S T U P I D O    M O N D O    P E R F E T T O

 

 

 

 

 

 

UNO

 

            Come mi accadeva quasi sempre, ero appena in tempo per la lezione di Scarsità.

            Non era un vero corso con i voti e roba simile, per cui solo i secchioni più patetici s'impegnavano davvero. Il resto di noi si limitava a presentarsi a lezione e a cercare di non addormentarsi. Nessuno, naturalmente, voleva essere bocciato, perché avrebbe voluto dire ripetere il corso: un altro lungo semestre a studiare tutta quella gente dei tempi andati che moriva di fame e si ammalava. Almeno il corso regolare di Storia aveva le guerre, Scarsità era soltanto triste.

            Quindi quando entrai e vidi quello che il signor Solomon aveva scritto sulla lavagna antica, emisi un sonoro gemito.

 

OGGI: PRESENTAZIONE DELLE PROPOSTE

PER IL PROGETTO FINALE

 

            "Hai dimenticato qualcosa, Kieran?". Era Maria Borsotti dal banco vicino al mio, con il suo quaderno d'antiquariato davanti, pronta a scribacchiarci sopra.

            "Non è per niente giusto", dissi lasciandomi cadere sulla sedia. I compito dovevano apparire automaticamente nello spazio mentale, in teoria. Invece, una delle regole di Scarsità era che tutta la sacrosanta tecnologia doveva essere disattivata. Come i nostri tristi antenati malati, dovevamo fare affidamento sul nostro cervello, o, come Maria Borsotti, scarabocchiare geroglifici su polpa di legno morta.

            Imparare a scrivere a mano? Per un esame di idoneità? Che secchiona.

            Avevo pensato di prendere un appunto per ricordarmelo. Il progetto era "chi prima arriva meglio si flagella" (l'umorismo a lezione di Scarsità era esilarante), quindi la maggior parte di noi se l'era subito appuntato sullo spazio mentale alla fine della lezione del venerdì, correndo a cercare le malattie più facili prima che gli altri se le aggiudicassero.

            Dovevamo "incarnare" una qualche forma sfigata dell'antichità e passare le successive due settimane a essere ciechi o altro. Questo avrebbe dovuto insegnarci il modo in cui andavano davvero le cose nel passato, come se starsene seduti durante un'ora intera di Scarsità ogni giorno non fosse abbastanza deprimente.

            Ma ero stato distratto da Barefoot Tillman, che dopo la lezione era venuta a chiedermi aiuto epr una gita in campeggio nell'Antartico. E' difficile dire di no a Barefoot: è alta quasi due metri ed è la ragazza più bella della scuola. Dopo aver parlato con lei di tute termiche e pinguini, mi ero teletrasportato dritto nel mio corso facoltativo di arrampicata sulle Alpi. Così era iniziato un intenso fine settimana senza pestilenze, guerra o ristrettezze: shopping con mamma sulla luna, al lavoro nel mio spazio menale per migliorare la mia lingua antica (al corso di recitazione stavamo facendo l'Amleto) e tutta la domenica passata a costruire il mio habitat al Polo Sud per il corso di Ingegneria Avanzata. L'unica volta in cui Scarsità aveva fatto capolino nella mia mente con la sua testolina malata era stato quando io e il mio amico Sho ci stavamo sparando la simulazione di una battaglia e io avevo detto: "Caspita, ne moriva di gente a quei tempi!". Ma poi un aeroplano mi stava bombardando, per cui ero di nuovo stato distratto.

            E così era arrivato il lunedì, troppo tardi per qualsiasi ricerca. Quando si diede il via alla lezione, lo spazio mentale svanì: la mia agenda, i punteggi del campionato di zerogravità, persino l'orologio, tutto sparito. Il mondo assunse quello strano, piatto aspetto da Scarsità: un unico livello visivo, nient'altro davanti a me se non il sorriso compiaciuto di Maria Borsotti.

            "Povero Kieran", disse.

            "Aiutami", le mormorai.

            Distolse lo sguardo: ", forse ho un paio di idee di riserva…".

            Il signor Solomon iniziò schiarendosi la voce. Disse che era così che una volta si attirava l'attenzione della gente, perché stavano tutti sempre male.

            "Bene, ragazzi, spero che siate pronti per un'esperienza sconvolgente".

            Lamenti sommessi risuonarono per la classe.

            Solomon alzò una mano per metterci a tacere. " 'Prospettiva' è la parola d'ordine delle prossime due settimane. Questo progetto non deve spaventarvi. Anzi, meglio capirete come andavano le cose, più felici sarete delle vostre vite oggi".

            Ed era questo il unto delle lezioni di Scarsità: renderci tutti una massa di piccoli secchioni grati che non si lamentavano mai – nemmeno delle cose davvero fastidiose, come, per dire, la lezione di Scarsità.

            Maria si avvicinò a me e sussurrò: "Oh, peccato. Non trovo i miei appunti. Ma il signor Solomon ha detto che aveva un paio di idee di riserva".

            Deglutii. Il nostro insegnante aveva minacciato di assegnare un progetto davvero da incubo a chi non si fosse presentato con un'idea propria. La peste bubbonica, forse. O il piede d'atleta, che suonava come una cosa buona e invece non lo era. Mi sentii come uno di quei ragazzini sfigati che non trovano un compagno per la lezione di ginnastica e devono fare giri di campo invece di giocare a zerogravità.

            "Chi vuol cominciare?", chiese Solomon.

            Si alzarono diverse mani, tutte impazienti di aggiudicarsi il proprio progetto. Io me ne stato seduto pietrificato e il mio cervello, senza supporti tecnologici, cercava disperatamente una soluzione. Solomon chiamò Barefoot per prima.

            "Posso fare il comune raffreddore?", domandò.

            La fissai. Era colpa sua se mi ero dimenticato questo compito, e lei stava scegliendo il raffreddore? Dopo tutte le carestie e le pandemie che avevamo studiato durante il semestre? Persino ai giorni nostri capitava che qualcuno si raffreddasse. Come giù al Polo, la mia tuta termica era sempre ghiacciata quando la indossavo al mattino. Decisamente spiacevole. E "comune raffreddore" suonava parecchio più sfigato di"freddo da Polo Sud".

            Sul volto del signor Solomon si stava allargando un sorriso. "E' sicura di voler provare qualcosa di così… sgradevole?".

            La cosa sembrò cogliere Barefoot di sorpresa e capii dal sorriso di Maria che lei aveva già fatto ricerche su questo "comune raffreddore": se una secchiona come Maria voleva evitarlo, Barefoot era in guai grossi.

            "Ce la posso fare", disse bluffando. I pollici le si agitavano in comandi inconsci per lo spazio mentale, nel tentativo di fare ricerche più approfondite. Conoscendola, non era andata oltre il nome. E' quel tipo di lavoro sbadato su cui Scarsità dovrebbe insegnarti a non fare affidamento, perché la gente moriva di sbadataggine.

            Naturalmente, Barefoot ancora mi surclassava.

            "Bene allora", disse Solomon, "il raffreddore è tutto suo, signorina Tillman. Buon divertimento".

            Si alzarono altre mani.

            Lo sguardo di Solomon vagò a caso sulla classe. Questa storia di alzare la mano era un'altra rinuncia tecnologica che rendeva la Scarsità così frustrante. Bisognava aspettare il proprio turno invece di dibattere su diversi livelli audio o scrivere su un unico argomento. Non c'era  da meravigliarsi se una volta la gente litigava di continuo: discutere su qualcosa di complicato con un unico livello audio  era come tentare di succhiare catrame con una cannuccia.

            Lao Wrigley aveva la mano alzata più in alto di tutti.

            "Vorrei provare il trasporto fisico. Niente teletrasporto". Scosse i capelli. "Mio padre comunque mi porterebbe a scuola in aereo".

            "Che gruppetto ambizioso abbiamo qui", disse Solomon, mentre il giubilo sadico sul suo volto mi faceva contrarre lo stomaco. "Ma che ne sarà delle lezioni che ha su altri continenti?".

            Lao scorse i fogli che teneva in mano con aria compiaciuta. Non ea una secchiona ai livelli di Maria Borsotti, ma prima della lezione si annotava sempre gli appunti dallo spazio mentale alla polpa di legno.

            "Be', le mie lezioni in Asia sono tutte su spazio mentale questo semestre, quindi non devo teletrasportarmi. Il mio corso facoltativo di immersioni è giù alle Bahamas, ma c'è un traghetto merci che fa due viaggi al giorno e hanno ancora qualche vecchio posto per i passeggeri".

            Il signor Solomon annuì. "Ricerca eccellente, Lao, ma credo che si accorgerà che le navi sono incredibilmente lente. Sa quanto tempo occorre?".

            Lao annuì con gravità. "Due ore intere, signor Solomon. Ma se ce la facevano i nostri antenati, posso farcela anch'io".

            "E che sarà della sua vita sociale, signorina Wrigley? Questo significa niente feste sulla luna per due settimane".

            Conservando la sua espressione seria, Lao incrociò le braccia. "Be', Scarsità non avrebbe molto senso se non si dovesse rinunciare a qualcosa".

            Alzai gli occhi al cielo: come se Lao Wrigley avesse una vita sociale planetaria. Persino Maria inarcò un sopracciglio e fu il corrispettivo di un messaggio su spazio mentale. (Questa era l'unica cosa fica di Scarsità: ti faceva notar quanto riuscivi a comunicare usando soltanto la faccia). Riuscimmo a non scoppiare a ridere.

            Solomon annuì e iniziò a cercare la vittima successiva.

            Adesso la mia testa stava proprio correndo. Non mi era venuto in mente che avrei potuto rinunciare al teletrasporto. Mi ero concentrato sui classici: malattie, fame, o un arto paralizzato. Forse una rinuncia tecnologica era meno pericolosa di un batterio che dilagava incontrollato nel mio corpo.

            Tentai di ricordare tutte le seccature dell'antichità. Niente teletrasporto (preso). Niente spazio mentale (sì, ciao). Niente tute termiche (e morire congelato giù al Polo Sud?). Nessun livello di credito garantito (sarebbe a dire che avrei dovuto trovarmi un lavoro?). Tutte idee terrificanti.

            Credo che il punto di Scarsità fosse quello: era una fregatura in ogni caso.

            "Come va con le idee, Kieran?" sussurrò Maria

            Strinsi i denti, realizzando a malincuore che i miei antenati avevano dovuto penare un bel po' per non subire gli attacchi della fame, dei leoni e di germi occasionali che crescevano dentro di loro. Enormemente grato, antichi orsi preistorici, ma perché proprio io dovrei raccogliere il testimone di quel percorso?

            Però il pensiero dei leoni era effettivamente fico. Mi chiesi se fosse possibile proporre la predazione e farmi fabbricare da qualcuno una grossa bestia che m'inseguisse di tanto in tanto. Ma probabilmente darebbe fastidio alla mia insegnante di recitazione essere assalita da orsi delle caverne mentre proviamo Shakespeare.

            Mentre Solomon passava in rassegna i miei compagni uno per uno, il cappio si stringeva man mano che le mani si abbassavano.

            Il mio amico Sho si aggiudicò la fame, dicendo che sarebbe stato divertente diventare magro. In fondo, la sua biostruttura non l'avrebbe lasciato morire e la gente digiunava spesso per due settimane. Solomon approvò, ma gli fece promettere di bere molta acqua.

            Judy Watson scelse l'analfabetismo, il che significava che nello spazio mentale avrebbe potuto usare soltanto icone e comandi verbali. Era un ottimo stratagemma, considerato che per molti leggere si dimostrava comunque inutile. Tentai di escogitare una qualche variazione a quell'idea, ma non trovavo niente che funzionasse, e avevo bisogno di essere alfabetizzato per imparare le mie battute dell'Amleto.

            Molti preferirono le malattie: tumori o infezioni, persino alcuni parassiti. Dan Stratovaria scelse la cecità fluviale: i suoi occhi sarebbero stati divorati nelle successive due settimane. Solomon gli lasciò tenere del materiale visivo nello spazio mentale per fare i compiti, e Dan aveva comunque intenzione di farsi un paio d'occhi nuovi, quindi ecco un altro furbo.

            Le uniche malattie che ricordavo erano quelle con nomi buffi, tipo la tosse asinina. Ma non mi sembrava divertente raggiare come un asino per due settimane.

            "Sei carino quando sei nervoso", bisbigliò Maria.

            Lo sguardo di Solomon si spostò su di noi. "Maria e Kieran, di cosa state discutendo con tanto accanimento da quando è iniziata la lezione?".

            "Be', Kieran ha un'idea eccezionale, signor Solomon", disse Maria, e io trattenni l'istinto di darle un calcio.

            "Senza dubbio, Maria", disse "Ma sentiamo prima la sua".

            Maria si limitò a sorridere. "Vorrei sospendere i miei equilibratori ormonali".

            Solomon annuì calmo: evidentemente capiva il significato di quelle parole. "Un po' rischioso a sedici anni, non crede?".

            "Sarà divertente scoprire com'era l'adolescenza a quei tempi". Fece spallucce. "Appare talmente intensa, da quel che ho potuto leggere in proposito".

            "Lo è, in effetti. E allora via libra agli ormoni. E che mi dice della sua idea eccezionale, Kieran?".

            Ignorai l'espressione divertita di Maria. "Be', stavo pensando di provare qualcosa di… diverso".

            "Fantastico. E cioè?".

            E cioè? Cosa? Tentai di farmi venire in mente qualcosa che avrebbe potuto servirmi nelle arrampicate, tipo le vertigini. O qualcosa che potesse motivare le mie capacità nell'Antartico, come la possibilità del congelamento. O qualcosa che mi aiutasse a capire meglio l'Amleto, perché i tempi elisabettiano non furono affatto uno scherzo in quanto a scarsità…

            E, insieme a quel pensiero, William Shakespeare giunse in mio soccorso.

            "Il sonno", dissi.

            "Ah". Il signor Solomon giunse le dita, con aria compiaciuta. "Molto originale".

            "Naturalmente non intendo tonnellate di sonno", mi affrettai ad aggiungere. "Ma un po' ogni notte, come facevano una volta. Ehm, no?".

            "Be', non mi sembra il caso di imporle le otto ore", disse. "Le basterà raggiungere la fase REM".

            Annui, fingendo di avere una pallida idea di cosa significasse "REM", e intanto pensavo otto ore per notte? Come faceva la gente di una volta a concludere qualcosa? Io saltatola mia ora di riposo cerebrale quasi tutti i mesi.

            Un accenno di panico doveva essersi palesato sul mio viso, perché Solomon disse: "Credo che alcuni antenati dormissero soltanto tre o quattro ore per notte. Magari faccia qualche ricerca in proposito".

            Sorrisi timidamente, grato di essere sfuggito alla peste bubbonica.

 

 

 

 

 

DUE

 

            Kieran Black non era propriamente carino… niente di che.

            La sua mania di girovagare aveva un certo fascino, il modo in cui si teletrasportava  in classe direttamente dall'Antartico, con dei cristalli di ghiaccio pendenti dai capelli, le labbra appena screpolate dai venti ghiacciati. E quel giorno era stato sprovveduto in modo attraente, non capendo che bazzicare il Polo Sud era già una sorta di progetto di Scarsità. Insomma, chi se ne va in giro al freddo oggigiorno?

            Così, quando la lezione finì, decisi di avere pietà di lui.

            "Serve aiuto?", mi offrii. "Nel mio laboratorio di biologia abbiamo un criceto che dorme".

            Kieran ki guardò come se pensasse che lo stavo di nuovo provocando, ma poi annuì impercettibilmente. I nostri progetti sarebbero dovuti partire subito e credo che lui non sapesse da dove cominciare per riuscire a dormire.

            Sho Walters ci superò e diede una pacca sulle spalle di Kieran. "Progetto fico, amico. Starsene distesi a fare niente?.

            "Bello, eh?", rispose lui, ricambiando con un pugno. "Ma non è che dimenticarsi di mangiare sia tanto più difficile".

            "Ehi, a me piace mangiare!", gridò Sho, poi mi guardò in modo strano mentre sgusciava via lungo il corridoio.

            Alzai gli occhi al cielo, chiedendomi se questo programma di recupero non fosse inutile. Sho viveva secondo il principio chela scuola fosse stupida, la conoscenza sopravvalutata e lo sforzo da secchioni. Se Kieran era fatto allo stesso modo, non c'era di che atteggiarsi.

            Ma poi mormorò: "E a me non piace starmene senza far niente. Ho un habitat polare da costruire".

            Sorrisi. Un "habitat polare"? Forse questo ragazzo valeva uno sforzo.

            Mentre gli ultimi studenti si defilavano dalla classe, la faccia di Kieran assunse un'aria confusa. "Quindi, quando si dorme si fa questo? Starsene distesi a fare niente?".

            "E' quello che fa Mikey il criceto", dissi. "Respira e basta".

            "Già, ma è un criceto. La gente non si annoiava?".

            "Non puoi annoiarti se sei incosciente, scemo".

            "Ah, già, incosciente. Come quando subisci un grosso intervento chirurgico".

            "No, è come…", scossi la testa. "Kieran, non hai fatto nessuna ricerca, vero?".

            "In effetti no. HO avuto da fare tutto il fine settimana".

            "Come hai fatto a pensare al sonno, allora?".

            "Be', è nella tragedia che stiamo facendo. C'è questo principe schizzato che sta pensando al suicidio e dice che la morte non sarebbe poi così male, perché immagina sia come il sonno". Alzò le spalle. "Quindi ho pensato che non potesse essere chissà che rottura".

            "Hai letto l'Amleto?", dissi, perplessa. Che Kieran Black possedesse davvero profondità sconosciute? Certo, aveva appena chiamato il più grande personaggio della letteratura "questo principe schizzato", pero…

            "Già, so leggere", disse. "Non volevo scioccarti, Forse pensavi che passassi le giornate a correre dentro una piccola ruota".

            "Oh, sarebbe così carino".

            Alzò gli occhi al cielo, poi lanciò uno sguardo allo spazio mentale e sospirò. "Sarà meglio andare. Per le prossime due settimane sprecherò tre ore al giorno".

 

 

 

 

 

            Portai Kieran dritto alla mia classe di biologia, dove si trovavano sia un criceto, sia un impianto di riprogrammazione della biostruttura. Avevo già il programma che avrebbe interrotto i miei bilanciatori ormonali, quei piccoli congegni che ci tengono sempre calmi, controllati e noiosi.

            Angoscia adolescenziale, sto arrivando.

            Alcuni altri della classe di Scarsità erano già lì, in attesa della macchina, per spegnere le difese immunitarie e l'autoriparazione degli organi. L'androide della macchina ci stava mettendo una vita, controllando i moduli di permesso e facendo simulazioni per assicurarsi che nessuno alterasse la propria biostruttura in modo letale o illegale. E, naturalmente, Barefoot Tillman era riuscita ad essere la prima della fila.

            Kieran si diresse all'habitat di Mikey e guardò il suo corpicino palpitante. "Adesso sta dormendo?".

            Infilai un dito nel campo di confinamento e Mickey lo annusò.

            "No. Sta riposando. Vedi che gli occhietti sono aperti?"

            Kieran tese la mano con cautela e accarezzò la pelliccia del criceto. Mikey si mosse, poi si rimise comodo.

            "Ehi, ha appena chiuso gli occhi! Quindi adesso sta dormendo?".

            Sospirai. "Credo che ci vogliano più di due secondi, Kieran. Le vecchie storie raccontano che a volte la gente nemmeno riusciva a dormire, come se fosse tormentata da questioni emotive. Si chiama 'rigirarsi nel letto'".

            Alzò gli occhi verso di me. "Ma tu come fai a sapere tutta questa roba?".

            "Perché leggo i libri di storia, suppongo. E' straordinario come funzionavano le emozioni una volta. Avevano di continuo questi piccoli attacchi di follia temporanea". Guardai le sue dita scorrere sulla schiena di Mikey. "Il semplice incontro con una ragazza o un ragazzo carini li faceva diventare matti".

            "Succede ancora", disse. "Mi sono dimenticato del progetto perché Barefoot Tillman mi ha rivolto la parola".

            "Non è quello che intendevo", scattai. "Barefoot è solo attraente, non è affatto travolgente. ALl'epoca, era tutto un litigare urlando e piangere per ore. Strapparsi i capelli, Rigirarsi nel letto tutta la notte".

            Rise. "Sembra doloroso".

            "Ti capita mai di stare attento a lezione di Scarsità? Il dolore è una cosa buona. Ecco perché non l'abbiamo mai curato".

            "Ah, già. Il modo della natura di dire: "Togli la mano dal fuoco, babbeo!". Mentre parlava, Rierano allontanò piano le dita dal campo di confinamento.

            Sembrava che Mikey ora dormisse davvero. Immagino che Kieran avesse discrete doti da addestratore di criceti. Mi lasciai sfuggire un sorriso, mentre la mia irritazione per la faccenda di Barefoot Tillman si calmava.

            "E' per questo che vuoi quella roba degli ormoni?", domandò Kieran. "Per impazzire?".

            "Be'… non per impazzire del tutto. Ma non ti chiedi mai come sarebbe sentirsi come si sentivano una volta? Specialmente i nostri coetanei. Era più estremo, più… drammatico. Insomma, perché vai fino al Polo Sud per lottare con quel freddo gelido? Perché è una cosa intensa, giusto?".

            Kieran stava fissando il criceto che pisolava. "Già. Ma il freddo non mi fa uscire di testa".

            "E' comunque una cosa che non prova nessun altro. Non di questi tempi".

            "Penso di no". Fece spallucce e sorrise. "Non impazzire troppo, però,e non ti annegare, Maria. E non metterti a scrivere poesie".

            Fui costretta a ridere. "Non preoccuparti, cercherò di non diventare troppo Ofelia. A meno che non incontro un principe schizzato nelle prossime due settimane".

            La fila davanti alla macchina per la riprogrammazione della biostruttura si stava accorciando. La gente se ne andava a seguire le altre lezioni pomeridiane e alcuni ridacchiavano nervosi. Dan Stratovaria si stropicciava gli occhi, come se stesse cercando di percepire i vermi da tempo estinti che iniziavano a crescervi dentro.

            Anch'io ero un po' nervosa, ora che il mio momento di squilibrio ormonale era davvero a portata di mano. Le successive due settimane sarebbero state probabilmente difficoltose. Anche se la mia biostruttura mi avrebbe impedito di uccidermi, esisteva un serio pericolo di poesia…

            "Avanti, facciamo un po' di ricerca". Aprii lo spazio mentale e la stanza di biologia con l'habitat di Mikey sfumarono di fronte ai miei occhi. "Se non scopriamo come funziona il sonno, passerai la notte a rigirarti nel letto".

 

 

 

 

TRE

 

            Il primo problema era trovare il mobilio giusto.

            Arrivato a casa chiesi a papà se potevo sintetizzare un letto per la mia stanza. Lui assunse immediatamente un'espressione seria e volle che mi sedessi.

            "Sedici anni sono troppo pochi per avere un letto in camera tua, Kieran. Ti ricordi?, ne abbiamo parlato: una piccola modifica alla biostruttura può alleviare queste… sensazioni".

            Sbuffai. "Non è per quello, papà!".

            "Chi era la ragazza con cui eri ossessionato l'estate scorsa? Chrissy?"

            "Christine", dissi. "E questo non ha niente a che fare con le ragazze. E' per un progetto a scuola".

            Si mise a ridere troppo forte, in modo davvero seccante, battendosi addirittura la mano sulla coscia. "Ci hai provato, bello".

            "No, davvero. E' per Scarsità!". Iniziai a spiegare il mio progetto, ma come al solito il cervello di papà era spento. Non c'erano lezioni di Scarsità ai suoi tempi e non aveva mai capito perché mai m'impegnassi pr un corso senza voti.

            Quando ebbi finito di snocciolare la mia spiegazione, la sua espressione seria era tornata. "Allora, Kieran. C'è qualcuno di speciale di cui mi vuoi parlare?".

            Sbuffai di nuovo. Era inutile. Almeno mamma non c'era, o la cosa sarebbe stata imbarazzante il doppio. "Fai finta che non te abbia parlato".

            "Sei sicuro, figliolo? Sai che sono qui se hai bisogno di me".

            Alzai gli occhi al cielo e andai in camera mia.

 

 

 

 

 

            Verso mezzanotte ci provai sul serio.

            Un mucchio di giacconi non era male come letto. Era molto più comodo dell'arredamento che stavo costruendo con la neve. Sprofondai nelle fibre termiche, chiusi gli occhi e cercai di avvertire i mutamenti dentro di me.

            Erano passate otto ore da quando Maria aveva spento gli interruttori metabolici che tenevano sveglio il mio corpo ventiquattr'ore al giorno. Nelle due settimane seguenti, le mie cellule avrebbero scandito il tempo alla vecchia maniera: scomporre molecole complesse mentre ero sveglio, costruirne di nuove mentre dormivo. Non efficiente quanto fare entrambe le cose allo stesso tempo, ma niente che fossi costretto a controllare coscientemente. Pesino Mikey il criceto lo sapeva fare.

            Oscurai la stanza perché apparisse come l'esterno, di notte, poi mi distesi con gli occhi chiusi, in attesa di qualche cambiamento.

            Secondo lo spazio mentale, il sonno aveva cinque stadi. La fase uno non era granché: somigliava alla sensazione che si ha dopo una sessione di riposo cerebrale, quando tutto sembra confuso per qualche minuto. La fase due era esattamente come si vedeva nei vecchi film: incoscienza, simile ai postumi di un intervento chirurgico o a un colpo in testa. In pratica una perdita di tempo, però non potevi annoiarti, il che era un vantaggio.

            Non ero particolarmente ansioso di raggiungere la fase tre, che presentava strane interruzioni, tipo sonnambulismo, il parlare nel sonno, il panico notturno e qualcosa di nome "polluzione notturna" (non fate domande). Per fortuna, quella parte di solito passava in fretta, e poi si attraversavano la quattro e la cinque, ma non è che avessi proprio studiato tutto nei minimi dettagli. Per questa notte speravo almeno di arrivare alla fase uno.

            Quindi aspettai ancora un po'.

            E aspettai…

            Non direi che non fosse successo nulla. Pensai a un sacco di cose: le mie battute dell'Amleto, la stupidità di papà, Barefoot Tillman in costume da bagno, Mikey il criceto, il modo in cui Maria Borsotti sarebbe stata anche carina se non fosse una tale secchiona. Ma non era proprio sonno. Avevo tantissimi pensieri, il contrario dell'incoscienza: all'improvviso ero cosciente di ogni suono nella mia stanza, ogni preoccupazione nella mia testa, e specialmente ogni prurito e scricchiolio nel mio corpo immobile.

            Non avrei dovuto muovermi, ma i miei muscoli continuavano a richiedere aggiustamenti casuali. Alla fine della prima ora ero tutto imbrigliato nei giacconi, così finii per lanciarli in giro per la stanza. (Era per questo che si chiamava "rigirarsi nel letto"?). Non avevo notato alcuna incoscienza, ma poi iniziai a chiedermi se in effetti era possibile accorgersene, perché non saresti cosciente per notare nulla, il che fece girare le mie rotelle su pensieri e pensieri e ancora pensieri.

            Alla fine mi misi a sedere, fregandomene di non passare Scarsità, tutto pur di sfuggire alla noia schiacciante e sudata del non riuscire a dormire.

            Ed ecco, guarda, le mie tre ore erano quasi scadute.

            Ma non era sembrato così tanto. Era perché non ero mai stato tranquillo tanto a lungo, quindi non avevo termini di paragone? O c'era stata una minima parte di tempo perduto in tutto quel rigirarsi nel letto, un frammento sottile di sonno?

            Se sì, era quasi fico, una sorta di forma sfigata di viaggio nel tempo. La testa mi girava un po', ma sapevo che  una dose di vento dell'Antartico l'avrebbe schiarita. M'infilai una tuta termica e mi diressi al teletrasportatore, pensando per la prima volta che questo progetto magari non faceva tanto schifo.

            Solo più tardi quel giorno iniziai a sentirmi un po' strano.

 

 

 

 

 

QUATTRO

 

            Kieran Black aveva un'aria da schifo. Schifo coperto di ghiaccioli.

            "Stai bene?".

            Fu percorso da un brivido. "Sì, benone, Maria. Sono appena tornato dalla Stazione Amundsen-Scott. E' al Polo Sud".

            "Ehm, Kieran? Davvero". Mi sporsi sullo spazio che divideva i nostri banchi e pesi un minuscolo ghiacciolo che gli pendeva dai capelli. Diede alle mie dita un piccolo bacio gelido, poi si sciolse nel palmo.

            "E' successa una cosa strana", disse. "Stavo levigando le pareti esterne del mio habitat con una fiamma ossidrica, quando ho cominciato a sentirmi strano. Allora mi sono seduto nella neve, cosa che non dovresti proprio fare d'inverno. Lì ho perso la cognizione del tempo… finché la mia biostruttura non mi ha lanciato un avviso di congelamento".

            Rimasi a bocca aperta. "Vuoi dire che ti sei addormentato? Di già?".

            Annuì e io sospirai. Persino Kieran Black era più avanti di me. Non avevo ancora sentito niente, tranne forse un po' più di fastidio del solito nei confronti di mia madre, che aveva insistito nel criticare ogni capo d'abbigliamento che avevo indossato oggi. Come se non avessi mai avuto delle giornate da tutto nero.

            "Non ne sono proprio sicuro", disse Kieran. Una striscia di tuta termica spuntava dal collo della sua maglietta, irradiando calore come se avesse dimenticato di spegnerla. I ghiaccioli si stavano sciogliendo in fretta. "Decisamente non ho dormito molto la notte scorsa".

            "Ma un po' sì? E com'era?".

            "Non lo so". Batté le palpebre. "Credo che quando ti addormenti non te ne accorgi. Quindi… non è in nessun modo".

            Lo guardai male. Pensavo che questo progetto avrebbe reso Kieran Black più interessante. Ma sembrava solo renderlo più lento.

            Iniziai a controllare se fosse una cosa normale ma, non appena lo spazio mentale apparve, iniziò a svanire per lasciare il posto alla piatta realtà.

            La lezione di Scarsità stava iniziando.

 

 

 

 

 

            "Allora, com'è andato il primo giorno?" chiese Solomon.

            "Devo cambiare il mio progetto, signor Solomon", esordì Lao Wrigley. "Non è sicuro".

            Aveva parlato senza alzare la mano, cosa che di solito il signor Solomon avrebbe ripreso. Ma stavolta si limitò a intrecciare le dita come se si aspettasse qualche lamentela. "Non è sicuro?".

            "Per niente!". Lao si aggrappò ai lati del suo banco. "Stamattina ho preso la nave e l'oceano era un casino!".

            "E' possibile che lei si riferisca alle onde, signorina Wrigley?".

            Barefoot Tillman, che si vantava sempre dei suoi stupidi trofei di surf, soffocò una risata e io sorrisi a Kieran. Lui non reagì.

            La sua espressione era stranamente pacifica e restava fermo mentre gli ultimi ghiaccioli si scioglievano dai suoi capelli, lasciando cadere delle gocce lungo il collo fin dentro la maglietta. Nel guardarlo, avvertii una goccia simile di sudore scendermi lungo la schiena, ma la mia era calda.

            Ecco una sensazione interessante.

            "Sì, l'oceano ha le onde", stava spiegando pazientemente il signor Solomon. "Ma le navi sono fatte apposta per le onde. Sono sicuro che lassù si sta perfettamente al sicuro".

            Lao scosse la testa: "Ah, sì? Be', se le navi sono così sicure, perché esiste una parola che indica il loro capovolgimento?".          

            "Prego?".

            "Scuffiare, signor Solomon!", disse Lao. "E' una parola speciale che indica una barca che si ritrova sottosopra. Ho controllato nello spazio mentale e non ho trovato neanche una parola che indichi il capovolgimento di un treno! O di una macchina o di un aliscafo: solo le navi. Ci pensi!".

            "Signorina Wrigley, dubito che il suo cargo corra il rischio di scuffiare".

            "Ma è terribile!". Si prese la testa fra le mani. "Ho anche fatto male i conti".

            "I conti?".

            "Sembra che ci vogliano due ore per andare e due per tornare!".

            Un sorriso guizzò sul volto di Solomon. "Ma è naturale, signorina Wrigley. Aveva dimenticato che sarebbe dovuta tornare indietro?".

            Sollevai un sopracciglio. Quelle due ore supplementari sarebbero state troppe anche per me. Non mi ci erano mai voluti più di cinque secondi per raggiungere un luogo qualsiasi nel mondo. Persino Marte era a tre minuti di teletrasporto.

            Lao distolse lo sguardo dalle sue mani, deglutendo, e notai che era più pallida del solito. "Quattro ore ogni giorno! E quando stamattina ho provato a leggere un po', le onde mi hanno fatto sentire proprio strana!".

            "Ah…", annuì il signor Solomon. "Credo che lei abbia una cosa chiamata mal di mare. Se controlla nel suo spazio mentale più tardi, forse troverà qualche vecchio patch per correggere la sua biostruttura. Il suo progetto di Scarsità non ha restrizioni mediche, dopotutto". Ridacchiò. "Non ci sono cure al fatto che all'andata segua un ritorno… Mi sa che questo è il suo problema. Come stanno tutti gli altri?".

            Mentre le mani si alzavano, guardai Lao più attentamente. Ora che ci facevo caso, aveva davvero uno strano colorito. Una sfumatura blu-verdastra sulla faccia, come il mare. E' per questo che lo chiamavano mal di mare?

            Barefoot alzò la mano. "Il mio raffreddore sta andando benone. Mi piace il suono della mia voce".

            M'incupii. La sua voce in effetti era un po' più bassa, tipo un morbido ruggito. Solo Barefoot poteva aggiudicarsi un progetto che la rendesse ancora più sexy.

            Se non altro Kieran oggi non la stava fissando. Aveva lo sguardo perso nelle nere profondità della lavagna.

            Alzai la mano. "Signor Solomon? Credo che Kieran abbia qualcosa che non va".

            Sentendo il suo nome, Kieran scattò dal suo stato catatonico e mi fissò. "No, sto bene".

            "Volevo solo esserne sicura", sorrisi dolcemente.

            "Sono sicuro che Kieran si sente solo un po' strano", disse il signor Solomon. "Credo che il termine tecnico sia 'assonnato'. Ma tutti voi vi sentirete molto strani man mano che questi progetti proseguono. Oggi è solo l'inizio, quindi la smetta di masticarsi la manica, Sho".

            "Ma la mia manica non è cibo!".

            "No, però è fastidioso". Solomon sospirò, guardando di nuovo Lao Wrigley. Aveva iniziato ad emettere strani rumori dal fondo della gola e la sua faccia adesso era decisamente verde come il mare poco profondo.

            Guardai il mio quaderno intatto e le mie dita avvolsero la penna.

            "Verde come il mare poco profondo", scrissi. Le parole avevano un'aria delicata e fragile nella mia calligrafia affusolata. Avevo passato tutto quel tempo a imparare a scrivere, e questo semestre non avevo preso quasi nessun appunto.

            D'un tratto, volevo incidere la superficie bianca della carta.

            Lao fece il chiaro suono di una che sta per vomitare.

            "Mmm, forse oggi dovremo concludere prima la lezione", disse il signor Solomon. "Per motivi di mal di mare. Tu e io andiamo dritti al dipartimento di Biologia, Lao. E tutti voi altri cercate di passare quest'ora inaspettata di libertà a riflettere sul vostro progetto. Prendete nota dei cambiamenti dentro di voi".

            "Sorrisi alle sue parole e scrissi: "I cambiamenti dentro di me…".

            Avevo un sacco di appunti da prendere.

 

 

 

 

 

CINQUE

 

            Questo progetto faceva schifo.

            Oltre a perdere tre ore al giorno, ero cerebralmente morto per le restanti ventuno. Per tutta la settimana mi trascinavo tra le classi come uno zombie in uno dei giochi di combattimento di Sho.

            All'improvviso la mia testa aveva perso tutte le battute dell'Amleto. Tentai di spiegare alla signora Parker che era tutta colpa del signor Solomon, ma disse che non era una giustificazione perché nell'antichità gli attori dormivano tutte le notti.

            Sì… ma lo sapevano fare!

            Quindi, a mezzanotte, eccomi di nuovo sì, a fissare il mio letto improvvisato con le solite emozioni contrastanti. Da un lato, guardare i giacconi spiegazzati mi faceva venir voglia di strangolare Solomon con una manica foderata di Pelliccia. Dall'altro, in qualche modo,il mucchio mi sembrava allo stesso tempo adorabile. Non c'era niente che desiderassi di più che sdraiarmici dentro. Ondate di stordimento mi percorrevano.

            Forse stanotte avrebbe davvero funzionato.

            Mi lasciai cadere sul mucchio, con la faccia che atterrò su un collo di pelliccia finta. I peli mi solleticarono le labbra mentre inspiravo ed espirav. Dissi alla stanza di oscurarsi e intorno a me iniziò a farsi silenzio…

            Ci fu una suoneria di comunicazione, che ruppe l'incantesimo.

            "Sì?", sospirai.

            "Sono io", disse la voce di Maria. "Posso venire lì?".

            "Uhm, non è un buon momento".

            "Ehi, sembri un po'… Oh, merda! Ho dimenticato che ore fossero. Stavi dormendo?".

            "Non ancora", mormorai. "Be', forse una specie di fase uno".

            "Oh, scusami", sussurrò ma senza riattaccare. Il suo respiro galleggiava invisibile nell'aria intorno a me, rassicurante nel buio.

            Era strano restare in silenzio insieme in quel modo, per cui dissi: "Credo che stanotte andrò meglio. Certo, lo pensavo anche ieri notte".

            "Mmm. E' comodo il tuo letto?".

            "Be'…". Non volevo entrare nei dettagli con Maria sulla questione di papà e del letto. "Non ho ancora potuto procurarmene uno. Sto dormendo su un mucchio di giacconi".

            "Niente letto?". La sua risata percorse la stanza. "Spero che almeno tu abbia un pigiama".

            "Pi-cosa?".

            Rise di nuovo. "A letto non dovresti indossare vestiti normali. La gente di una volta aveva questi vestiti speciali per dormire. Avevano immaginette sonnacchiose sopra. Non mi meraviglia che non stia funzionando".

            "Non credo  che sia quello il problema", borbottai.

            "Ma non penso che indossassero tutti un pigiama. Alcuni si coprivano con le lenzuola e sotto restavano nudi".

            "Questo potrebbe fare al caso mio". Mi sfilai la maglietta dalla testa. Era sul serio più comodo così, quindi calciai via le scarpe e mi liberai dei pantaloni. "Sì, così va molto meglio".

            "Ti sei appena…", cominciò, ma poi le si bloccò il fiato.

            "M-mmm. Grazie per il suggerimento". Mi sistemai sul mucchio, con la pelliccia e le morbide fibre termiche sulla pelle. "E' strano qui al buio. Mi sembra di essere senza peso".

            "Senza peso nel buio", ripeté piano.

            IL vuoto dietro le mie palpebre si era fatto più profondo, un peso scendeva su di me, finalmente sopraffacendo la raffica dei miei pensieri. "Sì, è strano. Come se il mondo venisse cancellato".

            "Il mondo cancellato…".

            "Che stai facendo?".

            "Oh, sto solo copiando delle cose", disse. "Sto tipo… tenendo un diario del mio progetto".

            "Solomon lo adorerà", mormorai.

            "Non è per lui. E' solo per me… Vuoi sentire qualcosa?".

            Dovevo aver grugnito, perché Maria iniziò a leggere per me. Era più caotico di un normale diario, simile a frasi estratte da conversazioni, parole che si ripetevano e s'intrecciavano senza mai produrre significato. Una mancanza di senso rassicurante, come una nebulosa di parole.

            Comunque, qualsiasi cosa vi fosse scritta, il suono della sua voce fece meraviglie. Un incantesimo cadde su di me e l'oscurità mi portò rapidamente verso la fase due, dove il mondo finalmente evaporò. Di certo attraversai la fase tre e la quattro in rapida successione.

            E più tardi, quella notte, ne sono sicuro, caddi fino alla fase cinque… dove sognai.

 

 

 

 

 

SEI

 

            Dopo che si fu addormentato, a lungo lo ascoltai respirare.

            C'era qualcosa che non andava nella mia pelle, divenuta ipersensibile ai vestiti, a ogni corrente d'aria. Mentre parlavamo, avevo abbassato le luci perché la stanza combaciasse con l'immagine mentale che avevo di quella di Kieran, e adesso l'oscurità intorno sembrava tangibile, qualcosa di fisico che premeva sulla mia pelle affamata.

            Le pagine bianche del quaderno mi brillavano tra le mani, bisognose della mia attenzione. Era come se alla carta, leggendo, fosse venuta sete di parole.

            Specialmente se leggevo ad alta voce a un ragazzo nudo, quasi addormentato.

            Riuscivo a immaginarlo lì sul suo mucchio di cappotti voluminosi, vulnerabile e perfettamente immobile. Mi faceva diventare pazza che lui fosse così lontano dalla mia pelle dolorante. Eppure c'era anche qualcosa di intenso nell'incorporeità, come se la distanza amplificasse la nostra connessione.

            I miei ormoni adesso erano decisamente arrabbiati e si riscaldavano i muscoli. Ma questo squilibrio non era come me l'aspettavo: non c'erano improvvisi attacchi di follia, nessuna epifania mozzafiato. Era una cosa sottile, come le scintille di desiderio che crescevano e calavano al ritmo del respiro di Kieran.

            Ricominciai a scribacchiare, tentando di rovesciare su carta la lenta pressione crescente dentro di me. Mentre le parole si riversavano fuori, intorno cominciò a levarsi un rombo. Ci misi una vita ad accorgermi che quel suono non era nella mia testa: proveniva dalla finestra. La pioggia vi batteva contro, offuscando le luci degli altri grattacieli.

            Saltai in piedi e misi la mano contro il vetro, sentii il freddo e la condensa, e all'improvviso desiderai di essere fuori: sotto la pioggia. Era quello che facevano sempre le eroine dal cuore spezzato nelle vecchie storie: correvano fuori e urlavano la loro frustrazione! (Poi si ammalavano e quasi morivano, ma potevo saltare quella parte…).

            Fissai l'acquazzone con un gemito…

            L'appartamento di mamma non era come la casa vecchio stile in cui avevamo vissuto quando papà era vivo. I grattacieli non avevano porte verso l'esterno; si entrava e si usciva dal teletrasportatore. I giardini e le aiuole intorno erano solo per fare scena, le montagne lontane erano tutto parco nazionale, protetto e vietato.

            Stupido mondo perfetto.

            Scandagliai i bordi della finestra con le unghie, ma non c'erano pulsanti da premere o serrature da far scattare. Volevo solo sentire la pioggia sulle mani! Ma le finestre che si aprivano erano troppo pericolose.

            L'ardore sottopelle era peggiorato: i miei ormoni avevano percepito l'odore della libertà. Il mio sangue sembrava intrappolato. E, soprattutto, udivo Rierano Black respirare: la chiamata era ancora aperta. Era come se lui fosse dentro di me, il suo ritmo lento intrappolato nella mia mente, qualcosa di invisibile e di antico che ci collegava.

            Mi misi a sedere per terra con il quaderno, afferrai la penna e affondai sulla carta con rapidi colpi.

 

            In questa torre senza porte

            La fame della mia pelle pulsa

            Come il suo respiro nelle mie orecchie,

            Così vicino e tuttavia…

 

            "Oh, merda", gridai, fissando le righe di grafia ondulata. Non stavo tenendo un diario.. stavo scrivendo poesie.

            Dovevo uscire da lì, fuori sotto la pioggia, nell'ossigeno. Presi la giacca e corsi verso il teletrasportatore, controllando lo spazio mentale in cerca di un posto – qualunque posto – in cui stesse piovendo. Il Controllo Climatico m'informò che stava diluviando a Parigi, piovigginando a Delhi, e che un monsone stava passando intorno a Madras: tutti a cinque secondi di distanza.

            Ma nel teletrasportatore esitai: mi sembrava sbagliato andare a decine di migliaia di chilometri. Volevo quella pioggia lì dov'ero, dall'altra parte della mia finestra.

            Poi vidi gli adesivi per l'evacuazione in caso di incendio:mappe e procedure nel caso in cui il teletrasporto non funzionasse. E sorrisi.

            "Tetto", dissi al teletrasportatore, non avendo voglia di fare le trenta rampe di scale di emergenza.

 

 

 

 

 

            L'enorme stanza scintillava davanti ai miei occhi. Era vuota, naturalmente. Non c'era niente da vedere stasera dalle vetrate a tutta parete e righe di pioggia nascondevano le montagne scure in lontananza. Le stelle nel cielo erano lavate via, e persino la luna era una macchia confusa…

            La luna una macchia confusa? Argh. Adesso stavo pensando in versi!

            Mi guardai intorno in cerca del leggero pulsare rosso dell'uscita antincendio, tirandomi la giacca sulle spalle mentre correvo. La tempesta era assordante lassù, la pioggia era trasportata da venti d'alta quota.

            "SOLO EVACUAZIONE", avvertiva la porta, affatto poetica.

            Appoggiai il palmo della mano sulla sua superficie fredda, mordendomi il labbro inferiore, esitando un attimo ancora, timorosa di infrangere le regole.

            "Secchiona",sibilai a me stessa. E' quello che Kieran Black pensava di me, munita di quaderno dell'era della Scarsità e di penna, a scribacchiare per impressionare il signor Solomon.

            Be' questa era la porta per uscire dal mio stupido mondo perfetto,una porta per calamità ed esplosioni, e per quando le cose stavano andando a fuoco…

            La spinsi forte e un suono acuto mi riempì le orecchie. C'era una sudicia rampa di scale che portava di sopra e delle luci spietate si accesero sul soffitto. Una voce metallica irruppe sull'allarme, chiedendo la natura dell'emergenza, ma la ignorai e mi precipitai verso il tetto. Due rampe di scale dopo incontrai un'altra porta, tappezzata di adesivi che mettevano in guardia dai forti venti e le basse temperature, di mancanza di ringhiere di sicurezza, di sole non filtrato e cancerogeno: tutti gli incontrollabili pericoli del mondo esterno.

            Spinsi con cautela la porta, ma il vento s'insinuò e la spalancò di forza in un frastuono metallico. La pioggia fece irruzione, scorrendomi addosso. Per un terribile attimo restai pietrificata: l'oscurità impetuosa sembrava enorme e troppo potente. Ma quella voce calma ed esasperante continuava a chiedermi dove fosse il fuoco, spingendomi a uscire.

            Il vento era più forte a ogni mio passo. Ad alcuni metri dalla pronta, mi sfilò la giacca dalle spalle, che sparì nel buio. Gocce mezze ghiacciate precipitavano dal cielo nero,infrangendosi sul mio viso e sulle mia braccia nude, nutrendomi la pelle affamata.

            Aprii le mani per sentire la pioggia picchiare sui miei palmi e aprii la bocca per bere l'acqua fredda, ridendo e desiderando che Kieran Black fosse vicino a me.

            Due minuti dopo arrivò la sicurezza e mi portarono a casa.

 

 

 

 

 

SETTE

 

            "Più intensità, gente!", gridò la signora Parker.

            Tutti ci limitavamo a fissarla, con le spade abbassate. Stavamo provando quella scena da ore, tentando di assumere al meglio le posizoni. Era perlopiù colpa di William Shakespeare: è piuttosto difficile scambiarsi per sbaglio le spade nel bel mezzo di un duello. E su!

            Il presunto esercito in attesa dietro le quinte stava diventando impaziente. Ogni volta che si preparavano a marciare con una raffica bellicosa, la signora Parker irrompeva, lamentandosi per la mancanza di intensità. Peccato che nessuno avesse scelto la morte per avvelenamento come progetto per Scarsità, avrebbero potuto mostrarci come fare…

            "Okay, fate una pausa", disse alla fine, nauseata.

            Tutti si diressero alla stanza verde o ai teletrasportatori, ma io rinfoderai la spada e mi lasciai scivolare giù dal bordo del palco, scavalcando le file di sedie vuote. Il silenzio in platea era un sollievo alle battute dimenticate, le messe in scena improbabili e le richieste di "intensità" della signora Parker.

            Mi misi a sedere in ultima fila, a pochi posti di distanza dal corridoio, e abbandonai la testa all'indietro. Gli occhi si chiudevano automaticamente e sentii l'oscurità rassicurante raccogliersi intorno a me.

            Avevo scoperto che dormire era fichissimo. Facevo sei ore a notte, più i pisolini. Il tempo perso stava uccidendo la mia media, ma adoravo scivolare nell'oblio e nell'abbandono.

            E il principe schizzato non aveva ragione di preoccuparsi: il sonno in fase cinque non era affatto male. Aveva tutta l'intensità che mancava alla nostra compagnia e io ne ero devotamente dipendente.

            Da quella prima volta di vero sonno, Maria aveva letto per me ogni notte. Secondo lei, era una vera tradizione dei temi andati e si chiamava "storie della buonanotte". E, anche se il suo diario era fatto soltanto di frasi messe a caso, nella mia mente si creavano storie. Il suono della sua voce faceva arrivare i sogni.

            Mi sembrava di parlare la vecchia lingua di Shakespeare quando dicevo "sognare" per indicare la fase cinque. Quella vecchia definizione era scomparsa insieme al sonno stesso. Oggigiorno la gente "sognava" soltanto case più grandi o celebrità.

            Invece continuavo a chiedermi quanto fossero vicini i due significati. Volevo davvero tutto quello che vedevo nella fase REM? Doveto rischiare per realizzare quel che vedevo lì, o dovevo tenerlo nascosto al sicuro nei miei sogni?

            "Kieran", giunse un sussurro proprio accanto a me.

            Trasalii, aprendo gli occhi di scatto.

            "Stai bene?", chiese Maria dolcemente.

            "Oh scusa". Battei le palpebre, chiedendomi per un attimo se fosse vero o no. "Stavo schiacciando un pisolino".

            "Fico". Il suo sorriso scintillava sotto le luci del palco. "Come va il Bardo?".

            "Non abbastanza intenso per la signora Parker". Mi lasciai sfuggire un sospiro. "Non so cosa potrebbe esserlo… forse un  uragano che porti via il tetto".

            "Oh…", sospirò leggermente, "un uragano sarebbe divertente".

            Sorrisi. Mi aveva detto della sua avventura sul tetto, con la danza di libertà e la fame della pelle, e il tutto si era insinuato nei miei sogni.

            Si avvicinò a me, il suo respiro nel mio orecchio. "Ho una domanda per te".

            "Non occorre sussurrare", dissi. "Siamo in pausa".

            "Ma mi piace sussurrare. Rende le cose più… intense".

            Fui percorso da un brivido.

            "A proposito". Maria si voltò verso il palcoscenico vuoto, dove le luci si alternavano dal rosso duello al blu monologo. "Stanotte, quando leggerò per te… forse sarebbe meglio di persona. Voglio dire, sarebbe più emozionante, lì accanto al tuo letto".

            Sapevo cosa stava chiedendo, naturalmente. Me l'ero chiesto anch'io un attimo prima. Ma non ero sicuro di come fare a passare dai sogni alla realtà senza perdere la magia, o senza che diventasse troppo incontrollata e potente.

            La verità era che Maria in quei giorni mi spaventava.

            Il suo sguardo si era fatto ogni giorno più denso da quando era cominciato il progetto. Lì nell'oscurità dell'auditorium sembrava pronta a a uno dei suoi famigerati slanci di follia. Specialmente nel caso in cui io avessi detto la cosa sbagliata.

            "Maria, è bellissimo quando leggi per me. Adoro la tua voce, non credo che riuscirei a dormire senza. Ma credo che…".

            "Che ti piaccia soltanto la mia voce?", chiese.

            "No!". I miei sogni erano andati ben oltre la sua voce. Dentro di me scorrevano immagini, vivide quanto i ricordi di eventi reali. Ma come avrei potuto dirlo ad alta voce? "E' solo che… sognare a volte è strano".

            Rimase senza fiato, lì al buio. "Hai cominciato a sognare? Da quando?".

            "Dalla prima volta che hai letto per me", risposi.

            "E non me l'hai detto?".  

            "Be', è un po' imbarazzante".

            Si chinò più vicino, con i suoi occhi folli e scintillanti. "Cosa è imbarazzante?".

            Mi rannicchiai nella sedia di legno, mentre la mia testa si rifiutava di far collidere vita onirica e vita reale. Pensai a come il sonno della fase cinque ti fa muovere le palpebre, vibrare le mani e al fatto di svegliarmi ogni mattino con la bava sulla faccia. Forse, però, lo avrebbe capito?

            Nella seconda settimana tutti i provetti si stavano facendo strani. Il raffreddore di Barefoot Tillman era diventato bizzarro: aveva gli occhi tutti gonfi e rossi. Dal naso le usciva n muco di strani colori e doveva girare con dei fazzoletti di carta per raccoglierlo. Persino Dan Stratovaria, con gli occhi bianco latte e la pelle crivellata di vene bianche, girava al largo. Era diventato cieco durante il fine settimana, ma aveva imparato a evitare i rumori strombazzanti che Barefoot produceva.

            "Okay, te lo dico. Ma è strano".

            "Strano come?".

            Deglutii. Davvero volevo dire a Maria che sbavavo? "Be', hai presente Barefoot…"

            "Barefoot Tillman! sibilò. "Stai sognando lei!".

            "No! Stato solo…".

            "Mi stavisolo usando!", strillò. "E' con la mia voce che ti addormenti tutte le notti!". Le sfuggì un grido dalle labbra che si disperse attraverso l'auditorium. "Cosa sono, una specie di Cirano de Bergerac per oche giulive?".

            "No! Ehm… Cirano chi?".

            "Pezzo di farabutto illetterato e patetico! Non ci posso credere!".

            Saltò dalla sedia e corse via per il corridoio.

            "Maria, aspetta!", la chiamai. "Non intendevo…".

            "Addio, Kieran… e dormi bene!", urlò dalla porta.

            La porta sbatté alle sue spalle, un enorme boato che riecheggiò nell'auditorium silenzioso. Mentre mi lasciavo ricadere sulla sedia, mi accorsi che il palco e il pubblico si erano invertiti: la compagnia al completo mi stava fissando, con gli occhi sgranati e la bocca aperta.

            Rovesciai la testa, sperando che anche questo fosse un sogno.

            Il silenzio resistette per un attimo, poi un paio di mani iniziarono ad applaudire piano. Era la signora Parker appollaiata sul proscenio, che applaudiva con un grande sorriso sul volto.

            "Prendete appunti, gente", dichiarò, "perché questa era intensità!".

 

 

 

 

 

OTTO

 

            Era quasi mezzanotte e Kieran non aveva ancora chiamato.

            L'acqua della vasca gorgogliava sotto il mio naso mentre il suo calore mi avvolgeva, tenendo a malapena sotto controllo la fame della mia pelle. Chiusi gli occhi e sprofondai finché il rombo sommesso non mi riempì la testa, tagliando fuori il silenzio assordante. Ancora non riuscivo a credere a quel che aveva fatto: rubare la mia poesia per sognare Barefoot. E al furto si aggiungeva la vigliaccheria di nascondere il misfatto nel profondo del suo inconscio. E ancora non mi aveva chiamato.

            Forse, tutto il resto era silenzio tra noi.

            Rimasi sott'acqua, trattenendo  il respiro, immaginando il viso di Kieran quando sarebbe stata annunciata la mia tragica morte per annegamento. Dopo la mia sparata all'auditorium, tutti avrebbero capito che mi aveva ucciso lui con i suoi piccoli sporchi sogni. Visualizzai il mondo intero, che ne veniva a conoscenza, le mie poesie rinvenute e trasmesse postume in tutti gli spazi mentali, con allegato un crudele paragone tra il mio volto angelico e la faccia gonfia, piena di muco di Barefoot Tillman.

            Mentre la fantasia cresceva, l'ossigeno nei polmoni si esaurì, il mio cervello si fece confuso, il cuore mi batté sempre più forte nel petto…

            … finché la mia biostruttura non mi spinse verso l'aria, a respirare sputacchiando.

            "Non stavo per farlo davvero!", borbottai mentre ansimavo pr prendere aria. Stupido mondo perfetto.

            M'immersi di nuovo fino alle spalle nell'acqua, mentre il ricordo della mia scenata all'auditorium mi si agitava nella pancia. Tutte le volte  che mi ero immaginata di impazzire per le emozioni dei tempi antichi, la follia aveva avuto luogo su una brughiera scozzese, un'alta balconata o in un boudoir riccamente decorato: mai di fronte a un pubblico.

Evidentemente gli ormoni andavano a braccetto con l'umiliazione.

            Cercai di ricordare cosa era successo durante il litigio, esattamente quando e come era andato tutto storto. Mentre fuggivo furente, aveva provato a chiamarmi per dirmi qualcosa, ma il mio cervello era troppo foncuso per ascoltarlo.

            Pensai a tutti i libri che avevo letto, le storie in cui alcune lettere andavano perdute o venivano recapitate troppo tardi, dove orgoglio, pregiudizio e giudizi avventati separavano gli amanti. Quindi cos'è che aveva detto? Doveva pur valere qualcosa anche solo sapere che Kieran voleva sistemare le cose, se non altro per dirgli dove poteva mettersi la sua spiegazione.

            Scoccò la mezzanotte, l'appuntamento ufficiale con il suo sonno. Avevo impostato il promemoria dopo la prima notte, la notte in cui si era addormentato, quella della mia danza nella tempesta.

            Perché non chiamava?

            Emisi un lamento di frustrazione, sprofondando più giù nell'acqua. Giurai che non l'avrei chiamato. Un giuramento sulla mia vita, che all'improvviso mi sembrò potente come i dettami della mia biostruttura. Se l'avessi rotto sarei sicuramente morta.

            I minuti passarono. Stava davvero dormendo senza la mia voce stanotte? Rimanevo lì, furiosa, immaginandolo che chiamava Barefoot e le chiedeva di starnutire e strombazzare per lui per mandarlo nel mondo dei sogni. Se lo poteva scordare. Aveva bisogno di me

            Ma col cavolo che l'avrei chiamato. Una vera eroina non rompe mai un giuramento.

 

 

 

 

 

            Suo padre sembrava sorpreso di vedermi.

            "Signor Black? Sono Maria, un'amica di Kieran".

            "Eh?". Mi squadrò dalla testa ai piedi nel mio lungo vestito nero che mi aderiva sulla pelle bagnata, i capelli ancora gocciolanti.

            "Sono nella sua classe di scarsità. Devo parlargli. Di persona".

            "Classe di Scarsità…?". Si accese una lampadina dietro gli occhi del vecchio, che sorrise. "Ah, sì. Credo che ti abbia nominato".

            "Davvero?".

            "Beh, non ha fatto il tuo nome". Ridacchiò. "Ma un padre si accorge di queste cose".

            "Cose?", domandai. Aprì gli occhi un po' di più e decisi di contenere la mia veemenza. "Ehm, so che probabilmente sta dormendo, ma vorrei vederlo solo un minuto…".

            "Dormendo?". L'uomo pronunciò la parola come se appartenesse a un'altra lingua. "Veramente non è in casa in questo momento".

            Mi accigliai. Ma era mezzanotte… e poi in me prese il volo una meravigliosa rivelazione.

            Era troppo sconvolto! Non riusciva a dormire!

            "A rigirarsi nel letto", mormorai.

            "Prego?", chiese suo padre.

            "Dov'è andato?", chiesi, fallendo l tentativo di frenarmi.

            "Forse io e te dovremmo fare una chiacchierata su Kieran. Siete entrambi molto giovani e…".

            "Dove… è… andato?".

            Fece una pausa, iniziando a mostrare un po' di timore. "Ehm, credo che dovresti tornare a casa e dare una controllatina alla tua biostruttura, signorina".

            Ringhiai e strinsi i pugni,  il vecchio fece un passo indietro, facendo dondolare i cappotti appesi lungo l'ingresso.

            Spessi, bianchi, giacconi gonfi, con il bavero orlato di pelliccia…

            Sorrisi. "E' al Polo Sud, vero?".

            "Senti, ragazzina…".

            Afferrai uno dei giacconi e lo infilai. Poi ficcai i piedi, con tutte le pantofoe in un paio di stivali alti situati vicino al teletrasportatore.

            "Non ci puoi andare!", gridò. "Non è sicuro!".

            "Sicuro!", risi. "Sta parlando a una ragazza che cammina negli uragani, signor Black". Traballante negli stivali troppo grandi, entrai nel teletrasportatore. "Polo Sud, grazie!".

            "Stazione Amundsen-Scott?", chiese la macchina.

            "S', proprio là!".

            "Aspetta!", disse il padre di Kieran, levando una mano tremante come per fermarmi. Ma lui arrivava dal mondo mole, dagli ormoni bilanciati, che mi ero lasciata alle spalle, e non ci si poteva aspettare che capisse che una ragazza folle e mezza annegata si era introdotta in casa sua e adesso stava andando dritta al Polo Sud.

            Gli canticchiai un motivetto folle mentre scomparivo.

            Il sole debole era basso sull'orizzonte. Era buio, freddo e bianco.

            Mi strinsi nel giaccone, alzando il cappuccio peloso fin sopra la faccia. Da questa parte, l'interno del teletrasportatore era stato tappezzato da ogni sorta di avviso: temperature estreme, esposizione al sole, congelamento, morte. Ma gli adesivi erano consumati e mezzi staccati, e nessuna voce calma e automatica mi aveva chiesto cosa ci facessi lì. Pare che nessuno giunga alla fine del mondo impreparato.

            Scesi la breve rampa di scale; gli edifici erano sopraelevati su dei pali, come se avessero paura di toccare la neve. Il vento sferzava sotto il mio vestito e colpiva le mie ginocchia nude come se bruciasse.

            Una donna con una tuta termica e un giaccone passò camminando a fatica, fermandosi un secondo per fissarmi da dietro gli occhialoni.

            "Dov'è Kieran Black?", domandai, e la lingua mi si ghiacciò in bocca mentre parlavo.

            "Il ragazzo?". Rimase zitta un attimo, poi puntò una mano avvolta da un guanto gigantesco verso un igloo a un centinaio di metri. "Ma non credo che dovresti…".

            Ruggii e le voltai le spalle, Iniziando una dura marcia, superando una fila di bandire infilate nel ghiaccio, avanzi sbrindellati di nazioni che non esistevano più. Il mio vestito si solidificò mentre camminavo, spargendo chicchi di acqua da bagno congelata.

            Quando il freddo mi afferrò il corpo, finalmente credetti a quei libri in cui le eroine morivano per aver girovagato all'esterno. Forse c'era voluta solo una pioggia fredda per ucciderle allora, ma il vento dell'Antartico rendeva la faccenda molto più plausibile. Ogni respiro mi feriva i polmoni e i miei capelli bagnati scrocchiavano nel cappuccio del giaccone.

            La mia biostruttura stava minacciando di chiamare soccorso medico, ma la ignorai – Kieran si pavoneggiava sempre del fatto che lì il pronto soccorso ci metteva lunghi minuti ad arrivare. Continuai ad arrancare, fissando l'igloo distante con occhi a fessura.

            La neve dura si trasformò in cumuli alti fino al ginocchio e s'infilò dal bordo dei miei stivali, intorpidendomi i piedi. Inciampai e fui costretta a tirare fuori le mani dalle tasche calde per ritrovare l'equilibrio. Se fossi caduta, mi sarei frantumata come un ghiacciolo.

            Il cervello mi si stava offuscando, il mio cuore batteva lento, il mondo si restringeva al piccolo tunnel visibile dal cappuccio del giaccone.

            Poi vidi una stella scintillante davanti a me…

            Una forma umana stava girando intorno alll'igloo, facendo ondeggiare una fiamma lungo la superficie curva del ghiaccio. Il mio cervello congelato ricordò che Kieran aveva detto qualcosa a proposito di una fiamma ossidrica.

            Cercai di chiamarlo, ma i miei polmoni riuscivano a inalare soltanto respiri minuscoli, quasi stessi respirando cubetti di ghiaccio. Il mio corpo continuava a muoversi, guidato dalla promessa delle scintille lucenti nelle mani di Kieran.

            Il fuoco era caldo, mi ricordavo questo fatto da qualche esistenza precedente all'Antartico.

            Arrancai ancora, finché non fui abbastanza vicina da sentire il calore. Le mie mani nude si tesero verso la fiamma, le punte delle mie dieta erano leggermente blu.

            Kieran finalmente udì i miei passi scricchiolare nella neve e si voltò, guardandomi e lasciandosi sfuggire un gridolino di sorpresa.

            "Maria! Che stai…?". Gli scivolò la fiamma ossidrica nella neve, dove scoppiettò e morì.

            Caddi in ginocchio vicino a essa, gemendo di delusione. Tesi le mani verso il metallo ancora incandescente… ma allora le mani di Kieran si strinsero intorno alle mie spalle e volevo ucciderlo perché mi stava tirando via da quella scheggia di calore residuo.

            Attraverso il tunnel de cappuccio del giaccone, guardai i miei stivali sbandare lungo la neve finché il pallido sole non si oscurò. All'improvviso ero al caldo, un calore glorioso, addirittura più glorioso del freddo! Mi fu tolto il cappuccio, la faccia occhialuta e preoccupata di Kieran di fronte a me, le mura interne dell'igloo che luccicavano di lue artificiale.

            "Che ci fai qui?". Si tolse gli occhialoni e il giaccone, sfilandosi la tuta termina di fronte a me. "Sei pazza?".

            Mezzo nudo, mi avvolse nella tuta termica e i sui elementi mi bruciarono la pelle come carboni ardenti. Riuscivo solo ad annuire e a fissare. Mi sembrava che i miei occhi si sarebbero frantumati se avessi battuto le palpebre.

            "Venuta per te", riuscii a dire.

            "Mi dispiace così tanto", disse lui. "No ho mai sognato Barefoot, neanche una volta! Eri tu dalla primissima notte!". Deglutì. "Ma era così strano e incredibile, e tutti dicono sempre che i sogni non sono reali. Ma a volte lo sono… Capisci cosa voglio dire?".

            "Sssciì", lo rassicurai tra le labbra screpolate. C'erano più cose in cielo e in terra e tutto il resto… così tante cose da dire.

            Ma proprio allora, la mia agitatissima biostruttura si accorse che ero arrivata in un posto caldo e sicuro e quindi mi mise KO a dovere, non volendo rischiare che andassi a congelarmi di nuovo.

            Stupido mondo perfetto.

 

 

 

 

 

NOVE           

 

            "Ed eccoci alla fine della nostra piccola avventura", esordì il signor Solomon.

            Barefoot Tillman starnutì dal suo angolo di quarantena. Negli ultimi giorni stava molto meglio e aveva emesso di perdere muco dal naso, ma tutti si tenevano comunque a distanza.

            "Salute", disse Maria, avendo controllato qualche tradizione adatta al caso di Barefoot. Ci scambiammo un sorrisetto.

            "Ma prima di tornare tutti al mondo moderno, forse dovremmo condividere le nostre esperienze". Allargò le mani. "Qualcuno vuole cominciare?".

            Lao Wrigley alzò la mano. "Be', credo di essermi avvicinata molto a mio padre".

            "Mmm", disse il signor Solomon. "Perché si è fatta accompagnare in aereo alle Bahamas andata e ritorno ogni giorno?"

            "Di necessità virtù". Lao scosse i capelli.

            "Guardi che addominali!", gridò Sho, alzandosi dalla prima fila, girando su se stesso e alzandosi la maglietta. "Magari non mangio proprio più".

            "Ne dubito", disse il signor Solomon. "E credo che quelle siano costole, signor Walters, non muscoli. Qualche altro pensiero profondo da condividere? Sì, signor Stratovaria?".

            "Be'", disse Dan, "ho scoperto che non c'è niente di divertente nei parassiti".

            "Ah, veggenza della cecità. Qualcuno, almeno, ha apprezzato la serietà della scarsità. Forse questo semestre non è andato del tutto sprecato".

            "Proprio no", disse Dan, agitando il bastone in una delle sue mani dalle vene bianche. "Mia mamma è così terrorizzata che sta sborsando una cifra per la sostituzione. I miei nuovi occhi spaccheranno!".

            Il signor Solomon sospirò. "Certamente. E possiamo avere un po' di saggezza da voi due piccioncini che vi tenete per mano là in fondo?".    

            Ci separammo mentre tutti si voltavano, ancora incuriositi dal vederci insieme. I miei amici davano la colpa a William Shakespeare per avermi trasformato in un secchione. Alzavano gli occhi alle parole antiquate che a volte mi sfuggivano di bocca.

            Ma i cambiamenti erano venuti da un luogo più primordiale di quel che pensavano. Il Bardo non aveva influenza sul mio subconscio.

            "Be', signor Solomon", disse Maria, "ho imparato che le eroine dei tempi antichi non erano neanche lontanamente imbranate come pensavo. Sembra che si possa davvero morire se si scorazza fuori al freddo. Specialmente se sei bagnata". Con la mano libera, puntò alla scura macchia da congelamento sulla sua guancia sinistra, che luccicava come un occhio nero fuori posto. Sua madre le aveva fatto promettere di sottoporsi presto a un trapianto di epidermide, ma nel frattempo lei lo stava sfruttando di brutto.

            "Affascinante", disse il signor Solomon. "Anche se forse non attinente al suo progetto originale come si potrebbe sperare".

            "Oh, glielo assicuro, signor Solomon", disse Maria. "Gli ormoni sbilanciati e l'esposizione all'Antartico vanno a braccetto":

            "Un'osservazione interessante. E lei, signor Black? Cosa ha da dirci sui rigori del sonno?".

            Cosa, in effetti. Feci un profondo sospiro, chiedendomi cosa avrei fatto dopo la fine della lezione di oggi. Ora che i progetti erano finiti, potevo riprogrammarmi la biostruttura, riaccendere tutti quei piccoli congegni che avrebbero reso di nuovo simultanei i miei processi anabolici e catabolici: nessun bisogno di dormire, mai più.

            Volevo ancora i miei sogni? Non erano così diversi dalla vita reale, ora che Maria e io ci eravamo messi insieme nel mondo della veglia. Ma continuavo a chiedermi cos'altro potevano mostrarmi, quale magia avrei perso se non avessi mai più percorso la strada di scatti e movimenti oculari verso la fase cinque.

            "Sono felice di averlo provato, signor Solomon".

            "Ce l'hai fatta fino alla fase REM?".

            "Ci può scommettere", dissi. "Sogni, rapidi movimenti oculari, bava, tutto il pacchetto".

            Maria mi lanciò uno sguardo d'intesa. Avevamo deciso di non menzionare che anche lei aveva sognato una volta, grazie all'ipotermia acuta combinata a un cocktail da KO dalla sua biostruttura. Né di dire al signor Solomon che i miei ormoni avevano seguito i suoi sbilanciati, perché i congegni dei tempi moderni non erano calibrati su qualcuno che dormiva sei ore a notte. Ero impazzito al punto da teletrasportarmi in un diluvio in Danimarca la notte prima, solo per tenere la mano di Maria sotto la pioggia gelata.

            I nostri progetti si erano sovrapposti in tantissimi modi interessanti.

            "E cos'ha sognato di preciso, signor Black?", domandò Solomon.

            Maria riprese la mia mano stringendola, conficcandomi le unghie nella carne.

            "Scarsità, signor Solomon", dissi. "Guerra, pestilenza, carestia. 'Tutti i sassi e i dardi dell'oltraggiosa fortuna' che questo mondo non permette".

            "Davvero?". Sollevò un sopracciglio. "'Incubi' è il termine antico, credo. Quindi devi essere sollevato di trovarti qui, immagino".

            "Decisamente sì", dissi, sentendo il suono che Maria faceva scribacchiando sul suo quaderno, nell'intrecciare parole e immagini ispirate dalle mie bugie. E decisi che non avrei aggiustato la mia biostruttura quel pomeriggio, non ancora.

            Almeno un'altra notte di sogni.