzo col dire: “Dal tempo dell’ultimo Sultano Bayezid
Khan, la cui dimora è in Paradiso io, questo umile essere, sono stato portato
negli appartamenti privati del Sultano attraverso la generosità del Sultano, come un buon amico della Porta
Ottomana. Quando stavo negli appartamenti privati io ho studiato molti tipi di
scienza. Alla salita al trono di sua eccellenza Selim Khan fui promosso al
posto di portatore degli abiti, per diventare un müteferrika con un reddito di cinquanta akce al giorno. Poi fui capo assaggiatore, indi capo portiere, poi
maestro dello stendardo. Successivamente divenni governatore di Kastamonu e
governatore generale di Karaman. Poi mi fu largito il visirato”. La carriera di
uno dei successori immediati di Lufti Pasha, Rüstem Pasha, fu simile. Egli
sembra essere stato bosniaco per nascita, entrato a palazzo tramite la
Raccolta. Nel Palazzo, divenne il portatore delle armi del Sultano nella camera
privata e poi maestro delle stalle. Quando lasciò il palazzo divenne dapprima
governatore generale di Diyarbekir e poi dell’Anatolia. Successivamente si unì
al gran consiglio come terzo visir. Nel 1541 era Secondo Visir e Gran Visir nel
1544. Come Lutfi Pasha, egli si sposò entro la famiglia imperiale.
Ciò che colpiva molti forestieri circa questa successione di visir che erano
originariamente arrivati a Palazzo come giovani attraverso la Raccolta, era il
contrasto tra la loro ricchezza ed elevata posizione e lo stato umile delle
loro famiglie originali. E’ per mettere in rilievo questa differenza che
Antoine Geuffroy dà una descrizione, forse apocrifa, del padre di Ibrahim Pasha, Gran Visir dal
1523 al 1536. Egli inizia con una raffigurazione di Ibrahim “da Parga, in
Albania…” che “a causa del fatto che era stato cresciuto giovane nel Palazzo
con il suddetto gran Turco, guadagnò tanto credito e autorità che comandava
assolutamente e disponeva di qualunque cosa senza che il gran turco
interferisse.” Questo contrasta con il padre di Ibrahim: “un uomo da nulla,
inutile, un frequentatore di taverne, un ubriacone che dormiva nelle strade
come le bestie”
Questo uso sistematico della Raccolta per
promuovere uomini di umili origini a visirato, una pratica che questa storia
simboleggia, dà la misura del crescente
potere dei sultani. Sebbene membri di dinastie locali continuarono a ricevere
nomine nelle province, i sultani non si sentirono più obbligati a nominarli
come membri del Consiglio Imperiale. Invece preferirono uomini che erano membri
della casa imperiale e non avevano legami di patronato ed autorità fuori del
palazzo. Ibrahim Pasha è di nuovo un buon esempio dei poteri che il Sultano può esercitare.
Solimano I, contro tutti i precedenti nominò Ibrahim dalla camera privata
direttamente al gran visirato, con nessuna precedente esperienza di governo.
Avendolo sollevato da nulla alla carica più alta, tredici anni dopo, durante la
campagna di Baghdad, lo giustiziò. Scegliendoli tra gli schiavi cresciuti nella
sua casa, il Sultano era capace, se desiderava, di esercitare un potere
assoluto sui suoi visir.
Negli anni travagliati dalla fine del sedicesimo secolo, comunque,
sembra essere stata altrettanta
l’influenza di fazioni rivali, sia entro
il palazzo che fuori, a creare o rovinare visir. L’ufficio di gran visir
divenne particolarmente precario, un fattore essendo le prolungate guerre del
periodo. Se il gran visir non era anche il comandante di una campagna egli
doveva cedere molti dei suoi poteri di nomina e di riscossione delle
rendite al comandante dell’esercito.
Dall’altro lato, se egli stesso diveniva comandante, la sua assenza da Istanbul
e la cessione del suo posto nel Consiglio Imperiale ad un rappresentante lo
esponeva ai complotti dei rivali politici. Questo dilemma , che nasceva dalla
mancanza di distinzione tra autorità militare e politica, indubbiamente giocava
una parte nella rapida successione di gran visir tra il 1590 e il 1656.
Nondimeno, rimaneva la regola che i visir dovevano, nelle loro origini, essere
non musulmani o almeno non turchi. Nella fine del sedicesimo secolo ed inizio
del diciassettesimo secolo molti gran visir – per esempio Koja (“l’anziano”)
Sinan Pasha o Yemishchi (“il fruttivendolo”) Hasan Pasha erano albanesi. Verso
la metà del secolo, comunque caucasici, circassi, abkhazi e georgiani –
iniziarono a competere con loro per l’ufficio. Il primo gran visir caucasico fu
Mehmed Pasha il Georgiano nel 1622-23. La nomina di Mehmed Pasha il Circasso
seguì nel 1624. Melek Ahmed Pasha, che assunse il primo visirato nel 1650, era abkhazi, come lo erano i suoi
successori Siyavush Pasha nel 1651 e Ibshir Mustafa nel 1654-5. Lo stesso
periodo travagliato vide anche la nomina di un georgiano nel 1651 e di un
circasso nel 1653. Alla fine si può dire
che la fazione albanese vinse la lotta per l’ufficio. Nel 1656 la madre di Mehmed
IV, Turhan Sultana, nominò l’albanese Köprülü Mehmed come gran visir. Suo
figlio, Fazil Ahmed Pasha ereditò l’ufficio e lo tenne fino alla sua morte
nel 1676.
Se, dalla metà del quindicesimo secolo, era
molto raro per un musulmano turco divenire un visir, questo non era il caso per
gli altri uffici nel Consiglio Imperiale. Prima del sedicesimo secolo le
cariche di visir e di giudice militare non erano, come le carriere dei due
Chandarli Ibrahim mostrano, mutuamente esclusive: un giudice militare poteva
divenire un visir, se non viceversa. Nel sedicesimo secolo, comunque, un nuovo
schema emerse. Da questo tempo, la carica di giudice militare e invero tutte le
nomine ad uffici giudiziari di grado superiore
divennero una sfera riservata di
un piccolo numero di famiglie colte in fiera competizione tra di loro. Quando
un membro di uno di questi clan otteneva un ufficio di grado elevato egli
avrebbe usato la sua influenza e potere di patronato per promuovere i propri
parenti. Un esempio del sedicesimo secolo è la famiglia Chivizade, i
discendenti di un professore, un certo Chivizade Ilyas. Il figlio di Ilyas,
Muhiyeddin divenne giudice militare dell’Anatolia nel 1537. Suo figlio, Mehmed,
ottenne la stessa posizione nel 1575. Due anni più tardi egli era giudice
militare di Rumelia. nel 1598, Mehmed III
nominò l’insegnante suo e di suo padre, Sa’deddin, Gran Mufti. Nel 1601
il figlio di Sa’deddin, Mehmed Es’ad, era giudice militare dell’Anatolia,
mentre suo fratello era succeduto al loro padre come Gran Mufti. La carica di
giudice militare era dunque, a differenza del visirato, aperta a turchi
musulmani ma solo a quelli che appartenevano ad un circolo molto ristretto. Non
era aperta alla massa dei giudici che occupavano posti nelle piccole città
dell’Impero.
I cancellieri e tesorieri del Consiglio Imperiale, anch’essi
dall’inizio del sedicesimo secolo, formavano un gruppo il cui background era
differente da quello dei visir. Prima del 1520, il consiglio era forse più fluido.
L’ultimo gran visir di Mehmed II, Nishanji (“il cancelliere”) Mehmed Pasha era
assurto al posto dalla cancelleria. Selim I doveva elevare il tesoriere di
Rumelia, Piri Mehmed Pasha al posto di terzo visir e finalmente nel 1518, di
Gran Visir. Dopo questa data, non sembrano esserci state promozioni da
cancelliere o tesoriere direttamente al visirato, sebbene dagli anni ’70 del
1500 nomine di tesorieri a governatori provinciali non erano inconsuete. Il
padre del cancelliere, Oskchuzade, lasciò il posto di capo tesoriere per
divenire governatore generale di Cipro nel 1581.
Come i giudici militari, i cancellieri e
tesorieri sembrano, come norma, essere stati
turchi musulmani e diplomati in collegi religiosi. Comunque,
l’addestramento che seguivano era da scriba piuttosto che legale, iniziando ,
con un appropiato patronato, come apprendisti in una grande casa, al servizio
di un governatore provinciale o tesoriere o nel Consiglio Imperiale o nel
tesoro stesso. Il famoso Feridun Bey, per esempio, iniziò la sua carriera come protégé del capo tesoriere, Chivizade
Abdi Chelebi, fratello del giudice militare, Muhiyeddin. Fu probabilmente nella casa di Abdi che imparò il suo
mestiere. Alla morte di Abdi nel 1553, entrò nella casa del futuro gran visir,
Sokollu Mehmed Pasha, e, attraverso Sokollu, divenne capo impiegato nel
Consiglio Imperiale nel 1570. Tre anni più tardi era cancelliere. Nel 1576,
comunque, presumibilmente come risultato del disprezzo di Murad III nei
confronti di Sokollu, soffrì la destituzione e l’esilio. Il Sultano, comunque,
lo richiamo al suo posto nel 1581 dopo l’assassinio di Sokollu.
Gli uffici nel Consiglio Imperiale, mentre
dipendevano dal favore del Sultano, davano a coloro che li detenevano , non
solo potere politico e opportunità di patronato indipendente, ma anche ricchezza.
Spandounes, per esempio, riferisce che, al tempo della sua morte nel 1497, il
Gran Visir che aveva servito a lungo, Daud Pasha, lasciò “un milione di ducati
d’oro e questo non includeva le terre, le fabbriche, i villaggi, i cavalli e
altri beni mobili”. Un ufficio portava con sé non solo un feudo di valore, ma
anche emolumenti. Scrivendo dopo la sua destituzione nel 1541 Lutfi Pasha parlò
di un gran visir come avente un feudo del valore di 1.200.000 akce. Se avesse realizzato almeno una
volta e mezzo il suo valore contabile, si tratta di almeno 2.000.000 di akce. Se riceve somme di 200.000 o
300.000 akce dai signori curdi, e
abiti di valore e cavalli dai signori di grande potere, questo fa 2.400.000 akce in un anno”. La stima di Lutfi è
indubbiamente troppo modesta, escludendo, come fa, i doni dagli ambasciatori e
dagli altri postulanti, e gli altri profitti dell’ufficio. I gran visir
indubbiamente avevano le entrate maggiori, ma altri membri del consiglio
divennero pure essi ricchi. Antoine Gruffroy nel 1546, per esempio riferisce
che due giudici militari avevano “ciascuno un feudo di settemila ducati”.
Spandounes nel 1513 aveva menzionato la stessa somma ma aggiungeva che questo
escludeva “ciò che guadagnavano in pagamenti straordinari”. Gli emolumenti dei cancellieri sembravano essere stati gli
stessi, o lievemente più alti, di quelli dei giudici militari.
Per quanto enorme la ricchezza degli alti
dignitari possa essere stata, parimenti alte erano le loro spese. Il segno
dello status di un uomo nella società ottomana era la dimensione del suo
entourage e delle persone del seguito
quando compariva in pubblico. Questo richiedeva continue spese, sia
nell’ufficio che fuori dell’ufficio. Era normale, secondo Kochi Bey nel
1631-1632, per un gran visir fino al 1574, possedere circa 1000 schiavi, e per
gli altri visir averne 5-600. Nella seconda metà del diciassettesimo secolo,
Evliya Celebi ci dà numerose indicazioni
circa la grandezza dell’entourage
del suo patrono, Melek Ahmed Pasha (Gran visir 1650-51). Erano comunque non
solo i visir che avevano un largo seguito, ma anche gli altri membri del
Consiglio Imperiale. Dei giudici militari Spandounes commenta che “essi
tenevano molti eunuchi e donne”, e dei cancellieri che “essi cavalcavano con
pompa trionfale”, con Geuffroy che aggiunge che essi “procedevano accompagnati
da un gran numero di cavalli e servitori”. Ramberti nella metà del sedicesimo
secolo riportava che i giudici militari tenevano 2-300 schiavi, il cancelliere
300, il capo tesoriere 1000 e il secondo tesoriere 500.
I visir, i giudici militari, i cancellieri e i
tesorieri erano gli ufficiali esecutivi
del Consiglio Imperiale. Oltre questi c’era un servizio amministrativo,
che preparava il materiale per le discussioni, teneva la documentazione ed esibiva
i documenti per la discussione. Tale servizio doveva essere esistito sin dai
primi giorni dell’Impero, ma gli esigui
documenti dalla fine del quindicesimo secolo suggeriscono che, fino a
quel tempo, era un corpo amministrativo piccolo e più o meno indifferenziato.
Durante i primi anni del regno di Solimano I, comunque sembra esserci stato un
incremento nel numero degli impiegati e una definizione più chiara della loro
funzione. Un registro del 1527-28 elenca sette impiegati “nel seguito del
tesoriere” e undici “nel seguito del cancelliere”. Nel 1531 il loro numero era
aumentato ad otto e a quindici, e nel 1561 a nove e venticinque. I numeri
continuarono a crescer nelle decadi seguenti. Nel 1605, c’era probabilmente un
minimo di 50 impiegato, nel 1609 un minimo di 64 e nel 1627-28 centoquindici.
Questi numeri chiaramente non includono tutti gli impiegati del governo
centrale. Nel 1531, per esempio c’erano anche 33 impiegati e 17 apprendisti nei
ruoli del Tesoro e sette nei ruoli del controllore dei registri, che era in
carico dei registri catastali. Aggiunti agli impiegati del Consiglio Imperiale
questi e altri danno un totale di centodieci, un numero piccolo considerando le
dimensioni vaste, e a quel tempo in via di ingrandimento, dell’Impero. Alcuni di
questi impiegati, come i membri del Consiglio Imperiale, avrebbero accompagnato
il Sultano in campagne o, quando il Sultano non faceva più campagne, erano
aggregati al comandante dell’esercito.
Come responsabile degli impiegati c’era il
Capo Impiegato (reisü’l-küttab) (reisu’l-kuttab). Il suo ufficio, secondo una fonte non confermata del diciottesimo secolo, datava dal regno di
Solimano I. Se questa tradizione è corretta, deve essere stata una creazione dei
primi anni del regno di Solimano, dal momento che non c’era evidenza della sua
esistenza dai primi anni ’20 del 1500.
Il più famoso e di lunga nomina dei cancellieri
di Solimano, Jelalzade Mustafas, ricevette l’incarico di capo impiegato
nel 1525 e lo tenne fino alla sua promozione a cancelliere nel 1534. Servire
sotto il capo impiegato voleva dire, almeno nel sedicesimo secolo, fare da
scrittore di memorandum (tezkereji),
i cui compiti i documenti non definiscono, ma che probabilmente riassumeva la corrispondenza in arrivo e le
petizioni per la presentazione al consiglio da parte del Capo Impiegato. Egli,
sembra anche, leggeva le petizioni che il gran visir ascoltava nel
consiglio che teneva nella sua propria
residenza, che seguivano le riunioni del
Consiglio Imperiale nel Palazzo. I documenti non definiscono, come ruolo, gli
altri impiegati del Consiglio per funzione, e uno può ritenere che essi
avessero compiti simili: registrare le decisioni e le nomine del Consiglio nei
suoi libri giornali, scrivendo le bozze dei decreti nei “registri degli affari
importanti”, facendo copie di questi e scrivendo i decreti finali, nella loro
spesso elaborata versione dorata. Il Capo Impiegato e, in ultima istanza il
cancelliere supervisionavano questo lavoro. Il secondo gruppo di impiegati, che
serviva il capo tesoriere, formava un
gruppo separato, presumibilmente perché la tenuta dei documenti finanziari
richiedeva abilità molto specifiche. Il linguaggio usuale era persiano
piuttosto che turco dei documenti del tesoro e il tesoro usava una forma di
scrittura e un modo di scrivere i numeri che erano incomprensibili ai non
iniziati. Per redigere questi documenti necessitava un apprendistato nello
stesso Tesoro.
A meno che, come Jelalzade, cancelliere dal
1534 al 1557 o Okchuzade, cancelliere dal 1599 al 1601 e di nuovo dal 1622 al
1623, essi arrivassero a divenire cancelliere o ad occupare altri alti uffici,
gli impiegati del Consiglio Imperiale rimanevano figure nell’ombra, ed è
raramente possibile conoscere qualcosa dei loro background. Prima degli anni
intorno al 1500 le loro origini erano probabilmente diverse dal momento che,
fino a questo tempo, il greco era la lingua franca della diplomazia e il
Sultano evidentemente corrispondeva con
potenze straniere non solo in greco ma anche nei loro linguaggi. Un
anonimo ragusano nell’ultimo quarto del quindicesimo secolo riportava che il
Sultano aveva una cancelleria per ciascun linguaggio, tutto sotto un singolo
cancelliere e che “ai greci ed italiani essi scrivono in greco, agli ungheresi, Moldavi, Valacchi, Slavi e
Ragusani in Serbo, ai Turchi, Arabi, Armeni e altre nazioni in turco , arabo o
persiano”. Questa diversità di linguaggi suggerisce una diversità di scribi
nella cancelleria.
Dopo circa il 1500, questo non era più il
caso. Documenti in greco declinarono sia in quantità che in qualità ed alla
fine scomparvero come pure tutti i documenti in linguaggi diversi da turco,
arabo e persiano. Si può ritenere, quindi, che da circa il 1520, tutti gli
impiegati del consiglio erano musulmani. Sembra, anche, dalla scarsa
documentazione disponibile che tipicamente essi si diplomavano in collegi
religiosi, per i quali l’attrattiva di
un lavoro come impiegato poteva essere uguale a quella di professore di un
collegio o giudice in una piccola cittadina. Fu, di fatto, l’avversione ad una
carriera di insegnante che convinse Okchuzade a seguire la via dello scriba,
che lo condusse alla fine alla cancelleria. Nondimeno, cultura letteraria ed
educazione non erano sufficienti per assicurare una posizione. Un aspirante
impiegato necessitava un patrono, che lo avrebbe preso nel suo seguito e gli
avrebbe procurato una posizione nel servizio imperiale. L’ufficio di impiegato
del consiglio in particolare richiedeva il patronato del cancelliere, di uno
dei tesorieri o di un altro membro del consiglio. Non può essere accidentale
che due dei tre capi impiegati nel Consiglio Imperiale di Solimano erano nativi
di Tosya in Anatolia, dal momento che questa era la città natale del
cancelliere Jalalzade Mustafa. Sembra
essere stato un caso piuttosto tipico di un titolare di ufficio che
fornisce impiego ai suoi compaesani.
Il pagamento
agli impiegati poteva essere uno stipendio o essere fatto sotto forma di
un feudo, con i tenutari di feudi chiaramente predominanti verso il 1600 e
oltre. Queste non erano, comunque, le uniche possibilità di arricchimento dal
momento che gli impiegati potevano anche usare i propri contatti per acquistare
interessi nella esazione delle imposte o in altre imprese, che potevano essere
vitali per il loro mantenimento in periodi in cui non tenevano l’ufficio. Essi
erano situati, di fatto, al livello più basso dell’élite ottomana.
Il Consiglio Imperiale plenario si riuniva
quattro volte a settimana – Sabato, Domenica, Lunedì e Martedì – con tutti i
membri esecutivi che vi partecipavano. Gli impiegati, comunque, almeno dalla
fine del sedicesimo secolo, sembrano aver partecipato a rotazione. Una
annotazione in un registro del 1585-6 mostra 19 su 25 partecipanti il Sabato e
la domenica, e 17 su 20 il lunedì e il martedì.
E’ chiaro che le decisioni più importanti
dello Stato, perfino se coinvolgevano membri del consiglio, avevano luogo al di
fuori del Consiglio stesso. Il Consiglio
era, nondimeno, un corpo esecutivo, che conduceva tutti i tipi di affari
di governo, concedendo udienze agli ambasciatori e tenendo la corrispondenza
con monarchi stranieri; soprintendeva ai preparativi per la guerra, emanando
dettagliati comandi per la leva degli uomini, la raccolta delle munizioni e
delle provviste; si occupava dei lavori di costruzione, in particolare delle
fortezze e degli acquedotti, ad Istanbul e nelle province; trattava gli
innumerevoli problemi, alcuni importanti, altri evidentemente di scarso
rilievo, che erano soggetti a relazioni
e petizioni dai governatori e giudici; assegnava
le promozioni e gli incarichi. Come corte di giustizia poteva ascoltare dei
casi, normalmente quelli che coinvolgevano la classe militare. Non è raro, ad
esempio, trovare ordini ai governatori o ai giudici di mandare tenutari di
feudi “legati e incatenati” ad Istanbul, per apparire di fronte al Consiglio.
Esso si occupava anche di lamentele di individui che giudici e altri avevano
inviato, o che venivano presentate di persona. Di queste petizioni personali
Luigi Bassano scrisse nel 1545: “I Pasha ascoltano prima i casi più importanti
e poi tutti gli altri, dei poveri come dei ricchi, cosicché nessuno se ne va
senza essere stato ascoltato o aver
avuto giudicata la sua causa. Qui non si impiegano né avvocati, ma ciascuno
parla dei suoi affari da se stesso come
meglio può, e chi non parla il linguaggio prescritto fa uso dei dragomanni o
interpreti…”
La durata di una riunione del consiglio era,
secondo Guillaume Postel, di sette o otto ore, e questo sembra corrispondere al
resoconto di Bassano. I membri del consiglio egli dice, mangiavano tre volte:
all’alba, immediatamente dopo il loro arrivo, poi “allo scoccare della sesta
ora” dopo gli affari principali, e poi dopo aver udito le petizioni. La
riunione cessava a mezzogiorno d’estate, quando l’alba arrivava presto, e a
metà pomeriggio di inverno. Il Gran Visir, comunque dopo lo scioglimento del
Consiglio “va” nelle parole di Postel, “alla sua casa dove in una grande sala
ascolta tutti, fino alla persona di condizione più infima che si presenti, non
lasciando alcuna persona senza un giudizio definitivo o un tezkere, e cioè una lettera indirizzata al suo giudice…” Questa
funzione del Gran Visir richiama le udienze personali col Sultano di cui era
stato testimone il dottore egiziano nei giorni di Bayezid I.
Dal momento che gli impiegati non tenevano
minute delle discussioni è impossibile sapere come il consiglio arrivava alle
decisioni. Alcune volte, comunque è chiaro come una particolare faccenda
arrivasse nel calendario degli impegni, dal momento che la sezione di apertura
di ogni decreto del Consiglio Imperiale spiega le ragioni della trattazione
della faccenda. Spesso era il ricevimento di una lettera o l’arrivo di un
messaggero da una autorità provinciale o di altro genere, il cui messaggio il
decreto ripete per sommi capi. Per esempio, un comando del 1564, che ordina al
governatore generale dell’Anatolia di provvedere truppe per le galee del
governatore di Menteshe inizia: “Il Governatore di Menteshe, Ahmed – possa la
sua gloria durare – ha mandato un uomo per far conoscere che sono necessari
soldati nelle galee, che gli furono date per la difesa della costa”. Il decreto
risponde alla richiesta di Ahmed. Altri decreti stabiliscono semplicemente che
il problema a cui si riferisce il comando “è stato rilevato”. Molti decreti
comunque, non forniscono alcuna indicazione sul perché quella particolare
problema sia arrivato al consiglio. Né danno alcun indizio sul background di una importante decisione politica, come ad
esempio una dichiarazione di guerra.
Tutti i decreti hanno una struttura standard,
che rimase in uso fino al diciannovesimo secolo. Dopo aver nominato il
destinatario, la prima sezione espone le ragioni per l’emanazione dell’ordine.
Questo spesso dà il riassunto di un messaggio o di una petizione che è giunta
al consiglio, probabilmente nella forma in cui lo scrittore del memorandum la
ha redatta per la presentazione al consiglio. Segue il vero e proprio ordine,
che inizia sempre con la formula: “Io ho comandato che…” La prima persona
ricorda che il decreto, anche se in pratica rappresenta una decisione del
consiglio, viene dal Sultano, in nome del quale il concilio imperiale stava
agendo. All’inizio del documento c’è la sigla del Sultano, che ne garantisce
l’autenticità e ne enfatizza la gravità. Al fondo sta la data e il luogo di
emissione
Il
fatto che il Consiglio Imperiale non ha poteri indipendenti e che tutti i
documenti che emana, che siano lettere, decreti, o lettere patenti di
nomina erano nel nome del Sultano
solleva la questione del ruolo che il Sultano giocava in queste deliberazioni e
discussioni, quando non asisteva alle sessioni in persona. Egli ovviamente
poteva, se così voleva, ignorare del tutto il Consiglio. Poteva anche mandare
messaggi formali al Consiglio. Il cosiddetto Libro delle leggi di Maometto II, questa sezione del quale
probabilmente data dal tardo sedicesimo secolo, espone una procedura per la
comunicazione: “Per alcune materie, l’agha
del cancello deve fornirmi informazioni dall’esterno attraverso il maggiordomo
e i custodi dei cancelli, che devono informare i miei visir, i miei giudici
militari e i miei tesorieri”. In questo modo, il Sultano poteva, dal ritiro del
palazzo interno, determinare l’agenda del Consiglio Imperiale e cercare di
attuare la sua volontà.
Più
importanti, comunque, erano i colloqui del sovrano col Gran Visir. Lutfi Pasha
rimarca che nessuno, nemmeno gli altri visir, conoscono i segreti tra il
Sultano e il suo primo ministro, e riporta una storia di come Selim I aveva
destituito il visir Mesih Pasha dopo che aveva osato chiedere al gran visir,
Piri Pasha, il contenuto di una recente discussione col Sultano. Un memorandum
dal gran visir Mehmed Pasha richiede un’udienza con Ahmed I (1603-17) per
presentargli alcune non meglio specificate questioni militari, e
presumibilmente tutti i gran visir chiedono udienze private col Sultano. Nel
resoconto di Postel del Consiglio Imperiale, era ancora il Gran Visir che
presentava i risultati delle sue deliberazioni al Sultano. Luigi Bassano,
comunque, che scrive anche lui verso la metà del sedicesimo secolo, dà un
resoconto differente. Nella sua versione, dopo le sue deliberazioni, l’intero
Consiglio appariva di fronte al Sultano nella sala delle petizioni dietro il
cancello della felicità che conduceva
alla terza corte. Qui, il giudice militare di Rumelia parlava per primo, e,
dopo di lui, il Gran Visir, presentando tutti gli affari del consiglio “che
necessitavano di essere riferiti al Gran Turco”. Il veneziano Ottaviano Bon,
scrivendo nel 1600, segue la versione di Bassano.
Il
formato standardizzato dei decreti rende difficile stabilire se il Sultano era
di fatto coinvolto o meno nelle decisioni che contengono. Molte promozioni e
nomine di routine probabilmente
rimanevano in facoltà dei membri del
consiglio, persino se essi richiedevano la formale ratifica del Sultano. E’
anche improbabile che il sovrano si interessasse ad ogni decreto che il
consiglio emanava a suo nome. E’, comunque, possibile identificare alcuni degli
ordini che provenivano dal Sultano in persona. Nel “Registro degli affari
importanti”, che contiene le bozze dei decreti, gli impiegati hanno aggiunto la
nota “con rescritto imperiale” ad alcune delle registrazioni. Questo indica che
il testo incorpora il comando scritto del Sultano, che presumibilmente fece
quando gli fu sottoposto un documento dal consiglio . Questi rescritti
imperiali si possono riferire a materie importanti per lo Stato, quali le
misure da prendersi nei confronti del figlio ribelle di Solimano, Bayezid, nel
1559-60, o materie che ad un occhio moderno sembrano di scarsa rilevanza, come
il comando dello stesso anno di bloccare le persiane al Cairo che consentivano
agli uomini di guardare nella sezione femminile dei bagni. Questi rescritti
imperiali rendevano possibile identificare almeno alcuni degli argomenti
dibattuti nei consigli che attiravano l’attenzione del Sultano.
Alla
fine, comunque, è impossibile stimare con un qualche certezza il grado di
controllo del Sultano sulle decisioni del suo consiglio e il ruolo nel governo
giornaliero dell’Impero. Quando egli assisteva al consiglio di persona,
frequentemente prima della metà del quindicesimo secolo, raramente nel periodo
successivo, poteva esercitare la sua autorità di persona. Dalla seconda metà
del quindicesimo secolo, quando non partecipava alle riunioni, egli rendeva
nota la sua volontà mediante le discussioni col Gran Visir, mandando messaggi
attraverso l’agha del cancello o
quando i membri del consiglio gli presentavano i risultati delle loro
deliberazioni. Una serie di memorandum
scritti dal Gran Visir al Sultano sono pure sopravvissuti dal tempo di Murad
III in poi. L’assenza di tali documenti dai regni precedenti può significare
semplicemente che non sono sopravvissuti. E’ probabile d’altro canto che essi
indicavano il ritirarsi del Sultano dal contatto diretto col Gran Visir e il
Consiglio Imperiale. In uno di questi, dove il Gran Visir richiede un’udienza
con Ahmed I, il Sultano rifiuta, con la nota scritta a mano: “Dovresti
informarmi per iscritto”, suggerendo che gli incontri faccia a faccia tra il
Sultano e il Gran Visir siano divenuti rari.
E’
comunque probabile che differenti
sultani adottassero differenti stili di governo, e che le pratiche cambiassero
persino durante un regno. Di Murad III, per esempio, viene riportato che
presiedeva i consigli di persona durante la prima parte del suo regno,mentre
nella parte finale si ritirò progressivamente. Perdipiù, sebbene i libri di
legge del sedicesimo e diciassettesimo secolo definiscono il gran visir come il
“delegato assoluto” del Sultano e vedono il monarca come conducente il governo
solamente attraverso il gran visir – e così attraverso il Consiglio Imperiale –
questo non fu probabilmente mai il caso. Il Sultano aveva contatti più stretti
con i paggi della camera privata, l’agha
del cancello, l’agha delle ragazze o
con altri cortigiani che con il Gran Visir e anche costoro potevano presentare
petizioni al Sultano, loro proprie o per conto di altri. Egli poteva, anche
essere più propenso a farsi consigliare
da sua madre, una concubina o dal capo dei giardinieri al timone della lancia
da parata che dal gran visir. Lo scrittore di consigli Kochi Bey, che presentò
un trattato a Murad IV nel 1631-32, considerava l’interferenza dei cortigiani
nel governo come un male recente, commentando che i gran visir dopo Dervish
Mehmed Pasha e Nasuh Pasha “di necessità obbedivano e concordavano con i
cortigiani del Palazzo interno, e non risparmiavano i loro sforzi per fare
qualsiasi cosa questi volessero”. Questo, comunque, sembra improbabile. Non può
esserci stato alcun periodo in cui coloro che erano alla presenza della persona
del Sultano non influenzassero le sue decisioni.
Le
province, nel senso di unità territoriali fissate, con governatori che il
Sultano aveva nominato, probabilmente non esistettero nell’Impero Ottomano
prima delle ultime due decadi del quattordicesimo secolo. E’, comunque,
probabile che nei primi anni dell’Impero Osman (m.c. 1324) e Orhan (c. 1324-62)
dividessero il loro territorio in appannaggi per i loro figli, altri membri
della famiglia e i loro seguaci più importanti. L’unico riferimento alla
suddivisione del territorio da parte di Orhan appare nelle inaffidabili
cronache ottomane del tardo quindicesimo secolo, che rilevano che “Egli diede
lo stendardo (sanjak) di Karahisar,
noto come Inönü, a suo figlio Orhan; e diede il
comando del suo esercito (subashilik)
al figlio di suo fratello, Alp Gündüz…” questo racconto di come Osman dividesse
il territorio e il comando militare potrebbe non essere vero in dettaglio ma
forse riflettere una realtà. La pratica di dare appannaggi e comandi
nell’esercito ai figli del sovrano
acquista una veste più precisa nelle cronache bizantine. Giovanni Cantacuzeno
nomina il fratello di Orhan, Pazarlu, come comandante alla battaglia di Pelekanon nel 1328. Di maggiore
rilevanza il fatto che fu il figlio
maggiore di Orhan, Süleyman, che condusse i turchi attraverso i Dardanelli nel
1352 per occupare la fortezza bizantina di Tzympe, e che fu con Süleyman che
Orhan istruì l’imperatore di negoziare
nel suo tentativo di riguadagnare la fortezza. Sembrerebbe dunque che, fino
alla sua morte nel 1357, Süleyman fosse governatore e comandante dell’esercito
nel territorio ottomano di nuova acquisizione in Tracia. Il cronista e teologo
greco Gregoras, nota anche che, nel 1357, il terzo figlio di Orhan, Halil,
aveva ricevuto terre lungo il golfo di Izmit da sul padre, presumibilmente come
appannaggio. Il nome tardo per il distretto di Bursa, Hüdavendgar – che
significa “governante” – suggerische che questo era il territorio appartenente
ad Orhan stesso. Su queste esili basi, si potrebbe forse speculare che, al
tempo della morte di Orhan nel 1362, era diventato costume destinare delle
terre come appannaggi di principi ottomani, insieme forse con il comando delle
truppe che le terre potevano sostenere e altri obblighi o tasse militari .
Questo non era ancora un sistema di governo provinciale, e invero, in questo
periodo il principato ottomano stesso non aveva una dimensione di molto
superiore ad una provincia. Nondimeno, alcuni degli elementi del successivo
sistema sembrano essere già al loro posto. Il ritratto di Orhan nei primi anni
’30 del 1300 che Ibn Battuta offre, suggerisce che egli era in quel periodo un
sovrano che interveniva personalmente in tutto il suo reame, piuttosto che uno
che delegava ampiamente l’autorità ai comandanti locali. Comunque, con
l’aumentare dell’età e delle dimensioni del suo principato, egli fu felice
negli anni ’50 di delegare la conquista e l’insediamento della Tracia a suo
figlio Süleyman, che divenne, di fatto, il governatore di una “provincia”
occidentale. Così, per la fine del regno di Orhan, due elementi del governo
sembrano essere emersi. Uno era la delega del comando militare, ancora, in
quest’epoca, ai familiari del sovrano; l’altro era la concessione di
appannaggi, che presumibilmente portavano anche una obbligazione di servizio
militare.
Questi
erano gli elementi che rimasero al loro posto nel sistema più tardo di governo
provinciale. I governatori ricevevano dai sultani appannaggi o conferme di
appannaggi che giù avevano, in cambio dei quali essi fornivano servizio
militare, comandando le truppe delle loro province sul terreno di battaglia.
Perdipiù, fino al 1595, i sultani continuarono a mandare i loro figli come
governatori provinciali, sebbene la loro importanza in questo ruolo diminuì
come l’Impero di espanse ed essi rimasero sotto stretta sorveglianza.
Alla
fine del quattordicesimo secolo, c’era chiaramente bisogno di una
organizzazione formale del territorio ottomano, a seguito delle conquiste tra il 1362 e il 1400 di Murad I (1362-1389)
e di suo figlio Bayezid I (1389-1402). Fu probabilmente durante i primi anni
del regno di Bayezid che le prime due province amministrative dell’Impero
Ottomano vennero ad esistenza. Ad ovest dei dardanelli si estendeva la Rumelia
(Rumeli), comprendente tutte le terre
conquistate in Europa. Ad est si estendeva l’Anatolia (Anadolu), comprendente tutte le conquiste in Asia Minore. Con
l’espansione ad est dei regni di Bayezid negli anni ’90 del 1300, una terza
provincia – la provincia di Rum – venne ad esistenza, con Amasya come sua città
principale. Questa divenne la sede del governo del figlio più giovane di
Bayezid, Mehmed I (1413-21), e doveva rimanere la residenza di governatori di
rango principesco fino al sedicesimo secolo. Già nel 1468, con l’annessione del
principato sino ad allora indipendente di Karaman, c’erano quattro province.
Mehmed II (1451-81) nominò un figlio, Mustafa, come governatore della nuova
provincia, con la sua sede a Konya. Ma il sedicesimo secolo vide il maggiore
incremento nel numero di province.
Questo giunse in gran parte attraverso le conquiste di Selim I (1512-20) e di Solimano
I (1520-66), che crearono la necessità di incorporare il nuovo territorio nella
struttura dell’Impero e parzialmente attraverso la riorganizzazione del
territorio esistente.
Un
elenco datato 1527 mostra otto province, con Egitto, Siria, Diyarbekir e
Kurdistan aggiunte alle quattro originarie. Queste comprendevano le conquiste
di Selim I ovvero, nel caso del Kurdistan, il risultato di negoziati coronati
da successo. Questa provincia, comunque, non sopravvisse come entità
amministrativa. Le conquiste di Solimano nella Turchia orientale, Iraq ed
Ungheria portarono anch’esse alla creazione di nuove province. Il precedente
principato di Dulgadir, per esempio, divenne una provincia ottomana qualche
tempo dopo la sua annessione nel 1522. Dopo la campagna iraniana del 1533-36 le
nuove province di Erzurum, Van, Shehrizor e Baghdad guardavano le frontiere con
l’Iran. Nel 1541 ci fu la creazione della provincia di Buda, da parte del regno
di Ungheria.
Nel
1609, secondo la lista fornitaci da Ayn Ali, c’erano trentadue province. Alcune
di queste, come Tripoli, Cipro o Tunisi erano il bottino delle conquiste.
Altre, comunque, furono il prodotto di divisioni amministrative. Quando
Solimano I nominò Hayreddin Barbarossa ammiraglio nel 1533, questi ricevette il
posto come governatore generale delle isole, una provincia che il Sultano aveva
creato specificamente per Hayreddin, distaccando distretti dalle
coste e isole dell’Egeo che erano stati sino ad allora parti delle province di
Rumelia e Anatolia e unendoli come una provincia indipendente. Dovevano in
seguito esserci simili cambiamenti in Rumelia. Nel 1580, per esempio, la
Bosnia, in precedenza un distretto della Rumelia, divenne una provincia a sé,
presumibilmente in vista della sua posizione strategicamente importante ai confini con gli Asburgo. Considerazioni
simili condussero alla creazione della provincia di Kanizsa dai distretti
confinanti con questa fortezza di confine, che erano caduti in mano ottomana
nel 1600. Nello stesso periodo, l’annessione dei distretti di Rumelia sul basso
Danubio e sulla costa del Mar Nero e la loro aggiunta ai territori tra il
Danubio e il Dniepr lungo il Mar Nero, creò la provincia di Ochakov (Özi).
Allo stesso tempo, sulla costa sud-orientale del Mar Nero nacque la provincia
di Trabzon. Nelle parole di Ayn Ali: “unendo i distretti di Trabzon e Batu, e
annettendoli a Gümüşhane e Maçka, fu creata una provincia”. Lo scopo di
questa riorganizzazione, e specialmente la creazione della provincia di Özi era
presumibilmente il miglioramento della
difesa dei porti del Mar Nero contro i Cosacchi.
Le
province, dunque, vennero ad esistenza
inizialmente attraverso la conquista, e successivamente attraverso la
riorganizzazione di territorio ottomano esistente. Nel primo secolo
dell’espansione ottomana, comunque, le
conquiste non portarono sempre all’annessione del territorio. Piuttosto, ci fu
una tendenza a tenere al loro posto le dinastie regnanti delle terre
conquistate e di chiedere loro il pagamento di un tributo annuale e la
fornitura di truppe per gli eserciti del Sultano. La posizione degli zar della
famiglia Sisman di Bulgaria dopo circa il 1370, o di Stefano Lazarevic di
Serbia dopo la sua accettazione della sovranità ottomana nei primi anni ’90 del
1300, sono esempi di questo tipo di soluzione. Fu il rifiuto dello zar Sisman
di fornire truppe per Murad I nel 1387 che condusse alla campagna punitiva del
Sultano contro la Bulgaria l’anno successivo; e le truppe serbe di Stefano
Lazarevic combatterono negli eserciti di Bayezid nella battaglia di Nicopoli
nel 1396 e nella battaglia di Ankara del 1402. Per i sultani i principati
vassalli svolgevano in gran parte le stesse funzioni delle province
amministrate direttamente: rifornivano il tesoro e le truppe. Comunque, a
dispetto del sistema usato talvolta di legare a sé le dinastie per mezzo del
matrimonio o di tenere come ostaggio di un figlio del sovrano vassallo presso
la corte ottomana, il controllo di un principato dinastico era meno sicuro che
il controllo di una provincia governata direttamente.
Dalla
fine del regno di Bayezid I, ma specialmente dalla ascesa al trono di Mehmed
II, divenne più consueto nominare governatori ottomani che fare affidamento su
vassalli. Nel 1395, per esempio, Bayezid I giustiziò l’ultimo zar dei Sisman di
Bulgaria, e annetté il suo regno alla provincia di Rumelia. Le dinastie
originarie non dovevano comunque semplicemente sparire. C’era piuttosto una
tendenza da parte del Sultano a nominare membri delle dinastie deposte, o
almeno coloro che sopravvivevano alla conquista e non fuggivano, come
governatori provinciali nell’Impero, lontano dalle loro terre ereditarie. Così,
per esempio, il prigioniero bavarese Shiltberger menziona un certo
“Schuffmanes” – ovviamente della famiglia Sisman – come governatore di un distretto
dell’Anatolia vicino al Mar Nero nel 1398. Nel registrare gli eventi
nell’Anatolia occidentale circa venti anni dopo, il cronista greco Doukas
notava un governatore chiamato “Sousmanes”, evidentemente dalla stessa
famiglia. Similmente, ci sono documenti nel quindicesimo secolo riguardanti
membri della famiglia Zenevis, che Mehmed I (1413-21) aveva espulso da
Gjirokastër in Albania, che servivano come
governatori provinciali ottomani. Nel 1461, Mehmed II espulse l’ultimo della
dinastia di Isfendyar da Sinope, compensandolo con terre vicino a Bursa in
cambio del suo territorio ereditario. Il principato Isfendyaride nel mentre
divenne un distretto della provincia dell’Anatolia. Come mostrano questi
esempi, le vecchie dinastie spesso acquistarono un nuovo status come membri
della élite provinciale ottomana. Era una posizione, comunque, che richiedeva
che riconoscessero la perdita delle terre dinastiche, e accettassero il fatto
che la loro nomina alla carica e l’assegnazione di entrate dipendeva adesso dalla
volontà del Sultano ottomano.
Entro
il 1500 le quattro province centrali dell’Impero – Rumelia, Anatolia, Rum e
Karaman – erano sotto il dominio diretto. Il Sultano, comunque, continuò a mantenere un sistema di principati tributari
a nord del Denubio. Valacchia, Moldavia e il Khanato di Crimea, territori che
Mehmed II aveva portato sotto la sua sovranità, rimasero sotto il controllo
delle dinastie originarie tributarie del sovrano. Così, anche, divenne il regno
di Ungheria dopo la battaglia di Mohacs nel 1526. Sembra che solo la necessità
di contrastare le pretese asburgiche al regno e di organizzare una frontiera
militare contro l’Austria persuasero Solimano di annettersi parte dell’Ungheria
come una provincia governata direttamente dagli ottomani dopo la morte del re
nel 1540. La Transilvania, comunque, rimase un regno che doveva fedeltà al
Sultano.
Entro
il 1550, dunque, Transilvania, Valacchia, Moldavia e il Khanato di Crimea
rimasero sotto il governo delle dinastie
originarie che pagavano il tributo al Sultano. Similmente alcune enclavi sotto
il governo di signori locali sopravvissero in Turchia e nei territori arabi, ma
questi ora formavano distretti all’interno di province più larghe. Entro la
metà del sedicesimo secolo, a parte i principati a nord del Danubio, tutte le
province finirono sotto il governo diretto del Sultano. I governatori generali
erano tutti di sua nomina e egli poteva rimuoverli o trasferirli a sua
discrezione. La durata del loro ufficio era limitata: i governatorati non erano
ereditari e nessuno poteva servire come governatore per tutta la vita. Le
entrate di un governatore generale dipendevano anch’esse dal Sultano. Al momento della nomina,
riceveva una prebenda consistente di una frazione ben definita delle entrate,
riscosse entro i confini della provincia. Questa concessione, che poteva in
qualche caso ammontare a più di un milione di akce all’anno, poneva i governatori generali tra gli uomini più
ricchi dell’Impero. La prebenda, comunque, dipendeva dalla nomina e, a meno che
il governatore non fosse ricco di suo, non avrebbe avuto alcuna entrata quando
fosse stato privato dell’ufficio. Egli avrebbe anche ricevuto altri emolumenti,
ma anche questi erano collegati all’ufficio, che, a sua volta, dipendeva dal
Sultano. Un governatore generale, dunque, non era permanente e non aveva una
base territoriale nella provincia e nessuna entrata nella provincia che
sopravviveva alla sua permanenza in carica.
La
parola turca per governatore generale è beylerbey,
che significa semplicemente “Signore dei signori”. Non c’è nessuna fonte
ottomana dei primi tempi che registri questo termine ma la cronaca di
Sshikpashazade del tardo quindicesimo secolo ci dice che nel quattordicesimo
secolo aveva il significato di “comandante dell’esercito”. Specificamente la
ricollega al comandante in Europa di Murad I, Lala Shahin, e al suo successore,
Kara Timurtash. Probabilmente intorno al 1400, essa aveva acquistato il senso
di “Governatore generale di una provincia”. Questo non era comunque tanto un
cambio di significato quanto una estensione, dal momento che il ruolo più
importante di un governatore generale era comandare le truppe assegnatarie di
feudi nella sua provincia. In tempi di guerra, esse si sarebbero riunite sotto
il suo stendardo e avrebbero combattuto come una unità dell’esercito del
Sultano. Comunque, come governatore territoriale il beylerbey ora aveva responsabilità più ampie. Giocava un ruolo
importante nella distribuzione dei feudi nella sua provincia e aveva la
responsabilità del mantenimento dell’ordine e nel dispensare la giustizia. Il
suo entourage, come quello del Sultano nella capitale, era il centro politico
della provincia.
Il
mercante genovese alla corte di Maometto II, Iacopo de Promontorio, ha lasciato
una decrizione del governatore generale di Rumelia intorno al 1475, che dà un
buon resoconto delle funzioni di un governatore generale tra il 1400 e il 1600
circa: “il beylerbey di Rumelia ha
sotto di sé 17 capitani, ciascuno con un proprio seguito…; e oltre questo ha in
particolare sotto di sé 1.500 combattenti con il proprio soldo, che egli paga
con i suoi fondi. Ha una rendita in Rumelia di 32.000 ducati, tramite diversi
benefici e, inoltre, notevoli
emolumenti, principalmente 4.000 ducati dai suddetti capitani, e similarmente dal
notevole numero di altri meno importanti uffici, che concede a chiunque lui
voglia. Tuttavia è obbligato, in tempi di guerra, a portare con sé, a proprie
spese, i suddetti uomini, tutti a cavallo, un terzo di essi con arco, frecce,
corazza, cotta di maglia, scudo, spada, lancia e mazza di ferro, con 150
cavalli con corazza, tutti in buono stato; il resto con archi, frecce, spade,
scudo, mazza e lancia, a parte quelli a cui il signore stesso concede corazze,
elmetti, archi e cotte di maglia. Egli tiene corte a palazzo in grande stile,
come il Gran Turco, in accordo al proprio rango. Impone sentenze di morte e in
tutte le altre materie agli abitanti della Rumelia e delle sue province de iure e de facto, e tutto quello che fa è approvato dal Gran Signore senza
alcuna protesta. Mantiene presso di sé due ufficiali… e due giudici come
deputati ad amministrare la giustizia; essi godono di 4.000 ducati per le spese
della carica tra tutti e quattro, insieme con consistenti emolumenti”.
L’ufficio
di governatore generale era il più prestigioso e il più lucroso nel governo
provinciale, ed era tra i governatori generali che il Sultano quasi sempre
sceglieva i suoi visir. C’era anche, sembra, una gerarchia tra i governatori
stessi. Il governatore più alto in grado era il Governatore generale della
Rumelia, che, dal 1536, aveva il diritto di sedere nel Consiglio Imperiale. La
precedenza tra i rimanenti, secondo Ayn Ali nel 1609, seguiva l’ordine in cui
le province erano conquistate, sebbene egli non chiarisca se questo ordine
avesse un significato diverso da quello puramente cerimoniale. Comunque, prima
del 1650, ci fu un altro sviluppo. Durante questo periodo, iniziò la pratica di
nominare alcuni governatori generali col rango di Visir. Un governatore visir,
secondo il cancelliere Abdurrahman Pasha nel 1676, aveva potere di comando nei
confronti dei governatori delle province vicine che “dovevano riferirsi a lui e obbedire al suo comando”. Inoltre,
“quando i governatori generali col grado di visir terminano l’incarico provinciale,
essi hanno competenza per le cause e continuano ad esercitare il comando di
visir fino a che non arrivano ad Istanbul”.
I
distretti che componevano una provincia erano conosciuti come sanjak, ognuno sotto il comando di un
governatore di distretto o sanjak beyi
(“signore di un sanjak”). Il numero
di sanjak in una provincia variava
considerevolmente. Nel 1609 Ayn Ali notava che la Rumelia aveva ventiquattro sanjak, ma che sei di questi nel
Peloponneso erano stati staccati per formare la provincia separata di Morea.
L’Anatolia aveva quattordici distretti e la provincia di Damasco undici.
C’erano, inoltre, parecchie province che non erano divise in sanjak. Queste, nella lista di Ayn Ali,
erano Basra e parte della provincia di Baghdad in Iraq, Al-Hasa nel nor-est
dell’Arabia, e Egitto, Tripoli, Tunisi e Algeri nel Nord-Africa. Egli aggiunge
alla lista lo Yemen, notando che “al momento gli Imam ne hanno usurpato il
controllo”.
Queste
province erano, comunque, eccezioni: la tipica struttura era quella della
provincia suddivisa in sanjak.
Intorno al sedicesimo secolo, questi presentavano una struttura amministrativa
razionale dei territori, basata normalmente sulla città o l’insediamento dal
quale il sanjak prendeva il suo nome
e con una popolazione di circa 100.000 persone. Comunque, questo non era sempre
il caso.
Sembra
più probabile che prima della metà del quindicesimo secolo, il fattore più
importante nel determinare la struttura dei sanjak
era l’esistenza di precedenti signorie e principati, e di aree dove i signori
di frontiera avevano acquisito territori per se stessi e i loro seguaci. Alcuni
sanjak di fatto preservavano i nomi
delle dinastie che vi avevano regnato prima della conquista ottomana. Il gruppo
di nomi più singolare appare
nell’Anatolia occidentale, tra le coste dell’Egeo e del Mediterraneo e l’alto
plateau. Qui i sanjak di Karesi,
Saruhan, Aydin, Menteshe, Germiyan, Hamid e Teke preservano i nomi di dinastie
che esistevano prima della conquista. In Rumelia, Kyustendil in Bulgaria è una
contrazione di “Konstantin-eli” (“terre di Costantino”), menzionate col nome
del loro signore, Constantine Dejanović, ucciso in battaglia nel
1395. Karlieli (“terre di Carlo”) in Epiro mantiene la memoria del suo
precedente signore, Carlo Tocco, che morì nel 1429. Il nome del sanjak di Dukakin nell’albania del nord
è un ricordo della signoria locale del clan Dukagjin (“Duca Giovanni”).
La
lista di Iacopo de Promontorio dei diciassette – ai suoi tempi – sanjak di Rumelia ci fa capire come
l’amministrazione ottomana manteneva i confini delle signorie pre-ottomane.
L’Albania e divisa da lui in due: “Albania degli Araniti”, comprendengte le
terre del sud, che appartenevano fino agli inizi del quindicesimo secolo al
clan degli Araniti, e “Albania di Scanderbeg”, comprendente le terre più a nord
che erano appartenute alla famiglia Castriota, e specialmente al suo membro più
famoso, Scanderbeg, che aveva resistito al dominio ottomano tra il 1444 e il
1466. La Bosnia in questa lista appare avere due sanjak, l’autoesplicativo “Regno di Bosnia” e l’”Altra Bosnia”,
presumibilmente l’Erzegovina. Anche la Serbia è divisa da Iacopo in “Serbia di
Lazar”, in riferimento al territorio del principe Lazar, che perdette la vita
nella battaglia di Kosovo del 1389, e la “Serbia del Despota”, presumibilmente
le terre di Giorgio Brankovic lungo il Danubio.
Nel
periodo immediatamente successivo alla conquista, i sanjak ottomani mantennero più che i nomi dei precedenti
governanti. Dove sopravvivono i registri catastali delle terre conquistate,
essi spesso rivelano i nomi di tenutari di feudi che evidentemente avevano
occupato la stessa posizione prima della conquista. Per esempio, il registro
catastale della Albania del sud, datato 1431, mostra un numero di tenutari
cristiani, che erano chiaramente sopravvissuti dai precedenti regimi. Nel
confine orientale dell’Impero il primo registro catastale del sanjak di Amid, fatto nel 1518, designa
un gruppo di tenutari come “Akkoyunlu”, evidentemente uomini del clan o
nominati dalla dinastia degli Akkoyunlu che aveva governato l’area fino al
1503. Questi sopravvissuti garantivano
una continuità tra il vecchio ordine e il nuovo. Nondimeno, è egualmente chiaro
che i nuovi signori ottomani cercavano di controbilanciare l’influenza di
questi rappresentanti del vecchio regime dando anche feudi nei distretti di
nuova conquista a uomini provenienti da aree distanti dell’Impero. Il registro
del 1431 dell’Albania mostra un gruppo di tenutari “di Saruhan”. Questo è il
vecchio principato dell’Anatolia occidentale che Mehmed I aveva alla fine
annesso nel 1417, nello stesso tempo in cui le sue forze avevano occupato
l’Albania del sud. Ciò che Mehmed fece fu rimuovere i tenutari di feudi di
Saruhan dove essi avevano connessioni locali, e trasferirli in Albania, dove
non ne avevano. La loro unica fonte di patronato e protezione era il Sultano
ottomano, i cui interessi essi avrebbero dunque protetto da ribellioni locali.
Il registro del 1518 di Amid mostra l’applicazione dello stesso principio. Gli
Akkoyunlu del sanjak avevano terre di
modesto valore: il feudo di maggior valore era andato ad un uomo registrato
come “della Rumelia”.
La
pratica di controbilanciare tenutari locali con tenutari non locali nelle terre
di nuova conquista probabilmente datava dall’inizio del quindicesimo secolo.
Nella battaglia di Ankara del 1402, una importante causa della sconfitta di
Bayezid I fu la diserzione a favore di Timur di truppe dai vecchi principati
dell’Anatolia occidentale, che Bayezid aveva annesso nel 1390. Questi uomini
disertarono quando videro i loro precedenti signori nell’armata di Timur. Fu
forse questa esperienza che convinse i sultani della necessità di importare
elementi forestieri nei distretti appena
conquistaati come un contrappeso ai tenutari locali che erano sopravvissuti al
cambio di regime e di deportare alcuni degli uomini locali in province distanti
dove non avevano connessioni.
Immediatamente
dopo la conquista, dunque, un sanjak
ottomano spesso manteneva i confini di una signoria pre-ottomana, e normalmente
aveva una élite di tenutari di feudi composta da sopravvissuti dal vecchio
regime e da nuovi insediati e deportati.
Nel giro di una generazione, i sopravviventi e i loro discendenti avrebbero
spesso perso la loro identità non-ottomana, in particolare attraverso la
conversione dei cristiani all’Islam. Con la loro assimilazione un’area che era
stato un principato indipendente, o parte di uno, sarebbe diventata un tipico sanjak ottomano. Il passaggio del tempo
poteva anche portare cambiamenti nei confini dei sanjak. Per esempio la lista di sanjak
del veneziano Lauro Quirini, che sembra
riflettere la distribuzione del 1430, elenca Bergama e Manisa come unità
indipendenti. Al tempo successivo di Iacopo de Promontorio nel 1475, essi erano
divenuti parte dei sanjak di Kaesi e
Saruhan rispettivamente.
Non
tutte le province e sanjak comunque
persero la loro specifica identità. Le difficoltà che Maometto II e Bayezid II
(1481-1512) incontrarono nel sopprimere la dinastia di Karaman indicano come
forti particolarismi locali potevano continuare ad esistere. Perdipiù, alcuni
pochi notabili mantenevano diritti ereditari al governo. Importanti tra questi erano i signori delle
province di frontiera, che già nel quattordicesimo secolo erano emersi come una
forza politica in Rumelia. Le loro origini non sono chiare, ma alcuni si erano
chiaramente convertiti all’Islam e si erano uniti ai turchi invasori. Il nome
di una di queste famiglia, Mihaloglu – “figli di Michele” – era così
chiaramente cristiano che durante il quindicesimo secolo emerse una leggenda
che descriveva la conversione del primo “Michele” e la sua associazione con
Osman, il primo della linea genealogica ottomana. Il nome di un'altra famiglia
di una marca di frontiera , Malkochoghlu, appare essere anche qui una forma
turca dello slavone “Marković”, suggerendo che si tratti
dei discendenti di Marko, un signore macedone, il cui padre, Vlkashin, aveva
perso la sua vita nella battaglia di Maritsa nel 1371. Comunque, il più grande
dei signori di frontiera ad emergere nel quattordicesimo secolo era Evrenos, la
cui lapide ricorda il nome di suo padre come Isa, indicando una discendenza
musulmana turca. I nomi degli altri signori di frontiera, come Turahan, che
emerge nella prima metà del quindicesimo secolo, suggeriscono anch’essi origini
turche.
Questi
signori non solo comandavano gli eserciti
ottomani in Rumelia, ma esercitavano anche poteri politici. Evrenos, per
esempio, era un negoziatore nei colloqui che portarono al trattato di Gallipoli
nel 1403. Suo figlio, Barak, condusse negoziati con Venezia nel 1409. Mihaloglu
Mehmed servì sia il principe Süleyman che il principe Musa
durante la guerra civile del 1402-13. La sua diserzione a favore del principe
Mehmed nel 1411 fu un importante fattore nella confitta di Musa. Cosa più
importante, comunque, i signori di frontiera emersero come magnati
territoriali. Il nucleo dei vasti possedimenti di Evrenos era intorno Yiannitsa
nella valle del Vardar a ovest di Tessalonica, mentre i Migaloghlu erano
signori di Vidin, sul danubio, nella Bulgaria nord-occidentale. Come signori
territoriali essi e i loro discendenti mantennero diritti ereditari al
governatorato in Rumelia. Lauro Quirini, per esempio, registra un sanjak nella Grecia centrale sotto il
nome del suo signore, Turahan. Questo sanjak
era scomparso al tempo in cui Iacopo fece la sua lista nel 1475, ma la famiglia
di Turahan continuò ad occupare posizioni come governatori di sanjak. “Evrenos”, d’altra parte, appare
sia nella lista di Lauro e di Iacopo
come designazione del sanjak
che comprendeva le terre della sua famiglia in Macedonia. Iacopo aggiunge la
nota: “un gran signore, già Ali Bey
figlio di Evrenos… [dei 1500 guerrieri del sanjak]
la maggioranza sono suoi schiavi”. Nel
sedicesimo secolo il nome “Evrenos” come designazione di un sanjak era scomparso, sebbene le terre
di famiglia rimanevano intatte, e membri della famiglia mantenevano un diritto
ereditario al governatorato. La lista di sanjak
del 1527 registra un membro della famiglia Evrenos come governatore di Kruševac
in Serbia, e membri della famiglia Mihailoglu come governatori di sanjak di Vidin e Nikopol sul Danubio in
Bulgaria. Fu a membri della famiglia Malkoch che il Sultano assegnò il
governatorato ereditario della Bosnia dopo la sua conquista nel 1463.
I
poteri locali e le pretese agli uffici dei grandi signori di frontiera e dei
loro discendenti limitavano la discrezionalità del Sultano nell’organizzare il
territorio e nel fare nomine ai governatorati in Rumelia. Nondimeno, sembra che
almeno dalla metà del quindicesimo secolo, i sovrani ottomani tentarono di restringere la loro influenza. Non sembra che
essi avessero più parte nei consigli
centrali di governo, come avevano nel quattordicesimo ed inizio del
quindicesimo secolo, e sembra che nessuno di essi sia arrivato oltre il rango
di governatore di sanjak. Le
famiglie, comunque sopravvissero – nel caso delle famiglie Evrenosoghlu e
Muhaloghlu, fino ad oggi – e la loro influenza locale continuò.
Dinastie
semi-indipendenti anche sopravvissero in alcune aree delle province anatoliche
ed arabe. Questo non erano, comunque discendenti dei signori ottomani di
frontiera, ma piuttosto signori che erano localmente tropp potenti per poter
essere rimossi dal Sultano. Per esempio, nelle paludi dell’Iraq meridionale e
nelle propaggini desertiche dell’Arabia il Sultano si sforzò di guadagnarsi la fedeltà di capi tribali di
fatto indipendenti dando loro il titolo di Governatore di sanjak. Fu ad esempio con questi mezzi che Selim II (1566-74) nel
1567 tentò di porre fine alla ribellione dell’arabo delle paludi, Ibn Ulayyan,
nel delta del Tigri e dell’Eufrate. Nella Turchia del sud-est, i territori dei
signori curdi erano anch’essi semi-indipendenti. Erano divenuti parte
dell’Impero dopo la battaglia di Chaldiran nel 1514, come risultato di
negoziati con l’agente di Selim I (1512-20), Idris di Bitlis. Nel 1609, Ayn Ali
annotò il loro status formale. Elencando i sanjak
della provincia di Dyarbekir egli nota che essa possiede dieci “distretti
ottomani” e, in aggiunta, sei “distretti dei signori curdi”. In questi casi,
quando un signore moriva, il governatorato non andava ad un estraneo, ma a suo
figlio. Sotto altri aspetti, comunque, essi apparivano simili a normali sanjak ottomani nel fatto che le entrate
erano registrate ed allocate a tenutari di feudi che andavano in guerra sotto i
loro signori. In aggiunta, comunque, Ayn Ali
notava che c’erano cinque “sanjak
sovrani” con i loro signori di cui veniva disposto come “proprietà privata”, e
che erano al di fuori del sistema del governo provinciale. Ayn Ali registra simili distretti indipendenti o
semi-indipendenti nella provincia di Çildir nella Turchia del nord-est
e, più famosi, nella provincia di Van dove i Khan di Blitis governavano
indipendentemente fino al diciannovesimo secolo. C’erano altre aree, anche che
godevano di autonomia o semi-autonomia. Nella seconda metà del sedicesimo
secolo, Kilis divenne governatorato ereditario della famiglia Janbulad, mentre
Adana rimase sotto il dominio della dinastia pre-ottomana dei Ramazanoghlu. Nel
Libano, Ayn Ali si riferisce ai capi drusi con la nota “ci sono signori
non-musulmani sulle montagne”
C’erano
altre enclavi autonome nell’Impero, che ricevessero o meno riconoscimento formale come sanjak ma, arrivati al sedicesimo
secolo, queste erano delle eccezioni. La maggior parte dei sanjak in tutto l’Impero erano sotto il governo di persone nominate
non ereditariamente, che non avevano relazioni familiari o territoriali
permanenti con l’area.
L’ufficio
di governatore di sanjak era simile a
quello di governatore generale in una scala più modesta. Come il governatore
generale il governatore di sanjak
traeva il suo reddito da una prebenda, che consisteva normalmente di rendite
dalle città, attracchi , porti presenti nei confini del suo sanjak. In aree dove non esistevano
città o dove le entrate che tipicamente andavano al governatore di sanjak erano state assegnate al
governatore generale o al Sultano, allora avrebbe tratto le sue entrate da
imposte agricole. Il primo registro catastale ottomano di Shköder
nell’Albania del nord, per esempio, mostra che nel 1485, le rendite dei dazi,
degli attracchi e dall’industria della pesca del lago Boyana erano state assegnate
al Sultano, mentre il governatore del sanjak
traeva le sue rendite dalla città di Paje e dai villaggi circostanti. Un
governatore di sanjak di prima nomina
poteva ricevere da 150.000 a 200.000 akce
all’anno. Per la metà del sedicesimo secolo, 200.000 sembra essere stata una
cifra normale. Egli poteva, comunque, ricevere un incremento delle sue entrate,
sia come ricompensa per la bravura in battaglia o per qualche altra ragione o
ricevendo una nomina nuova e più lucrativa nell’area. Un governatore anziano di
sanjak poteva aspettarsi di ricevere
da 500.000 a 600.000 akce,
probabilmente mentre serviva in un distretto con alto reddito.
Come
il governatore generale, il governatore di sanjak
era anche un comandante militare. il termine sanjak significa “bandiera” o “stendardo” e, in tempi di guerra, i
cavalieri che avevano feudi nel suo sanjak
si radunavano sotto il suo vessillo . Le truppe di ciascun sanjak, sotto il comando del loro governatore, si sarebbero
aggregate come un esercito e combattevano sotto la bandiera del governatore
generale della provincia. In questo modo, la struttura di comando sul campo di
battaglia rispecchiava la gerarchia dei governi provinciali.
All’interno
del suo sanjak, un governatore era
responsabile soprattutto per il mantenimento dell’ordine e, con la cooperazione
dei tenutari di feudi, per l’arresto e la punizione dei malfattori. Per questo,
normalmente riceveva metà delle multe imposte sui miscredenti, con il tenutario
di feudo sulle cui terre si era verificato il misfatto che riceveva l’altra
metà. I governatori di sanjak avevano
anche altri doveri – per esempio la caccia ai banditi, le indagini sugli
eretici, la fornitura di provviste per l’esercito, o l’invio di materiali per
la costruzione di navi – se il Sultano lo comandava. I governatori sulle
frontiera avevano anche funzioni militari speciali. Verso la fine del
quindicesimo secolo, per esempio, il governatore sanjak di bosnia aveva il dovere di fare raid annuali, normalmente
in Ungheria. Similarmente, la famiglia Mihaloghlu non solo deteneva il
governatorato ereditario di Vidin, ma anche il comando dei razziatore (akinci), le truppe che nel quindicesimo
e sedicesimo secolo avevano terre esenti da imposte in Rumelia in cambio di
raid annuali attraverso il danubio o della funzione di avanguardia e truppe d’assalto dell’esercito ottomano. I governatori di sanjak nelle regioni di confine potevano
allo steso modo avviare negoziazioni con l’altra parte del confine riguardo, ad
esempio, la restituzione di schiavi fuggiti o il ritorno di prigionieri,
secondo i termini dei trattati.
Un
governatore di sanjak non aveva,
comunque, autorità su tutti i sudditi del sovrano nel suo distretto. Ciò che
definiva l’autorità era soprattutto il diritto di prelevare imposte e
specificamente i diritti di intascare le pene pecuniarie. I governatori di sanjak prelevavano imposte da terre e
proprietà che avevano come prebende, e chiaramente avevano piena autorità in
queste aree, come avevano anche riguardo le terre assegnate ai tenutari di
feudi, dove avevano usualmente il diritto di intascare metà delle pene
pecuniarie. Comunque, alcune aree o proprietà formavano una prebenda del
Sultano o del governatore generale, e alcuni feudi erano “liberi”, ciò che
significava che il tenutario teneva per sé tutte le pene pecuniarie. In queste
aree, gli uomini del governatore di sanjak
non avevano diritto di entrare. In aggiunta, le terre e le proprietà private, e
quelle che appartenevano alle fondazioni, non ricadevano sotto l’autorità del
governatore del sanjak. A questo
riguardo, il governo entro un sanjak
non era uniforme. Province e sanjak
non erano, comunque, le uniche divisioni amministrative dell’Impero. Ogni paese
e città nei regni del Sultano aveva un giudice, che agiva come giudice e notaio
nel suo distretto giudiziale, e anche come ufficiale reale che assicurava
l’esecuzione dei comandi del Sultano. Il giudice, a differenza del governatore
del sanjak, aveva autorità in tutta
la sua area, con il suo potere che formava ciò che è stato chiamato “un sistema
parallelo” di amministrazione.
Prima
del 1600 circa il governatore del sanjak,
oltre il giudice, era forse la figura più importante nella amministrazione
provinciale ottomana. Nondimeno la mancanza di documenti risalenti a prima
della metà del sedicesimo secolo rende impossibile sapere chi erano i
governatori dei sanjak o come
progredivano le loro carriere. Prima del sedicesimo secolo, molti
presumibilmente detenevano diritti ereditari come discendenti di precedenti
signori o dinastie. Oltre queste, i sultani dovevano aver nominato alcuni
uomini cresciuti nella loro casa. Agli inizi del sedicesimo secolo una
struttura chiara era emersa.
Come
era stato il caso sin dal quattordicesimo secolo, figli dei sultani regnanti
ricevevano governatorati di sanjak una
volta raggiunta l’età della pubertà. Secondo il cosiddetto “libro delle leggi
di mehmed il conquistatore” i membri maschili della famiglia reale in linea
femminile avevano anch’essi il diritto di ricevere un governatorato di sanjak, ma non a nomine superiore a
questa. Le famiglie dei signori di frontiera della Rumelia avevano anche un
diritto automatico, o a un governatorato in generale o a quello di uno
specifico distretto. Nella Turchia orientale e nell’Iraq del nord, i signori
curdi e i govarnatori di “sanjak
sovrani” governavano per diritto dinastico. Un numero molto maggiore di
governatori di sanjak, comunque,
erano diplomati del Palazzo e, in questo senso, membri della stessa casa del
Sultano. Un libro di leggi del regno di Selim II di fatto elenca i quindici “agha dello sperone” aventi le qualifiche
per il governatorato. Questi erano l’agha dei giannizzeri e il suo secondo in
comando, i comandanti delle sei divisioni della cavalleria di palazzo, il
Cancelliere, il Maestro dello stendardo, il Capo portiere, il Maestro delle
stalle, il Capo assaggiatore e il Capo falconiere. Nel 1609, Ayn Ali doveva
ripetere questa lista con alcune omissioni. Non è chiaro se a promozione a
governatore di sanjak era sempre così
lineare, ma alcune carriere seguivano certamente questo percorso. Lutfi Pasha,
per esempio, che doveva divenire gran visir nel 1539, aveva servito come
maestro dello stendardo e capo portiere nel Palazzo prima di “uscire” per
diventare governatore di sanjak di
Kastamonu. Sokollu Mehmed, che doveva divenire gran visir nel 1566, aveva
servito come portiere prima di “uscire” nel 1546 come governatore di sanjak di Gallipoli e come ammiraglio.
Comunque
i governatori di sanjak che erano
stati promossi da queste posizioni di rango più elevato nel palazzo formavano una minoranza. Ce
n’erano molti di più che si erano spostati dal palazzo o dal servizio del
governo centrale, a un posto minore nel governo provinciale come intendente dei
registri dei feudi e da lì erano avanzati fino a diventare un governatore di sanjak. Negli anni ’70 del 1500, più di
un terzo di governatori provinciali avevano raggiunto la loro posizione attraverso questa via. Un
gruppo più piccolo, – poco più del dieci per cento in questo periodo – doveva
la sua ascesa al fatto di essere un parente o un membro della casa del
governatore. Questo schema di reclutamento era probabilmente tipico del
sedicesimo secolo fino agli anni ’80 del 1500.
La
durata di un governatore di sanjak
era normalmente meno di tre anni. Come regola, poteva attendersi una nuova
nomina in un differente sanjak,
spesso nella stessa provincia o regione, e spesso con la possibilità di un
incremento del valore della sua prebenda La procedura per la nuova nomina non è
chiara in tutti i suoi aspetti. I documenti indicano che era il governatore
generale che raccomandava il candidato,
che doveva presentare la raccomandazione al Gran Visir, per essere raccomandato
al Sultano. Quando il Sultano aveva approvato, il Consiglio Imperiale avrebbe
mandato un decreto al Governatore generale informandolo della nomina e
ordinandogli di mettere insieme le prebende
da cui il nuovo governatore del sanjak
doveva trarre le sue entrate. Il governatore generale avrebbe allora dato al candidato un
memorandum di nomina da portare al Palazzo, dove egli avrebbe ricevuto lettere
patenti che gli conferivano la sua nuova posizione. Era a questo punto che egli
ufficialmente assumeva l’ufficio.
I
governatori di sanjak non potevano,
dunque fare carriera in un unico sanjak.
Ciascun incarico era, come regola, di breve durata, sebbene lo spostamento da
distretto a distretto consentiva di incrementare le entrate a ciascun nuovo incarico.
Perdipiù, durante il quindicesimo e sedicesimo secolo, rivestire il ruolo di governatore
di sanjak era, come regola, un passo
necessario per cercare la promozione a governatore generale. Al di fuori dei sanjak ereditari,comunque, ogni nomina
era un dono del Sultano, e gli spostamenti frequenti impedivano al governatore
di acquistare un forte seguito locale e di stabilirsi come signore
indipendente.
Le
terre senza un sanjak ricadevano
normalmente in tre categorie. Anzitutto c’erano le terre di proprietà privata.
In secondo luogo, c’era la terra che faceva parte di una fondazione, e in terzo
luogo c’era la terra che era a disposizione del Sultano. Le terre private erano
relativamente poche, dal momento che i sultani tendevano a tenere quanta più
terra possibile sotto il loro controllo, ma anche perché le leggi musulmane
sull’eredità ponevano l’accento sulla divisione della proprietà tra gli eredi
alla morte del proprietario. Le famiglie preferivano, dunque, non tenere la
proprietà in questa forma. Le terre delle fondazioni, d’altra parte, erano
diffuse in tutto l’Impero. Queste erano terre o proprietà le cui rendite
andavano a finanziare lo scopo che il
fondatore aveva indicato nell’atto fiduciario, tipicamente una moschea, un
ospizio, un ponte o una fontana. Le rendite potevano anche, comunque, andare a
mantenere il fondatore, la sua famiglia e i suoi discendenti e, dal momento che
le fondazioni erano perpetue e la loro proprietà indivisibile questa era la
forma legale in cui le famiglie spesso preferivano tenere le loro terre. La
categoria più diffusa di terre entro la maggior parte dei sanjak ottomani era comunque baglik
o miri. Entrambe queste parole avevano il semplice significato di
“appartenere a” o “a disposizione del sovrano” ed erano queste terre che il
sovrano distribuiva come feudi.
I
governatori di sanjak non avevano,
sembra, diritto di entrare nelle terre di proprietà privata, o che
appartenevano alle fondazioni, ma solo nelle terre miri. In questo senso un sanjak
ottomano consisteva di un conglomerato di feudi in una particolare area, i cui
assegnatari servivano in guerra sotto il
vessillo del governatore del sanjak,
e aveva al suo interno certe aree dove il governatore non aveva alcuna
autorità.
Verso
il 1500, la terminologia per i tenutari di feudi ottomani si era stabilizzata.
Il termine per i feudi più piccoli, con un valore fino a 20.000 akce all’anno, era timar. Un feudo più grande, con un valore fino a 100.000 akce all’anno era un subashilik, conosciuto più comunemente,
dopo il 1500, come uno zeamet. Il
possedimento più vasto, con un valore annuale di 100.00 akce o superiore era un hass.
Un
tipico timar consisteva di un
villaggio o gruppo di villaggi, e i campi intorno, che il Sultano aveva dato ad
un cavaliere, che aveva il diritto di prelevare le imposte dai suoi contadini
e, in cambio, forniva al Sultano servizio militare. In aggiunta, era
responsabile per il mantenimento dell’ordine sulla sua terra, con il diritto
normalmente si intascare metà delle pene pecuniarie dei puniti. Questi doveri
richiedevano chiaramente che egli risiedesse nel suo sanjak, e normalmente sullo stesso timar, dove avrebbe anche goduto di una estensione di terra per suo
uso privato. Il tenutario del timar non possedeva comunque la proprietà della
terra da cui traeva le sue rendite. Piuttosto, la teneva come una concessione
che il Sultano poteva revocare e avrebbe fatto, specialmente se il cavaliere
non si presentava per il servizio militare.
La
distribuzione della terra come timar era così un modo di mantenere una
ampia e permanente forza di cavalleria, che il Sultano poteva chiamare a
servire nell’esercito durante ogni stagione di campagna. Erano questi tenutari
di timar che costituivano il grosso degli eserciti
ottomani dalla fine del quattordicesimo alla fine del sedicesimo secolo.
Le
origini del sistema chiaramente risalivano al periodo pre-ottomano. Di maggior
rilievo è il fatto che gli imperatori bizantini
cominciarono, dalla fine dell’undicesimo secolo, ad allocare terre come
feudi per mantenere soldati. Essi non davano, comunque, la proprietà della terra
ai soldati, e la concessione era revocabile. La parola greca per tale feudo era
pronoia, e l’apparizione di questo
termine nel quattordicesimo e quindicesimo secolo in Serbia e nel territorio
albanese posseduto dai veneziani suggerisce che il feudo sul modello bizantino
era diventato diffuso nella penisola balcanica. Sembra probabile, dunque, che
quando Osman e Orhan fecero le loro
conquiste nelle bizantine Bitinia e
Tracia, essi avrebbero trovato intatto il sistema delle pronoia e come il territorio ottomano si ampliò verso occidente
oltre il reame di Bisanzio i loro successori avrebbero incontrato simili
strutture di tenuta di feudi. In origine, dunque, il timar ottomano sembra essere stato
un adattamento del pronoia
bizantino. Sia le pronoia che i timar erano concessioni di terra fatte dal sovrano ad un
soldato; entrambe erano revocabili, e in entrambi i casi il soldato non diventava il proprietario
della terra. C’erano anche singolari similarità di vocabolario. La parola greca
pronoia significa letteralmente
“cura, attenzione”; il termine turco
timar significa esattamente la stessa cosa. La parola greca per la tenuta
di contadini su una pronoia è zeugarion,
che significa letteralmente “giogo”, “paio (di buoi)”; i termini turchi per una
simile tenuta , chift o boyunduruk, significavano la stessa
cosa. La unità di misura bizantina della terra, di quaranta passi è la stremma. La parola significa
letteralmente “torcere”, con riferimento alla corda che misurava. L’equivalente
ottomano per un lotto di quaranta passi quadrati è dönüm,
una parola che significa letteralmente “girare”. IL termine ottomano per “tasse
collegate dovute al tenutario di un timar” è bad-i hava o “vento dell’aria”, una frase che sarebbe strana se non
fosse che il termine bizantino per un simile gruppo di tasse è aër o aërikon. Questi termini che sono fondamentali per il tenutario
ottomano suggeriscono un modello bizantino per il sistema.
C’è
ulteriore evidenza che il sistema ottomano della tenuta dei feudi era un
adattamento di una pratica pre-ottomana. Nella gran parte della Anatolia
centrale e sud-orientale la tenuta dei
timar non si conforma allo schema che si trova in Rumelia, Anatolia
occidentale e altrove nell’Impero, dove tutte le rendite di un timar andavano a sostentare un
cavaliere. Invece, le rendite venivano divise. Una porzione, che includeva
normalmente le imposte sulla terra stessa andavano ad un cavaliere che, come il
tenutario del timar, aveva il dovere di fare il servizio militare. Questa
porzione era a disposizione del Sultano per la distribuzione e la revoca
discrezionale. L’altra porzione, che normalmente includeva la tassa sul
raccolto, apparteneva al proprietario privato che poteva disporne come voleva.
Le origini di questo sistema di rendite divise si trovano chiaramente in un
periodo pre-ottomano e, dal momento che l’area
nel quale operava corrisponde pià o meno ai regni dei selgiuchidi
dell’Anatolia, è ragionevole assumere che era una eredità dei selgiuchidi e dei
principati che succedettero loro. I registri catastali ottomani offrono anche
evidenza che indicano questa origine. Un registro risalente al tempo di Mehmed
II, per esemio, registra che due porzioni private di rendite erano state
comprate dal tesoro selgiuchide e dal Sultano nel 1284 e 1285. Un altro
registro del 1520 annota che il Sultano selgiuchide Alaeddin II aveva concesso
la porzione privata nel 1255. I registri ottomani registrano transazioni simili
occorse sotto i Karaman e gli Akkoyunlu, successori dei selgiuchidi
nell’Anatolia centro-meridionale e sud-orientale. Gli Ottomani sembrano di fatto aver mantenuto
più o meno intatto il sistema che trovarono.
C’erano
dunque due tipi di timar, uno dove
tutte le imposte andavano a mantenere un cavaliere, l’altro dove una porzione
andava a mantenere un proprietario privato. Il primo tipo discende dalla pronoia bizantina, il secondo continua
la pratica dei selgiuchidi dell’Anatolia. Non sorprendentemente, quando il
Sultano introduceva il sistema dei feudi nelle terre di nuova conquista, dove
non esisteva in precedenza, come in Ungheria dopo il 1541, era il primo tipo di
timar, con nessun proprietario
privato, che introducevano.
L’allocazione
di terre come timar forniva il
Sultano di un esercito permanente di cavalieri, dal momento che gli stessi cavalieri
riscuotevano le imposte dai loro timar,
sollevando il tesoro dall’incombenza di riscuotere le imposte e pagare i salari. Nondimeno, il sistema presentava i
suoi problemi. Primo, c’era la questione della mobilizzazione. Quando il
Sultano ordinava una campagna, necessitava di conoscere il numero di truppe
disponibile e le obbligazioni di ciascun uomo riguardo la fornitura di cavalli,
armi, tende e seguito armato; necessitava anche di essere certo che gli uomini
si sarebbero riniti e aggregati all’esercito principale nel punto designato.
Tutte queste cose erano difficili quando i cavalieri erano dispersi in tutto
l’Impero. Secondo, c’era il pericolo che i cavalieri, in particolare in aree
remote, convertissero i loro timar in
proprietà privata che sarebbe sfuggita al controllo del Sultano.
Il
governo era attento a evitare che questo
avvenisse. Faceva questo anzitutto con una sorveglianza burocratica. Subito
dopo la conquista di un distretto, un ispettore
faceva un inventario delle risorse tassabili, mostrando come queste
erano distribuite,come timar ai
cavalieri, zeamet ai loro ufficiali o
hass, assegnate al Sultano, ai
governatori generali o ai governatori del sanjak.
Qualsiasi problema che non riusciva a risolvere, veniva sottoposto
dall’ispettore al Consiglio Imperiale. Egli sottoponeva al controllo del
Sultano il prospetto completato. Una volta approvato l’ufficio catastale della
capitale doveva codificare i risultati in un “registro dettagliato”. Questo
tipicamente mostrava tutte le città,
villaggi, borgate, tribù e terre coltivate in un sanjak. Per ogni insediamento
o tribù forniva i nomi dei capi
maschi della casa, gli scapoli e, in alcune aree cristiane, le vedove, insieme
con le terre che coltivavano. Li avrebbe annotati come “giogo”, “mezzo giogo” o
“meno di mezzo giogo”. Registrava anche i senza terra. In aggiunta, il registro
avrebbe mostrato il reddito stimato per ogni tassa imposta su ogni comunità. Avrebbe mostrato
come queste entrate erano divise tra tenutari dei feudi e il reddito totale
annuale di ciascun feudo, che fosse timar,
zeamet o hass. Una tipica annotazione in un registro avrebbe avuto dunque
l’inizio: “Villaggio di X”, con sotto l’intestazione: “Timar di A, figlio di
B”. Sotto ci sarebbe stata una intestazione “villaggio di X”, con sotto il nome
di ciascun capofamiglia maschio, con una indicazione delle dimensioni del loro
terreno. Sotto di questo avrebbe elencato le tasse che gli abitanti del
villaggio pagavano, insieme con il loro reddito stimato, e finalmente una stima
della somma totale, dalla informazione in questi volumi dettagliati, l’ufficio
del catasto compilava registri riassuntivi,che mostravano il tenutario del timar e gli altri beneficiari delle rendite in un sanjak, e il valore dei loro feudi.
Questi registri, a loro volta, fornivano le informazioni per i registri
dell’adunata che elencavano i nomi di
tutti i cavalieri in un sanjak. Erano
questi che consentivano al comandante in
tempo di guerra di consultare la lista a fronte degli uomini che erano comparsi
e di individuare ogni assente.
Il
problema con i registri dettagliati era che essi divenivano sorpassati quasi immediatamente. Il registro ovviava a
questa difficoltà annotando anzitutto i cambiamenti sui margini.
Frequentemente, ad esempio c’erano nuovi assegnatari dei timar e, in questo caso una nota marginale avrebbe registrato il
nome della nuova persona, insieme con la data e il luogo della nomina. In un
dettagliato registro di Tessalonica risalente a circa il 1445, per esempio,
appare una nota a margine del “Timar di Lagato Rayko”: “Morto. Impiccato quando
fu provato essere un brigante. Trasferito a suo figlio Kraso. Luglio 1451,
Sofia”. Un altro esempio da un registro del 1445 di Skopje annota a margine del
“Timar di Musa, del seguito di Isa Bey [signore di confine]”: “Dato al
giannizzero Yusuf di Stanimaka: ha reso servizio alla fortezza, 16 Luglio 1463.
Campo a Kachanik”. A questo è aggiunto: “Dal momento che questo Yusuf di
Stanimaka ha commesso omicidio questo
timar è stato tolto e dato al
custode dei cancelli, Kirik Musa, schiavo del Sultano… Agosto 1466. Campo a
Prilep”. Queste note a margine erano sufficienti per alcuni anni, ma il
passaggio di una generazione richiedeva un nuovo registro. Divenne
consuetudine, dunque, ogni venti anni circa, di fare un nuovo registro,
registrando di nuovo tutti i dati necessari. Una copia del registro per ciascun
sanjak rimaneva nell’Ufficio del
Registro di Istanbul; il governatore del sanjak
teneva l’altra.
Questo
sistema di tenuta dei registri metteva in grado il governo del Sultano di
tenere traccia dei nomi e del numero di assegnatari di timar in tutto l’Impero, e così anche di conoscere il numero
totale di cavalieri disponibili per la guerra. Rendeva anche possibile
controllare la consistenza delle obbligazioni di ciascun cavaliere. Un
cavaliere doveva condurre con sé in campagna non solo un cavallo, ma anche le
sue armi e la sua armatura, tende e uno o due seguaci armati, il livello dei
suoi obblighi dipendendo dal valore
della rendita del suo Timar. Molti dei registri che sopravvivono dal
quindicesimo secolo registrano questi obblighi insieme con altri dettagli del timar. Per esempio, un timar che appare nel registro albanese
del 1431-32 nota che un certo “Abdullah, [ex] paggio delle pantofole [del
Sultano]” deteneva un timar del
valore di 5310 akce. Per questo, egli
doveva presentarsi in campagna “di persona” con armatura completa, un uomo
armato, un attendente e una tenda. La pratica di scrivere queste “note su
uomini e tende” nei registri scomparve nel sedicesimo secolo ma per allora l’esistenza di un codice generale che
esponeva le obbligazioni degli assegnatari dei feudi le aveva rese non
necessarie. Il valore delle entrate del cavaliere, confrontato col codice, avrebbe
determinato il livello delle sue obbligazioni.
I
registri erano gli strumenti più importanti attraverso i quali il Sultano
sorvegliava e controllava i suoi cavalieri assegnatari di timar. La pratica stessa di distribuire terre come timar, secondo lo schema delle pronoia bizantine deve datare dalle
prime decadi dell’Impero e probabilmente perfino dal tempo di Osman. La
pratica,comunque, di creare dei registri, si sviluppò più tardi. I primi
registri completi o frammentari datano dal 1431-32, ma questo dimostra un sistema già sviluppato di registrazioni
, suggerendo che ispettori e impiegati avevano compilato tali registri per
parecchie decadi almeno. Nell’assenza di una chiara evidenza, è impossibile
essere certi ma è probabile che la pratica iniziò nel regno di Bayezid I
(1389-1402). Questo emerge da una diatriba contro la centralizzazione del
governo sotto Bayezid, che appare nelle cronache popolari ottomane del tardo
quindicesimo secolo. Queste fanno il commento che quando Hayreddin Chandarli e
Kara Rüstem “vennero alla corte ottomana, essi riempirono il mondo di sotterfugi : inventarono i registri
dei conti e iniziarono ad ammassare moneta. Quando Chandarli Ali divenne Visir,
l’immoralità aumentò”
Gli
ottomani evidentemente ereditarono il sistema di tenuta dei registri dagli
Ilkhan, i signori supremi dell’Anatolia selgiuchide dal 1243. Questo è evidente
dal fatto che il linguaggio dei registri, e dei documenti del Tesoro in
generale è persiano, e dall’adozione della stessa scrittura cifrata per
scrivere i numeri che appare nei resoconti degli Ilkhanidi. I registri ottomani
mostrano anche alcune delle caratteristiche delle pratiche fiscali Ilkhanidi
che seguirono le riforme di Ghazan Khan (1295-1304), in particolare il concetto
di anno fiscale, e l’uso di una singola unità di annotazione, nel caso ottomano
l’akce di argento. I registri dei
timar, in particolare, assegnano ad ogni
timar un valore annuale presunto in akce,
ed era questa cifra che determinava le obbligazioni del cavaliere. Questi
residui di pratiche evidentemente ilkhanidi nei registri suggerisce anche che
fu Bayezid I che le introdusse, dal momento che fu lui che si annetté i
territori selgiuchidi e ilkhanidi nella Anatolia centrale e settentrionale e,
per un breve periodo, Karaman. E’ possibile che fu dalle cancellerie che trovò
in queste aree che gli ottomani derivarono il loro sistema.
Fino
al tardo sedicesimo secolo, i registri furono il mezzo principale per tenere
sotto controllo gli assegnatari di timar.
Nel tardo quindicesimo secolo,comunque, il Sultano acquistò un nuovo mezzo di
controllo. Nel 1487, durante il regno di Bayezid II, una nuova ricognizione
fiscale e catastale del sanjak di
Bursa diede luogo alla emissione di un nuovo registro che conteneva, come
introduzione, un libro di leggi che esponeva in dettaglio le tasse e le multe
dovute dai soggetti passivi del distretto ai tenutari dei feudi. In futuro,
tutti i nuovi registri si aprirono con un simile libro delle leggi, che poteva
fungere da fonte di riferimento nello stabilire l’entità dei diritti dei
tenutari di timar e di altri feudi,
specialmente i diritti alle imposte. Nel sedicesimo secolo, ciascun distretto
ebbe il suo Libro delle leggi, che
subiva una revisione ad ogni nuova ricognizione del sanjak e creazione di un nuovo registro. Il regno di Bayezid II vide
anche la compilazione di un libro generale delle leggi, che mirava a
sintetizzare le regole che definivano l’appartenenza alla classe militare –
cioè alla classe degli esenti da imposte – molti dei quali erano assegnatari di
timar, le regole che definivano i
servizi dovuti dai tenutari dei feudi, le obbligazioni dei soggetti che
pagavano le imposte, i regolamenti riguardanti le imposte e altre materie,
incluse le leggi criminali. Questo libro generale delle leggi rappresenta un
intento di armonizzare, per quanto possibile, la pratica dell’assegnazione di timar in tutto l’impero. Esso apparve
nelle sue prime versioni nei tardi anni ’90 del 1400. Seguirono ulteriori
recensioni , fino all’apparizione della versione finale intorno il 1540. La
funzione del libro delle leggi era presumibilmente di dare un quadro normativo
alla pratica dell’assegnazione di timar,
e fornire una autorevole fonte di riferimento in caso di dispute. E’
improbabile, comunque, che questo progetto fosse stato completamente coronato
da successo dal momento che in molti luoghi è evidente che le norme del libro
delle leggi variano con il variare di ciò che appare nei registri.
I
registri e i libri delle leggi consentivano al Sultano di tenere sotto
controllo il numero e le identità dei tenutari di feudi, il valore dei loro
feudi e i servizi dovuti, e le leggi che governavano la tenuta dei feudi,
nell’Impero e in ciascun sanjak. In aggiunta, egli giunse a
controllare, per quanto gli fu possibile, il modo dell’assegnazione.
Nel
quattordicesimo e all’inizio del quindicesimo secolo il modo di distribuzione
dei timar era probabilmente informale
e, almeno nelle aree di confine, non completamente sotto il controllo del
Sultano. Alcuni dei primi tenutari di
timar sarebbero stati i sopravvissuti dal regime pre-ottomano che avevano
mantenuto il loro status dopo la conquista ottomana. Tali gruppi emersero in
ciascuna fase della espansione ottomana. I primi registri rimasti della Rumelia
mostrano tenutari di timar cristiani.
Similmente, i registri anatolici mostrano un largo numero di feudi ereditari in
possesso di famiglie o tribù, qualche volta indicanti specificamente che queste
provengono dai tempi pre-ottomani. Un registro della provincia di Karaman, per
esempio, registra un “gruppo di cavalieri del suddetto villaggio, discendenti
di Yavash Bey, [che possedette il villaggio in virtù di] un atto di Mehmed Bey
di Karaman”. Dopo l’annessione del Kurdistan agli inizi del sedicesimo secolo,
i signori curdi continuarono a possedere terre come feudi ereditari in
cambio del servizio militare. Comunque,
molti tenutari di timar agli inizi
dell’Impero erano probabilmente parenti, schiavi e seguaci del Sultano e dei
suoi signori: certamente i registri della Rumelia del quindicesimo secolo
registrano timar in possesso degli
uomini dei grandi signori delle terre di confine. I registri della seconda metà
del quindicesimo secolo, comunque, suggeriscono una crescente regolarità nel
sistema di nomina e un crescente controllo centrale, un processo che culminò in
una serie di decreti del Sultano tra il 1531 e il 1536, che puntavano a
regolarizzare la distribuzione di timar e
a portarla sotto pieno controllo.
Per
far questo, era necessario innanzitutto stabilire chi aveva diritto ad un timar. In primo luogo c’erano i salariati
a corte, tra i giannizzeri o nelle sei divisioni o nel seguito dei pasha. Come
mostrano le prime registrazioni giunte fino a noi, c’erano sempre tenutari di timar provenienti da queste categorie.
Comunque, due decreti degli anni ’30 del 1500, essi stessi probabilmente una
revisione delle leggi del tempo di Bayezid II, tentano di regolarizzare tali
nomine specificando il valore dei timar che essi devono ricevere. Un
custode del cancello del palazzo, per esempio, aveva diritto a un timar di 15.000 akce annuali, come avevano pure certe categorie di ufficiali dei
giannizzeri. Alla morte di un pasha, il suo maggiordomo riceveva un timar del valore di 14.000 akce, ilsuo capo portiere un timar del valore di 13.000 akce, mentre il suo maestro delle stalle
e tesoriere ricevevano entrambi feudi
del valore di 8.000 akce. Per quelli
che erano sul libro paga del Sultano il trasferimento da un incarico salariato
ad un timar probabilmente
rappresentava un abbassamento, perché implicava la privazione del salario e l’abbandono
del palazzo, che era la fonte più prolifica di patronato.
Cortigiani
e soldati, che avevano goduto in precedenza di un salario, formavano una
minoranza di tenutari di timar, come
pure gli occupanti dei feudi ereditari. La maggioranza era formata da quelli
che avevano ereditato dai propri padri. Ciò che un figlio ereditava, comunque,
era un diritto a un timar in
generale, piuttosto che del timar di
suo padre in particolare. Questo diritto era pure soggetto a restrizioni, che
un decreto del 1531 indirizzato al governatore generale di Rumelia cominciò a
codificare. Secondo questo documento, se
il tenutario di uno zeamet del valore
da 20.000 a 50.000 akce annuali
moriva in battaglia e aveva tre “valenti” figli, questi dovevano ricevere timar rispettivamente di 6.000. 5.000 e
4.000 akce rispettivamente. Se lo
stesso tenutario dello zeamet doveva
morire a casa allora due dei suoi figli avrebbero ricevuto il diritto a feudi
del valore di 5.000 e 4.000 akce. Il
documento continua in questo modo, mostrando diritti degli eredi a timar di differente velore, terminanto
con coloro il cui timar vale meno di
10.000 akce. In questo caso, se il
tenutario di timar muore in battaglia
due “valenti” figli ricevono timar di
3.000 e 2.000 akce; se muore a casa
entrambi ricevono timar di 2.000 akce. E’ chiaro da queste
regolamentazioni che non tutti i figli
avevano diritto ad un timar. Se un
feudo valeva più di 20.000 akce
annuali, tre figli, e se valeva meno due figli, ereditavano il diritto. Un
decreto del 1536 reitera questo ultimo punto “Per quanti figli gli
sopravvivano, [i timar] devono essere
dati a due dei suoi figli, in accordo col mio comando precedente”
Un
figlio con un diritto ereditario poteva occupare un timar a qualsiasi età. Comunque, se il tenutario di un timar era ancora un bambino, doveva
mandare un uomo armato in guerra al suo posto, e servire di persona una volta
raggiunta la maturità. Questo è quanto stabilisce il decreto del 1536, con la
precisazione che, fino a quel tempo, ogni tenutario di timar sopra i dieci anni di età doveva andare in campagna, ma che
“ora che le campagne sono distanti” l’età del servizio era sedici anni.
I
decreti degli anni ’30 del 1500
suggeriscono che, per quel periodo, i tenutari di timar e zeamet erano
arrivati a formare, entro certi limiti, una casta ereditaria, con ingresso
limitato. Questa era una tendenza che i decreti tendevano a rinforzare.
L’ordine del 1531, al governatore generale di Rumelia, riportava che figli di
soggetti ordinari avevano ricevuto illegalmente feudi e stavano usando la loro
posizione per ricavare denaro e per “trasgredire e interferire”. Il Consiglio
Imperiale aveva confiscato i feudi di alcuni di questi “estranei”. Comunque, il
decreto continua, dall’8 marzo 1531, nessuno di coloro il cui timar è segnato in un registro può
essere designato come “estraneo” o avere tolto il suo timar. Questo stabiliva chi, da quella data in avanti, era membro della casta militare. In secondo
luogo, il decreto stabiliva chiaramente quali dei figli del tenutario di feudo
avevano diritto ad un timar e di
quale valore. Terzo, il decreto provava a far cessare pretese fraudolente. Un
ordine del 1536 a Lutfi Pasha, quando era governatore generale della Rumelia
stabilisce che “truffatori che pretendono di essere figli di cavalieri” accade
che possano domandare timar. In tal
caso, continua l’ordine, dieci tenutari di
timar dovrebbero verificare l’identità del pretendente.
Queste
regole tendevano a limitare l’ingresso nella classe dei timarioti. Nondimeno
estranei indubbiamente acquistavano timar,
e c’era un limitato riconoscimento ufficiale del loro diritto di farlo. Non
tutti i figli automaticamente erano qualificati per ottenere un timar alla morte del loro padre. Quelli
esclusi potevano, comunque, acquisire il
diritto ad un timar prima
della morte mediante servizio volontario nell’esercito. Gli ordinari soggetti
che pagavano le tasse non avevano alcun
diritto di acquistare timar, ma Lutfi
Pasha fornisce le prove che, di fatto, essi lo ottenevano, quando stabilisce le
regole per questo riconoscimento: “se un soggetto ordinario rende eccezionali
servigi e per il crescente favore reale riceve un timar e diviene un cavaliere, non dovreste offrire protezione ai
suoi parenti, padre o madre”. In linea di principio, comunque, dopo gli anni
’30 del 1500, l’acquisto di un feudo seguiva regole stringenti.
Le
regole di successione richiedevano una esecuzione . Il governo ottomano cercava
di ottenerla stabilendo delle procedure per registrare e controllare le nomine
a tenutari di timar e zeamet. Alcuni di tali sistemi devono
essere esistiti dalla fine del quattordicesimo secolo, quando la pratica di
tenere registri evidentemente iniziò, ma è solo dall’inizio del sedicesimo
secolo in avanti che sopravvivono i documenti.
Potevano
volerci anni perché una persona qualificata per un timar potesse ottenerlo: la conquista di un nuovo territorio che
rendeva disponibili nuove terre, o una guerra in cui moriva un gran numero di
cavalieri, fornivano le migliori opportunità. Il primo stadio del processo era,
da parte del governatore generale o del governatore del sanjak, la redazione di una lista di candidati e l’invio in un
registro sigillato al Gran Visir a Istanbul o dovunque egli fosse in campagna.
Il Consiglio Imperiale avrebbe a questo punto redatto un decreto in nome del
Sultano, che ordinava al governatore generale di dare un timar e lo consegnava al candidato. Il passo successivo era per il
candidato di portare questo decreto col diploma di nomina di suo padre al
governatore generale, che avrebbe controllato la validità del diploma o, se
esso era andato perduto, guardare il timar
di suo padre nel registro. Il candidato doveva anche produrre un testimone o
dei testimoni della classe militare che potessero attestare che egli era il
figlio di un cavaliere. Il governatore generale avrebbe allora, quando ne
diveniva disponibile uno, conferire un
timar vacante. Questa non era comunque la fine del processo. Se il timar era in Rumelia e valeva meno di
6.000 akce l’anno o in Anatolia e
valeva meno di 5.000 akce o nelle
province di Karaman, Rum o Maraş e valeva meno di 3.000 akce allora il governatore generale
della provincia poteva lui stesso concedere il diploma di nomina. Questi erano
“timar senza memorandum”.Se,
comunque, il timar valeva di più, il
candidato doveva acquisire un diploma del Sultano da Istanbul. Il decreto del
1531 indirizzato al governatore generale di Rumelia rende le regole più
rigorose: da quella data, tutti i candidati che ricevono un timar per la prima volta hanno bisogno di un diploma del Sultano.
E’ dubbio, comunque, se questa regola fu osservata universalmente.
Perché un candidato acquisisse un diploma del
Sultano, il governatore generale doveva scrivere un memorandum menzionando il
candidato, i testimoni e indicando il timar,
insieme al suo valore. Se il diploma del padre del candidato era perso, egli
avrebbe scritto sul retro: “Il diploma del padre, emesso [nel tale anno] è
perso” Il candidato doveva allora, nel termine di sei mesi, cambiare il
memorandum del governatore generale con un diploma del Sultano.
Questo richiedeva che lui o il suo agente viaggiassero fino ad Istanbul, e si recassero
all’ufficio del controllore dei registri immobiliari, dove un impiegato avrebbe copiato il memorandum nel libro
giornale delle allocazioni di timar nell’appropriato
sanjak. L’ufficio avrebbe anche
stabilito se il valore del timar,
come appariva nel memorandum, coincideva con il suo valore come registrato nel registro riassuntivo dei timar. L’ufficio doveva anche
controllare se l’allocazione avrebbe
dato luogo al frazionamento del nucleo del feudo. In tal caso, la nomina era
invalida. Una volta che i controlli erano stati completati e il memorandum
registrato, esso arrivava al capo impiegato, che avrebbe autorizzato
l’emissione di un diploma in nome del Sultano. Il richiedente poteva allora
prenderlo e tornare al suo timar come
un cavaliere regolarmente nominato.
Una volta in possesso del timar,
un cavaliere aveva l’opportunità di aumentare le sue entrate. Ogni timar aveva un nucleo indivisibile di
terre e rendite. Comunque, era possibile aggiungerne altre a questo nucleo. Per
fare questo un tenutario di timar avrebbe dovuto fare una richiesta al
governatore generale, al governatore del sanjak
o all’ufficiale tenutario di zeamet,
che poteva presentare una richiesta a suo nome. Dopo aver consultato i
documenti, il controllore dei registri immobiliari poteva concedere
l’incremento. La più grande opportunità di acquistare supplementi ad un timar era dopo una battaglia, quando i timar dei morti in guerra divenivano
disponibili. Invero, impiegati e registri accompagnavano l’esercito in
campagna, rendendo possibile redistribuire timar
dopo uno scontro con un nemico. La seguente, per esempio, è una annotazione che
garantisce un supplemento ad un timar in
un registro fatto vicino la scena dell’azione, immediatamente dopo la battaglia
navale di Lepanto nel 1571: “Yalakabad [nel sanjak
di Kocaeli]: il timar di Ivaz
[comprendente] il villaggio di Harmanli e altri, [del valore di] 5.000 akce annuali. Daud, che possiede un timar del valore di 3.000 akce annuali nel suddetto distretto e ha
diritto ad un timar del valore di
7.000 akce, ha fatto richiesta
sostenendo che il soprannominato è morto e il suo timar vacante, e ha richiesto [che sia assegnato a lui]. Questo è
stato stabilito, con il surplus di 1.000 akce”
Non solo i tenutari di timar potevano ottenere un incremento nel valore dei loro timar, essi potevano anche perderli del
tutto. Prima del 1531, sembra che i governatori generali avevano un proprio
potere di rimuovere tenutari di timar.
Il decreto del 1531, comunque, proibisce loro di attribuire crimini a cavalieri
e di togliere loro i timar come
punizione stabiledo che, in futuro, se un cavaliere commetteva una
trasgressione, il governatore generale avrebbe dovuto sottoporre il fatto al
Consiglio Imperiale, che avrebbe preso la decisione se confiscare o meno.
Documenti della fine del sedicesimo secolo indicanti che il consiglio reintegrava cavalieri che i governatori
generali avevano rimosso senza un ordine
in proposito, indicano che questo è ciò che accadeva nella realtà. Una volta
privato del suo timar, un cavaliere
poteva “unirsi alla schiera degli artigiani o commercianti o, entrando nel seguito di un governatore
generale poteva sperare di acquistare un nuovo timar. Il processo di
reintegrazione è un’altra materia che il decreto del 1531 cerca di regolare.
Entro la metà del sedicesimo secolo, dunque,
il governo del Sultano aveva stabilito procedure per controllare l’allocazione
e la tenuta dei timar, e per
determinare il livello del servizio che un cavaliere doveva fornire. La base del sistema era la
tassazione dei contadini, che il governo cercava di controllare, in primo luogo
assicurando che la terra rimanesse coltivata, e in secondo luogo determinando
il livello della tassazione.
Lo status
di contadino su terre distribuite come
timar deve essere variato da area ad area, in accordo con pratiche e
condizioni locali. Nondimeno, certe regole che tendevano ad assicurare che la
terra fosse sotto continua coltivazione sembrano essere state applicate ai
contadini dei timar in tutto
l’Impero. I contadini non erano, strettamente parlando, legati alla terra, ma
in linea di principio la legge proibiva loro di tenere una terra non coltivata
senza pagare una compensazione al tenutario del timar. Un libro di leggi del 1583 per un sub-distretto di Sivas
esprime questo concetto generale: “Dal momento che è un costume accettato
prelevare la tassa per interruzione della coltivazione da coloro che abbandonano
la terra e sfruttano un’altra fonte di sussistenza, questa legge è considerata
valida nel suddetto sub-distretto”. Libri di leggi di altri sanjak forniscono maggiori dettagli. Un
regolamento datato 1539 per il sanjak
di Vize sembra essere tipico: “Se un contadino va in un altro luogo e sono più
di dieci anni dal momento che ha abbandonato il luogo precedente e le sue terre
rimangono non coltivate, secondo la legge, il suo cavaliere deve esigere da lui
la tassa per l’interruzione della coltivazione. Se sono meno di dieci anni il
cavaliere, con la conoscenza del giudice di quel tempo, deve rimuoverlo e
riportarlo alle sue terre” In breve, se un contadino lasciava che un terreno
fosse non coltivato, doveva tornare a coltivarlo o, dopo un certo periodo, pagare
la compensazione. Se, comunque, un altro coltivatore prendeva il suo posto,
egli pagava solo la tassa del giogo sul
suo terreno per l’anno della sua partenza. Lo scopo della legge non era tanto
legare il contadino alla terra, quanto mantenere la terra coltivata.
Altre norme regolavano l’accesso del contadino
alla terra. Colui che subentrava in un terreno doveva pagare una tassa di
entrata al tenutario del timar, e
godeva della sicurezza del possesso per tutto il tempo che continuava a
coltivare il suo possedimento. Se, però, egli lo lasciava incolto per tre anni, l’assegnatario del timar aveva il diritto di scacciarlo.
La stessa regola poteva anche applicarsi se egli convertiva terra arabile in
terra da pascolo, dal momento che la terra da pascolo produceva meno introiti
fiscali e la trasformazione avrebbe avuto come effetto una diminuzione di
rendita per il timar. Infine, il
possesso della terra da parte dei contadini era ereditario, ma solo da padre in
figlio. Figlie e altri parenti potevano succedere, ma solo se il tenutario di timar li considerava capaci di
coltivare e se pagavano un prezzo di entrata.
Il proposito di queste norme era di
massimizzare le rendite della terra per i tenutari del timar, che erano per la più parte cavalieri, e di assicurare la
forza dell’esercito del Sultano.
LE PROVINCE: LE PROVINCE
TRASFORMATE
Il
governo provinciale ottomano, come si era sviluppato tra il quattordicesimo e
la metà del sedicesimo secolo era un sistema razionale. Divideva l’Impero in
province, le province in sanjak e i sanjak in feudi; e cioè in hass, zeamet e timar. I
governatori generali, i governatori di sanjak
e i tenutari di feudi traevano il loro reddito direttamente dalle fonti di
reddito che il Sultano aveva assegnato
loro e, in cambio, essi servivano il Sultano nel governo provinciale, e anche
come esercito di cavalieri. La gerarchia del governo provinciale era allo
stesso tempo una gerarchia militare. Nelle campagne, i governatori generali
erano comandanti in capo di tutte le truppe delle loro province; i governatori
dei sanjak comandavano tutti i
cavalieri che avvevano timar e zeamet
nel loro sanjak. C’era una
gerarchia di comando anche tra i tenutari di feudi, con alcuni dei tenutari di zeamet che operavano come ufficiali al
comando di contingenti di assegnatari di timar.
Anche gli assegnatari di timar andavano
in guerra alla testa di un seguito di uno o più uomini armati.
Il
sistema era chiaramente efficace in entrambe le sue funzioni. Per gran parte
del sedicesimo secolo – un periodo per il quale sono disponibili documenti e
alcuni studi moderni – sembra che vi sia stato
un incremento di popolazione dell’Impero e nella grandezza e nel numero
di insediamenti, suggerendo che questo era, nel complesso, un periodo di
prosperità e stabilità nelle province ottomane. Il relativo buon ordine del
governo provinciale può aver giocato una parte in questo. Più ovviamente,
comunque, il sistema espletava le sue funzioni militari. Anno dopo anno, il
Sultano radunava un esercito di cavalieri dalle province, che poteva dimostrare
con le vittorie il proprio valore.
Intorno
al tardo sedicesimo secolo ci fu un drastico cambiamento. Gli eserciti ottomani
non godevano più delle vittorie dei tempi anteriori. La guerra con l’Austria
del 1593-1606 portò disastri e terminò in uno stallo. In modo ancora più
umiliante, le guerre con l’Iran dopo il 1603 portarono sconfitte e perdite
territoriali. Osservatori contemporanei che commentavano questo declino dalle
precedenti glorie trovavano un’ampia ragione di questo nel guastarsi del
governo provinciale e, dal momento che erano le province che supportavano il
grosso dell’esercito, c’era chiaramente una connessione.
In
Anatolia, in particolare, i commentatori notarono l’impoverimento e la fuga
dalla terra che accompagnarono la ribellione dei Jelali. Un autore anonimo che presentò ad Osman II (1618-22) un
trattato sui problemi dell’Impero e su come curarli rimarcava: “Per esempio,
nella provincia di Sivas c’era tale indigenza e carestia che divenne ben noto
che i contadini mangiavano non solo gatti e cani, ma anche carne umana”. Tali
condizioni, egli continua, hanno condotto a una drastica caduta delle entrate.
In precedenza il Tesoro di Sivas aveva coperto non solo le spese della provincia,
ma aveva rimesso otto milioni di akce
annualmente al Tesoro imperiale. Ora, egli dice, non rimette mai più di un
quarto di milione. L’autore notava anche come visir e governatori provinciali
non possedevano più uomini del seguito e “schiavi valorosi” e armature per
questi, pronti ad andare in campagna nel momento che il Sultano lo ordinava. In
contrasto con questo vecchio ordine, egli descrive la farsesca campagna di
Ahmed I contro i Jelali nel 1605, con
coloro che avevano uffici che lo consideravano come un viaggio di nozze o di
piacere”, con molti che arrivavano in ritardo.
Ciò,
comunque, che colpiva gli osservatori con maggior forza era il collasso del
sistema dei timar, che aveva fornito
un esercito di cavalieri e provveduto a mantenere l’ordine. Nei vecchi tempi,
commenta l’anonimo autore, i feudi in Rumelia, Anatolia e nelle province arabe
avevano prodotto 200.000 combattenti ed era con questi che il sovrano aveva
conquistato territori. Ora, egli continua, molti di costoro sono scomparsi. Il
vecchio sistema di allocare i timar attraverso
i governatori generali è collassato e invece di andare a uomini che si recavano
in combattimento, i timar andavano a
persone prive dei requisiti o cadevano nelle “ceste” degli uomini importanti.
Per “ceste” l’autore si riferiva alla pratica, che divenne comune agli inizi
del diciassettesimo secolo di piazzare da parte di uomini importanti i propri
uomini come assegnatari di timar per
incassarne le rendite. In una domanda
all’autore il Sultano stesso notava che “Visir, governatori generali e
altri titolari di uffici” avevano concesso
timar ai membri del proprio seguito “fino ai gatti e ai cani”. Il risultato
era una perdita del numero di timar che ancora producevano guerrieri.
Invece, sostiene l’autore, quelli che andavano in campagna erano “per la più
parte turchi, zingari, ex briganti e persone che avevano comprato il loro
timar”. La crisi nel vecchio sistema di allocazione e registrazione dei timar aveva anche condotto a dispute
sul loro possesso. Lo scrittore riformatore
Kochi Bey, nel trattato che scrisse per Murad IV (1623-40) nel 1631-32,
commenta che, poiché i feudi erano allocati
da Istanbul solo uno su dieci era non disputato. Ayn Ali, nel suo
trattato del 1609, aveva notato la stessa cosa. “Quando è una faccenda di
servizio in campagna”, egli commenta tristemente, “non appare un uomo su dieci timar, ma nel periodo di esazione delle
imposte dieci si disputano un timar.
Gli
scrittori riformatori collocarono la ragione del declino nella corruzione del
corpo politico. “Perché”, scrive l’autore del trattato anonimo, “la porta della
corruzione è aperta, il volto delle province rovinato”. Il processo, essi
sostengono, iniziò col regno di Murad III (1574-95).
Gli
scrittori riformatori erano accurati nei loro resoconti sia sul “declino” che
sul periodo di inizio. Nel diciassettesimo secolo la nomina agli uffici di
rilievo implicava spendere denaro. Perdipiù, documenti rimasti dell’epoca
confermano la loro percezione dello spopolamento delle province, almeno l’Anatolia,
e la diminuzione nel numero di timar.
Nel 1573, per esempio, c’erano 592 timar e
51 zeamet nel sanjak di Aydin nell’Anatolia occidentale. Nel 1632-33, i numeri
erano rispettivamente 261 e 31, un declino di quasi il 40%. I documenti di
assegnazione mostrano anche che, nel
1563-4, intorno al 70% dei timar inizialmente
concessi nel sanjak di Aydin andavano
ai figli dei tenutari di timar. Nel
1588-9, durante il tempo di Murad III, questa cifra era crollata al 19%, e nel
1610 a meno del 10%. Questa perdita di tenutari di timar come casta ereditaria era qualcosa che gli scrittori
riformatori lamentavano come una causa della catastrofe del loro tempo.
Per
quanto siano accurate queste descrizioni dei sintomi del “declino” gli
scrittori riformatori stavano
indubbiamente semplificando nella loro analisi delle sue cause. Sebbene i
sintomi di questa trasformazione divennero acuti, come gli scrittori
riformatori notavano, durante il regno di Murad III, ci sono segni di
cambiamento precedenti in quel secolo. Kochi
Bey e altri guardavano indietro ai timarioti
dei giorni di Solimano I come ad una valorosa casta militare chiusa, ma
questo quadro sembra troppo ottimistico. Negli anni ’30 del 1500 il Sultano certamente prese delle misure per
limitare l’accesso ai ranghi dei timarioti, ma questo fu probabilmente perché
la mancanza di nuove terre da distribuire stava già divenendo evidente,
piuttosto che per uno sforzo deliberato
di formare una casta militare. Perdipiù, l’assegnazione di un timar, ai livelli più bassi
imponeva pesanti oneri di servizio in
cambio di una rendita molto modesta e segni di scontento sono già evidenti prima e durante il regno di Solimano I. Nel
1511, per esempio, i timarioti si unirono alla rivolta di Shah Kulu.
Successivamente nel secolo, il fatto che il principe ribelle Bayezid fu capace
nel 1558-9 di attrarre timarioti alla sua causa è una indicazione che questi
non erano a loro agio nella loro posizione. Le lunghe guerre con l’Iran e
l’Austria imposero ulteriori pesi, richiedendo che, durante campagne che
durarono per più di un decennio, si svernasse sul campo. Durante queste decadi
inoltre i timarioti dell’Anatolia, che non servivano in guerra, facevano fronte
al compito di mantenere la pace in una regione in crescente ribellione.
Un
sintomo di scontento durante questo periodo fu, progressivamente, il rifiuto di
combattere e la diserzione. Durante la guerra iraniana del 1578-90, i timarioti
frequentemente cercavano di evitare il servizio. A questo riguardo un ordine
del 1583 al governatore del sanjak di
Bozok è tipico. Il preambolo del decreto nota che cavalieri con timar di valore inferiore a 3000 akce annuali non erano andati in
campagna, ma invece erano rimasti a mantenere la sicurezza nel sanjak. “Comunque”, continua il
preambolo “si è udito che molti dei cavalieri, grandi e piccoli, nella
provincia di Rum, sono rimasti dov’erano, ciascuno avendo avuto, con qualche
scusa [per rimanere a casa], un Nobile Comando del Sultano… essi rimangono
indietro e ricevono decreti [che li esentano dal servizio] per la minima
scusa”. Lo scontento tra i cavalieri, che era già chiaro durante la guerra con
l’Iran, si trasformò, durante le guerre austriache, in diserzione e congedo ,
il caso più noto verificandosi dopo la battaglia di Mezö-Keresztes
nel 1596. Il risultato, insistono gli storici musulmani, fu di trasformare i
disertori in briganti.
Gli
oneri del servizio, sia per il soldato in campagna che per la milizia locale
che combatteva i ribelli, rese il
possesso di timar poco attraente,
almeno per quelli con feudi di basso valore. Questo divenne in particolar modo
vero alla fine del sedicesimo secolo, un periodo in cui l’inflazione diminuiva
il reddito, le guerre erano prolungate, c’era poca speranza di prendere
bottino, e nuove entrate a seguito della conquista di nuovi territori non erano
più disponibili. Lo scontento risultante
tra i timarioti e la conseguente diserzione e ribellione, erano indubbiamente
un fattore nel collasso del sistema dei timar,
che gli scrittori del diciassettesimo secolo osservarono nel loro tempo.
C’erano comunque altre cause, militari ed amministrative.
Lo
sviluppo militare che mise in crisi la cavalleria timariota fu l’uso crescente
in guerra di armi da fuoco individuali
e, con questo, la pratica del combattimento da posizioni difese da
trincee. Questo richiedeva un crescente numero di fanti a spese della
cavalleria. Fino alla fine del sedicesimo secolo i cavalieri avevano superato
di molto gli uomini appiedati negli eserciti ottomani. Alla metà del sedicesimo
secolo i giannizzeri – i corpi di fanteria permanenti del Sultano – contavano
10-12.000 unità in tutto,mentre c’erano normalmente 40.000 cavalieri in un
singolo esercito. Comunque, durante la guerra del 1593-1606, la cavalleria
ottomana provò di essere molto inferiore sul campo di battaglia alla fanteria
austriaca. La risposta del governo ottomano fu dunque di espandere il numero di
fanti, ciò che fece incrementando il numero dei giannizzeri e reclutando fanti
nelle province tra i giovani che sapevano come usare le armi da fuoco.
Questa
soluzione comportava un grosso problema. Il pagamento per i giannizzeri e la
fanteria di leva era fatto dal Tesoro centrale, che si trovò incapace di
soddisfare la domanda per i pagamenti in contanti, un problema che l’inflazione
della fine del sedicesimo secolo
aggravò. Una soluzione era di svalutare la moneta metallica. Nel 1585, allo
scopo di pagare i giannizzeri e altre truppe della casa imperiale, il governo
ridusse il contenuto di argento dell’akce
di almeno il 50%. Come risultato di
questo ci fu una ribellione dei giannizzeri nel 1589, per protestare
contro il pagamento con una moneta svalutata. Successivi pagamenti e una
ulteriore svalutazione nel 1600 di poco meno del 30%, condusse ad ulteriori
disordini dei giannizzeri nel 1593 e nel 1606. Questa soluzione, dunque,
causava solo ulteriori problemi. Un altro sistema era il prestito. Nel 1591 il
governo si fece prestare 70.000 pezzi d’oro
per pagare i salari dei giannizzeri e, dopo di questo, ci furono alcuni
anni in cui il Tesoro non ricorse al credito per far fronte alle sue
obbligazioni.
C’era,
comunque, un’altra soluzione, e questa era l’incremento delle fonti di reddito
disponibili per il Tesoro. Fino alla fine del sedicesimo secolo, il governo
aveva assegnato la maggior parte delle tasse in Rumelia, Anatolia e Siria a
timarioti che le riscuotevano direttamente come fonte di reddito. Queste tasse
non andavano, dunque, direttamente al tesoro. Un modo per superare i deficit
del tesoro fu dunque di convertire timar e
zeamet in appalti dell’esazione delle
imposte il cui reddito gli esattori trasferivano direttamente a Istanbul. Sembra probabile che il primo
trasferimento su larga scala avvenne nel 1597, a seguito della confisca dei timar appartenenti ai disertori di Mezö-Keresztes.
Da allora in poi, il numero di concessioni esattoriali aumentò a spese dei timar, uno sviluppo che rispecchiò il
cambiamento nella composizione
dell’esercito. Meno cavalieri necessitavano meno timar per mantenersi, mentre il crescente numero di fanti richiedeva più concessioni
esattoriali come fonti di contante per i loro salari. Questo fu un fattore
importante nel collasso del sistema dei timar,
che disturbava così tanto gli scrittori riformatori del diciassettesimo secolo.
Un
altro fattore fu un cambiamento graduale nel modo di allocare i timar. I decreti degli anni ’30 del 1500
avevano formalizzato il diritto ai feudi
e, allo stesso tempo, c’era una procedura giuridicamente regolata di
allocazione. La tenuta del timar divenne
nel complesso ereditaria all’interno della classe militare e la distribuzione
avveniva attraverso la raccomandazione del Governatore generale, ed era
soggetta alla ratifica del Sultano. Nel tardo sedicesimo secolo, le eccezioni a
questo schema divennero comuni.
Durante
le lunghe guerre del 1579-90 e del 1593-1606 divenne normale per i comandanti
dell’esercito sul campo allocare timar per
rimpiazzare cavalieri che erano morti in battaglia o che erano assenti alla
chiamata alle armi dandoli talvolta a
uomini che si facevano avanti senza una raccomandazione da un patrono. Nel
diciassettesimo secolo, Kochi Bey doveva puntare il dito in particolare contro
questa categoria di timarioti come causa di declino. Nel 1584, egli scrisse, Özdemiroghlu
Osman Pasha, il comandante della campagna iraniana, iniziò a dare timar del valore di 3.000 akce a “estranei”, ma solo a uomini che
avevano prestato un eccellente servizio. Da allora, però, i feudi andarono,
senza riguardo al merito, “a giovani di città e contadini” che non avevano alcun
diritto per nascita.
Più
importante, comunque, nel trasformare il sistema dei timarioti fu la crescente
influenza del palazzo. All’inizio del sedicesimo secolo era poco frequente per il palazzo, senza un memorandum da parte
del governatore generale, emanare un decreto di allocazione di un timar. Di
fatto le allocazioni di questo tipo erano sufficientemente rare da meritare una
nota esplicativa nel registro. Successivamente nel secolo queste note
sparirono, suggerendo che il Palazzo cominciava ad esercitare un maggiore
controllo. Nel 1586, con l’emanazione di un decreto che privava i governatori
generali del diritto di distribuire zeamet,
cioè feudi del valore di più di 20.000 akce
annuali, questa tendenza divenne esplicita. Con questi sviluppi, il vecchio
sistema effettivamente collassò.
Questi
cambiamenti nel metodo di allocazione portarono con sé nuovi tipi di timarioti.
Ciò che diviene particolarmente degno dinota è il largo numero di timar che sostentavano schiavi o
persone del seguito dei visir, dei governatori generali e altri titolari di
uffici, i registri annotando questi uomini come “il seguace di X”, “l’uomo di
Y” o “al seguito di Z”. Tali timar erano
sempre esistiti, e, in verità, qualche tempo dopo il 1541 Lutfi Pasha stabilì
che i gran visir dovessero mantenere i loro uomini mediante timar. Nel tardo sedicesimo secolo,
comunque, la pratica divenne più diffusa e, nel diciassettesimo, divenne
standard. Una nota in un registro dell’inizio del diciassettesimo secolo
stabilisce come regola: “E’ costume che i
timar dei servitori registrati di un visir, in caso di morte del timariota,
debbano essere dati di nuovo al suo servitore”.
Non
erano comunque solo coloro al seguito di visir e governatori che ricevevano timar in questo modo. Verso la fine del
sedicesimo secolo, uomini dal seguito di altri membri del Consiglio Imperiale,
come il cancelliere o il capo tesoriere, o i seguaci degli ufficiali di
palazzo, come il Capo dispensiere o il Capo giardiniere, potevano anche
ricevere il loro pagamento sotto forma
di timar. Era anche comune, per titolari di uffici ancora più modesti,
come impiegati della cancelleria o membri delle sei divisioni, ottenere timar per i loro servitori. Le
principesse similmente acquistavano feudi per il loro entourage, persone che
chiaramente non avevano nessuna obbligazione di servire nell’esercito. Divenne
di fatto consuetudine aggiungere liste
di timarioti esenti alle liste di leva
militare di cavalieri e l’espunzione per mancata comparsa al tempo della
campagna era valida solo se il nome dell’assente non appariva nella lista degli
esenti. Anche allora, se una persona perdeva il suo timar perché non aveva risposto alla chiamata, poteva continuare a
tenerlo se riusciva a provare di essere al seguito di un uomo importante.
Per
la metà del diciassettesimo secolo, dunque, il timariota aveva cambiato le sue
caratteristiche. Meno feudi sostentavano cavalieri, e più feudi sostentavano i
titolari di uffici e i loro seguaci. Alcuni andavano a concessionari i cui
sponsor ne incameravano la rendita, una pratica che Murad IV abolì
formalmente quando, nel 1631, confiscò
tali timar e li riallocò a uomini in
servizio attivo. Le riforme di Murad comunque non durarono. Documenti indicano
che il cambiamento nel sistema dei timar fu permanente. Dalla fine del
sedicesimo secolo, la pratica di redigere registri dettagliati dei timar di ciascun distretto cessò.
Invece, l’ufficio dei registri immobiliari cominciò a compilare registri delle
varie case raggruppate entro unità tassabili, insieme con altre fonti di
entrate governative. Per mantenere nota
dei timar il governo iniziò, dalla metà del diciassettesimo
secolo, a tenere liste sommarie, ma il vecchio sistema di registri dettagliati
non tornò più in vita. Queste nuove procedure amministrative indicano che, in quest’epoca, i timar non erano il principale
sostentamento dell’esercito né il mezzo più importante di distribuire rendite.
Il
declino del sistema dei timar si
accompagnò ad un cambiamento nel sistema di governo provinciale. Fino alla fine
del sedicesimo secolo, la gerarchia di tenutario di timar, di zealet,
governatore di sanjak e governatore
generale era stata anche quella del comando militare. Alla fine del secolo
anche questo cominciò a cambiare. Con il cronico deficit nelle rendite del
tesoro divenne possibile per gli esattori delle tasse acquistare il
governatorato, per se stessi o per quelli nominati da loro, a condizione che
aumentassero le entrate delle province o sanjak.
Per la stessa ragione, non era più inconsueto, per un tesoriere, ricevere
l’incarico di governatore generale. Con questo sviluppo, il governo provinciale
cominciò a perdere il suo carattere militare.
Ci
furono anche altri cambiamenti, nel modo di nomina del governatore provinciale.
Fino alle ultime decadi del sedicesimo secolo, era normale nominare governatori
di sanjak dai ranghi più bassi della
amministrazione provinciale, cosicché, tipicamente, una carriera poteva
condurre da un incarico nel palazzo ad una posizione nell’Ufficio dei registri
o del Tesoro di una provincia, e da lì al governatorato di un sanjak. Negli anni ’60 del 1500 circa
due terzi dei governatori di sanjak
avevano ricevuto la loro carica in questo modo. Era normale, anche, che un
governatore generale dovesse aver
servito in precedenza come governatore di sanjak.
Nel 1570 circa quattro quinti dei
governatori generali avevano ricevuto
questo incarico per tale via. Nel 1580 comunque, questo schema cominciò a
cambiare con nomine dal palazzo e, in
via crescente, da altri grandi case,
iniziando ad essere in maggior numero
rispetto ad uomini con una preventiva esperienza di governo provinciale.
Per il 1630, solo un quarto circa dei governatori di sanjak e dei governatori generali erano giunti alla loro posizione
da un precedente incarico provinciale. Allo stesso tempo, un altro
cambiamento minò l’integrità del vecchio
sistema di province e sanjak.
Dagli
anni ’80 del 1500 in poi pochi governatori di sanjak servirono in un particolare incarico per più di tre anni:
intorno agli anni ’30 del 1600 più della metà serviva per meno di un anno.
Questo era un risultato, presumibilmente della crescente competizione per
l’ufficio, che aveva l’effetto non solo di abbreviare i periodi di servizio, ma
anche di aumentare il tempo passato senza un ufficio. La perdita di posizione
portava ad una perdita di reddito e così, per compensare questo divenne comune
da parte del Sultano fare concessioni di rendite vitalizie, che servivano per
mantenere governatori rimossi dalla carica nei periodi tra due nomine. Tali concessioni
erano state meno comuni nel periodo anteriore, ed avevano l’effetto di minare
il vecchio sistema di province e sanjak.
Tradizionalmente i governatori avevano il loro hass, il feudo che produceva il loro reddito, nella loro area di
giurisdizione, che fosse un sanjak o
una provincia. Concessioni vitalizie, però, significavano che le terre o altre
fonti di reddito che formavano le entrate prevalenti di un governatore si
trovavano fuori della sua area di governo, producendo una frammentazione del
vecchio sistema provinciale, alle spese soprattutto dei sanjak. Negli anni ’30 del 1600, inoltre, alcuni sanjak, come Bayburt nella provincia di
Erzurum o Smederovo nella provincia di Buda furono aboliti e assegnati come
rendita al governatore generale.
Entro
la metà del diciassettesimo secolo, dunque, il governo provinciale ottomano era
molto differente da ciò che era stato un
secolo prima. La cosa più degna di nota era la caduta del numero di timar, e l’assegnaizone di timar come appalto di imposte o ad
assegnatari non-militari del palazzo o di altre grandi case. Il mutamento nella
natura dei timar aveva la controparte
nella natura del governo provinciale. Fino alla fine del sedicesimo secolo, i
governatori provinciali erano anche stati comandanti militari Col declino del
numero di timar e la nomina di alcuni
governatori con responsabilità fiscali piuttosto che militari, questo stato di
cose cessò, eccetto forse che nelle aree di confine. Questo fu uno sviluppo che
minò i governatori di sanjak in
particolare, le cui funzioni principali erano state di tenere d’occhio i timarioti del loro sanjak e di chiamarli a battaglia. La crescente distribuzione di
rendite vitalizie dal loro distretto a uomini che risiedevano fuori del sanjak tendeva anch’essa a frammentare
la loro area di comando, e ad enfatizzare la loro perdita di autorità.
L’Impero
ottomano era una entità politica
musulmana, ma con una vasta popolazione non-musulmana che nella maggior
parte dei distretti delle province europee
formavano la maggioranza della popolazione. La popolazine musulmana
stessa era eterogenea. Gli uomini delle tribù curde dei confini orientali, i
turcomanni dell’Anatolia, o i beduini di Siria, Egitto e della penisola araba
avevano poco in comune con la gente musulmana delle città e dei paesi. Le
comunità shi’i e kizilbash che si trovavano soprattutto nell’Anatolia centrale, Iran
e Libano professavano una forma di Islam in contrasto con l’ortodossia sunnita
dei sultani.
La
struttura legale dell’Impero rifletteva
questa diversità. Non ci può essere dubbio che gli uomini delle tribù, dei
villaggi in aree remote e le popolazioni kizilbash
che professavano fedeltà allo shah safavide piuttosto che al Sultano ottomano
seguivano i loro costumi nel risolvere dispute e fare i loro affari. Allo
stesso tempo, le comunità cristiane ed ebree godevano di autonomia legale in
materie riguardanti la comunità, sotto l’egida dei loro leader religiosi. I
sultani, comunque, mantennero la loro autorità sulle comunità non musulmane
attraverso il sistema della nomina. I rabbini o prelati di grado più
elevato mantenevano il loro ufficio in
virtù di un mandato regio. Questo
implicava probabilmente un pagamento in contanti , ma, una volta nominato, il
titolare dell’ufficio acquisiva esenzione dalle imposte e autonomia fiscale
nella sua comunità, come mostra un mandato-tipo della fine del quindicesimo
secolo per la nomina di un metropolita greco: “Perché il destinatario di questo
nobile decreto, il prete chiamato X, ha portato fiorini europei come dono al
mio Nobile Tesoro, io gli ho concesso la posizione di metropolita di Y. Io ho
comandato che, in qualsiasi modo i precedenti metropoliti abbiano esercitato la
loro autorità sui preti, monaci e altri cristiani di quell’area, [egli debba
fare lo stesso]; e di qualunque chiesa, vigna, orto di cui questi avessero la
disponibilità anche egli debba averne la disponibilità. Egli deve essere esente
da… imposte. I preti, monaci e altri cristiani devono riconoscerlo come loro
metropolita, e ricorrere a lui in casi che pertengono alla sua autorità di
metropolita”. I capi delle comunità armene ed ebree godevano di una simile
libertà nel regolare gli affari della loro comunità. Essi esercitavano questo potere,
tuttavia, in virtù della loro nomina da parte del Sultano.
Le
leggi ecclesiastiche, ebraiche e consuetudinarie erano tutte, dunque applicate
correntemente nell’Impero. Nondimeno, la legge islamica aveva sempre la
precedenza. Già presumibilmente nel quattordicesimo secolo, i sultani ottomani
stabilirono una rete di Corti islamiche, cosicché ogni città nell’Impero ne
aveva una che serviva sia la città che l’area circostante. Tutti i sudditi del
Sultano, dunque, ricadevano sotto la giurisdizione di una corte islamica. I
musulmani usavano esclusivamente queste corti, sia nei casi in cui erano
coinvolti solo musulmani,sia nei casi che coinvolgevano musulmani e
non-musulmani. Comunque, le corti erano anche aperte a non-musulmani che, come
i documenti attestano, spesso portavano i loro affari perché fossero giudicati
lì, sfidando le loro autorità religiose. Occasionalmente, per esempio, donne
ebree traevano vantaggio dalle più generose norme della legge islamica per
reclamare la loro eredità attraverso le corti islamiche piuttosto che
attraverso le corti ebree. Un musulmano d’altro canto non aveva accesso ad una
corte non-musulmana, né lo aveva un non-musulmano in un caso che coinvolgesse
un musulmano. Le corti islamiche erano dunque le corti principali . Esistevano
in ogni distretto; erano aperte a tutti, senza riguardo alla religione; e per
casi misti, e casi che coinvolgevano solo musulmani erano le uniche corti
riconosciute .
Sebbene
i sultani ottomani fossero i garanti della legge islamica – la shari’a – essi non ne erano l’origine.
La legge islamica non era la creazione di uno stato o di un sovrano musulmano,
ma piuttosto la creazione e la proprietà comune della comunità musulmana,
indipendentemente da divisioni politiche. La sua origine data dall’ottavo
secolo, dalle discussioni dei giuristi che formalizzarono i suoi concetti
fondamentali e la sua terminologia. Entro il decimo e undicesimo secolo essa
aveva raggiunto una eleganza classica nella sua forma letteraria e sottigliezza
e sofisticatezza nel suo apparato concettuale.
Allo
stesso tempo, i giuristi avevano sviluppato una teoria dell’origine della legge
che le dava una legittimazione indiscutibile. Essi individuarono come fonte
direttamente la rivelazione divina. Dio aveva fatto conoscere la sua parola
eterna al genere umano nel Corano, che aveva rivelato attraverso il profeta
Maometto. Il Corano era dunque la prima fonte della legge. La seconda erano le
testimonianze dei detti e delle azioni del profeta, che Dio aveva scelto come
esempio per l’umanità. Il Corano è invero la fonte di alcune leggi , come le
norme che consentono ad un uomo di sposare fino a quattro mogli, e la base per
alcune materie disciplinate dalla legge, tra cui importanti le regole per
l’eredità. La diretta influenza del Corano è comunque limitata. Le tradizioni
del profeta erano una fonte più abbondante di autorità legale. Queste
probabilmente di fatto emersero in parallelo con la legge stessa, e servirono a
giustificare dottrine di nuova formulazione proiettandole indietro al tempo del
Profeta ma, quale che sia la loro origine, lo studio delle tradizione divenne
un elemento importante nella scienza legale islamica. Per integrare queste
fonti divine, i giuristi riconobbero anche il valore dell’analogia, l’unanimità
dell’opinione dei giuristi e le consuetudini come basi supplementari della
legge.
La
credenza circa l’origine divina della legge le diede un prestigio che la elevò
al disopra della autorità politica del momento. Era il sovrano che portava ad
esistenza la legge facendo eseguire i decreti, ma nessun governante poteva
alterarne la sostanza. L’interpretazione e trasmissione della legge rimaneva
sempre nelle mani delle persone colte – gli ulema
– che, in virtù del loro ruolo come guardiani della tradizione, godettero
sempre una posizione di potere nelle societàù islamiche.
La
legge islamica non fu comunque,
monolitica. Ci fu una distinzione tra la legge dei sunniti e la legge degli
sciiti, e la legge sunnita stessa, in un periodo precoce della sua storia si
divise in quattro scuole. Queste erano
le lscuole Hanafi, Shafi’i, Maliki e Hanbali,
ciascuna che prende il nome dal suo supposto fondatore. Le differenze tra le
dottrine delle scuole non erano grandi
ma, una volta stabilita, ciascuna scuola divenne virtualmente refrattaria
all’influenza delle altre. La lealtà nei confronti di una scuola divenne la
caratteristica dei giuristi islamici, la maggiore originalità dei quali si
manifestò nella difesa delle dottrine della scuola. Qui, per esempio, il
giurista hanafi Marghinani (m. 1198)
difende il punto di vista hanafi che
un regalo diviene proprietà del donatario
solo dopo che lui ne ha preso possesso. Egli rifiuta l’opinione maliki che offerta e accettazione sono
sufficienti per trasferirne la proprietà: “Secondo l’opinione di Malik la
proprietà [del donatario] è stabilita prima che prenda possesso, per analogia
con la vendita… Ma noi [hanafi] seguiamo la parola del profeta – pace e
benedizione su di lui –: ‘Il dono non è permesso prima che l’oggetto
donato sia stato preso in possesso’.
L’intenzione di questo è di negare che la proprietà [è trasferita] perché la
[mera] ammissibilità [del dono] è stabilita senza [prenderne possesso. Gli
hanafi stabiliscono anche la presa di possesso] perché fare un dono è un atto
volontario e stabilire la proprietà prima che [il donatario] prenda possesso
renderebbe titolare per mezzo di un agente volontario, di qualcosa che egli non
ha voluto, cioè la consegna [del regalo]…”. La tradizione della scuola divenne
un marchio distintivo della giurisprudenza hanafi e questo ebbe anche un
effetto sulla pratica della legge. Solo in due casi, per esempio, i giuristi
hanafi permettono agli aderenti alla loro scuola di ricorrere ad un giudice non
hanafi per la soluzione di problemi. La legge hanafi non permette ad una donna
il cui marito l’ha lasciata senza mezzi di sostentamento, di cercare di
ottenere l’estinzione del matrimonio, né permette lo scioglimento da un
giuramento. In questi due casi, comunque, i giuristi hanafi permettono di ottenere la estinzione del matrimonio o lo scioglimento da un giuramento da un giudice Shafi’i, dal momento che entrambe queste cose sono consentite dalla
scuola Shafi’i. Questa comunque è una
rara eccezione alla esclusività della dottrina e della pratica di ciascuna
scuola.
Contrariamente,
comunque, a quanto ci si potrebbe aspettare, i confini quasi impenetrabili tra
le scuole di legge non conducono ad una eccessiva rigidità nel pensiero
e nella pratica, dal momento che, in se stessa, ciascuna scuola ammette
divergenze di opinioni. A dispetto della teoria della rivelazione divina come
sorgente della legge il metodo che i
giuristi di fatto usano per legittimare una dottrina è di attribuirlo ad uno
dei primi giuristi della scuola. Gli hanafi
tipicamente ricollegano opinioni legali al nome del fondatore della scuola, Abu
Hanifa (m. 750), o ai nomi dei suoi discepoli, Abu Yusuf (m. 798) e al-Shaibani
(m. 805). Nella letteratura hanafi, è
comune trovare opinioni opposte attribuite a queste figure, con ciascun punto
di vista che rappresenta una dottrina legittima all’interno della scuola. Sulla
questione, per esempio, se sia permesso a due non musulmani di fare da
testimoni ad un matrimonio tra un musulmano e una non musulmana il giurista
Quduri (m. 1037) scrive: “Secondo Abu Hanifa e Abu Yusuf è permesso; ma
Muhammad [al-Shaibani] dice che non è permesso”. Sulla questione se il
proprietario di una casa o il suo attuale occupante paghi il prezzo di sangue quando è trovato un
cadavere nel fabbricato e l’uccisore è ignoto, Abu Hanifa e al-Shaibani rendono
responsabile il proprietario. Abu Yusuf, d’altro canto, stabilisce la
responsabilità per l’attuale occupante. In entrambi questi esempi entrambe le dottrine
sono valide e i giudici possono scegliere quella più adatta al caso
particolare. Per ogni problema, dunque, a meno che non coinvolga una dottrina
fondamentale, una scuola può offrire due o più soluzioni, pemettendo
flessibilità nel dibattito giuridico e nella pratica legale.
Per
quanto riguarda il suo contenuto la legge islamica copre tutti gli aspetti
della vita islamica. Qualsiasi testo legale di maggiore ampiezza inizia con gli “atti di fede”, gli atti
rituali che il genere umano, come suo schiavo, deve a Dio. Queste sono le leggi
che ogni musulmano deve conoscere almeno nei loro fondamenti e che, in molti
modi, definiscono la vita del musulmano. La preghiera, per esempio, è
obbligatoria e perché sia valida il fedele deve essere ritualmente puro. Ottenere
questo stato richiede una abluzione rituale
dopo la maggior parte delle emissioni corporee e perfino dopo il sonno,
con la conseguenza che la mera esistenza fisica serve come costante ricordo del
comando di dio. La richiesta di pregare cinque volte in un giorno ad ore
stabilite, di seguire la preghiera comune il venerdì e di digiunare annualmente
nel Ramadan non solo ricordano ai musulmani le loro obbligazioni verso Dio, ma
definiscono anche il loro senso del passare del tempo e, attraverso la preghiera
ella congregazione e il digiuno universale, creano un senso di comunità
religiosa. La preghiera del Venerdì ha anche un aspetto politico. La legge
richiede che chi guida la preghiera sia o il sovrano musulmano stesso, o la
persona nominata dal Sultano, e dunque è attraverso la preghiera obbligatoria
della congregazione che il sovrano musulmano irradia la sua autorità e la
congregazione manifesta la sua obbedienza.
La
sezione più corposa dei manuali più comprensivi di legge islamica regola le
transazioni tra persone. E’ qui che i giuristi discutono per esempio il
matrimonio, il mantenimento, il divorzio e l’eredità o, nel campo del commercio
e dei diritti di proprietà, la vendita, il diritto di prelazione, il noleggio,
il pegno e la donazione. In questa sezione i giuristi espongono pure le norme
per la fondazione e il mantenimento di fondazioni, le norme sulle prove e la
procedura dinanzi ad una corte e altre materie importanti per la vita di ogni
giorno della comunità. Comunque, sebbene questa sezione della legge tratta
principalmente di affari secolari, considerazioni rituali e religiose sono
sempre presenti. Nella prima sezione del suo capitolo sulla vendita invalida, per esempio, Quduri
ricorda al lettore che la vendita è invalida quando “uno o entrambi gli oggetti
scambiati è [ritualmente] proibito, come è la vendita di una carogna, di
sangue, di vino o di maiale”, queste essendo cose che sono proibite per i
musulmani e perciò di nessun valore commerciale. Inoltre, i giuristi
includevano nella stessa sezione, come trattazione degli affari secolari dei
musulmani, capitoli che riguardano più
strettamente una relazione individuale con Dio. Esempi sono i capitoli sui
giuramenti, la macellazione rituale e i tabù religiosi riguardo la caccia. In
breve, allora, la legge islamica è una legge religiosa, ed è la sua aderenza ad
essa che forma e definisce una società islamica.
Una
ulteriore caratteristica della legge islamica è la tendenza a dedicare energia
e spazio alle discussioni di casi che non hanno alcuna applicazione nella
realtà. I giuristi frequentemente prendono una norma pratica di diritto per poi
discutere di ramificazioni ipotetiche in ancor più minuto dettaglio. Questa
preoccupazione per i dettagli che spesso hanno scarsa o nessuna verosimiglianza
è un elemento importante della giurisprudenza islamica. La legge, di fatto era
vista solo in parte come offerente un sistema pratico legale. Presa come un
tutto, rappresenta la volontà di dio o almeno lo sforzo dell’uomo di scoprire
la volontà di Dio. E’ pertanto un atto di devozione esaminare ogni minuto
aspetto di una regola legale, per quanto remota dal mondo reale, perché è così
facendo che l’uomo viene a conoscere l’infinità di Dio. Non c’è mai stata una
realistica aspettativa che il genere
umano possa, in pratica, conformarsi alla legge in ogni dettaglio. Questo
rimane una pia aspirazione,ma mai una realtà effettiva.
Un’altra
caratteristica della legge è il suo conservatorismo e, in certi punti, il suo
arcaismo. Questo si può più chiaramente vedere nei passaggi dove i giuristi
conservano dai testi precedenti regole che non hanno applicazione nei loro
tempi, o parole il cui significato essi probabilmente non intendono più. Per
esempio, quando si discute la somma prefissata a compensazione per un omicidio
preterintenzionale, i testi legali fino al diciannovesimo secolo persistevano
nell’esprimere la somma dovuta intermini di differenti categorie di cammelli,
usando lo stesso vocabolario tecnico per i cammelli che il fondatore della
scuola aveva usato nell’ottavo e nel
nono secolo.
L’arcaismo non era necessariamente una barriera
all’applicazione della legge. Nel caso della compensazione per la morte o la
lesione, per esempio, era possibile convertire la tariffa espressa in cammelli
in una somma di moneta o altro valore, cosicché le regole divenivano
applicabili in pratica. Nondimeno, la legge rimaneva conservatrice. I giuristi
continuavano a trasmettere il materiale, e invero esatte frasi e passaggi di
testi che avevano ereditato dai loro predecessori. Specialmente, essi
continuavano a lavorare nel quadro di concetti che i fondatori delle svuole
avevano stabilito tra l’ottavo e l’undicesimo secolo.
Questo
non significa, comunque,che l’innovazione era impossibile. Nei commentari, in
particolare, discutendo casi ipotetici legati ad una norma giuridica, i
giuristi potevano sviluppare sub-norme di una varietà quasi infinita. Inoltre,
la manipolazione di concetti esistenti
poteva creare nuove discussioni legali e soluzioni. Sulla questione
della terra e della tassazione, per esempio, i giuristi trattano la terra come
un bene di proprietà privata, il cui
statuto fiscale dipende da ciò che accadde alla terra al tempo della conquista
islamica. Se essa era rimasta in proprietà degli infedeli, la terra pagava e
avrebbe continuato a pagare imposte più alte, anche se in seguito venduta ad un
musulmano rispetto alla terra la cui proprietà passò al conquistatore islamico.
Questa era una finzione giuridica. In realtà la maggior parte della terra nel
mondo medievale islamico era tenuta in possesso feudale, per mezzo della quale
un governante distribuiva l’occupazione della terra a soldati o a esattori delle imposte in
cambio per servizio militare o fiscale. I giuristi musulmani presero nota di
questa realtà e tentarono di descrivere il possesso feudale. Nondimeno, essi lo
fecero in termini mutuati dalle leggi classiche sulla terra e la tassazione,
che essi continuarono ad esporre e discutere in dettaglio. Dal sedicesimo
secolo i giuristi ottomani tentarono anche di spiegare il sistema dei timar nel quadro della teoria legale
classica. Le leggi dell’omicidio presentano un altro esempio di come i giuristi
potessero manipolare le norme esistenti per creare una nuova soluzione. In caso
di omicidio indiretto, dove A ordina a B di uccidere C, la legge stabilisce la
colpevolezza dell’uccisore a contratto B. A meno che A non abbia costretto
fisicamente B a compiere l’atto, egli non è colpevole. In pratica, comunque, un
giudice potrebbe considerare l’intenzione di A di uccidere e il suo ordinare a
B di farlo, come colpevole. Seguendo la teoria classica, egli dovrebbe
dichiarare la colpevolezza nei riguardi di B, l’effettivo uccisore. Comunque,
la legge consente anche ai giudici o alle altre autorità di imporre punizioni a
loro discrezione, normalmente rimanendo nel vago riguardo alle offese a cui si
applicano, e riguardo il livello della punizione. Il giudice può pertanto
invocare questo potere, e imporre una punizione discrezionale all’assassino
indiretto, A. In questo modo, egli potrebbe, combinando due norme disponibili,
soddisfare le esigenze della giustizia senza sconvolgere la struttura
concettuale della legge. Questa era, comunque, una manipolazione pratica della
legge, piuttosto che uno sviluppo concettuale.
A
dispetto del suo conservatorismo, dunque, la legge islamica forniva i materiali
per un sistema legale funzionale e flessibile. Comunque, in tre aree in
particolare esso ha avuto una applicazione pratica molto limitata. Queste erano
il possesso di terre, la tassazione e la legge criminale. Nel caso del possesso
della terra e della tassazione i giuristi trovarono modi di descrivere ciò che stava avvenendo in
pratica ma ciò che essi stavano facendo era creare finzioni legali per descrivere
una situazione esistente che essi non avevano creato e non regolavano. Una
nozione islamica di legge cerimoniale, comunque, difficilmente può essere
considerata esistente .
La
legge islamica tratta l’omicidio e la
lesione alla persona come, in termini occidentali, l’illecito civile. Sono la
persona che ha subito la lesione o i parenti del deceduto che portano avanti le
pretese di giustizia nei confronti dell’accusato, piuttosto che le autorità.
Solo nel caso di cinque offese – fornicazione, accuse false di fornicazione,
consumo di vino, furto e brigantaggio – la legge rende le autorità responsabili
per la persecuzione e la richiesta di una punizione prestabilita. Allo stesso
tempo, comunque, impone così tanti ostacoli procedurali per arrivare ad un
verdetto di colpevolezza che le pene per queste offese rimangono simboliche piuttosto che reali. Un
procedimento per fornicazione che, se coronato da successo porterebbe alla
lapidazione o alla fustigazione richiede quattro testimoni maschi dell’atto. Una
dichiarazione di colpevolezza per furto, che porterebbe alla amputazione di un
membro, può essere evitata se l’accusato dichiara semplicemente che pensava di
essere il proprietario dei beni rubati. L’effetto di queste punizioni è dunque
retorico. Esse simboleggiano l’enormità dell’offesa agli occhi di Dio, ma non
sono penalità reali da applicare in questo mondo. In aggiunta a queste
punizioni fisse, i giuristi riconobbero il diritto delle autorità di infliggere
penalità a loro discrezione, ma non sistematizzarono mai la regola. Il
risultato era di passare la responsabilità per la legge penale al governo
secolare.
In
pratica, dunque, la legge islamica ha regolato rituali religiosi e molte aree
della vita secolare. Comunque, nel campo del possesso di terre, della
tassazione e della legge criminale è la legge secolare che ha dominato. Questo
era vero sia per l’Impero Ottomano che per altre parti del mondo islamico.
La
conservazione, trasmissione ed applicazione di un corpo di leggi richiede uffici e istituzioni permanenti. Le
origini della legge islamica giaceva forse nei dibattiti tra gruppi che
raccoglievano informazioni intorno a studiosi di grande levatura.
Dall’undicesimo secolo, comunque, la tipica istituzione dell’istruzione
islamica era il collegio presso una moschea sostentato da una fondazione. Dalle
sue origini nell’undicesimo secolo in Iran e Iraq, il collegio divenne una
caratteristica istituzione in tutto l’intero mondo islamico. Era lì che i
professori insegnavano la legge e le altre scienze islamiche, e dove alcuni di
essi composero i manuali di legge che preservavano la tradizione e servivano
come testi per studenti. Nella gerarchia della stima era il giurista che
scriveva e i cui libri presentavano la legge nella sua forma più pura che
godeva della posizione più rispettata.
I
collegi mantennero e insegnarono la
legge, ma non erano essi che la rendevano effettiva. Questo era iil dovere dei
mufti e dei giudici. Il mufti era un
giureconsulto che offriva opinioni autorevoli – fatwa – su tutte le questioni legali che chiunque, dal monarca al
suo più umile suddito poteva chiedere.
In molte parti del mondo islamico, egli otteneva la sua posizione i formalmente
attraverso la reputazione di studioso sebbene nell’Impero Ottomano dopo il
quindicesimo secolo i mufti erano normalmente ufficiali nominati. Era il mufti
che agiva come mediatore tra la legge
divina e gli affari del genere umano e in questa capacità occupava il gradino
successivo della stima pubblica, al disotto dei giuristi autori di opere. Come
questi ultimi, egli non aveva alcun potere esecutivo. Una fatwa è una opinione, non un editto, e perché sia eseguita occorre
l’approvazione da parte di un giudice o
di un governatore. Il giudice – o qadi
– d’altro canto aveva poteri esecutivi. In teoria, almeno, il mufti doveva la
sua posizione alla sua conoscenza della legge di Dio, e era in linea di
principio superiore persino al monarca, un concetto che il cerimoniale ottomano
manteneva facendo stare in piedi il Sultano di fronte al Gran Mufti. Il
giudice, d’altro canto, era una persona nominata dal monarca a cui il sovrano
aveva delegato autorità ed era in virtù di questa delega di potere che i suoi
giudizi nelle corti erano vincolanti. Essi non erano, comunque validi come
precedenti. Il decreto di un giudice era efficace solo riguardo il caso cui si
applicava. Un testo autorevole o una fatwa,
d’altro canto, era universalmente valido.
Erano
le figure del giurista autore di scritti, dell’insegnante, del mufti e del
giudice che preservavano la legge islamica e la facevano eseguire nell’Impero
Ottomano, come facevano in tutto il mondo islamico.
LA
LEGGE: COLLEGI, MUFTI E GIUDICI
Al
tempo dell’erezione dell’Impero Ottomano, nel quattordicesimo secolo, la legge islamica era pienamente
formata sia nella sua sostanza che per quanto riguarda le istituzioni ed era
forse questa eredità della legge che, imponendo norme legali e religiose ebbe
un ruolo maggiore di altri fattori nel determinare la forma futura della
società ottomana.
I
turchi che, nel quattordicesimo secolo, costituivano la popolazione musulmana
dei reami ottomani e degli altri principati dell’Anatolia occidentale, erano
largamente illetterati e ignoranti di tutto tranne che i rudimenti della loro
fede. Ciò che essi conoscevano sembrano averlo acquisito dai contatti dei loro
antenati con musulmani di lingua persiana nell’Iran e nell’Anatolia
selgiuchide. Il vocabolario religioso di base del turco rimane, fino ad oggi,
persiano nelle sue origini. E’ comunque chiaro
dalle iscrizioni sui loro edifici e dalle traduzioni e adattamenti che
essi commissionarono di opere arabe e persiane che i governanti del
quattordicesimo secolo dell’Anatolia occidentale adottarono rapidamente le forme di cultura e letteratura
dell’antico mondo islamico. Essi adottarono anche la legge islamica,
specificamente lale gge dalla scuola Hanafi,
che era stata corrente in Anatolia sotto i selgiuchidi e che,sotto l’egida dei
sultani ottomani doveva divenire la scuola dominante della legge islamica nel
Medio Oriente. Per stabilire un sistema legale,comunque, era necessaria la
fondazione di collegi per addestrare i professori, i mufti e i giudici che erano essenziali per questa operazione.
Il
cronista Ashikpashazade attribuisce ad Osman (c. 1324-62) la fondazione ad Iznik
del primo collegio ottomano. Egli aggiunge
che nominò Davud di Kayseri come primo professore. Di Davud lo studioso
del sedicesimo secolo Tashköprüzade scrive: “Studiò nella sua
terra natale e poi viaggiò fino al Cairo per studiare esegesi coranica, le tradizioni
[del profeta] e i principi della giurisprudenza sotto i suoi studiosi. Si
distinse nelle scienze razionali e acquistò la scienza mistica… Il Sultano
Orhan costruì un collegio nella città di Iznik. Da ciò che ho udito da fonti attendibili, questo fu il
primo collegio ad essere costruito nei regni ottomani, ed egli nominò Davud di
Kayseri alla carica di professore”. Dato il lasso di tempo tra gli eventi
descritti e le fonti, non è chiaro se queste storie siano accurate in ogni
aspetto. Esse sono comunque plausibili nei loro dettagli e certamente accurate
in senso generale.
Nella
prima metà dell’esistenza dell’Impero
non c’erano tradizioni di studi islamici nei territori ottomani. Era
necessario, dunque, importare insegnanti per fornire lo staff dei nuovi
collegi. La tradizione fa di Davud un nativo di Kayseri, dove aveva anche
studiato. Questa città dell’Anatolia centrale era diventata un centro di
istruzione e cultura durante l’era selgiuchide e il trasferimento di Davud a
Iznik era dunque un esempio di come gli Ottomani e gli altri governanti
dell’Anatolia occidentale trapiantarono
la cultura del vecchio mondo islamico nei territori occidentali appena
conquistati. E’ pure significativo che Tashköprüzade menzioni il viaggio di Davud al Cairo per
proseguire i suoi studi. Sebbene Kayseri era stata una città musulmana dal
momento delle conquiste e degli insediamenti selgiuchidi nel tardo undicesimo e
dodicesimo secolo, come centro di cultura era insignificante in confronto con
le grandi città del vecchio mondo musulmano, come Damasco o Il Cairo.
Per
gli studiosi provenienti dall’Anatolia, i viaggi di istruzione in queste città
erano parte della loro educazione. Il successore di Davud di Kayseri ad Iznik
fu Molla Alaeddin, conosciuto come Kara Hoja, che, secondo Tashköprüzade
“si recò nella terra di Persia e studiò con i suoi studiosi prima del suo
ritorno in Anatolia e della sua nomina ad Iznik”. Uno degli alunni di Molla
Alaeddin fu Molla Shemseddin Fenari (1350-1431) che Tashköprüzade riferisce essere
“professore a Bursa al collegio del Monastero e giudice lì, oltre che mufti nei reami ottomani. Anche Fenari,
dopo il suo studio ad Iznik, era andato al Cairo per completare la sua
educazione. Così fece pure il giurista e mistico Sheikh Bedreddin, che doveva
guidare la ribellione contro Mehmed I (1413-21) nel 1416. Alcuni studiosi
dell’Anatolia si stabilirono nelle città in cui avevano studiato, e fecero
carriera lì. Un esempio nella prima metà del quindicesimo secolo è il giurista
Ihn Humam (m. 1457), un nativo della città anatolica di Sivas.
Questi
viaggi presso i centri di apprendimento del vecchio mondo musulmano erano
chiaramente esenziali per trasferire la legge e la cultura musulmana al giovane
Impero Ottomano. Alla fine, con l’appoggio di nuovi collegi da parte dei
sultani e dei loro facoltosi seguaci, e con l’annessione per conquista dei
collegi pre-ottomani in Anatolia, l’Impero ottomano era divenuto lui stesso, per il 1500, un importante centro
di cultura. Sebbene i viaggi in cerca di conoscenza rimasero la caratteristica
della vita degli studiosi musulmani essi non furono più richiesti per gli
studenti ottomani. Invero, la prospettiva di patronato da parte del Sultano
cominciò ad attirare studiosi da fuori l’Impero nella capitale ottomana. Perdipiù,
la conquista della Siria e dell’Egitto nel 1516-17 portò i vecchi centri di
cultura a Damasco e al Cairo nei regni del Sultano. Per la seconda metà del quindicesimo secolo, e specialmente
durante il sedicesimo e diciassettesimo, furono studiosi che operavano nei
regni ottomani, come Molla Husrev (m. 1480), Ibrahim di Aleppo (m. 1569), Ibn
Nujaym (m. 1563) o Timirtashi (m. 1595) che andavano producendo i manuali più
riputati della legge hanafita.
Era
il sistema di collegi nell’Impero che
fece da supporto a questo aumento degli studi, come pure l’addestramento di
nuove generazioni di insegnanti e mufti
e la provvista di giudici per le corti. Ogni collegio dell’Impero era una
fondazione indipendente, con il suo proprio patrimonio, membri e amministratori.
Nondimeno, per la prima metà del sedicesimo secolo si era sviluppata una
gerarchia di collegi con i salari pagati ai professori e, in un certo grado, i
libri sui quali si insegnava che stabilivano il posto entro di essa. Al livello
più basso c’erano quelli che pagavano i loro professori 20 akce algiorno; in cima, dagli anni ’70 del 1400 c’erano gli otto
collegi che Mehmet II (1451-81) aveva istituito intorno alla sua moschea in
Istanbul. Dopo che Solimano I (1520-66) ebbe completato la costruzione della moschea Süleymaniye
nel 1557, i collegi aggregati a questa moschea vennero ad occupare una
posizione uguale a quella degli otto collegi di Mehmed II. Con l’elaborazione
di questa gerarchia, i sultani cercarono di controllare la progressione degli
studenti e insegnanti attraverso i collegi.
Il
cosiddetto Libro delle leggi di Maometto
II, in questa sezione forse datato agli inizi del sedicesimo secolo, espone
in una forma altamente idealizzata, come deve procedere la carriera di un
insegnante. Diplomandosi, uno studente
dovrebbe diventare candidato per un ufficio, e poi ricevere un incarico
di professore di 20 akce al giorno.
Egli dovrebbe a qusto punto proseguire
attraverso il sistema dei collegi in passi da 5 akce, spostandosi in un collegio che paga 25 akce, poi in un collegio da 30 akce,
e così via fino a che non raggiungeva uno degli otto collegi. Questi potevano
essere il trampolino per la nomina a giudice in una grande città con un reddito
di 500 akce al giorno. Da questa
posizione era possibile diventare un giudice militare che siede nel Consiglio
Imperiale.
La
sistematizzazione dei collegi portò anche a tentativi di controllare il
progresso degli studenti. Un Libro delle
leggi per studiosi, non datato ma probabilmente della prima meta del sedicesimo
secolo, prova in particolare di assicurare che gli studenti continuino a
studiare i “rispettabili libri” secondo “il vecchio costume” e non puntare ad
una veloce promozione mediante petizioni”. Invece, ciascun studente, completato
un corso con un professore dovrebbe
ottenere un certificato che dichiari quanto ha letto del libro e il professore
del grado successivo non lo dovrebbe accettare
senza previo esame del certificato. Il Libro crea anche un sillabo
nominando, in forma abbreviata, i titoli dei libri che uno studente dovrebbe
studiare a ciascun grado. In
particolare, i professori a ciascuno stadio dovrebbero insegnare testi e
commentari sulla giurisprudenza. Il Libro
conclude con l’affermazione che ogni professore o studente che non osserva queste regole dovrebbe subire
una severa punizione.
Un
secondo Libro delle leggi che apparentemente fu destinato ai collegi interni
dell’Impero – cioè quelli di Istanbul e delle vecchie capitali Bursa ed Edirne
– reitera queste regole. Dopo un preambolo,dove il Sultano stabilisce che “Si
sente che l’insegnamento e l’apprendimento sono in decadenza… che i vessilli
della scienza sono rotti… e i collegi vuoti di insegnamento e apprendimento”,
il Libro insiste di nuovo che nessuno
studente debba iniziare un libro fino a che non ha pienamente
padroneggiato quello che precede nel
sillabo. Solo quando essi hanno
adeguatamente studiato tutti i libri ad un livello particolare essi dovrebbero
ricevere un certificato dal professore, che permetta loro di procedere al grado
successivo. In particolare, il Libro
afferma, studenti hanno raggiunto il più
alto grado nei collegi in un anno o anche meno. In futuro, gli studenti
dovrebbero leggere tutti i libri richiesti a ciascun livello e raggiungere gli
otto collegi in non meno di cinque anni. Il Libro
conclude che i collegi dovrebbero essere sotto sorveglianza, e che qualsiasi
professore che disobbedisca al comando subisca la destituzione. Alla fine del
diciassettesimo secolo, un decreto di Mehmed III (1595-1606) ripeteva questi
editti.
Sebbene
essi fossero nominalmente indipendenti, i collegi vennero a formare, durante il sedicesimo secolo, qualcosa che si avvicinava ad un sistema
imperiale, con nomina e sillabi sotto il controllo del Sultano. Essi erano, di fatto, un elemento vitale nel
governo ottomano, più ovviamente perché fornivano l’addestramento legale necessario per i
giudici. Essi fornivano anche opportunità di carriera per i nati musulmani –
perlopiù turchi in Anatolia e Rumelia, Arabi in Siria, Egitto ed Iraq – che si
trovavano esclusi dalle scuole di palazzo e così da carriere come governatori
provinciali e visir.
Entro
il sedicesimo secolo, il diplomato di un collegio aveva la scelta di tre
carriere in particolare. Poveva, con le giuste connessioni, entrare nel
servizio degli scrivani , nel governo del Sultano o in una grande casa.
Altrimenti, aveva la scelta di una carriera di insegnante o una carriera come
giudice. In ogni caso egli necessitava, come primo passo del sostegno di un membro anziano della professione colta
, che lo poteva nominare candidato per un ufficio “al servizio” , nominalmente
del Sultano, ma in pratica di uno dei giudici militari che effettivamente aveva
fatto le nomine. Se uno studente proveniva da una delle famiglie di studiosi
che erano emerse durante il sedicesimo secolo e giunsero a monopolizzare gli uffici più alti nelle professioni
istruite, egli poteva guadagnare il sostegno del suo insegnante o di altri
membri della professione, qualche volta fornendo un servizio, come assistente
in un collegio o impiegato nell’ufficio di un giudice militare.
Fino
agli anni ’30 del 1500, il sistema di sponsorizzare i candidati era chiaramente
casuale. Comunque, durante il suo periodo come giudice militare di Rumelia tra
il 1537 e il 1545, la figura ottomana più rinomata, Ebu’s-su’ud (c. 1490-1574)
riformò il sistema, a seguito di lamentele provenienti da diplomati riguardo il
fatto che il giudice militare dell’Anatolia, Chivizade Muhiyeddin stava
impedendo la loro cooptazione come candidati
per l’ufficio. Da quel momento i giudici militari dovettero tenere uno
speciale registro per iscrivere i candidati, mentre coloro che tenevano un alto
ufficio avevano il diritto di nominare candidati ad intervalli di sette anni.
Allo stesso tempo, Ebu’s-su’ud fissò il numero
di candidati che i titolari di uno specifico ufficio potevano nominare a dieci per ciascun giudice
militare, cinque per i giudici di Istanbul, Edirne e Bursa e tre per i giudici
di altre importanti città. In pratica, la nomina di candidati sembra essere
avvenuta ad intervalli di meno di sette anni, ed era consuetudine per il
Sultano decretare investiture cerimoniali in grandi occasioni di stato, o di
onorare la nomina di un nuovo giudice militare o Gran Mufti. Nondimeno, le misure che Ebu’s-su’ud introdusse ebbero
l’effetto di controllare la cooptazione
di candidati nelle professioni istruite e presumibilmente evitare che i
titolari degli uffici più alti potessero monopolizzare la nomina dei candidati.
Se
il candidato sceglieva di seguire una carriera come insegnante, poteva
attendersi una nomina iniziale in un collegio provinciale con un basso
stipendio. Da lì egli poteva avanzare con occasionali periodi senza ufficio
attraverso la gerarchia dei collegi. Quelli che avevano maggior successo
potevano alla fine arrivare ad uno degli otto collegi o, dopo il loro
completamento nel 1557, in uno dei collegi dalla moschea Süleymaniye.
Era soprattutto il posto di un uomo di cultura in un particolare collegio e il
livello del suo stipendio che determinava il suo rango nelle professioni
istruite. Questo divenne chiaro dalla raccolta di biografie a cura di Nev’izade
Atai (1583-1636), di studiosi attivi tra i regni di Solimani I (1520-66) e
Murad IV (1623-1640). Le biografie di Atai sono normalmente poco più che una
annotazione dei collegi nei quali ciascuno studioso aveva insegnato, e di quali
altri uffici era stato titolare. Per esempio, nel suo resoconto di un certo
Molla Mahmud, che fu attivo durante il
regno di Ahmed I (1603-17), ci dice solo che il tutore reale, storico e Gran Mufti, Sa’deddin, lo aveva sponsorizzato
per l’ufficio; e che dopo che egli aveva raggiunto il grado di un collegio da
40 akce al giorno – il grado più
basso che Atai considera degno di menzione – nel 1605 divenne professore al
collegio di Ibrahim pasha e poi, nel 1608, al collegio di Sinan pasha. Nel 1611
si spostò ad Edirne, dove morì l’anno seguente. Per le figure più importanti,
Atai fornisce anche aneddoti e forse anche una lista dei loro scritti.
Nondimeno, è sempre la progressione attraverso la gerarchia dei collegi che
fornisce l’abbozzo del suo resoconto, indicando quanto era diventata fermamente
stabilita la struttura delle carriere delle professioni colte.
Una carriera di giudice seguiva uno schema
simile a quello di insegnante di
collegio. E’ possibile che,fino alla prima metà del quindicesimo secolo i
governatori di sanjak e altre
autorità locali potessero nominare e promuovere giudici. Certamente nel 1431 il
catasto dell’Albania del sud mostra che il governatore di sanjak concesse una aggiunta al feudo del giudice di Kanina, “in accordo con la
lettera del governatore Zaganoz Bey”. Entro il sedicesimo secolo, comunque, un
aspirante giudice doveva prima cercare la raccomandazione di un membro con
maggiore anzianità nella gerarchia delle professioni colte per diventare un
candidato “al servizio” di uno dei giudici militari di Istanbul. Una nomina
come giudice o come giudice deputato in una delle piccole città dell’Impero
seguiva.
Nei primi stadi delle loro carriere i giudici
potevano guadagnare più dei professori nei collegi con un livello equivalente.
Il salario nominale più basso che un giudice riceveva, che fosse pagato in
contanti o che tenesse un feudo, era 25 akce
a giorno, in confronto alle 20 akce
di un insegnante novizio. In aggiunta, egli riceveva tasse e altri emolumenti. In un altro aspetto,
comunque la carriera aveva limitazioni. Se un candidato sceglieva inizialmente
di servire come giudice piuttosto che come professore in un collegio, egli
avrebbe servito per tutta la sua carriera in piccole città e non avrebbe mai
potuto, come regola, assurgere a giudice di una città di grandi dimensioni.
Queste posizioni – i grandi “seggi di Molla” – erano riservate ad uomini che
erano saliti attraverso i collegi , normalmente per divenire professore agli
otto collegi o al collegio Sülaymaniye. Un esempio di questo è la carriera di Ebu’s-su’ud, la cui prima nomina come
insegnante nel 1517 fu presso un collegio da 30 akce a İnegöl. Nel 1525 egli era al collegio
Sultaniyye a Bursa, una fondazione di Mehmed I, e, due anni più tardi, ad uno
degli otto collegi. Nel 1533, Solimano I lo nominò giudice di Istanbul,
effettivamente la posizione di giudice di più alto rango nell’Impero, e
successivamente,nel 1537, giudice militare di Rumelia.
Un
candidato, dunque, che intraprende una carriera come giudice avrebbe trovato
che, al più alto livello, il suo
sentiero era bloccato ed egli non poteva arrivare a diventare giudice di Bursa,
Istanbul, Edirne, Il Cairo, Damasco o Baghdad. Queste limitazioni della
carriera non si applicavano comunque solo ai giudici. In misura crescente
durante il sedicesimo secolo e in modo più marcato durante il diciassettesimo e
diciottesimo, le più alte posizioni giudiziarie divennero riservate a poche
famiglie dell’élite e un professore di collegio proveniente da fuori di questo
circolo non aveva maggiori chance di un “seggio di Molla” di quanto avesse il
giudice di una piccola città. Era presumibilmente, dunque, per compensare gli
aspiranti frustrati ad alte posizioni che, durante la fine del sedicesimo
secolo, divenne possibile, allargando l’area della giurisdizione delle corti,
designare giudici minori come “seggi dei molla”. Alcuni di questi nuovi seggi divennero permanenti. Altri erano ad hominem. Atai riporta la carriera di
un certo Molla Sinan, che fornisce un esempio.
Egli era diventato candidato per un ufficio dopo aver servito come
scrittore di memorandum per il giudice militare, Abdurrahman (m. 1575), e poi
iniziò una carriera come giudice, servendo in città gloriose come Tire e Alaşeir”.
Poi, attraverso il matrimonio, divenne il protégé
di un certo Ramazan Pasha, attraverso il quale egli acquistò un posto come
ispettore finanziario e, con esso l’opportunità di accumulare ricchezza. In
considerazione della sua nuova posizione, egli comincio a guardare le cariche
di giudice presso piccole città come troppo umili per lui e a cercare un
“seggio di Molla”. A questo fine, entrò nel seguito del Gran Visir Ibrahim
Pasha, comandante dell’esercito in Ungheria. Questo deve essere stato nel 1599-1601.
Il Visir, nel suo interesse, si accertò che la carica di giudice di Tire fosse
elevata al rango di un “seggio di Molla” e che vi fosse nominato Molla Sinan. I
“seggi di Molla” delle grandi città, che garantivano accesso ad uffici più alti
rimanevano comunque il monopolio delle élites.
I
giudici erano forse le figure più importanti della amministrazione giornaliera
dell’Impero Ottomano. Ogni città, paese, villaggio e insediamento nell’Impero
ricadeva sotto la autorità di un giudice e ogni individuo nel distretto
giudiziario, quale che fosse la sua religione, aveva il diritto di ricorrere
davanti alla corte del giudice. Perdipiù l’assenza di avvocati e il fatto che
il pubblico sembra aver avuto libero accesso al giudice o al suo deputato a
tutte le ore, assicurava che le corti svolgessero i loro affari molto
velocemente.
Le
funzioni dei giudici erano anche molto vaste. In primo luogo, presiedeva la sua
corte, amministrando nella maggior parte dell’Impero la legge hanafi, senza tenere conto della religione
o delle scuole legali delle parti in causa. La sua corte era aperta a
chiunque desiderasse fare una causa o un
reclamo. I giudici ottomani agivano anche come notai, assicurando l’osservanza
delle corrette forme legali e fornendo
documenti scritti degli atti come, per esempio, matrimonio, divorzio,
vendita e acquisto di beni immobili,
creazione di fondazioni. Qualche annotazione
dai registri della corte di Ankara per due giorni nel gennaio del 1583
danno un’idea della routine giornaliera di un giudice. Un uomo domanda la
restituzione di beni dati in garanzia. Un altro chiede una compensazione
dall’uomo che ha ammazzato la sua bestia da soma. L’amministratore di una
fondazione domanda dieci monete d’oro che gli sono dovute. Il giudice annota
che un villaggio ha pagato 340 akce
in luogo di orzo all’agente che è andato a raccogliere orzo per i cammelli del
Sultano. Un uomo dichiara per iscritto che non sposerà più la
sua fidanzata e che le parti hanno
restituito tutti i beni scambiati nel
quadro degli accordi pre-nuziali. Un uomo si fa garante per un altro in una transazione concernente
un cavallo. Sostenendo che suo marito ha divorziato da lei una donna chiede che
paghi la controdote e anche il
mantenimento per il periodo durante il
quale ella non può legalmente rimaritarsi. L’abitante di un villaggio si
lamenta di un altro che suona uno strumento musicale.
La
corte, sembra si riunisca normalmente presso la casa del giudice, dove questi,
in tutte le sue funzioni, ha l’assistenza
di un delegato, che può condurre dei procedimenti in sua assenza, e di
un impiegato o più impiegati che si occupano dei documenti e può fare indagini
al di fuori della corte. I registri dei giudici
documentano anche, dopo ciascun caso, il nome di un gruppo
semipermanente di “testimoni del
procedimento”. La loro funzione non è comunque chiara. Essi sembrano aver
agito come una memoria collettiva dei
procedimenti della corte, e potrebbero essere richiesti, ad esempio, di
stabilire la validità dei documenti. Come persone che conoscono la località e i
suoi abitanti, essi forse offrono consiglio riguardo i casi, allo stesso tempo
tenendo d’occhio la probità del giudice. Una persona che sottopone una
questione alla corte incontra quindi non solo il giudice o il suo delegato, e l’impiegato
della corte, ma anche un gruppo di testimoni permanenti.
Le
funzioni di un giudice, comunque, non erano tutte strettamente legali. I
registri delle corti e i documenti del Consiglio Imperiale mostrano che il Sultano indirizzava comandi
ai giudici per svolgere una vasta serie di doveri. Erano, ad esempio,
principalmente i giudici che erano responsabili per l’arruolamento di rematori
per il servizio sulle galee della flotta imperiale, o per organizzare la
raccolta di provviste lungo il percorso di marcia dell’esercito. Un esempio dei
decreti che il Consiglio Imperiale emanò nei confronti dei giudici nel Giugno e
luglio 1564 dà un’idea dell’ampiezza dei loro doveri. Il giudice di
Chernomen riceve un ordine di chiamata alle armi dei razziatori della Rumelia,
dopo che il loro governatore ha riportato che non si sono radunati come
dovevano. I giudici di Kilia e Akkerman dovevano sovrintendere la vendita di
pecore ai mandriani che andavano ad Istanbul per portare rifornimenti alla
capitale. Il Sultano ordina ai giudici di Plovdiv e Sofia di destinare
artigiani e commercianti – un macellaio, un cuoco, un sellaio, un ciabattino e
altri – all’esercito di Rumelia, sotto il comando del Governatore generale. I
giudici i cui distretti si trovano lungo il percorso dell’esercito devono
garantire gli approvvigionamenti. Il giudice di Antalya doveva procurare una
galeotta per assicurare un celere passaggio verso l’Egitto di un messaggero che
portava un importante decreto dal Sultano al governatore generale. Sembra, di
fatto, che fossero i giudici, sia nelle loro funzioni amministrative che
giudiziarie, a fornire supporto e continuità per l’autorità del Sultano.
Il
ruolo dei mufti nell’establishment legale musulmano è più
difficile da definire. Il mufti di
Istanbul giunse a diventare, nel sedicesimo secolo, non soltanto il Gran Mufti
ma anche la figura di rango superiore nella gerarchia religiosa e
legale. Gli altri mufti non erano così importanti. Sembra che nel
quindicesimo e sedicesimo secolo fossero i professori dei collegi a fungere da mufti. Bayezid II, per esempio, stabilì che il professore del
collegio che egli fondò ad Amasya nel 1486 doveva anche fungere da mufti della città. La biografia di Atai,
comunque, dà l’impressione che, dalla
metà del sedicesimo secolo almeno, il Sultano
nominava anche mufti salariati
in importanti città e paesi, come Tessalonica, Damasco o Rodi. Sembra,
comunque, che non esistano documenti sopravvissuti delle loro attività, e le
nomine come mufti sembrano non aver
mai formato la parte più importante di una carriera. L’ufficio di mufti che Atai registra appare
normalmente come intervallo tra incarichi di giudice. Atai chiarisce anche che
i professori di collegio, ufficialmente o non ufficialmente, continuavano ad
agire come mufti. Un Libro delle leggi di Aleppo, datato
1570, fornisce un esempio. Il testo riporta come sia sorto un problema quando
un certo Mehmed Celebi stava facendo un
nuovo accatastamento del sanjak.
Durante il corso di questo lavoro un gruppo di proprietari terrieri e di
amministratori di terre di fondazione andò da lui per lamentare che le loro
terre pagavano la decima, laddove altre terre private e di fondazioni non la pagavano “Se”, essi protestavano, “è
legittimo prelevare la decima, perché non è prelevata da tutte queste terre? E
se è contrario alla nobile Shari’a
noi chiediamo che venga abolita”. La reazione dell’agrimensore fu di cercare
una opinione in materia dal Professore
del collegio di Husrev Pasha ad Aleppo, che emise una fatwa che stabiliva: “La decima canonica è obbligatoria per tutti loro”. L’agrimensore
allora presentò la fatwa al palazzo e
ricevette un decreto del Sultano basato sulla sua decisione: “Tu dovrai
prelevare la decima canonica da tutti loro
e riscuoterla per il Tesoro”. Questo era un caso di un ufficiale del
governo che richiedeva una fatwa ad
un mufti, che successivamente
costituì la base per un decreto. I giudici potevano anche consultare i mufti su questioni legali, esattamente
come i membri del pubblico su una qualsiasi questione. Sotto questo aspetto, i mufti giocavano una parte vitale nell’adattare le norme
ereditate dalla legge islamica e dalla religione ai problemi della società dei
loro tempi. Nell’Impero Ottomano comunque sono solo le fatwa dei Gran Mufti – i mufti di Istanbul – che sono
sopravvissute in gran numero. Poco si conosce dei mufti provinciali, e il servizio come mufti nelle province sembra non aver mai costituito una carriera di
un certo rango, come quella di giudice o professore.
Sembra
che i giudici dei piccoli paesi e i professori dei collegi in generale
rimanessero all’interno della loro professione. Nondimeno, le biografie di Atai
registrano molti casi di insegnanti che ricevevano nomine da giudici e
viceversa. Un certo Molla Abdullah, per esempio, entrò nella professione
docente come candidato del Gran Mufti, Zekeriyya Efendi (m.1593). Dopo
essere progredito attraverso il sistema, divenne, nel 1624, professore al
Collegio Süleymaniye ad Iznik, con – senza
dubbio come consolazioone per una carriera senza sbocchi – “il grado degli otto collegi”. L’anno seguente, lasciò
il collegio per diventare giudice a Tire. Una biografia di poco precedente
serve a mostrare come una persona poteva servire da Mufti, insegnante e giudice nel corso di una singola carriera. Molla
Ma’rifetullah iniziò una carriera di insegnante come candidato “di alcuni
uomini di cultura”. Nel 1584 era professore al collegio di Küçük Çekmece vicino
Istanbul. Cinque anni più tardi, accettò un posto di Mufti di Rodi. Poi, nel 1590, ricevette una promozione a giudice di
Damasco, uno dei grandi “seggi di Molla” dell’Impero. Fu probabilmente il
prestigio del suo incarico che lo indusse a rifiutare ciò che era in effetti
una retrocessione a giudice di Erzurum nel 1595. Invece, si trasferì presso il
Collegio del Sultano Mehmed a Medina. Successivamente si trasferì come mufti di Cipro, poi a Damasco, morendo
in Istanbul nel 1606 mentre attendeva un nuovo incarico.
Nelle
sue biografie, Atai fornisce molti esempi di incarichi che rappresentavano una
posizione onorata durante la permanenza in carica di un particolare individuo,
come ad esempio posti di professori tenuti “col rango degli otto collegi”, o
posti di giudice in piccole cittadine tenuti come grandi “seggi di Molla”.
Questo indicava che, dopo la metà del
sedicesimo secolo, per molti professori, giudici e mufti, non c’era speranza di raggiungere l’apice della professione,
e che questo rango era un premio di consolazione.
C’erano
tre ragioni per questo. Prima, le posizioni al vertice della gerarchia erano
molto poche. Durante il sedicesimo secolo, il mufti di Istanbul emerse come la figura più importante nell’establishment colto, ma questo era un
solo incarico. I mufti nelle province
non godevano di effettivo prestigio o influenza. I giudici di rango più elevato dell’Impero erano i giudici militari
che sedevano nel Consiglio Imperiale, ma ce n’erano soltanto due, e la carica
di giudice nelle grandi città – cioè “seggi di molla” che non erano puramente
onorari – erano pochi. C’erano solo otto cariche di professore negli Otto
Collegi e, dopo la costituzione del collegio Süleymaniye, un po’ di più oltre
questi , ma non a sufficienza per
soddisfare tutti gli aspiranti. Perdipiù, questi collegi di élite agivano come colli di bottiglia.
Per diventare giudice di una grande città era normalmente necessario aver
servito come professore negli otto collegi. Per diventare un giudice militare,
era a sua volta necessario aver servito come giudice di una grande città, e il mufti di Istanbul aveva generalmente
servito come giudice militare. Cominciando dagli otto collegi, dunque, c’era
uno stretto controllo su chi poteva occupare le posizioni giudiziarie e di
insegnamento di rango più alto nell’Impero. Il secondo fattore che limitava le
opportunità di una persona era l’affollamento nel sistema. Al livello più alto,
questo conduceva ad una fiera competizione tra i candidati per gli incarichi e
a periodi molto brevi negli uffici. Al livello più basso, conduceva alla
comparsa in Anatolia di bande di studenti di collegio senza prospettiva di
impiego che si dedicavano al brigantaggio come mezzo di sussistenza. Infine,
gli ambiziosi trovavano che un ristretto numero di famiglie già monopolizzava
le posizioni al vertice. Questo fenomeno divenne più pronunciato dalla fine del
sedicesimo secolo in poi. Gli occupanti del posto di Gran Mufti servono da esempio.
La
tradizione ottomana menziona Molla Shemseddin Fenari come il primo che tenne
questo ufficio, tra il 1424 e il 1431. Il suo discendente, Fenarizade
Nuhiyeddin doveva occupare la stessa posizione dal 1543 al 1545. Per allora,
comunque, i più potenti aspiranti all’incarico erano i due giudici militari,
Ebu’s-su’ud e Chivizade Nuhiyeddin. Chivizade era il primo ad avere la carica
di mufti, dal 1539 fino alla sua
rimozione quattro anni più tardi. Il suo successore era il suo rivale, Ebu’s-su’ud, che rimase in
carica fino alla sua morte nel 1574. Il
suo immediato successore,comunque, era Hamid Mahmud, il figliastro di
Chivizade. La rivalità tra le due famiglie chiaramente continuò. Il successore
di Hamid Mahmud fu Ma’lulzade Mehmed, il
figliastro di Ebu’s-su’ud e, alla sua cessazione nel 1582, il figlio di
Chivizade, Hajji Mehmed assunse l’ufficio. Fu l’ultimo della famiglia di
Chivizade ad occupare questa posizione. Intanto, le fortune della famiglia di
Ebu’s-su’ud continuarono con il figlio di suo cugino, Sun’ullah, che fu per
quattro volte Gran Mufti tra il 1599
e il 1608. Per allora, comunque, erano emersi potenti rivali. Nel 1598, Mehmed
III nominò il tutore suo e di suo padre, Sa’deddin, come mufti. Questo periodo della carica durò solo l’anno e mezzo che
precedette la sua morte, ma i suoi discendenti mantennero una pretesa di
famiglia per mezzo secolo. Il suo figlio maggiore, Mehmed, era Gran Mufti tra il 1601 e il 1603, e di nuovo
tra il 1608 e il 1615, mentre il suo figlio più giovane, Es’ad, occupava
l’incarico tra il 1644 e il 1646. Tre anni più tardi il nipote di Sa’deddin,
Bahai Efendi fu nominato Mufti.
L’avversario con maggior successo alle aspirazioni della famiglia di Sa’deddin
fu Zekeriyyazade Yahya. Comunque, era egli stesso figlio di un precedente Gran Mufti, Zekeriyya Efendi, che aveva
occupato l’incarico nel 1592-93, cosìcché anche lui poteva vantare una pretesa
dinastica.
Dalle
loro posizioni come Gran Mufti o giudice militare i membri di
successo delle dinastie colte potevano usare il loro patronato per promuovere i
loro parenti. La famiglia di Ebu’s-su’ud fornisce un esempio. Grazie
all’influenza di suo padre il figlio maggiore di Ebu’s-su’ud, Mehmed, ricevette
la sua prima nomina di insegnante, al collegio di Kasim Pasha, all’età di
tredici anni con lo stipendio insolitamente alto di 50 akce al giorno. Nel 1551, all’età di circa 26 anni era professore
presso gli Otto Collegi. Suo fratello, Shemseddin Ahmed divenne, all’età di
diciassette anni, professore al collegio che il Gran Visir Rüstem
Pasha aveva recentemente fondato ad Istanbul. Entrambi questi figli morirono
giovani, lasciando Ebu’s-su’ud con l’incarico di educare i suoi nipoti. Il
maggiore dei due, Abdülkerim, divenne professore presso il collegio di Mahmud
Pasha, secondo il biografo Manq Ali, “in onore di suo nonno, e contrariamente
al costume”. Morì nel 1573-74, essendo già diventato, non ancora trentenne,
professore di uno dei collegi presso la moschea Süleymaniye. Comunque, con la
morte di suo nonno, perse la sua fonte di patronato e, per usare le parole di
Atai, “il veloce destriero sul sentiero della prosperità inciampò nella pietra
della sfortuna”. La sua carriera non ebbe avanzamenti fino a che, nel 1580 egli ricevette
l’incarico di professore presso il nuovo collegio delle moschea del Sultano
Selim II ad Edirne. Morì in questa città pochi anni dopo. Ebu’s-su’ud non
offriva il suo patronato solo ai suoi
figli e nipoti. Come giudice militare di Rumelia nel 1537, fu in grado di
portare suo cugino Ja’fer ad Istanbul, dove intraprese una carriera che culminò
nel periodo di sei anni in cui tenne l’ufficio
di giudice militare dell’Anatolia. Il fratello di Ja’fer, Lutfullah, era
professore presso gli Otto Collegi dal 1562 fino alla sua morte nel 1568. Suo
figlio Sun’ullah doveva diventare Gran Mufti.
Ebu’s-su’ud non era nient’affatto insolito nel promuovere la sua famiglia.
Entro un sistema politico quasi senza istituzioni collettive e dove il potere e il patronato risiedevano
in famiglie e entourages, questa era
l’unica via per avanzare nella carriera.
Delle
posizioni a cui aspiravano i membri di queste famiglie di uomini di cultura,
l’incarico di giudice di una grande città non differiva, essenzialmente,
dall’incarico di giudice di una piccola città. I due giudici militari,
comunque, erano membri del Consiglio Imperiale e, come tali, partecipavano al
governo ai più alti livelli, sia attraverso le discussioni formali del
Consiglio che attraverso contatti informali con il palazzo e le grandi
personalità dell’Impero. Nel Consiglio essi avevano particolari responsabilità
per le faccende giudiziarie. Questo risulta chiaramente dalle note che gli
impiegati avevano aggiunto alle bozze dei decreti del Sultano contenuti nei
volumi che sopravvivono a partire dalla metà del sedicesimo secolo.
Queste
mostrano che i giudici militari erano, in primo luogo, responsabili per la
sottoposizione al Consiglio Imperiale di lettere e petizioni che chiedevano
rimedi giuridici e che essi ricevevano dai titolari di uffici e da membri del
pubblico. Nel maggio 1560, per esempio il Sultano – o piuttosto il Consiglio
Imperiale che agiva in nome del Sultano – emise un comando indirizzato al
giudice di Bursa di indagare e riferire riguardo una lamentela da parte della
comunità armena contro un individuo che aveva “causato agitazione” contro due
chiese. Le bozze del decreto riportano una nota: “Il giudice militare
[dell’Anatolia] le sottopose”. Nello stesso mese, il Consiglio ricevette una
lettera dal professore del Collegio di Mehmed Pasha ad Iznik, che lamentava che
qualcuno aveva senza necessità costruito dei bagni, che stavano sottraendo sia
acqua che denaro dai bagni che appartenevano alla fondazione che sostentava il
collegio. In risposta, il giudice di Iznik ricevette l’ordine di non consentire
la costruzione di nuovi bagni in città. La nota aggiunta alla bozza indicava
che il testo del decreto incorpora le esatte parole dell’ordine del giudice
militare: “Il Giudice Militare [dell’Anatolia] sottopose [la lettera]. Perché
ha scritto il suo comando sulla petizione, il decreto è stato scritto in
conformità”. Una simile nota appare su un decreto, anch’esso del maggio 1560,
emesso in risposta ad una lettera del governatore del sanjak di Sultanönü,che riportava i sospetti di un
caso complesso di omicidio. Il decreto, che incorporava gli ordini del giudice
militare, ordina a lui e al giudice di Eskişehir di infliggere “il costume
accettabile” – cioè la tortura – al sospetto, e di riportare ciò che ne sarebbe
derivato. Aggiunge enfaticamente che il sospetto non deve essere ucciso. Un
altro decreto, questa volta del giugno del 1560, emesso in risposta ad una
lettera del giudice di Beypazar, ordina l’esecuzione di un attaccabrighe per violenze
carnali su ragazzi, e dei suoi complici, se ripetono l’offesa. Il testo reca la
nota: “Il giudice militare [dell’Anatolia] sottopose [la lettera], e il decreto
è registrato incorporando le sue parole”.
I
giudici militari erano anche i principali agenti nello svolgimento di un’altra
delle funzioni del Consiglio Imperiale. Dalla fine del quindicesimo secolo, la
classe militare – cioè, chiunque ricevesse un feudo o un salario dal Sultano, –
ricadde sotto una giurisdizione separata dal resto dei sudditi del Sultano. In
materia criminale, le autorità locali sottoponevano i casi al Consiglio
Imperiale, dove essi venivano esaminati dai giudici militari. Nel novembre
1559, per esempio, il giudice militare dell’Anatolia ordinò al giudice di Iznik
di giustiziare il subashi – il
titolare di uno zeamet con la
responsabilità di mantenere l’ordine e
di infliggere le punizioni – nel suo distretto, dopo che era venuto alla luce
che c’era lui dietro l’assassinio di un
gruppo di donne sulla pubblica strada. Nel luglio del 1560, dopo aver ricevuto
una lettera dai giudici di Ayazmend e Bergama, il giudice militare ordinò al
governatore del Sanjak di Bursa di
torturare il subashi di Bergama, che
era sospettato di aver ucciso il custode
del castello di Bergama. Nel settembre del 1560, il giudice militare della
Rumelia ordinò al governatore del Sanjak
e al giudice di Vidin di indagare su un caso dove un cavaliere del sanjak era sospettato di averne ucciso
un altro. In tutti questi casi, le autorità esecutive dovevano riportare gli
esiti al Consiglio Imperiale.
In
questo saggio dell’attività dei giudici militari sono solo le note degli
impiegati sulla bozza dei decreti che rendono chiaro che era stato il giudice
militare che aveva presentato la materia al Consiglio e preso la decisione
circa cosa fare. I decreti stessi furono emessi in nome del Sultano. Lo stesso
saggio comunque, suggerisce anche che i giudici militari potevano emanare
comandi indipendentemente, nel loro nome o nel nome del Sultano. Una nota
aggiunta alla bozza di un decreto del giugno del 1560 registra che “un comando
scritto dal giudice militare [dell’Anatolia]” è stato dato allo stesso
messaggero che stava portando il decreto del Sultano. Perdipiù, un comando del
Sultano al Governatore generale dell’Anatolia concernente il sospetto “nel caso
della ragazza chiamata Halime” nota che “il mio nobile comando è stato scritto
a voi dal mio giudice militare”,
suggerendo che i giudici militari potevano emanare in modo indipendente ordini
in nome del Sultano.
In aggiunta
alle loro responsabilità in materie giudiziarie nel Consiglio Imperiale, erano
i giudici militari che erano responsabili per le nomine – di nuovo in nome del
Sultano – dei professori e dei giudici tra i candidati all’ufficio che erano “al servizio” di essi
nella capitale. Il sistema di nominare i candidati che Ebu’s-su’ud introdusse poco dopo il 1537
sembra essere durato fino al diciassettesimo secolo.
Come
membri del Consiglio Imperiale, i due giudici militari occupavano le più alte
posizioni esecutive nella gerarchia legale e colta. Comunque, durante il
sedicesimo secolo il Gran Mufti li
sorpassò in rango e prestigio. La tradizione asserisce che Molla Fenari tra il
1424 e il 1431 era il primo a tenere questo ufficio, ma è difficile
rintracciare con certezza persino i nomi dei suoi successori, ciò che
suggerisce che nel quindicesimo secolo la carica di Gran Mufti mancava del prestigio che doveva acquisire più tardi. Questo
era un fenomeno del sedicesimo secolo e oltre, ed avvenne, sembra, in parte
come un risultato del classico punto di vista musulmano della superiorità
morale del mufti sul giudice,ma
principalmente attraverso il prestigio personale di due dei più grandi titolari
dell’ufficio. Questi furono Kemalpashazade (1525-1534) ed Ebu’s-su’ud
(1545-1574). Il cosiddetto Libro delle
leggi di Maometto II che,in questa sezione, probabilmente data dalla
seconda metà del sedicesimo secolo, stabilisce in modo non equivoco che il Gran
Mufti è il vertice delle professioni
colte, ed era allora normale per il mufti
di aver servito in precedenza come giudice militare.
A
dispetto della sua eminenza, il Gran Mufti
non possedeva poteri esecutivi e non era un membro del Consiglio Imperiale.
Comunque, lo stesso ufficio conferiva prestigio e i Gran Mufti si muovevano nei circoli politici più alti, spesso godendo di
accesso al Sultano. Ebu’s-su’ud, per esempio era un confidente di Solimano I.
Sa’deddin era stato insegnante di Murad III e mehmed III e rimase un
consigliere di entrambi. Suo figlio Es’ad divenne patrigno di Osman II
(1618-22). Con queste connessioni, i granMufti
esercitavano influenza in politica,ma questo non era il loro ruolo formale. La
funzione pubblica del Gran Mufti,
come quella delle sue controparti più umili, era di emanare delle fatwa in risposta a quesiti legali e di
altro genere, che chiunque dal Sultano in giù, poteva chiedere. Il suo status
come il più eminente interprete della legge di Dio era tale che persino il
Sultano doveva tenere conto della sua
opinione e l’autorità delle sue fatwa
erano tali che, dal tempo dell’ufficio di Kemalpashazade divenne consuetudine
scegliere e pubblicarle in antologie. Questi volumi di fatwa sevivano non solo come lettura edificante,ma aiutavano anche i giudici e altri che
cercavano una guida nella soluzione di problemi legali.
Prima
dell’incarico di mufti di
Ebu’s-su’ud, il processo di scrivere le fatwa
era informale, come è evidente dal resoconto del Gran Mufti, Ali Jemali (1503-1525) che appare nel volume di biografie di
uomini colti di Tashköprüzade. “Egli era solito”, scrive
Tashköprüzade,
“vivere all’ultimo piano della sua casa, dove aveva un cesto che pendeva. Il
richiedente vi poneva [il suo quesito
scritto su ] un pezzo di carta e lo agitava. Il Molla avrebbe allora sollevato
[il cesto], scritto e dato giù la sua risposta”. Questa e altre procedure
informali chiaramente limitavano il numero di fatwa che il mufti poteva
emettere e fu per accelerare il processo che Ebu’s-su’ud, mufti dal 1545 al 1574, riformò il sistema. Da questo periodo, fino
alla abolizione dell’Ufficio delle fatwa
nel ventesimo secolo, il quesito non poteva arrivare direttamente al mufti,ma invece andava agli impiegati
del mufti, che erano esperti nella
legge e nell’arte della formulazione legale,. Questi riesponevano il quesito
secondo un formato standard e lo passavano al mufti, che avrebbe scritto la sua risposta sotto la domanda ed
aggiunto la sua firma, pronta per essere presa da colui che aveva fatto la
richiesta. Il sistema di Ebu’s-su’ud accelerò il processo in tal misura che il
suo impiegato Ashik Celebi poteva ricordare come [Ebu’s-su’ud] cominciasse a
scrivere risposte dopo la preghiera
dell’alba ed era sicuro che il lavoro terminasse per la chiamata alla preghiera
pomeridiana. Egli le contava e nella prima occasione furono emesse e siglate
1412 fatwa e nella seconda occasione
furono emesse e siglate 1413 fatwa”.
Nel secolo seguente il sistema divenne
più sofisticato mano a mano che le abilità degli impiegati aumentarono. Per la
fine del diciassettesimo secolo era normale scrivere in bozza una questione in modo che richiedeva non più di un “si” o un “no” come
risposta, lascinando al mufti il
compito di aggiungere un “si” o un “no” e la sua firma. Dato che gli impiegati
affidabilmente ordinavano le fatwa in
una pila per il “sì” e in una pila per il “no” egli non doveva neanche leggere la domanda. Era
così lo staff permanente dell’ufficio del mufti,
piuttosto che i mufti stessi, che
mantenavano gli standard e la continuità nell’emissione delle fatwa, e che succesivamente
raccoglievano e ponevano in antologie le
fatwa.
L’ufficio del Gran Mufti, come le corti dei giudici, era aperto a chiunque fosse
fisicamente capace di presentarsi con
una domanda. Comunque, dal momento che le fatwa
sono, in principio, dichiarazioni generali della legge piuttosto che giudizi su
casi particolari, essi sono in forma strettamente anonima con i dettagli circa
il nome, il tempo o la località rimossi. Questo rende difficile stabilire chi pose la domanda originale e in quali
circostanze. Comunque, molte domande devono essere venute dal pubblico, che
desiderava risolvere un dubbio o una
disputa, o cercava una fatwa per
rafforzare la propria posizione in una causa che portava all’attenzione di una
corte. Altre domande dovevano provenire dai giudici che cercavano una guida nel
risolvere una causa o in altri problemi. Nella fatwa seguente, per esempio, Ebu’s-su’ud sembra rispondere alla
domanda di un privato che vuole conoscere la corretta procedura per macellare
gli animali, probabilmente alla Festa del Sacrificio: “Quando un animale da
macello deve essere macellato, quante zampe devono essere legate, e quali
devono essere lasciate libere?”. Risposta: “Tre delle zampe sono legate. La
zampa destra deve essere libera e l’animale deve giacere sul fianco sinistro”.
La seguente domanda sembra essere giunta ad Ebu’s-su’ud da parte di un giudice
che chiedeva soluzione ad un difficile problema: “X produce prove che A è stata
sua moglie da una certa data. Y produce pure prove che essa è stata sua moglie
dalla stessa data. Quali prove sono accettabili?”. Risposta: “Se le due date
sono le stesse non è da accettare alcuna prova. Le due prove si contraddicono
l’una con l’altra”.
L’autorità dei mufti era tale che persino i sultani e gli uomini di stato sentivano il bisogno di consultarli sulla legalità di certe azioni politiche. Ci sono fatwa, per esempio, che servirono a giustificare l’esecuzione dello Sheikh Bedreddin nel 1416, emesse in questo caso da un Molla persiano; o per giustificare la guerra nel sedicesimo secolo contro i Safavidi; l’esecuzione di suo figlio Bayezid ad opera di Solimano; l’attacco a Cipro nel 1570, in violazione di un trattato di pace; o la deposizione di sultani nel diciassettesimo secolo. In questi casi le fatwa avevano esattamente la stessa struttura di quelle che trattavano con materie meno importanti, con domande e risposte poste nello stesso linguaggio anonimo. Non ci potevano comunque essere dubbi sul fatto che in questi ultimi casi i mufti conoscevano esattamente la realtà della situazione riguardo alla quale manifestavano un’opinione, e in quasi tutti i casi erano preparati a dare al Sultano, o ad altre autorità la risposta che cercava. La situazione nel diciassettesimo secolo era che se essi rifiutavano era probabile che perdessero la loro posizione. “Ma talvolta ”, commentava il console inglese sir Paul Rycaut negli anni ’60 del 1600: “Sono inviate dal Gran Signore al Mufti domande che questi non può risolvere con soddisfazione della propria coscienza, e secondo i fini del Sultano; a causa di che, il bene dello stato incontra ritardi e impedimenti. In questo caso il mufti è senz’altro destituito dal suo infallibile ufficio, e viene introdotto un altro oracolo, che possa risolvere le difficili domande con una sentenza più favorevole. Se non lo fa, è degradato come il precedente, e così capita al successivo, fino a che non ne viene trovato uno che sia in grado di interpretare in accordo con ciò che meglio concorda con gli interessi del Sultano”.
Dal
quindicesimo secolo e probabilmente da prima, la legge sacra – la shari’a – regolava la maggior parte
degli affari giornalieri dei musulmani nell’Impero Ottomano e anche molti
aspetti della vita dei non-musulmani. Non era comunque l’unico sistma legale in
vigore nell’Impero, ma coesisteva anche con la legge secolare ottomana o kanun.
Il kanun regolava aree in cui le
disposizioni della legge religiosa erano
o mancanti o troppo in contrasto con la
realtà tanto da essere inapplicabili. Queste, nell’Impero Ottomano come negli
altri stati islamici, erano soprattutto le aree della legge criminale, del
possesso della terra e della tassazione. Le origini della legge secolare erano
nelle consuetudini ed era un lungo uso che in primo luogo dava loro la
legittimazione. La fine del quindicesimo e del sedicesimo secolo comunque
videro il Sultano emanare versioni scritte della legge e la loro modifica
tramite decreti che le davano il carattere duplice di legge sultanica e
consuetudinaria. Arrivati al sedicesimo secolo la consapevolezza della
disparità tra la legge religiosa e la legge secolare condussero Kemalpashazade
e successivamente, su comando imperiale, Ebu’s-su’ud a ridefinire e
sistematizzare le leggi ottomane sulla terra e la tassazione in termini che
mutuavano dai giuristi hanafi. Nel fare questo, essi seguivano la tradizione
dei loro predecessori medioevali che
pure essi avevano cercato di spiegare la realtà del possesso feudale e della
tassazione usando termini e concetti della legge classica. Come i loro
predecessori, ciò che produssero erano finzioni legali che soddisfacevano le
pie aspirazioni senza sconvolgere la realtà legislativa.
La
base della legge secolare ottomana era la distinzione tra i sudditi del Sultano
che pagavano le tasse e i suoi servitori che ricevevano un salario o sotto
forma del possesso di feudo o direttamente dal Tesoro. La legge secolare
determinava la relazione tra queste due classi. Questo era differente dalle
distinzioni che si trovano nella legge religiosa, dove è la classificazione in
maschi e femmine, liberi o schiavi, musulmani o non musulmani o nemico non
musulmano che determinano lo stato legale di una persona e i suoi diritti e
obbligazioni. Nella classificazione secolare dei sudditi ottomani, coloro che
sono esenti da imposte sono conosciuti come la classe militare – gli askeri. L’aggettivo descrive la loro
funzione più o meno accuratamente, dal momento che la maggior parte dei membri
della classe erano soldati, cavalieri timarioti, o altrimenti giannizzeri e
membri delle sei divisioni della cavalleria di palazzo che ricevevano i loro
salari dal Tesoro. Comunque, in aggiunta a questi uomini e ai visir e ai
governatori provinciali, che servivano come comandanti dell’esercito, la classe
militare comprendeva anche i cortigiani del palazzo e i membri delle
professioni religiose, dell’insegnamento e legali. Il termine generale per un
membro della classe di persone che pagavano le tasse era un termine arabo che
veniva dalla legge religiosa, ra’iyyet
o, al plurale, re’aya (“gregge”). La
grande maggioranza di questi erano contadini coltivatori e, nel suo senso
tecnico il termine ra’iyyet è
riferito ad un contadino che coltivava un appezzamento di terreno in virtù di
un accordo contrattuale col possessore del feudo come rappresentante del
Sultano. In senso generale il termine si riferiva a tutti i soggetti ottomani
che non erano membri della classe militare.
La
formulazione di una terminologia per descrivere i soggetti che pagavano le imposte
e i soggetti che non le pagavano, è il risultato di tentativi fatti alla fine
del quindicesimo secolo di definire il loro status legale. Una delle cose che
lo aveva reso necessario era
l’istituzione di una giurisdizione separata per la classe militare.
Questo, se dobbiamo credere alla storia che ci riporta Spandounes, avvenne su
ordine di Bayezid II (1481-1512) e avvenne , come molti cambiamenti
istituzionali nell’Impero Ottomano, per caso. Spandounes ci dice come Bayezid
nominò un governatore di sanjak come
ispettore del mercato ad Istanbul, per fornirlo di un reddito mentre non aveva
assegnato altro ufficio. Come ispettore del merato egli disobbedì ad un decreto
del giudice di Istambul, Yusuf Kirmasti (1494-98), sostenendo che, dal momento
che riceveva la sua autorità direttamente dal Sultano, il giudice non aveva
alcuna giurisdizione. Quando, dopo furiosi contrattempi, il giudice provò a
perseguirlo, nessuno aveva voglia di fornire prove contro l’ispettore del
mercato, e allora il Sultano “privò il suddetto giudice del suo incarico e
emanò un comando secondo cui nessuno poteva avere potere o autorità sopra
schiavi che ricevevano un salario dal
Sultano, e il suo comando è stato osservato fino ad oggi”. Spandounes aggiunge
che “ora, se qualcuno ha un contrasto con un timariota o un subashi, egli li deve far rispondere al
governatore del sanjak o, se sono in
Istanbul, all’agha [dei giannizzeri]
o ai pasha [del Consiglio Imperiale]”.
Il
decreto di Bayezid II che poneva la classe militare sotto una giurisdizione
separata da quella degli ordinari soggetti di imposta richiese una chiara
definizione di chi appartenesse a quale gruppo. La distinzione tra la classe
militare e la classe dei soggetti di imposta deve essere emersa informalmente
nel quattordicesimo secolo con la concessione di terre e salari al seguito del
Sultano. La compilazione dei registri catastali dalla fine del quattordicesimo
secolo in poi, che registrava i redditi e la loro distribuzione tra i
timarioti, forniva una registrazione di chi apparteneva alla classe militare in
ciascun sanjak. Essi non fornivano
però una definizione legale, né erano esaustivi. In caso di disputa, era
presumibilmente la consuetudine e la decisione locale che determinava lo status
di una persona come soggetto di imposta o militare. Comunque, il decreto di
Bayezid poneva la classe militare sotto una giurisdizione separata e non ci
volle molto dopo di ciò perché apparisse una formulazione. Il Libro della legge emanato nel 1499 su
comando di Bayezid, definiva chi apparteneva alla classe militare: “I cavalieri
che servono nelle campagne del Sultano appartengono alla classe militare,
quando sono in servizio e dopo che si sono ritirati dal servizio, per tutto il
tempo che il cavaliere che si è ritirato non è registrato come un soggetto di
imposta (ra’iyyet) appartenente ad
un’altra persona. Gli schiavi maschi e femmine del Sultano, dopo l’emancipazione, appartengono essi
stessi alla classe militere nel il tempo in cui sono sposati ad un soggetto
della classe militare. I giudici, i professori, i mufti e gli amministratori e supervisori delle fondazioni – cioè i
titolari di uffici che sono conferiti servendo la Sublime Porta – sono membri
della classe militare. I seguenti hanno pure status militare: il figlio del
membro della classe militare, per tutto il tempo che ha uno stato riconosciuto,
e non è registrato presso nessuno come soggetto di imposta; le sue mogli alle
quali è attualmente sposato; gli schiavi di un membro della classe militare,
che servono nella classe militare dopo l’emancipazione, i cui mezzi di
sostentamento provengono dalla classe
militare e che non sono registrati come ra’iyyet
di nessuno; la figlia di un cavaliere sposata ad un cavaliere, per tutto il
tempo che è maritata con il cavaliere”.
La
relazione legale e fiscale tra la classe militare e i soggetti di imposta –
principalmente, all’atto pratico, tra timarioti e contadini – forma l’oggetto
principale della legge secolare. Questo emerse come un corpo di codici scritti
durante il regno e per comando di Bayezid II. Il primo di questi codici è il Libro della legge che forma la
prefazione al dettagliato prospetto catastale del sanjak di Bursa, datato 1487. Questo espone le imposte e le ammende
che i governatori del sanjak e i
tenutari di feudi possono esigere dai contadini e dai pastori, e le condizioni
alle quali i contadini possono occupare la terra. Il suo anonimo compilatore ci
dice in un preambolo piuttosto involuto, che le sue fonti erano “le
consuetudini e le regole per le tasse stabilite per salda consuetudine”, “i
registri catastali ottomani” e “i decreti dei sultani”. Dicendoci questo egli
fornisce un resoconto non solo del suo codice in particolare, ma della legge
secolare in generale: le sue basi sono le consuetudini consolidate, come
registrate nei registri catastali e modificati attraverso comandi del sovrano.
Un’altra caratteristica di questo Libro
della legge, che esemplifica il genere,
è che si concentra sui dettagli e le eccezioni, senza prima enunciare i
principi o spiegare i termini. Il compilatore non espone, ad esempio le norme
per l’eredità di tenute contadine ma tratta solo quelli che sono casi
controversi, come i diritti ereditari delle vedove e degli orfani. Riguardo gli
orfani il codice dice: “Stabilire il pagamento di una tariffa di ingresso per
l’accesso alla terra è una novità rigettata e proibita. La terra di suo padre è
trattata come proprietà ereditabile. Se la terra lasciata dal padre dell’orfano
è data ad un altro sulla base del fatto che non è coltivata, quando l’orfano giunge
ad età matura e domanda la terra essa deve essere restituita all’orfano”. Sulle
vedove stabilisce: “Una donna non deve lasciare incolta la terra di cui ha la
disponibilità. Fino a quando paga decime e tasse è contro la legge prenderle la terra”.
Il Libro della legge di Bursa del 1487
fornisce un modello per i futuri codici. Gran parte di questi erano pure essi Libri della legge per sanjak, che tipicamente formavano la
prefazione al prospetto catastale di un distretto elencando tasse locali e
altre regole. La base dei loro regolamenti erano le consuetudini locali che,
come mostra il vocabolario Slavone, ungherese, greco e in altro linguaggio
tecnico non-turco, erano spesso pre-ottomane. L’esempio più evidente della
adozione di una pratica locale appare, comunque nei Libri della legge dei sanjak
dell’Anatolia sud-orientale, che Selim I aveva conquistato tra il 1514 e il
1516. I primi Libri della legge per
questi sanjak si aprivano con
l’affermazione che erano “in accordo con la legge di Hasan padishah”, un
riferimento al sovrano Akkoyunlu del distretto, Uzun Hasan, che era morto nel
1478. I compilatori credevano, dunque di star ripristinando la legge Akkoyunlu
e non sembra esserci ragione di dubitare la loro affermazione, sebbene alcune
specifiche norme chiaramente datano da
prima del periodo degli Akkoyunlu. La struttura
di questi Libri delle leggi
consiste nello stabilire quelle che erano state le norme degli Akkoyunlu,
notando se erano state confermate o
abolite e convertendo il valore delle imposte pecuniarie in moneta ottomana.
Alcune clausole dal Libro della legge
per Ergani, datato 1518, forniscono un esempio: “… e da ciascuna famiglia essi
usavano esigere un giorno di lavoro… Una pecora
era presa da ciascuna famiglia come imposta della festività… e da
ciascuna famiglia essi usavano esigere una imposta termürjik,
una tenge, che è di due akce ottomani… Le disposizioni di cui
sopra sono state confermate tali e quali”
Molta
parte della legge secolare ottomana ha dunque la sua origine nelle pratiche locali
e nelle leggi di dinastie precedenti. Nondimeno, a dispetto di questa
diversità, essa tendeva nel corso delle
decadi a divenire più omogenea. La uniformità totale non era possibile, data la
diversità dei popoli e delle economie locali entro l’Impero, ma certi statuti,
come quelli che fissano la quota della tassa annuale sui possedimenti dei
contadini, le imposte sulle messi o le imposte occasionali , come la tassa
sulla sposa, gradualmente si avvicinarono l’una all’altra . Questo processo non
era casuale. Sebbene un sanjak
poteva, negli anni successivi alla sua conquista, aver seguito le leggi del
regime precedente, i Libri della legge
suggeriscono che i compilatori dei successivi registri catastali avrebbero
portato la regolamentazione sui terreni e le imposte in accordo più stretto con
ciò che essi consideravano come “legge ottomana”. Invero, occasionalmente questa legge entrò in vigore immediatamente
dopo la conquista ottomana. I primi registri per l’Anatolia sud-orientale, per
esempio, conservano i testi delle “Leggi
di Hasan Padishah” degli Akkoyunlu, ma i registri stessi indicano che, in
alcune materie il nuovo regime ottomano esigette imposte non secondo la “Legge
di Hasan Padishah”, ma secondo la “legge ottomana”. Perdipiù, in questa e altre
regioni i nuovi Libri della legge
compilati durante il sedicesimo secolo al tempo dei nuovi prospetti delle terre
e delle imposte, talvolta registrano un
cambiamento nella percentuale o la abolizione di una tassa, sulla base del
fatto che la vecchia imposta “non era legge ottomana”.
La
nozione di una specifica “legge ottomana” deve la sua origine a Bayezid II. Fu
lui che,poco dopo il 1500, emanò un comando ad un ufficiale anonimo di
compilare in un volume rilegato: “… tutte le leggi consuetudinarie ottomane…
che sono il pilastro del buon ordine nei
pubblici affari di tutti i popoli”. Il risultato di questo comando fu il Libro della legge del 1499, che recava
come materia principale le obbligazioni dei timarioti e dei soggetti di imposta
in tutte le parti dell’Impero. In aggiunta, il compilatore inseriva capitoli
che si applicavano solo a gruppi locali, come i Valacchi della penisola
balcanica o i Turcomanni dell’Anatolia. Il lavoro nel suo complesso è un
collage. Accanto alle clausole che il compilatore sembra aver composto egli
stesso, altre chiaramente hanno le loro
origine in decreti del Sultano, fatwa,
registri catastali e i Libri della legge
dei sanjak. La raccolta fu un
successo, che esiste ancor oggi in decine di copie , e fu sottoposta a
parecchie revisioni fino a che non
raggiunse la sua forma finale intorno a circa il 1540. Esso fornì, per la prima
volta, un codice universalmente applicabile di leggi secolari e una fonte di riferimento per definire la “legge
ottomana”. Subito dopo la promulgazione diviene comune trovare nei Libri della legge dei sanjak riferimenti alla “legge
ottomana”. Nel Libro del 1528 del sanjak di Kütahya,
per esempio, la clausola che espone le imposte sulle vigne e gli orti inizia:
“una imposta è prelevata dal prodotto delle vigne e degli orti secondo quanto è
nella legge ottomana”. Una clausola che
specifica la percentuale della tassa sulle pecore in un libro della legge del sedicesimo secolo del sanjak anatolico di Bozok dice: “Dopo che il parto degli agnelli è
terminato in maggio, secondo la legge ottomana, gli agnelli e le pecore devono
essere contati, e deve essere prelevato un akce
ogni due animali. Niente dovrebbe essere prelevato in aggiunta a questo…”.
Clausole come queste mostrano l’effetto che ebbero codice di Bayezid e le sue
successive revisioni sulla standardizzazione della legge.
Sebbene
i servizi dovuti dai timarioti e le tasse dovute dai contadini formino la parte
principale del Libro della legge di
Bayezid II, il lavoro di fatto si apre
con quelli che in origine erano due codici criminali indipendenti. Il primo di
questi esiste separatamente come sezione di apertura in quello che viene
chiamato, in modo fuorviante Libro della
legge del Sultano Mehmed Khan, una compilazione non sistematica che data
circa il 1490. Il secondo codice, che si occupa principalmente con offese
capitali, sembra datare dalla fine degli
anni ’90 del 1400, dal momento che ha una clausola che indica che la classe
militare ora ricade direttamente sotto la giurisdizione del Sultano e non dei
giudici. Nelle revisioni successive del libro della legge, i compilatori
amalgamarono i due codici in un unico codice. Leggi criminali appaiono anche,
piuttosto a caso, nei Libri della legge
dei sanjak. Il Libro della legge del 1487 di Bursa, per esempio, stabilisce: “150 akce sono esatti da chi rimuove un
occhio e 100 akce da chi infligge una
ferita che lascia scoperto l’osso…” e così via. Clausole simili appaiono nei Libri
della legge di altri sanjak. La
ragione per queste leggi penali nei libri
della legge è che erano i membri della classe militare,specialmente i subashi, che erano responsabili per
l’arresto e la punizione dei criminali, e che incassavano anche le ammende come parte delle proprie entrate.
L’applicazione della legge criminale era dunque un aspetto della relazione tra
la classe militare e soggetti di imposta.
I
libri della legge, comunque, non ci dicono quasi nulla sulle procedure della
legge criminale, più o meno limitandosi ad elencare il tariffario delle ammende
e altre punizioni. E’ difficile, dunque, stabilire come era il processo legale
tra l’arresto e la punizione, e anche se il codice penale del Libro della legge del 1499 e delle sue
revisioni successive fu mai applicato in pratica.
Circa
la questione delle offese capitali, Spandounes all’inizio del sedicesimo secolo
stabilisce inequivocabilmente che il caso doveva essere portato dinanzi ad un
giudice. “Nessun governatore di sanjak”
egli scrive “per quanto la sua carica sia della massima importanza, può
condannare a morte senza il permesso del giudice… Un subashi arresta il malfattore, lo sottopone a tortura e gli strappa
una confessione del suo crimine, prima di portarlo a comparire di fronte ad un
giudice. Se è condannato, il subashi
lo mette a morte”. L’affermazione di Spandounes conferma ciò che appare nel Libro
della legge di Bursa del 1487. Questo proibisce la somministrazione della
pena di morte prima che le infrazioni del miscredente siano provate “in
presenza del giudice della regione”. E’ probabile, dunque, che in pirncipio,
casi che coinvolgono la pena di morte vadano di fronte ad un giudice. La
pratica era probabilmente molto più varia. I riferimenti alla pena capitale
sono rari nei documenti delle corti dei giudici, e clausole occasionali nei Libri della legge dei sanjak suggeriscono che i
governatori avrebbero talvolta,
presumibilmente per il loro arricchimento, commutato la pena in una ammenda. Il
Libro della legge di Bursa, per
esempio, proibisce questa pratica. Una clausola simile appare in un libro della
legge del 1540 per i Boz Ulus, un gruppo
tribale nel nord della Siria e del sud-est dell’Anatolia. Questo stabilisce che
“le persone che meritano la pena capitale… devono essere giustiziate. Non una
moneta deve essere presa al posto della pena capitale”. Il fatto che alcune
clausole appaiono di nuovo nel Libro
della legge del 1570 per Aleppo suggerisce che la norma è stata violata:
“Moneta in luogo dell’esecuzione capitale non deve essere accettata da persone
che meritano tale pena”. Queste clausole suggeriscono che in casi capitali le
autorità esecutive tendevano o a scavalcare le corti o almeno ad ignorare le
loro sentenze.
Gran
parte delle infrazioni meno gravi sembrano essere competenza delle autorità
esecutive. Certamente capita di trovare casi nei registri dei giudici, ma vengono annotati solo i fatti del caso e le
affermazioni dei testimoni, senza
registrare un verdetto o una punizione. Queste presumibilmente erano
competenza dei subashi. In molti
casi, tuttavia sembra molto
probabile che il subashi o altre autorità militari erano responsabile per l’intero
processo dall’arresto – sebbene questo poteva essere responsabilità delle
comunità o di privati individui – alla punizione, scavalcando del tutto le
corti. Nell’assenza di documenti, comunque, questa può essere solo una
supposizione.
In
accordo con i codici criminali, la punizione per infrazioni non capitali
consistevano normalmente di frustate, ammende o una combinazione di entrambe.
Non è certo che le autorità seguissero il codice fedelmente. Esse dovevano
comunque esigere delle ammende, dato che formavano una parte delle entrate
della classe militare, e una piccola prova suggerisce che, al tempo almeno della sua promulgazione sotto Bayezid
II, le disposizioni del codice erano osservate. Per l’accoltellamento prescrive
una punizione inconsueta: “Il reo dovrebbe avere il coltello infilato nelle sue
braccia ed essere portato in giro”. Spandounes fornisce la prova che questo era
ciò che effettivamente accadeva, quando nota: “Se una persona leva un’arma contro
un’altra, il giudice lo fa… infilzare con cinque sei o sette coltelli e portare
così conciato nelle pubbliche piazze”.
L’ESERCITO:
IL QUATTORDICESIMO SECOLO
I
primi resoconti sulla guerra ottomana sopravvivono
nelle cronache bizantine di Pachymeres e Giovanni Cantacuzeno. Né l’uno né
l’altro forniscono molti dettagli, e
Pachymeres è particolarmente confuso. Nondimeno è il solo che ci fornisca un
rapido sguardo sui guerrieri turchi ai tempi di Osman (c. 1324). Sembra che la
maggior parte degli uomini ottomani fosse a cavallo, ed esperti in imboscate ed
attacchi a sorpresa. Pachymeres descrive ad esempio un assalto ad una forza bizantina sotto il
comando di un certo Mouzalon “inaspettatamente,mentre erano addormentati”. In
un passaggio successivo egli ci dice come gli uomini di Osman misero in rotta un altro comandante
bizantino, Siouros, vicino ad una fortezza chiamata Katoika. Ancora una volta
fu la sorpresa che travolse i greci. “Essi vennero attaccati di notte, da circa
cinquecento nemici in pieno assetto di guerra, che avevano eluso la vigilanza e
occupato le strade verso la fortezza. Un numero maggiore attaccò dalla parte
opposta”. I turchi uccisero coloro che
resistettero” mentre donne e bambini, una folla innumerevole, che tentava di
scappare verso la fortezza facevano da bersagli per le forze del nemico che
l’aveva in precedenza occupata”
In
questa descrizione dell’attacco a Mouzalon, Pachymeres accenna alle tattiche di
battaglia di Osman. Quando le forze bizantine si erano riprese e tentavano di
inseguire i turchi, questi si ritirarono sulle montagne e “avendo trovato là
una posizione sicura si fermarono e cominciarono a tirare ai Bizantini,
circondandoli con colpi da ogni parte”. Presi insieme questi passaggi
suggeriscono che le forze di Osman
consistevano soprattutto di arcieri a cavallo, la cui tattica offensiva era la
sorpresa e la cui tattica difensiva era la ritirata veloce verso un terreno che
forniva difese naturali. Era forse un esercito di razziatori armati alla
leggera ma efficaci. E’ probabile,comunque, che a dispetto delle sue vittorie
su una forza bizantina piccola e evidentemente disorganizzata a Bapheon i suoi
uomini non fossero in grado di sconfiggere un esercito disciplinato in un
incontro regolare.
Nondimeno,
è chiaro da Pachymeres che Osman riuscì a guadagnare il controllo delle
campagne nella Bitinia bizantina. I villaggi e gli insediamenti rurali non
avevano difesa nei confronti dei suoi raid. Era anche probabilmente il suo
controllo del territorio circostante, piuttosto che la padronanza delle
tecniche di assedio che gli consentirono di catturare quantomeno le fortezze e
città bizantine minori. “Egli usò le fortezze”, ci dice Pachymeres, “come
luoghi per ammassare al sicuro i suoi tesori”
Le
città protette da mura sopravvissero come roccaforti bizantine, ma, fa capire
Pachymeres, non senza soffrire grandemente. “Prousas (Bursa)”, egli afferma,
“ebbe la parte maggiore di tutti questi guai” e nella sua descrizione di Pegai,
egli mostra come anche città ben difese soffrivano per il loro ruolo di rifugio
dalla campagna. “Anche Pegai, una città della costa, sperimentò questi rovesci.
La popolazione circostante era confinata all’interno della città, e, per coloro
che erano scampati alla spada, cattive condizioni produssero una epidemia di
peste”. Nondimeno esse continuarono a resistere. Pachymeres annota anche un
attacco alla città di Nikaia (Iznik). Osman, egli riferisce, distrusse le messi e le vigne e poi attaccò
la fortezza di Trikkokia che controllava l’accesso alla città. Egli assediò
Nikaia con tutte le sue forze e riempiendo i fossati difensivi con pali,
pietre, alberi e detriti, tentò di prendere d’assalto le mura. L’attacco, alla
fine, fallì. La sopravvivenza di Nikaia e delle altre città della Bitinia
suggeriscono che gli uomini di Osman mancavano della disciplina, delle abilità
militari e del supporto materiale per sostenere lunghi assedi di luoghi ben
difesi.
Il
quadro dei primi guerrieri ottomani come, essenzialmente, razziatori altamente
mobili emerge anche dalla descrizione di Giorgio Cantacuzeno della battaglia a
Pelekanon, combattuta nel 1328 tra Orhan (c. 1324-1362) e l’imperatore
bizantino Andronico III. Cantacuzeno descrive la forza di Orhan come “un
esercito di fanti e cavalieri”, sebbene la descrizione che segue indica che la
maggioranza combatteva a cavallo. Egli nascose per una imboscata parte delle
sue forze, con l’istruzione di attaccare se i greci avessero preso il
sopravvento. Cantacuzeno descrive il corpo principale come arcieri a cavallo
con i destrieri più veloci. Questi ebbero istruzione da Orhan di non combattere
a distanza ravvicinata ma gettarsi all’improvviso sull’imperatore, ritirarsi
con un nugolo di frecce quando i bizantini avessero contrattaccato e attaccare
di nuovo quando si ritiravano. Egli aveva posto forze di riserva dietro un’area
accidentata che forniva una difesa naturale.
Cantacuzeno
dà l’impressione che la tattica di Orhan non funzionò. Quando i greci
contrattaccavano, i suoi arcieri a cavallo non potevano fermare la carica, e invece si volsero in
fuga finché non raggiunsero il terreno accidentato dietro di loro. Alla fine,
comunque, l’imperatore non potè assicurarsi la vittoria perché i turchi erano
circondati da profondi valloni e il campo era protetto da trincee naturali. In
queste erano molti arcieri le cui frecce
impedirono la vittoria bizantina. L’imperatore non poté mandare il suo
esercito, a causa del terreno accidentato” I dettagli di questa narrazione
richiamano la descrizione di Pachymeres dell’attacco notturno di Osman contro
Mouzalon e Siouros. Anche le forze di Osman consistevano largamente di arcieri a cavallo e adottavano
l’imboscata come strategia. Anche esse si erano rivelate incapaci di sostenere
un attacco disciplinato, ma erano capaci di evitare la sconfitta mediante una
scelta attenta di posizioni difensive. Sembra dunque che l’uso di arcieri a
cavallo, imboscate e ritirate strategiche in un terreno accidentato erano
elementi essenziali delle prime tecniche di combattimento ottomane.
Questa
era una forma di guerra più adatta ai raid che agli assedi o alle battaglie
campali. Nondimeno, non fu prima della fine del sedicesimo secolo che divenne
finalmente obsoleto. Durante i secoli di espansione, gli ottomani guerreggiarono
una quasi ininterrotta kleinkrieg
lungo le frontiere dell’Impero che continuò
persino durante i periodi di pace formale. Caratteristico di questo modo
di far guerra erano raid e contro-raid attraverso la frontiera alla ricerca di
razzia, specie di schiavi e animali. Gli stessi razziatori potevano anche
precedere gli eserciti ottomani nelle loro campagne regolari per terrorizzare
il nemico prima dell’attacco principale. Le tattiche delle truppe di razziatori
erano quelle dei seguaci di Orman e Orhan, ma, nella seconda metà del
quattordicesimo secolo, la loro funzione era come ausiliari, non come corpo principale dell’esercito.
La
creazione di un esecito che era capace di condurre efficaci assedi e battaglie
campali fu il lavoro di Orhan e Murad I (1362-89). Fu durante il regno di Orhan
che le grandi città di Prousas (Bursa), Nikaia (Iznik) e Nikomedia (Izmit)
caddero, sebbene, almeno nel caso di Prousas, una breve cronaca greca indica
che fu la fame piuttosto che l’assalto che costrinse la città ad arrendersi.
Con Orhan che controllava la campagna, la sua capitolazione finale era
inevitabile. Lo stesso fu indubbiamente vero per altre città della Bitinia.
Comunque, la cattura verso la fine del regno di Orhan di Ankara nel 1354 e
Dimetoka nel 1359 o 1360, suggerisce che per questo tempo le sue truppe avevano
appreso l’arte degli assedi. Questo diviene più evidente durante il regno di
Murad I. Specialmente durante la sua ultima decade, la conquista e il controllo
di castelli e città fortificate divenne un elemento essenziale della strategia
ottomana. In Macedonia Murad conquistò Serrai nel 1383 e Tessalonica nel 1387,
dopo un assedio di quattro anni. Come preludio ad un attacco contro la Serbia del sud, nel 1386, egli
catturò Nish nella valle della Morava, secondo la versione del cronista Neshri,
dopo aver stabilito quale parte della fortezza era vulnerabile ai colpi degli arcieri. Nel 1388, il visir di
Murad, Chardarli Ali, ridusse lo zar Sisman alla condizione di vassallo dopo
una campagna sistematica contro i suoi castelli nella Bulgaria orientale.
E’
chiaro, dunque, che durante il corso del quattordicesimo secolo, gli Ottomani
appresero come condurre assedi. Alcuni riferimenti dall’ultima decade del
secolo indicano che essi erano giunti a padroneggiare le tecniche del blocco e
della posizione di tiro e della scalata
alle mura. Nel 1394, Bayezid I (1389-1402) pose d’assedio Costantinopoli,
tentando dapprima di bloccare l’accesso alla città col costruire un castello
sulla costa asiatica del Bosforo nel suo punto più stretto. Poi attaccò la
città, secondo una dossologia greca della Vergine, “con innumerevoli macchine
da guerra”. Cosa fossero diviene più chiaro
dal resoconto di Giovanni Chortasmenos che scrive “Ora essi portano
avanti dei trabocchi per assediare la città… e fanno uso di molte macchine,
facendo crollare le mura della città e assalendo i bastioni”. Sembra che, in
questo periodo gli Ottomani giungessero ad usare anche torri d’assedio. Nella
sua descrizione dell’assedio di Larende del 1398 da parte di Bayezid,
Schiltberger ci dice come “egli costruì piattaforme” contro le mura. Questi
passeggeri riferimenti alla tecnologia dell’assedio non menzionano le tecniche
di mina, ma questo probabilmente riflette l’inadeguatezza delle fonti piuttosto
che una assenza delle mine. Certamente per il 1422, le tecniche di mina erano
diventate parte della tecnica ottomana di assedio. Nel suo resoconto
dell’assedio di Constantinopoli in quell’anno, il greco Kananos descrive come
gli attaccanti scavarono gallerie di mina da dietro le loro difese alle mura
della città e, “come era costume negli assedi”, dettero fuoco ai pali di legno
che sostenevano le camere sotterranee. Quando le gallerie di mina collassavano,
lo stesso faceva la sezione delle mura sopra il terreno.
Nello
stesso tempo in cui appresero l’arte dell’assedio, gli ottomani divennero anche
maestri delle tattiche sul campo di battaglia, come divenne chiaro dalla
sconfitta inflitta da Murad I ai due despoti di Serbia nella battaglia di
Maritsa nel 1371. Nelle battaglie campali il Sultano comandava ciò che era in
grande maggioranza un esercito di cavalieri. Da resoconti della battaglia di
Nicopoli conto i crociati nel 1396, sembra che la cavalleria ottomana faceva affidamento sulla propria manovrabilità
e continuò, come al tempo di Osman, ad usare le tattiche dell’imboscata e della
finta ritirata. Sembra che, a Nicopoli, la cavalleria pesante francese
sconfisse le forze che le si opposero direttamente, ma scoprì che così facendo
Bayezid li aveva attirati in un’imboscata da parte della cavalleria posizionata
ai fianchi.
Tra
il 1300 e il 1400, dunque, le forze militari ottomane erano cambiate da una forza di razziatori
radunati intorno al sovrano, ad un esercito disciplinato, capace di
intraprendere assedi e battaglie regolari. Le due istituzioni che furono alla
base di questa trasformazione furono
chiaramente i due gruppi che sono familiari dai secoli successivi, la
cavalleria timariota e i giannizzeri. L’istituzione dei timarioti fu probabilmente uno sviluppo
precoce, dal momento che istituzioni simili erano esistite nelle terre che gli
Ottomani avevano conquistato. L’istituzione deve essere venuta in esistenza al tempo del regno
di Murad I. Il possesso di un timar sollevava il cavaliere dalla dipendenza dal
saccheggio come fonte di sostentamento e, cosa più importante, creava una
obbligazione contrattuale di servire il Sultano laddove questi lo richiedeva. I
giannizzeri erano un corpo di fanteria, forse istituito da Murad I, che non
solo formavano una unità dell’esercito, ma agivano anche come guardia del corpo
personale del Sultano. Come milizia permanente che combatteva insieme e si
addestrava insieme all’uso delle armi, essi acquistarono uno spirito di corpo
che, sin dagli inizi della loro storia, li rese eccezionali combattenti. Sul
campo di battaglia essi combattevano al centro, intorno alla persona del
monarca. in aggiunta a questi corpi di uomini, i sultani potevano anche
chiamare i razziatori armati alla leggera in Rumelia e le truppe dai principati
vassalli che, come i cavalieri e i giannizzeri, avevano il dovere contrattuale
di servire in guerra.
Entro
il 1400, dunque, molte delle truppe dell’esercito ottomano servivano su base
contrattuale, consentendo al Sultano di chiamare alle armi un numero di truppe
affidabili che poteva essere calcolato in anticipo, anno dopo anno. Fu questo,
più di ogni altra cosa, che costituì la base dei successi militari ottomani.
L’ESERCITO:
DAL 1400 AL 1590: LE TRUPPE
La
struttura militare che emerse durante il corso del quattordicesimo secolo
rimase,nella sua essenza, intatta fino alla fine del sedicesimo, con la
cavalleria timariota e i giannizzeri che formavano i corpi più importanti dei
combattenti.
Di
questi i timarioti formavano la stragrande maggioranza, sebbene la prima
affidabile determinazione del loro numero non appare fino al 1525. Un riassunto
delle ricevute e delle spese dell’Impero registra 10.618 timarioti nelle
province europee e 17.200 in Asia Minore e Siria. Ciascuno di questi
cavalieri doveva portare un certo numero
di seguaci armati, e questo avrebbe portato il numero disponibile a più di
50.000 uomini. Non tutti di questi avrebbero servito nello stesso tempo, ma il
numero è abbastanza elevato da mostrare che formavano l’elemento più importante
dell’esercito ottomano.
Più
famosi dei cavalieri timarioti ma meno numerosi erano i Giannizzeri. Al tempo
della sua fondazione nella seconda metà del quattordicesimo secolo il corpo dei
giannizzeri consisteva di forze qualche centinaio di fanti che servivano come
guardia del corpo del Sultano. In questo ruolo essi erano una forza efficace e,
non avendo altra fonte di protezione e patronati, affidabilmente leali al
Sultano. Negli stadi finali della battaglia di Ankara nel 1402, furono i
giannizzeri che rimasero a combattere intorno al Sultano quando il resto
dell’esercito ottomano aveva disertato o era fuggito. Alla battaglia di Varna
nel 1444, quando una larga parte della cavalleria aveva abbandonato il campo,
furono i giannizzeri che rimasero al loro posto accanto a Murad II (1421-1451)
e, decisivamente catturarono e uccisero il re ungherese. Il loro numerò
evidentemente aumentò durante il corso
del quindicesimo secolo. Una fonte greca dai primi anni ’80 del 1400 riferisce
che c’erano 5.000 giannizzeri alla salita al trono di Mehmed II (1451-81), e
che Mehmed raddoppiò questo numero al tempo delle guerre con Uzun Hasan
neiprimi anni ’70. Il loro numero rimase un po’ al disopra o al disotto di
10.000 per gran parte del secolo
successivo. Le cifre dei libri paga mostrano 10.156 giannizzeri nel 1514. Nel
1527, c’erano 7.886 giannizzeri e 3.553 novizi; nel 1567 essi erano 12.798 e
7.745 rispettivamente. A parte questi, c’erano giannizzeri che servivano in guarnigioni
delle province. Nel 1560, ad esempio, c’erano 3.377 giannizzeri nelle fortezze
delle province di Buda, alla frontiera con l’Austria.
Prima
della seconda metà del sedicesimo secolo il governo ottomano sembra aver
ristretto con cura il numero di giannizzeri. Questa era in parte, senza dubbio,
una misura per controllare le spese e in parte per accordarsi alla massima di
Lutfi Pasha, Gran visir dal 1539 al 1541 secondo cui: “Le truppe dovrebbero
esser poche, ma esse dovrebbero essere eccellenti”. Un’altra ragione per
restringere il numero fu probabilmente anche per ridurre il loro potere. I
giannizzeri erano un corpo di élite e parte della loro efficacia era il terrore
che incutevano nel nemico. Ma ciò che era egualmente importante era la paura
che ispiravano nei sultani. La lealtà dei corpi alla dinastia ottomana non fu
mai in dubbio ma questo non escludeva slealtà a specifici sovrani. Fu – almeno
in parte – una ribellione dei
giannizzeri che costrinse all’abdicazione di Mehmed II alla fine del suo primo
regno nel 1446, e al ritorno di suo padre Murad II al trono. Furono i
giannizzeri che forzarono l’abdicazione di Bayezid II (1481-1512) in favore di
Selim I (1512-1520), e furono i giannizzeri che
uccisero Osman II (1618-22) e portarono Mustafa (1617-18; 1622-23) al
trono. Nel breve interregno tra la morte di Maometto II e la salita al trono di
Bayezid II, i giannizzeri insorsero e saccheggiarono distretti della capitale.
Dopo la vittoria a Chaldiran nel 1514, furono loro che costrinsero Selim I a
ritirarsi da Tabriz, ed essi insorsero di nuovo nel 1525. Come gruppo armato di
stanza ad Istanbul i giannizzeri erano una forza potente nella politica interno
dell’Impero come erano sul campo di battaglia.
I
timarioti e i giannizzeri erano la componente principale ma non la sola degli
eserciti ottomani. Le sei divisioni di élite di cavalleria regolare reclutate
largamente dai diplomati nelle scuole di palazzo accompagnavano il Sultano in
campagna, così come in occasioni cerimoniali. E’ impossibile stabilire la data
della loro istituzione,ma è chiaro che essi
esistevano già al tempo di Maometto II, quando una fonte greca fissa il
loro numero a 600 cavalieri (sipahi),
600 portatori di spada (silahdar), 700 stipendiati (ulufejis)
alla sinistra e alla destra, e 400 stranieri (gureba) alla sinistra e alla destra. Durante il corso del
sedicesimo secolo questi numeri triplicarono. Nel 1527 essi erano
rispettivamente 1.993, 1.587, 1.007 e 415; e nel 1567 3.331, 2.785, 2.546 e
2.589. L’incremento nel numero fu proporzionalmente più alto di quello dei
giannizzeri, ma essi erano ancora pochi in confronto dei timarioti dalle
province. Per il 1607 il loro numero era
aumentato ancora, a 7.805 cavalieri, 7.683 portatori di spada, 3.448
stipendiati e 1.903 stranieri. Per allora, comunque, la crescita del numero dei
giannizzeri era molto più grande.
In
contrapposto ai giannizzeri c’erano gli azab.
Anche questi erano fanti, reclutati, secondo Iacopo da Promontorio nel 1475
“tra gli artigiani e i contadini”. Le cronache ottomane si riferiscono
all’esistenza di azab già nel 1389,
ma questo potrebbe essere un anacronismo. E’ chiaro, comunque, che il corpo degli azab esisteva già al tempo
delle guerre ungheresi degli anni ’40 del 1400, e può risalire al 1400. IL
metodo di reclutamento del corpo, almeno alla fine del quindicesimo ed inizio
sedicesimo secolo è chiaro dal Libro
della legge di Bayezid II del 1499. Questo testo suggerisce che il governo
faccia la leva principalmente nelle città, nominando il giudice locale e i subashi per metterla in atto, e
chiedendo anche la cooperazione dell’Imam e di un altro rappresentante da
ciascun quartiere della città. Qui essi devono convocare ed esaminare tutti i
giovani idonei alla guerra, rigettando quelli non aventi l’età, i disabili, i troppo
anziani o gli schiavi. Dai rimanenti essi avrebbero selezionato gli azab. In aggiunta al fatto di procurare
questi combattenti, la gente del quartiere doveva anche fornire moneta per le
loro spese fino ad un limite di 300 akce
per azab. Il sistema per ripartire la leva sia di uomini che di moneta era in
base al numero delle famiglie, come spiega il Libro della legge: “Se, per esempio, ricade su venti famiglie di
fornire un azab, tra le venti persone
fornite dalle venti famiglie in quel quartiere una persona idonea deve essere
arruolata al servizio degli azab. Le
spese per quella dovrebbero essere riscosse dalle rimanenti diciannove
famiglie…” Solo se il gruppo incaricato di famiglie non fornisce un giovane
idoneo, coloro che si occupano della leva devono cercare altrove. Essi debbono
anche nominare un garante per ciascun giovane, così che se egli si rende
irreperibile sia possibile recuperare il suo compenso. Infine, per assicurare
la regolarità delle procedure e prevenire una serie di abusi che il Libro enumera, era richiesta la
compilazione di registri della leva: “Da ciascun distretto giudiziario da dove
sono arruolati gli azab, ci
dovrebbero essere due registri. Uno dovrebbe rimanere con i giudici e uno
dovrebbe andare a Palazzo, cosicché quando c’è una chiamata degli azab o si cerca un garante, è
possibile consultare o il registro che è
presso il giudice, o il registro che è arrivato a palazzo… e agire di
conseguenza”.
Gli azab, a differenza dei giannizzeri non
erano un corpo di truppe regolari e sebbene Iacopo di promontorio nel 1475
stima i loro effettivi in 6.000 uomini, è chiaro che il loro numero di fatto
fluttuava secondo la necessità militare. Un resoconto della campagna di
Chaldiran nel 1514, per esempio, stabilisce che c’erano 10.000 azab provenienti dall’Anatolia e 8000
dalla Rumelia che servivano nell’esercito di Selim I. Per la stessa campagna
Menavino indica cifre più alte, fissando il numero a 30.000. Né gli azab erano corpi di élite come i
giannizzeri. Erano coscritti la cui vita era sacrificabile. Come i giannizzeri,
comunque, essi servivano sia sul campo di battaglia che nelle fortezze.
Spandounes nel 1513 registra la presenza nelle guarnigioni sia di azab che di giannizzeri, scrivendo degli
azab: “Sono più numerosi dei
giannizzeri, e se sono in un castello gli uni guardano un forte e gli altri un
altro; se sono di guarnigione in una città, i giannizzeri stanno nella
cittadella e gli azab nella città,
perché i giannizzeri sono più abili e determinati. Questi azab hanno una paga da tre a cinque akce al giorno, e molti provengono dall’Anatolia”. Documenti
ottomani da tutto il sedicesimo secolo continuano a registrare la presenza sia
degli azab che dei giannizzeri nelle
fortezze. Dalla seconda metà del sedicesimo secolo, comunque, gli azab sembrano aver perso la loro
importanza come truppe da battaglia. Negli anni ’40 del 1500 già l’ospitaliere
Antoine Geuffroy commenta: “come fanti gli ottomani non hanno che i
giannizzeri, almeno non altri che valgano alcunché…”
L’ultima
importante categoria di combattenti nell’esercito ottomano erano i razziatori –
akinci. Questi erano i cavalieri
armati alla leggera della Rumelia che, più di ogni altro soldato ottomano
tennero viva la tradizione marziale dell’inizio del quattordicesimo secolo.
Emersero nella penisola balcanica prima del 1400 come un peculiare corpo di
soldati, con i loro propri leader ereditari e una propria struttura di comando.
Come razziatori armati alla leggera essi combattevano al di fuori del periodo
delle campagne regolari, e in modo indipendente dal corpo principale
dell’esercito; la loro esistenza era sintomatica del continuo kleinkrieg lungo i confini dell’Impero.
Costantino
Mihailović, che combatté con l’esercito
ottomano tra il 1453 e il 1463, e Iacopo
di Promontorio nel 1475 forniscono le prime descrizioni di queste truppe.
Mihailović nota che “essi vivono per mezzo di bestiame e allevamento di
cavalli”. Egli era probabilmente nel giusto per quanto riguarda l’allevamento
dei cavalli, dal momento che i razziatori si procuravano da sé le proprie
veloci cavalcature, e successivamente Spandounes doveva rilevare come “essi
sono tutti ben montati, perché hanno eccellenti cavalli”. La loro principale
fonte di sostentamento dal territorio sembra, comunque essere venuta dalla
coltivazione delle messi, riguardo la quale il Sultano li esentava dalla
tassazione. Iacopo scrive: “Essi hanno il privilegio di sostentarsi sulle
tenute del Sultano, quel tanto che due o tre paia di buoi possono arare, senza
pagare imposta”. Un quarto di secolo più tardi,comunque, Spandounes doveva
osservare: “Essi non hanno salari, e, a dispetto di questo, pagano l’imposta
sulla loro avena e altro cibo che producono nel luogo dove vivono con le loro
famiglie. Similmente, essi pagano le spese dei timarioti o delle truppe di
guarnigione presso le loro città”
Gran
parte delle loro entrate, comunque, provenivano dal bottino, che lo
ammassassero durante le campagne regolari o da incursioni indipendenti
attraverso la frontiera. Mihailović descrive i loro raid come “…
simili alle piogge torrenziali che cadono dalle nuvole. Da queste tempeste
vengono grandi inondazioni, fino a che i corsi d’acqua straripano dai loro
argini, e tutto ciò che quest’acqua investe, porta via e perdipiù distrugge…
Così anche i razziatori turchi non si fermano a lungo, ma laddove colpiscono,
bruciano, saccheggiano, uccidono e distruggono ogni cosa, cosicché per molti
anni i volatili non vi cantano”. I pochi resoconti turchi delle incursioni dei
razziatori confermano entusiasticamente il resoconto di Mihailović. Il
cronista Ashikpashazade fu di servizio come razziatore a Skopje durante gli
anni ’30 e ’40 del 1400 e, scrivendo del momento successivo ad un raid
attraverso la Sava nel 1440, commenta: “acquistai un bel giovinetto di
cinque-sei anni… e in occasione di quel raid acquistai sette schiavi dai
razziatori. Per come stavano le cose, se l’esercito si fosse messo in marcia la
folla dei prigionieri sarebbe stata più numerosa delle truppe”.
Queste
incursioni dei razziatori servivano a due scopi. Da un punto di vista militare,
esse servivano a terrorizzare il nemico e ad indebolire l’opposizione,
specialmente durante l’avanzata in una grande campagna. Comunque, durante la
stessa campagna, l’indisciplina dei razziatori poteva renderli più un rischio
che un valido strumento. Un decreto del 1560 illustra questo punto. Il Sultano
aveva ordinato al comandante dei razziatori, Turahan, di Azov in Crimea, di
proteggere il distretto contro attacchi russi. Turahan, però trovò che la regione era nella morsa si una
carestia, con nessuna opportunità di saccheggio o bottino. In tale circostanza
egli non poteva ulteriormente controllare i suoi uomini e scrisse al Sultano:
“Non c’è da predare da nessuna parte. I razziatori e i loro ufficiali sono
uomini adatti solamente a predare. Non sopportano di stare fermi per quattro o
cinque giorni di seguito, e non possono essere soggetti a disciplina”. Sebbene
efficaci nel proprio gruppo, essi non erano adatti alla guerra regolare. A
parte la loro funzione militare, il bottino che i razziatori ottenevano
riforniva i mercati dell’Impero, soprattutto con schiavi. Questo traffico era
profittevole anche per i sultani
che prelevavano una percentuale dei
prigionieri come reclute per i giannizzeri o le scuole di palazzo. In aggiunta,
probabilmente dalla fine del quattordicesimo secolo, essi prelevavano anche una
tassa su questi prigionieri come i loro proprietari li trasportavano attraverso
gli stretti dall’Europa all’Asia Minore.
La
forma di guerra che i razziatori praticavano
chiaramente risaliva agli inizi dell’Impero. Comunque, non fu
probabilmente fino a quando il potere ottomano non fu saldamente stabilito
nella penisola balcanica , verso la fine del regno di Murad I che essi emersero
come una peculiare organizzazione militare. Con l’annessione dei principati di
Bulgaria negli anni ’90 del 1300, e la fissazione del Danubio come la frontiera
con l’Ungheria, l’organizzazione dei razziatori prese la forma che doveva mantenere nei due secoli successivi. Durante il
quattordicesimo e il quindicesimo secolo, i signori dei domini di frontiera
emersero come leader dei razziatori. Particolarmente importante a questo
riguardo era la famiglia Mihaloglu, che aveva terre ereditarie a Vidin, una
fortezza sul Danubio che guardava, dalla parte opposta, al regno di Ungheria.
Al servizio sotto questi signori c’erano ufficiali, conosciuti come dovijas, e sotto di essi, gli ordinari
razziatori. Quando il Sultano desiderava arruolare per una campagna egli
mandava, secondo Spandounes agli inizi del sedicesimo secolo “un mese prima
della campagna un messaggero per avvertirli che dovevano riunirsi nel tal giorno di tale mese e nel
tale posto, dove avrebbero trovato un capitano inviato dal Sultano per condurli
contro i cristiani”.
Il
servizio come razziatori era forse, nei primi tempi, volontario. Dal sedicesimo
secolo, però, e probabilmente molto prima, era divenuto consuetudine arruolare
e inserire formalmente in registri le truppe. Un ordine del governatore del sanjak di Vidin, non datato ma
probabilmente del sedicesimo secolo, ci dà un’idea della procedura. Il
governatore del sanjak doveva girare per le città e i villaggi della
Rumelia, e coscrivere razziatori che avessero un buon cavallo e armi e armature
idonee per la campagna. Doveva anche arruolare i figli dei razziatori morti o
ritiratisi dall’attività. Come con gli azab,
i registri che documentavano la coscrizione contenevano i nomi non solo di
ciascun razziatore e di suo padre, ma anche
il nome di un mallevadore che
avrebbe dovuto garantire la sua comparsa al momento della campagna. Al tempo
della mobilizzazione, i coscritti dovevano apparire con un turbante o un
copricapo rosso, armati con una spada e una lancia impavesata . Il governatore
del sanjak che faceva la costruzione
doveva presumibilmente inviare una copia del registro completato al palazzo.
Questo era certamente il caso in un comando del 1560, che informa il
governatore del sanjak di Vulčitrn
che un membro di una delle divisioni di cavalleria del palazzo sarebbe arrivato
per assisterlo nel compilare un registro dei Razziatori e gli ordinava di
mandarlo a palazzo appena fosse completo.
Le
stime sul totale dei razziatori a disposizione del Sultano variano. Iacopo di
Promontorio nel 1475 fornisce una stima di 8.000, di cui 6.000 disponibili per una campagna, mentre gli
altri 2000 rimanevano indietro a guardare la frontiera. Ai tempi di Iacopo e
ancora prima devono esserci stati razziatori nel personale che seguiva i
signori dei domini di frontiera. Una cronaca del sedicesimo secolo stabilisce
che 20.000 razziatori accompagnarono la prima campagna di Solimano nel 1521, e
questo potrebbe essere un numero caratteristico del secolo. Geuffroy fornisce
il numero di 60.000. Questo numero era probabilmente una esagerazione, ma forse
non è del tutto fantastico, dal momento che richiama ciò che Kochi Bey doveva
scrivere negli anni ’30 del 1600. Ricordando il glorioso sedicesimo secolo egli
nota che usavano esserci 20.000
razziatori registrati ma quando c’era una campagna il comandante dei razziatori
attraversava il danubio con 40-50.000 truppe, alcune di queste razziatori
registrati e alcuni volontari e altri ausiliari che erano abili con i cavalli.
Fino
alle prime decadi del sedicesimo secolo i razziatori molto probabilmente
servirono durante una campagna sotto i signori dei domini di confine della
Rumelia. Per la metà del sedicesimo
secolo, la loro organizzazione era
caratterizzata da due “ali”, l’”ala sinistra” e l’”ala destra”, la loro
aggregazione che era in accordo con l’area della Rumelia dove vivevano. I nomi
delle “ali”, comunque – “i seguaci di
Mihaloglu” e “i seguaci di Turahan” – mostrano che l’associazione con i signori
della frontiera era continuata almeno di nome. L’apparizione nel 1560 di un
certo Turahan come leader dei razziatori suggerisce – se era realmente un
membro della dinastia dei Turahanoghlu – che una associazione personale tra i razziatori e le vecchie
famiglie può essere rimasta fino al tardo sedicesimo secolo.
Questo
era un periodo in cui i razziatori persero la loro importanza come forza militare. Fino alla fine del
sedicesimo secolo, i razziatori formavano un elemento importante nell’esercito
ottomano, combattendo nelle campagne sia in Europa che Asia. Il loro ruolo più
significativo era stato quello di
guerrieri di confine, specialmente nello sferrare attacchi attraverso le
frontiere fluviali nel regno di Ungheria,e, dopo l’annessione della Bosnia nel
1463, nel lanciare raid da lì in territorio veneziano e ungherese. I loro raid
a nord del Danubio e nel 1498 persino in Polonia, sembrano essere diventati
particolarmente intensi durante il regno di Bayezid II, un periodo in cui il
Sultano intraprese poca attività bellica regolare in Europa. Nel 1526,
comunque, il loro ruolo cambiò. La battaglia di Mohacs mise fine al regno
indipendente di Ungheria e nel 1541, l’Ungheria, o quella parte di Ungheria
sotto la sovranità ottomana divenne una provincia ottomana. Con la sparizione
della vecchia frontiera del Danubio, alcune delle funzione dei razziatori
sembrano essere svanite pure esse. La nuova frontiera con l’Austria sembra
essere stata meno vulnerabile ai raid rispetto alla vecchia frontiera
ungherese, specialmente con la costruzione di una linea di efficaci difese di
confine. Razzie e saccheggi regolari, come Mihailović
aveva descritto nel quindicesimo secolo
cessarono . Il Libro della legge
per il sanjak di Smederovo sul
Danubio fornisce una illustrazione di questo cambiamento. Nella versione
compilata nel 1516, una clausola elenca i balzelli prelevati sulla banchina di
Smederovo sulle categorie di bottino che i razziatori portavano attraverso il
danubio dopo le loro razzia. nella versione del 1560 questa clausola era scomparsa.
Nondimeno,
persino se i raid annuali attraverso i confini cessarono, i razziatori
mantennero ancora la loro vecchia funzione di infastidire il nemico prima di
una campagna e anche di organizzare spedizioni punitive al di fuori dei periodi
di guerra regolare. Quando ad esempio il Sultano ricevette rapporti su attacchi
austriaci contro la Transilvania nel 1565 – un anno in cui l’assedio di Malta
assorbiva molte delle risorse militari dell’Impero – egli ordinò al governatore
del sanjak di Chernomen di andare
“con i razziatori dell’ala sinistra, seguaci di Mualoghlu” a Srem e
saccheggiare ilterritorio nemico. Egli avrebbe “razziato gli abietti infedeli,
preso schiavi i loro figli e mogli,
saccheggiato e depredato i loro possedimenti e proprietà…” cosicché
“questo sarebbe stato una lezione per loro”. Lo stesso comando gli ordina di
non perdere alcuna truppa regolare per le quali i razziatori erano, in questa
spedizione, un sostituto
La
fine dei razziatori come forza militare efficace avvenne nel 1595. In questo
anno il gran visir Koja (“l’anziano”) Sinan Pasha condusse la sua spedizione in
Valacchia. Il suo esercito includeva un largo contingente di razziatori e, nel
momento in cui essi attendevano per attraversare il Danubio a Giurgiu,
rientrando in territorio ottomano, le forze valacche li attaccarono e
sterminarono praticamente al completo. “La maggior parte dei razziatori” scrive
lo storico ottomano Na’ima “erano sulla riva opposta e non un uomo si salvò. In
quel momento il nucleo dei razziatori fu sterminato ed essi si estinsero”. DI
fatto, i residui della organizzazione sopravvivevano ancora. Negli anni ’30 del
1600 Kochi Bey riferisce che ce n’erano 2.000, ma che il resto di essi o aveva
rinunciato a quello status o era stato assorbito entro altre unità
dell’esercito. La scomparsa della organizzazione dei razziatori non significa
comunque che gli ottomani cessarono di devastare il territorio nemico come
tattica militare. Sembra, comunque che dalla fine del sedicesimo secolo le
truppe tartare del khanato di Crimea divennero più importanti in questo ruolo.
Esse avevano partecipato a precedenti campagne ma non in modo importante. Nella metà del sedicesimo
secolo Lutfi Pasha aveva messo in guardia dall’impiegare tatari. “E’ vero”,
scrisse “che i tatari sono soggetti alla dinastia ottomana, ma sono popoli
riottosi, e non possono essere costretti a servire durante una campagna”. Con
la fine dei razziatori, comunque, la loro importanza militare aumentò.
Tra
la fine del quattordicesimo secolo dunque e la fine del quindicesimo secolo la
cavalleria timariota, i giannizzeri, le sei divisioni, gli azab e i razziatori erano stati i più importanti contingenti delle
truppe combattenti ottomane. Allo stesso tempo, il Sultano manteneva un corpo
di non-combattenti che agivano come soldati del genio per l’esercito. Questi erano le truppe
appiedate – yaya – e gli Esentati – müsellem.
E’ possibile che si siano originati nel quattordicesimo secolo come corpi
rispettivamente di fanteria e cavalleria, ma per l’inizio del quindicesimo
secolo avevano perso il loro ruolo di combattenti. Come la cavalleria timariota
essi non ricevevano paga dal Tesoro. Invece,
ricavavano il denaro per le campagne dalle loro organizzazioni. Il
Sultano arruolava questi uomini in Anatolia e Rumelia, e li divideva in gruppi
di trenta, allocando a ciascun gruppo un lotto di terreno per la coltivazione
ed esentandoli dalle tasse sul loro prodotto e da tassazioni straordinarie. In
ognuno di questi gruppi, c’erano cinque uomini “di campagna”, che andavano in
guerra a turno, e il resto erano “aiutanti”, che erano responsabili per il
pagamento di 50 akce ciascuno per il mantenimento dei primi. Un Libro della legge del 1531 riporta che,
fino al tempo di Bayezid II, gli aiutanti paganano questo ammontare ciascun
anno, senza riguardo al fatto che vi fosse o meno una campagna. Per prevenire
dispute tra i due gruppi, Bayezid stabilì che, da quel moment in poi, il denaro
era dovuto solo quando erano in campagna.
L’organizzazione
di questi uomini somigliava alla organizzazione dei timarioti sotto un
governatore di sanjak. Sia gli
appiedati che gli esenti in una particolare area erano sotto il comando del
loro governatore piuttosto che del governatore del sanjak dove avevano le terre. Come per i cavalieri timarioti, un
certo numero di essi serviva come ufficiale col titolo di “comandante di
truppa” o “comandante di fanteria”. In Rumelia gli uomini delle tribù turche –
gli yürük
– svolgevano gli stessi doveri delle truppe appiedate dell’Anatolia, sulla
base, sembra, di una organizzazione simile.
Complessivamente,
questi ausiliari militari non erano numerosi. Nel 1521 in Anatolia c’erano
ufficialmente 2.584 gruppi di Esenti e 7.668 gruppi di truppe appiedate. In
Rumelia nel 1552 c’erano 1.337 gruppi di yürük
e 810 di esentati. I loro doveri, secondo Ayn Ali agli inizi del
diciassettesimo secolo, erano di trainare cannoni, sgombrare le strade e
portare provviste per l’esercito. Queste erano indubbiamente le loro funzioni
fondamentali, ma chiaramente i loro doveri erano di fatto più vari. Per
esempio, un libro della legge di Gallipoli, datato 1518, richiede agli esentati
a cavallo, tra le altre cose, di tenere d’occhio le coste e le insenature e
dare immediatamente avviso ai villaggi e alle fortezze se vedevano qualche nave
che poteva rappresentare un pericolo. In aggiunta, essi dovevano svolgere
compiti impegnativi nell’arsenale navale
di Gallipoli, come ad es. trascinare le navi in secca.
Durante
il corso del sedicesimo secolo, l’organizzazione degli appiedati e degli esentati
sembra essere divenuta disordinata e inaffidabile. Certamente, un ordine del
1540, che disponeva la coscrizione di nuove reclute e la corretta registrazione
dei membri e delle terre che tenevano suggerisce che la diserzione era comune.
Nel 1582, il Sultano ordinò l’abolizione di entrambi i gruppi. Immediatamente
dopo, cambiò idea e la coscrizione iniziò di nuovo. Entro il 1600, comunque, i
due corpi di appiedati ed esentati non esistevano più. Ayn Ali nel 1609 notava
che quelli che in precedenza ne erano stati membri erano stati tutti registrati
come ordinari soggetti di imposta
L’ESERCITO:
1400-1590: LE ARMI
La
prima arma ottomana di cui è traccia è
l’arco turco, utilizzato da cavallo. Questa era un’arma che continuò a giocare
un ruolo importante sia in battaglie terrestri che marittime fin entro il
sedicesimo secolo, anche se i guerrieri successivi persero l’abilità di tirare da un cavallo al galoppo.
In qualche momento, però, gli ottomani adottarono la balestra, forse
principalmente per uso nelle fortezze. Ancora all’inizio del diciassettesimo
secolo il “libro dei giannizzeri” nota che il corpo dei giannizzeri conservava
scorte di queste armi.
In
aggiunta all’arco, le truppe ottomane recavano con sé una varietà di armi.
Spandounes, per esempio, descrive gli azab
come aventi “archi, spade, scudi e dei tipi di piccole asce”; descrive i
razziatori che utilizzavano “spade, piccoli scudi e nient’altro”. Verso la metà
del sedicesimo secolo, comunque, l’ungherese Bartolomeo Georgevits li vede
equipaggiati di “lance, giavellotti, frecce e randelli di ferro”. La cavalleria
timariota sembra essere stata e rimasta fino al diciottesimo secolo, abile
nell’uso della spada corta. Queste truppe probabilmente, di fatto, usavano una
grande varietà di armi, dal momento che la legge richiedeva che portassero il
proprio equipaggiamento in battaglia. Essi avrebbero dovuto dunque, fare
affidamento su ciò che gli artigiani locali producevano e ciò che era
disponibile nei mercati locali. Un Libro
della legge del 1502, che regola le pratiche di commercio della capitale
della Rumelia, Edirne, elenca fabbricanti di archi, frecce, di spade e pugnali,
tra gli artigiani della città. Esso si riferisce anche, nello specificare la
qualità minima per categorie di selle, a un tipo chiamato “sella del
razziatore”. Queste clausole suggeriscono che i razziatori e i timarioti
compravano il loro equipaggiamento nei mercati cittadini. La legge richiedeva
anche ai cavalieri timarioti di fornire la propria armatura nella forma,
sembra, di un elmetto e di una cotta leggera di maglia a copertura della parte
superiore del corpo. Un documento del Novembre 1515, nell’ordinare una rivista
delle truppe nella primavera seguente, minaccia di decapitazione o amputazione
di un braccio i soldati senza un elmetto o bracciale rispettivamente. La legge
richiede anche che il cavaliere fornisse l’armatura del cavallo.
I
giannizzeri e i cavalieri delle sei divisioni, comunque, ricevevano le loro
armi e armature da un sistema di fornitura centrale. La manifattura e
mantenimento di queste erano la responsabilità dei corpi degli armieri, un
corpo di uomini che il Sultano reclutava attraverso la Raccolta. Il corpo
probabilmente si originò nel quindicesimo secolo e il suo numero crebbe per
riflettere il numero di giannizzeri e cavalieri del palazzo. Questi erano,
sembra, circa 500 armieri nella metà del sedicesimo secolo e quasi 6.000 nel
1630. Essi mantenevano la fornitura di ogni tipo di equipaggiamento, incluse
armi da fuoco individuali e attrezzi da trincea per gli assedi.
Lo
sviluppo militare più importante durante il periodo della crescita dell’Impero
Ottomano era, comunque, l’introduzione di cannoni e di altre armi da fuoco.
Queste armi vennero in uso nell’Europa occidentale durante il corso del
quattordicesimo secolo e, da lì si diffusero
nella penisola balcanica. Nel 1378 cannoni erano posizionati sulle mura di Dubrovnik e, durante la decade
successiva, cominciarono ad essere usati regolarmente nel regno di Bosnia e
anche, si può supporre, in Serbia. Le truppe ottomane potrebbero dunque averli
incontrati durante i raid e le campagne
nei Balcani occidentali durante gli anni ’80 del 1300. Comunque gli ottomani
non adottarono cannoni su larga scala fino al secolo successivo. Riferimenti al
loro uso di armi da fuoco durante il regno di Bayezid I sono inaffidabili.
Negli anni ’20 del 1400, comunque, essi avevano iniziato ad usare cannoni negli
assedi. Kananos, per esempio, nel suo resoconto dell’assedio di Costantinopoli
del 1422, si riferisce a “grandi bombarde” che dice non avere alcun effetto. Ci
sono altri riferimenti isolati all’uso ottomano di cannoni nelle prime tre
decadi del quindicesimo secolo, ma non erano ancora fattori importanti in
guerra.
Questo
cambiò con le guerre ungheresi degli anni ’40 del 1400. Durante le campagne del
1443-44, l’esercito del Sultano non aveva artiglieria da campo. Gli ungheresi,
di contro, avevano sviluppate tattiche
di battaglia che basavano sul wagenburg.
Questo era una fortezza mobile che consisteva di carri incatenati insieme per
fornire un muro protettivo per le truppe che trasportavano armi da fuoco
individuali, con cannoni piazzati sugli stessi carri o nelle aperture tra i
veicoli. La incapacità della cavalleria ottomana di travolgere queste
fortificazioni costò quasi loro la guerra. La efficacia di questa tattica è
chiara dal libro Guerre sante del Sultano
Murad, un resoconto turco anonimo ma contemporaneo della campagna.
Qui,l’autore fa consigliare Turhan al Sultano: “Mio Padishah, comanda alle
truppe dell’islam di ritirarsi dai wagenburg,
perché se non lo fanno questi… infedeli faranno fuoco con i loro cannoni e
archibugi e l’esercito dell’Islam sarà sconfitto”. In un altro passaggio, dove
descrive il coraggio di un prigioniero turco l’autore gli fa dire al re di
Ungheria: “Tu fai affidamento sui tuoi carri e speri che la casa di Osman li
attacchi, e di respingerli con cannoni e archibugi. Ma non sai che essi hanno
capito il tuo trucco… Essi non attaccheranno i tuoi carri. Essi ti
circonderanno ad una distanza tale da essere fuori della portata dei cannoni”.
L’uso dei wagenburg portò gli
ungheresi molto vicino alla vittoria. Nel 1443, fu il clima invernale e il
bloccarsi dell’esercito al passo di
Zlalitsa che evitò la loro ulteriore avanzata. A Varna nel 1444, fu la
stupidità del re di Ungheria nell’uscire dai ranghi che condusse alla
sconfitta.
Era
comunque una tattica che gli ottomani furono molto veloci ad adottare. Quando
gli Ungheresi li incontrarono di nuovo nella seconda battaglia di Kosovo nel
1448 essi trovarono che il Sultano aveva fatto attestare i suoi ranghi dietro una fortificazione
“simile ad un castello” di carri e scudi puntuti che i giannizzeri difendevano
con armi da fuoco. Una volta che l’esercito ottomano iniziò ad usare questa
tattica, gli ungheresi non ebbero più un vantaggio strategico, e l’esito della
battaglia fu una decisiva vittoria ottomana.
Durante
la campagna di Varna era l’artiglieria che dette agli ungheresi superiorità sul
campo di battaglia, sebbene alla fine non la vittoria. In un altro teatro della
guerra, comunque, l’artiglieria fu cruciale per la sconfitta degli Ungheresi.
Per evitare che l’armata di Murad II attraversasse per arrivare in Europa e
scontrarsi con l’invasione ungherese gli alleati cristiani avevano bloccato gli
stretti. Il Sultano, comunque, poté portare il suo esercito attraverso il
Bosforo nel suo punto più stretto a dispetto del blocco delle navi borgognoni.
Ciò che frustrò gli sforzi dei borgognoni, a parte il vento e le forti
correnti, erano i cannoni che il Sultano aveva installato su entrambe le coste
per coprire il suo passaggio. Il cannone sulla costa asiatica fu fuso sul
posto. Le batterie sulla costa europea le acquistarono dai genovesi di pera,
che fornirono Murad anche di armi da
fuoco per la campagna che iniziava.
Sotto
molto aspetti, dunque, le guerre ungheresi furono cruciali nello sviluppo
militare ottomano. Condussero all’adozione di artiglieria da campo e alla
tattica del wagenburg. Per di più
l’alleanza di Murad II con i Genovesi aprì una strada per il trasferimento di
tecnologia militare agli ottomani. Fu da questo periodo che essi adottarono i
cannoni su larga scala, e divennero esperti nella loro costruzione. Sotto un
aspetto, comunque, gli Ottomani non si
impadronirono delle pratiche del nemico. Alcuni resoconti ottomani enfatizzano
l’efficacia della piastra dell’armatura ungherese durante la battaglia di Varna
e la seconda battaglia di Kosovo, ma non esiste alcuna prova che suggerisca che
questo fosse qualcosa che gli Ottomani adattarono per il loro proprio uso.
Dopo
il 1444, comunque i cannoni e successivamente gli archibugi giocarono un ruolo sempre più importante in materia
bellica per gli Ottomani. Nel 1446 Murad II distrusse il muro dell’Hexamilion
attraverso l’istmo di Corinto con il fuoco dei cannoni. Anche in questa
occasione, come nel caso del Bosforo del 1444, egli trasportò il metallo da
fondere sul sito di battaglia e lo fuse sul posto. Questa doveva rimanere una
pratica ottomana fino alla fine del quindicesimo secolo. Nel 1453, comunque,
gli ottomani acquistarono ciò che probabilmente era il loro primo sito
permanente per la manifattura di cannoni. In quest’anno, Mehmed II prese la città genovese di Pera, opposta a
Costantinopoli, e con essa le sue fonderie di cannoni. Questo, con i suoi
edifici, materiali ed artigiani, quasi certamente formò il nucleo della fonderia imperiale ottomana di cannoni,
parte della quale esiste ancor oggi.
La
caduta di Costantinopoli nel 1453 testimonia la efficacia dell’artiglieria
ottomana negli anni che seguono le guerre ungheresi: la città cadde perché il
cannone di Mehmed II riuscì ad aprire una breccia nel muro. Ciò esemplifica
anche il tipo di cannone che gli Ottomani predilessero. Ciò che colpiva gli osservatori
contemporanei circa queste armi erano le loro dimensioni. Il più grande, in
accordo con il fiorentino Tedaldi, lanciava “una pietra di undici spanne e tre
dita di circonferenza che pesava millenovecento libbre” e richiedeva, secondo
il cronista greco Doukas, una squadra di sessanta buoi e duecento uomini per il
trasporto da Edirne a Istanbul. Doukas riferisce anche che fu il lavoro del
fonditore ungherese di cannoni, Urban,che aveva lasciato il servizio
dell’Imperatore quando il Sultano gli offrì una paga migliore. Fu il suo
cannone che distrusse le mura e consentì alle truppe ottomane di entrare nella
città.
La
efficacia di questo cannone era evidente per tutti gli osservatori e fu forse
questa esperienza che incoraggiò gli Ottomani a concentrarsi sulla produzione
di cannoni molto grandi per il resto del secolo. Dopo il fallito assedio di
Jajce nel 1464, per esempio, il veneziano Malipiero riportò che prima della
loro ritirata gli assedianti ottomani gettarono cinque cannoni da assedio
“ciascuno lungo diciassette piedi” nel fiume Vrbas per evitare che cadessero
nelle mani del nemico. Era probabile, anche che la difficoltà di trasportare
questi grandi cannoni in un unico pezzo che condusse gli ottomani a continuare
la pratica della fusione sul posto, apparentemente da rottami di bronzo, sul
campo. Il cannone mostruosamente grande
per abbattere le mura e terrorizzare il nemico non fu, comunque la sola
forma di artigliera ottomana di questo periodo. Descrizioni degli assedi menzionano altri tipi di artiglieria,
in particolare mortai per sparare in
alto sopra fortezze o mura cittadine. Sembra,anche, che gli ottomani usassero
artiglieria da campo che,per sua natura, deve essere portatile. Furono,
affermano in modo convincente le fonti ottomane, l’artiglieria e gli archibugi
che assicurarono la vittoria su Uzun Hasan nel 1473. L’uso di grandi cannoni da
assedio fu, comunque, una caratteristica del guerreggiare ottomano.
Per
il 1500, questi grandi cannoni erano obsoleti. Sebbene capaci di infliggere grande
danno, essi avevano due principali difetti. Anzitutto, il calore che un singolo
colpo generava limitata il numero dei
colpi possibili in un giorno. In secondo luogo, le dimensioni e il peso
rendevano impossibile, una volta installato al suo posto, spostare il cannone
in una diversa sezione delle difese. Questi erano problemi che in Europa
l’artiglieria francese doveva risolvere nella seconda metà del quindicesimo
secolo. La loro soluzione fu di usare, invece di un singolo grande cannone,
batterie di cannoni più piccoli. Questi non potevano lanciare i grandi
proiettili dei cannoni giganti, ma invece, sparando rapidamente e in
successione potevano lanciare lo stesso peso del colpo del cannone più grande
contro un muro difensivo. Inoltre, questa artiglieria leggera era più facile da
spostare e così poteva essere usata contro un qualsiasi punto della difesa.
L’efficacia di questa nuova tecnica divenne chiara quando il re francese, Carlo
VIII invase l’Italia nel 1494.
Gli
ottomani appresero presto questa strategia. Nel 1501, una flotta francese salpò
per l’Egeo e pose sotto assedio la fortezza di Mitilene nell’isola di Lesbo. Il
comandante della flotta, Philippe de Clèves, era un teorico della guerra e in
particolare dell’uso delle armi da fuoco sulle galee. gli fu capace quindi di
sbarcare le sue truppe con successo sotto la copertura del fuoco delle galee e
di trasportare l’artiglieria davanti
alla fortezza. Qui, la mobilità e efficacia dei suoi cannoni impressionarono
particolarmente i due autori ottomani di un resoconto dell’assedio, che
commentarono anche l’uso francese di palle di cannone in ferro. L’assedio alla
fine fallì per una scarsa organizzazione degli assalti piuttosto che per
deficienze dell’artiglieria.
Gli
ottomani appresero molto velocemente la lezione della campagna italiana di
Carlo VIII e dell’assalto francese a Mitilene. Entro una decade essi avevano
abbandonato l’uso dei cannoni giganti come principale artiglieria d’assedio e
cominciarono ad adottare tecniche francesi nella manifattura e uso dei cannoni.
Spandounes, che scrive nel 1513, rileva il cambiamento: “Nel passato essi
avevano solo artiglieria di grosso calibro, che trasportavano con grande
travaglio. Essi portavano i suddetti pezzi e li rifondevano sul campo dove si
trovavano. Comunque, da non molto un grande numero di marinai e altri soldati,
perfino cannonieri e fonditori sono andati a Costantinopoli e sin dal momento
che il re Carlo venne a Napoli questi hanno mostrato loro sia come fondere e
montare l’artiglieria sia come usarla”
Altre
fonti confermano ciò che dice Spandounes. Un documento della fonderia di
cannoni imperiale ad Istanbul tra il 1522 e il 1525 mostra che il 97% dei
cannoni – cioè 1027 pezzi – costruiti durante quegli anni erano di dimensioni
piccole o medie. Similmente, un inventario dei cannoni immagazzinati a Belgrado
del 1536 mostra che, di 485 cannoni, l’82% consisteva di cannoni piccoli. Gli
Ottomani continuarono a produrre e usare grandi cannoni – Basilischi – ma in
numerro più piccolo rispetto ai pezzi più leggeri. Questa è anche l’impressione
che emerge dal resoconto del savoiardo Jean Maurand della fonderia di cannoni
nel 1544. Qui, al di fuori dell’edifico egli vide “un gran numero di cannoni di
tutti i tipi: cannoni con una forcella, colubrine, pezzi da campo, Basilischi,
mortai e i cannoni leggeri noti come esmirigli
e versi”. Furono comunque ancora i
cannoni grandi che lo impressionarono maggiormente. Egli si diffonde
specialmente sugli undici basilischi e
sui mortai che gli ottomani avevano usato nell’assedio di Rodi ventidue anni
prima. Questi erano così grandi che “un uomo poteva entrare nella cavità della bocca
inginocchiandosi”. Al tempo di Maurand, comunque, gli artiglieri ottomani
usavano i Basilischi non come arma principale ma come integrazione delle
batterie più leggere, per far cadere mura già indebolite. Per esempio,
all’assedio di Famagosta nel 1571, Pietro Bizari descrive una batteria ottomana
come “dotata di settantaquattro cannoni che facevano fuoco, dei quali quattro
erano di dimensioni terrificanti e spoporzionate, conosciuti generalmente come
Basilischi”.
Spandounes
attribuisce agli Ottomani l’adozione dello stile dell’artiglieria francese come
dovuta all’importazione di tecnici stranieri. La sua osservazione deve, almeno
in parte, essere vera, data la facilità con cui la tecnologia militare
attraversò confini culturali. Gli ottomani avevano probabilmente guadagnato la
loro prima conoscenza dell’artiglieria nei Balcani, prima che il contatto con i
Genovesi li familiarizzassero con le tecniche italiane di uso e manifattura. Il
fonditore di cannoni di Mehmed II, Urban, fu ungherese, e praticava un mestiere
che si era diffuso in Ungheria dal sud della Germania. Nel 1456, il fonditore
di cannoni tedesco Jörg di Nuremberg entrò a servizio del
re di Bosnia. Quando Maometto II conquistò la Bosnia prese Jörg prigioniero e
lo impiegò come fonditore di cannoni fino alla sua fuga a Vienna nel 1480.
Spandounes indica che questo traffico di tecnici continuò nel tardo
quindicesimo e all’inizio del sedicesimo secolo, un punto che Maurand conferma
con la sua affermazione che c’erano quaranta o cinquanta tedeschi che
producevano pezzi di artiglieria nella Fonderia. Circa nello stesso periodo di
Maurand, l’ambasciatore francese D’Aramon sostenne che molti “francesi,
veneziani, genovesi, spagnoli e siciliani” che gli ottomani avevano catturato
in terra e in mare, lavoravano nella fonderia dei cannoni. Nella metà del
sedicesimo secolo anche il viaggiatore francese de Nicolay asserì che gli ebrei
che erano emigrati nell’Impero ottomano dopo la loro espulsione dalla Spagna
portarono con sé una conoscenza della creazione di artiglierie.
L’importanza
di questi fonditori e artiglieri stranieri al servizio del Sultano era che essi
rappresentavano una via per la trasmissione della tecnologia: la produzione e
uso delle artiglierie era un business internazionale. Essi erano comunque una
minoranza. La gran parte degli uomini responsabili per la manifattura,
mantenimento e uso dell’artiglieria erano membri dei corpi dei cannonieri , un
corpo che era forse venuto ad esistenza nella metà del quindicesimo secolo,
quando l’artiglieria venne a formare un
elemento regolare ed importante negli assedi e nelle tattiche sul campo di
battaglia. Per il sedicesimo secolo la fonte principale di reclutamento per
questo corpo era attraverso la Raccolta. Elenchi di cannonieri indicano anche
la presenza di nati musulmani e cristiani con una tendenza, mano a mano che il
secolo progrediva, dei musulmani a superare in numero i cristiani. Il corpo dei
cannonieri, dunque, forniva un gruppo di esperti indigeni , mentre
l’impiego di tecnici stranieri era un
mezzo per l’acquisizione di nuova conoscenza tecnica.
La
maggior parte dei cannoni ottomani erano fusi in bronzo. La transizione al
ferro saldato che sembra essere occorsa
durante la metà del quindicesimo secolo, fu comunque, graduale. Ancora nel
1514, nella sua enumerazione dei cannoni ottomani della campagna di Chaldiran,
Menavino menziona “duecento grandi bombarde di bronzo e un centinaio in ferro”.
I resoconti, comunque, della fonderia di cannoni di Istanbul tra il 1522 e il
1525 suggeriscono che, a quel tempo, i
pezzi dell’artiglieria ottomana erano esclusivamente in bronzo. Questo era
ancora l caso quando Evliya Celebi descrisse la fonderia un centinaio di anni
più tardi negli anni ’60 del 1600. Il rame per fare il bronzo era disponibile
in tutto l’Impero, in particolare dalle miniere in Kastamonu nel nord
dell’Anatolia. L’altro componente della lega, stagno, sembra essere stato più rare
e in una certa quantità almeno, era importato. I resoconti sulla
fonderia,comunque, mostrano che i fonditori integravano la fornitura di nuovo
minerale con bronzo da rottami. Questo arrivava alla fonderia specialmente
nella forma di cannoni obsoleti, dallo stock del giardino del Sultano o
direttamente alle banchine della fonderia. Altri pezzi di bronzo, come vecchi
calderoni anneriti, integravano la provvista di cannoni vecchi o rovinati. Le
palle di cannone in ferro, introdotte probabilmente dopo l’assedio francese di Mitilene, nel 1501, venivano prodotte
dagli ottomani non alla fonderia di cannoni di Istanbul, ma ai centri di
produzione del ferro, in particolare Samokov in Bulgaria.
Similmente,
fu la disponibilità di salnitro che sembra aver determinato i siti delle
fabbriche per produrre polvere da sparo, con i principali centri di produzione
nel sedicesimo e diciassettesimo secolo a Buda, Temesvár,
Belgrado, Tessalonica, Gallipoli e Istanbul in Europa, a Bor in Anatolia, ad
Aleppo, Baghdad e nello Yemen e in Egitto. L’Impero era, sembra,
autosufficiente per quanto riguarda il salnitro tranne casi eccezionali, quando
le ostilità si prolungavano, come nella guerra con l’Iran nel 1578-90, o la
guerra austriaca del 1593-1606. I tentativi del tesoro di monopolizzare la
produzione assicurando che, quando una nuova fonte di salnitro veniva alla luce
diveniva parte dei possedimenti personali del Sultano. Lo zolfo, d’altro canto,
era meno abbondante. Le conquiste di Solimano I (1520-66) nell’Anatolia
orientale portarono i giacimenti nei
distretti di Van e Hakkari sotto il controllo ottomano e ulteriori forniture
erano disponibili da vicino il Mar Morto, e da Melos e la Moldavia. Nondimeno,
era ancora necessario importare solfo, specialmente dall’Iran. Il terzo ingrediente
della polvere da sparo è il carbone. In molti luoghi era facilmente
disponibile, ma alcune aree di produzione erano virtualmente senza alberi, ciò
che costringeva i produttori a trovare alternative, come radici di arbusti e
tamerici della penisola del Sinai. Il processo di raffinazione del salnitro
consumava anch’esso grandi quantità di combustibile, ma a questo scopo poteva
servire qualsiasi tipo di combustibile.
La
Forma tipica della guerra ottomana erano gli assedi e le scaramucce lungo i confini dell’Impero. Battaglie
campali erano rare, ma quando si verificavano erano spesso decisive. La
battaglia di Varna, per esempio, nel 1444, determinò la dominazione ottomana
piuttosto che ungherese nella penisola balcanica. La conquista ottomana di
Siria ed Egitto nel 1516 e 1517 fu lo sbocco delle due battaglie a Marj Dabiq e
Raydaniyya. Fu la battaglia di Mohacs nel 1526 che mise fine al regno
indipendente di Ungheria.
La
formazione dell’esercito ottomano sul campo di battaglia sembra essere rimasta,
essenzialmente, invariata tra la fine del quattordicesimo secolo e la fine del
sedicesimo. Era in massima parte un
esercito di cavalieri con, di regola, la cavalleria anatolica e di Rumelia
posizionate separatamente in ciascuna ala. Nel centro c’erano i giannizzeri,
che proteggevano anche il Sultano se
dirigeva l’esercito di persona. Sebbene essi fossero fanteria e in piccolo
numero furono i giannizzeri che fornirono un nucleo stabile per la linea di
battaglia ottomana.
Le
quasi-sconfitte che gli Ottomani subirono durante le guerre ungheresi della
metà del quindicesimo secolo, li incitò a fare maggior uso di armi da fuoco e
ad adottare la tattica del wagenburg.
La disposizone delle forze in campo, comunque, con i giannizzeri al centro e la
cavalleria alle ali, sembra essere rimasta invariata. La differenza era che il
centro del campo che i giannizzeri occupavano era diventato una forte posizione
fortificata. Fu anche probabilmente dopo le guerre di Ungheria che i
giannizzeri iniziarono a portare armi da fuoco. Queste dovevano dimostrarsi
particolarmente efficaci nelle guerre contro Uzun Hasan nei primi anni ‘7’ del
1400. Mancando di armi da fuoco, Uzun Hasan tentò ma non riuscì ad ottenere una fornitura da Venezia e, nel suo incontro
con l’esercito ottomano, questa mancanza fu cruciale. Il cronista ottomano
Neshri, annota che “Uzun Hasan non aveva
mai visto una battaglia con cannoni ed archibugi e così fu senza difesa contro
gli Ottomani”. La cronaca veneziana di Malipiero rimarca lo stesso concetto:
“Bayezid II migliorò la qualità degli archibugi dei giannizzeri, a seguito dei
rovesci nella guerra contro i mamelucchi in Cilicia tra 1485 e 1490”.
A
questo stadio erano solo i giannizzeri che avevano armi da fuoco. Gli archibugi
non erano pratici da portare a cavallo e la fanteria irregolare – gli azab – probabilmente non serviva
abbastanza a lungo da apprendere un uso efficace dell’arma. Fu solo alla fine
del sedicesimo secolo che le armi a base di polvere da sparo divennero
sufficientemente diffuse da rendere possibile reclutare gli archibugieri tra la
popolazione. Durante la seconda metà del quindicesimo secolo e per molto del
sedicesimo dunque, le armi da fuoco individuali furono un importante elemento
delle tattiche ottomane sul campo di battaglia, specialmente nel difendere la posizione fortificata al
centro. Il loro uso, tuttavia, fu limitato, in un esercito che era
essenzialmente un esercito di cavalieri.
Due
resoconti della prima metà del sedicesimo secolo danno un buon quadro
dell’ordine di battaglia ottomano in questo periodo. Uno di questi appare nella
proclamazione della vittoria di Selim I a seguito della battaglia di Marj Dabiq
nel 1516. Il Sultano stesso era al centro della linea di battaglia con le
guardie del corpo giannizzere. Sulla linea di battaglia c’erano 10.000 uomini,
inclusi gli archibugieri, probabilmente giannizzeri. Di fronte a questi c’erano
300 carri con cannoni. Da ciascun lato c’erano cavalieri dalle sei divisioni,
con i cavalieri di Crimea e i timarioti di Anatolia e Rumelia da ciascun lato.
Qualche anno più tardi, intorno il 1541, Paolo Giovo diede un resoconto
dell’ordine di battaglia che conferma largamente,ma con maggiori dettagli, ciò
che si legge nella proclamazione di Selim. Il Sultano, egli dice prende la sua
posizione al centro, sotto la protezione dei solak – il gruppo interno dei
giannizzeri che fungevano da sua guardia del corpo – e dei giannizzeri. Molti
di questi portavano lunghi archibugi. Alla destra e sinistra c’era la cavalleria delle sei
divisioni. Di fronte ai giannizzeri c’erano i cannoni, e più avanti sul fronte,
gli azab. Un altro gruppo di azab proteggeva il retro dell’esercito.
La cavalleria di Rumelia e Anatolia era disposta da ciascun lato del fronte più
avanzato degli azab. Giovio menziona
anche il ruolo dei razziatori. Questi cavalcavano di fronte all’esercito e
cercavano di indurre il nemico a venire in contatto con gli azab. Queste truppe erano probabilmente
viste dal Sultano come largamente sacrificabili. Già nel 1475 Iacopo di
Promontorio aveva commentato: “Quando si
viene al combattimento essi sono mandati avanti come maiali, senza alcuna
pietà, e muoiono in gran numero”. Quando gli azab cedevano e si dividevano, il nemico incontrava l’artiglieria e
poi, dietro i cannoni, i giannizzeri. Il ruolo della cavalleria sulle ali era
di circondare il nemico come questo si avvicinava alla posizione fortificata al
centro della linea ottomana.
Il
comandante delle forze in Ungheria tra il 1564 e il 1568, Lazarus Schwendi, è
testimone dell’efficacia di queste tattiche. Egli mette in evidenza che le
forze cristiane non dovrebbero permettere agli ottomani di attirarli nel raggio
di azione dei wagenburg, la
fortificazione mobile al centro della linea. Egli commenta anche l’eccellenza
dei giannizzeri come tiratori: “ci sono circa 12.000 archibugieri con lunghi
archibugi che essi manovrano in modo eccellente”. Altri europei, per esempio,
all’assedio ottomano di Malta nel 1565, commentano pure il fuoco accurato dei
giannizzeri. Schwendi, sembra, considerava gli ottomani come invincibili sul
campo di battaglia e durante l’estate, quando essi potevano mobilizzare un
esercito al completo. Egli consiglia invece che gli austriaci attacchino le
fortezze di confine in inverno, quando gli ottomani non potevano resistere
efficacemente, e che “fortezze valide e ben equipaggiate” erano la maniera migliore per sconfiggere i turchi.
L’atteggiamento di Schwendi è difensivo, e indica che le tattiche ottomane sul campo
di battaglia rimasero efficaci funo alla fine delle guerre degli anni ’60 del
1500.
Nell’identificare
le “fortezze valide e ben equipaggiate” come l’arma migliore contro gli
ottomani schwendi caratterizza l’arte bellica del periodo. Gli assedi erano più
comuni che le battaglie campali ed erano una forma di guerra in cui gli
ottomani giunsero ad eccellere. Agli inizi del quattordicesimo secolo, essi
erano stati capaci di prendere castelli e città fortificate solo affamandole
fino a farle capitolare. Ma per la fine del secolo essi avevano adottato con
successo l’equipaggiamento e le tecniche dell’assedio medievale, usando mangani
per lanciare pietre contro e sopra le mura, torri d’assedio per dare alle
truppe attaccanti una piattaforma su cui combattere da cui assaltare i
difensori sugli spalti e mantellette per ripararsi dai proiettili. Essi avevano
anche appreso l’arte della mina. Essi continuarono ad usare queste
tecniche molto dopo il quattordicesimo
secolo. Nel 1453 per esempio fu il fuoco dei cannoni che fece una breccia nelle
mura di Costantinopoli, ma i cannoni
erano solo uno degli strumenti che gli ottomani usavano per colpire le difese
della città. Il cronista ottomano, Tursun Bey, riferisce che Mehmed II portò sotto le mura mangani e gallerie di
mina. I resoconti dei difensori europei riferiscono pure essi di torri
d’assedio. Queste e altri “obsoleti” metodi di assedio continuarono nel secolo
seguente. Ci sono riferimenti all’uso di mantellette all’assedio di Otranto nel
1481, Malta nel 1565 e Nicosia nel 1570, e dell’uso di mangani all’assedio di
Rodi nel 1522. A malta nel 1565, gli attaccanti costruirono una torre d’assedio
che poteva contenere cinque o sei archibugieri. Anche lo scavo di gallerie di
mina rimase una specialità degli ingegneri ottomani agli assedi.
Nondimeno,dalla
metà del quindicesimo secolo l’artiglieria divenne il fattore cruciale negli
assedi. La funzione dei cannoni era di distruggere le fortificazioni, ma le
bocche da fuoco ottomane dalla metà del quindicesimo secolo includevano anche
mortai per far fuoco sopra le mura per demolire edifici e terrorizzare la
popolazione all’interno. Sembra, per esempio, essere stato un mortaio
gigantesco che distrusse il morale degli abitanti durante l’assedio ottomano di
Mitilene nel 1462.
L’artiglieria
era uno degli elementi nella guerra d’assedio. Egualmente importante era il
lavoro di scavatori e minatori nello
scavare le trincee per avvicinarsi e la
costruzione dei terrapieni che proteggevano gli assedianti e la loro
artiglieria dal fuoco nemico, e nel minare dal disotto le mura della fortezza.
Queste erano arti nelle quali gli ottomani eccellevano. C’era, nel
diciassettesimo secolo, un corpo separato di genieri , ma non è chiaro quando
nacque. E’ possibile che un tale lavoro fosse in precedenza il dovere degli
appiedati e degli esentati.
Il
primo stadio di un assedio era sconfiggere qualsiasi forza fosse al di fuori
delle mura e confinare il nemico nella fortezza. Poi, con la copertura delle
tenebre gli scavatori avrebbero scavato
le trincee di approccio ad angoli retti con le mura. Queste erano sinuose, per
fornire protezione dai colpi nemici che sarebbero potuti giungere direttamente
da un estremo della trincea ad un altro. Da questi approcci, le trincee
parallele alle mura irradiavano ad angoli retti. Una volta che queste erano
completate gli assedianti ottomani portavano l’artiglieria e i gabbioni e quando questi erano al loro posto
cominciavano il bombardamento. I gabbioni, che servivano per proteggere gli
scavatori e i soldati nelle trincee. attirarono l’attenzione del viaggiatore
francese De Nicolay, che li vide all’assedio di Tripoli nel 1551: “I gabbioni
sono fatti di grandi tavole spesse tre pollici… Quando i turchi desiderano
attaccare qualche posizione essi li mettono sul terreno,nella forma di una
losanga, incardinando le tavole una all’altra. Poi, quando sono state piazzate
in file, le riempiono di terra. Questo è una invenzione molto utile, perché i
colpi possono solo schizzare via da loro
e non fanno loro alcun danno” Come le trincee si avvicinavano al fossato
di fronte al forte, gli assedianti avrebbero spesso usato la terra estratta
dagli scavi o le macerie che i cannoni avevano staccato dalla fortezza per
livellarlo e avvicinarsi alle mura. Descrivendo l’assedio di Famagosta nel
1572, Bizari riferisce che “i Turchi avevano già gettato così tanta terra
contro il fossato, che l’avevano posto al livello dei bastioni, e poi posto
travi per traverso da entrambi i lati per servire da supporto. Questi si
estendevano fino al muro. E per far sì che noi non li colpissimo con i nostri
cannoni, si proteggevano con canne, sacchi di lana e fascine”.
Le
trincee erano gli elementi più essenziali in un opera d’assedio dato che
fornivano copertura e era attraverso di esse che gli uomini e l’artiglieria si
avvicinavano alle fortezze. La scienza dell’assedio ottomana comunque, coinvolgeva iniziative più
elaborate. Il quattordicesimo e quindicesimo secolo talvolta videro la
costruzione di fortezze di blocco per prevenire l’accesso al luogo che era
sotto assedio. Negli anni ’90 del 1300 Bayezid I costruì un castello sulla
costa asiatica del Bosforo per impedire l’accesso a Costantinopoli mentre dava
l’assedio alla città. Allo stesso scopo, nel 1452-53 Mehmed II costruì un
secondo castello opposto a quello di Bayezid, sulla costa europea. Nel 1440
murad II aprì il suo fallito assedio di Belgrado con la costruzione di un forte
a sud della città per bloccare l’accesso.
Molte
di queste opere, comunque gli ottomani le costruirono immediatamente al di
fuori della fortezza o città sotto assedio. Per esempio, essi iniziarono
l’assedio di Nicosia nel 1570 costruendo “una fortezza sulla montagna che
prende il nome di Santa Marina, a centosettanta passi di distanza dai bastioni
e dalle strade di Podocattaro e Carrasa”. Da lì, essi iniziarono a sparare
nella città, colpendo case e altri edifici, ma senza causare molto danno.
Successivamente innalzarono un forte “su una collina che gli abitanti chiamano
San Giorgio”, sparando ai tetti delle case, ma di nuovo senza fare danni alle
difese. Due altri forti seguirono, e solo quando essi riuscirono ad atterrare
le difese della città da queste posizioni gli attaccanti si fecero più vicini.
Lo stadio successivo delle operazioni dimostrò come gli Ottomani potevano
costruire fortezze più vicine alle mura
della città. Quando la forza assediante si avvicinò alla controscarpa del
fossato intorno alla vecchia città di Nicosia “essi scavarono e fecero terrazze
che erano quasi pari alle nostre fortezze chamate Podocattaro, Constantia,
Anaba e Tripoli, Fronteggiando queste, essi costruirono quattro belle fortezze,
con grande lavoro e diligenza, circa cinquanta passi dalle nostre mura”. Da
queste posizioni essi erano in grado di martellare le mura. Lavori simili
apparvero all’assedio di Famagosta nel 1572. Bizari descrive come, all’inizio
dell’assedio, “i turchi iniziarono a creare piattaforme per piazzare cannoni
per il bombardamento e a fare casematte e bastioni per il fuoco degli
archibugieri”.
Nello
stesso tempo che le forze assedianti costruivano queste fortificazioni di terra
e macerie sopra il terreno, i loro minatori avrebbero scavato sottoterra. Il
metodo originale era di costruire una camera sotto le mura o le torri della
fortezza e di rivestire i supporti di legno
che sostenevano il soffitto con pece o altro materiale combustibile. I
minatori avrebbero allora dato fuoco ai supporti e si sarebbero ritirati. Come
il soffitto della mina collassava, così avrebbe fatto il muro sopra il terreno.
Nel sedicesimo secolo, l’uso di polvere da sparo per far esplodere gallerie di
mina incrementò l’effetto distruttivo di questa tecnica. La polvere da sparo
comportava tuttavia grossi rischi. All’assedio di Famagosta un gran numero di
assedianti persero la loro vita quando una mina ottomana scoppiò sotto i loro
piedi.
Lo
stadio finale dell’assedio, quando il fuoco dei cannoni e le mine avevano
indebolito la fortificazione e colpi di freccia e d’arma da fuoco avevano
decimato i difensori, era un assalto
generale, quando la forza assediante tentava di entrare dalle brecce nel muro.
Una volta che un esercito ottomano era entrato in una fortezza, città o paese,
non c’era più nessuna speranza di resistenza efficace.
L’ESERCITO:
DOPO IL 1590: LA RIVOLUZIONE MILITARE
Il
successo degli eserciti ottomani
nell’ultima decade dal sedicesimo secolo sembrava giustificare la
cautela che Schwendi aveva consigliato negli anni ’60 del 1500. Tra il 1570 e
il 1572 gli ottomani si impadronirono di Cipro. La guerra con l’Iran tra il
1578 e il 1590 portò all’Impero nuovi territori nel Caucaso e nell’Azerbaijan,
e dimostrò anche la capacità ottomana di
mantenere un esercito sul campo per più
di un decennio. Quando scoppiò la guerra con l’Austria nel 1593, ventisette
anni dopo l’ultima campagna ungherese di Solimano I, il comandante ottomano,
Koja Sinan Pasha, non avrebbe potuto avere dubbi sulla superiorità militare
ottomana. Ciò che la guerra rivelò di fatto fu che le tattiche militari
ottomane stavano divenendo obsolete.
Nel
suo resoconto del primo anno di guerra il letterato ottomano Ta’likizade, mette
in evidenza un ostacolo immediato che dovette affrontare l’esercito di Sinan
Pasha. Egli riferisce come a Belgrado la popolazione locale disse ai comandanti
ottomani che, nei tempi passati, se gli fosse stato riferito di un nuovo forte
austriaco in Ungheria il Sultano avrebbe ordinato la sua immediata distruzione.
Comunque, la lotta a Cipro e contro l’Iran avevano portato a trascurare la
frontiera ungherese, dando agli Austriaci l’opportunità di costruire nuove
fortificazioni. Questo lavoro ebbe luogo dalla fine degli anni ’70 del 1500.
Nella
parte meridionale del confine, tra il medio corso della Drava e il medio corso
della Sava e attraverso la Croazia fino
all’adriatico, le montagne formavano una difesa naturale. L’unica grande
fortezza che gli Austriaci costruirono
su questa linea era a sud, a Karlovac sul fiume Kupa. Per proteggere il
resto della frontiera croata essi costruirono una catena di torri di guardia e
posero nella zona di confine a sud della Drava dei mercenari Serbi e Tedeschi.
In Ungheria a nord della Drava, le paludi fornivano una certa difesa ma non
erano sufficienti per fermare l’avanzata di un esercito. Perdipiù, il Danubio
forniva una via d’acqua fin dentro l’Austria. Era in Ungheria, dunque, che gli
Austriaci concentrarono le loro difese, costruendo o ricostruendo fortezze a
Kanizsa nel sud e a Györ, Komarom, Ersekujvar e Eger nel
nord. Essi iniziarono anche a fortificare grandi città con bastioni difensivi.
Posizioni che non erano direttamente sotto il controllo imperiale, vennero
fortificate dai proprietari terrieri locali con muri di terra compressa tra
pesanti tronchi. Le fortezze nuove e ricostruite erano in gran parte il lavoro
di ingegneri italiani, che usavano il disegno più moderno.
Non
furono, comunque, le nuove difese che mostrarono la debolezza tattica degli
ottomani. Già nel 1570 la cattura di Nicosia aveva mostrato che l’arte
dell’assedio ottomana era ancora efficace contro le fortezze moderne dotate di
bastioni. L’unico problema tecnico incontrato dagli assedianti, secondo Bizari,
era che, all’inizio dell’assedio i bastioni di terra, assorbivano – come erano
stati designati per fare – l’impatto delle palle di cannone, rendendole
inefficaci. Durante la guerra di Cipro la non modernizzata fortezza di
Famagosta si rivelò un ostacolo molto
più serio delle moderne fortificazioni di
Nicosia. Anche durante la guerra austriaca, gli assedianti ottomani
furono capaci di prendere Györ nel 1594, Eger nel 1596, Kanizsa
nel 1600 ed Esztergom nel 1605, a dispetto
del loro progetto migliorato. Sembra sia stato il sistema difensivo nel
suo complesso, e gli scontri al di fuori delle fortezze, piuttosto che i forti
ammodernati che misero a dura prova le risorse ottomane.
Il
problema più grande per gli ottomani non era la nuova architettura militare, ma
piuttosto la superiorità austriaca sul campo. Essa si fondava in primo luogo
sull’aumentato uso di armi da fuoco. La guerra del 1593-1606 non fu, di fatto
la prima occasione nella quale gli ottomani avevano incontrato questo problema.
Alla battaglia di Lepanto nel 1571, la superiore potenza di fuoco era stato un
fattore nell’assicurare la vittoria della coalizione cristiana. La risposta ottomana
a questo era stata di emanare ordini che i timarioti che dovevano servire nella
flotta l’anno successivo dovevano imparare l’uso degli archibugi o avrebbero
perso i loro timar, e di reclutare
giovani che non appartenevano alla classe militare ma che sapevano come usare
le armi da fuoco individuali. Comunque, non ci fu una applicazione sistematica
di queste misure nella decade successiva e i comandanti ottomani non sembrarono
aver applicato la lezione appresa sul mare agli eserciti terrestri. Inoltre,
nelle guerre con l’Iran dal 1578 al 1590, gli ottomani fronteggiavano un
avversario che era debole dal punto di vista dell’artiglieria.
Questo
non era il caso nel 1593, come rendono evidente i resoconti sia ottomani che
europei. Nel 1594 Bernardino de Mendoza notò come “molte delle vittorie di
questi tempi sono una conseguenza dell’artiglieria, o dell’abilità degli
archibugieri” e Achille Tarducci commentava in particolare sulla efficacia dei
tedeschi che avevano “abbandonato la vecchia tattica delle guerre difensive per
passare all’offensiva, nelle fortezze e sul campo”. Queste nuove tattiche
diedero agli austriaci una nuova fiducia in sé che sgomentò gli ottomani,
inducendo un commentatore, Hasan al-Kafi a scrivere: “Attraverso l’uso di certe
armi, il nemico sta cominciando a riportare vittorie contro di noi… Il nemico
ha cominciato a prendere il sopravvento
attraverso l’uso di certi strumenti di guerra, nuovi tipi di armi e
cannoni, che i nostri soldati tardano ad introdurre”. Di queste nuove armi cui
allude Hasan al-Kafi, tre in particolare sembrano aver colpito lo storico
Pechevi, che partecipò a queste guerre. I primi due erano i cannoni a lungo
raggio e i moschetti, che erano più pesanti degli archibugi e richiedevano un
supporto per la canna. Entrambi giocavano la loro parte nel riuscire quasi a
sconfiggere gli ottomani a Mezö-Keresztes. L’altro strumento era
il petardo, una bomba per far esplodere le porte delle fortezze o distruggere
le mura.
Nuove
armi richiedevano nuove tattiche, e anche qui gli ottomani furono lenti ad
adattarsi. Il cambiamento più significativo era nella composizione degli
eserciti. I soldati di fanteria dotati di picche e armi da fuoco superarono in
numero la cavalleria, in qualche caso
assommando ai tre quarti delle forze austriache che fronteggiavano gli
ottomani. Poco dopo il 1600, in un memorandum al gran visir Yemishchi (“il
fruttivendolo”) Hasan Pasha, il comandante
in Ungheria, Lala Mehmed Paha, commentò come questo aveva influito
negativamente sulle fortune ottomane: “Molte di queste maledette truppe sono fanti e archibugieri. La maggior parte
delle truppe dell’Islam sono cavalieri e non solo sono pochi i loro fanti, ma
gli esperti nell’uso dell’archibugio sono rari. Per questa ragione, c’è un gran
disordine nelle battaglie e negli
assedi”
Una
conseguenza dell’aumentato numero di armi da fuoco e di truppe di fanteria fu
che la guerra sul campo divenne più statica, con eereciti che facevano grande
uso di lavori di sterramento e di posizioni di trincea che la cavalleria non
poteva facilmente sopraffare. Anche qui, come il resoconto della guerra fatto da Pechevi rende chiaro,
gli ottomani erano lenti ad adattarsi. Fu il rifiuto delle truppe giannizzere e
jelali di trincerarsi e la loro richiesta per rinforzi di cavalleria che
condusse al disastro sull’isola di Csepel nel 1603. La fanteria austriaca era
egualmente letale fuori delle sue posizioni fortificate, usando la strategia
che il comandante austriaco Basta aveva messo a punto per sopraffare la
cavalleria ottomana. Egli raccomandava in particolare che i moschettieri e
archibugieri sotto la protezione dei picchieri dovessero sparare alla
cavalleria che avanzava delle salve controllate. Sembra che siano stati questi
quadrati di picche, con gli archibugieri ad ogni angolo o che formavano una
copertura dai due lati che consentirono agli austriaci a Mezö-Kerersztes
di avanzare quasi senza incontrare opposizione
fino all’accampamento ottomano. A Kanisza nel 1600, gli ottomani
fuggirono di nuovo di fronte al fuoco austriaco, alla fine vincendo solo perché gli austriaci
credettero che la loro fuga fosse un trucco.
La
risposta ottomana alle tattiche austriache fu di incrementare il numero di
soldati di fanteria espandendo il corpo dei giannizzeri, cosicché esso contava quasi 40.000 effettivi alla fine
della guerra, e reclutando, per la durata di una singola campagna, uomini che
sapevano come usare armi da fuoco. Essi cominciarono anche ad adottare nuove
armi, come il petardo, appreso dagli austriaci. E’ anche possibile che Lala
Mehmed Pasha, il comandante ottomano di maggior successo nella guerra, avesse
cominciato ad adottare le nuove tattiche sul campo di battaglia dal momento
che, come implica Pechevi, egli era certamente consapevole del loro
significato.
L’uso
aumentato della fanteria ebbe importanti conseguenze sul campo di battaglia e
fuori. Il fatto più significativo fu che i giannizzeri smisero di essere un
corpo di élite. Con gli effettivi in aumento, il reclutamento fu ampliato fino
ad includere Turchi e altri musulmani per nascita. Nello stesso tempo, per
alleviare il peso sul Tesoro, i giannizzeri ebbero il diritto di guadagnarsi da
vivere fuori del corpo. Pagare un tale numero di persone nondimeno richiese un
aumento delle entrate, che il Tesoro ottenne in parte convertendo alcuni timar in appalti esattoriali , e,così
facendo, alterando la struttura fiscale e amministrativa dell’Impero. Un
effetto del reclutamento di truppe irregolari come fanteria fu anche di mettere
in difficoltà il tesoro. All’inizio del diciassettesimo questo provocò una
seria rivolta in Anatolia. Le truppe di fanteria congedate, esperte nell’uso
delle armi da fuoco furono una fonte di reclutamento delle bande di Jelali la cui soppressione richiese
tutta la forza dell’esercito ottomano.
L’incremento
nell’uso della fanteria e l’adozione di nuove armi consentì alla fine agli
ottomani di mantenere la loro posizione in Ungheria. Alcune debolezze militari
comunque rimasero. L’esercito ottomano non sembra abbia adottato la tattica,
che Basta raccomanda, di sparare delle salve. In una formazione di giannizzeri,
per esempio, era solo la prima linea che poteva usare le proprie armi, e il
fuoco, anche se accurato, era irregolare. Per di più, la produzione standard di
cannoni ottomani, e le conoscenze matematiche degli artiglieri sembrano essere
state in ritardo rispetto a quelle dei rivali europei. Durante il corso del
diciassettesimo secolo, le abitudini mentali che produssero la “rivoluzione
scientifica” europea vennero ad influenzare in modo crescente la conduzione
della guerra. Questa fu una corrente intellettuale che non attraversò i confini
dell’Impero Ottomano, rendendo difficile per gli ottomani afferrare i principi
teorici che erano alla base della nuova scienza militare della costruzione
delle fortezze, degli assedi, delle tattiche sul campo e dell’artiglieria.
Tuttavia non fu fino alla disastrosa guerra con la Lega Santa dal 1683 al 1699
che questo divenne penosamente evidente. Sul fronte orientale, gli ottomani
dovevano soffrire umiliazioni all’inizio del diciassettesimo secolo per mano
dello Shah Abbas. Le vittorie iraniane non rifletterono, comunque, alcuna
superiorità strutturale. Il fatto era che semplicemente lo Shah Abbas era un
brillante stratega militare così come un esperto di politica, e capace di
sfruttare l’impegno bellico degli ottomani in Austria e Anatolia così come le
loro ricorrenti crisi politiche e i fallimenti nella leadership.
LA
FLOTTA: GLI OTTOMANI E IL MARE
Nel
Secolo successivo alla occupazione di Gallipoli nel 1354, gli unici passaggi
sul mare che erano vitali per l’integrità dell’Impero Ottomano erano presso gli
stretti che dividevano i suoi territori asiatici e europei. Questa situazione
cambiò con la conquista di Costantinopoli nel 1453. La nuova capitale ottomana
era una città la cui esistenza dipendeva dal rifornimento di cibo e altri beni
via mare, e questo richiedeva una flotta
per proteggere i porti e le rotte marittime dai pirati e dall’azione del
nemico. Fu poco dopo il 1453, pure, che il Sultano iniziò ad usare la flotta
come strumento di conquista, con Mitilene nel 1462, e Negroponte nel 1470 che
caddero per assalti anfibi.
Fu
solo negli ultimi anni del quindicesimo secolo, con azioni contro Venezia nel
golfo di Corinto ed al largo delle coste meridionali e occidentali del
Peloponneso che la flotta ottomana
cominciò ad operare fuori dell’Egeo. Nella seconda decade del sedicesimo
secolo, comunque, due eventi resero necessario estendere il raggio operativo
della flotta. Il primo di questi fu una conquista sulla terraferma. Nel 1517
Selim I conquistò l’Egitto e, nella decade successiva, la provincia divenne una
importante fonte di cibo per la capitale e di entrate per il Sultano. Le
comunicazioni erano convenenti solo via mare, e divenne dunque essenziale per
Sultano mantenere una flotta che fosse capace di proteggere il traffico navale tra Istanbul e l’Egitto.
La necessità di tenere questa rotta sgombra dai predoni deve essere stata una
ragione per l’assalto ai pirateschi cavalieri di Rodi nel 1522. La conquista
dell’Egitto portò anche a entrate per il Sultano provenienti dal commercio tra
l’oceano indiano e il Mediterraneo. Questo comunque, coinvolse un conflitto
navale con i portoghesi che, nelle stesse decadi, si erano stabiliti
nell’oceano indiano e stavano tentando di deviare il traffico dalla sua vecchia
rotta attraverso il Mar Rosso e di guadagnare un monopolio per i loro vascelli.
La acquisizione delle città sante rese anche il Sultano responsabile per la sicurezza,
dai portoghesi e altri predatori delle rotte di pellegrinaggio attraverso il
Mar Rosso dal sud dell’Asia e dall’Africa.
Il
secondo evento che incoraggiò gli ottomani a rafforzare la flotta fu la
sottomissione al Sultano di Hayreddin Barbarossa, il sovrano di Algeri. Ciò
estese i reami ottomani al Mediterraneo occidentale e nel Sultano diede ad
Algeri un protettore contro la Spagna. Più tardi nel secolo, le conquiste di
Tripoli nel 1551, Jerba nel 1560 e Tunisi nel 1574 rafforzarono la presenza ottomana nel Nord-Africa ma anche,
come l’acquisizione di Algeri condussero ad una inevitabile rivalità navale con
la Spagna, che stava cercando di stabilire roccaforti sulla costa del
Nord-Africa. Questi fattori resero il possesso di una flotta efficiente essenziale sia per la sopravvivenza del suo impero che
per la sua espansione.
Murad
I (1362-89) dovette aver costruito navi da guerra a Gallipoli dopo aver ripreso
la città e il suo porto dai Bizantini nel 1377, ma la prima notizia affidabile
di una flotta ottomana data dal 1392, durante il regno di Bayezid I
(1389-1402). Fu, comunque, Mehmed II (1451-81) che iniziò a costruire navi su
una vasta scala per guerre di conquista. Dettagli di queste prime flotte di
guerra sono mancanti, ma è chiaro che, nel costruirle, le maestranze ottomane
adottarono i tipi di vascello che erano comuni in tutto il Mediterraneo.
Il
vascello da combattimento di base era la galea a remi. Nella forma in cui era
emersa durante il Medio Evo, la galea era un vascello stretto, lungo da cinque
a sei volta la sua larghezza. Una galea standard aveva da ventiquattro a
ventisei banchi di remi da ciascun lato, con normalmente tre rematori per ciascun banco. Una
piattaforma rialzata correva tra i banchi di ciascun lato. Essa aveva un solo
albero con una vela latina e aveva una
piattaforma per il combattimento a prua. Le galee leggere, che i corsari
preferivano particolarmente, avevano meno di ventiquattro banchi per i remi da ciascun lato, mentre le
galee pesanti, tipo quelle che trasportavano il comandante della flotta, ne
avevano ventisei o più. Sulla prua esse avevano un ariete che sembra aver avuto
la funzione di danneggiare lo scafo nemico e nell’immobilizzarlo durante il combattimento
ravvicinato.
I
tratti fondamentali del progetto di una galea non cambiarono tra il medioevo e
il diciottesimo secolo, quando la galea sparì alla fine dal Mediterraneo. Ci
furono, comunque, alcune modificazioni nel corso dei secoli. La più importante
di queste era l’aggiunta dell’artiglieria nella second ametà del quindicesimo
secolo. Le galee avevano i cannoni sul davanti, ciò che consentiva loro di far
fuoco sul nemico prima di attaccarsi ad
esso e di abbordarlo. Quando la flotta ottomana per la prima volta usò
artiglieria di bordo non è sicuro, ma certamente una incisione veneziana che
raffigura la battaglia del Peloponneso del 1499 mostra le galee ottomane con
unico grande cannone che poteva ruotare, montato su un asse verticale sulla prua.
Durante il sedicesimo secolo, come sulla terra, i cannoni di bronzo
rimpiazzarono i cannoni in ferro saldato , e il numero di cannoni aumentò. Lo standard per le galee
ottomane nel sedicesimo secolo era probabilmente lo stesso che Katib Celebi
specificò come standard nella metà del quindicesimo secolo, cioè un cannone
sulla linea centrale, che sparava una palla di circa trenta libbre o più,
affiancato da due colubrine.
L’aggiunta
dell’artiglieria fu lo sviluppo più
importante nel disegno delle galee durante il quindicesimo secolo. Ulteriori
modifiche intervennero durante il
sedicesimo e diciassettesimo. Fino alla mea del sedicesimo secolo le galee
standard avevano tre rematori per banco,con ciascun rematore che azionava un
remo separato, un sistema conosciuto in italiano come “alla sensile”. Alla metà
del secolo, tutte le flotte del Mediterraneo sembra si siano convertite ad un
sistema dove i rematori su un singolo banco azionavano un singolo remo,un
sistema conosciuto come “al scaloccio”. La nuova soluzione rese possibile
incrementare il numero di rematori su un banco e ridurre il numero di abili rematori richiesti. La flotta ottomana,
a giudicare dai rapporti veneziani, adottò il sistema “al scaloccio” intorno al
1560. Un altro cambiamento venne verso
la fine del secolo, quando le galee standard cominciarono ad avere due
piuttosto che un albero. Anche i carpentieri ottomani fecero questa modifica.
Nel diciassettesimo secolo essi iniziarono pure a costruire galee con una
“poppa a melone”, cioè una poppa che era arrotondata e rinforzata, per renderla
più resistente alle onde. Un piccoli cambiamento finale venne quando l’ammiraglio Ali Celebi (che
tenne la carica nel 1617 e nel 1618-19) abolì come superfluo il “salva-vita”,
una vela che la ciurma usava per rimettere in mare galee che si erano arenate.
Uno
sviluppo più significativo nel disegno
delle galee del sedicesimo secolo avvenne accidentalmente. Nel 1570, quando
Venezia iniziò a costruire una flotta per contrastare gli attacchi ottomani a
Cipro, i carpentieri dell’arsenale convertirono le loro galee mercantili in
navi da guerra. Il lavoro fu frutto di improvvisazione, ma di improvvisazione
riuscita. Le galee mercantili erano più lente e ingombranti delle galee da guerra, ma più capaci, e così
consentirono ai costruttori di montare altri cannoni, inclusa artiglieria che
poteva far fuoco lateralmente. Il peso aggiuntivo consentì anche di dominare in battaglia le ordinarie galee
da guerra. Il comandante spagnolo della flotta della Lega Santa, Colonna,
riconobbe certamente il potenziale di questi vascelli quando, rispondendo alle
obiezioni al suo piano di inseguire la flotta ottomana nel 1570, notò che queste “galeazze veneziane
erano come fortezze che torreggiavano sul nemico e che sparavano dall’alto su
di lui”. La battaglia di Lepanto l’anno successivo giustificò il suo ottimismo.
Le galeazze giocarono un ruolo importante nella vittoria della Lega Santa
contro gli ottomani
La
tecnologia delle galeazze era comunque conservatrice ed era un vascello che gli
ottomani potevano facilmente imitare. Nell’inverno che seguì la sconfitta a
Lepanto il Consiglio Imperiale istruì il
capo carpentiere dell’arsenale in modo da costruire una nave che avrebbe dovuto
essere “mossa dai remi e capace di far fuoco da prua, da poppa e dai fianchi”
senza pericoli per i rematori. Quando l’ammiraglio , Uluj Ali, ebbe approvato i
piani, l’arsenale a Sinope costruì tre e l’arsenale di Istanbul uno o due dei
nuovi vascelli e, dal 1572, le galeazze formarono una parte regolare della
flotta ottomana. Katib Celebi annota che, nella metà del diciassettesimo
secolo, essi trasportavano ventiquattro cannoni.
La
facilità con cui i carpentieri ottomani imitarono le galeazze veneziane
contrasta con la loro lentezza nell’introdurre i galeoni, cioè vascelli a vela
con alti fianchi, capaci di far fuoco con bordate . Sotto questo aspetto,
comunque, questo era tipico delle costruzioni navali del Mediterraneo in
generale. I veneziani costruirono qualche nave di questo tipo alla fine del
quindicesimo secolo, ispirando Mehmed II ad ordinare una nave simile
dall’arsenale di Istanbul. La bargia
di Mehmed, comunque, affondò al varo, e né gli arsenali veneziani né gli
arsenali ottomani continuarono a sperimentare con questi vascelli. L’unica
eccezione furono un paio di cocche
che combatterono con la flotta ottomana nel 1499. Queste erano vascelli
ibridi,con remi, ma con la velatura di un galeone. A parte quell’anno, sembra
che la galea nelle sue varie forme fosse l’unico vascello da guerra ottomano.
Questo era anche vero delle altre marinerie mediterranee e, fino al sedicesimo
secolo, non mise in svantaggio la flotta ottomana contro i rivali nel
Mediterraneo.
L’Impero
Ottomano comunque non era solo un potere Mediterraneo e, nei suoi incontri con
i portoghesi nell’oceano indiano e nel Golfo, le galee ottomane non poterono
reggere al superiore potere di fuoco dei caracchi portoghesi e non erano adeguate per la
navigazione oceanica. Nel diciassettesimo secolo essi si trovarono di fronte a
problemi simili nel Mediterraneo. Questo secolo vide l’apparizione ivi di
mercanti armati dall’Olanda, Francia e Inghilterra. Dal momento che in molte
circostanze una galea non rappresentava una minaccia per un galeone completamente armato, questo cambiò i metodi
della guerra navale nel Mediterraneo e persuase l’arsenale veneziano a
intraprendere la costruzione di galeoni. Di conseguenza, quando gli ottomani
dichiararono guerra a Venezia nel 1645, e lanciarono un attacco a Creta, essi
si trovarono di fronte una flotta che era tecnologicamente superiore alla
propria. Per tenersi al passo con la flotta veneziana gli ottomani iniziarono a costruire galeoni con dieci in
costruzione nel 1650. Comunque, né le navi in sé stesse né i tentativi di
raccogliere ciurme tecnicamente capaci, ebbero successo, e non fu fino al 1682
che il galeone divenne la nave da guerra standard nella flotta ottomana. I
(musulmani) nordafricani, comunque, padroneggiarono le tecniche di costruzione
e manovra dei galeoni ben prima dei carpentieri e marinai della flotta
ottomana. Questo avvenne forse perché i
domini di Algeri, Tunisi e Tripoli
attrassero corsari dal nord-Europa come dal Mediterraneo, e furono forse questi
uomini che trasferirono le abilità dal teatro atlantico.
Con
questo non si vuol dire che gli arsenali
navali ottomani non costruissero per niente navi a vela. Un documento del 1487
registra due vascelli a vela – una bargia
e un gripar – che portavano
rispettivamente 83 e 45 cannoni. Questi chiaramente erano vascelli per il
trasporto dell’artiglieria, e furono come vascelli da trasporto che le bargia ottomane continuarono a
funzionare per tutto il sedicesimo secolo. Una di queste accompagnò perfino una
flotta di galee nell’oceano indiano nel 1564, ma apparentemente portava solo
provviste e non era armata. In aggiunta alle bargia altri vascelli specializzati accompagnavano le flotte da
guerra ottomane. I documenti elencano, ma non descrivono “navi delle pietre”,
presumibilmente per il trasporto di palle di cannone o materiali per la
riparazione di porti e fortificazioni, e “navi dei cavalli”. Queste erano,
secondo un resoconto del diciassettesimo
secolo, dotate di una vela quadra con un
basso pescaggio per il trasporto di cavalli o artiglieria, con una apertura a
poppa per far salire a bordo i cavalli. Queste erano le navi che accompagnavano
la flotta del Mediterraneo. Altri vascelli specializzati servivano sui fiumi
navigabili dell’Impero.
LA
FLOTTA: LA COSTRUZIONE DELLE NAVI
il
primo e, per più di un secolo il più grande, cantiere navale nell’Impero
Ottomano era a Gallipoli. Fu lì che alla fine del quattordicesimo secolo Bayezid I costruì e riparò la sua flotta e,
se dobbiamo credere al resoconto dell’ambasciatore aragonese presso Tamerlano che
vide le navi nel 1402, aveva una capacità per circa quaranta galee. E’
abbastanza probabile che, già a quel tempo, i capitani e le ciurme delle navi
fossero residenti permanenti della città. Questo era certamente il caso nel
1474, quando i loro salari comparivano nel primo registro rimasto di spese del governo a
Gallipoli. In quest’anno c’erano 92 distaccamenti di questi marinai, ciascuno con un capitano al suo
comando, con ciascun distaccamento forse rappresentante la ciurma di una
singola galea. Questo numero evidentemente rimase costante fino al 1518, quando
c’erano 93 distaccamenti. Come cantiere per la costruzione di navi,comunque,
Gallipoli sembra essersi espanso dopo il 1518. Nel 1522, l’anno della conquista
di Rodi, un bailo veneziano riferì che
altre navi erano in costruzione. Per il 1530 ne esistevano 30, con altri
incrementi nel 1530 e 1565-66.
Il
documento del 1518 riporta anche le spese dei carpentieri che costruivano e
riparavano le navi. Questi, mostra il documento, cadevano in categorie
differenti. In primo luogo c’erano otto piccoli gruppi di uomini che si erano
specializzati in costruzione di navi – magazzinieri, costruttori di remi, ,
costruttori di carrucole e pulegge, lavoranti con la stoppa – o nella manutenzione e uso dei cannoni –
armaioli, artiglieri e bombardieri. In tutto c’erano 81 uomini, i calafatori
con 26 e gli artiglieri con 28 uomini, che formavano i gruppi più grandi. Il
gran numero di calafatori suggerisce che
il loro compito principale era la manutenzione piuttosto che la costruzione di
navi. I numeri aumentarono lievemente negli anni seguenti, raggiungendo 127
unità nel 1530, ma non furono mai grandi. I
documenti mostrano che molti di questi uomini erano novizi del corpo dei
giannizzeri, che servivano come apprendisti artigiani prima di essere arruolati
nel corpo dei giannizzeri. Il gruppo più numeroso di artigiani, comunque, erano
uomini con impiego temporaneo che l’arsenale assumeva, presumibilmente dai
vicini distretti della costa, quando c’era lavoro, e licenziava al
completamento dello stesso. Per i compiti pesanti ma che non richiedevano
abilità, come trascinare in secca le navi, gli appiedati e gli esentati del
distretto di Gallipoli fornivano la forza lavoro.
L’arsenale
navale ad Istanbul aveva una organizzazione simile. Quando Maometto II il
conquistatore conquistò la città genovese di Pera nel 1453, acquistò con essa
il vecchio arsenale genovese, con i suoi moli e i suoi scali di
costruzione sulla costa del Corno d’Oro.
Egli evidentemente lo espanse durante il
suo regno quando intraprese la
costruzione di una grande flotta da guerra. Non fu comunque che nel sedicesimo
secolo che essa sorpassò Gallipoli come centro principale per la costruzione e
la manutenzione delle navi. Selim I (1512-20), secondo il resoconto di Lutfi
Pasha, progettò la costruzione di 300 bacini
che avrebbero occupato l’intera lunghezza del Corno d’Oro, ma non
completò mai il lavoro. Nondimeno, entro il 1522, c’erano 114 bacini, entro il 1557 123 bacini e questo numero
sembra essere rimasto stabile fino alla metà del diciassettesimo secolo. Nel
1653, essi erano circa 120. Ciascun bacino aveva due scali di costruzione coperti dove era possibile costruire o
ospitare galee, dando all’arsenale una capacità di costruire o riparare circa
250 galee nello stesso momento. Tra il 1546 e il 1549, l’ammiraglio Sokollu
Mehmed costruì un magazzino dietro ciascuno bacino e recintò l’intera area.
Come
a Gallipoli, c’erano maestranze permanenti e temporanee. Quelle permanenti
erano ancora novizi che formavano gruppi di calafatori, carpentieri,
fabbricanti di remi, bombardieri, fabbri, “riparatori”, fabbricanti di
carrucole e pulegge e lavoratori con la stoppa. Il loro numero era piccolo, con
i calafatori – 40 uomini nel 1530 – che costituivano il gruppo più grande di un
totale di 90 artigiani. Molti degli artigiani venivano comunque da fuori. Essi
erano perlopiù, secondo un resoconto veneziano, maestranze greche provenienti da Istanbul, Galata e le isole
vicine; ma quando il lavoro era urgente, essi sarebbero venuti da tanto lontano
quanto Lesbo e Chio. I mastri carpentieri rimasero largamente anonimi. Nel 1553
il bailo veneziano menzionò un mastro greco, che chiama Michele Benetto, con
tre o quattro mastri sotto il suo comando. Nel 1562, un altro bailo riferisce
che c’erano carpentieri veneziani che lavoravano nell’arsenale, che avevano
molto migliorato lo standard della costruzione di navi. Oltre questi, non
sussiste alcuna informazione. Erano sempre gli appiedati e gli esentati che
portavano avanti i compiti pesanti nell’Arsenale, servendo per periodi di sei
mesi.
All’inizio
del diciassettesimo secolo l’organizzazione delle maestranze sembra essere
cambiata. C’erano molti lavoratori permanenti – 838 nel 1604 – che
rappresentavano una varietà maggiore di competenze, inclusi i fabbricanti di
remi e i fonditori di bronzo e il reclutamento non era più esclusivamente o
principalmente tra i novizi. Il loro numero totale, comunque,declinò durante il
secolo, cosicché nel 1648, al tempo della guerra di creta, ce n’erano solo 368.
Sembra probabile dunque che per risparmiare denaro, il governo tornò alla
pratica di assumere il grosso della
forza lavoro quando sorgeva la necessità. Il numero degli impiegati permanenti
sembra comunque essere stato molto più alto che durante la prima parte del
sedicesimo secolo.
Gallipoli
e Istanbul non erano gli unici siti di costruzione di navi nell’Impero. C’erano
installazioni permanenti a Izmit ad est della capitale, a Sinope sul Mar Nero,
a Suez nel Mar Rosso e per un po’ durante il sedicesimo secolo, a Basnar
nell’Iraq meridionale. Per costruire lo scafo di una galea, comunque, non era
necessario uno speciale bacino e, negli anni in cui la necessità si faceva
pressante, come nel 1571-72, dopo la perdita di due terzi della flotta nella
battaglia di Lepanto, il Governo avrebbe ordinato la costruzione di navi extra
in specifici punti delle costa del Mar Nero e del Mediterraneo e l’arruolamento
forzato di artigiani per fare il lavoro. L’inverno del 1571-72 vide la
fabbricazione di più di 100 vascelli fuori di Istanbul e Gallipoli. Gli scafi
completati dovevano andare all’arsenale principale per ricevere i loro accessori e l’artiglieria.
Di
tutti i poteri mediterranei l’Impero Ottomano possedeva le risorse più
abbondanti per le costruzioni navali. Il legname, per esempio, era disponibile
dalle dense foreste dell’Anatolia nord-occidentale, vicino agli arsenali ad
Istanbul, Gallipoli e Izmit, e dalle pendici ricche di foreste lungo le coste
meridionali del Mar Nero. Tale disponibilità era l’invidia degli osservatori
stranieri del sedicesimo e diciassettesimo secolo, e non mostrò segni di
esaurimento fino alla fine del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Oggi,
l’area è largamente deforestata. Già nel sedicesimo secolo, e probabilmente
prima, il governo aveva riservato tratti di foresta per il legname per le navi,
nominando guardie per proteggere le piante. Gli abitanti di specifici villaggi
in queste aree abbattevano gli alberi e
li tagliavano nelle forme desiderate, ricevendo un salario dal tesoro per il
loro lavoro. Dal momento che le foreste erano vicine al mare, la fase
successiva era di trainare il legname per via di terra al porto più vicino e di trasportarlo tramite
navi agli arsenali. Sembra che giudici e ufficiali nominati specificamente
quando si intraprendeva il lavoro per sovrintendere alle operazioni. Nel
diciassettesimo scolo, lo stesso sistema continuò con qualche perfezionamento.
Per l’arsenale di Istanbul, il commissario per il legname determinava
l’ammontare di legno richiesto da ciascuna area, e lo specificato numero di
abitanti dei villaggi che avrebbero portato avanti il lavoro. Questi, a loro
volta, ricevevano i loro salari nella corte del giudice dall’agente del
commissario. Il Tesoro, comunque,
sopperiva solo per un quinto ai costi, il resto provenendo da tasse
straordinarie prelevate nei distretti di produzione del legname. Gli arsenali
potevano, quando era richiesto, comperare legname extra da mercanti ma, dal
momento che il legno della riserva era molto più economico, i salari e i costi
di trasporto essendo al disotto delle tariffe di mercato, essi chiaramente
preferivano non fare così.
Ci
fu una simile continuità tra il sedicesimo e diciassettesimo secolo nel
procurarsi altri materiali. Nel sedicesimo secolo le aree principali per la
fornitura di tele per le vele e per le tende delle galee erano Gallipoli, la
Grecia meridionale – specialmente Atene, Levadhia e Evvoia – e la regione egea
dell’Anatolia, sebbene i tessuti
potevano, come nel 1560, venire da lontano come dall’Egitto ed Aleppo.
L’organizzazione del lavoro aveva qualche somiglianza con l’abbattimento del
legname, col giudice locale o il commissario da Istanbul che distribuiva il
lavoro tra i villaggi e soprintendeva alla produzione. Di nuovo, erano i
tessitori che avevano la responsabilità di tagliare e imballare le stoffe finite, prima di
mandarle per terra o per mare, agli arsenali. Nella maggior parte dei casi, le
entrate locali coprivano i costi della produzione e del trasporto. Nel
diciassettesimo secolo, lo stesso sistema di produzione continuò, nelle stesse
aree, sebbene Gallipoli sembra essere emersa come il fornitore più importante,
specialmente di tele per navi. Le consegne di vele e teloni dall’Egitto divenne
anche più regolare. Fu anche probabilmente durante il diciassettesimo secolo
che il sistema cominciò a specificare esattamente quanta tela ciascuna famiglia
doveva produrre e ad allocare specifiche parti
di imposte locali per il pagamento della produzione.
Le
attrezzature e i cordami per la flotta venivano dalle aree di produzione della
canapa. Nel sedicesimo secolo queste erano sulle coste anatoliche del Mar Nero
ad ovest di Samsun, e sulle coste della Bulgaria, con piccole quantità che
provenivano da Tire, nell’entroterra di Izmir. Di queste, Samsun era il luogo
più importante. Nel 1539, l’arsenale di Istanbul acquistò 156 tonnellate da
quest’area, come pure circa 20 tonnellate dalla Bulgaria. Nel diciassettesimo
secolo, Samsun divenne, ancora più importante come fornitrice di corda. nel
1656, Katib Celebi riferisce che ogni anno la regione produceva 395 tonnellate
di canapa per l’uso della flotta. La canapa era, di regola, filata in corde
nell’area di produzione prima di essere inviata.
Sia
nel sedicesimo che nel diciassettesimo secolo erano soprattutto le miniere e le
fonderie di Samokov in Bulgaria che fornivano i chiodi, le ancore e le parti di
ferro delle galee. Queste normalmente arrivavano ai siti di costruzione delle
navi già pronte. Il costo di trasporto era comunque enorme. Nel 1606-7,per
esempio, l’arsenale di Istanbul acquistò 162.000 chiodi da Samokov per 198.608 akce. Il costo del trasporto da Samokov
al porto di Tekirdagi sul mar di Marmara e da lì ad Istanbul era di 188.014 akce,con costi addizionali di 29.451 akce per pagare i salari di due
impiegati, un impiegato addetto alla pesatura e un fabbro.
Lo
scafo delle navi, quando completo, richiedeva catrame e stoppa per calafatare,
e sego o altro tipo di grasso per ungerlo al disotto della linea di
galleggiamento. C’era una provvista abbondante di catrame da varie parti
dell’Impero: Vlorë in Albania, Pazardzhik in
Bulgaria, Mytilene, Thasos e le coste dell’egeo nord-occidentale, e dal vicino
Samsun nel Mar Nero. Queste aree continuarono a fornire gli arsenali nel
diciassettesimo secolo, quando il Governo destinò le entrate da Dürres e
Peć al pagamento di 115 tonnellate ciascuna da Vlorë e i dazi di Mitilene
al pagamento di una provvista annuale di circa 17 tonnellate da Lesbo. Queste
cifre suggeriscono che, nel sedicesimo
secolo, Vlorë continuò ad essere la più importante fonte di approvvigionamento.
La stoppa per calafatare era ottenibile a buon mercato da tutto l’Impero, il
costo più grande essendo quello del trasporto, piuttosto che per la sostanza
stessa. Il processo successivo dopo la calafatura era quello di oliare il
vascello, e questo richiedeva sego in grande quantità. Oliare una galea
richiedeva, secondo Katib Celebi, circa 350 chili di sego, e era necessario
portare avanti le operazioni tre volte l’anno, una volta prima che il vascello
lasciasse l’arsenale, e due volte durante la campagna. Il sego forniva anche il
materiale per le candele della nave e per il sapone, necessario specialmente
per i calafatori. L’abbondanza degli animali nell’Impero sembra comunque aver assicurato che non ce ne fosse mai
scarsità, con le consegne nel sedicesimo e diciassettesimo secolo che
provenivano principalmente dalla Rumelia, Valacchia e Moldavia.
Una volta che una galea era completa, essa
riceveva i suoi cannoni e la sua ciurma.
L’ammiraglio
della flotta del Mediterraneo, – il Kapudan
pasha – era la figura di grado più
elevato nella marina militare ottomana. La sua carica, comunque, emerse come un
incarico ben definito al servizio del Sultano solo durante il corso del
sedicesimo secolo. Non c’è nessun documento sugli ammiragli prima del 1453, ma
dopo queta data – e probabilmente prima – divenne consuetudine per il
governatore del sanjak di Gallipoli
comandare la flotta, evidentemente perché Gallipoli era la più importante base
navale e cadeva entro suo sanjak.
Questo comando, comunque, non era automatico. Nel 1475, per esempio, era il
visir Gedik Ahmed Pasha che comandò la flotta che salpò contro Azov e Caffa e
anche la flotta che portò le truppe da Vlorë ad Otranto nel 1481. Nondimeno, sembra che, durante il
regno di Maometto II, era il governatore del sanjak di Gallipoli che era di principio il comandante della
flotta, se non sempre in pratica. Un episodio della carriera del Gran Visir
Mahmud Pasha illustra questo punto. Nel 1469-70 Mehmed II lo licenziò dal suo
incarico da Gran Visir e nominò invece
governatore del sanjak di Gallipoli.
La ragione per questa apparente degradazione era il progettato attacco
all’isola veneziana di Negroponte. Questo richiedeva una grande flotta e, come
governatore del sanjak, Mahmud aveva
il compito di costruire le navi e di prendere il comando di loro quando fossero
state varate. Per quell’anno almeno il governatorato di Gallipoli era divenuto
uno degli incarichi più importanti dell’Impero e richiedeva un uomo con le
abilità di Mahmud Pasha per essere ricoperto. Dopo la caduta di Negroponte
Mahmud ritornò al visirato.
Come
semplici governatori di Sanjak gli
ammiragli non occupavano una posizione impotante nell’establishment di governo
ottomano, eccetto quando un personaggio di grande levatura occupava l’incarico,
come fu il caso durante la permanenza in carica di Mahmud Pasha, e anche tra il
1506 e il 1511, quando Hersekzade Ahmed Pasha fu ammiraglio nell’intervallo tra
due incarichi come gran visir. Fu solo
nel 1533, durante il regno di Solimano I (1520-66) che l’incarico di ammiraglio
acquistò sia una chiara definizione che uno status elevato. Questo fu dovuto in
parte all’aumentata importanza degli affari marittimi, ma specialmente alla
illustre reputazione del nuovo ammiraglio.
Nel
1533, Solimano concesse la carica ad Hayreddin Barbarossa, il conquistatore di
Algeri. Era chiaramente impensabile
rendere quest’uomo un semplice governatore di sanjak. Invece la nomina venne insieme a quella di governatore
generale della nuova provincia
dell’Arcipelago, che il Sultano creò espressamente per Barbarossa staccando i sanjak costieri della Grecia e della
Turchia occidentale dalle esistenti province di Rumelia e Anatolia.
La
provincia dell’arcipelago fu così una creazione ad hominem, ma una che nondimeno durò. Non fu, comunque, che fino a
dopo il regno di Solimano I che la provincia venne ad esistere permanentemente
di suo proprio diritto, con l’ammiraglio come suo governatore generale. Quando
Barbarossa morì nel 1546, il suo
successore era il capo portiere del Sultano, Sokollu Mehmed, che resse
l’ammiragliato come suo primo incarico fuori del palazzo. Data la mancanza di
rinomanza di Sokollu a questo stadio della sua carriera, il Sultano chiaramente
non intese nominarlo governatore generale. Invece, come gli ammiragli prima di
Barbarossa, ricevette l’incarico col governatorato del sanjak di Gallipoli. Questo era anche vero del suo successore,
Sinan Pasha. Sinan, comunque, era fratello del Gran Visir, Rüstem
Pasha, e fu probabilmente su insistenza di Rüstem che Solimano fece tornare in vita la defunta provincia
dell’Arcipelago e nominò Sinan come governatore generale. E’ chiaro comunque
che il Sultano considerava questa come una nomina ad hominem, dal momento che il successore di Sinan, Piyale,
ricevette l’incarico di ammiraglio come governatore del Sanjak di Gallipoli. Il decreto del Sultano che lo nominava
ammiraglio nel Gennaio 1555 reca scritto: “Io ho aumentato i miei favori allo zeamet del capo portiere, Piyale e, con
effetto da… [8 gennaio 1555], l’Ammiragliato e il sanjak di Gallipoli con la sua hass
del valore di 550.000 akce è stato
concesso a lui…” Piyale ricevette la promozione a governatorato generale della
rinata provincia dell’Arcipelago nel 1558, dopo essersi distinto nelle azioni
contro gli spagnoli in nord-Africa.
Nel
1566, alla salita al trono di Selim II, Piyale ricevette una promozione al
visirato. Il suo successore come ammiraglio fu l’agha dei giannizzeri, Müessinsade Ali. Egli ricevette
l’ammiragliato con la Provincia
dell’Arcipelago. Questo fu probabilmente come riconoscimento del suo
corrente status ma dal periodo della sua nomina l’esistenza della provincia era
divenuta stabile, con gli ammiragli come governatori generali.
Divenire
ammiraglio non richiedeva una precedente esperienza sul mare. Il fatto
importante che determinava la possibilità di essere scelto per l’incarico era che l’ammiraglio fosse anche un
governatore provinciale, e le nomina all’ammiragliato seguivano tipicamente lo
schema delle nomine alle province. E’ abbastanza comune, dunque, nel sedicesimo
e diciassettesimo secolo, trovare che gli ammiragli erano diplomati al servizio
del palazzo. Sokollu Mehmed e Piyale sono entrambi esempi e, nel secolo
seguente le cose non cambiarono. Katib Celebi nota nel suo elenco di ammiragli
che, per esemio, “Dervish Pasha” – successivamente gran visir – “si diplomò
presso le scuole di palazzo il 18 gennaio 1606 mentre era capo giardiniere con
l’incarico di ammiraglio” o che “Hafiz ahmed si diplomò a palazzo e divenne ammiraglio nel 1608”. Alcuni
successivi ammiragli avevano anche, come Müezzinzade Ali, servito come agha dei giannizzeri o, come Jigalazade
Sinan, che divenne ammiraglio nel 1591,
come governatori nelle province. La mancanza di esperienza sul mare non
conduceva necessariamente all’incompetenza; Piyale Pasha e Jigalazade Sinan per
esempio essendo stati comandanti di flotta di successo. Comunque, questo non fu
sempre il caso, ciò che conduce Katib Celebi a stabilire, come primo dei
trentanove principi per una gestione efficace della flotta: “Se l’ammiraglio
stesso non è un corsaro egli dovrebbe consultarsi con i corsari riguardo la
guerra per mare. Egli dovrebbe ascoltare, e non agire sulla base della sua
propria opinione”.
L’insistenza
di Katib Celebi sul prendere consiglio dai “corsari” è una indicazione
dell’importanza, nella flotta ottomana, dei pirati musulmani del nord-Africa,
le cui attività predatorie servirono in effetti come una scuola navale per
addestrare marinai. All’occasione, i corsari nord-africani fornivano alla
flotta ottomana non solo capitani di galee, ma anche ammiragli. Il più
famoso di questi fu Hayreddin
Barbarossa. La seconda nomina del genere fu quella di Uluj Ali, che sopravvenne
all’ammiragliato in un periodo di crisi successivo alla battaglia di Lepanto.
Egli iniziò la sua carriera come corsaro algerino, ma nel 1556 venne ad
Istanbul per servire come capitano nella flotta ottomana, con un salario
giornaliero che rifletteva la sua importanza. Egli successivemente ritornò ad Algeri come Governatore generale,
e fu come governatore generale che combatté a Lepanto. Alla morte in tale
battaglia di Müezzinade Ali, egli gli succedette
come ammiraglio. Il suo succesore nel 1588, Uluj Hasan Pasha, era stato nel suo
seguito e, come il suo patrono, aveva
vissuto come corsaro in Algeri. L’ultimo dei seguaci di Uluj Ali a servire come
ammiraglio fu Ja’fer Pasha, che mantenne l’incarico per due anni dal 1606. Dopo questo, l’unica
figura nautica ad occupare l’ufficio nel
1616-17 e di nuovo nel 1617-19, fu Celebi Ali Pasha, il figlio di un
governatore generale di Tunisi, originario della isola egea di Kos. Queste
figure, comunque, furono eccezioni nella serie di uomini della terraferma che
servirono come ammiragli.
L’ammiraglio della flotta del Mediterraneo
era il comandante navale più alto in
grado dell’Impero. Oltre lui, comunque, cerano capitani di squadroni con base
fuori Istanbul e Gallipoli,che erano capaci di operare indipendentemente dal
suo comando. Queste flottiglie e i loro capitani appaiono dapprima in
doocumenti della metà del sedicesimo secolo, sebbene essi devono essere
esistiti da molto prima. Il più vicino ad Istanbul era il Capitano di Kavalla,
che comandava uno squadrone di galee che pattugliava l’Egeo del nord a sud fino
a Lesbo. La sua funzione più importante, almeno secondo i documenti della
seconda metà del sedicesimo secolo era scortare, fino ai Dardanelli, le navi che trasportavano grano dalla Grecia
settentrionale e centrale alla capitale, difendendole dai pirati e evitando anche la vendita illegale di grano.
Allo stesso tempo, uno squadrone più piccolo, di sole due galee nel 1566,
operava sotto il comando del governatore del sanjak di Lesbo, proteggendo l’isola e la vicina costa. C’era una
flotta più grande – dieci galee nel 1566 – sotto il comando del governatore del
sanjak di Rodi. Questa isola e le sue
dipendenze dominava le rotte tra l’Egitto e Istanbul, e l’entrata del mare Egeo
e il Mediterraneo orientale tra la Turchia del sud e Cipro. In considerazione
della sua posizione strategica, Solimano I deve aver stabilito una flotta lì
immediatamente dopo la sua conquista nel 1522.
Durante lo stesso periodo, i governatori di
altri sanjak sulla costa egea della
turchia qualche volta ricevettero ordini di pattugliare i tratti di mare al
largo dei loro sanjak con una o più
galee. Le uniche navi, comunque, che stazionavano permanentemente fuori
Istanbul e Gallipoli sembrano essere state quelle a Kavalla, Lesbo e Rodi. Dopo
il 1566, comunque, quando la provincia dell’Arcipelago dell’ammiraglio divenne
una istituzione permanete divenne consuetudine per otto dei governatori di sanjak nella provincia fornire una o più navi alla flotta imperiale quando
essa prendeva il mare, suggerendo che i vascelli fossero permanentemente in
stato di disponibilità nei sanjak.
Durante questo periodo come ammiraglio, tra il 1616 e il 1619, Celebi Ali
incrementò il numero di tali vascelli, richiedendo che Chio, Naxos e Mahdia
fornissero ciascuno una nave.
La rete di piccole flottiglie, concentrate
specialmente nell’Egeo servivano sia per fornire rinforzi alla flotta
imperiale, sia per difendere le rotte marittime verso la capitale da pirati e
attacchi nemici. C’erano altri squadroni con capitani indipendenti al di fuori
di quest’area. Quando conquistò l’Egitto nel 1517, Selim I acquistò due
importanti porti. Il primo era Alessandria, che il cartografo Piri Reis
descriveva nel 1526 come “un porto chiave, specie per i paesi arabi”. Il
secondo era Suez, che forniva una base per le flotte nel Mar Rosso e l’Oceano
Indiano. E’ probabile che Selim nominò un ammiraglio in Egitto immediatamente
dopo la conquista, sebbene il primo
documento ottomano circa l’”Ammiraglio di Egitto” è del 1528. Egli era
comandante sia delle flotte di Suez che di Alessandria fino al 1560, quando il
Sultano creò una amministrazione separata a Suez. La funzione della flotta di
Alessandria era proteggere il
Mediterraneo orientale e le rotte di traffico dall’Egitto, cooperando in questo
dovere con il governatore del sanjak
di Rodi. La flotta a Suez era per la difesa del Mar Rosso e l’Oceano Indiano.
Il Governo, comunque, riconobbe anche
l’ingresso del mar rosso a Bab al-Mandab come avente una grande
importanza strategica e probabilmente un po’ prima del 1560, vi stabilì una
flottiglia sotto il comando del “capitano dello Yemen” o “Capitano di Mocha”.
Nel 1565, questo capitano comandava uno squadrone di sei galee, equipaggiate a
Suez. E’ comunque improbabile, date le vicissitudini del dominio ottomano nello
Yemen, che sopravvisse a lungo.
Queste flotte in Egitto e nel Mar Rosso erano
dipendenti dall’ammiraglo ad Istanbul. Così pure, erano le navi che operavano
sotto capitani indipendenti sul Danubio e i suoi tributari. Il primo di questi
“ammiragliati” era a Buda, dove Solimano I deve aver creato una flottiglia immediatamente dopo la sua annessione nel
1541. Una flotta,comunque si dimostrò insufficiente e nel 1560, il governatore
del sanjak di Mohacs chiese al
Sultano un nuovo squadrone nel suo distretto, dal momento che il nemico stava
attaccando le isole del Danubio, in un punto troppo lontano a sud perché le
navi lo raggiungessero da Buda. Riferimenti al “Capitano di Mohacs” in anni
successivi mostrano che il Sultano rispose alla richiesta. La terza flotta di
Rumelia era sulla Sava, che unisce il Danubio a Belgrado. Il primo riferimento
a un “Capitano della Sava” data dal 1556, suggerendo che il Sultano aveva forse
anche creato la sua flotta dopo l’annessione dell’Ungheria.
In aggiunta a queste flottiglie stabilite in
permanenza sotto il comando di capitani o governatori di sanjak, i sultani talvolta crearono comandi temporanei per flotte dalla breve durata. Negli anni ’80 del
1500, per esempio, la creazione dell’ufficio di “Capitano del mar Caspio” seguì
le conquiste ottomane nel Caucaso. La flotta più importante fuori istanbul
era comunque la flotta di Algeri. Erano
soprattutto gli algerini che portavano avanti raid continui contro le navi
cristiane nel Mediterraneo e oltre, e che
formavano anche, quando combattevano sotto il comando del loro
governatore generale, il contingente più valido della flotta ottomana.
Nondimeno,la loro partecipazione alla guerra marittima ottomana era più o mano
volontaria. Nei suoi decreti il Sultano poteva ordinare al governatore generale
di Algeri puramente di “incoraggiare” i capitani corsari a unirsi alla flotta,
ma non poteva esercitare il controllo diritto che egli poteva esercitare sugli
altri comandanti navali dell’Impero.
Prima del 1533, gli ammiragli con grande
probabilità risiedevano a Gallipoli, il luogo dell’arsenale e la città
principale del loro sanjak. Dalla
nomina di Hayreddin Barbarossa nel 1533, essi risiedevano a Galata – la vecchia
città genovese di Pera, e il luogo dell’arsenale imperiale – dove essi avevano
giurisdizione, sembra, non solo sull’arsenale stesso, ma anche sulla
circostante area urbana. Sotto l’ammiraglio c’era il commissario – emim – e il custode – kethüda – dell’arsenale. Il commissario
era responsabile per il controllo finanziario e l’amministrazione, con
impiegati di dipartimento che lavoravano sotto la sua supervisione. Il custode
era il rappresentante dei capitani e delle ciurme e comandava un distaccamento
di galee quando la flotta era in mare. Entrambi gli incarichi presumibilmente datavano dalla metà del
quindicesimo secolo, quando Mehmed II si impadronì ed estese i cantieri
genovesi, e entrambi rimasero fino al diciassettesimo secolo. La carriera
normale fino alla carica di guardiano era sembra aver servito come comandante
di galea nell’arsenale a Galata.
I
capitani delle galee e altri vascelli
nella flotta imperiale erano residenti vicino agli arsenali principali a Gallipoli e Galata, ciascuno con un
distaccamento di uomini conosciuti come azab
al loro seguito. Questi distaccamenti, sembra, rappresentavano le ciurme di
singole navi. Il primo documento sopravvissuto su di essi viene da Gallipoli
nel 1474, ma essi erano esistiti presumibilmente da molto più tempo. Essi
sopravvissero fino al tardo diciassettesimo secolo, quando i galeoni finalmente
scalzarono le galee come i principali vascelli da combattimento nella flotta ottomana.
Entro questi gruppi di azab, quelli
con la posizione di maggiore anzianità e rango al disotto del capitano avevano
il titolo “marinaio” – yelkenji – o
“capo della camera” – oda bashi – e di regola erano questi
uomini che ricevevano un incarico come capitano quando ne rimaneva vacante uno.
Ciò che il documento abbastanza scarno non chiarisce, comunque, è come il
governo reclutava gli azab o quali
fossero i loro doveri.
Un
ordine all’ammiraglio del 1572 di reclutare 342 azab “secondo le consuetudini e la legge” e di arruolarli tra gli
uomini che fossero “capaci di combattere e di fare la guerra”, disponendo la
loro paga e mandando il registro dei loro nomi e salari al palazzo. Ciò che il
decreto potrebbe descrivere è una leva di giovani delle province, simile alla
leva della fanteria azab per
l’esercito. Se questo è il caso, è
improbabile che gli azab fossero
marinai per ambiente di provenienza, ma piuttosto avrebbero appreso il mestiere
attraverso il servizio sulle navi, nella funzione di sovrintendenti dei
rematori o timonieri. Essi pure, sembra, portavano armi, e dalla seconda metà
del sedicesimo secolo, erano equipaggiati con archibugi.
Sebbene ciascun capitano e il suo distaccamento di azab sembrino, in linea di principio,
rappresentare la ciurma di un singolo vascello, il numero dei documenti
esistenti sembra mostrare che c’erano normalmente più distaccamenti di
quante fossero le navi. C’erano 93 distaccamenti a Gallipoli nel 1518, ed è
improbabile che i cantieri avessero la capacità di questo numero di vascelli. A
Galata nel 1571 c’erano 227 distaccamenti, di nuovo probabilmente più
distaccamenti delle navi. Nello stesso anno c’erano 150 “capitani senza
distaccamento” addizionali, cioè capitani che non comandavano un gruppo di azab, ma erano in lista per ricevere un comando quando ce ne
fosse stato uno vacante. La stessa organizzazione continuò nel diciassettesimo
secolo. All’epoca c’erano 440 distaccamenti, inclusi 34 a Gallipoli. In
aggiunta, c’erano, nel 1604, 56 “capitani senza un distaccamento”. In questo
periodo c’erano ovviamente più distaccamenti che navi.
Se
il numero dei distaccamenti crebbe nel diciassettesimo secolo ci fu un decremento nel numero di azab in ciascuno. A Gallipoli nel 1518,
i distaccamenti erano piccoli, consistendo normalmente di uno skipper e tre azab. Un documento del 1571, comunque,
suggerisce che, a quel tempo, ci sarebbero dovuti essere “12 azab
in ciascuna delle duecento navi”. Nel
diciassettesimo secolo il numero di azab
in ciascun distaccamento iniziò a
diminuire di nuovo. Il numero di “capitani senza distaccamento” scese
dal 56 nel 1604 a 30 nel 1608. Questo suggerisce che un distaccamento di azab
non rappresentava più la ciurma di una singola galea o di altri
vascelli, come era stato fatto evidentemente nel sedicesimo secolo, ma
piuttosto che l’ammiraglio semplicemente
cominciava a distribuire gli azab
esistenti tra i comandanti esistenti senza riguardo al fatto che lo servissero
in mare, e per risparmiare soldi riducendo il loro numero totale.
Per
tutta l’epoca delle galee, dunque, i capitani tipicamente emersero dai ranghi
degli azab, ricevendo la loro
promozione a comandante di un vascello in base alla raccomandazione
dell’ammiraglio, del custode dell’arsenale o di qualcuno dei comandanti della flotta.
In aggiunta, il Sultano qualche volta nominava corsari musulmani come
comandanti di galee o, dal momento che la marineria era un mestiere
internazionale, stranieri.
La
forza motrice per le navi veniva dalle vele e dai remi, e gli uomini che se ne
occupavano formavano la maggioranza della ciurma di una galea, con una normale
galea che richiedeva, secondo Katib Celebi, circa 150 rematori e 20 addetti
alle vele e alla manovra . Entrambi i gruppi di uomini provenivano da
arruolamenti annuali. Un documento degli anni ’30 del 1500 registra un
arruolamento di 57 addetti alle vele da Çeşme, sulla costa egea della
Turchia. Dal 1604, e probabilmente da prima, uno specifico distretto del sanjak di Gallipoli forniva addetti
secondo una percentuale teorica di uno per ogni sette famiglie, il numero
effettivo variante secondo la domanda.
L’arsenale poteva anche, in caso di necessità, assumere addetti alle vele per
una stagione.
Occuparsi
delle vele e della manovra di una nave era una abilità nautica, e i pochi documenti
che sopravvivono suggeriscono che il
governo arruolasse addetti dalle aree costiere tra coloro con qualche
conoscenza di navi. Per servire come rematore, comunque, il governo considerava
come unica qualificazione la salute e la forza, e richiamava molti rematori
dalle aree interne della Rumelia e Anatolia. Nella metà del sedicesimo secolo
alcuni europei commentavano sulla inefficienza dei rematori ottomani ma, dati i
numeri richiesti – nel 1539 ad esempio c’erano 23538 rematori in una flotta di
circa 150 navi – era chiaramente poco pratico cercare uomini con esperienza.
Secondo
Katib Celebi, la pratica di arruolamento forzato di rematori per la flotta
iniziò nel 1501. Comunque, la parziale sopravvivenza di un documento che mostra una leva del 1499-1500
fa vedere che ciò non è pienamente accurato. E’ anche difficile immaginare come
Maometto II potesse aver manovrato le sue navi, in particolare l’enorme flotta
che attaccò Negroponte nel 1470, senza l’arruolamento forzato di rematori. E’
possibile, comunque, che l’arruolamento non divenisse un evento regolare fino
alla guerra con Venezia del 1499-1503. La prima vasta evidenza documentale
appare nella metà del sedicesimo secolo.
Questo
rivela che era il tesoro che gestiva la
leva, il servizio nelle galee essendo essenzialmente una forma di tassazione.
Circa tre mesi prima del momento in cui la flotta doveva salpare, erano emanati
decreti indirizzati ai giudici delle aree che dovevano fornire i rematori. Se
necessario, potevano seguire ulteriori disposizioni urgenti che ordinavano ai
governatori generali e ai governatori di sanjak
di assistere i giudici. I principi dell’arruolamento erano gli stessi che si
applicavano al reclutamento della fanteria azab.
Il giudice divideva il suo distretto giudiziario in quartieri, villaggi, borghi
e comunità, e entro queste divisioni, un dato numero di famiglie doveva tirare
fuori un rematore. Qualche tempo dopo il 1541, Lutfi Pasha scrisse una famiglia
ogni quattro doveva mandare un rematore, scelto tra i giovani uomini robusti.
Di fatto, la percentuale variava secondo le dimensioni della flotta e dell’area
dove il governo faceva l’arruolamento. Per esempio, nel 1551, prima della
campagna di Tripoli, il Tesoro arruolò un rematore ogni 23 famiglie. Nel
1570-71, per la invasione di Cipro, la percentuale era di una ogni quindici
famiglie, nell’anno successivo, dopo la catastrofe a Lepanto, era uno ogni
sette o otto. I rematori ricevevano una paga, ma le famiglie del gruppo che non
fornivano la persona dovevano provvedere un anticipo in moneta per la copertura
del salario di un mese. La tariffa era di 106 akce per un musulmano e di 80 per un non musulmano.
Il
servizio sulle galee era ovviamente impopolare e gli ordini ai giudici
richiedevano che nominassero dei garanti della presentazione degli uomini
arruolati. Qualche volta il nome di un
singolo garante appare accanto al nome
del rematore qualche volta appare un gruppo, e talvolta “tutti gli abitanti del
villaggio/quartiere”. Questi garanti
davano in pegno le loro persona, o proprietà o entrambe. Una volta che
l’arruolamento era completato, il giudice mandava gli uomini sotto sorveglianza
militare all’arsenale, o in qualunque punto dovevano unirsi alle navi. Con
essi, mandava un registro, che metteva
in grado le autorità che ricevevano queste persone di verificare che erano
arrivate tutte.
Per
i rematori il viaggio fino alla costa deve essere stato duro come il servizio
medesimo. Tutti i distretti in Turchia e nella penisola balcanica erano
suscettibili di leva, e non semplicemente quelli che erano vicini al punto di
imbarco, ciò che richiedeva agli uomini di viaggiare a piedi da luoghi distanti
come l’Albania centrale o l’Anatolia ad Istanbul o altri punti sulla costa. Per
manovrare la flotta che doveva assediare Chio nel 1566, il Tesoro chiamò
rematori dalle provincie di Anatolia, Karaman e Rum in Turchia; dai distretti
di Albania, Epiro e Tracia in Rumelia; e dalle isole e sanjak nella Grecia del sud che appartenevano alla provincia
dell’Arcipelago. Questi erano i rematori per la flotta imperiale. Gli squadroni
dell’Egitto e delle altre località trovavano gli uomini per il completamento
delle ciurme localmente.
Nel
diciassettesimo secolo, il sistema per arruolare rematori rimase essenzialmente
lo stesso che era stato nel sedicesimo secolo. In un aspetto, tuttavia, era
diventato più sistematico. A partire da poco dopo il 1600, i registri delle
tasse cominciarono a mostrare esattamente quali famiglie e in quali sanjak erano tenute alla leva. Molte di
queste erano della Turchia occidentale e centro-occidentale. Un registro del
1640 per esempio mostra 62.946 famiglie, che fornivano 6.634 rematori. Questo
indica che una famiglia ogni nove doveva fornire un uomo, con le restanti che
pagavano una tassa che copriva il suo salario e mantenimento. Il numero totale
era sufficiente per sopperire a 40 o più galee.
Questo
sistema era chiaramente adeguato nella prima metà del diciassettesimo secolo,
un periodo durante il quale non vi furono spedizioni navali su larga scala e le
necessità annuali della flotta non variavano molto. Comunque, con lo scoppio
della guerra di Creta nel 1645, la domanda della flotta aumentò e il governo
iniziò nuovamente, come aveva fatto nel sedicesimo secolo, ad arruolare
rematori dall’Anatolia centrale e dalla Rumelia. Esso introdusse una misura
interamente nuova. Dal 1646, iniziò a prendere rematori dagli artigiani e
commercianti di Istanbul – tavernieri, titolari di mescite di boza, portieri e acquaioli – e dai
greci, armeni, ebrei della città. Per questo servizio ricevevano esenzione dalle altre tasse di guerra. A
parte i portatori d’acqua, queste persone non dovevano servire di persona. Essi
dovevano invece raccogliere il denaro per
assumere i rematori e mandarli all’Arsenale, o altrimenti pagare una multa. Nel
1646 essi procurarono 337 rematori; nel 1656-57, dopo il disastro ai
Dardanelli, 2108.
Molti
dei rematori della flotta provenivano dall’arruolamento obbligatorio, ma,
presumibilmente dai primi tempi c’erano metodi alternativi di reclutamento. Un
modo era di cercare volontari. I riferimenti a questi sono scarsi, ma ordini ai
giudici di Izmit, Silivri e Slatitsa tra il 1571 e il 1574 ingiungono di assumere rematori per 900 e 1000 akce, e nel 1585, resoconti
dell’arsenale registrano 1.139 rematori
assunti per 900 akce e 2.475 per
1000. Queste cifre – se rappresentano volontari, sono consistenti e
probabilmente insolite, dal momento che i volontari non sembrano essere apparsi
nuovamente in un qualche numero fino alla guerra di creta.
I
criminali imprigionati fornivano una provvista più stabile di rematori. Non
c’era alcuna legislazione che stabilita quali trasgressioni erano punibili con
la galea: decreti che destinavano i criminali alle navi stabiliscono solo che gli uomini dovrebbero
essere per esempio “criminali e sediziosi” o “colpevoli di una grave offesa,ma
non meritevoli della pena capitale”. E’ abbastanza chiaro, di fatto, che il
criterio per infliggere questa punizione era la necessità della flotta in
ciascun tempo . Nel 1571-72 per esempio, dopo la battaglia di Lepanto, i
giudici da ogni parte dell’Impero, lontano come Buda e ad est fino a Van ed
Erzerum, ricevevano ordini di mandare alle galee di istanbul tutti i
prigionieri nei loro distretti e tutti i criminali arrestati dopo la ricezione dell’ordine.
Nel 1648 e 1651,durante la guerra di Creta, ci furono trasferimenti di
prigionieri dalle “segrete di Istanbul” all’Arsenale. I prigionieri sembrano
anche aver costituito una larga parte dei rematori nelle flottiglie locali.
Erano, forse, le circostanze dell’Impero piuttosto che la natura del crimine
che conducevano alla punizione nelle galee. Era, comunque il crimine che
determinava la lunghezza della sentenza. Le trasgressioni più serie erano punibili con la vita, ma per altre
trasgressioni il rematore – se sopravviveva – guadagnava la sua liberazione
dopo un minimo di sei mesi. Dal momento che l’arsenale aveva una copia delle
annotazioni nel registro del giudice riguardante all’accusato e emetteva una
ricevuta all’uomo che lo scortava, era possibile tenere traccia dei criminali
nelle galee e di quanto a lungo avevano servito.
Infine,
i prigionieri di guerra erano un’altra fonte di manodopera,ma non sembrano
esserci documenti circa il loro numero. E’ chiaro, comunque, che la maggior
parte dei rematori veniva dai confini dell’Impero.
Tra
la ciurma delle galee, solo gli azab
erano soldati. In aggiunta alla loro ciurma, dunque, le galee della flotta
ottomana trasportavano truppe. Resoconti veneziani dalla età del sedicesimo
secolo stimano che il complemento normale erano 60 soldati. Dopo la sconfitta
del 1571, il Consiglio Imperiale, presumibilmente su consiglio dell’ammiraglio
Uluj Ali, elevò il numero a 150.
Nel
chiamare le truppe alle armi il governo ottomano non distingueva tra l’esercito
di terra e la flotta. Uomini destinabili al servizio militare potevano servire sia nell’uno che nell’altra,
secondo il bisogno. E’ naturale pertanto che la maggioranza degli uomini
combattenti nelle galee erano, come nell’esercito di terra, cavalieri
timarioti, insieme con un contingente molto minore di giannizzeri. Questo era
lo schema nella metà del sedicesimo secolo, quando documenti della chiamata
alle armi divengono disponibili, ma è improbabile che le cose siano state
differenti un secolo prima. I documenti della chiamata per la campagna di Jerba
del 1560, di Malta del 1565, di Chio nel 1566
di Cipro nel 1570-71 mostrano che i timarioti che serviano nela flotta
venivano dalle province di Rumelia e dell’Arcipelago, e da tutte le province
della Turchia centrale e occidentale. Come quando combattevano a terra, essi
servivano nella flotta sotto il comando
del governatore e di altri ufficiali da loro sanjak. Questi, o invero un
qualsiasi dei comandanti della flotta potevano raccomandare che ricevessero
aggiunte ai loro timar per
l’eccellente servizio. Di nuovo, come per l’esercito di terra, i decreti che
chiamavano alle armi i timarioti, richiedevano loro di portare seguaci armati,
armi, armature e provviste. I decreto stabilivano anche dove dovevano unirsi
alle navi. Nel caso di uomini dall’Anatolia, questo era tipicamente presso le
fortezze dei Dardanelli.
Sembra
che, per molto del sedicesimo secolo, la grande maggioranza delle truppe nella
flotta fossero timarioti. Comunque, se i numeri erano insufficienti, il
Consiglio Imperiale poteva ordinare
all’ammiraglio, come fece prima della campagna di Jerba, di imbarcare
guardie di fortezze o, come prima dell’assedio di Malta nel 1565, azab e volontari. Le flottiglie locali,
specialmente le flotte dell’Egitto potevano disporre di truppe da altre fonti,
ma queste erano poche in confronti col numero dei timarioti. Era l Consiglio
Imperiale che emanava i decreti di chiamata alle armi, ma presumibilmente dopo
una consultazione con l’ammiraglio per quanto riguarda il numero richiesto e i
punti di imbarco.
Il
sistema funzionò bene fino al 1571. in questo anno,comunque, la sconfitta a
Lepanto provocò una crisi di manodopera
e di tattiche di battaglia. Molti timarioti persero le loro vite nella
battaglia e i rimanenti erano riluttanti a servire di nuovo nella flotta Nel
1572, il governo era alla fine stato in grado di raccogliere solo 4.396 timarioti e 3.000 giannizzeri contro una
richiesta di 15-20.000 combattenti. Questo fu dunque una grave carenza di
manodopera. Ci fu anche una crisi per quanto riguarda gli armamenti.
E’
chiaro che l’ammiraglio attribuì la sconfitta, in parte almeno, alla
superiorità nemica quanto a potenza di fuoco e numero di combattenti. Per
rimediarvi la flotta che fu posta in mare nel 1572 doveva trasportare tra i
banchi di ciascuna galera due archibugieri e un arciere. Per ottenere questo, i
decreti che chiamavano alle armi i timarioti alla campagna del 1572
richiedevano ad essi e ai loro seguaci di portare in guerra archibugi e archi, con un decreto che ordina ad un
governatore di sanjak di emanare il
suo annuncio per tempo per consentire ai timarioti “che non lo sanno già fare,
di imparare l’uso dell’archibugio”. Questo non risolveva comunque il problema.
Persino se i timarioti avessero imparato
ad usare armi da fuoco, il numero totale di archibugieri sarebbe stato comunque
inadeguato. Per eliminare la carenza il governo arruolò un inconsueto numero di
volontari. Ogni governatore di sanjak
che riceveva un comando per arruolare timarioti, doveva anche arruolare
volontari, organizzare questi in gruppi di dieci uomini e mandarli alla flotta,
dove avrebbero ricevuto una assegnazione di paga e biscotto. In Rumelia, i
governatori ricevettero istruzioni di arruolar solo “volontari” laddove i
governatori generali e i governatori del sanjak
nella Turchia sud orientale e Siria dovevano arruolare specificamente “Curdi e
altri” volontari, i Curdi essendo “rinomati per il loro valore”. Tutti questi
uomini dovevano essere esperti nell’uso degli arcibugi. I governatori di sanjak allo stesso tempo ricevettero
ordini di acquistare archibugi
appartenenti a chiunque non fosse volontario.
La
crisi dopo Lepanto non sembra aver portato cambiamenti permanenti nel modo in
cui il governo arruolava truppe per la flotta, eccetto forse nel chiedere
abilità nell’uso dell’archibugio. Nel diciassettesimo secolo, la maggioranza
dei combattenti erano ancora timarioti. L’unico cambio dal sedicesimo secolo fu
una razionalizzazione nell’area della leva. Dopo il 1600, sembra che i
timarioti che servivano nella flotta provenivano normalmente dalla provincia
dell’Arcipelago, i cui dieci sanjak
producevano una cifra teorica di 4.500 uomini. In aggiunta a questi, quando il
governo abolì i corpi degli appiedati e degli esenti in Anatolia, riallocò le
loro terre come 1.039 timar teorici,
assegnati all’ammiraglio, sufficienti per produrre forse 3-4.000 uomini di
truppa. Insieme con gli uomini dall’arcipelago questi erano sufficienti per una
flotta di circa 50 navi e dal momento che non vi furono grandi campagne navali
tra il 1574 e il 1645, questo fu sufficiente a fornire la flotta imperiale per
il suo giro annuale nel Mediterraneo orientale
e nel Mar Nero durante questi anni. Come nel sedicesimo secolo, un variabile
numero di giannizzeri servivano anche nella flotta.
In
aggiunta a questi combattenti, ciascuna galea trasportava due o tre artiglieri
– le galeazze che cominciarono ad apparire nella flotta dopo il 1571 ne richiedevano
di più – e anche armaioli per la manutenzione delle armi.
Lo
schema della guerra navale ottomane e invero nel Mediterraneo, era molto simile
allo schema della guerra di terra. La forma più tipica di combattimento non era
il grande scontro tra flotte, ma piuttosto un continuo kleinkgrieg di attacchi alle coste nemiche e alla marina mercantile
nemica . Questa era la forma di guerra che le flotte ottomane esercitavano tra
la fine del quattordicesimo e la metà del quindicesimo secolo. Era il
saccheggio delle navi e degli insediamenti cristiani che sostentavano le province ottomane in nord-Africa e in particolare
fornivano una fonte di ricchezza per l’avamposto ottomano di Algeri. I cavalieri
di san Gioivanni giocavano un ruolo simile nel Mediterraneo cristiano, e fu
contro questi e altri predatori cristiani che gli ammiragli facevano i loro
giri annuali, anche durante periodi di pace formale.
Quando
la flotta imperiale ottomana intraprendeva
una azione era tipicamente un assalto anfibio
ad una fortezza costiera o insulare, piuttosto che una battaglia nel
mare aperto. Quasi tutte le vittorie navali ottomane, dalla conquista di
Mitilene nel 1462 alla cattura di Chania nel 1645, erano di questo tipo.
Scontri tra le flotte nel mare aperto come le grandi battaglie campali sulla
terraferma erano infrequenti e, a differenza delle battaglie della terraferma
raramente decisive nel determinare il corso degli eventi. La vittoria navale
veneziana nel 1416 fu forse un fattore nel ritardare la creazione di una
efficiente flotta ottomana da guerra fino a dopo il 1450. La più famosa
vittoria a Lepanto non impedì comunque la conquista ottomana di Cipro o la
conquista di Tunisi tre anni più tardi. La vittoria veneziana fuori dei
Dardanelli nel 1656 causò severi problemi per gli ottomani, ma non segnò la
fine della invasione di Creta. Dalla metà del quindicesimo secolo, dunque, le
funzioni più tipiche della flotta ottomana erano assedi e raid sulle coste
nemiche. La flotta serviva anche a proteggere gli invii ottomani e le coste e
qualche volta a restaurare la autorità del Sultano in province della periferia
dell’Impero.
La
natura delle galee limitava il raggio d’azione della flotta ottomana. Le galee
erano vascelli lunghi, lenti in acqua, con un basso pescaggio. Non erano in
grado di reggere il mare grosso e non potevano, dunque, prendere il mare in inverno, prendendo il largo in linea di
principio se non spesso in pratica, nell’equinozio invernale, e facendo ritorno
in Ottobre o agli inizi di Novembre. Era possibile rischiare di tenere piccole
flotte o singoli vascelli nel mare durante l’inverno, ma non intere flotte.
Durante la prima metà del sedicesimo secolo, le maestranze ottomane
cominciarono a costruire galee più grane e lunghe, con “poppe a melone”, per
resistere meglio alle tempeste, ma questo non prolungava la stagione di
campagna. La limitata stagione marittima
a sua volta limitava il raggio operativo della flotta. L’altro vincolo al raggio di azione delle galee era la
dimensione della sua ciurma.
Nel
1656 Katib Celebi stimò che una galea trasportava 330 uomini, inclusi 196
rematori e 100 guerrieri. Una galeazza ottomana, dice, portava una ciurma di
600 uomini, e una galea pesante una ciurma di 800 uomini. Nel secolo
precedente, i numeri erano stati più ridotti, dal momento che le galee avevano
tre piuttosto che quattro rematori su ciascun banco, e 50 piuttosto che 100
guerrieri, ma i numeri erano comunque molto alti. Nello stesso tempo, lo spazio
di immagazzinamento su una galea era limitato. non era possibile, dunque, immagazzinare a bordo più di dieci giorni
di rifornimento di cibo ed acqua.
L’acqua era ottenibile dai torrenti e fiumi
lungo la costa e la conoscenza della loro ubicazione era
presumibilmente tradizionale entro la
flotta militare ottomana. In aggiunta, la mappa del Mediterraneo di Piri reis,
completata nel 1526, ma ancora in uso a metà del diciassettesimo secolo,
identifica le fonti di acqua intorno
alle coste del Mediterraneo. I rifornimenti di cibo erano un problema più
grande.
Dal
momento che una galea non poteva trasportare viveri per una intera stagione,
era necessario rifornire la flotta in punti prestabiliti della costa o, come a
Malta nel 1565 o Creta nel 1651, trasportare cibo per nave. Questo richiedeva
un’attenta pianificazione anticipata. Il cibo base e probabilmente l’unico che
il governo forniva era il biscotto e le richieste della flotta erano enormi.
Per esempio, resoconti del tesoro
registrano 2.305 tonnellate di biscotto per la flotta che riconquistò Herceg
Novi nel 1539. Acquistare la farina, macinarla e cuocervi biscotti e
trasportarla sulla costa era una
notevole operazione e una notevole spesa.
Il Tesoro raccoglieva il denaro
localmente, e distribuiva il lavoro su una vasta area. Nel 1566, per esempio,
ordinò biscotto per la flotta da Arta, Patrasso, Navplion, Farsala, Trikkala e
Gjirokastër in Albania e Grecia centrale e
meridionale e da Tessalonica nel nord. Nel diciassettesimo secolo prima del 1645,
quando le dimensioni della flotta erano più predicibili, Istanbul e Gallipoli
erano i maggiori centri di cottura, ma la pratica del sedicesimo secolo di
distribuire il lavoro alle province dei dintorni continuò. Sotto questo aspetto, Volos era
particolarmente importante. Serviva non solo come banchina d’attracco
dell’importazione di grano dalla Grecia centale, ma anche come centro per la
preparazione del biscotto per la flotta. Per esempio, nel suo giro della
provincia dell’arcipelago nel 1618, Celebi Ali prese una consegna di biscotto
che era stato cotto a Volos e lo trasportò a Evvoia per la raccolta da parte
della flotta.
Una
conseguenza di questa necessità di rifornirsi di cibo ad intervalli frequenti
era una cosa che le galee non potevano fare con sicurezza se erano lontane dalle loro coste e se le rotte marittime erano insicure. Questo,
combinato con la breve stagione di campagna, limitava il loro raggio di azione.
Per questa ragione la flotta ottomana non poteva dominare il Mediterraneo occidentale senza una base
per l’inverno e un rifornimento di provviste. Questo fu possibile solo per
breve tempo quando, in collaborazione
con il Re di Francia la flotta ottomana, nel 1543-44, poté svernare a
Tolone. Per la stessa ragione, la flotta di galee cristiane non poteva assumere il controllo del
Mediterraneo orientale. Persino dopo la grande vittoria a Lepanto la flotta
della Lega Santa non ebbe scelta che di ritornare alle sue basi prima dell’arrivo dell’inverno.
Le
galee determinavano la natura della guerra nel Mediterraneo tanto quanto la
determinava il raggio operativo delle flotte. In quanto vascello a remi con un
basso pescaggio, la galea non poteva fare affidamento sul vento ed era capace di operare solo vicino alla
costa. Per il calafataggio, l’oliatura e l’effettuazione delle riparazioni era
facile da portare a secco su una riva sabbiosa. Queste caratteristiche lo
rendevano utile specialmente come battello pirata, particolarmente in un giorno
senza vento, quando la preda restava in bonaccia. La sua abilità di avvicinarsi
alla costa era anche utile quando bombardava fortezze costiere, una delle
principali funzioni di una flotta di galee. Egualmente, se un nemico attaccava
tali fortezze, uno squadrone di galee presso la spiaggia poteva fornire una
linea di difesa contro la flotta attaccante, mentre essa stessa trovava difesa
sotto i cannoni del forte.
Prima
della introduzione dell’artiglieria, verso la fine del quindicesimo secolo, il metodo principale
di guerra delle galee era lo speronamento e l’abbordaggio. L’artiglieria non
cambiò questa pratica. Una galea trasportava cannoni sulla sua prua e si
avvicinava al nemico con la prua davanti, sperando di sparare almeno una salva
prima che gli uomini sulla piattaforma anteriore tentassero l’abbordaggio. Era
importante non consentire al nemico di attaccare i fianchi del vascello, dove
poteva infliggere il danno più grande. La vulnerabilità dei fianchi della galea
e la disposizione dei cannoni non davano ai comandanti altra scelta che
adottare una formazione fianco a fianco , con tutte le prue delle navi che
fronteggiavano da fronte la flotta o la fortezza nemica. Il successo dipendeva
dal mantenere questa formazione e, quando
ci si trovava di fronte la flotta nemica, dal prenderla di fianco e
rompere i suoi ranghi. Nel 1656 Katib Celebi descrisse la linea di battaglia
ottomana ideale: “in battaglia le galee dovrebbero essere disposte in file. La
nave dell’ammiraglio dovrebbe essere nella retroguardia, con cinque vascelli ad
accompagnarla, tre dietro e due davanti.
La
flotta ottomana, dunque, dalla fine del quattordicesimo secolo in poi, adottò
la prevalente tecnica della guerra nel Mediterraneo. Sembra, comunque, che i
costruttori di navi e i marinai ottomani
tendessero ad essere meno competenti dei loro rivali europei,
specialmente veneziani. Nel quindicesimo secolo le flotte di Mehmed II, in
particolare quella che attaccò Negroponte nel 1470, si basavano su una
soverchiante superiorità nel numero delle navi, non su abilità tattiche
superiori. Perfino all’apice del potere
navale ottomano, nella metà del sedicesimo secolo, gli osservatori commentavano
talvolta sulla inadeguatezza della flotta ottomana. Nel 1558, per esempio, il
bailo veneziano notò una mancanza di abilità , evidentemente in confronto con
le maestranze veneziane, tra i carpentieri dell’arsenale imperiale, e descrisse
le galee stesse come “non resistenti oltre un anno e quando esse andavano al
disarmo era penoso lo stato di rovina in cui le si vedeva”. Anche alcuni
ottomani erano consapevoli delle manchevolezze. Scrivendo dopo il 1541 Lutfi
Pasha commenta la importanza degli affari marittimi, ma nota anche che
“nella organizzazione delle spedizioni
navali gli infedeli sono superiori a noi”
Nel
diciassettesimo secolo, anche Katib Celebi menziona ulteriori problemi sebbene fossero probabilmente comuni a tutte
le flotte del Mediterraneo. Mette in particolare in guardia circa l’uso di prigionieri di guerra e condannati
come rematori. Questi, dice, sono proni all’ammutinamento e “un numero
incalcolabile di navi sono state perse in questo modo. I capitani dovrebbero
mescolare anche prigionieri con “più affidabili turchi”, dall’arruolamento
annuale. Sotto questo aspetto, loda Jigalazade Sinan Pasha, che fu due volte
ammiraglio tra il 1591 e il 1605, per aver posto tre prigionieri con tre
“turchi”, in modo che la nave fosse sicura. Dà anche il consiglio su come
attaccare un nemico. Una battaglia marittima, egli ammonisce, è una “trappola
mortale”, e se la flotta attacca quando è presso la riva di fronte alle coste
ottomane, le truppe sulle galee nuoteranno a riva per sfuggire il
combattimento. La flotta non dovrebbe mai muovere battaglia in queste
circostanze. Se, d’altra parte, il nemico è presso la riva sulle coste
ottomane, l’attacco è sicuro e gli uomini non possono sfuggire. L’unica via per
salvare la loro vita è di rimanere al proprio posto e combattere.
Il
vantaggio di cui godevano gli ottomani nella guerra navale non era dunque nella
costruzione delle navi, nella abilità marinara o nel combattimento, ma
piuttosto nell’abbondanza di materiali, denaro e uomini, che consentivano la
rapida costruzione di nuove flotte. Era forse la facilità con cui essi
tendevano a rimpiazzare le navi che spiega la evidente miserevole vista delle
loro galee al ritorno dal mare. Era un vantaggio che godevano dal
quattordicesimo alla fine del diciassettesimo secolo.
Durante
il corso del quindicesimo e sedicesimo secolo, la flotta ottomana aveva
adottato le tattiche standard delle galee del Mediterraneo. Dopo il 1600, essa
si trovava di fronte a due nuovi
problemi strategici. Il primo di questo era transitorio . L’altro doveva
rendere la guerra con le galee obsoleta.
Il
primo problema era l’apparizione di
razziatori cosacchi nel Mar Nero, da cui gli ottomani avevano escluso flotte
straniere sin dalla conquista di Caffa nel 1475. Dalla fine del sedicesimo
secolo, i cosacchi del Dniepr e del Don cominciarono a fare frequenti e
distruttivi raid contro gli insediamenti costieri e, per contrastarli, il
governo ottomano fortificò città e villaggi lungo le coste, mandò forze via
terra per scontrarsi con i razziatori e mandò la flotta imperiale, o
distaccamenti di essa per scontri sul mare. Negli scontri navali,comunque, i
cosacchi godevano di un vantaggio. Per i loro raid essi usavano shayka; cioè barche a remi portatili con
fondo piatto e senza chiglia, che potevano usare in acque basse e canneti. Le
galee ottomane avevano anch’esse un basso pescaggio, ma molto meno degli shayka, e i Cosacchi utilizzarono questa differenza a loro
vantaggio. Nel 1614 navi della flotta imperiale
inseguirono i cosacchi dopo che
questi ebbero attaccato Sinope, ma non furono capaci di seguirli lungo il
Dniepr. L’anno seguente, quando l’ammiraglio Jigalazade Mahmud Pasha attaccò le
shaika i cosacchi lo attirarono verso la riva fino a che le sua galee non
finirono in secca. Per questa ragione Katib Celebi consigliava che una flotta
di galee, in un incontro con i Cosacchi, dovesse sempre cercare di mandare le shayka in mare aperto, e non dovesse
attaccare in vicinanza della riva. In questo caso le galee sarebbero finite in
secca. L’abilità degli shayka di
nascondersi nei canneti presentava anch’essa problemi. Le galee potevano mantenersi in acque più profonde ed
assediarli, ma i loro bombardamenti erano inefficaci contro un nemico invisibile che poteva
scivolare via nell’oscurità. Per contrastare queste tattiche, dagli anni ’30
del 1600 anche le flotte ottomane iniziarono
ad usare barche a remi a fondo piatto, che imbarcavano truppe e artiglieria,
per inviarle nei canneti. Questa fu la tattica che il custode dell’arsenale,
Piyale, usò nel 1639 nel suo combattimento con i cosacchi nello stretto di
Kerch. Questa tattica, insieme con la riconquista di Azov nel 1642 e la
rifortificazoine di Ochakov alle bocche del Dniepr alla fine portarono i
Cosacchi sotto controllo.
Nel
lungo periodo, il problema più importante per le flotte ottomane fu il cambiamento nella natura della guerra
navale. Nei primi quarantacinque anni del diciassettesimo secolo non ci furono guerre importanti nel
Mediterraneo, e la funzione della flotta ottomana era stata di mantenere l’Egeo
e il Mediterraneo orientale libero da predatori e occasionalmente di sopprimere
ribellioni. Una flotta di galee era risultata adeguata per questo compito. Fu
durante questo periodo, comunque, che le
navi nord-europee cominciarono ad apparire nel Mediterraneo in numero crescente
e sebbene il loro scopo era il commercio, esse trasportavano pesanti armamenti.
La tecnica del fondere cannoni di ferro, che erano più a buon mercato
dell’artiglieria di bronzo, aveva reso questo possibile. Questi vascelli con i
loro alti fianchi e la capacità di sparare grandi bordate erano superiori in
combattimento alle galee da guerra mediterranee.
I
veneziani, ma non gli Ottomani, si erano impadroniti della tecnica di costruzione e di manovra dei galeoni da
guerra, col risultato che quando scoppiò la guerra con Venezia nel 1645, la flotta veneziana aveva un chiaro
vantaggio in battaglia. Gli unici galeoni della flotta ottomana venivano da
Algeri che, nel 1645 fornì uno squadrone di venti vascelli. A parte questi, il
governo ottomano affittò battelli dagli
olandesi e, alla fine degli anni ’40 del 1600, cominciò a costruirne di propri.
Katib Celebi ci dice come il gran visir prese la decisione dopo una discussione
con “certe persone” che gli dissero che i galeoni nemici potevano usare il
vento per assalire la flotta ottomana forzandola a disperdersi. Essi potevano
parimenti ancorarsi fuori dei Dardanelli, impedendo l’uscita delle galee
ottomane. La potenza di fuoco dei galeoni era chiaramente schiacciante. Katib
Celebi ricorda anche come, quando la discussione stava proseguendo, il Gran mufti
Abdurrahim lo aveva convocato e gli aveva chiesto se gli ottomani
avevano usato galeoni in guerre navali in passato. Egli aveva risposto che
nelle campagne su larga scala, aveva usato galeoni per i trasporti, ma solo le
galee per combattere. Aggiunse che costruire i galeoni non era un problema: la
difficoltà stava nel trovare una ciurma e degli artiglieri capaci. Katib Celebi
rinforzò il suo scetticismo circa l’introduzione di galeoni dandogli consigli
su come una galea dovesse affrontare un galeone fornendo esempi di scontri
vittoriosi del passato. Una galea, egli scrive, non dovrebbe cercare
immediatamente lo scontro con un galeone, ma dovrebbe prima immobilizzarlo
distruggendone timone e velatura, traendo vantaggio dal fatto che i cannoni dei fianchi del
galeone avevano una gittata più limitata di quella dell’artiglieria di una
galea. Gli eventi dovevano provare che Katib Celebi aveva ragione. L’adozione
del galeone da parte della flotta ottomana non fu un successo. I galeoni nella
flotta del 1656 non poterono evitare una schiacciante sconfitta ottomana e, nel
1662, il gran visir mise fine all’esperimento. Nel 1669, la guerra di creta
terminò in una vittoria per gli ottomani, ma l’inadeguatezza della flotta era
stato uno dei fattori principali per il suo prolungarsi.
l’Impero
Ottomano era uno stato dinastico dove il Sultano, in apparenza godeva di un
potere assoluto. Egli era sia il leader politico che il comandante militare in
tempo di guerra. Ogni titolare di
ufficio nell’Impero occupava la sua posizione in virtù di un decreto che lo vincolava personalmente al servizio
del Sultano. che lo poteva promuovere, destituire e giustiziare in base alla
sua volontà. Il Sultano era apparentemente dotato di pieni poteri, ed era stata
consuetudine fin dal tempo di Machiavelli, comparare l’assolutismo ottomano con
la posizione dei monarchi in Europa, dove la prerogativa della nobiltà
restringeva il potere dei re. Questo quadro tradizionale è comunque una
eccessiva semplificazione
Il
potere del Sultano, specialmente tra la metà del quindicesimo e la metà del
sedicesimo secolo era invero notevole, ma non era senza limiti e il suo
accrescimento era stato un processo graduale. I primi due sultani avevano
probabilmente spartito l’autorità con i loro fratelli e figli, e fu solo la
pratica del fratricidio o del confinamento dei figli in governatorati
provinciali che finalmente che alla fine diede al Sultano regnante una autorità incontestata entro la dinastia.
Questo fu uno sviluppo probabilmente del regno di Murad I. Il fratricidio
rimuoveva i rivali dinastici ma non diede al Sultano i pieni poteri. L’assenza
di una nobiltà nel senso europeo non significava l’assenza di magnati locali, e
una caratteristica del primo Impero Ottomano è l’emergere di signori di
frontiera e altri dinastie con pretese ereditarie alla terra o all’ufficio. La
dinastia di Evrenos in Macedonia e la famiglia di visir Chandarli sono esempi.
I primi sultani non potevano ignorare le pretese di queste famiglie che
fungevano da alleati piuttosto che da servitori del sovrano. Dalla seconda
decade del quindicesimo secolo, comunque, il Sultano normalmente escludeva i
signori della frontiera dai consigli centrali dell’Impero, sebbene non dal
comando dell’esercito e da uffici provinciali, e nessun Chandarli servì come
visir dopo il 1500.
La
diminuita influenza di queste famiglie aumentò il potere personale dei sultani,
ma la espansione dell’Impero nel quindicesimo e sedicesimo secolo
inevitabilmente aumentarono il numero di signori locali e di fazioni entro i
suoi confini. L’assorbimento di questi nell’élite governante ottomana fu una
caratteristica specialmente ma non esclusivamente degli anni tra il 1450 e il
1520. Alcune dinastie locali fuggirono al tempo della conquista ottomana, come
avevano fatto alcuni membri della famiglia Zenevis quando si stabilirono a
Corfù dopo la conquista ottomana del
loro territorio ereditario nel 1418. Altri, comunque, non fuggirono né
resistettero, ma invece entrarono al sevizio del Sultano e ricevettero uffici
di visir o uffici provinciali. Se essi erano cristiani la conversione offriva
un ingresso immediato nella classe
governante ottomana. In questo modo essi erano capaci di mantenere o persino
aumentare la statura politica e sociale di cui avevano goduto prima della conquista, ma il loro status,
originariamente ereditario era ora divenuto dipendente dal patronato del
Sultano. Con questi mezzi, il Sultano cooptò membri delle dinastie locali per
servire piuttosto che opporsi ai suoi interessi. Era un sistema che
incrementava il potere del Sultano senza ricorrere a una brutale soppressone.
Non era comunque un metodo che funzionava in tutto l’Impero. Alcuni poteri locali, come i capi tribali in
Kurdistan, non erano eradicabili. In questi casi, i sultani provarono ad
assicurasi la lealtà attraverso negoziazioni e la concessione di titoli
ottomani.
Il
Sultano probabilmente godette della maggiore acquisizione di potere durante il
sedicesimo secolo, precisamente il periodo in cui l’immagine del Sultano
ottomano come sovrano assoluto divenne fissa. Fu in questo periodo che i
diplomati delle scuole di palazzo, molti dei quali erano entrati nel servizio
imperiale tramite la Raccolta, vennero a monopolizzare molti dei posti di
governo nell’Impero o come visir nella capitale o come governatori nelle
province. Questi erano uomini con nessuna base di potere al di fuori del
Palazzo, la cui educazione era per il servizio della dinastia e le cui carriere
dipendevano interamente dal patronato reale. Il sistema di far sposare potenti
visir a principesse ottomane era un mezzo per assicurare la loro lealtà quando
avessero lasciato il palazzo e stabilito entourage loro propri, legandoli con
la famiglia imperiale.
Tra
il quattordicesimo e il sedicesimo secolo, la fondamentale natura dell’Impero
non era cambiata. Nel quattordicesimo secolo, l’Impero Ottomano era stato, in
essenza, una struttura di personali alleanze tra i sovrani ottomani, i signori di frontiera e altri magnati. Fuori
da questo nucleo interno, i sultani ottomani usavano il matrimoni, la forza o altri mezzi per
ridurre dinastie indipendenti a confini
dell’Impero allo stato di vassalli o alleati. Il sistema era tale da dipendere dai legami personali
tra grandi famiglie. Nel sedicesimo secolo erano ancora legami personali che
mantenevano la struttura dell’Impero. Per questo tempo, comunque, la
appartenenza alla classe governante dell’Impero non era più in virtù di legami
di sangue con una potente famiglia, ma in virtù di una educazione ricevuta
nella casa del Sultano. Assumendo un incarico e il reddito che l’incarico
produceva, l’incaricato avrebbe creato il suo proprio entourage e, con esso, i
suoi propri clienti e seguaci, ma i legami si patronato avrebbero continuato a legarlo al Sultano. La
sua relazione col Sultano era personale – questo non era cambiato dal
quattordicesimo secolo – ma la reazione non era più quella di alleato ma di
cliente. questo era un cambiamento che rifletteva il crescente potere del
Sultano. Fu presumibilmente per tenere gli incaricati di uffici come clienti e
per impedire che fondassero basi di
potere indipendente che divenne consuetudine spostare governatori
provinciali ad intervalli regolari da una località ad un’altra.
Nondimeno,
a dispetto della loro crescita in autorità tra il quattordicesimo e il
sedicesimo secolo, il potere del sultani ottomani non fu mai assoluto, dal
momento che vi erano dei freni , formali ed informali, che limitavano la loro libertà di azione. Fu la loro
adozione dell’Islam che impose il limite formale. Prima del ventesimo secolo
l’Islam esprimeva se stesso, soprattutto, con la legge che, sebbene molto
flessibile in pratica, era nella sua esenza immutabile. Perdipiù,
l’interpretazione della legge non era la funzione del monarca ma di giuristi. I
sultani ottomani non potevano creare un corpo indipendente di leggi al di fuori
delle aree del possedimento terriero, delle imposte e della legge criminale,
dove la legge islamica in pratica non operava . In queste aree, comunque, era
il costume piuttosto che la volontà del
Sultano che formava la legge. Il prestigio della legge islamica creava anche
una posizione privilegiata entro l’Impero per i giuristi che erano i suoi
interpreti ufficiali. Era il Sultano che nominava uomini in posizioni legali,
ma dal momento che, durante il corso del sedicesimo secolo, i posti di grado
più elevato dell’establishment legale
divennero il monopolio di alcune famiglie, la sua libertà di scelta era molto
limitata. Perdipiù erano queste figure legali di grado più elevato che in pratica nominavano i giudici e gli
altri ufficiali legali perfino se lo facevano in nome del Sultano. Il Sultano
quindi non faceva la legge o ne controllava l’applicazione. Questo faceva
comunque parte delle sue pretese alla legittimità. Dall’inizio del sedicesimo secolo, come risposta in
particolare alla “eresia” dei safavidi, i sultani ottomani cominciarono a presentarsi come i soli legittimi difensori
della legge religiosa, e a pretendere che il loro governo era una
precondizione del suo attuarsi .
Attraverso lo stesso strumento, comunque la legge poteva anche giustificare la
loro rimozione. Le figure legali di grado più elevato dell’Impero giovarono una
parte importante nella deposizione sia di Mustafa I che di Ibrahim, in entrambi
i casi citando la legge sacra come
giustificazione per l’atto.
Sebbene
non ci fossero freni formali sul Sultano nel suo ruolo esecutivo informalmente
ce n’erano molti. Il ruolo originale del sovrano ottomano era quello di leader
in guerra. I primi sultani conducevano i loro esercito sul campo e, a giudicare
da ciò che ci dice Ashikpashazade, sembravano conoscere di persona non solo i loro comandanti ma anche molti dei
loro soldati, e avere personalmente distribuito ricompense e punizione. Con il
graduale ritirarsi del Sultano dalla pubblica vista l’era del comando faccia a
faccia arrivò alla fine. I sultani, comunque, continuarono a guidare eserciti
fino alla metà del sedicesimo secolo e, sebbene è improbabile che essi avessero
ancora contatto con i soldati comuni, rimasero in carica delle operazioni e
furono capaci, se lo desideravano, di intervenire nelle nomine e promozioni
fatte durante la campagna. Dalla fine del sedicesimo secolo, con poche
eccezioni, il sovrano non andava più in battaglia e molti dei suoi poteri
passarono in pratica al comandante sul campo. Questo, in effetti, diede al
comandante dell’esercito un ruolo più importante nel governo dell’Impero. In
affari non-militari c’erano pure dei limiti all’area di controllo del Sultano.
Nei primi tempi, i sovrani ottomani devono aver trattato personalmente molti
affari di stato ma, come l’impero si espanse il peso degli affari di governo rese
impossibile per i sultani persino essere a conoscenza di tutte le decisioni
prese in loro nome. Ciò che teneva l’Impero insieme a questo stadio non era il
diretto controllo del Sultano di tutti gli aspetti del governo, ma piuttosto la
preposizione dei governanti, dei comandanti militari e delle altre autorità
come suoi clienti. Il Sultano mantenne
il controllo sopra la classe governante piuttosto che sopra individuali atti di governo. Le
frequenti esecuzioni che rimasero una caratteristica della politica ottomana
servirono come un costante memento di questo fatto.
Il
Sultano,dunque, non aveva autorità sulla legge religiosa e in pratica
probabilmente giocava un ruolo modesto nel governo giornaliero dell’Impero. I
visir, comunque, chiaramente deferivano le questioni più importanti alla
decisione del Sultano e, quando egli decideva di intervenire personalmente nel
governo la sua parola era decisiva. Nonimeno c’erano sempre restrizioni circa
ciò che egli poteva fare. Una barriera permanente al potere assoluto del
Sultano era il corpo dei giannizzeri. La funzione originale e perdurante fino
al tardo sedicesimo secolo di questo corpo era di proteggere la persona e la
posizione del monarca e, rivestendo questo ruolo, era una forza che dava
stabilità politica. Quali che fossero le crisi che l’Impero o sultani
individuali fronteggiavano la dinastia stessa non era mai minacciata. I
giannizzeri, comunque,come forza armata erano anche in una posizione di poter
difendere i loro interessi e assicurarsi i loro propri fini politici. Nella sua
Storia di Maometto il Conquistatore
Tursun Bey ci racconta una storia di come questo Sultano punì gli ufficiali dei
giannizzeri dopo che il corpo aveva tentato di estorcere un bonus mediante
minacce di ribellione armata. Lo scopo di Tursun nell’includere questo racconto
era di istruire i futuri sultani su come tenere i giannizzeri sotto controllo,
ma non ebbe effetto. Le richieste dei giannizzeri potevano essere decisive
nell’ascesa e deposizione di sultani, nella condotta delle campagne e
nell’prelevare denaro dal tesoro.
I
giannizzeri erano un freno altamente visibile della autorità personale del
Sultano. Meno visibile era l’influenza della sua corte. Le decisioni
richiedevano informazione e consultazione ed erano i cortigiani che erano
meglio piazzati per informare e consigliare. Nel quattordicesimo e all’inizio
del quindicesimo secolo i sultani sembravano aver presieduto di persona agli
incontri di ciò che sarebbe divenuto il Consiglio Imperiale e, all’occasione,
essere entrati in contatto con i sudditi. Dalla metà del quindicesimo secolo,
come si ritirarono dalle riunioni del consiglio e divennero meno visibili al
mondo esterno, il loro circolo di contatti si restrinse, una tendenza che
divenne più pronunciata dalla metà del sedicesimo secolo quando essi non
presero parte, eccetto che in occasioni molto rare alle campagne militari.
Questo significa che chiunque poteva guadagnare l’orecchio del Sultano e
controllare le informazioni che lo raggiungevano poteva influenzare le sue decisioni.
Nella dottrina politica ottomana, questo era il dovere del gran visir
solamente, e,in un senso formale, questo era vero. Il gran visir era presidente
del Consiglio Imperiale che emanava decreti in nome del Sultano e come tale si
consultava col Sultano dopo ciascuno dei suoi incontri. E’ chiaro comunque che
le informazioni potevano raggiungere il Sultano per altri mezzi e che persone
che erano al suo servizio ogni giorno
come il barbiere che curava la sua barba, i paggi della camera privata o
gli eunuchi anziani erano ben piazzati per poterlo influenzare come il gran
visir. E’ difficile, comunque, stimare l’influenza dei cortigiani, dato che
questi contatti hanno lasciato pochi
documenti scritti. Solo poche figure,
come Sa’deddin, il tutore reale alla fine del sedicesimo secolo, o l’esorcista
del Sultano Ibrahim, Jinji Hoja, divenner ben conosciuti a sufficienza per
ricevere l’attenzione dei cronisti musulmani. Gli scrittori ottomani di
consigli pretendevano che fu al tempo di Murad III che i cortigiani e le
favorite cominciarono ad acquistare potere, ma questa è probabilmente una
esagerazione. E’ forse più vero dire
che essi divennero più influenti in
questo periodo di quanto lo fossero stati nei regni precedenti.
I
cortigiani non possedevano alcuna autorità politica, ma erano nondimeno in una
posizione tale da poter influenzare il sovrano. Lo stesso è vero per le donne
dell’harem imperiale. Alcune, come la matrigna di Mehmed II, Mara hanno
esercitato esercitato poteri politici informali prima del sedicesimo secolo, ma
fu durante il sedicesimo secolo che l’influenza dell’Harem divenne quasi
istituzionale, con le concubine favorite e successivamente le regine madri che
esercitavano una influenza sulla politica dinastica e imperiale. Questo era
qualcosa che gli ambasciatori stranieri riconoscevano quando essi stabilivano
contatti informali con l’harem in parallelo con le loro relazioni formali con i
visir.
Il
grado in cui il sovrano consentiva a questi freni di limitare il suo esercizio
del potere dipendeva in larga misura
dalla sua personalità. I primi dieci sultani ottomani chiaramente possedettero
la autorità personale che consentiva loro di dominare la politica e, fino ad un
certo punto, di tenere sotto controllo le fazioni politiche. L’undicesimo Sultano,
Selim II, chiaramente trascurava gli affari di stato, e consentì a molto del
suo potere di passare al suo figliastro, il gran visir Sokollu Mehmed Pasha,che
governò efficacemente in sua vece. Agli inizi del diciassettesimo secolo,
comunque non c’erano figure politiche la cui personale autorità consentiva loro
di compensare la debolezza del Sultano in modo da dominare le fazioni
rivali,come aveva fatto Sokollu Mehmed durante il regno di Selim II.
Nell’Impero Ottomano, il potere erapersonale piuttosto che istituzionale, e ,
per rimanere stabile, il sistema politico richiedeva un forte Sultano o ina
figura autorevole che agisse in sua vece, come Sokollu o i visir Köprülü
nella seconda metà del diciassettesimo secolo.
Nondimeno
l’Impero aveva una notevole resilienza. Nel 1402, la sconfitta alla battaglia
di Ankara avrebbe potuto condurre alla sua dissoluzione. Invece, un centinaio
di anni più tardi, era cominciata la sua ascesa
allo status di potenza mondiale, mentre l’Impero del conquistatore di
Bayezid, Tamerlano era scomparso. All’inizio del diciassettesimo secolo,
l’Impero Ottomano si trovava di fronte a insuccessi bellici su due fronti, ad
una ribellione in Anatolia, a sultani deboli e a instabilità politica.
Nondimeno sopravvisse. La ragione per questa capacità di sopportare crisi probabilmente sta in due
istituzioni. In primo luogo il servizio burocratico continuò a funzionare,
assicurando che le funzioni giornaliere di governo come la tassazione e
l’equipaggiamento degli eserciti potessero continuare a dispetto del rapido
cambio dei visir. Alla fine del sedicesimo secolo inoltre, il servizio adattò il suo sistema di conti per venire incontro ai nuovi modi di riscuotere tasse e di reclutamento delle truppe. In secondo
luogo, le corti e il sistema legale continuarono a funzionare e a godere la
fiducia dei sudditi del Sultano per quanto riguarda il regolamento dei loro
affari. Fu, sembra, la continuità in queste funzioni mondane di governo che
assicurò la sopravvivenza dell’Impero.
L’Impero
Ottomano era, soprattutto, una organizzazione militare. Persino quando i
sultani non conducevano più i loro eserciti di persona, essi rimasero di
principio, leader di guerra. La richiesta che Mehmed III accompagnasse
l’esercito in Ungheria nel 1596 mostra come persistesse la nozione che la
presenza del Sultano sul campo di battaglia avrebbe condotto al successo. Non
c’era alcuna distinzione tra il governo civile e il comando miliare. La
struttura politica dell’Impero rifletteva la struttura dell’esercito con visir
e governatori provinciali che agivano anche come comandanti in guerra.
L’espansione dell’Impero tra il 1300 e il 1590 è una testimonianza della
efficacia del sistema militare ottomano. Parecchi fattori contribuirono al suo
successo con le armi. In primo luogo, il Sultano aveva a disposizione una
abbondante riserva di uomini e di materiale bellico, che pochi dei suoi rivali
potevano eguagliare. Secondo, dalla fine del quattordicesimo secolo la pratica
di registrare le rendite e obbligazioni dei cavalieri timarioti significava che
il governo aveva una documentazione permanente delle truppe a sua disposizione.
Allo stesso tempo, lo stabilimento dei giannizzeri e delle sei divisioni di
cavalleria creò un piccolo esercito permanente, le cui abilità in guerra e
spirito di corpo, acquisito vivendo e combattendo insieme forniva un nucleo
stabile agli eserciti ottomani. Inoltre,
tutte queste truppe avevano una obbligazione contrattuale di servire il
Sultano, con la diserzione o la mancata apparizione durante le campagne che
portava alla perdita dei mezzi di sussistenza. Questo rese possibile per il
Sultano di arruolare in ogni tempo un numero predicibile di truppe
disciplinate. Infine, fino alla fine del quindicesimo secolo, gli ottomani
erano stati abili nello sviluppare armi e tattiche, e molto veloci ad assorbire
le lezioni apprese dai loro nemici. La padronanza delle tecniche di assedio nel
quattordicesimo secolo, e l’adozione dell’artiglieria e dei wagenburg nel quindicesimo sono evidenze
di questa adattabilità.
Divenne
chiaro, comunque, durante la guerra austriaca del 1593-1606 che l’esercito
ottomano aveva perso la sua superiorità sia come armi sia come tattica, e che aveva grandissime
difficoltà ad adattarsi ai nuovi metodi, specialmente di guerra sul campo.
Questa perdita di supremazia doveva divenire ancora più evidente nelle guerre
della fine del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Nondimeno, persino
durante questi tempi di travagli, la abilità ottomana di rifornire e mantenere
esercito in campo fu notevole, una testimonianza delle risorse e del sistema
amministrativo dell’Impero, come pure
della sua bravura militare.