Nardone, Psicosoluzioni
❍ Capitolo 1: La teoria
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico>Psicosi o
presunte tali
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >Paura,
panico, fobie
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >
Ossessioni e compulsioni
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico > Manie e
paranoie
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >
Anoressia, Bulimia, Vomiting
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >
Depressione
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico > Coppie
in crisi
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico > Blocco
della performance
❍ Capitolo 3: Il “self-help strategico”:
l’autoinganno terapeutico
❍ Epilogo
❍ Capitolo 1: La teoria
Locke diceva che riteniamo “folli coloro che, partendo da premesse
sbagliate e usando una logica coretta e stringente, giungono a conclusioni
erronee”. Ogni persona costruisce la propria realtà
sulla base di ciò che fa, guidata dalla prospettiva che assume nella percezione
della realtà con la quale interagisce: l’individuo
arrestato sul volo da New York per Parigi perché in possesso di una bomba si
giustificò asserendo che stava cercando di minimizzare la probabilità che vi
fosse una bomba sull’aereo.
Ogni realtà cambia a seconda
del punto di vista dal quale la si guarda: ciò conduce a reazioni diverse sulla
base delle diverse attribuzioni che si possono fare alla medesima realtà.
Un aneddoto narra che un padre
ed un figlio, con un asino, stavano recandosi in una località distante e furono
criticati ora perché il padre sedeva sull’asino e
il figlio camminava, ora perché padre e figlio procedevano appiedati accanto
all’asino etc. Esso mostra come della stessa
realtà si possono avere percezioni e opinioni molto diverse e, sulla base di
ognuna di queste, le reazioni delle persone cambiano.
Non esiste una conoscenza
davvero vera delle cose, ma può esistere solo una conoscenza idonea, ovvero
strumetnale, che ci permette di gestire le realtà con le quali interagiamo.
Questo, che è il punto di vista della filosofia della scienza attuale, conduce
a prendere le distanze dalle tesi deterministe o positiviste che vorrebbero
affermare la possibiltà di una conoscenza scientificamente vera, optando per lo studio dei modi più funzionali di
agire nei confronti di una realtà mai definitivamente vera, poiché essa è il
frutto dei punti di vista da noi assunti, dei nostri strumenti conoscitivi e
del nostro modo di comunicre. Questo approccio, definito costruttivismo, sulla
base della consapevoleszza della impossibilità del raggiungimento di una verità
definitiva, si indirizza verso il perfezionamento della nostra consapevolezza operativa: ossia della
nostra capacità di gestire strategicamente la realtà che ci circonda: “non sono le cose in sé che ci preoccupano,
ma l’opinione che noi abbiamo di esse” (Epitteto).
Da quando Einstein e Heisenberg
introdussero la relatività e il principio di indeterminazione, la scienza
moderna si è orientata verso la ricerca di una conoscenza strumentale e
operativa e non più verso la ricerca di verità assolute. Da quando Godel nel
1931 con il suo articolo sulle Proposizioni
indecidibili fece crollare la
possibilità di una logica rigorosamente razionale, la logica matematica si è evoluta
verso modelli che contemplano la contraddizione, l’autoinganno e il paradosso come
procedimenti rigorosi e predittivi per il costruirsi delle credenze e del
comportamento umano.
Oggi si deve adattare la nostra
consocenza alle realtà parziali, mettendo a punto, di fronte ai problemi,
strategie che si fondino ogni volta sugli obiettivi che ci si pone e che si
adattino, passo dopo passo, all’evolversi di tali realtà. Quindi il
passaggio è da una conoscenza che pretedne di descrivere la verità delle cose,
quella positivista e determinista, a una conoscenza costruttivista, che ci
permette di adattarci nel modo più funzionale a ciò che percepiamo, che si
evolve verso una conoscenza operativa che ci permette di gestire la realtà nel
modo più funzionale possibile.
Il caso dell’uomo con la bomba mostra che ciò che
costituisce una patologia e la mantiene è ciò che le persone tentano di fare
per risolverla. Una tentata soluzione che non funziona, se reiterata, non solo
non risolve il problema, ma lo complica, sino a portare al costituirsi di un
vero e proprio circolo vizioso, all’interno
del quale ciò che viene fatto nella direzione del cambiamento alimenta la
persistenza di ciò che dovrebbe essere cambiato. Il caso del fobico che
evitando le situazioni che scatenano la sua paura incrementa la sua reazione
fobica è particolarmente eloquente.
Anche l’aiuto che il fobico riceve da coloro che lo
circondano contribuisce a creare/aggravare/mantenere il problema, confermando
al soggetto che da solo non ce l’avrebbe fatta. Una patologia grave viene a
costituirsi sulla base delle reazioni a fenomeni inizialmente tenui; tali
reazioni, tese a controllare la paura, nella loro disfunzionalità l’hanno incrementata fino a condurla a una
elevata espressione patogena.
Ciò che fa reiterare
atteggiamenti e comportamenti disfunzionali non è altro che l’applicazione rigida di soluzioni che
precedentemente nella propria vita hanno funzionato in problemi dello stesso
tipo
Gli esseri umani, come mostra
la psicologia cognitiva e delle attribuzioni, hanno difficoltàù a cambiare le
loro visioni e i loro copioni comportamentali anche se inadeguati.
Spesso le soluzioni sono
riconosciute dallo stesso soggetto non funzionali, ma egli non riesce a
modificarle e alla fine diviene sfiduciato nella possibilità di un cambiamento.
Gli esperimenti di Bavelas a
Stanford in cui i soggetti dovevano trovare leggi e regole in realtà
inesistenti per avere segnalazioni di successo da parte dello sperimentatore in
un esperimento di pressione di pulsanti o di riconoscimento di nessi numerici
mostra come essi difendessero la loro soluzione anche una volta svelato il
trucco. Ciò dimostra come una persona abbia grandi difficoltà a cambiare una propria convinzione, dopo che
se la è costruita mediante un processo esperienziale vissuto come efficace.
COSTRUIRE REALTA’ TERAPEUTICHE
Non è importante come un
problema si è venuto a formare nel tempo, ma come si mantenga nel presente. Ciò
che dobbiamo interrompere, se vogliamo cambiare una realtà, è la sua
persistenza; sulla sua formulazione, svoltasi nel passato, non abbiamo alcun
potere di intervento.
La maggior parte dei modelli
psicologici e psichiatrici di terapia, sulla base di una ideologia determinista
o riduzionista, si occupano di ricostruire le cause passate di un problema
presente con la convinzione che una volta svelate e rese consapevoli, il
problema svanisca. In realtà non esiste alcuna connessione “causale lineare” tra come un problema si è formato e come
questo persiste; né soprattutto tra come il problema si è formato e come può
essere cambiato o risolto. Invece esiste una “causalità
circolare” tra come un problema persiste e ciò che le
persone fanno per risolverlo senza successo. Nell’ottica del provocare cambiamenti, ciò che è
importante è concentrarsi sulle tentate soluzioni disfunzionali in atto;
poiché, cambiando o bloccando queste, si interrompe il circolo vizioso che
alimenta la persistenza del problema. Una volta interrotta la ripetitività il
cambiamento sarà inevitabile, in quanto la rottura dell’equilibrio precedente condurrà alla
necessità dello stabilirsi di uno nuovo, basato sulle nuove percezioni della
realtà.
Immergiamo la mano destra in un
secchio di acqua calda e la sinistra in un secchio di acqua fredda, e poi in un
secchio di acqua tiepida: la sinistra avvertirà l’acqua tiepida come molto calda, mentre la
destra la avvertirà come molto fredda. In relazione a queste percezioni si
terrà un comportamento diverso: si aggiungerà acqua fredda o acqua calda al
secchio di acqua tiepida.
Quindi è chiaro come sia la
nostra percezione delle cose che costruisce letteralmente la realtà dei nostri
comportamenti, e come la ostra percezione sia costruita sulla base di quello
che abbiamo sperimentato e creduto precedentemente. Di conseguenza, l’intervento che conduce al cambiamento è il
provocare delle esperienze percettive concrete che mettano la persona nella
condizione di provocare qualcosa di diverso nei confronti della realtà da
cambiare, in modo da aprire così la porta a reazioni differenti sia emotive che
comprotamentali. In tal modo si effettua non solo un cambiamento nei soli
comportamenti, o nelle sole cognizioni, o nelle sole emozioni, ma un
cambiamento che avviene a livello sia di emozioni sia di cognizioni sia di
comportamenti, sulla scia di una esperienza concreta che modifica il modo di
percepire quella realtà.
I disturbi mentali vengono
visti come il prodotto di una modalità disfunzionale di percezione e reazione
nei confronti della realtà, letteralmente costruita dal soggetto attraverso le sue
reiterate disposizioni ed azioni; processo “di
costruzione” all’interno
del quale, come già dimostrato, se cambiano le modalità percettive della
persona cambieranno anche le sue reazioni.
La concezione del
problem-solving strategico che sta alla base della erapia breve è guidata da
questa logica apparentemente semplice che nella pratica clinica si esprime nel
condurre il paziente, spesso mediante stratagemmi, trabocchetti
comportamentali, benefici imbrogli e forme di raffinata suggestione, a esperire
percezioni alternative della sua realtà. Tali nuove e correttive esperienze
percettive condurranno a cambiare le precedenti disfunzionali disposizioni
emotive, cognitive e comportamentali del soggetto.
La terapia strategica è un
intervento breve e focale orientato all’estinzione
dei disturbi presentati dal paziente. Questo approccio non è una terapia
superficiale e sintomatica, ma un intervento radicale, poiché mira alla
ristrutturazione delle maniere attraverso le quali ognuno costruisce la realtà
che poi subisce.
La risoluzione del disturbo
richiede la rottura del sistema circolare di retroazione tra soggetto e realtà
che mantiene la situazione problematica. A tale prima fase seguirà la
ridefinizione e la conseguente modifica delle rappresentazioni del mondo che
costringono la persona alle risposte disfunzionali.
Il terapeuta, invece di
indottrinare il paziente con la sua teoria e il suo linguaggio, cerca di
entrare nella logica di questi e usarne lo stesso linguaggio e le medesime
modalità di rappresentazione del mondo; questo al fine di aggirare le
resistenze al cambiamento.
Il ricorso a informazioni sul
passato o sulla “storia clinica” serve solo per mettere a punto le migliori
strategie.
L’attenzione è focalizzata su: a) come la
persona, e le persone intorno a lei, hanno cercato e cercano, senza successo,
di risolvere il roblema, ovvero le tentate soluzioni che alimentano il
problema; b) come è possibile cambiare tale situazione problematica nella
maniera più rapida ed efficace, vale a dire le strategie o stratagemmi che
possono produrre esperienze percettivo-reattive alternative.
Dopo aver concordato col
paziente gli obiettivi della terapia si costruiscono, sulla base di questi, le
strategie terapeutiche mirate a infrangere le modalità di persistenza del problema.
La prima fase del trattamento
apre nuove prospettive al paziente, che poi in tempi brevi verranno consolidate
tramite le indicazioni concrete. A tal fine si ricorre a forme di comunicazione
suggestiva che permettono di aggirare le resistenze al cambiamento e di
ingiungere le prescrizioni che condurranno la persona alle esperienze concrete
di cambiamento.
Se l’intervento funziona, di solito il paziente
migliora rapidamente; nella maggioranza dei casi la patologia si sblocca entro
le prime 4-5 sedute. Tale rapido cambiamento conduce ad una progressiva
modifica della maniera di percepire se stesso, gli altri e il mondo, dalla
precedente rigidità patogena verso una elasticità percettivo-reattiva.
A tale cambiamento corrisponde
un progressivo innalzamento dell’autonomia personale e un incremento dell’autostima dovuto al recupero della fiducia
nelle proprie risorse personali.
In molti casi, mediante un
piano strategico ben congegnato e ben applicato, si possono sbloccare, come il
lettore rileverà nel capitolo successivo di questo volume, in tempi rapidi,
talvolta dopo un solo incontro, problemi e disturbi radicati da anni.
Se una terapia funziona, i
cambiamenti debbono apparire rapidamente. Se ciò non avviene, molto
probabilmente la strategia terapeutica utilizzata non funzioan e si rende
necessario cambiarla con una più funzionale. A tal fine si richiede al
terapeuta una grande elasticità mentale, unita a un ampio repertorio di
tecniche di intervento che deve permettere di cambiare rotta quando i dati indicano
che si è fuori dalla direzione desiderata, e di studiare strategie “ad hoc” per il
caso, modificando, a volte, con creatività, tecniche già utilizzate con
successo in altri casi. Oppure, come può essere necessario di fronte a casi
unusuali, mettere a punto con inventiva nuove e originali strategie di
soluzione.
Storia della terapia breve
strategica a partire dalla scuola di Palo Alto.
Indicazioni bibliografiche
sulla terapia breve strategica.
La richiesta crescente da parte
di un pubblico di utenti meno sprovveduto di interventi clinici realmente
efficaci ed efficienti ha reso la terapia breve strategica una esigenza
formativa ineludibile anche per i professionisti della psicoterapia più
tradizionalisti i quali, per reggere la concorrenza, necessitano di apprendere
tecniche idonee a risolvere in tempi brevi i problemi dei loro pazienti.
Esiste una grande differenza
tra il risolvere una patologia in due-tre mesi o in due tre anni o in
cinque-sette anni come nel caso della psicoanalisi, poiché nel primo caso,
rispetto agli altri, la persona oggetto della cura guadagna un bel po’ di vita libera dai suoi disturbi.
Nel 1974 il gruppo di Palo Alto
mostra che su un campione di 92 pazienti affetti da svariate forme di patologia
psichica e comportamentale, si è avuta, in due terzi dei casi, la soluzione dei
problemi presentati in una media di sette sedute.
Nel 1988 Steve de Shazer e
colleghi mostrano come su oltre 500 casi studiati circa il 75% è stato condotto
alla guarigione in una media di 5 sedute.
Nel 1990 nardone e Watzlawick
preentano una ricerca sulla efficacia di un modello evoluto di terapia breve
applicato a oltre 100 soggetti, che mostra esiti positivi nell’84% dei casi, ottenuti in una media di
circa 10 sedute.
E così via.
Oggi si ritiene applicabile questo
approccio alla maggioranza delle patologie psicologiche e psichiatriche.
La terapia breve strategica è
il modello psicoterapeutico, tra gli oltre 500 attualmente presenti sul mercato
della psicoterapia, che offre i più significativi risultati sia a livello di
efficacia che a livello di efficienza.
Ma l’approccio strategico, oltre che un modello
terapeutico, è una scuola di pensiero su come gli esseri umani si rapportano
alla realtà, o meglio di come ognuno di noi si relaziona con se stesso, gli
altri e il mondo e di come mediante tale processo il soggetto “costruisce” la
realtà che subisce o gestisce.
Questo approccio trova
applicazione anche in contesti non clinici, manageriali e organizzativi
Meno nota e meno studiata è
invece l’applicazione di questo modello alla logica
dell’autoinganno personale, ovvero al come un
soggetto possa trasformare autonomamente i propri autoinganni da disfunzionali
in funzionali. Su tale argomento vedi l’ultima
parte di tale volume.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico>Psicosi o
presunte tali
❖ Caso 1: I vicini
vogliono vedermi nudo
❖ Caso 2: Ho un
serpente nella pancia
❖ Caso 3: Delirio e
controdelirio
❖ Caso 4: La calamita
che succhia energia
❖ Caso
1: I vicini vogliono vedermi nudo
Un signore di 60 anni pensava di
essere spiato da telecamere dei vicini mentre si spogliava per andare a
dormire. Aveva cambiato tre volte casa e perseguitato i vicini con telefonate
minacciose, causando un intervento della polizia. Il suo letto aveva un
baldacchino con un pesante telo nero, ma era rimasto costernato perché i
reportage della guerra del golfo avevano reso nota l’esistenza di telecamere in grado di
guardare oltre i muri.
La famiglia lo portò in terapia
con il trucco di fargli accompagnare la figlia, preda di finte crisi depressive.
Il terapeuta lo consigliò di accendere dei potenti faretti piazzati ai lati del
letto e persistette nell’ordinargli di non demordere anche di fronte
alle sue asserzioni di cessato allarme e ai suoi dubbi incipienti di essersi
inventato tutto. Alla fine egli riconobbe che il terapeuta lo aveva condotto
con uno stratagemma a rendersi conto della trappola mentale in cui si era
infilato.
❖ Caso
2: Ho un serpente nella pancia
Un giovane curato con
antipsicotici e terapia analitica è condotto per una crisi acuta: pensa che un
serpe gli è entrato in bocca mentre dormiva. Il terapeuta ascolta, non
contraddice e consiglia, per liberarsene, di dormire a bocca aperta tutta la
notte. Il giorno dopo il giovane telefona che il serpente se ne è andato. Il
giovane si è trovato una compagna, svolge una vita serena, ma ogni tanto entra
in qualche crisi simile a quella del serpente. Ogni volta è andato da Nardone
che, come una sorta di “sciamano tecnologico”, gli ha prescritto un rituale di
liberazione, basato sempre sulla stessa logica della patologia, rovesciandone
però il senso, in modo da mettere la forza della persistenza al servizio del
cambiamento, conducendo così la patologia alla sua autodistruzione.
❖ Caso
3: Delirio e controdelirio
Un ventenne è condotto in
studio per “delirio esilarante”: dice cose senza senso e se la ride tra
sé. Dice che è finito ad Atlantide ma è stato mandato via perché fumava. Il
terapeuta gli dà ragione asserendo che lì col fumo non scherzano. Al che il
giovane rimette i piedi per terra e si lamenta che lui è venuto per discutere
la situazione di emarginazione da cui è stato posto per l’ingresso in famiglia del cognato, uomo
equilibrato e di cultura superiore, che è divenuto il punto di riferimento
della famiglia. La seduta va avanti e ogni volta che il paziente fa una
affermazione delirante viene riportato a terra da una affermazione ancora più
delirante del terapeuta. Alla fine viene concordato un rito di “reincoronazione” del principe usurpato, che poi perdona
magnanimamente il cavaliere usurpatore. Il giovane, da “schizofrenico che pensa che 2+2 fa 5 ed è
sempre molto contento” diviene un “nevrotico
che pensa che 2+2 fa 4 ma è sempre molto preoccupato”. E’ stato
necessario rivedere varie volte nel corso degli anni il giovane e la sua
famiglia ma mai più per una espressioen patologica così marcata come la prima.
❖ Caso
4: La calamita che succhia energia
Un soggetto ritiene che il
collega di lavoro abbia il potere di succhiare le sue energie. La tentata
soluzione consiste, per il soggetto, nel mantenersi “duro” e
talvolta aggredire a parole il collega, che però rimane “imperturbabile” (più probabilmente non reagisce per paura
di una escalation).
Gli viene presentata la
metafora della calamita: il collega è una calamita ed è in questo modo che gli
succhia energia. Gli viene poi prescritto di indossare una tuta di cellophane
quando va al lavoro. Quando, soddisfatto, annuncia vittoria, si accorge che il
collega è un pover’uomo che gli fa un po’ pena. Gli si prescrive allora di
comportarsi col collega “come se” questi
fosse stata una persona fragile, da rassicurare. Infine i due divengono amici.
In questo caso, prima si è
costruita una realtà inventata, calzante con le rappreentazinoi patologiche del
paziente, poi la si è utilizzata per introdurre un cambiamento, reso possibile
proprio da tale realtà che è stata sostituita, durante l’interazione terapeutica, a quella
precedentemente presentata dal soggetto: una realtà inventata che produce
effetti concreti.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >Paura,
panico, fobie
❖ Caso 1: La fobia
degli specchi
❖ Caso 2: La paura di
uscire da soli
❖ Caso 3: Senza di te
ho il panico
❖ Caso 4: La paura di
perdere il controllo
❖ Caso
1: La fobia degli specchi
Il soggetto aveva paura di
essere attratto dagli specchi e battervi il naso. La sua vita ne era
pesantemente condizionata: era socialmente isolato, dormiva con il pannolone
per non andare in bagno, dove era l’unico
specchio della casa, girava accompagnato da persone volenterose incaricate di
afferrarlo nel caso fosse sul punto di battere con uno specchio. Il terapeuta
gli prescrive una forma a suo dire efficacissima di protezione del naso: un
casco da motocross. Il paziente, una volta acquistato il casco, non ha poi
avuto bisogno di indossarlo, e ha finito per lasciarlo a casa.
In questo caso si è spostata l’attenzione dal tentativo di controllare la
paura all’esecuzione di un compito distraentee
suggestivamente prescritto. La persona, senza sul momento rendersene conto,
realizza qualcosa fino ad allora irrealizzabile, ma inequivocabilmente tale
esperienza concreta lo conduce ad avere, anche se solo per poco, una nuova
percezione della realtà vissuta sino ad allora come irresistibilmente
terrorizzante. Ciò conduce alla inevitabile rottura della rigidità el sistema
percettivo-reattivo-fobico e apre la strada alla costruzione di nuove forme
alternative di rappresentazione della realtà e di conseguenti nuove modalità
comportamentali e cognitive.
❖ Caso
2: La paura di uscire da soli
Sono ormai migliaia i pazienti agorafobici che
si assoggettano alla prescrizione di uscire, facendo una piroetta ogni pochi
metri, andare al negozio di frutta vicino allo studio di Nardone, e tornare con
una mela.
In tal mdo si ottiene la prima “esperienza emozionale correttiva” del paziente. Il modo di comunicare il
compito deve essere quello tipico di una induzione inotica, una realtà
suggestiva all’interno del quale sembra che fare piroette
sia un magico “rituale scaccia-paura”. La prescrizione mette il paziente nella
condizione di essere distratto suggestivamente da compiti apparentemente assurdi, come fare piroette e comprare la
mela, che, per essere espletati, prevedono anche l’esecuzione di quella cosa fino ad allora
impossibile perché troppo spaventosa. Una volta eseguito il tutto, la persona
si rende conto di avere superato realmente la paura. Capisce il trucco, ma ha
anche dimostrato a se stessa con una innegabile concreta azione, di essere in
grado di supeare realemnte le proprie difficoltà.
Ovviamente la terapia non
finisce qui; questo rappresenta solo il primo importante sblocco sintomatico.
Si prescrive al paziente di eseguire qualcosa di simile ogni giorno e ogni
giorno di comperare un piccolo regalo per il terapeuta. A questo punto il paziente
di solito abbandona il rituale e di lì a poco riprende una vita normale.
❖ Caso
3: Senza di te ho il panico
La condizione relazionale ordinaria di chi
soffre di paure, panico e fobie è quella connotata dalla massiccia richiesta di
aiuto, sotto forma di presenza, supporto rassicurante e abnegazioen affettiva,
che il soggetto fobico richiede alle persone a lui più vicine. Questa dinamica
interattiva diventa un vero e proprio alimentatore del timore e del senso di
inadeguatezza personale di chi soffre di paure.
Contro questa situazione si
procede, alla fine della prima seduta, ad una ristrutturazione: si chiede al
paziente di non desistere dal chiedere aiuto, “poiché
lei non è in grado di non chiedere aiuto”, ma
solo di pensare che ogni volta che chiede aiuto e lo riceve, riceve
contemporaneamente due messaggi: a) “ti
voglio bene, ti aiuto e proteggo”; b) “ti
aiuto perché da solo non puoi farcela, perché sei malato”.
In questo modo si mette, senza
chiedere alcun diretto sforzo di cambiamento
da parte del paziente, la paura contro la paura: anzi, una paura pi
grande, quella di un ulteriore aggravemento, contro una più picola, l’attuale sintomatologia.
Nella stragrande maggioranza
dei casi la persona interrompe immediatamente il suo repertorio comportamentale
della richiesta di aiuto.
A seguito di questo cambiamento
si rileva un netto descrescere della sintomatologia fobica e non troppo di rado
si assiste a un completo sblocco della patologia. Tutto ciò per il fatto che,
non chiedendo più aiuto e supporto, il soggetto si trova ad affrontare da solo
situazoni che prima avrebbe vissuto sotto protezione, scoprendo di poterle
gestire. Il procedere di tale meccanismo di scoperte graduali delle capacità
conduce la persona ad azzardare sempre più sino, talvolta, al superamento
spontaneo di tutte le precedenti paure. In altri termini, mediante la manovra
descritta si produce la trasformazione di un “circolo
vizioso”, quello della richiesta patogena, in un “circolo virtuoso”, quello del recupero delle risorse
personali e dell’autonomia.
❖ Caso
4: La paura di perdere il controllo
Una signora è soggetta ad attacchi di
ipocondria, panico e agorafobia che lei definisce “severissimi”. E’ una dottoressa che ha sconfitto
innumerevoli terapeuti e ha letto tutte le opere di Nardone e dichiara che non
farà mai cose stupide come le piroette. Nardone le dice di persistere nella sua
resistenza, perché più resiste più agevola il terapeuta. Dopo un braccio di
ferro di 5 sedute al soggetto viene prescritto di prepararsi per un viaggio in
treno da sola (idea inconcepibile!) fino allo studio di Nardone, ad Arezzo. La
signora deve telefonare non appena è pronta, vestita e ha consultato gli orari,
in tempo per prendere il treno. Le viene prescritto di scendere in strada con
le mani serrate e di pigiare i pollici in modo doloroso ogni volta che sente
una fitta di panico, di pagare il taxi con le mani sempre allacciate, di salire
sul treno, slacciarle e dedicarsi a infilare dei fagioli in una bottiglia di
grappa vuota a collo lungo. Giunta ad Arezzo, riporre la bottiglia, incrociare
le mani, chiamare un taxi e farsi portare allo studio del terapeuta.
Con sua stessa sorpresa la
donna esegue il rituale e riesce ad arrivare allo studio di Nardone, anzi,
dichiara che “per il tragitto finale in taxi non ha più
bisogno di serrare le dita”.
Il terapeuta le prescrive una
serie di viaggi in tutta Italia e nell’arco di
pochissimo tempo la paziente diviene in grado di uscire di casa da sola.
Le manovre terapeutiche devono
essere calzate al linguaggio del cliente, alla sua logica e alla sua capacità
di percepire la realtà. Solo se costruite adattandosi a tutto ciò, saranno
accettate dai pazienti e saranno messe in atto e, pertanto, avranno la
possibilità di condurre alla rottura del circolo vizioso delle precedenti
tentate soluzioni che mantengono il problema.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >
Ossessioni e compulsioni
❖ Caso 1: L’ossessione
di farsela addosso
❖ Caso 2: Sterilizzare
tutto per evitare contagi
❖ Caso 3: La
ripetizione di formule mentali
❖ Caso
1: L’ossessione di farsela addosso
Molto spesso, sulla base di una ossessione si
possono sviluppare reazioni di tipo fobico molto simili a quelle della sindrome
da attacchi di panico descritta nei casi precedenti, ma in questo caso se non
si sovverte alla radice la dinamica patogena di tipo ossessivo il cambiamento
ottenuto sarà solo superficiale, e si osserveranno entro breve delle ricadute.
Pertanto è importante distinguere reazioni fobiche basate sulla paura e
reazioni basate sull’ossessione, perché il tipo di trattamento
dovrà essere per certi versi simile, per altri completamente diverso.
Un intellettuale che svolgeva
un lavoro artistico di alto livello, che lo metteva in condizione di dover
esibirsi in pubblico, aveva sviluppato, dopo una colite, il timore di perdere
il controllo dei visceri in pubblico. A poco a poco si era isolato e aveva
cessato di comparire in pubblico.
La terapia, dalla seconda
seduta in poi, si è centrata sul far interrompere al paziente le sue due
fondamentali “tentate soluzioni” che mantenevano il problema: ossia il suo
ossessivo tentativo di controllare il sintomo stando sempre concentrato sul suo
intestino, e il suo evitare qualunque situazione di rischio, compresi molti
cibi e posti dove non ci fosse una toilette pronta all’uso.
La tecnica è stata quella della
peggiore fantasia, che si applica anche a panico, depressione e blocchi di
performance.
Il soggetto dapprima deve
esercitarsi, per mezz’ora al giorno, in casa sua, a farsi venire
degli attacchi di panico pensando alle sue peggiori fantasie. Allo scadere,
dovrà abbandonare tutto quanto, e dedicarsi alla usuale attività giornaliera.
Dopo che il soggetto con sua
sorpresa ha constatato che gli è praticamente impossibile farsi venire le
crisi, e anzi subentra rilassamento e sinanche sonno, gli si prescrive di farsi
venire le crisi per 5 minuti al giorno 4-5 volte al giorno, ovunque si trovi.
Questo, sia in base alla constatazione che è impossibile provocare
volontariamente le crisi, sia in base alla promessa del paziente di fare tutto
quello che il terapeuta gli avrebbe ordinato.
La terapia è proseguita
aumentando le esposizinoi a rischio del soggetto, incrementando la sua fiducia
nella tecnica del cancellare la paura provocandola deliberatamente, sino a
condurlo a mettere in pratica tale prescrizione anche quando il temuto disturbo
poteva insorgere. Il soggetto riferì che all’insorgere
spontaneo della paura o di qualche segnale del suo intestino, bastava
esasperare immediatamente la paura deliberatamente, perché questa svanisse
insieme alle sensazioni somatiche.
❖ Caso
2: Sterilizzare tutto per evitare contagi
Un giovane impiegato di banca, preso dall’ossessione di contrarre l’AIDS (cosa peraltro improbabile dato il suo
stile di vita), è divenuto un igienista compulsivo, che utilizza guanti bianchi
per stringere la mano alle persone e “sterilizza” anche la fidanzata ogni volta che lei va a
trovarlo.
Si tratta di una tentata
soluzione di controllo di una fissazione fobica mediante l’esecuzione di rituali di tipo
protettivo-propiziatorio.
La tecnica di trattamento di
questo e di disturbi simili si basa sulla seguente prescrizione: “ogni volta che di qui alla prossima seduta
lei esegue un rituale, se lo esegue una volta lo esegua cinque volte”
Normalmente scema la
compulsione ad eseguire il rituale, di pari passo con la paura della situazione
da cui si vuole proteggere.
“Come vedevo le cose prima, mi sembrava
logico avere paura e dovermi proteggere con i lavaggi e le altre cose che
facevo, come le vedo adesso mi sembra logico non avere paura e quindi stupido
fare certe cose. Non so cosa sia successo, ma ora le cose vanno bene”.
Ci si impossessa del sintomo
irregrenabilmente compulsivo facendolo diventare qualcosa di volontario che
pertanto può essere rifiutato: “se te lo concedi puoi rinunciarci, se non
te lo concedi sarà irrinunciabile”
Questa prescrizione è formulata
e ingiunta con un linguaggio fortemente suggestivo, come un comando
post-ipnotico, all’interno del quale prima si prescrive una “ordalia”, poi
si dà il permesso di non eseguirla… Ma non
eseguendo tale prescrizione punitiva, il paziente non mette in atto nemmeno i
precedenti rituali, poiché essa altro
non è che una esasperazione paradossale e ritualizzata di quelle espressioni
sintomatiche.
❖ Caso
3: La ripetizione di formule mentali
Una giovane donna razionale si sentiva
costretta a ripetere mentalmente formule composte da nomi e numeri più volte
nella giornata, prima e durante l’esecuzione
di alcune azioni.
In questi casi si utilizza una
prescrizione paradossale che ritualizzi il rituale, come nel caso precedente,
ma in maniera meno complessa da un punto di vista logico-formale: ci si
impossessa del sintomo compulsivo trasformandolo. Questo di solito conduce alla
sua autodistruzione.
Al soggetto fu prescritto di
complicare il rituale recitando le formule al contrario.
La paziente ne risultò così
affaticata che dopo qualche giorno i rituali si erano ridotti e dopo una
settimana aveva avuto solo due episodi, immediatamente inibiti dal compito
assegnatole.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico > Manie e
paranoie
❖ Caso 1: Lo
psichiatra dipendente dalla madre
❖ Caso 2: Gli altri ce
l’hanno con me
❖ Caso 3: Bloccare le
risposte per inibire le domande
❖ Caso 1:
Lo psichiatra dipendente dalla madre
Uno psichiatra di mezz’età risulta intrappolato in una situazione
di incredibile inibizione dai ricatti della madre. Questa, ogni volta che non
aveva notizie del figlio da più di qualche ora si ubriacava solennemente per “sedare la sua ansia e preoccupazione”. Ma la reazione era avvenuta anche ogni
volta che il figlio aveva avuto una fidanzata. Il soggetto non aveva mai
vissuto fuori della casa dei genitori né vi aveva portato una donna.
Si tratta di una classica relazione
vittima-aguzzino, all’interno della quale ciò che mantiene la
situazione è un legame basato su una complicità retta da tentativi
disfunzionali di non fare peggiorare le cose. Così facendo, il soggetto
confermava alla madre l’efficacia delle sue azioni di controllo su
di lui.
“Dovrai anticipare la madre nelle
telefonate: essere tu a chiamare lei, dieci volte al giorno, per chiederle se
sta bene”.
La madre si mostrò alla fine
infastidita, e il terapeuta prescrisse un aumento delle telefonate per ben due
volte. Le crisi alcooliche e i ricatti della madre cessarono e fu prodiga di
esortazioni al figlio di prendersi cura di se stesso e rilassarsi e alla fine
giunse a ventilare l’idea di una relazione amorosa coinvolgente
che recidesse il suo cordone ombelicale.
❖ Caso
2: Gli altri ce l’hanno con me
Un soggetto soffre di manie persecutorie e
crede che tutte ce l’abbiano con lui o che comunque lo
rifiutino. Si sente oggetto di torti continuamente ricevuti, atteggiamenti
offensivi che gli altri hanno verso di lui, atteggiamenti provocatori etc.
“Prima di andare al lavoro pensi: come mi
comporterei oggi, diversamente da come mi comporto, “come se” fossi
convinto di apparire simpatico,
stimato, desiderabile, desiderato? Tra le cose che le vengono in mente scelga
la più piccola e la metta in pratica, ogni giorno faccia una cosa piccola ma
concreta “come se” si
sentisse tale”.
La settimana successiva il
compito venne portato a due cose da
fare e al soggetto venne detto di non illudersi sul cambiamento degli altri.
Tali piccole ma concrete azioni
“come se” la
situazione fosse cambiata rovesciano effettivamente l’usuale interazione tra il soggetto e la sua
realtà, in mood tale che in quei momenti, ponendosi lui diversamente, anche gli
altri si pongono diversamente nei suoi confronti, conducendolo a fare realmente
l’esperienza di sentirsi davvero simpatico e
desiderato.
Ci si focalizza sull’introdurre un piccolo cambiamento che
inneschi una reazione a catena di cambiamenti fino alla completa modifica della
situazione. Si provoca una esperienza emozionale correttiva concreta e la si
aumenta aumentando le azioni e gli atteggiamenti “come se” del
paziente, sino alla costruzione di una nuova realtà funzionale.
❖ Caso
3: Bloccare le risposte per inibire le domande
Un soggetto era tormentato da
continui dubbi: “ho pensato a questa cosa nel modo migliore?
Ho detto bene quella cosa? Ho fatto nel modo migliore quell’altra? Ho aggiustato nel modo migliore
quegli oggetti?”
Anche la più banale cosa da
fare e da pensare scatena una serie di dubbi e incertezze. Negli ultimi tempi
il soggetto si sente bloccato e non riesce a svolgere alcuna attività.
La “tentata soluzione” disfunzionale di fondo si esprime nel
fatto che si cerca di dare risposte ragionevoli e rassicuranti a dubbi e
domande irragionevoli, e più il dubbio è illogico più si cerca di dargli una
risposta logica, in modo tale da invischiarsi sempre più dentro complicati e
sofferti tentativi di risposta razionale a problemi irrazionali.
“Non esistono risposte intelligenti a
domande stupide. Però a lei queste domande vengono, non le può frenare. Non le
sarebbe possibile farlo, perché pensare di non pensarle è già pensarle. Però
lei può bloccare le risposte, in tal modo inibendo gradatamente la domanda. Per
bloccare la risposta lei deve pensare che ogni volta che cerca di rispondere a
una domanda stupida con una risposta intelligente, rende intelligente la domanda e ne rafforza l’utilità. Così facendo, alimenta la catena
di dubbi. Pertanto, ogni volta lei darà una risposta ad un dubbio aprirà la
porta a nuove domande e sarà il gioco senza fine che lei conosce bene. Tutto
peggiorerà, non solo persisterà”
Nell’arco di qualche settimana i dubbi paranoici
furono estinti e la persona fu in grado di riprendere le sue attività
ordinarie.
Anche in questo caso di noti la
struttura linguistica e comunicativa della manovra terapeutica: questa è basata
su di una dinamica iperlogica ma ipnoticamente confusiva con ridondante
articolazione del parlato. In tal modo si costruisce una “realtà” all’interno della quale la forza del sintomo
ossessivo è veicolata contro il disturbo stesso, provocando una sorta di corto
circuito nella dinamica della persistenza del problema.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >
Anoressia, Bulimia, Vomiting
❖ Caso 1: Far mangiare
negando il cibo
❖ Caso 2: Ti aiutiamo
a farlo meglio
❖ Caso 3: Mangiare e
vomitare è troppo bello!
❖ Caso 4: Se ti vuoi
abbuffare, fallo bene!
❖ Caso
1: Far mangiare negando il cibo
Presso il centro di Nardone si possono fare
terapie indirette: ossia guidare i genitori a cercare di far cambiare i figli.
Come al solito il terapeuta non
chiede la storia clinica ma i tentativi attuati per risolvere il problema:
tentate terapie, contatti con vari psichiatri e psicologi.
Una ragazza anoressica rifiuta
la terapia ed è stata già ricoverata senza risultati. Il suo peso attuale è di
40 kg.
Il terapeuta sfrutta in questo
casl la dichiarata disponibilità dei genitori a fare/provare tutto ciò che egli
chiederà. Egli parla il linguaggio del tipico genitore dell’anoressico, che vede le cose in termini di
logica del sacrificio e della protezione: “Io vi
chiederò dei sacrifici ancora più grandi, forse non sarete in grado”
La prescrizione terapeutica è
la seguente: “non dovete assolutamente parlare del
problema, fare una congiura del silenzio. Non dovete neanche tentare di
fare/dare da mangiare a vostra figlia. Dovete attuare un boicottaggio che la
metta in posizione di frustrazione del suo sintomo; evitate di invitarla a
mangiare, squalificate il suo problema smettendo di apparecchiare per lei, di
invitarla a mangiare e se la vedete mangiare qualcosa ricordatele che questo la
farà cadere nella disperazione. Ditele qualche volta al giorno che avete capito
quanto sia per lei importante non mangiare e collaborare”.
La figlia a questo punto ci
rimane un po’ male e la notte si alza a mangiare di
nascosto. Dopo un’altra settimana va a tavola e mangia
qualcosa. Poi esprime il desiderio di parlare col terapeuta (cosa sino a quel
momento rifiutata con estrema violenza).
❖ Caso
2: Ti aiutiamo a farlo meglio
I genitori di una ragazza che
negli ultimi tempi mangia e vomita continuamente si rivolgono al terapeuta per
una terapia indiretta (la ragazza rifiuta asserendo che sono i genitori ad aver
bisogno dello psichiatra).
Il comportamento alimentare di
abbuffate seguite da vomito è per Nardone impropriamente classificato come
bulimia (“bulimia nervosa”, per la precisione): nel suo lavoro di
ricerca ha dimostrato che questo tipo di disturbo non ha niente a che fare con
la bulimia, ma nella maggioranza dei casi è tipico di ragazze tendenzialmente
anoressiche che trovano nel vomito una buona soluzione per non scendere troppo
di peso ma nemmeno ingrassare oppure per continuare a dimagrire mangiando. Ma
dopo un po’ di tempo che esercitano questo tipo di
compulsione, tale tecnica diventa una vera e propria compulsione irrefrebanile
e quindi queste giovani ragazze talvolta anche uomini è come se fossero
possedute da un demone che le conduce a fare grandissima abbuffate seguite da
vomitate.
La ragazza negli ultimi tempi
si è praticamente ritirata in casa a mangiare e vomitare, lasciando fidanzato
ed amici. Si lava poco, non si pettina più e si abbrutisce.
“La soluzione vi costerà un po’ di sacrificio. Non sarà faticoso ma bizzarro.
La madre dovrà chiedere alla figlia, prima di andare al lavoro: “cosa vuoi oggi da mangiare e vomitare?” e poi le comperi quanto lei le indicherà.
Se la figlia si rifiuterà di rispondere lei comperi in dosi abbondanti ciò che
sa lei mangia. Metta tutto in bella vista sul tavolo della sala, non in cucina,
con post-it con scritto “roba da mangiare e vomitare per”. Quel cibo non dovrà essere toccato. Nella
settimana successiva dovrete dirle “guarda
che la roba è lì, puoi andare a mangiare e vomitare”
Gli episodi diminuiscono
gradatamente. La figlia dichiara che il comportamento dei genitori ha tolto ai
suoi rituali ogni piacere e anzi vuole liberarsene, e chiede di vedere il
terapeuta.
❖ Caso
3: Mangiare e vomitare è troppo bello!
Una professionista trentenne in preda a
ripetute crisi bulimiche giornaliere si dichiara “disposta a fare qualsiasi cosa a patto che
non mi si chieda di fare nulla direttamente circa il mangiare e vomitare”; infatti come molti pazienti con tentate
terapie alle spalle ritiene che quel sintomo sia inattaccabile.
Il terapeuta le chiede di
descrivere il suo piacere, convenendo che il piacere fondamentalmente è il
massimo che possiamo avere dalla vita.
Le chiede poi di coltivare e
affinare il vizio, scegliendo l’ora e il luogo adatto (es. dopo
mezzanotte). Disponda i cibi. Scelga il modo di mangiare e vomitare per
goderselo al meglio.
Questo riduce paradossalmente
gli episodi ad uno al giorno contro i cinque-sei di prima senza sentirne la
mancanza perché il singolo rito è stato così piacevole.
Le viene poi suggerito che
differendo di qualche giorno il piacere dell’atto
può aumentarlo, facendola passare a due-tre episodi a settimana senza alcun
sacrificio.
Le viene suggerito di impiegare
il tempo che si è liberato con attività diverse dal lavoro e dopo un po’ il soggetto sente un maggior bisogno di
vita sociale.
Dopo circa 3 mesi ella
stabilisce una relazione amorosa super passinale, colpo finale alla sua
patologia, poiché comincia a dimenticarsi del suo “rito di piacere”. Ne ha scoperto, forse, un altro ancora
più piacevole, quello naturale di una posizione amorosa alla quale adesso aveva
la capacità e il coraggio di abbandonarsi.
❖ Caso
4: Se ti vuoi abbuffare, fallo bene!
Ad una giovane che aveva invano tentato di
liberarsi dalla bulimia venne prescritto di scegliere una dieta e seguirla,
rispettando una regola: se avesse trasgredito, doveva “moltiplicare” la
trasgressione, mangiando cinque volte tanto (cinque pezzi di torta se ne aveva
mangiato uno etc.).
Successivamente la penalità fu
aumentata a sette volte tanto, a dieci volte tanto etc.
Questo stratagemma terapeutico
risulta essere davvero formidabile in quanto trasforma il piacere in una
tortura da evitare. I soggetti dicono che “non è
più la stessa cosa”.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico >
Depressione
❖ Caso 1: Offrire il
pulpito al depresso
❖ Caso 2: Sì, viviamo
in una valle di lacrime
❖ Caso
1: Offrire il pulpito al depresso
Un soggetto depresso, che fa parte di un
gruppo di famiglie meridionali molto unite, tenta la psicoterapia.
Nella depressione le usuali
tentate soluzioni sono la tendenza del soggetto a lamentarsi e fare la vittima,
controbilanciata dall’atteggiamento incoraggiante, consolante e
protettivo dei familiari.
La prescrizione in questo caso
è stata: “Di qui alla prox seduta, tutte le sere,
prima di cena o dopo cena, trovativi tutti insieme per mezz’ora, lui, in piedi, avrà mezz’ora per lamentarsi nel silenzio più totale.
Sarà proibito di parlare del problema al difuori dello spazio serale”
Il soggetto, dopo tre sedute
comincia a raccontare barzellette: “la cosa
strana è che, di colpo, ho cominciato a vedere e sentire le cose come prima, e
mi sono chiesto come era possibile essere stato così male. Ho una bellissima
famiglia, non mi manca nulla, non ho problemi economici. Mi vuol spiegare lei
cosa era successo?”
Dopo tale prima fondamentale “esperienza emozionale correttiva” si procede a una graduale ristrutturazione
delle modalità percettivo-reattive del soggetto conducendolo, mediante altre
specifiche manovre, alla costituzione di un nuovo e funzionante equilibrio
personale.
❖ Caso
2: Sì, viviamo in una valle di lacrime
Una signora con figli sposati e allontanati e
marito indifferente presentava un classico quadro depressivo all’interno del quale la persona si sente
vittima della realtà, come se lei stessa non ne fosse partecipe.
Qualsiasi atteggiamento
consolatorio non produce alcun effetto se non, spesso, l’irrigidirsi della posizione di “vittima”.
“Lei ha ragione. Veniamo al mondo solo per
soffrire. Io la comprendo bene. Capita anche a me spesso di vedere tutto nero e
come nulla vale la pena. Siamo tutti come Sisifo (sic), che fu punito da Zeus
per aver rubato il fuoco e averlo dato agli uomini che ne fecero cattivo uso e
condannato alla nota pena”.
L’atteggiamento terapeutico più funzionale è
quello di essere più depressi di loro. Come una persona in procinto di affogare
che venga spinta ancora più sotto, essi tenteranno in tutti i modi di venire a
galla.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico > Coppie in
crisi
❖ Caso 1: La coppia
che non riusciva a litigare
❖ Caso 2: Il muro del
silenzio
❖ Caso 3: Caro, come
sei maschio quando mi maltratti!
❖ Caso
1: La coppia che non riusciva a litigare
Una coppia non riusciva a non litigare più
volte al giorno con urla etc. per poi ogni volta fare la pace promettendosi
tolleranza.
I due si amano moltissimo e la
notte, nell’intimità, parlano per ore.
La prescrizione è stata: “Credo francamente improbabile che possiate
smettere ed inutile chiedervi di sforzarvi di non farlo. Scegliete una stanza
della casa – oops, no, vi indicherò io una stanza della
casa – e ogni volta che vi capita di litigare
spostatevi in questa stanza e lasciatevi andare”
La coppia riuscì stabilmente a
sostituire all’aggressione l’humour e l’ironia
reciproca.
❖ Caso
2: Il muro del silenzio
Invece dei litigi si può avere una cupa
sopportazione reciproca, rifiuto sessuale, scarso dialogo, assoluta indifferenza,
sorda rabbia reciproca.
In una coppia ognuno dei due
aveva accumulato negli anni una notevole rabbia per ciò che l’altro gli aveva fatto e, proprio perché era
legato a lui, lo puniva con l’indifferenza.
Il compito fu: “Ogni sera, per mezz’ora, quindici minuti ciascuno, in camera,
tirate fuori i vostri rospi e accuse. Al difuori di questo spazio, niente
recriminazioni reciproche”.
Riferirono di essersi detti
cose terribili, che non avevano mai ascoltato, ma di essersi anche sentiti più
liberi nell’esprimere l’affetto.
Avevano avuto rapporti sessuali e fatto una passeggiata.
Tenendo uno spazio del genere a
disposizione essi guarirono.
La rabbia e i sentimenti di
accusa sono come la piena di un fiume. Più si cerca di arginarli più aumentano,
sicché rompono gli argini e travolgono tutto.
❖ Caso
3: Caro, come sei maschio quando mi maltratti!
Una giovane donna sposata è aggredita
continuamente, squalificata per ogni minima colpa e maltrattata anche di fronte
ad estranei. Per il resto, nella loro relazione non manca nulla.
Il comportamento ragionevole
della donna, che spiega le sue ragioni incrementa il comportamento
irragionevole del marito.
Fu prescritto alla donna di
dire al marito quanto la eccitava sessualmente il suo sfogo istintuale. Questo
lo bloccò contemporaneamente e fu lui a richiedere di andare dal terapeuta per
imparare a controllare il suo irrefrenabile nervosismo.
❍ Capitolo 2: L’intervento clinico > Blocco
della performance
❖ Caso 1: Il blocco a
parlare in pubblico
❖ Caso 2: Motivare,
frustrandolo, l’atleta bloccato
❖ Caso 3: La tesi
senza fine
❖ Caso
1: Il blocco a parlare in pubblico
Una manager quarantenne dalla carriera
prestigiosa, dopo aver assistito alla crisi di ansia che aveva costretto un
collega ad interrompere un intervento in pubblico era stata presa da tale paura
che evitava tale performance.
Chiunque si mette a voler
controllare le proprie reazioni fisiologiche, finisce per alterarle proprio
mediante il tentativo di controllarle. In questi casi occorre spostare l’attenzione del soggetto durante la sua
performance, un po’ come per i pazienti fobici e ossessivi.
Alla paziente fu prescritto di
dedicare l’ora prima dell’intervento a pensare alle cose peggiori che
avrebbero potuto capitarle, e poi di iniziare l’intervento
scusandosi con l’uditorio se fosse stata costretta ad
interrompersi per una crisi d’ansia.
❖ Caso
2: Motivare, frustrandolo, l’atleta bloccato
Erano state tentate le usuali tecniche di
rilassamento e autocontrollo nonché training di addestramento virtuale e
ipnotico alla performance, senza risultato. Le persone intorno a lui lo
incoraggiavano benevolmente, affermando che rimaneva sempre il migliore. Il
pubblico era deluso.
Si trattava del performer afflosciato per carenza di
sfide: troppo caricato dagli altri rispetto alle sue qualità tanto da non avere
più la motivazione interiore a dimostrare le sue capacità.
Fu suggerito di frustrarlo
mettendo in risalto come probabilmente la sua migliore stagione fosse
tramontata e di interrompere contemporaneamente qualsiasi complimento e di
mostrare invece – tutto lo staff – un atteggiamento quasi depressivo.
Il terapeuta breve strategico
costruisce realtà che hanno il potere “magico” di condurre il paziente a cambiare le sue
precedenti disposizioni percettivo-reattive. Molte delle tecniche usate sono
state sistematizzate e rese replicabili e misurabili nella loro efficacia,
efficienza e predittività.
Tutta la manualistica
psichiatrica e psicologica relativa alla definizione delle diverse patologie
potrebbe essere riassunta in una emplice definizione: persona bloccata e
intrappolata dalle proprie costruzioni della realtà.
❖ Caso
3: La tesi senza fine
Un dirigente quarantenne rinvia all’infinito la scrittura della sua tesi di
laurea su Wittgenstein. Nardone gli chiede di scriverne l’ultima riga e di portargliela per
discuterne; poi le ultime dieci righe; poi l’ultimo
capitolo e così via fino a che la tesi non è finita.
L’eseguire la scrittura delle argomentazioni
invertendone il senso usuale, operazione non semplice, ha distolto il soggetto
dalla sua patogena “tentata soluzione” di fare un lavoro perfettamente
aggiornato. Un funambolo non può elucubrare mentre cammina su una corda tesa: “la mente colma coincide con la mente vuota”
❍ Capitolo 3: Il “self-help strategico”: l’autoinganno
terapeutico
❖ Rilevare le proprie
tentate soluzioni
❖ Incrementare le
possibilità di scelta
❖ Ogni cosa conduce ad
un’altra cosa
❖ La tecnica dello
scalatore
❖ Come peggiorare la
situazione?
❖ Immaginare lo
scenario oltre il problema
❖ La tecnica del “come
se”
❖ Le peggiori fantasie
❖ Evitare di evitare
❖ Sforzarsi di non
sforzarsi
❖ Incorniciare i
ricordi
❖ Il “sano egoismo”
❖ Prescriversi la
fragilità
Ognuno di noi può costruire e
mantenere i proprio problemi e l’intervento di un esperto può effettivamente
risolverli in tempi rapidi. Se gli esseri umani hanno la capacità in un senso
possono averla anche nel senso opposto: se siamo gli artefici attivi della
nostra realtà possiamo entro certi limiti orientarla anche verso direzioni
funzionali e positive.
L’argomento di questo capitolo è appunto
quello relativo alla possibilità di costruire autonomamente realtà
terapeutiche.
Sono fondamentali le dinamiche
dell’autoinganno, ossia le maniere con cui costruiamo
le trappole dalle quali non sappiamo più uscire.
Fin qui abbiamo parlato di come
uscire dalle trappole. Qui parliamo di come evitare di costruirle e di come
evitare di entrarvi una volta costruite quelle non troppo profonde. Questo è
ciò che N. definisce “autoinganno terapeutico”: abilità del soggetto di costruirsi
visioni della realtà che lo conducano a cambiare le sue disposizioni e reazioni
disfunzionali.
Se il soggetto si rende conto,
dopo qualche tentativo di autoinganno terapeutico, questo non funziona e tende
a far peggiorare la situazione, vuol dire che il problema è giunto ad un tal
punto di complicazione che è necessario rivolgersi ad un esperto.
Può dirsi che questa vigilanza
sulla possibile disfunzionalità delle nostre tentate soluzioni rappresenta il
passo preliminare e il punto di partenza ineludibile per un possibile utilizzo
della logica dell’autoinganno personale come strategia di
self-help.
L’ortodossia del “vero” si
ribella agli autoinganni, ma se ne propone qui il superamento a favore di ciò
che è “utile” o “funzionale”
credere.
Dopo tutte le già accennate
evoluzioni della scienza dal “vero” al “probabile” e il
passaggio dalla logica matematica dal “giusto” al “funzionale”, il soggetto non può più basarsi, nel
rapporto con se stesso, sulla ricerca della “verità” di sé, ma soltanto sul tentare di
costruirsi gli autoinganni a lui più funzionali. Altrimenti si rischia di
incorrere nell’errore dal quale ci metteva in guardia
Nietzche: “noi tutti non siamo ciò che sembriamo in
base agli stati d’animo per i quali soltanto abbiamo
coscienza e parole, e dunque lode e biasimo; noi ci misconosciamo in base a queste grossolane manifestazioni, le sole
che veniamo a conoscere, traiamo la conclusione da un materiale in cui le
eccezioni prevalgono sulla regola, sbagliamo a leggere questa scrittura
apparentemente chiarissima del nostro Sé. Ma la nostra opinioni su di noi, che
abbiamo trovato su queste vie sbagliate, il cosiddetto “io”, d’ora in poi lavora anch’essa al nostro carattere e al nostro destino” (Aurora,
1981, p. 115).
Pertanto si deve evitare di
prendere per buone e definitive le congetture relative alle nostre
caratteristiche, altrimenti queste ci condurranno a costruire credenze che
influenzeranno effettivamente il nosro essere. Profezie ritenute vere che si
autorealizzano.
Più vicine ai nostri tempi sono
le idee di John Elster sul rapporto tracredenze autoingannatrici e credenze
relative all’autorealizzazione della persona. Egli
definisce, sulla scorta di Davidson (1980) e Ainslie (1981), l’autoinganno come la tendenza a identificare
la realtà con i propri desideri nel processo di formazione delle credenze.
Ad es. se mi piace pensare che
un evento è vero posso ripetermelo nella mente, scriverlo e citarlo
ripetutamente con formulazioni diverse, sino a persuadere altri di ciò di cui voglio persuadere me stesso. Se
riuscità ad ottenere tale scopo, quello della persuasione altrui, avr.
costruito una credenza stabile nella mia mente. Tutto ciò può avvenire,
ovviamente, sia per credenze postiive sia per credenze negative. Per inciso, il
pessimista radicale cerca sempre di convincere gli altri che le cose sono
diverse da come dovrebbero essere; se riesce a persuadere altre persone della
sua vizione questo confermerà ancora di più a lui la veridicità della sua
visione.
Molto di frequente, per citare
un altro caso di autoinganno, si osservano gruppi di persone che, uniti da uno
status simile, si confermano l’un l’altro:
single che fra di loro celebrano i vantaggi di non essere accoppiati; credenti di
una setta che lodano a vicenda la virtù di tale fede. Tutto ciò si può
rilevarecontinuamente nelle interazioni comunicative umane, all’interno delle quali la maggioranza delle
persone tende a voler convincere gli atlri della veridicità dei propri autoinganni.
Elster definisce l’autoinganno una sorta di irrazionalità motivata basata sull’inclinazione a modificare la realtà per
farla calzare con le proprie visioni. Questa prospettiva apre la porta a un
universo enorme di possibilità dell’utilizzo
dei meccanismi dell’autoinganno nella direzione del produrre
cambiamenti strategici.
Già Pascal, allo scopo di
riportare la fede cristiana ai traviati dalle passioni e piaceri del mondo,
utilizza argomenti psicologici, tra cui quello della scommessa: nessuno si trattiene
dal fare una scommessa quando sente che ciò che può perdere è infinitamente più
piccolo di ciò che può vincere; se uno crede, e Dio non c’è, non perde nulla; mentre se uno ha fede,
e Dio esiste, ottiene l’infinito.
La proposta di Pascal non è una
ingiunzione diretta, ma una ristrutturazione.
Pascal aggiunge che “ci si persuade meglio, di solito, con le
ragioni che abbiamo trovato da noi che con quelle che si sono presentate all’intelletto di altri”.
Pascal suggerisce anche, per
coloro che scelgono di credere ma hanno difficoltà a farlo: “andate in chiesa, inginocchiatevi, pregate,
onorate i sacramenti, comportatevi come se voi credeste. La fede non tarderà ad
arrivare”. Si tratta della strategia del “come se”.
Infatti è introducendo nel
nostro comportamento l’autoinganno del comportarsi “come se” una
realtà fosse quella desiderata, anche se
le nostre rivelazioi ce la fanno ritenere diversa, che si mette in modo un
processo attraverso il quale, ripetendo le azioni che derivano dal “come se”
prescelto, “si giungerà” al
vedere letteralmente le cose come
abbiamo scelto di vederle sulla base dei nostri desideri. Così facendo, l’influenza di ciò che vorremmo su ciò che è
appare cruciale. Ne deriva che tali processi di autoinganno possono essere
utilizzati con successo al fine della costruzione di percezioni e reazioni il
più possibile a noi funzionali.
Un eccellente esempio è dato
dalle profezie che si autodeterminano. Molte sono in psicologia sociale le
ricerche e gli esperimenti che dimostrano come l’aspettativa
che qualcosa possa accadere può indurre il soggetto che crede in ciò ad agire
in modo tale da produrre effettivamente ciò che si era aspettato o che avrebbe
voluto evitare.
Un esempio letterario – rivisitato tra l’altro da Popper – è quello del mito di Edipo.
Watzlawick, in un suo saggio
offre invece alcune possibilità relative al come profezie positive possano
essere autorealizzate mediante un procedimento di benefico autoinganno.
Il logico matematico Newton Da
Costa ha formulato dei modelli matematici rigorosi relativi alla costruzione
delle credenze mediante procedimenti di autoinganno (“On the logic of belief”, Philosophical
and Phenomenological Research, 2, 1989a; “The
Logic of Self-Deception”, American
Philosophical Quarterly, 1, 1989b).
Il razionalismo aristotelico e
cartesiano imporrebbe la logica del “vero o
falso, terzo escluso”. In altri termini, può esistere ciò che è
vero o ciò che è falso, altre possibilità di escludono. Da ciò deriva il
principio di non contraddizione il quale impone che i fenomeni, per essere
veri, non possono né contraddittori, né paradossali, né autoillusori.
La filosofia e psichiatria
tradizionale ne hanno derivato il concetto che lo stato di salute mentale di
una persona equivale al superamento delle sue contraddizioni interne, “come se” il
raggiungimento di uno stato di congruenza e coerenza interna corrispondesse al
benessere di un individuo. Anche questo potrebbe essere considerato uno
splendido autoinganno.
La cibernetica nelle sue evoluzioni
recenti, (Von Foerster, 1987) dimostra chiaramente come non esista osservazione
senza un osservatore e come l’osservatore sia influenzato nelle sue
osservazioni dalle sue credenze.
Rosenthal ha dimostrato in
celebri esperimenti come le aspettative dello sperimentatore influenzino i
risultati dell’esperimento. Ancora più sorprendenti sono i
risultati di tali sperimentazioni sul rapporto insegnanti-allievi; anche in
questo caso, le aspettative dell’insegnante riguardo le capacità die
soggetti influenzano marcatamente i loro risultati effettivi.
Un meccanismo di autoinganno
con esiti positivi è quello dell’effetto placebo.
L’autoinganno può quindi avere effetto non
solo sulle credenze e cinvinzioni e i conseguenti comportamenti ma anche sulle
treazioni fisiologiche del nostro organismo. Questo rende ancor più
significativo lo studio di tali processi come strumento, in certi casi, di
autoguarigione da alcune forme di patologie.
L’autore, sulla scorta di quanto detto, e
sulla base dell’esperienza clinica circa i fenomeni
suggestivi producibili mediante la comunicazione interpersonale, negli ultimi
anni si è interessato della possibilità di utilizzare la logica dell’autoinganno come strategia personale di self-help.
La suggestione o l’ipnosi, anche se eteroindotte, innescano
comunque un fenomeno di autosuggestione e di autoipnosi. Pertanto anche
prescrizioni terapeutiche suggestivo-ipnotiche in realtà mettono in modo nel
soggetto dei meccanismi autoillusori che producono in lui degli effetti
concreti di cambiamento; non si aggiunge nulla che già la persona nno abbia in
sé, bensì si innescano processi che mobilitano in lei fenomeni di autoinganno
terapeutico.
Alcuni autori legati alla
teoria tradizionale dei sistemi, affermano che ciò non può essere ossibile poiché
il soggetto è all’interno del suo sistema e non può uscire da
questo per introdurvi nuove retroazioni che conducano ad un reale cambiamento.
Ma sottovalutano la autoriflessività della mente, ossia la capacità che gli
esseri umani hanno di costruirsi realtà cirtualieffettive mediante i loro
processi di pensieroe di immaginazione, che rappresentano dellevere e proprie
forme di uscita dal proprio sitema e che possono avee l’effetto concreto dicondurre a nuove
disposizioni percettive e a conseguenti nuove modalità reattive. Ci sono
moltigradi di difficoltà e problematicità finoalla patologia, ciò che fa la
differenza è il livello nel quale il soggetto si trova; è evidente che quando
il livello di disagio è elevato, l’autoguarigionje
è decisamente improbabile. Ma quando il livello di difficoltà patogena non è
giunto alla costituzione di una rigida modalità percettivo-reattiva, riteniamo
non solo possibile ma auspicabile il ricorso a strategie di autoinganno
terapeutico. Poiché se ciò funziona la persona ne guadagna in autostima, senso
di competenza personale e reali risorse di problem-solving.
Quanto segue è una serie di
indicazioni che derivano dall’applicazione del modello del problem solving strategico descritto in
precedenza come modello di psicoterapia, a procedimenti di self-help.
❖ Rilevare
le proprie tentate soluzioni
La prima manovra da mettere in
atto è quella di osservare e rilevare quelle che sono le nostre disposizioni a reagire
ripetute nel tempo: tutta quella serie di ridondanti modalità di porsi e
reagire che ognuno di noi può carilmente ricavare dalla valutazione di come
abbiamo cercato di affrontare i problemi fino a ora incontrati nel nostro
cammino.
Si devono rilevare sia le
nostre tentate soluzioni che hanno funzionato sia quelle che non hanno
funzionato ma soprattutto quali sono le tendenze ad agire che si sono ripetute.
Infatti la nostra mente tende a costruire copioni di strategie che si ripetono
nei confronti anche di problemi diversi.
Come Henry Laborit ha
dimostrato nei suoi studi sperimentali, il cervello umano costruisce circuiti
sinaptici relativi a copioni di reazione comportamentale specifica nei
confronti di determinate situazioni che l’organismo
ha in precedenza incontrato più volte. Tali circuiti fanno sì che, una volta di
fronte a situazioni dello stesso tipo o simili, le reazioni scattino
spontaneamente, al di là dei ragionamenti e delle anticipazioni cognitive.
Pertanto ognuno di noi può
rilevare le proprie tendenze a utilizzare ridondantemente usuali strategie di
soluzione.
Questo di per sé non è
patogeno. La patologia emerge quando tali copioni si irrigidiscono e noi non
riusciamo a modificarli, nemmeno di fronte al loro evidente fallimento.
❖ Incrementare
le possibilità di scelta
Il passo successivo è quello di eaminare una
delle situazioni problematiche, e cercare di trovare, oltre a quella che ci
viene spontanea, almeno altre cinque possibili strategie di soluzione, ciò che
non è assolutamente facile, specie oltre le tre soluzioni.
Può essere utile chiedersi, nel
momento dell’impasse, come vedrebbe quella situazione e
come reagirebbe un’altra persona di nostra conoscenza,
cercando durante questa indagine di mettersi proprio nei panni della persona
prescelta. Questo spesso ci sblocca.
Si cominci poi ad applicare
mentalmente la prima soluzione. Se entro breve tempo non produce effetti o
produce effetti indesiderati, sostituirla con la seconda e procedere nello
stesso modo.
❖ Ogni cosa
conduce ad un’altra cosa
Quando abbiamo un problema, spesso ci sentiamo
impotenti perché lo viviamo come insormontabile nella sua complicatezza,
oppure, quando abbiamo più problemi connessi tra di loro, ci può apparire
impossibile gestirli perché sono troppi.
Occorre in questo caso
rammentarsi che in natura come nei fenomeni mentali e sociali anche la più
grande cosa è composta di tante piccole cose, ma soprattutto che anche dentro
il sistema più complesso e articolato se si introduce un piccolo cambiamento si
innescherà una reazione a catena che condurrà a sovvertire l’intero equilibrio.
Di conseguenza, quando si ha a
che fare con grandi problemi, è bene concentrarsi sul più piccolo ma concreto
cambiamento che si può indurre, il quale sarà seguito da un ulteriore piccolo
cambiamento; il quale ancora, sarà seguito da un successivo piccolo
cambiamento, sino a che la somma di piccoli cambiamenti condurrà al grande
cambiamento. Tutto ciò riduce di gran lunga l’ansia e
il senso di impotenza iniziale, incrementando così già in partenza la fiducia
nell’esito finale.
❖ La
tecnica dello scalatore
Quando si ha un problema complesso da
risolvere risulta utile partire dall’obiettivo
da raggiungere e immaginare lo stadio subito precedente, poi lo stadio
precedente ancora, sino a giungere al punto di partenza. Il tutto in modo tale
da suddividere il percorso in una serie successiva di stadi; ciò significa
frazionare l’obiettivo finale in una serie successiva di
micro-obiettivi.
Questa strategia mentale
agevola la strategia precedente.
Le strategie sopra descritte
riguardano la costruzione di strategie di autoinganno, ossia sequenze di
pensieri e di azioni con l’obiettivo di raggiungere lo scopo finale
prefissato. Pertanto queste sono composte nella loro processualità da tattiche
e tecniche specifiche idonee allo sblocco di particolari sistuazioni emotive o
comportamentali. Qui di seguito sarà esposta una rassegna di tali tecniche.
❖ Come
peggiorare la situazione?
Questa tecnica rappresenta il più delle volte
il primo passo da fare. Consiste nel domandarsi ripetutamente nell’arco di qualche giorno “Come potrei far andare peggio le cose? Cosa
dovrei fare, pensare o non pensare?
Con ciò ci si obbliga a cercare
di orientare la propria costruzione strategica verso l’obiettivo di un peggioramento, con due
conseguenze: a) verrà individuata tutta una serie di pensieri e di azioni da
NON compiere; b) Possono emergere per reazione soluzioni alternative mai
contemplate fino ad allora.
❖ Immaginare
lo scenario oltre il problema
Questa tecnica può avere molte varianti, il
suo obiettivo è spostare l’attenzione dal presente problematico a un
futuro senza il problema.
Si devono immaginare situazioni
concrete al di là del problema presente, cercando di rilevare quali sarebbero
le nostre percezioni, pensieri, azioni in tale contesto. In questo può aiutare
la “fantasia del miracolo”: nella notte è avvenuto un miracolo e il
tuo problema è svanito; da cosa te ne accorgi? Quali sono gli indicatori che le
cose sono completamente cambiate? Cosa ti verrebbe di fare?
Si determina un effetto
suggestivo di profezia che si autorealizza, poiché se io immagino la
possibilità di un cambiamento miracoloso o di una situazione di soluzione del
problema, apro comunque le mie aspettative in tale direzione e ciò ha di per sé
un effetto terapeutico.
In secondo luogo, lo spostare
la nostra attenzione da un presente problematico a un futuro non problematico,
produce un rilasciamento dellatensione presente e un blocco delle attuali “tentate soluzioni”; tutto ciò produce un sollievo concreto e
apre la strada a modalità percettive reattive alternative.
❖ La
tecnica del “come se”
Strettamente connessa alla tecnica di
immaginare lo scenario, ma molto più orientata
a un intervento attivo sul problematico presente, è la tecnica del come se , che si esprime nel chiedersi: “cosa farei di diverso oggi, come mi
comporterei diversamente in questa giornata, se il problema che ho non ci fosse
più?” Tra le cose che vengono in mente,
scegliere la più piccola e metterla in pratica.
Ripetere questo procedimento
ogni giorno.
In tal modo si innesca ogni
giorno un piccolo cambiamento che innescherà una reazione a catena di ulteriori
cambiamenti sino al sovvertimento totale delle nostre modalità precedenti di
percepire e affrontare in modo controproducente il problema.
Come nella teoria delle
catastrofi (Thom, 1990) si produce l’effetto
“butterfly”,
ovvero quel battito d’ala di farfalla che, in un certo spazio e
tempo, innesca una reazione a catena di eventi naturali che condurrà al
ciclone, a qualche migliaia di chilometri di distanza da quel piccolissimo
evento iniziale.
Questa tecnica di autoinganno,
inoltre, siccome si basa sul creare azioni come
se una realtà fosse in un modo, anche se sappiamo che così non è, aggira le
nostre resistenze a mettere in atto pensieri e azioni alternativi a quelli
precedentemente utilizzati.
Una finzione riesce molto
meglio di una azione realmente creduta, ma la finzione reiterata diviene
realtà.
❖ Le
peggiori fantasie
Quando ci capita di soffrire per qualche cosa
che ci è andato storto o per qualche nostra colpa o per qualche brutto
incidente avvenuto nel corso della nostra esistenza, quasi tutti noi abbiamo la
tendenza a cercare di arginare la nostra sofferenza cercando di razionalizzare
l’accaduto o cercando di non pensarci. Ma
razionalizzare una sofferenza emotiva è il modo migliore per buttare fuori
dalla porta una cosa che ci rientra, poi, dalla finestra. Inoltre ogni volta è
come se fosse più forte, quindi ciò non solo non serve ma il più delle volte
incrementa la sofferenza. Si ricordi che pensare
di non pensare è già pensare. Sforzarsi di dimenticare, poiché l’atto di dimenticare è qualcosa di
involontario, rende volontario ciò che non lo è con l’effettoche lo inibiamo; pertanto, il
risultato sarà che manteniamo più a lungo presente nella nostra memoria ciò che
vorremmo cancellare.
In questo caso la tecnica che
ha un potere davvero sorprendente è quella di prescriversi uno spazio
giornaliero, precisamente pianificato, con un inizio e una fine, allinterno del
quale concentrare il più possibile in modo volontario tutte le fantasie che più
ci fanno soffrire. In modo tale da canalizzare e far defluire la nostra
sofferenza.
Di solito l’effetto di ciò può essere che: a) si riesce
a stare molto male nello spazio prefissato; questo produce un alleviamento
della sofferenza al di fuori, nell’arco
della giornata, conducendo gradatamente a farci metabolizzare e superare la
sofferenza, oppure: b) dentro lo spazio predeterinato per soffrire, per effetto
paradossale, non si riesce a star male anzi, più si cerca di stare male, più si
hanno reazioni contrarie. Questo è il caso più frequente, su questa scia ci si
può addestrare all’utilizzo di tale tecnica come strategia costante
per combattere i momenti critici.
Si può esercitare tale tipo di
esasperazione paradossale delle sensazioni e dei pensieri negativi ogni volta
questi ci vengono; in altri termini si può “toccare
il fondo per tornare a galla” ogni volta che si comincia a sentirsi
affogare nei nostri stati d’animo.
Emil Cioran racconta come abbia
imparato, quando è arrabbiato con qualcuno, a prendere carta e penna e scrivere
le cose peggiori su di lui. Ogni volta, dopo un po’, la rabbia, l’odio o la depressione si attenuano fino a
scomparire. Poi afferma che grazie a questo stratagemma è riuscito a sopportare
se stesso e molte delle cose del mondo.
❖ Evitare
di evitare
E’ tipico
cercare di evitare un problema o le situazioni che lo possono esasperare. Ma
così si conferma a noi stessi la nostra incapacità di fronteggiare il problema.
Ogni fuga conduce a un’altra fuga che conferma la precedente e
prepara la successiva e tale catena alimenta la nostra sensazione di
insicurezza e incompetenza personale. Perciò è necessario prescriversi di “evitare di evitare”, assumendo questa come regola di fondo
nella nostra interazione con la realtà che continuamente costruiamo e poi
subiamo.
Non si tratta di mettersi a
prova costante (questa è una strategia decisamente controproducente), ma di non
rinunciare ad alcuna delle situazioni che la nostra esistenza ordinaria ci
propone, per la paura di non essere in grado di fronteggiarla o per il timore
di soffrirne. Bisogna porsi di fronte alle realtà che ci incutono timore come
se fossero occasioni per nuove esperienze di apprendimento e di crescita
personale, incluse le sconfitte; anzi, utilizzare la paura degli effetti
dannosi che il ripetersi di evitamenti potrebbe produrre, come risorsa per
superare la paura di ogni singola situazione che vorremmo evitare. Usare la
paura contro la paura stessa. Il limite di ogni paura è, infatti, una paura più
grande. Si evita, in tal modo, di costruirsi quella triste realtà personale
così descritta dal poeta Pessoa: “Porto
adesso le ferite di tutte le battaglie che ho evitato”.
❖ Sforzarsi
di non sforzarsi
Per alcuni la tendenza naturale di fronte ad
una difficoltà è una reazione di maggiore sforzo nel tentativo di fronteggiare
le cose che ci vanno storte.
Questo significa reiterare le
soluzioni già tentate; mettersi costantemente alla prova; cercare di
controllare emozioni e impulsi.
Chi riesce a usare bene questo
freno della sua imulsività il più delle volte finisce con l’innescare un processo di controllo
ossessivo delle proprie reazini, il quale conduce allo stabilirsi della
compulsione a un irrefrenabile bisogno dicontrollo, anche per le cose
irrilevanti. Il risultato è che il controllo riuscito conduce a una forma di
perdita di controllo del controllo stesso, ovvero tale inclinazione diventa
compulsione.
❖ Incorniciare
i ricordi
Tutti hanno ricordi tristi o penosi. Purtroppo
sulla dinamica dei ricordi si è indagato solo da un punto di vista
psicanalitico, mettendo in evidenza la necessità, ancoratutta da comprovare, di
andare a disseppellire i cosiddetti “traumi” del passato remoto.
Solo di recente si è cominciato
a parlare della capacità di un individuo, mediante forme di autoinganno
terapeutico, di trasformare i ricordi e di mantenerne l’effetto positivo sul nostro presente
(Madanes, 1992)
La rappresentazione delle
memorie è influenzata dagli stati d’animo
attuali e a sua volta poi li influenza.
Ci si può costruire una
galleria immaginaria con quadri ognuno con una immagine importante del passato.
Oltre le immagini che ci provocano sofferenza dovremo cercare di trovarne
almeno una che ci provochi anche una sensazioen positiva. Anche nelel
esperienze più tristi si può trovare, osservando bene, negli antecedenti, o
magari nelle reazioni successive, qualcosa di bello o di piacevole. Questa immagine sarà ciò che dovremo mettere
in risalto nel quadro di quel ricordo, in modo che riguardandolo, ci dia prima
del bruggo qualcosa, anche un minimo, di bello.
In tal modo si costruisce nella
nostra mente una sorta di galleria di nostre opere pittoriche, contenenti
ricordi piacevoli e non, ma ognuna con una immagine che provoca un immediato
senso di piacevolezza; grazie a tale processo di autoinganno noi possiamo
trasformare, orientandolo verso esiti positivi, l’effetto delle memorie sul nostro stato d’animo presente.
Poniamo ad es. il caso che io
abbia nel mio passato una serie di sorie amorose, ognuna con una sua
particoalre dinamica tra le quali qualcuna che mi ha lasciato l’amaro in bocca. Io posso costruire la mia
galleria di quadri dei ricordi con un quadro per ognuna di queste storie,
incorniciando per ognuna di esse l’immagine
più bella che ne è rimasta nella mia memoria.
In questo modo, sarà nostalgico ma piacevole di tanto in tanto, magari
quando si è soli, andare a visitare la propria galleria di ricordi, che,
rimandandoci sensazioni piacevoli, associate a quelle belle immagini da noi
stessi precedentemente selezionate, influenzerà positivamente il nostro umore
presente, ma anche il ricordo di quelle persone. Nardone confessa che questo è
uno degli autoinganni terapeutici di cui ha fatto più largo uso.
❖ Il
“sano egoismo”
Noi tendiamo ad associare qualunque
comportamento egoista a un vantaggio proprio che rende inevitabile il danno altrui.
Questa concezione ci fa
ritenere cattive persone nel momento in cui perseguiamo egoisticamente uno
scopo. A causa di tale convinzione, si tende ad incremenare la frequenza di
atteggiamenti e comportamenti di tipo altruista. Tuttavia da un punto di vista
strettamente logico, l’altruista è un tipo perverso di egoista,
che gioisce nel dare agli altri ma comunque gioisce lui. Inoltre, anche quando
il comportamento altruista è quello del sacrificio, costoso per l’individuo, l’effetto
di quessto non appare così meraviglioso come il tradizionale moralismo vorrebbe
indicare. L’altruista ha bisogno di egoisti, persone
che si abituano a ricevere senza dare e quindi non sviluppano il proprio senso
di responsabilità. La interazione tra altruisti diviene una insostenibile escalation simmetrica, perché l’altruista ha bisogno dell’egoista per sopravvivere come tale.
Il migliore esempio è la storia
della famiglia italiana iperprotettiva nell’ultimo
decennio, che ha prodotto una realtà giovanile connotata di rilevanti insicurezze
e scarso senso di autonomia e responsabilità.
In realtà, se dobbiamo sentirci
in colpa quando mettiamo in atto qualcosa di egoistico, dovremmo sentirci
ancora più in colpa quando facciamo qualcosa di altruistico.
Il logico norvegese Jon Elster
proponendo un calcolo rigorosamente logico-matematico mostra come un
comportamento egoista intelligente sia il comportamento sociale più adeguato.
Egli afferma infatti che l’egoista strategico è colui che calcola che,
per ottenere i massimi vantaggi nella relazione con gli altri, il comportamento
più efficace è quello di cominciare con il dare per ricevere. Egli distribuirà
il suo dare in piccole porzioni a più persone; quello che gli tornerà indietro
da queste persone, nella sua sommatoria, sarà sempre maggiore di quanto lui ha
dato. Tale meccanismo può essere utilizzato anche dagli altri, poiché il
comportamento tra egoisti di questo tipo
è complementare, ossia ci si mantiene a vicenda.
E’ quindi preferibile trasformare l’autoinganno del sentirsi a posto con se
stessi basato sull’evitamento di comportamenti egoisti, in un
autoinganno basato sul prescriversi il “sano
egoismo”. Questo ci libera da quella nostra
tendenza a volere fare troppo del bene alle nostre persone care, rendendole noi
stessi persone incapaci di costruire relazioni sne e funzionali, con se stessi
e con gli altri. Tale nuova assunzione e incilnazione, inoltre, ci emancipa dal
senso di colpa del fare qualcosa solo per noi stessi, poiché da questa
prospettiva, far star bene noi corrisponde poi a far stare meglio le persone
intorno a noi.
❖ Prescriversi
la fragilità
Esiste la opinione diffusa che
la fragilità o la cedevoleza siano sempre negative. E’ opinione inattendibile, e comunque, ogni
virtù, orientata in un certo modo può diventare un difetto, e ogni difetto,
riorientato diversamente, può diventare una virtù.
Negare i nostri limiti e
cedevolezze ce li fa ignorare col risultato che in determinate situazioni ci
travolgono. Chi invece accetta e si perscrive le proprie fragilità riduce o
annulla i loro esiti negativi. Coloro che praticano attività estreme accettano
e utilizzano la loro paura come risorsa. Addirittura i brividi divengono una
sorta di piacere.
Occorre praticare l’autoinganno della prescrizione paradossale
ingiunta a se stessi non solo di lasciare esprimere la propria debolezza, ma di
prescriversela. Se io rendo volontario qualcosa che mi verrebbe spontaneo, ne
inibisco la irrefrenabilità, e in questo caso, di conseguenza, ne riduco la
portata disfunzionale.
Una persona che dichiara
serenamente in date circostanze la sua fragilità agli altri, non solo non
appare fragile, ma decisamente forte. Poiché è necessario molto più coraggio e
forza per dichiarare la propria debolezza che per celarla.
Per riassumere, l’autoinganno terapeutico sta nell’indursi la convinzione che le proprie
fragilità, nel momento in cui ce le prescriviamo, si rovesciano su se stesse,
divenendo risorse, mentre, se cerchiamo di reprimerle o di arginarle, ci
travolgono. Tale assunzione autoindotta conduce inoltre, a evitare di evitare
le situazioni temute, a sforzarci di non sforzarci nel controllo dei nostri
impulsi, e a comportarci “come se”
fossimo in grado di superare i nostri limiti, in modo tale da riorientare una spirale di atteggiamenti e comportamenti
disfunzionali in una spirale inversamente positiva; si trasforma così un
circolo vizioso in un circolo virtuoso.
❍ Epilogo
La verità è cosa sfuggente, e
il paradosso è che il contrario della verità è ugualmente vero (Hesse).
Il processo secondo cui un
individuo crea a se stesso trappole con la propria ragione, se usato in un
senso, può funzionare in un altro.
Ognuno di noi vive di
inevitabili autoinganni; ciò che fa la differenza sta in quale direzione questi
siano orienati. La terapia consiste nel condurre il soggetto a costruirsi gli
autoinganni a lui più funzioanli; sarebbe un guidare la persona a nuove
scoperte di sé, ma la vera scoperta non sta nel vedere nuovi mondi, ma nel
cambiare occhi (Proust). Tutto ciò può essere rapidamente ottenuto se si
insegna alle persone non cosa e perché pensare, ma come osservare e come agire.