La filosofia di Schopenhauer

 

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  Vita e opere di Schopenhauer

  Il pensiero di Schopenhauer esposto da Nicola Abbagnano

  Il pensiero di Schopenhauer esposto da Amedeo Vigorelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vita e opere di Schopenhauer

 

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Schopenhauer nasce a Danzica il 22 febbraio 1788, da una ricca famiglia di commercianti e banchieri. Suo padre, Heinrich Floris, muore suicida nel 1805, lasciandolo erede di una grossa fortuna. Sua madre, Johanna Henriette Trosiener. tiene a Weimar un importante salotto letterario, frequentato da poeti come Goethe e Wieland, che ebbero un certo influsso sul giovane Arthur. Compiuti gli studi classici a Gotha e a Weimar, nel 1809 si iscrive alla facoltà di medicina dell'università di Gottinga, per passare quasi subito a quella di filosofia. Su consiglio di Schulze, il suo primo maestro, si dedica allo studio di Platone e di Kant, che rimarranno al centro della sua riflessione. Nel 1811 si reca a Berlino, dove ascolta le lezioni di Fichte e Schleiermacher. Da Fichte rimane profondamente deluso. Nel 1813 si laurea presso l'università di Jena, con una dissertazione su La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (Uber die vierfoche Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, seconda edizione nel 1847).

Tra il 181.3 e il 1814 collabora intensamente con Goethe allo studio della teoria dei colori, ma ben presto entra in dissidio con le sue concezioni. Nel 1814 rompe anche i rapporti con la madre e si trasferisce a Dresda. Qui pubblica nel 1816 lo scritto su La vista e i colori (Ober das Sehn urul die Farben), in cui si palesa il suo disaccordo con la teoria dei colori di Goethe. Nel 1818 porta a termine la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Darstellung), che viene pubblicata in dicembre dall'editore Brockhaus, con la data dell'anno successivo. L'accoglienza del pubblico è assai tiepida. Compie un viaggio in Italia, soggiornando a lungo a Venezia, Bologna, Firenze, Roma e Napoli. Risalgono a questo periodo i progetti di matrimonio, ben presto sfumati, con una gentildonna veneziana. Tornato in Germania, per affrontare una crisi finanziaria che ha colpito la sua famiglia, pensa di dedicarsi alla carriera accademica. Tiene le lezioni di prova e la discussione a facoltà riunite a Berlino: Sulle quattro distinte specie di causa. In quella occasione ha uno scontro con Hegel, verso cui nutrirà costantemente una forte antipatia. Dal 1820 al 1831 tenterà inutilmente, per 24 semestri, di contendergli la fama, ma le sue lezioni come libero docente sono disertate dagli studenti. Nel frattempo le recensioni al Mondo sembrano decretarne il totale fallimento accademico. Nel 1831 si trasferisce a Francoforte sul Meno, dove inizia a lavorare a una nuova edizione del Mondo. Nel 1836 pubblica lo scritto Sulla volontà nella natura (Uber den Willen in der Natur), che rielabora alcune concezioni dell'opera principale. La seconda edizione del Mondo vedrà la luce solo nel 1844: al primo tomo (i quattro libri originari e l'appendice sulla filosofia kantiana) se ne aggiunge un secondo, formato dai Supplementi al mondo come volontà e rappresentazione. Nemmeno questa seconda edizione riesce ad assicurargli il successo di pubblico, che sembra arridergli invece nel 1851, con la pubblicazione dei Parerga e paralipomena: un'opera di divulgazione delle dottrine del Mondo, con violenti spunti polemici nei riguardi di Hegel e degli autori dell'idealismo tedesco. Già nel corso degli anni quaranta si è venuta formando intorno all'anziano filosofo una piccola cerchia di ammiratori e seguaci, tra cui Julius Frauenstaedt, che sarà il suo primo editore dopo la morte, sopravvenuta nel 1860 in seguito a una polmonite. La sua fama come filosofo è in gran parte postuma e si lega alla fortuna di cui, nel mutato clima di fine secolo, godrà la sua dottrina "pessimistica". Una adeguata valutazione del suo pensiero teoretico è iniziata solo nel nostro secolo.

 

 

 

Il pensiero di Schopenhauer esposto da Nicola Abbagnano

 

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LA VOLONTA' INFINITA

 

  Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Ma questa distinzione viene intesa da Schopenauer in un senso che non ha nulla in comune con quello genuinamente kantiano. Per Kant il fenomeno è la realtà, l'unica realtà accessibile alla conoscenza umana; e il noumeno è il limite intrinseco di questa conoscenza. Per Schopenhauer il fenomeno è apparenza, illusione, sogno, ciò che nella filosofia indiana è detto "velo di Maya"; e il noumeno è la realtà che si nasconde dietro il sogno e l'illusione. Fin da principio Schopenhauer riconduce il concetto di fenomeno ad un significato che era totalmente estraneo allo spirito di Kant, è che è desunto dalla filosofia indiana e buddistica, di cui fu cultore. E su questa base, presenta la sua filosofia come l'integrazione necessaria di quella di Kant: egli ha scoperto la via d'accesso al noumeno che Kant dichiarava irraggiungibile. Schopenhauer non fa nessun conto della dottrina morale di Kant, che aveva indicato nella fede morale e nelle sue condizioni (postulati della ragion pratica) la possibilità di un rapporto dell'uomo con il mondo noumenico. Per lui, Kant è il Kant della Critica della ragion pura, anzi soltanto della prima edizione della Critica stessa. La via d'accesso al noumeno che Schopenhauer ha scoperto è la volontà: non la volontà finita, individuale e consapevole, ma la volontà infinita e perciò una e indivisibile, indipendente da ogni individuazione. Tale volontà, che vive nell'uomo come in ogni altro essere della natura, è dunque un principio infinito, di schietta ispirazione romantica. Schopenhauer ha rovesciato la filosofia degli aborriti idealisti; ma appunto in virtù di questo rovesciamento la sua filosofia conserva con quella uno stretto rapporto. Per Hegel la realtà è ragione, per Schopenhauer è volontà irrazionale; ma per l'uno e per l'altro soltanto l'infinito è reale e il finito è apparenza. Hegel giunge a un ottimismo che giustifica tutto ciò che è; Schopenhauer giunge ad un pessimismo che intende negare e sopprimere l'intera realtà. Ma l'uno e l'altro sono dominati dalla stessa brama dell'infinito, ed hanno la stessa noncuranza per l'individualità, che anche per Schopenhauer è mera apparenza. Se da Hegel la libertà viene identificata con la necessità dialettica, da Schopenhauer viene esplicitamente negata perché contraria al determinismo che regna in tutto il mondo del fenomeno.

  La volontà infinita è interiormente scissa, discorde e divoratrice di se medesima: essa è essenzialmente infelicità e dolore. Schopenhauer si fa banditore e profeta della liberazione dalla volontà di vivere e addita la via della liberazione nell'ascetismo. Personalmente, tuttavia, egli non si sente impegnato in questo compito. Nonostante il carattere profetico della sua filosofia, Schopenhauer non vede nella filosofia che una somma di concetti astratti e generici che ne fanno "una completa ripetizione e quasi un riflesso del mondo in concetti astratti" (Mondo, I, § 215). Pertanto il filosofo non è impegnato dagli insegnamenti della sua filosofia. "Che il santo sia un filosofo, è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo bellissimo sia un grande scultore o che un grande scultore sia pure un bell'uomo. Sarebbe d'altronde singolare pretendere da un moralista che non debba raccomandare se non le virtù da lui stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente, limpidamente, in concetti l'intera essenza del mondo, e così, quale immagine riflessa, deporla nei permanenti e sempre disposti concetti della ragione: questo e non altro è filosofia" (Ib., § 68). Così Schopenhauer non si prospettò neppure la possibilità di intraprendere la via della liberazione ascetica da lui così eloquentemente difesa come ultimo risultato della sua filosofia. In realtà rimase attaccatissimo a quella volontà di vivere dalla quale affermava la necessità di liberarsi. E quando dopo la morte di Hegel la moda dello hegelismo decadde, e l'attenzione del pubblico cominciò a rivolgersi a lui, egli ne fu giubilante. La sua personalità cade interamente fuori della sua stessa filosofia, la quale perciò rimane priva del maggior pregio di ogni filosofia: la testimonianza viva del filosofo che l'ha elaborata.

 

IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

 

  "Il mondo è la mia rappresentazione": con questa affermazione s'inizia l'opera principale di Schopenhauer. E' questo un principio simile agli assiomi di Euclide: ognuno ne riconosce la verità appena lo intende. La filosofia moderna da Cartesio a Berkeley ha il merito di aver portato alla consapevolezza questo principio. Esso implica che la vera filosofia deve in ogni caso essere idealistica. "Niente è più certo, dice Schopenhauer (Mondo, II, c. 1), che nessuno può mai uscire da sé per identificarsi immediatamente con le cose diverse da lui; tutto ciò di cui egli ha conoscenza sicura, quindi immediata, si trova dentro la sua coscienza". La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili, la cui distinzione costituisce la forma generale della conoscenza, sia essa astratta o concreta, pura od empirica. Da un lato c'è il soggetto della rappresentazione, che è ciò che tutto conosce ma da nessuno è conosciuto, perché non può mai divenire oggetto di conoscenza. Dall'altro lato, c'è l'oggetto della rappresentazione, condizionato dalle forme a priori dello spazio e del tempo che ne producono la molteplicità. Il soggetto è fuori dello spazio e del tempo, ed è intero e indiviso in ogni essere capace di avere rappresentazioni. "Uno solo di questi esseri integra con l'oggetto il mondo come rappresentazione così pienamente quanto i milioni di esseri esistenti. Ma anche se quell'unico svanisse, cesserebbe di esistere il mondo come rappresentazione" (Ib., § 2). Non ci può essere né oggetto senza soggetto, né soggetto senza oggetto. Il materialismo è escluso perché nega il soggetto riducendolo all'oggetto (alla materia). L'idealismo (quello di Fichte) è escluso perché compie il tentativo opposto e altrettanto impossibile di negare l'oggetto riducendolo al soggetto.

  Ora la realtà dell'oggetto si riduce alla sua azione. La pretesa che l'oggetto abbia esistenza fuori della rappresentazione che il soggetto ne ha, e che per conseguenza l'oggetto intuito non si esaurisca nella sua azione, è priva di senso, anzi contraddittoria. L'azione causale dell'oggetto su altri oggetti costituisce l'intera realtà dell'oggetto stesso. Per conseguenza, se si chiama materia l'oggetto della conoscenza, la realtà della materia si esaurisce nella sua causalità. Da questo riconoscimento Schopenhauer trae come prima conclusione l'eliminazione di ogni seria differenza tra veglia e sogno. Ciò che ha detto l'antichissima filosofia indiana, ciò che hanno detto poeti di tutti i tempi, da Pindaro a Calderòn, trova, secondo Schopenhauer, una conferma decisiva nella conclusione idealistica della filosofia moderna: la vita e sogno, e differisce dal sogno propriamente detto solo per la sua maggiore continuità e connessione interna (Mondo, I, § 5). La seconda conseguenza è che la funzione fondamentale dell'intelletto è l'intuizione immediata del rapporto causale intercedente fra i suoi oggetti: la realtà di questi oggetti consiste infatti come si è visto esclusivamente nella loro causalità. L'intelletto è dunque essenzialmente  intuitivo, nei confronti della ragione che è invece essenzialmente discorsiva e ha a che fare soltanto con concetti astratti (Ib., I, § 8). I concetti astratti sono irreducibili alle intuizioni intellettuali, per quanto derivino da esse e le presuppongano (Ib., I, § 10). Il sapere propriamente umano è conoscenza astratta, cioè mediante concetti; ma tale sapere non ha altro fondamento della sua certezza che la stessa intuizione intellettuale. Schopenhauer ritiene che la stessa geometria sia interamente fondata sull'intuizione e che anzi essa acquisterebbe un'evidenza assai maggiore se assumesse esplicitamente come proprio metodo il metodo dell'intuizione.

  Spazio, tempo e causalità costituiscono le forme a priori della rappresentazione, cioè le condizioni a cui deve sottostare qualsiasi oggetto intuito. Di qui l'importanza che Schopenhauer dà al principio di causalità, le cui varie forme determinano le categorie degli oggetti conoscibili. Nel saggio Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente Schopenhauer aveva distinto quattro forme del principio di causalità e corrispondentemente quattro classi di oggetti conoscibili. 1° Il principio di ragion sufficiente del divenire regola i rapporti tra le cose naturali e determina la successione necessaria dell'effetto alla causa. Questa forma delinea la classe delle rappresentazioni intuitive, complete ed empiriche: cioè delle cose o dei corpi naturali. Sui modi diversi di questa forma di causalità è fondata la differenza fra il corpo inorganico, la pianta e l'animale: il corpo inorganico è determinato nei suoi mutamenti da cause (nel senso ristretto della parola), la pianta da stimoli,l'animale da motivi. 2° Il principio di ragion sufficiente del conoscere regola i rapporti tra i giudizi e fa dipendere la verità delle conclusioni da quelle dalle premesse. Questa forma del principio delinea la classe di conoscenze che è posseduta soltanto dall'uomo, cioè delle conoscenze razionali vere e proprie. 3° Il principio di ragion sufficiente dell'essere regola i rapporti fra le parti del tempo e dello spazio e perciò determina la concatenazione logica degli enti aritmetici e geometrici. Esso fonda perciò la verità delle conoscenze matematiche. 4° Il principio di ragion sufficiente dell'agire regola i rapporti fra le azioni e le fa dipendere dai loro motivi. La motivazione è perciò una specie particolare della causalità e precisamente la causalità vista dall'interno stesso del soggetto che agisce.

  Queste quattro forme del principio di causalità costituiscono quattro forme di necessità che dominano tutto il mondo della rappresentazione: la necessità logica secondo il principio della ratio cognoscendi; la necessità fisica secondo la legge della causalità; la necessità matematica secondo il principio della ratio essendi; e la necessità morale secondo la quale ogni uomo, come ogni animale, deve compiere l'azione suggerita dal motivo, quando questo motivo si è presentato. Quest'ultima forma di necessità esclude evidentemente la libertà della volontà umana, che infatti non sussiste, secondo Schopenhauer. L'uomo, come rappresentazione, è soltanto un fenomeno fra gli altri fenomeni, e soggiace alla legge generale dei fenomeni stessi che è la causalità, nella forma specifica che gli è propria, quella della motivazione. Ma poiché la realtà non si riduce interamente alla rappresentazione, che è soltanto fenomeno, c'è per l'uomo un'altra possibilità di riconsocersi libero, possibilità connessa all'essenza noumenica del mondo e di se stesso.

 

IL MONDO COME VOLONTA'

 

  Se il mondo fosse solo rappresentazione si ridurrebbe ad una visione fantastica o ad un sogno inconsistente. Ma esso non è solo rappresentazione; ha un noumeno, che è la volontà. L'uomo, infatti, come soggetto conoscente è fuori dal mondo della rappresentazione e della sua causalità; come corpo è dentro questo mondo e sottoposto alla sua azione causale. Ma il corpo stesso non è dato all'uomo soltanto come fenomeno, cioè non è da lui soltanto intuito come una rappresentazione fra le altre rappresentazioni. Gli è dato pure in una forma più intrinseca e immediata, come volontà. Si ritiene comunemente che gli atti e i movimenti del corpo siano gli effetti della volontà; per Schopenhauer sono la volontà stessa nella sua manifestazione oggettiva, nella sua oggettivazione. L'intero corpo non è che l'oggettività della volontà, la volontà divenuta oggetto dell'intuizione, o rappresentazione. La volontà è dunque la cosa in sé, la realtà interna di cui la rappresentazione è il fenomeno o l'apparenza. "Fenomeno è rappresentazione e niente di più: ogni rappresentazione, di qualsiasi specie,ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé invece è solamente la volontà: essa come tale non è rappresentazione  ma qualcosa di toto genere diverso. Ogni rappresentazione, ogni oggetto, è fenomeno, estrinsecazione visibile, oggettività di essa. Essa è l'intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed egualmente del tutto. Si manifesta in ogni cieca forza naturale, si manifesta anche nella meditata condotta dell'uomo. La differenza che separa la forza cieca dal procedere riflessivo concerne il grado della manifestazione, non l'essenza della volontà che si manifesta" (Mondo, I, § 21).

  Come cosa in sé, la volontà si sottrae alle forme proprie del fenomeno, cioè allo spazio, al tempo e alla causalità. Queste forme costituiscono il principium individuationis, perché individuano e moltiplicano gli esseri naturali. La volontà che si sottrae a quelle forme si sottrae al principio di individuazione: è quindi unica in tutti gli esseri. Inoltre, poiché si sottrae alla causalità, la volontà agisce in modo assolutamente libero, senza motivazione, ed è quindi irrazionale e cieca. Schopenhauer la identifica con le forze che agiscono nella natura; forze che assumono aspetti e nomi diversi (gravità, magnetismo, elettricità, stimolo, motivo) nelle loro manifestazioni fenomeniche, ma che in sé sono un'unica e identica forza, la volontà di vivere.

  L'oggettivazione della volontà nella rappresentazione ha gradi diversi. Ogni grado è un'idea nel senso platonico: una forma esterna o un modello, una specie, che viene poi individuata e moltiplicata nel mondo della rappresentazione, ad opera del tempo, dello spazio e della causalità. La legge naturale è la relazione dell'idea con la forma del suo fenomeno. Il grado più basso dell'oggettivazione della volontà è costituito dalle forze generali della natura. I gradi superiori sono le piante e gli animali sino all'uomo, nei quali comincia ad apparire l'individualità vera e propria. Attraverso  questi gradi, l'unica volontà tende all'oggettivazione sempre più alta; perciò depone i gradi più bassi del proprio fenomeno dopo averli spinti al conflitto, in modo da vincere su di essi e da ripresentarsi più in alto. Ogni grado di oggettivazione della volontà contende all'altro la materia, lo spazio e il tempo, e implica perciò lotta, battaglia, e alternanza di vittorie. Ciò accade sia nella natura inorganica sia nel mondo vegetale e animale, sia infine fra gli uomini. Nei gradi infimi, la volontà appare come un impulso cieco, una sorda agitazione. Negli animali, diventa rappresentazione intuitiva, e cessa di operare come impulso cieco. Negli uomini diventa ragione che agisce in virtù di motivi. Ma ciò che acquista in chiarezza, la volontà perde in sicurezza: la ragione è soggetta all'errore, e, come guida della vita, fallisce spesso al suo scopo. Ciò non toglie che essa sia sorta proprio a servizio della volontà e sia schiava di essa. Da questa schiavitù può liberarsi soltanto attraverso l'arte e attraverso l'ascesi.

 

IL MONDO COME VOLONTA'

 

  La prima e immediata oggettivazione della volontà è l'idea, nel senso di specie, cioè di essenza universale e generica. L'idea è fuori dello spazio e del tempo, fuori del principio di causalità in tutte le sue forme. E' quindi fuori della conoscenza comune e scientifica legata appunto allo spazio, al tempo e alla causalità. E' fuori anche dell'individuo come tale, che consoce soltanto oggetti singoli, oggetti che sono l'oggettivazione mediata della volontà, e mediata appunto dalle  idee. Gli oggetti singoli – le cose e gli esseri esistenti nello spazio e nel tempo – per la loro molteplicità e il loro mutamento, non costituiscono l'adeguata e piena oggettivazione della volontà. Questa oggettivazione adeguata e piena è soltanto l'idea. E l'idea non è l'oggetto della conoscenza, ma soltanto quello dell'arte, che è opera del genio. Ora mentre la conoscenza, e quindi la scienza, è continuamente irretita nelle forme del principio di individuazione e asservita ai bisogni della volontà,l'arte è conoscenza libera e disinteressata. Chi contempla le idee  non è più l'individuo naturale, sottoposto alle esigenze della volontà,ma il puro soggetto del conoscere, il puro occhio del mondo. Il genio è l'attitudine alla contemplazione delle idee nel suo grado più alto. "Mentre per l'uomo comune, dice Schopenhauer, il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che rivela il mondo".

  La contemplazione estetica sottrae l'uomo alla catena infinita dei bisogni e dei desideri con u appagamento che è immobile e compiuto. Questo appagamento non si raggiunge mai altrimenti. "Nessun oggetto della volontà, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti; ma rassomiglia solo all'elemosina che, gettata al mendico, prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento". Nella contemplazione estetica, invece, la catena dei bisogni  è interrotta perché l'individuo stesso è in qualche modo annullato. "La pura oggettività dell'intuizione, in virtù della quale viene conosciuta non più la cosa singola come tale, ma l'idea nella sua specie, è determinata da ciò, che si è consapevoli no più di se stessi, ma soltanto degli oggetti intuiti; quindi la coscienza propria rimane semplicemente come il sostegno dell'esistenza oggettiva di quegli oggetti. In ciò consiste l'analogia e perfino l'affinità dell'arte con l'annullamento della volontà dovuto all'ascetismo. Quando il sollevarsi alla contemplazione dell'idea non avviene senza lotta contro gli impulsi discordanti della volontà, si ha il sentimento del sublime; che per questa lotta appunto si distingue dal sentimento del bello, dal quale essa è assente.

  Le varie arti corrispondono ai gradi diversi dell'oggettività della volontà. Esse vanno dall'architettura, che corrisponde al più basso grado dell'oggettività (cioè alla materia inorganica), attraverso la scultura, la pittura e la poesia, fino alla tragedia che è l'arte più alta. La tragedia rivela l'intimo dissidio e la lotta della volontà con se stessa. "Il dolore senza nome, l'affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso, e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti, vengono dalla tragedia presentati in piena luce, e si ha così un significante indizio della natura del mondo e dell'essere". Tra le arti, un posto a parte ha la musica. Essa on corrisponde alle idee, come le altre arti, ma come l idee stesse, è l'immediata rivelazione della volontà. "La musica è oggettivazione e immagine della volontà tanto diretta quanto il mondo, o anzi quanto le idee stesse, il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti". La musica è perciò l'arte più universale e profonda, il linguaggio universale in altissimo grado "che sta all'universalità dei concetti press'a poco come i concetti stanno alle singole cose".

  Ogni arte è liberatrice: il piacere che essa procura è la cessazione del dolore del bisogno, cessazione raggiunta mercé lo svincolarsi della conoscenza dalla volontà e il suo porsi come disinteressata contemplazione. Ma la liberazione dell'arte è pur sempre temporanea e parziale. Essa non redime l'uomo dalla vita se non per brevi istanti e non è una via per uscir dalla vita, ma solo un conforto alla vita stessa. La via della liberazione totale è perciò diversa e indipendente dall'arte.

 

LA VITA COME DOLORE

 

  Alle soglie della trattazione dell'etica, che deve indicare la via della liberazione umana dalla volontà di vivere, Schopenhauer s'imbatte nel problema della libertà. Come può l'uomo liberarsi dalla volontà, se non è libero di fronte ad essa, se è uno schiavo della volontà stessa? Nel Saggio sul libero arbitrio (1840) compreso nei Due problemi fondamentali dell'etica, Schopenhauer si era già pronunziato recisamente contro una libertà intesa come liberun arbitrium indifferentiae. Nello stesso tempo aveva, interpretando a suo modo la dottrina di Kant, riconosciuto la libertà dell'essenza noumenica o intellegibile dell'uomo. A questa soluzione egli si attiene anche nella sua opera principale. Il fenomeno, ogni fenomeno, è sottoposto a una delle forme del principio di ragione; dunque è necessità. Ma il noumeno è al di fuori di quelle forme; dunque è libertà, ed è libertà nel senso più vasto ed esteso, è libertà come onnipotenza. Onnipotente è dunque la volontà in sé, il noumeno di tutte le cose e perciò pure dell'uomo. Ma l'uomo è soltanto un fenomeno della volontà, la quale in sé è una e indivisibile; come può dunque essere libero? Schopenhauer distingue il carattere empirico dell'uomo che è puro fenomeno  e quindi necessario e determinato, e il carattere intelligibile, che è un atto di volontà fuori del tempo e quindi indivisibile e immutabile. Il carattere intelligibile si manifesta nelle azioni e determina la sostanza del carattere empirico; ma neppure esso è in potere dell'uomo, perché non è l'uomo a sceglierlo, ma la volontà lo sceglie per lui Al carattere intelligibile e al carattere empirico si aggiunge poi il carattere acquisito, che si forma vivendo, con l'uso del mondo, e consiste nell'astratta e chiara consapevolezza del proprio carattere empirico. In tutto questo, ancora non c'è traccia di libertà. Eppure la volontà è in se stessa libera, e può promuovere nell'uomo e per l'uomo la sua propria liberazione. Ciò accade soltanto nell'atto in cui la volontà stessa perviene "alla piena coscienza di sé, alla chiara ed esauriente conoscenza del suo proprio essere, quale si rispecchia nel mondo". Ma come questa coscienza della volontà, questa sua autoconoscenza o autoggettivazione, che non può essere che il prodotto della volontà stessa, possa annullare o bloccare la volontà onnipotente, è cosa che Schopenhauer non si ferma a spiegare.

  L'autonegazione della volontà dev'essere dunque il prodotto della chiara e limpida conoscenza che la volontà ha di se stessa. Il principio di questa conoscenza è che la vita è dolore e che la volontà di vita è il principio  del dolore. Volere significa infatti desiderare, e il desiderio implica l'assenza di ciò che si desidera. Desiderio è mancanza, deficienza, indigenza, quindi dolore. La vita è lanciata in uno sforzo incessante di bandire il dolore, sforzo che è reso vano nel momento stesso in cui tocca il suo termine. Dall'appagamento del desiderio e del bisogno scaturisce infatti un nuovo desiderio o un nuovo bisogno, senza che l'appagamento abbia mai un carattere definitivo e positivo: il piacere è la cessazione del dolore, perciò uno stato negativo e transeunte. Dall'altro lato, quando l'aculeo dei desideri e delle passioni si fa meno intenso, subentra la noia, che è ancora più insopportabile del dolore. La vita è così un continuo oscillare tra il dolore e la noia; dei sette giorni della settimana, sei appartengono alla fatica e al bisogno, il settimo alla noia. Contro la tesi di Leibniz, che questo è il migliore dei mondi possibili, Schopenhauer afferma recisamente il principio opposto, che esso è il peggiore dei mondi possibili. Possibile non è ciò che può fantasticarsi, ma ciò che può realmente esistere; e se il mondo fosse appena un poco peggiore, non potrebbe più esistere. Poiché dunque un mondo peggiore, non potendo esistere, non è possibile, questo è precisamente il peggiore dei mondi possibili. "L'ottimismo non è, dice Schopenhauer ripetendo a suo modo una tesi di Hume, che l'autoelogio ingiustificato del vero creatore del mondo, cioè della volontà di vita, la quale compiacentemente si specchia nella sua opera: quindi esso è una dottrina non solo falsa ma anche perniciosa". Schopenhauer ammette tuttavia il finalismo nella natura e parla di una finalità interna per la quale tute le parti di un singolo organismo convergono alla conservazione di esso e della sua specie; e di una finalità esterna che consiste nella relazione tra la natura organica e quella inorganica che rende possibile la conservazione di tutta la natura organica. Come questo finalismo si concili con il pessimismo cioè con la tesi che il nostro mondo è il peggiore dei mondi possibili, Schopenhauer non dice. Osserva soltanto che il finalismo stesso garantisce la conservazione della specie, non quella degli individui di ciascuna specie, i quali sono preda dell'incessante guerra sterminatrice che la volontà di vivere conduce contro se stessa. Ma è ovvio che un certo numero di individui deve pur salvarsi se la specie dev'essere conservata; e la salvezza di tali individui deve quindi far parte del finalismo generale.

  Invece, per ciò che riguarda il mondo della storia, il pessimismo di Schopenhauer è più coerente. Egli afferma che la vera filosofia della storia non consiste  nel sollevare gli scopi temporanei degli uomini a scopi eterni ed assoluti e nel costruirne artificiosamente  il progresso; ma nel sapere che la storia, dal principio alla fine del suo svolgimento, ripete sempre la stessa vicenda, sotto diversi nomi e in diverse vesti. Quest'unica vicenda è il muoversi, l'agire, il soffrire – in una parola il destino del genere umano, quale scaturisce dalle proprietà fondamentali dell'uomo, molte cattive, poche buone. Pertanto l'unica utilità che può avere la storia è quella di dare al genere umano la coscienza di sé e del proprio destino. Un popolo che non conosca la sua storia vive come l'animale: senza rendersi ragione del suo passato, limitato e immerso nel presente. Quel che fa la ragione per l'individuo, fa la storia per una totalità di individui; riferisce il presente al passato e anticipa il futuro. Perciò ogni lacuna nella storia è come una lacuna nell'autocoscienza dell'uomo; e dinanzi a un monumento dell'antichità che sia sopravvissuto alla sua storia, l'uomo resta ignaro e stupito, come l'animale dinanzi all'azione umana e come il sonnambulo che la mattina scopre quel che egli stesso ha fatto durante il sonno.

 

L'ASCETISMO

 

  Il fondamento dell'etica di Schopenhauer è la continua lacerazione che la  volontà fa di se stessa: lacerazione che nell'individuo è il contrasto e la continua insorgenza dei bisogni, e fuori dell'individuo è il contrasto e la rivalità perenne fra gli individui, l'ingiustizia. L'ingiustizia è la condizione della volontà di vivere scissa e discorde nei diversi individui. Ad essa c'è un solo rimedio: la conoscenza  dell'unità fondamentale della volontà in tutti gli esseri, e quindi il riconoscimento degli altri come altrettanti se stesso. L'uomo malvagio non è solo il tormentatore ma anche il tormentato; solo per un sogno illusorio egli si crede separato dagli altri e dal dolore. Il rimorso temporaneo o la duratura angoscia, che accompagnano la malvagità,  sono l'oscura coscienza dell'unità della volontà in tutti gli uomini. Ogni malvagità è ingiustizia, cioè disconoscimento di questa unità. Ogni bontà è giustizia, cioè riconoscimento di questa unità, al di là del velo di Maya, dell'illusoria molteplicità del principium individuationis. Mala giustizia  solo il primo grado di quel riconoscimento; il grado superiore è la bontà, che è amore disinteressato per gli altri. Quando questo amore è perfetto, fa sì che l'altro individuo e il suo destino siano pari a noi stessi e al nostro destino: più in là non si può arrivare, non essendovi ragione di preferire l'altrui individualità alla nostra. Ora così inteso l'amore non è che compassione: esso "è sempre soltanto  la conoscenza dell'altrui dolore, reso comprensibile attraverso il dolore proprio e messo alla pari di questo". In questo grado l'individuo vede in ogni dolore altrui il suo proprio perché riconosce in tutti gli altri esseri l suo più vero ed intimo io. Il velo di Maya si è completamente lacerato per lui ed egli è pronto alla liberazione totale.

  Questa liberazione è l'ascesi. Per essa la volontà muta indirizzo, non ferma più la sua propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, ma la rinnega. L'ascesi è "l'orrore dell'uomo per l'essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore". L'asceta cessa di volere la vita, non attacca la sua volontà a nessuna cosa, rinsalda in se stesso la massima indifferenza per tutto. Il primo passo dell'ascesi è la castità perfetta. Essa infatti libera dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vita, che è l'impulso alla generazione. Questo impulso domina, secondo Schopenhauer, tutte le forme dell'amore sessuale che, per quanto etereo possa sembrare, è sempre sotto la spinta degli interessi e elle esigenze della generazione. La scelta individuale nell'amore non è veramente  individuale, ma è una scelta della specie, e fatta nell'interesse della specie. La volontà di vita appare a Schopenhauer in questa funzione come "il genio della specie" che suscita e determina le scelte, gli innamoramenti, le passioni, in vista di garantire la continuità e la prosperità della specie stessa. In ogni rapporto, anche il più elevato, tra individui di sesso diverso non c'è che la "meditazione del genio della specie sull'individuo possibile mediante i due e sulla combinazione delle loro qualità".

  S'intende quindi come la prima esigenza della liberazione ascetica dalla volontà di vita sia la liberazione totale dall'impulso sessuale cioè l'assoluta castità. La rassegnazione, la povertà, il sacrificio  e le altre manifestazioni dell'ascetismo tendono allo stesso scopo: liberare la volontà di vivere dalla propria catena, spegnerla e annullarla. Se la volontà di vivere fosse spezzata interamente in un solo individuo, essa perirebbe tuta, perché un una sola. L'uomo ha il compito di questa liberazione radicale della realtà dal dolore: attraverso l'uomo l'intero mondo sarà redento.

  Schopenhauer cerca la conferma di questa tesi nella filosofia indiana, nel buddismo e nei mistici cristiani. E vede nella soppressione della volontà di vivre l'unico vero atto di libertà che sia possibile all'uomo. Il suicidio a questo scopo non serve. Esso non è negazione della volontà ma energica affermazione di essa. E difatti il suicida vuole la vita, ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate: distrugge perciò il fenomeno della vita, il suo corpo, non la volontà di vivere, che pertanto non viene intaccata o diminuita dal suo gesto. L'uomo è, come fenomeno, un anello della catena casuale: ciò che egli fa è necessariamente determinato dal suo carattere e il suo carattere vero è immutabile. Ma quando egli riconosce la volontà come cosa in sé, si sottrae alla determinazione dei motivi che agiscono su di lui come fenomeno: questa conoscenza è non un motivo, ma un quietivo el suo volere e il suo carattere  stesso dell'uomo può essere da essa eliminato e distrutto. Con ciò l'uomo diviene libero, si rigenera ed entra in quello stato che i cristiani chiamano stato di grazia. Il termine, nel quale egli può allora posarsi e quietarsi, è il nulla, il puro nulla, l'eliminazione totale di tutto ciò che è, in quanto è vita e volontà di vita. "Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà, dice Schopenhauer alla fine della sua opera, è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla". Schopenhauer è risolutamente contrario al panteismo come al teismo. Se un Dio personale è per lui "una favola giudaica", l'Uno-tutto del panteismo è per lui il semplice fenomeno accidentale di un principio più vasto. "Il mondo non colma tutte le possibilità dell'essere, ma lascia ancora fuori di sé ciò che indichiamo solo negativamente come rinnegazione della volontà di vita". Il mondo del panteismo è il mondo dell'ottimismo, là dove il mondo di Schopenhauer c'è soltanto per rendere possibile la sua stessa negazione.

 

 

 

Il pensiero di Schopenhauer esposto da Amedeo Vigorelli

 

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la forma del trattato schopenhaueriano: filosofia e sistema

 

Nella vasta fioritura di "sistemi" che caratterizza la stagione romantica della filosofia tedesca, quello di Schopenhauer occupa un posto di assoluto rilievo. L'opera alla cui composizione Schopenhauer ha dedicato gran parte della sua vita e attività di scrittore, Il mondo come volontà e rappresentazione, rientra nella trattatistica filosofica che si rifà alla tendenza sistematica, di cui condivide le istanze fondamentali:

1) l'identificazione del sistema come la forma scientifica del sapere filosofico;

2) l'intento di collegarsi, nella costruzione di tale sapere, al precedente kantiano;

3) la tendenza a tradurre la filosofia di Kant in termini non più meramente critico-negativi, ma metafisico-positivi.

In Schopenhauer - che legge la Critica della ragion pura in una chiave idealistico-scettica, collocando Kant sul prolungamento della linea ideale che unisce Platone per un verso con l'antica sapienza dei Veda, per l'altro con la filosofia di Berkeley - la ricerca del sistema si unisce alla battaglia polemica pcr rivendicare a sé una continuità diretta nei confronti dell'eredità kantiana, a suo dire fraintesa e mistificata dagli sviluppi a lui contemporanei della filosofia accademica tedesca.

Il rango dei filosofi - egli scrive con esplicito riferimento a Fichte - può essere stabilito a seconda che i loro sistemi abbiano preso il via da un autentico "stupore" filosofico, quale può sorgere "dalla prima vista del mondo reale», oppure da una curiosità intellettuale indiretta e derivata, come quella originata "dalla lettura di un libro, di un sistema bell'e fatto». Solo ai primi può essere riconosciuta la dignità di pensatori originali. Questa differenza si riflette nella fornw assunta dai loro pensieri: quella di un sistema organico, in cui tutte le parti si sostengono a vicenda e traggono il loro valore dalla verità del tutto; oppure quella di un sistema architettonico in cui le parti si ordinano e si dispongono sulla base di una precisa, ma in fondo astratta gerarchia funzionale.

Lo stesso Schopenhauer, nella Prefazione al suo capolavoro filosofico, non si nasconde l'ambizione di voler costruire un sistema del primo tipo: in cui non si tratta tanto di accumulare molti e diversi pensieri, quanto di esprimere, nel suo nucleo originale e nella sua ricchezza di possibili sviluppi, "un unico pensiero".

Quest'unico pensiero (che è poi quello sintetizzato nel titolo) è stato suscitato in lui dalla considerazione di ciò che, nel diciassettesimo capitolo dei Supplementi, viene chiamato il "bisogno metafisico nell'uomo». La metafisica tradizionale, che ha il proprio padre in Aristotele, dichiara il proprio intellettualismo qU\lndo identifica lo "stupore" originario da cui nasce la filosofia con la meraviglia, ossia con un atteggiamento di tipo teoreticocontemplativo di fronte al mondo. Per Schopenhauer viceversa l'origine della filosofia, che essa condivide con la religione, sta nello stupore o nello scandalo di fronte al dolore e al male presenti, in modo essenziale e non eliminabile, nel mondo. Un'origine, dunque, non meramente teoreticospeculativa, bensì pratico-morale e religiosa.

Il mondo come volontà e rappresentazione è appunto il tentativo di rispondere alla domanda metafisica: «perché ogni vivere è per essenza un soffrire?" La forma della trattazione dovrà corrispondere all'esigenza dell'esposizione organica di quest'unico pensiero. La struttura dell'opera, in quattro libri, cerca di tradurre il movimento del pensiero, che procede a spirale, in un moto di progressivo approfondimento, attorno al nucleo centrale. Il punto di vista della rappresentazione e quello della volontà sono le due prospettive che il pensiero può assumere di fronte al mondo .

Il primo libro, che offre la prima considerazione sul mondo come rappresentazione, mostra in che modo si costituisca, a partire dall'intuizione comune, il punto di vista della scienza, secondo cui il mondo è un fenomeno globale dotato di legittimità e di senso.

Il secondo libro, che contiene la prima considerazione sul mondo come volontà, integra e corregge quella prima visione, mostrando come - a una visione più profonda - il mondo riveli, dietro l'apparenza razionale del suo essere fenomenico, un'essenza, un fondo morale oscuro e irrazionale.

Il terzo libro, seconda considerazione sul mondo come rappresentazione, ritorna al punto di vista della rappresentazione, individuando quel tipo di considerazione, non più scientifica, ma artistica, che è in grado di svelarci la presenza nel fenomeno della cosa in sé, ossia della volontà.

II quarto libro infine - seconda considerazione sul mondo come volontà - espone la dialettica della volontà (affermazione e negazione di sé), che consente di attuare praticamente ciò che era stato escluso teoreticamente: la liberazione della conoscenza dalla servitù alla volontà e la possibilità conseguente di un superamento del dolore.

Ciò che lega le diverse parti del sistema - che solo in apparenza sembrano costituire rispettivamente una gnoseologia, una metafisica, un'estetica e un'etica in senso tradizionale - non sono i pesanti nessi architettonici tipici delle costruzioni idealistiche, bensÌ le reciproche connessioni organiche di un unico pensiero che vuole esprimere, nella propria ineliminabile circolarità, l'enigma stesso della vita.

Quanto allo stile di Schopenhauer - uno dei pregi maggiori del Mondo, che molto contribuÌ alla fortuna, sia pure tardiva, dell'opera -, va detto che l'autore condivide la diffusa critica al cattivo stile letterario di Kant, preferendo rifarsi, in alternativa, alla limpida prosa scientifica di Goethe. Con i principali esponenti dell'idealismo contemporaneo, egli condivide poi l'idea che il linguaggio della filosofia debba avere un rapporto intimo e non estrinseco con il suo oggetto, anche se polemizza duramente contro l'''oscurità'' dei vari Fichte, Schelling e Hegel. La scelta di Schopenhauer - improntata piuttosto a un ideale di chiarezza e massima trasparenza della lingua, che rifugge da ogni gergalismo - corrisponde in modo preciso alla sua idea della filosofia come espressione verbale e concettuale precisa, ma pur sempre inadeguata, di una intuizione metafisica che rimane, nel suo fondamento ultimo, celata e inesprimibile. A volte Schopenhauer paragona la filosofia a una scrittura cifrata, di cui sono possibili varie traduzioni, a seconda dei diversi codici interpretativi che vi si applicano, ma la cui verità riposa sull'unica traduzione capace di renderne in modo adeguato il senso, rendendo totalmente trasparente il sistema dei segni. Altre volte paragona il suo stile all'effetto di superficie di un lago svizzero «che, grazie alla sua calma, benché così profondo, ha grande trasparenza, ed è proprio questa a renderne visibile la profondità".

Vi è in questa immagine una indiretta polemica nei riguardi dello stile "torbido" degli scrittori romantici. In effetti è divenuto quasi proverbiale contrapporre la "chiarezza" dello stile di Schopenhauer alla difficoltà e "oscurità" di quello, per esempio, di Hegel. Sarebbe in ogni caso ingiusto nei confronti di quest'ultimo - le cui scelte linguistiche corrispondono anch'esse a un preciso rapporto della filosofia con il suo oggetto, espresso nell'idea della dialettica - accogliere in toto l'accusa di Schopenhauer, che ne considera lo stile "oscuro" (si pensi alla simpatia espressa da Hegel per un autore come Eraclito) come l'effetto voluto di un sapere "sofistico" e di una volontà mistificatoria. Da parte sua, Schopenhauer ritiene di fare della "chiarezza" una divisa di moralità scientifica quando scrive, citando un autore francese: «la chiarezza è l'onestà del filosofo».

 

schopenhauer e l'eredità kantiana

 

Dopo aver analizzato lo stile filosofico di Schopenhauer passiamo a esaminare le origini e i contenuti della sua teoresi. In primo luogo è necessario approfondire il tema della ricezione della filosofia kantiana. Schopenhauer considera come uno dei più importanti risultati della Critica della ragion pllra l'aver contribuito a chiarire uno dei problemi più ardui della filosofia - quello relativo al valore e al significato del cosiddetto principio di ragione sllfficiente - trasponendolo dal tradizionale ambito metafisico, in cui l'aveva posto, per esempio, Leibniz, al nuovo ambito del criticismo: a questo tema è dedicata la dissertazione La quadruplice radice del principio di ragione slljfo:iente. Dopo Kant, pensa Schopenhauer, non si può più considerare il principio che "nulla è senza una ragione del suo essere» (nihil est sine ratione cur si: potius quam non sit) come un principio di universale validità ontologica, cioè che descrive il reale svilupparsi degli eventi, bensì questo principio deve essere considerato come una legge che descrive il modo regolare in cui i fenomeni si presentano al soggetto che se li rappresenta. Da un punto di vista critico, infatti, non si può parlare della cosa in sé, cioè di ciò che trascende la rappresentazione; ma è necessario limitarsi allo studio delle modalità in cui il soggetto si rapporta all'oggetto, cioè del modo in cui si rappresenta un mondo. Attraverso l'analisi delle diverse "classi di oggetti per il soggetto» si ottengono, perciò, le forme corrispondenti del principio di ragione sufficiente: ossia i modi mediante cui il soggetto conferisce validità razionale ai fenomeni.

La prima «classe di oggetti per il soggetto» è quella delle rappresentazioni uuuitiue, attraverso cui ci formiamo la nozione di esperienza, come di una totalità dei fenomeni retta da leggi obiettive e necessarie. Il principio di ragione sufficiente si applica qui alla spiegazione del mutamento o divenire naturale (ratio fiendi) e coincide con la legge di causalità. L'applicazione di tale legge al mondo fenomenico richiede la cooperazione di sensibilità e intelletto. Mediante i sensi conosciamo le affezioni soggettive del nostro corpo (che è per noi l'oggetto immediato della rappresentazione); mediante l'intelletto riferiamo tale azione a una causa oggettiva, posta fuori di noi: alla materia, che riempie di contenuto concreto le forme della nostra intuizione spazio-temporale del mondo. Spazio, tempo e causa sono dunque le forme dell'intuizione che presiedono alla costituzione del mondo come rappresentazione del soggetto.

La "seconda classe" è quella delle rappresentazioni astratte o concetti. Essi formano il contenuto totale della ragione e sono regolati dal principio di ragione sufficiente, nella forma di principio del conoscere (ratio cognoscendi). Il nesso tra ragione conoscitiva (o premessa) e conseguenza (che corrisponde alla forma dei giudizi ipotetici) è quello in cui si esplica, nella sua forma più astratta, la razionalità. Il valore della conoscenza astratta è peraltro subordinato, secondo Schopenhauer, a quello della conoscenza intuitiva, che è la sola in grado di fornirle un contenuto (e ciò in polemica con la tradizione dell'intellettualismo).

La "terza classe" comprende le due rappresentazioni di spazio e tempo, considerate separatamente dalla materia e applicate all'ambito puro della matematica. Come tali, esse sono le condizioni della pensabilità degli enti matematici, che suppongono sempre una posizione nello spazio e una collocazione nella successione del tempo. Il principio di ragione sufficiente, quale si applica nella pura immaginazione del geometra, viene qui concepito come principio dell'essere (ratio essendi).

La "quarta classe" è quella delle azioni, regolate dalla legge di motivazione, ossia dal principio di ragione sufficiente dell'agire (ratio agendi). Al nesso di causa ed effetto, valido per la prima classe di rappresentazioni, si sostituisce quello tra motivo o stimolo e azione, che spiega l'atto volontario - e perciò libero - del soggetto. Schopenhauer richiama la distinzione kantiana tra carattere empirico e carattere intelligibile, per spiegare il contrasto tra l'apparente determinismo dell'agire, considerato dal punto di vista fenomenico, e la sua affermata libertà dal punto di vista noumenico. Come forma del principio di ragione sufficiente, la legge di motivazione non si sottrae alla generale necessità che regola i fenomeni nel mondo della rappresentazione: ogni azione può essere spiegata in base al carattere empirico dell'individuo, all'azione sulla volontà esercitata dagli stimoli sensibili, dalle circostanze, dai motivi o scopi soggettivi ecc. così da apparire come un agire necessitato e non libero. Ma poiché ciò che la volontà è in se stessa non si rivela mai completamente nel mondo fenomenico (cioè nei singoli atti), la libertà non è affatto esclusa in rapporto a quello che viene detto il carattere intelligibile (noumenico) dell'uomo. L'uomo è cioè libero rispetto alla scelta fondamentale del proprio carattere e destino, mentre è condizionato in rapporto al modo in cui esso si esplica nei singoli atti del volere.

Le quattro forme del principio di ragione sufficiente, che corrispondono alle quattro classi di rappresentazioni che abbiamo descritto, forniscono la spiegazione di ciò che il mondo è in quanto rappresentazione, ma non consentono un accesso alla cosa in sé (in questa conclusione l'autore concorda col risultato negativo della Critica della ragion pura). Tuttavia l'esigenza metafisica di una spiegazione totale della realtà non può essere soddisfatta da questa risposta. Tale esigenza, del resto, trapelava già nella spiegazione del mondo come rappresentazione: nella analisi sulla libertà del volere a proposito della quarta classe di oggetti. Potrà essa trovare una risposta positiva, al di là dei limiti del kantismo? Esiste un'altra via di accesso alla cosa in sé diversa da quella (di tipo trascendente) proposta da Kant nella sua seconda Critica, con i postulati della ragione pratica?

 

la metafisica dell'esperienza di schopenhauer

 

Componendo Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer intende elaborare una metafisica che sappia fornire appunto una risposta a questa domanda. Egli non ripete, nell'opera maggiore, le dottrine contenute nella Quadruplice, ma le presenta come indispensabile introduzione propedeutica al Mondo. Qui non si tratta di edificare una "classica" metafisica della trascendenza, ma una metafisica dell'immanenza: secondo una direzione che solo l'analisi trascendentale kantiana ha per la prima volta

reso possibile. «La mia metafisica - scrive - non va, di fatto, al di là dell'esperienza, ma presenta soltanto la vera comprensione di quel mondo che esiste in essa». Una metafisica dell'esperienza non può essere «una scienza di meri concetti» ovvero «un sistema di deduzioni da principi a priori» (secondo le definizioni della Critica della ragion pura). ma un sapere concreto, «attinto dall'intuizione del mondo esterno e reale, nonché dall'orizzonte che, su tale mondo, ci ha dischiuso la realtà interiore dell'autocoscienza».

Il principale merito di Kant sta nella distinzione tra fenomeno e cosa in sé, che ha posto una barriera critica invalicabile tra il conoscere obiettivo - perché empirico - e il pensare meramente soggettivo e arbitrario delle speculazioni trascendenti - Dio, l'immortalità dell'anima ecc. -. L'errore di Kant, invece, è stato di ritenere che con ciò fosse definitivamente preclusa la via alla conoscenza della cosa in sé, ossia a una filosofia che non si esaurisca nell'analisi trascendentale della possibilità del conoscere, ma pervenga a una conoscenza effettiva del mondo. Schopenhauer crede di aver trovato una via di accesso alla cosa in sé - che egli identifica con la volontàe ritiene perciò possibile edificare, su basi kantiane, una nuova metafisica.

 

il mondo come rappresentazione e come volontà

 

Schopenhauer prende le mosse dalla distinzione fra il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà. Finché l'orientamento del soggetto, nel conoscere, è rivolto verso l'esterno, verso l'oggettività conoscitiva, l'unica affermazione cui il filosofo possa riconoscere valore di verità è «il mondo è la mia rappresentazione». Come la trattazione sul principio di ragione ha sufficientemente dimostrato, il soggetto conferisce validità al mondo oggettivo applicandogli le forme a priori della sensibilità e dell'intelletto: spazio, tempo, causa. Ciò che in tal modo viene conosciuto non è la realtà in se stessa, ma il suo fenomeno: il mondo, retto da nessi causali necessari, proprio dell'esperienza comune e della scienza.

Schopenhauer accetta il principio dell'antico idealismo, secondo cui il mondo che cade sotto i sensi non è il mondo vero, ma è solo un'immagine ingannevole, apparenza, sogno, illusione. Su questa affermazione concordano poeti come Pindaro: «L'uomo è il sogno di un'ombra» (Pitiche, VIII, XVIII), filosofi cOlpe Platone, o l'antica saggezza religiosa dell'India consegnata nei Veda: «E maya, il velo dell'illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista; il mondo infatti è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure ad una corda buttata per terra ch'egli prende per un serpente». Questo genuino principio idealistico, che considera illusoria ogni rappresentazione sensibile del mondo, era stato ripreso, in epoca moderna, da Berkeley, per il quale l'essere si risolve nell'essere percepito, e posto da Kant a fondamento di una visione finalmente critica del conoscere.

Ma Kant non ha considerato il fatto che questa riduzione del mondo a mero fenomeno conoscitivo (condizione peraltro indispensabile per la fondazione di una visione scientifica obiettiva) è resa possibile solo da un atto di astrazione, che esclude, come inessenziale al conoscere, una dimensione pur fondamentale della nostra esperienza del mondo: la volontà. Se rivolgiamo lo sguardo non all'esterno, verso le cose, ma all'interno, nell'autocoscienza, ci si rivela un'altra dimensione del mondo e una diversa verità, che suona: «il mondo è la mia volontà». Si può dire che Schopenhauer ha qui genialmente sostituito al kantiano "io penso", condizione trascendentale della conoscenza di oggetti, l"'io voglio", ricavato dall'autocoscienza degli atti volontari, come condizione di pensabilità del soggetto e della stessa cosa in sé. Finché l'essenza metafisica della realtà, la cosa in sé appunto, veniva ricercata dal lato degli oggetti o delle cose, essa sembrava sfuggire, celandosi dietro il fenomeno. Ma in questo modo non si considera che il soggetto, l'individuo umano conoscente, è esso stesso una "cosa in sé" e ha accesso direttamente al proprio essere nell'autocoscienza. È questa la via d'accesso, ignorata da Kant, alla cosa in sé, la cui essenza, poi, viene individuata da Schopenhauer nella volontà che anima l"'io voglio" dell'uomo.

La nozione che consente di gettare un ponte tra il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà è quella di corpo. Il corpo - sede degli organi sensitivi e del cervello, organo della conoscenza intellettiva - può essere riguardato da opposte prospettive. Come oggetto tra gli oggetti, corpo tra i corpi, esso non è altro che "fenomeno". Rispetto agli altri corpi, che vengono conosciuti attraverso l'azione causale da essi esercitata sugli organi di senso (quindi in forma mediata), il corpo proprio ha il relativo privilegio di costituire per il soggetto l'oggetto primo e immediato, ma resta pur sempre una rappresentazione. Ma il corpo è conosciuto in tutt'altra maniera nell'autocoscienza. E sufficiente l'affermazione "io voglio" e subito questo atto del soggetto si traduce in un movimento del corpo! Il movimento corporeo, anzi, non segue propriamente all'atto di volontà, concepito come un atto di decisione intellettuale da esso distinto, come pensa l'intellettualismo, ma coincide con questo atto stesso, è la sua manifestazione obiettiva. Che cosa sia in se stessa la volontà rimane un mistero, togliere quest'ultimo "velo" alla verità equivarrebbe a voler conoscere che cosa sia in sé il soggetto: ossia conoscerlo non in quanto soggetto, ma come oggetto, il che è assurdo; ma come si manifesti oggettivamente la volontà, che si identifica come abbiamo notato con la cosa in sé, è qualcosa che può essere conosciuto in via immediata, nell'esperienza interna dell'autocoscienza.

 

i gradi di oggettivazione della volontà

 

Pervenuto all'identificazione della cosa in sé con la volontà, Schopenhauer procede all'applicazione, in via analogica, di questa intuizione originaria a tutti gli aspetti della realtà. Il mondo è studiato dalla scienza della natura in maniera eziologica: ricercando cioè le cause del mutamento nei fenomeni; ma la spiegazione scientifica si deve arrestare davanti all'ammissione di forze (quali per esempio la forza di gravità) che in se stesse rimangono incognite, e di cui ci si limita a constatare le manifestazioni nel mondo fenomenico. Nella ammissione di forze che sfuggono alla spiegazione scientifica e che non vanno quindi scambiate con le cause, ovvero con le loro manifestazioni empiriche nei fenomeni, la scienza sembra dover riammettere l'esistenza di qualitates occultae nella natura. La spiegazione scientifica, per non cadere nel dogmatismo o nell'irrazionale, deve perciò aprirsi alla considerazione filosofica.

Una metafisica della natura - quale si può svolgere a partire dall'identificazione della cosa in sé con la volontà - può anzi completare e integrare razionalmente i risultati della scienza. Una simile metafisica empirica assume come ipotesi direttiva quella che le forze presenti in natura siano, nella loro essenza, identiche alla volontà, che ci è direttamente nota nell'autocoscienza.

Schopenhauer non pretende affatto di sostituire alla spiegazione causale propria della scienza un finalismo ricavato dalla considerazione unilaterale del mondo umano: la pietra che cade per effetto della gravità non tende verso il basso in seguito a un moto volontario del tipo di quello che sperimento nel mio corpo! Quella che egli difende è piuttosto la plausibilità scientifica di una spiegazione di tipo analogico, che consenta di assimilare, per gradi, i fenomeni del mondo inorganico a quelli del mondo organico e animale, avvicinando progressivamente il tipo di spiegazione valido nella prima classe di oggetti a quello che vige nella quarta classe.

Considerata nella sua essenza metafisica la natura si rivela un unico, complesso e stratificato fenomeno della volontà. Benché non giungiamo mai a conoscerla in toto, dobbiamo supporre che la volontà sia in sé unica e identica in tutti i fenomeni.

La molteplicità risulta infatti dall'applicazione al mondo delle forme del principio di ragione sufficiente: spazio, tempo, materia e quindi corporeità, individuazione - il corpo è per Schopenhauer il principium individuationis in senso metafisico -, finitezza. A mediare tra l'assoluta e inconoscibile unità della volontà e la molteplicità dispersa delle sue manifestazioni fenomeniche - i singoli corpi - stanno, come gradi intermedi che consentono l'oggettivazione della volontà, le idee.

Esse sono, nell'accezione platonica del termine, gli archetipi o i modelli cui la volontà, per così dire, si ispira nel suo manifestarsi fenomenico (Schopenhauer le chiama per questo oggettità della volontà). Le forze naturali sono assimilabili a idee: come le idee mantengono intatta la propria unità, pur esplicandosi in molteplici modi nel mondo fenomenico. La legge naturale non è che la mediazione tra l'idea e il fenomeno: essa determina l'esplicazione necessaria e infallibile della forza, in relazione alle condizioni causali che si verificano nell'esperienza.

La natura inorganica, quella organica, il mondo vegetale, animale e, infine, l'uomo costituiscono i gradi successivi e ascendenti di oggettivazione della volontà. Considerata sotto questa prospettiva unitaria la natura perde il suo apparente determinismo, per rivelare all'opera un più profondo teleologismo: ritornano, in un certo senso, i problemi della kantiana Critica del giudizio. Tuttavia nulla è più lontano dalle intenzioni di Schopenhauer di una prospettiva di armonia metafisica intesa nel senso dell'armonia prestabilita di Leibniz.

Nel suo modo di manifestarsi la volontà si presenta, ai suoi occhi, come lacerata da un'insuperabile conflittualità. La natura, a tutti i livelli, mostra uno spettacolo desolante di lotta e sopraffazione, di miseria e dolore. Le forze naturali lottano per contendersi il limitato spazio della materia. Le forme viventi sembrano avere come condizione necessaria della loro sopravvivenza la morte e la soppressione di altre forme viventi. È come se la volontà, per affermarsi, divorasse continuamente le proprie stesse oggettivazioni come Saturno i suoi figli; come se la volontà fosse in perenne lotta con se stessa.

Sollevato il velo della maya dei sensi ingannatori, ciò che si rivela allo sguardo, dietro l'apparenza razionale del fenomeno, cioè del mondo come rappresentazione, è lo spettacolo di una volontà cieca e irrazionale, che non si propone altro scopo che la propria autoaffermazione. La volontà vuole se stessa: è una volontà di vivere cieca e astuta, che sfrutta ogni occasione per affermarsi, senza avere di mira uno scopo razionale.

E questo, per Schopenhauer, il volto vero e demoniaco del mondo, il mondo come volontà.

 

dalla metafisica alla morale: servitù dell'intelletto e liberazione estetica

 

Le ultime considerazioni ci fanno toccare finalmente il cuore della dottrina del Mondo come volontà e rappresentazione: l'identificazione di metafisica ed etica. Schopenhauer intende contrapporsi al tradizionale dualismo di filosofia teoretica e pratica che egli considera una derivazione del dualismo di anima e corpo, di ascendenze ebraico-cristiane. Egli intende, infatti, edificare una filosofia che sia «etica e metafisica in uno", come si legge in un inedito frammento giovanile. Come in metafisica, anche nella morale egli si attiene al metodo della immanenza, che consiste nel descrivere e interpretare come di fatto si attui la condotta umana, anziché prescrivere come essa dovrebbe svolgersi, sulla base di vuote speculazioni trascendenti. Del resto sarebbe una pazzia «aspettarsi che i nostri sistemi di morale formino i virtuosi, i nobili e i santi, o che le dottrine dell'estetica formino i poeti, gli scultori e i musicisti». La virtù, come il genio artistico, non si insegna e quelli che, come Kant, vogliono prescrivere al mondo un "dovere incondizionato", cadono in una pretesa assurda: «è una contraddizione palese: chiamare libera la volontà, e tuttavia prescriverle delle leggi, secondo cui debba volere; "dover volere", come chi dicesse: ferro di legno!». L'etica di Schopenhauer è dunque tutt'uno con la sua filosofia teoretica e si concentra nella risposta a un unico problema: quello della libertà del volere. Qual è l'essenza della volontà? E essa libera di volere ciò che vuole? Che posto occupa l'uomo in rapporto alla volontà metafisica? Per affrontare tali domande occorre preliminarmente chiarire qual è, in generale, il rapporto tra intelletto e volontà.

I primi due libri del Mondo - contenenti il primo, una gnoseologia; il secondo, una metafisica - sviluppano una teoria della immancabile seroitù dell'intelletto alla volontà. La volontà è concepita come un'essenza metafisica, unica e identica in tutte le sue manifestazioni fenomeniche. Essa è al di là dei modi della nostra comprensione intellettuale (le forme del principio di ragione sufficiente) e, come tale, senza scopi né fini, quindi irrazionale. La sua oggettivazione necessaria sono i singoli modi finiti in cui essa si esplica nello spazio e nel tempo: i singoli corpi e organismi che si sviluppano, secondo una scala ascendente, dalla natura inorganica all'uomo. Nell'uomo si presenta per la prima volta il fenomeno della coscienza, la quale è peraltro legata al funzionamento di un organo corporeo: il cervello. Anche la coscienza è dunque un fenomeno della volontà; essa comprende l'intelletto, ossia la capacità di intuire il nesso causale tra fenomeni, che l'uomo condivide con tutti gli animali superiori, e la ragione, ossia la capacità del pensiero astratto, che è una prerogativa esclusiva dell'uomo. Schopenhauer ribadisce con insistenza, anche in polemica con Hegel, questa teoria della coscienza come "epifenomeno del cervello", che differenzia nettamente il suo idealismo da ogni versione di spiritualismo. Ne risulta la teoria dell'intelletto al servizio della volontà, che rovescia l'antica dottrina dell'intellettualismo.

Non è la volontà ad attuare, nella volizione, gli scopi razionali dell'intelletto; ma è quest'ultimo a offrire alla volontà, che ne muove, per così dire, i fili, i motivi affinché essa possa attuare consapevolmente, ossia "razionalmente", ciò che già vuole inconsciamente e irresistibilmente. Se tale dottrina fosse l'unica insegnata dal Mondo, non si vede in che modo, da una metafisica cosiffatta, Schopenhauer possa derivare un'etica della libertà. Ma nel terzo e quarto libro - che contengono, rispettivamente, un'estetica e un'etica - l'autore arricchisce questo pensiero fondamentale di valenze nuove e inaspettate.

L'estetica di Schopenhauer rappresenta un ampliamento della sua gnoseologia. L'arte è infatti una forma di conoscenza: quella che si riassume nella nozione di genio. La conoscenza dell'uomo comune si serve di nozioni intuitive, cioè tratte dai sensi e dall'intelletto, e astratte, i concetti della ragione. Essa si muove nei limiti del fenomeno ed è al servizio della volontà: è cioè una conoscenza eminentemente "utilitaria". Al contrario, quella del genio o dell'artista è una conoscenza rivolta all'idea. Si tratta di una forma superiore di intuizione, perché le idee, a differenza dei concetti, sono intuitive e non astratte, che oltrepassa i limiti del fenomeno per cogliere l'oggettività immediata della volontà.

All'arte Schopenhauer assegna una funzione direttamente metafisica: quella di esprimere l'aspetto profondo della realtà come volontà, oltre il fenomeno. Nelle sue diverse forme - dall'architettura alle arti figurative, alla poesia lirica, da questa al dramma e alla tragedia, fino alla musica -l'arte non fa che esprimere un unico contenuto: la volontà, dai gradi inferiori di oggettivazione nella materia, fino a quelli più elevati nell'uomo e nella coscienza. Che tipo di atteggiamento conoscitivo realizza l'arte? Un atteggiamento puramente contemplativo, in cui il soggetto diventa «puro soggetto conoscente e limpido occhio del mondo», emancipandosi cioè dalle forme del principio di ragione sufficiente e dal servizio alla volontà. Schopenhauer riprende da Kant la definizione del bello come l'oggetto di un piacere disinteressato, caricandolo però di valenze metafisiche. Tanto l'artista, nel momento della creazione, quanto lo spettatore, in quello della fruizione estetica, si pongono di fronte al mondo come a una rappresentazione pura della volontà, distaccando per un momento la considerazione obiettiva del fenomeno da qualsiasi riferimento utilitario all'io.

L'arte è una forma di conoscenza perfino superiore a quella scientifica: essa sola è infatti capace di cogliere l'oggetto in sé, fuori dalle sue relazioni col resto del mondo fenomenico, ponendosi d'un balzo al di là della conoscenza legata al principio di ragione sufficiente. Insieme con il rapporto con l'oggetto (dal fenomeno all'idea) si modifica anche il ruolo del soggetto, che da coscienza empirica, legata al principium individuationis del corpo, si eleva a soggetto puro e universale, sottratto alle condizioni dello spazio e del tempo, non più sottomesso alla volontà, ma con essa coincidente.

L'arte rivela cioè la possibilità di una, almeno momentanea, emancipazione dell'intelletto dal servizio alla volontà e sembra offrire una risposta qualitativamente diversa all'enigma stesso della volontà. E come se, nel sereno mondo dell'arte, in cui tacciono il bisogno e il dolore connessi con la volontà di vivere, il volere deponesse il proprio tendere oscuro e cieco per assumere un volto innocente e razionale. E come se il mondo esistesse al solo scopo di fornire alla volontà uno specchio in cui rivelarsi e prendere coscienza di sé. Questa catarsi estetica della volontà - che, tra le arti, realizzano soprattutto la tragedia e la musica - ci predispone a una rinnovata considerazione del rapporto tra volontà e intelletto, che riguarda ora direttamente l'etica.

 

il problema della libertà e della liberazione dalla volontà

 

Quella del Mondo è un'etica della liberazione. Il concetto di libertà, infatti, è un concetto negativo, in quanto significa semplicemente «negazione della necessità, negazione della relazione di causa ed effetto». In polemica con la concezione tradizionale di un libero arbitrio della volontà, Schopenhauer fa sua la distinzione kantiana tra il piano empirico o fenomenico dell'azione, che è sempre determinata, e quello noumenico della volontà in sé libera. Ma in Kant la volontà è libera in quanto coincide con la ragione. Essa è libera nel senso che, obbedendo alla legge della ragione, che si esprime nella forma del dovere, obbedisce solo a se stessa, è cioè autonoma. Schopenhauer invece restringe l'ambito della ragione (principio di ragione sufficiente) al fenomeno e concepisce la volontà come qualcosa di irrazionale. Perciò la libertà non può essere definita positivamente, ma solo negativamente, come assenza di necessità.

L'uomo, propriamente, non è libero, ma si libera, superando via via i condizionamenti del mondo fenomenico e approfondendo il senso della propria appartenenza al mondo noumenico, della propria identità essenziale con la volontà metafisica. Abbiamo visto una prima applicazione di questo concetto in ambito estetico. L'arte è liberazione, in quanto consente di sospendere il rapporto utilitario nel conoscere e di instaurare una relazione di perfetta coincidenza tra soggetto e oggetto, tra volontà e fenomeno. Ma solo la moralità rende definitiva tale conquista, superando la sporadicità e la eccezionalità dell'esperienza estetica e instaurando nel soggetto uno stabile habitus morale.

L'azione morale consiste nella scelta libera del proprio carattere intelligibile, ossia nella scelta etica fondamentale, che decide una volta per tutte il valore delle nostre azioni successive, che saranno, comunque, empiricamente determinate. L'uomo è libero solo identificandosi con la volontà metafisica; ma questa volontà è pura volontà di vivere: volontà è infatti sinonimo di vita. L'alternativa etica fondamentale sarà allora quella tra affermazione o negazione della volontà di vivere. Due sono i comportamenti etici possibili: quello di chi, avendo compreso che il mondo è solo fenomeno e che l'unica realtà è la volontà, accetta di identificarsi attivamente con essa, vuole consapevolmente ciò che prima la volontà, in lui, voleva inconsciamente, in una parola: afferma la vita. Un tale uomo, «che ami la vita qual è, che l'affermi con tutta la sua potenza, può senza scrupolo ritenerla come infinita, bandire il timore della morte come un 'illusione suscitata in lui dall'insensato orrore di poter perdere un giorno il possesso del presente». A questa scelta, di chi afferma la vita, se ne contrappone un'altra: quella dell'asceta che rinuncia alla vita, che nega in se stesso la volontà. L'asceta è colui il quale, avendo compreso che l'essenza del mondo è la volontà, ha orrore della realtà di dolore e di miseria che tale identificazione necessariamente porta con sé e, pur continuando a vivere - il suicidio non è una soluzione perché la volontà di vivere è immortale e non è annullata da un gesto che ne tocca solo il fenomeno -, sospende liberamente il suo assenso alla volontà. Quale dei due atteggiamenti è quello eticamente preferibile? Schopenhauer rifiuta - coerentemente con il ripudio di ogni morale prescrittiva - una risposta aprioristica. Essa dovrà scaturire da una considerazione puramente razionale circa l'essenza della volontà.

Come abbiamo visto, la volontà si presenta, nel mondo fenomenico, in lotta con se stessa. La vita è un processo di continua creazione e distruzione; essa ha, come condizione del proprio perpetuarsi, il suo contrario: la morte e la distruzione di altri esseri viventi. La sofferenza muta del mondo vegetale e quella inconsapevole del mondo animale giunge solo nell'uomo alla presa di coscienza della verità fondamentale, che «ogni vivere è per essenza un soffrire». L'uomo tende al piacere, ma questo stimolo ha per condizione uno stato di bisogno e quindi di dolore. La vita, anche considerata da un punto di vista strettamente "utilitaristico", si rivela come un affare in perdita, come una perpetua oscillazione tra i due estremi del dolore e della noia (che subentra alla momentanea soddisfazione del bisogno), che si conclude con la catastrofe finale della morte. L'uomo che si elevi, con la ragione, a questa consapevolezza si domanderà che cosa sia meglio per la vita, che cosa possa assicurare l'eliminazione non solo provvisoria, ma definitiva, del dolore. Affermare la vita o negarla? Volere la volontà, usando la conoscenza come un motivo per vivere, o negarla, usando la conoscenza come un quietivo della volontà di vita?

Posto di fronte a questa domanda l'individuo potrà trovare la soluzione dell'ascetismo (nonostante le apparenze) come quella razionalmente preferibile. L'ascetismo si traduce per Schopenhauer in una morale della compassione. Essa consiste nell'abolire ogni distinzione tra l'io e l'altro, nella capacità di patire-con-l'altro (nel significato etimologico di com-passione), giungendo a respingere l'egoismo in quanto forma tipica di cui si serve la volontà di vivere per attuare i suoi scopi.

Vi sono gradi diversi nell'ascesi, che Schopenhauer intende come un'ascesi inframondana, anche se cita per esempio pratiche ascetiche di tipo religioso, dalla castità, alla povertà volontaria, all'autoabnegazione, al sacrificio eroico di sé. La castità è il primo e indispensabile gradino dell'ascesi, in quanto rappresenta la scelta, per l'individuo, di liberarsi dalla subordinazione alla volontà della specie che utilizza le lusinghe dell'amore per uno scopo interessato: garantire la propria sopravvivenza, sia pure a costo del dolore e dell'infelicità dei singoli. Essa, non il suicidio,rappresenta il vero scacco nei confronti della volontà di vivere. Ogni forma di ascesi non ha tanto valore di per sé, quanto piuttosto esprime una sorta di "esperimento metafisico": essa ci pone di fronte allo spettacolo di una volontà che, sopprimendo se stessa, «provoca un antagonismo del fenomeno con se stesso fino a creare lo stato di santità». Non è possibile definire in positivo il termine dell'ascesi, che non ha in ogni caso di mira l'annullamento nichilistico dell'uomo e dei suoi valori, quanto piuttosto la loro trasformazione. Schopenhauer può solo esprimerlo in negativo, col termine di noluntas: che sta a indicare la condizione della volontà liberata, non più cieca volontà di vivere, ma sua catarsi definitiva, non più, propriamente, "volontà", ma "non volontà".