P A P E R F L O W E R S |
"ПОМОГИТЕ МНЕ"
Le parole erano scritte col lapis su un
foglietto di carta sporco e stropicciato. Felix Dummett era seduto al tavolo del
suo club con l'amico Alfred Cosgrave e gli aveva passato quel bigliettino
perché lo aiutasse a tradurlo. Definire la cultura di Alfred Cosgrave come
enciclopedica era riduttivo. Ex ufficiale del British Army in Asia, ora fellow del Trinity College di Londra, conosceva alla
perfezione le principali lingue asiatiche e diverse altre dell'Europa dell'Est.
Dummett, che viveva della rendita del consistente patrimonio ereditato dal
padre, lo aveva incontrato ad Eton, ai tempi dell'università, ed erano
rimasti amici.
«Dice: AIUTAMI. È russo. Chi te l'ha
dato?»
«Te lo devo proprio raccontare. Ieri notte
io, Rupert e Adrian abbiamo evidentemente esagerato con i giri di punch a casa
di Herbert Conway, perché quando, dopo averli lasciati davanti ai loro portoni,
sono sceso a mia volta dalla carrozza, ho perso subito l'orientamento e ho
camminato a casaccio per smaltire la sbornia. Mi ci è voluto un po' per
realizzare che ero capitato nell'East End, addirittura a Whitechapel. Avevo
oggetti di valore con me, una penna d'oro, un orologio pure d'oro, trenta
sterline nel portafoglio ed ero vestito bene. Rischiavo di essere aggredito e
rapinato». Rabbrividì: Whitechapel era un intrico di vicoli e un covo
di criminali.
«Sono sbucato in un vicolo vicino al
Tamigi. C'era una locanda per marinai e mi sono fermato a chiedere indicazioni
ad una piccola fioraia. Quella ha indicato se stessa. "Yelena" ha
detto, oltre che un torrente di parole in russo, di cui ho capito solo tre nomi
ripetuti spesso: Maria, Kalinin e Primosc. Poi si è messa il
dito sulla bocca e mi ha dato questo».
«Kalinina, un villaggio nella regione di Primorsk»
lo corresse Cosgrave. «Siberia. Non mi sorprende. Sono posti di terribile
povertà. Quella bimba ha fatto un lunghissimo viaggio, probabilmente sui carri merci,
è sopravvissuta per miracolo a temperature da assideramento. Quanti anni
aveva?»
«Penso non più di dodici. Non saprei: era
così mingherlina».
«Questa macchia sembra sangue».
«Me ne sono accorto dopo. Sono tornato
indietro, ma non ho trovato più traccia della bambina. Ho provato a chiedere in
giro, ma viste le facce ho lasciato subito perdere».
«Che intendi fare, vecchio mio?»
«Niente, Alfred. Ho deciso che non
ritornerò in quei bassifondi neanche morto».
«Non ti posso dare torto, old chap» concordò Cosgrave.
«Purtroppo ci sono situazioni contro le quali non possiamo far nulla, né tu né
io».
Altri membri del club si erano nel
frattempo avvicinati per ascoltare. In silenzio vuotarono i bicchieri di Porto.
Ma Felix non era stato del tutto sincero. Continuava
a pensare a quella bambina, Yelena. Qualche giorno dopo incontrò di nuovo
Cosgrave, che riportò la conversazione sul misterioso biglietto.
«Ti devo avvertire, vecchio mio. Ho
parlato con James Finnigan, sai che lavora a Scotland Yard. Quella zona di Whitechapel che
mi hai descritto si chiama Five Points.
È tristemente nota alle forze dell'ordine. Se tieni alla tua reputazione, oltre
che alla tua incolumità, è bene che non ti faccia vedere da quelle parti,
perché le fioraie fanno quello che fanno tutte le fioraie fuori dagli alberghi,
vale a dire si prostituiscono. Ma quelle sono bambine. Non sei stato aggredito
o rapinato per la semplice ragione che in quelle zone i crimini violenti
attirerebbero l'attenzione indesiderata della polizia, e i protettori hanno
cura che ciò non capiti».
«Ma mi ha offerto solo dei fiori!»
«Ha capito che eri lì per errore e ti ha
lasciato una richiesta di aiuto».
«La polizia non può fare niente?»
«Secondo Finnigan, la sola cosa
intelligente che può fare, se non vuol rischiare di perdere un paio di agenti a
settimana, è rimanere fuori da quei vicoli. Fattene una ragione».
«Terribile» mormorò Felix, e fece cenno al
cameriere perché gli portasse dell'altro liquore.
Anziché farsene una ragione, Five Points e la bambina si radicarono
nei suoi pensieri. Ormai deciso, Felix si era ripromesso di convincere Cosgrave
ad accompagnarlo. L'amico aveva combattuto sul fronte italiano nel 1916 e nel
1917 ed era un eccellente tiratore, con una notevole esperienza di
combattimento. Con lui si sarebbe sentito al sicuro più che con una squadra di
poliziotti, su cui sapeva di non poter contare.
Cosgrave era stato al comando di un
reggimento di Gurkha, le truppe scelte di mercenari nepalesi che
venivano impiegate dall'esercito britannico nelle azioni più sanguinose e nelle
campagne più dure. Scuoteva la testa ricordando i temutissimi e crudeli
contrattacchi delle truppe bosniache dell'implacabile generale Borojević,
che si reimpadronivano rapidamente delle trincee occupate dagli
italiani utilizzando mazze ferrate, tirapugni e coltelli. In quelle condizioni
impossibili, tre quarti dei suoi Gurkha
– per quanto feroci e indomabili – erano morti di febbri e di dissenteria prima
che il suo reggimento fosse stato richiamato.
«Non se ne parla, Felix. Proprio non se ne
parla». Cosgrave aveva opposto un reciso rifiuto alla richiesta dell'amico.
«I vicoli di Five Points sono un calderone ribollente di immigrati,
Felix. Russi, tedeschi, cinesi, africani, malesi, scandinavi, indù, armeni,
egiziani, si ammassano in quegli edifici come la feccia nel fondo del barile».
«Alfred, mi devi accompagnare a
quell'albergo. Devo trovare quella bambina. Se è in pericolo devo salvarla.
Forse stavolta saremo fortunati».
Felix sapeva che l'amico era rimasto
turbato dal suo racconto, e insistette anche nei giorni successivi, senza
dargli tregua. Alla fine Cosgrave assentì, ma ciò che lo convinse fu la
coincidenza con l'inaspettata richiesta di incontrarli da parte del principe
Andrej Rumyantsev-Zadunaisky.
Il principe era un anziano nobile russo di
ingentissimi mezzi, ormai da tempo espatriato a Londra ed accolto nei salotti
dell'aristocrazia britannica. Manteneva i contatti con l'aristocrazia russa,
sia quella emigrata che quella della madrepatria. Si incontrarono al club, e
dopo i convenevoli sedettero ad un tavolino e Rumyantsev spiegò la ragione per
cui aveva voluto vederli.
«Perdonerete, spero, il fatto che un mio
conoscente mi abbia riferito la vostra conversazione della settimana scorsa,
quando sentirete il motivo del mio interesse». Mostrò loro un foglio. «È la
trascrizione in inglese di una lettera che un certo capitano Brjusov ha
consegnato al mio maggiordomo, nella speranza che la facessi recapitare al
destinatario, non avendolo lui trovato all'indirizzo indicato. Appena ho letto
il nome l'ho aperta. Leggetela pure».
PLICO POSTALE AFFIDATO AL CAPITANO OLEG
BRJUSOV, DELLA GOLETTA PETR VELIKIY
DESTINATARIO: SUA ECCELLENZA BARONE ALEXEI
FYODOROVICH ORLOV
17 DRURY LANE, LONDRA
Vyborgsky, Petrograd Oblast', 20
agosto 1921
Eccellenza, Le invio questa lettera
tramite il capitano Oleg Brjusov, della goletta Petr Velikiy, che farà tappa a
Londra per diverse settimane, scopo riparazioni, e ripartirà alla volta di
Rotterdam con un carico di lana e olio di elefante marino delle Shetland.
Il capitano Brjusov non tornerà più in
patria, essendo salpato in tutta fretta dal porto di Kaliningrad con il
nostromo e quattro marinai fidati, sperando che le condizioni del mare si
mantenessero buone, per mettere in salvo il carico di olio di balena, ambra e
barili di aringhe in cui aveva investito tutto il suo capitale.
I bolscevichi, data la terribile carestia
che per colpa loro devasta il nostro sventurato Paese, stanno sequestrando
qualsiasi carico di derrate alimentari o merci scambiabili con esse, sovente
con l'aiuto degli equipaggi, che per la quasi totalità simpatizzano per loro.
Il capitano ha così deciso di commerciare in proprio sulla rotta Londra-Città
del Capo. Gli ho chiesto di consegnarLe questa mia missiva.
Eccellenza, non so come esprimerLe la
mia gratitudine per aver accettato di occuparsi di Mariya e Yelena, le mie due
adorate figlie, da cui purtroppo sono costretto a separarmi perché partirò
definitivamente con l'armata del generale Semënov, con prospettive
incertissime di ritorno.
Come Lei avrà appreso dai giornali,
l'Armata Bianca della Siberia ormai si è disintegrata sotto il contrattacco
bolscevico. Lo stesso generale Kolčak, dopo la caduta di Omsk, ha
rassegnato le dimissioni e designato come successore il giovane generale Grigorij Semënov,
prima di essere arrestato sulla strada per Irkutsk dai cecoslovacchi e
consegnato al direttivo socialista locale per la fucilazione.
Le truppe si stanno ritirando in disordine
verso il mare di Ochotsk, sulla costa pacifica, dove, con l'aiuto delle
unità che i giapponesi hanno inviato, controlliamo ancora il territorio della
provincia di Chabarovsk.
In questa situazione devo preoccuparmi del
futuro delle mie creature. La mia amatissima moglie Nataliya ha deciso di
seguirmi e di condividere la mia sorte, sapendo che metterò le ragazze in buone
mani. Se riusciremo a salpare per l'America ricongiungeremo finalmente la
famiglia. L'Europa ormai ci respinge: dovunque le forze comuniste
rivoluzionarie sono presenti ed attive per operare la sovversione.
Ho appreso che Lei ha fatto questo favore
anche ad altri commilitoni che hanno avuto l’onore di servire sotto il Suo
comando, e quindi mi sono permesso di chiedere che le mie due figlie, che
viaggeranno scortate dalla governante e dal mio fedelissimo giardiniere,
vengano accolte nell’istituto per giovani aristocratici che mi si dice la
signora Elizaveta Chernikova, la vedova del nostro compianto camerataArkadiy,
ha aperto a Londra ormai da tre anni.
Il latore della presente Le consegnerà un
capitale, in gioielli, che io e mia moglie abbiamo messo da parte: una somma
che, spero, basterà per il loro mantenimento fino alla maggiore età.
Le auguro la migliore riuscita per la Sua
missione di trovare fondi e appoggi per la nostra santa causa. Attendiamo il
Suo ritorno.
Il Suo devotissimo Piotr Mihajlovic Belochkin e
sua moglie, Nataliya Sergevna Belochkinova.
«Del giardiniere e della governante dei
Belochkin non si sono avute più notizie dopo lo sbarco» disse Rumyantsev dopo
che ebbero finito di leggere. «Mi ha colpito il fatto che i due nomi, Maria –
Mariya, in realtà – e Yelena, del racconto di Mr. Dummett, sono gli stessi
menzionati nella lettera. Questo conferma i miei peggiori sospetti su Alexei Fyodorovich Orlov ed Elizaveta Chernikova.
Giravano voci circa un traffico di bambini che venivano fatti arrivare dalla
Russia ed impiegati nelle fabbriche di Whitechapel. Pare che Orlov promettesse
ai genitori, tutti ufficiali dell'Armata Bianca, che i figli avrebbero trovato
accoglienza in un istituto di istruzione per fanciulli dell'aristocrazia
gestito dalla donna, vedova di guerra. I bambini venivano poi rinchiusi in
sudici sotterranei e costretti a lavorare diciotto ore al giorno per produrre
piccoli oggetti – fiori di carta, scatole di fiammiferi, spille, ornamenti di
pizzo ed altro ancora.
«Avevamo tentato di avvertire in Russia di
non mandare i propri figli da Orlov e dalla Chernikova, ma senza
grandi risultati. Ora, quanto ha riferito Mr. Dummett è molto peggio di quel
che pensavo, ed è tempo di intervenire».
Si versò due dita di cognac e sollevò il
bicchiere con mano tremante.
«Sono stato anche informato, di recente,
che Orlov ha avuto l'insolenza di utilizzare il mio nome in
collegamento a questo inesistente istituto».
Ecco perché hai sentito che è "tempo
di intervenire", pensò Felix, senza troppo scandalizzarsi.
Cosgrave lo informò della spedizione che
intendevano fare.
«Se lo permetterete, il mio domestico,
Leonid, vi accompagnerà. Conosce la zona per avervi vissuto in passato, e il
suo russo potrà farvi comodo».
«In effetti il mio è alquanto arrugginito»
ammise Cosgrave.
«Siamo d'accordo, allora» sancì
Rumyantsev. «Ma ora lasciate che vi dica qualcosa di Alexei Fyodorovich Orlov.
Servirà a mettervi in guardia».
«Alexei Fyodorovich Orlov è
stato ufficiale e comandante nell'esercito imperiale per più di trent'anni, dal
1880 al 1918. Da ultimo ha partecipato, col grado di colonnello dell'Armata
Bianca del Baltico, alla guerra di resistenza antibolscevica. Ha una notevole
esperienza di guerra, maturata in Afghanistan e ai confini della Manciuria. È
un cavaliere esperto ed ha ricevuto un addestramento militare sin da
giovanissimo. La sua famiglia soffre di un vero fanatismo per l'uso proprio e
improprio delle armi. È una stirpe di militari di nobiltà cosacca, gli Orlov-Denisov.
Suo nonno, Vasily Orlov-Denisov, era nientemeno che il nipote da
parte di madre del primo generale cosacco di cavalleria nominato conte dallo
Zar, Fyodor Petrovich Denisov.
«I Denisov sono per discendenza Sich,
cosacchi di Zaporižžja, più selvaggi e incontrollabili di quelli del Don,
utilizzati dagli Zar sin dalla metà del Seicento contro gli Ottomani e i loro
vassalli Tartari di Crimea a protezione del confine ucraino, in una guerriglia
crudele per il controllo della steppa a nord del Mar Nero. Abitavano in un covo
imprendibile a monte delle rapide del Dnepr, scendevano il fiume per assaltare
le galee turche su barchini che sbucavano dai canali laterali e si dileguavano
dopo aver saccheggiato e massacrato.
«Crimea, Dobrugia e pure le
vicinanze di Istanbul non erano al sicuro dai loro attacchi fulminei. Persino
le galee ottomane temevano le loro incursioni notturne, perché i barchini erano
bassi sull'acqua e potevano scorgerle prima di essere scoperti, e si
avvicinavano con l'albero abbassato e col silenzio dei remi.
«Durante la campagna di Afghanistan che ha
portato alla conquista dell'oasi di Panjdeh, e anche altrove, Alexei
Fyodorovich ha dato prova di una brutalità eccezionale persino tra gli ufficiali
russi. Si vociferava che avesse partecipato allo sterminio di interi villaggi
sul semplice sospetto che collaborassero col nemico, ma è sempre riuscito ad
evitare la corte marziale, perché è un militare molto capace e assolutamente
fedele allo Zar.
«Nei cinque anni di scontri che avevano
preceduto l'accordo anglo-russo sui confini del moderno Afghanistan, nel
territorio montuoso della Transoxiana i russi dovettero fronteggiare
una implacabile guerriglia, e subirono notevoli perdite, con un susseguirsi di
atrocità da entrambe le parti. Per tutto quel tempo Orlov fu al
comando di un reggimento che operò nelle zone più pericolose del Paese.
«È un uomo brutale e sgradevole anche
nella vita privata. La moglie, appartenente ad una importante famiglia nobile della
Capitale, i Vorontsov-Dashkov, è fuggita all'inizio della Rivoluzione
bolscevica con un giovane rivoluzionario. Sapeva che questo avrebbe reso suo
marito pazzo di rabbia. Nella primavera del 1918, Orlov ha lasciato
improvvisamente il Baltico per sbarcare in Inghilterra. Ufficialmente ha
affermato di essere venuto per trovare denaro e appoggi per la causa dei Russi
Bianchi. In realtà, non ha mai avuto intenzione di tornare. Mi è stato
presentato subito dopo il suo arrivo, e ha sollecitato una donazione che mi
sono ben guardato di fare, conoscendo la cinica spregiudicatezza degli Orlov-Denisov.
Ci divideva un'antipatia personale. Io lo ritenevo un selvaggio cosacco delle
steppe, lui mi giudicava un nobile imbelle.
«Ma la mia diffidenza era più che fondata. Orlov ha
dilapidato velocemente in donne, alcol e gioco tutto quello che era riuscito a
mungere dalla comunità russa e, ormai screditato e cacciato da tutti i salotti
dell'aristocrazia, è finito nei bassifondi, dove si è messo in combutta con una
donna di pessima reputazione, Elizaveta Chernikova, una ex prostituta di alto
bordo e mezzana, coinvolta in traffici loschi. Di quando in quando dà notizie
di sé, sempre in relazione ad atti di criminalità violenta. La comunità russa
lo considera una pecora nera, un soggetto estremamente imbarazzante, la cui
sparizione sarebbe un bene per tutti. Purtroppo Orlov sembra avere
sette vite come i gatti».
Rumyantsev bevve un altro sorso di cognac
e passò a descrivere le prodezze del colonnello Orlov in terra inglese.
Orlov aveva una corta e ispida barba
grigia e capelli tagliati a spazzola. Girava sia d'inverno che d'estate con un
cappotto lungo dell'armata zarista. Non portava copricapo e nei giorni più
freddi si intabarrava il volto con una pesante sciarpa di lana. Indossava i
guanti bianchi degli ufficiali zaristi, che ormai erano tanto logori, bucati e
lerci da sembrare dei mezzi guanti grigiastri. Immancabilmente armato fino ai
denti, era un uomo vissuto in costante pericolo di vita, sempre all'erta. C'era
chi giurava che avesse alla cintura delle granate che era pronto a far
esplodere.
Orlov si era presto reso conto che
per un soldato intelligente, spietato e addestrato come lui, che aveva visto di
tutto, sapeva maneggiare qualsiasi tipo di arma, e aveva ucciso più uomini di
quanti riuscisse a ricordare, era un gioco da ragazzi sopraffare la malavita
locale delle strade. Dopo le prime aggressioni non lo disturbarono più. I capi
delle bande avevano capito che per lui sarebbe stato facile toglierli di mezzo
e sostituirli. Era molto più intelligente ed altrettanto spietato di loro – se
non di più.
All'inizio avevano fatto l'errore di
tentare di intimidirlo. In tre arrivarono alla locanda in cui alloggiava, gli
fecero vedere i coltelli e gli ingiunsero di andarsene, lasciando a loro i
bambini. Orlov, per tutta risposta, estrasse il revolver, uccise a
bruciapelo due di loro e si fece portare dal terzo dal capo della banda.
Se ne tornò alla locanda lasciando in
strada due teste mozzate e all'interno due cadaveri evirati e torturati. Per
lui erano poco più che bol'shevistskoj svolochi, feccia bolscevica,
e provava gusto nell'ammazzarli. Tutti coloro che frequentavano i vicoli di Five Points impararono a temere il
suo chura, l'affilatissimo coltello
afghano che portava nelle pieghe del cappotto e che era lesto nell'estrarre e
altrettanto veloce nel maneggiare.
I criminali di strada non sono dei leoni,
ma delle iene, che agiscono in branco e attaccano dove sanno di rischiare il
minor danno. Orlov era un pazzo che non aveva più niente da perdere, e
tutti sapevano bene che avrebbe portato con sé un buon numero di aggressori.
Era difficile se non impossibile da cogliere di sorpresa. Col tempo, si era
sviluppata una tregua e Orlov procurava persino, di quando in quando,
armi dell'esercito zarista alla criminalità di Whitechapel.
Iniziava a bere la mattina tardi, appena
alzato, e per l'ora di pranzo era già completamente ubriaco, ma reggeva l'alcol
in modo prodigioso, al punto che non ci si sarebbe accorti del suo grado di
ebbrezza fino a quando non fosse caduto a terra: quando era completamente
annebbiato si poteva solo notare che i suoi movimenti divenivano più lenti e
più cauti. La sera si metteva al tavolo del Gray Goose Inn, di fronte alla finestra, a tracannare
lentamente il contenuto di una bottiglia di gin e a controllare la sua merce –
le bambine – dall'altro lato della strada. I clienti erano avvisati di non
creare problemi all'uomo con il chura.
Sebbene la comunità russa lo detestasse e
fosse noto alle autorità di polizia per i suoi traffici, nessuno sino ad allora
aveva avuto il coraggio di arrestarlo. Il ventre di Londra contiene più segreti
e vizi inconfessabili di quello della prostituta di Babilonia, e Orlov ne
avrebbe potuti rivelare parecchi. Ordini dall'alto avevano sino ad allora
vietato a Scotland Yard di intervenire. La comunità omosessuale di Londra
proteggeva la riservatezza di certi traffici, e Orlov poteva fare il
nome di persone molto in vista, nomi che non dovevano essere fatti, forse
addirittura collegati al Governo.
Felix e Cosgrave si trovavano all'imbocco
di Anthony Street, insieme a Leonid, un uomo taciturno di cinquant'anni,
vigoroso nonostante l'età.
«Puoi ricordarmi perché alla fine sono
stato tanto pazzo da venire con te?» chiese Cosgrave a Felix.
«Perché anche tu hai un cuore, dopotutto».
«No: quello che ho, per tua fortuna, è un
revolver nella tasca del soprabito. Dio non voglia che il mio partner per le
partite a scacchi del giovedì finisca morto ammazzato e gettato nel Tamigi».
Felix provò un moto di riconoscenza mista
a sollievo. «Mi pare che la sera in cui ho incontrato la bambina sono andato
per di là» disse, e li precedette. Erano passate da poco le nove di sera, il
momento in cui il teatro delle attività notturne cominciava a prendere vita. La
notte era velata di nuvole, con un chiarore lattiginoso che pioveva su vie male
illuminate, tra edifici fatiscenti e fango dovuto alle piogge di inizio
primavera. Improvvisamente si aprì una porta e una donna venne scaraventata per
strada da un'altra. Era completamente ubriaca e continuò ad urlare a lungo
vomitando bestemmie e minacce agli occupanti della casa. Felix e i compagni la
udirono per molto tempo.
Più avanti lo scenario si animava. Uomini
e donne passeggiavano da entrambi i lati della strada. Un uomo era a braccetto
con una giovane donna talmente sbronza da dover essere trascinata mentre
borbottava frasi senza senso. Due o tre volte un gruppo di una mezza dozzina di
ragazze uscì da una casa e, chiacchierando e ridendo rumorosamente entrò in un'altra
porta lungo la strada. Felix e i suoi compagni videro che si trattava di sale
da ballo. Vendite di liquori, bar dove venivano servite ostriche al banco,
luoghi di ritrovo di ogni tipo abbondavano.
La notte non era fredda e molte donne
sedevano agli usci delle case, li invitavano ad entrare e fermarsi un minuto,
per poi insultarli o schernirli come essi le superavano senza rivolgere loro la
parola.
Felix gettò lo sguardo in una di tali
stanze illuminate. Aveva un'unica lampada, qualche mobile, un pavimento di
terra battuta, un piccolo bar con qualche bottiglia e dei bicchieri. Una donna
anziana era seduta all'ingresso e non si mosse. Una ragazza giovane invitò
Felix. «La camera da letto è appena oltre il bar» disse. Felix intravide una
stanza poco più grande della cabina di un armadio, con un piccolo letto, un
materasso che aveva tutta l'apparenza di essere di paglia, e una sedia mezza
rotta. «Un quarto di sterlina!» gridò loro dietro la ragazza con una nota di
disperazione nella voce. Imbarazzato, Felix continuò a camminare.
Alcune ragazze erano molto giovani,
quindici-sedici anni, e sembrava che una parte di loro non fosse capitata nel
mondo del vizio per una serie di circostanze che le aveva allontanate da una
condizione rispettabile, ma fossero nate e cresciute in quell'ambiente
terribilmente degradato, esposte alla perdizione fin dalla loro tenera
infanzia. E forse erano le meno sfortunate tra le più giovani.
Più avanti le strade si fecero meno
frequentate. I passanti entravano furtivamente dietro porte che si richiudevano
subito. Erano arrivati nei dintorni del luogo descritto da Felix, più avanti
nella strada si vedeva l'insegna illuminata del Gray Goose Inn. «Ci siamo» disse Cosgrave. «State in
guardia».
A lato della strada passeggiavano donne
anziane che portavano a braccetto adolescenti più giovani di quelle che avevano
visto sino a quel momento, di tredici-quattordici anni. Altre sedevano a terra
accanto a paccottiglia disposta su un semplice panno: fiori di carta,
bigiotteria insulsa, fermacapelli, con la ragazzina che richiamava i passanti.
Alcune erano sole e offrivano mazzi di fiori. Diversi di loro si fermavano a
confabulare un po' con le donne anziane, poi si allontanavano, preceduti dalle
ragazzine, che si dirigevano veloci verso qualche andito o edificio, oppure
entravano nella locanda.
Improvvisamente Felix esclamò «Eccola!»
Una bambina di dodici anni, estremamente
magra e infagottata in un vestito di panno grezzo, era uscita dalle ombre del
marciapiede di fronte alla locanda e dopo aver percorso neanche cinquanta metri
nella direzione inversa alla loro, aveva svoltato in un vicolo laterale.
Felix, Alfred e Leonid accelerarono il
passo; la videro venti metri più avanti, che procedeva spedita con il suo
enorme mazzo di fiori rossi. Felix la chiamò più volte, ma quella non si fermò
e mantenne la distanza. Arrivata dove il vicolo sboccava nella zona del porto,
si voltò un attimo, come per invitarli a seguirla, e sparì di nuovo nelle
ombre. I tre uomini si trovavano in una zona di fabbriche in parte abbandonate
e sprangate con assi di legno e di magazzini con porte di ferro chiuse da
pesanti catene.
Il vestitino della bambina compariva di
tanto in tanto sotto un lampione e spariva rapidamente. Giunti ad uno spiazzo,
alla fine di una strada senza sbocco che terminava con un enorme cancello
arrugginito, i tre si fermarono, incerti sul da farsi. Poi, dietro il cancello
semiaperto, sentirono lo scalpiccìo dei piccoli piedi.
Penetrarono in un cortile circondato da
bassi edifici ad un piano. Una folata di vento trasportò una puzza terribile,
che sembrava provenire da un lato del cortile dove si aprivano le grate di un
seminterrato. Cosgrave si bloccò di botto. «Questo odore…» Impallidì. «Non è
possibile». Si diresse a grandi passi verso le grate. Mentre camminava, spiegò
a Felix il motivo dei suoi timori.
«Sul fronte italiano, come dovunque,
venivano usati i lanciafiamme. Erano alimentati a benzina. Non sto a dirti
l'orrore delle trincee spazzate da un attacco con armi simili, l'odore di carne
bruciata, i corpi contorti nell'agonia.
«Per aggravare le ferite veniva sciolta
nella benzina della celluloide, in modo che quella miscela micidiale aderisse
alla pelle delle vittime, e queste non avessero scampo. Dovunque ti si
attaccassero le fiamme, ti mangiavano la carne fino all'osso. L'odore in questo
cortile è troppo caratteristico perché lo possa confondere. È stata usata la
stessa miscela incendiaria».
Avvicinandosi, Felix scorse, qualche metro
a destra della porta, qualcosa di bianco che sporgeva a terra da una delle
finestre con le grate. Si avvicinò per vedere di cosa si trattasse e fu
raggelato dall'orrore. Era la parte superiore, testa e spalle, di un bambino
morto, gli occhi aperti con un'espressione folle, gli abiti e i capelli
parzialmente bruciati, le braccia che artigliavano il terreno.
«Cosgrave, per l'amor di Dio, vieni qui a
vedere!»
Cosgrave rimase un istante a contemplarlo
scuotendo la testa. Evidentemente dinanzi agli occhi gli stavano scorrendo
altre immagini, dal passato. «È morto. Entriamo. Preparati al peggio» disse
infine.
Oltre all'odore ripugnante della carne
bruciata, il loro olfatto fu aggredito da effluvi di benzina. Scendendo, a
Felix venne la nausea e barcollò. La cantina era composta da un'unica stanza
col pavimento di cemento, del tutto priva di mobili, con tre finestre.
Due di esse avevano delle grate metalliche
che erano state coperte da tende, mentre la terza era semplicemente chiusa da
assi inchiodate. Trasversalmente al muro erano disposti tre pagliericci, e
altri due contro il muro opposto. Da un grande secchio di latta a destra della
porta proveniva l'odore acre di escrementi che evidentemente nessuno si era
preoccupato di portare fuori per lungo tempo. A sinistra erano ammonticchiati
dei viveri, bottiglie, gallette, confezioni di carne secca. Un piccolo camino
annerito si apriva tra la prima e la seconda finestra.
In fondo, dalla parte opposta
all'ingresso, due ante davano su una specie di cubicolo che era stato
risparmiato dal fuoco. Ospitava un lettino da campo. Di traverso era steso
scompostamente un uomo, la testa che toccava terra, il viso schizzato di sangue
e la gola oscenamente esposta, sgozzato. La testa era grossa, sembrava una
zucca deforme, il volto asimmetrico.
«Probabilmente un subnormale» disse
Cosgrave. Si voltò indietro e abbracciò con lo sguardo lo stanzone. «Qui
venivano portate le bambine e i bambini prima di farli prostituire. Quest'uomo
era incaricato di sorvegliarli». Felix aveva un groppo alla gola che gli
impediva di parlare.
I muri e i pavimenti erano anneriti dalle
fiamme che li avevano lambiti, senza peraltro riuscire ad appiccare il fuoco
all'intero edificio. Dalle tende carbonizzate e dalle assi della finestra
centrale i primi raggi dell'alba si insinuavano sottili illuminando di un
chiarore diffuso la stanza.
Contarono quattro cadaveri nella cantina,
appartenenti a bambine dagli otto agli undici anni. Un corpo era a sinistra
della porta, prono. Un altro vicino all'anta del cubicolo, supino. Un altro
ancora, seduto come a gambe incrociate al centro della stanza, con le braccia
raggomitolate sul busto. Un quarto, in alto, infilato fino a due terzi della
colonna vertebrale sotto il tavolame della finestra centrale, di cui era
riuscito a schiodare l'asse in basso. Il busto, intatto, era quello che sporgeva
all'esterno, con il viso impietrito dal dolore, il resto del corpo praticamente
distrutto, dalla cintura pelvica agli alluci.
«Hai visto le schegge di vetro, per
terra?» disse Felix. «Ce n'erano ovunque… Tu cosa ne dici?»
Cosgrave rifletté, pensieroso. «Mi ricordo
che gli ufficiali dibattevano sul modo più efficace di fermare un carro armato.
Uno di loro aveva proposto di mettere del liquido incendiario in una bottiglia,
poi di fissarvi con del nastro adesivo dei fiammiferi antivento e accenderli, in
modo che all'impatto il liquido prendesse fuoco. Un altro aveva obiettato che
non si poteva condurre un attacco notturno con simili mezzi, perché il fuoco
avrebbe rivelato la posizione degli aggressori. A quanto pare qualcuno ha
realizzato un ordigno del genere. Si tratta senza dubbio di bottiglie. Ho visto
il fondo di una proprio davanti al primo cadavere, di fianco alle catene».
«Catene?»
«In realtà è solo una, ma molto allentata,
che li blocca tutti alle caviglie, con dei collari simili a manette» precisò
Cosgrave. «Attaccata ad anelli nel muro».
Li indicò. «Anche quella che è riuscito ad
infilarsi sotto le assi della finestra» aggiunse.
«Sì, è vero» fece Felix inorridito,
«altrimenti sarebbe riuscito a scappare».
«Peccato per lui» sospirò Cosgrave.
«Quanti anni avrà?» chiese Felix indicando
il cadavere al centro della stanza, seduto a gambe incrociate, totalmente
carbonizzato.
«Otto, non di più» rispose Cosgrave. Mostrò
dei residui di vetro rotto sulle spalle, e il collo di una bottiglia che
giaceva tra le gambe del bambino. «La bottiglia gli è scoppiata direttamente
addosso. Ha preso fuoco in un attimo». Felix sgranò gli occhi. L'amico aveva
ragione.
«Le altre due, invece, si sono dibattute
tra le fiamme» proseguì Cosgrave, dopo aver tossicchiato per schiarirsi la
voce.
«Com'è possibile che il bambino al centro
della stanza sia rimasto immobile mentre una bottiglia gli esplodeva addosso?»
disse Felix.
«Guarda meglio» lo corresse Cosgrave.
Felix si avvicinò e rabbrividì. Il bambino
era stato strettamente incaprettato con del filo elettrico, i nodi abilmente
disposti in modo che dimenandosi non avrebbe fatto altro che stringerli, uno
straccio fissato in bocca con un legaccio. «Evidentemente era il più
irrequieto, ed è stato legato per impedire che si agitasse o gridasse. Quando è
scoppiato l'incendio non ha avuto nessuna possibilità di salvezza» constatò
disgustato Cosgrave.
In quella stava scendendo Finnigan.
«Quanti ce ne sono esattamente?»
Un agente sulle scale gli rispose «Cinque,
a meno di non esserci sbagliati. Un adulto e quattro bambini. Magari ce n'era
uno nascosto in qualche angolo, vai a sapere».
«Sono sei» disse Cosgrave. «Quattro morti
nell'incendio, l'uomo e una bambina già morta prima. Non l'avete vista, è sotto
il cadavere sul lettino. Venite a vedere».
Si sporsero in due nello sgabuzzino mentre
Cosgrave spostava il cadavere dell'uomo. Sfuggì loro una esclamazione di
stupore. Sebbene il corpo presentasse numerose ferite da taglio, riconobbero le
fattezze e l'abito della piccola fioraia.
Felix sbiancò. «Come è possibile? Deve
essere morta da giorni». L'odore e i segni di avanzata decomposizione erano
terribili.
«Beh, pare sia tornata indietro per
chiederci di salvare sua sorella. Ed è ciò che faremo» disse Cosgrave.
«Bastardi, bastardi…» mormorò
semplicemente Finnigan, gli occhi lucidi. Poi disse loro quanto aveva
saputo dai suoi informatori.
«Quello sgozzato è Yurji, il figlio
ritardato di Elizaveta. Avrà trent'anni, difficile dirlo con precisione. Dubito
che sapesse distinguere tra una bambina e una donna adulta quando si trattava
di soddisfare i suoi bisogni. Yurji aveva degli accessi di ira incontrollata.
Avete visto quanto è grosso. Era capace di uccidere, e pare lo abbia fatto con
Yelena».
Felix e Cosgrave tacquero un momento per
assimilare quello che avevano sentito. «E quello?» disse Finnigan indicando il
bambino incastrato sotto il tavolato in alto. «Pare sia rimasto intrappolato
mentre l'incendio gli mangiava le gambe».
«Difficile da immaginare, eh?» disse
Cosgrave cupo.
Ritornarono fuori.
«Nessuno ha sentito niente, anche nei
giorni precedenti? Se fossi incatenato in una casa abbandonata, urlerei come un
ossesso» disse Cosgrave.
«Magari sono stati incatenati lì dentro
ieri sera e poi subito bruciati. Forse sono stati portati qui per essere
uccisi. Solo per essere uccisi» fece Felix.
«No. Hai visto i viveri sulla sinistra,
appena si entra? Sufficienti a nutrirli per qualche giorno. Devono aver chiamato
aiuto. È chiaro».
«I vicini o i passanti forse da giorni
ascoltavano impassibili le grida. Grida che invocavano aiuto» concluse
Finnigan.
«O forse erano mezzi addormentati. Gli
facevano ingoiare laudano o chissà quali schifezze per tenerli tranquilli» ipotizzò
pensosamente Cosgrave.
«È possibile» disse Finnigan.
Il bambino che avevano visto mezzo
carbonizzato di sotto dimostrava a malapena nove anni e li fissava con sguardo
allucinato, gli occhi spalancati. «Si… si è strappato i capelli a ciocche, per
quanto soffriva…» riuscì a balbettare Felix.
«E per lo stesso motivo si è graffiato le
guance, lo vedete anche voi» disse Cosgrave.
Contemplarono le dita contorte, le unghie
insanguinate, le mascelle contratte; i muscoli del collo tesi come corde. La
lingua, bloccata tra gli incisivi, mezza spezzata; i rivoli di vomito che
sporcavano il mento, l'epidermide del busto venata di macchie violette. E gli
occhi fuori dalle orbite, che non la smettevano di fissare il cielo.
Fu Felix a girare i tacchi per primo. Cosgrave
e Finnigan lo seguirono a ruota. Si trovarono di fronte una squadra di
poliziotti pronti a portare via i corpi e a fare gli accertamenti del caso.
«Procedete pure» disse brusco Finnigan. «Ma sarà meglio che non abbiate già
mangiato».
Un uomo di Finnigan arrivò di corsa.
«Ispettore, una bambina venditrice di fiori ci ha chiesto di venire con lei ed
esprimendosi a gesti ci ha condotto all'ingresso del seminterrato di un altro
edificio. Venga a vedere». Felix e Cosgrave si guardarono allarmati. Erano
ormai le nove di una mattina fredda e nuvolosa e aveva cominciato a cadere una
pioggia insistente. L'edificio a cui li guidò l'agente si trovava nella stessa
zona, a due isolati di distanza, in un'area di fabbriche abbandonate ai margini
di un canale maleodorante.
Arrivarono ad una porta scardinata;
l'agente, pallido, si fece da parte per farli passare. «Era chiusa a chiave.
Abbiamo dovuto forzarla con un ariete».
Si trattava di un'entrata esterna che dava
su una rampa buia di scale, alla fine della quale si apriva una seconda porta
di accesso ad uno stanzone situato sotto il livello del terreno. Anche da
quello scantinato proveniva un odore acre di incendio.
Finnigan non fece in tempo ad alzare la
lanterna che inciampò nel primo cadavere. I corpi di sei o sette tra bambini e
bambine, di età variabile dagli otto ai quattordici anni, giacevano
scompostamente sui gradini, ammonticchiati l'uno sull'altro nel vano tentativo
di raggiungere l'esterno. Ne erano prova i segni di graffi sulla porta e sulle
pareti vicino ad essa.
Per proseguire furono costretti a
scavalcarli, cercando di non calpestarli. L'odore di incendio si fece più
forte. Oltre la seconda porta, che non era chiusa a chiave, le scale
seguitavano per un'altra rampa fino al pavimento in terra battuta di un grande
stanzone. Le pareti erano nere di fuliggine e sul pavimento c'erano mucchi di
materiale carbonizzato. Si trattava evidentemente di un laboratorio clandestino
dove i bambini venivano costretti a lavorare e a vivere. Da un lato della
stanza erano allineati i pagliericci, accanto ai quali delle cassette fungevano
da sedie e da banchi di lavoro.
Finnigan raccolse un oggetto da terra: era
un fiore di carta, uno dei piccoli oggetti che venivano venduti nelle vie
intorno al Gray GooseInn. I materiali carbonizzati dovevano essere
altamente infiammabili: carta, colla, spago. Un grosso braciere si era
rovesciato su un mucchio di carbonella, innescando l'incendio. Accanto ad esso
il cadavere di Elizaveta Chernikova, con la gola squarciata da un orecchio all'altro
e i vestiti lacerati sul ventre e intrisi di sangue.
«Orlov ha fatto visita ad Elizaveta.
Durante la colluttazione quella è caduta trascinando il braciere e il carbone
ha incendiato il materiale utilizzato nella fabbrica. L'incendio ha rapidamente
consumato l'ossigeno e si è estinto da solo. Orlov deve aver
sprangato la porta esterna, uscendo. Per quelli che erano qui dentro non c'è
stato scampo: sono morti per asfissia nel giro di pochi minuti. Le feritoie di
aerazione non sono state in grado di assicurare con sufficiente velocità il
ricambio d'aria».
In tutto, una ventina di piccoli corpi
giacevano qua e là nelle varie pose dell'agonia. Felix aprì una porta che dava
su uno stretto stanzino e si lasciò sfuggire una esclamazione quando una
figuretta gli si scagliò addosso per poi lanciarsi di corsa verso l'uscita.
Cosgrave e Finnigan riuscirono ad afferrarla e la tennero ferma mentre si
dibatteva, mordeva e scalciava selvaggiamente. Si trattava di una bimba di nove
anni, coperta di fuliggine. Leonid si avvicinò e le disse alcune parole in
russo. Quella sembrò calmarsi e gli rispose, esitante. Il domestico tradusse:
«Si chiama Mariya. È la sorellina di Yelena». A sentire il nome, Mariya scoppiò
in pianto e cominciò a raccontare ciò che era successo.
Il pomeriggio del giorno precedente, Orlov era
entrato mezzo ubriaco. Si era avvicinato ad Elizaveta Chernikova. «Devo partire
dall'Inghilterra. Dammi i tuoi soldi». Elizaveta era indietreggiata lentamente.
«Alexei Fyodorovich, ognuno ha avuto la sua parte. Tu hai preso il denaro che
ti spetta, e ti ho anche anticipato dei soldi che non mi hai ancora
restituito». Orlov estrasse il coltello. «Dimmi dove tieni i soldi, chertovski bliad',
brutta puttana!»
Elizaveta prese un attizzatoio e
indietreggiò ancora.
«Ho lasciato che una blyadischa,
una meretrice come te, facesse i suoi sordidi profitti. Non ti bastava
sfruttare il lavoro di questi bambini. Dovevi anche prostituirli. Le ossa degli
ufficiali zaristi si rivoltano contro di me». Orlov le fu addosso e
la colpì al ventre.
«Dimmi dove li tieni!» Elizaveta cadde
all'indietro, contro il braciere che veniva utilizzato per attenuare il freddo
terribile dello scantinato. Frammenti di torba incandescente si rovesciarono
sul mucchio di carta e colla.
Orlov la colpì ancora all'inguine. La
donna aveva ora gli occhi chiusi, si teneva il ventre con le mani insanguinate
mentre gorgogliava parole incomprensibili. Orlov infierì
ripetutamente, ma non ottenne niente. Le lingue di fuoco cominciavano ad
illuminare le pareti. I bambini gridando si erano lanciati verso l'uscita.
Orlov, con una bestemmia, si rialzò e si
diresse barcollando verso la porta, fendendo l'aria col coltello sporco di
sangue per farli scostare. Uscì richiudendo la porta. I bambini vi si
avventarono e riuscirono ad aprirla. Ma la porta in cima alle scale era chiusa
a chiave. Molti di loro morirono lì, nel tentativo di uscire all'aria aperta,
quando il gas della combustione risalì fino al soffitto saturando l'ambiente.
«Mariya dice che in quel momento ha visto
sua sorella Yelena, che le ha fatto cenno di entrare nello stanzino, di
chiuderlo e di arrampicarsi su una sedia fino alla grata di aerazione. È questo
che le ha salvato la vita».
Felix abbracciò la bambina tremante.
«Portiamola via» disse.
Erano tutti seduti ad un tavolo del Gray Goose Inn intenti a
stabilire il da farsi. «Orlov si è reso colpevole di omicidio. Sarà
incriminato per l'assassinio dei bambini. Non c'è più nessuno che possa
ostacolare la caccia, ora» disse Finnigan.
«L'unico problema» proseguì, «è che non
abbiamo la più pallida idea di dove si trovi. Abbiamo perquisito l'alloggio di Drury Lane
inutilmente. È stato lasciato in tutta fretta e Orlov non è stato più
visto in giro. Ha un giorno di vantaggio su di noi. Potrebbe essere già fuori
dall'Inghilterra».
Cosgrave guardò Felix e Finnigan. «Credo
di sapere dove si trovi».
L'enorme sagoma della goletta, uno schooner a sei alberi, del tipo
utilizzato per il trasporto di grandi carichi, si stagliava contro un cielo
lattiginoso, al di là degli alberi delle navi più piccole, ancorate una accanto
all'altra ai moli. Il silenzio della notte era riempito dagli sciabordii e dai
risucchi dell'acqua tra gli scafi, separati da appena due metri di intervallo,
e protetti da enormi ciambelle di sughero contro lo sfregamento delle fiancate.
Superarono gli attracchi e giunsero in fondo al molo. La Petr Velikiy era alla fonda ad una cinquantina di metri di
distanza. Oscillava lentamente, trattenuta dalle due ancore di prua e di poppa,
con l'eleganza di un grande levriero.
Non si vedeva alcuna luce. Evidentemente
all'equipaggio era stato dato qualche giorno di permesso prima della partenza.
Cosgrave e Dummett presero un dinghy, una barchetta leggera a remi, e si
accostarono alla nave. Cosgrave si era fatto dare dal soprintendente della
banchina un rampino che gettò oltre la murata, nel punto dove il parapetto,
dalla tipica linea curva delle golette, era meno alto sull'acqua. Si issò
agilmente a bordo ed aiutò Felix. Estrasse la pistola.
Sulla nave non c'era alcun movimento.
«Eppure deve essere qui» bisbigliò Cosgrave. «Proviamo con gli alloggi
dell'equipaggio» suggerì Felix dopo dieci minuti di inutile ricerca in coperta.
Raggiunsero il pozzetto di prua e scesero
per la scaletta che conduceva alla camerata dell'equipaggio. La cabina aveva
dieci cuccette per lato, poste due a due, una sopra l'altra. Era deserta.
Cosgrave accese la lampada a petrolio sopra la porta. Realizzarono l'errore che
avevano fatto troppo tardi, quando sentirono un rumore in cima alle scale. Dal
buio giunse loro chiara la voce di Orlov.
«Vedo che anche tu sei stato un soldato, anglijskij,
da come tieni la pistola: ravvicinata al corpo, alta sul fianco, in modo da
poterla puntare rapidamente in uno spazio ristretto e impedire che un colpo
possa fartela volare via».
Cosgrave aveva spento la lampada della
cabina e aveva fatto cenno a Dummett di mettersi dietro di lui. Puntò la
pistola verso l'alto.
Nel silenzio che seguì, si udì il rumore
di sfregamento di uno zolfanello, poi la cima delle scale fu illuminata dalla
debole fiamma di uno stoppino.
«È inutile che punti la pistola, mi è
sufficiente accendere lo stoppino di questa bottiglia piena di benzina e
gettarla giù. Non avrete scampo. Dovrò trovarmi un'altra nave e probabilmente
uccidere Brjusov prima che mi uccida lui, ma pazienza. Voi siete l'ultimo
ostacolo, poi potrò andarmene da questo Paese freddo, buio e piovoso, dove il
gin annacquato fa schifo e non si trova una vodka decente neanche a pagarla a
peso d'oro».
Cosgrave, sempre tenendo la pistola
puntata, cominciò a salire in silenzio le scale.
«Non fare un altro passo, gospodin oficier,
o ti trasformerò in una torcia prima del tempo». Cosgrave si immobilizzò.
«Vuoi sapere perché sono andato via dal
Baltico e sono venuto in Inghilterra? Perché ho capito che avremmo perso. Che
avevamo già perso. E non solo perché i milioni di contadini poveri, con la loro
fame di terra, non si sarebbero fermati fino a quando non avessero spazzato via
l'ultimo proprietario terriero. O perché Lloyd George ci aveva venduto ai
soviet e i giapponesi, che fino a quel momento avevano combattuto con noi nella
Kamčatka, se ne stavano andando.
«Sai cosa disprezzavo di più, dopo gli
ufficiali dello Zar al servizio dei rivoluzionari, a cui riservavo una morte
lenta, con i metodi appresi dagli afghani? Mi disgustava la debolezza dei miei
commilitoni. Vengo da una famiglia di nobiltà cosacca e l'estrema povertà, la
fame, il freddo, non hanno mai spaventato un Orlov. I miei antenati, ai
confini dell'impero russo, conducevano una guerriglia implacabile con i tartari Giray,
vivendo nella steppa nelle loro stesse condizioni. Sentire lamentarsi i miei
camerati mi era insopportabile.
«Mia moglie mi ha tradito con un
bolscevico rivoluzionario. Era stanca della brutalità e del disprezzo con cui
la trattavo. Non era stata capace di darmi un figlio, ma non l'avevo ripudiata,
perché la santa religione ortodossa, per un nobile russo, è un dovere, e avrei
condiviso con lei il legame matrimoniale fino alla morte. Lei morì – come previdi
sarebbe avvenuto, essendo di salute cagionevole – di colera a Stavropol',
durante l'assedio del generale dell'Armata Bianca Pyotr Wrangel,
nell'ottobre del 1918. Il suo amante l'aveva lasciata già da parecchie
settimane per andare a combattere in Siberia, perché la causa rivoluzionaria,
ai suoi occhi, veniva prima dei rapporti personali. Conoscendo Lydia, so che
per orgoglio non sarebbe comunque tornata da me.
«Certamente, neanch'io sono un immacolato
patriota. Mio nonno soleva dire che in tempi di caos e violenza incontrollata
niente è più sicuro che essere un soldato anziché un civile. Molti di noi erano
in guerra per questo semplice motivo. Meglio essere l'ingranaggio di ferro che
il dito che ne viene schiacciato. Con le armi ci si può proteggere, si possono
requisire i viveri alla popolazione, sequestrare i mezzi di trasporto per
fuggire. Così, alla fine, requisimmo tutte le navi. Impedimmo a migliaia di
famiglie rispettabili, impiegati, nobili, ragazze, vecchi, bambini, di fuggire,
perché eravamo noi, i loro difensori, che si erano impadroniti dei mezzi di
trasporto. La guerra è una cosa sporca, tu e io lo sappiamo, anglijskij, anche tu avrai visto la tua
parte di barbarie».
«Perché le bambine?» chiese Cosgrave, per
prendere tempo.
«Sono un nobile, dovevo pur vivere. Il
lavoro non fa per me. I miei antenati hanno sempre sfruttato i contadini e i
servi. Mio nonno esercitava ancora il diritto di vita e di morte sui suoi
contadini. Che differenza faceva se Elizaveta Chernikova sfruttava quei
bambini? Sapete come li trattano nelle miniere di Krasnoyarsk o nelle
filande intorno a Novgorod?»
Improvvisamente, Cosgrave spalancò gli
occhi. Felix, seguendo il suo sguardo, sussultò a sua volta. Yelena si era
materializzata dalle ombre. Passò dinanzi a loro, li guardò e pose un dito
sulle labbra, poi cominciò a salire lentamente le scale. Orlov, che non
l'aveva vista, continuò a parlare.
«Poi Elizaveta notò che alcune delle
bambine stavano crescendo e come le guardavano gli uomini, ed ebbe l'idea. Era
avida, il denaro che già guadagnava non le bastava. Era terrorizzata dalla
prospettiva di morire all'ospizio dei poveri e aveva l'ossessione di mettere da
parte abbastanza soldi per una vecchiaia agiata. Io, neanche questa volta, mi
opposi».
Orlov tacque. Quando riprese il suo
tono era diverso.
«Sto invecchiando. Chiacchiero come una
vecchia babushka che
racconta a tutti le sue storie. Cinque anni fa vi avrei già uccisi e sarei
sulla via per Birmingham. Ora basta. Accenderò i fiammiferi antivento che sono
legati alla bottiglia e la lancerò. Se mai riuscirai a colpirla affretterai
solo la tua fine, inglese».
Si udì uno sfrigolìo e poi il
sibilo dei fiammiferi antivento che bruciavano. Ma Yelena era arrivata i cima
alle scale. Superò il boccaporto. Allungò una mano. I fiammiferi si spensero
come per magia. Orlov esclamò «Stai lontana da me!» e barcollò
indietro, rendendosi visibile un singolo istante nel vano della porta. La
pistola di Cosgrave fece fuoco in rapida successione. Due colpi andarono a
segno. Orlov fu scaraventato contro la parete e scivolò in ginocchio
sui primi scalini.
«Chyort voz’mi» disse solo,
"sono fottuto". Si rialzò, appoggiandosi alla parete, tossì sangue.
Aveva il suo coltello in mano.
«Lo sai cos'è questo, anglijskij?
È un pugnale afghano. Sai come l'ho preso? Mentre la nostra fanteria si
avvicinava a Panjdeh io ero in ricognizione sulle alture intorno
all'oasi. Mi trovavo lì da due settimane quando cademmo in un agguato dei
montanari. Perdemmo cinquanta uomini. Li inseguii fino al loro villaggio
inerpicato sulle pendici del valico per Herat e li circondai. Feci a pezzi il capo
villaggio con il suo pugnale di fronte ai suoi, prima di ordinare lo sterminio
di tutti, uomini, donne e bambini».
«Non ascoltare, old boy, sta tentando di spaventarti» disse Cosgrave.
Orlov cominciò a scendere,
appoggiandosi con una mano insanguinata alla parete e tenendo con l'altra
avanti a sé il lungo pugnale che scintillava maligno nella semioscurità.
«Morgaly vikalyu, padla –
ti caverò gli occhi, anglijskij. Tu e il tuo amico verrete con me.
Dobbiamo tutti morire, ne tak li?»
La pistola di Cosgrave fece un singolo
clic. Aveva esaurito i colpi.
Orlov strisciò sugli ultimi gradini e
si avventò su di loro. Cosgrave prese una sedia e gliela scaraventò contro. Ma Orlov era
dotato di una forza disumana. Afferrò con una mano il bordo del tavolo di
quercia e diede un singolo violentissimo strattone. Quello volò prendendo in
pieno Alfred e fracassandogli il petto.
Felix si appiattì contro la parete. Il
respiro di Orlov era gorgogliante, i polmoni stavano riempiendosi di
sangue.
«Idi k chertu – vai
all'inferno» ansimò, e alzò il pugnale.
Felix chiuse gli occhi. Una detonazione
rimbombò assordante e lui li riaprì: parte della testa di Orlov non
c'era più. Il russo rimase diversi attimi immobile, grottescamente in piedi,
poi cadde di schianto all'indietro e continuò a contorcersi sul pavimento per
un altro minuto in preda a sussulti. Nel vano delle scale apparve la sagoma di
un uomo armato.
«Kooshi govno» imprecò il
capitano Brjusov. «Volevi distruggere la mia nave, e invece sei andato
all'inferno, bastardo».
Era passata una settimana. Felix e
Finnigan avevano partecipato al funerale di Cosgrave. La comunità russa aveva
tirato un sospiro di sollievo. Il principe Rumyantsev aveva mandato le sue
condoglianze e si era offerto di accogliere in casa la piccola Mariya, in
attesa di poter contattare i genitori.
In piedi, fuori dal club, due uomini
fecero cenno ad una carrozza. Erano le dieci di sera ed erano diretti alle
rispettive abitazioni.
Il principe Rumyantsev si tolse il
cappello e lo mise accanto a sé sul sedile. «15 Belgravia Street» disse al
cocchiere. La carrozza si rimise in moto. Rumyantsev guardò l'altro uomo. «C'è
mancato poco» disse.
«Già, abbiamo avuto una notevole dose di fortuna,
ma se non fossi stato bravo ad afferrare l'occasione non sarebbe andata così
bene» rispose Felix Dummett.
«Com'è che ti trovavi fuori da quella
cantina quando Orlov è entrato?» chiese Rumyantsev.
«In realtà l'avevo pedinato dal Gray Goose Inn. Quando l'ho
visto uscire fuori di sé dallo scantinato di Yurji ho atteso qualche minuto,
poi ho aperto la porta e ho gettato tre di queste». Fece vedere a Rumyantsev
una bottiglia piena di un liquido scuro, con dei fiammiferi antivento incollati
con un nastro adesivo.
«Sei pazzo?» esclamò Rumyantsev. «Se
Finnigan ti vede con quella siamo spacciati».
«È solo un souvenir» ironizzò Dummett
accarezzando affettuosamente la bottiglia.
«Ti ha dato di volta il cervello» commentò
Rumyantsev. Batté sul tetto della carrozza. «All'Embankment». Poi si rivolse di
nuovo a Dummett.
«Getterai la bottiglia nel Tamigi e
tornerai a casa con un'altra vettura. Meglio non farsi vedere insieme per un
po'».
Dummett annuì con aria distratta,
continuando a giocherellare con la bottiglia. «Un peccato, che non possa
tenerla. Non ho avuto bisogno di usarla, nella cantina di Elizaveta» disse. «Mi
è bastato chiudere la porta esterna dopo che Orlov se n'era andato.
Mariya ha visto qualcosa?»
«Leonid l'ha interrogata a lungo. Non sa
nulla. E tuttavia penso sia meglio liberarcene» rispose Rumyantsev.
«Sono d'accordo, ma prima potremmo…»
«Dummett, la tua propensione a sopprimere
vite umane in modo doloroso è inquietante persino per me. Se non fosse per il
fatto che il patrimonio che dici a tutti di avere si è volatilizzato ormai da
tempo, che dipendi completamente da me per la tua sussistenza e che quindi hai
tutta la convenienza a controllare i tuoi istinti, avrei già preso in
considerazione l'idea di farti eliminare da Leonid. Negli ultimi due anni in
quella cantina hai ucciso tre bambine e ho dovuto risarcire lautamente
Elizaveta. Gli accordi erano che tu le passassi a me, non che perdessi il
controllo dei tuoi impulsi. La risposta è no, rischiamo di lasciare troppe
tracce sul cadavere».
Dummett non rispose, cominciò a
fischiettare. Rumyantsev gli fece cenno di smettere e proseguì. «Leonid avrà
l'incarico di scortarla a Parigi: diremo che sono riuscito a rintracciare i
genitori e a prendere accordi perché la famiglia si riunisca in Francia. Ce ne
libereremo sul traghetto per Calais. Non è la prima volta che un bambino troppo
vivace si sottrae alla vigilanza di un adulto e cade in acqua. Leonid è molto
bravo in questo genere di cose. Qui, diremo che la bimba è arrivata a
destinazione».
Dummett annuì, poi sorrise a se stesso, al
pensiero di qualcosa.
«Mi incuriosisci, Felix. Puoi dirmi cosa
ti sembra così divertente?» fece Rumyantsev.
Dummett lo guardò. «Non ti è venuto in
mente che in tutta questa storia abbiamo gabbato anche un fantasma? Yelena non
mi aveva mai visto nello scantinato, e crede che Mariya con noi sia in buone
mani. Evidentemente nell'aldilà i morti non acquisiscono una migliore
conoscenza delle faccende dei vivi».
Il principe stava per replicare quando
guardò fuori dalla finestra e aggrottò le sopracciglia. «Che diavolo…» Erano
davanti al Gray Goose Inn.
Perché il cocchiere li aveva portati sin lì? Un pensiero lo colpì, mentre un
brivido gelido gli serpeggiava per la schiena.
«Il cocchiere, Felix: non hai notato che
indossava un pastrano dell'armata zarista?»
Aveva appena finito di dirlo che una
piccola fioraia con un mazzo di fiori rossi sbucò da una via laterale e si parò
dinanzi al cavallo.
L'animale si imbizzarrì. La carrozza
oscillò violentemente e andò a battere la fiancata contro un muro. La bottiglia
sfuggì di mano a Felix e si ruppe. Un odore di petrolio invase l'abitacolo.
«Usciamo di qui, per l'amor di Dio!» urlò
Rumyantsev.
In quel preciso momento una piccola
fioraia si affacciò dal vetro frantumato del finestrino. Aveva con sé una
scatola di zolfanelli. Ne sfregò uno e l'accese.
«È ora che veniate con noi».