P A P E R    F L O W E R S


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"ПОМОГИТЕ МНЕ"

Le parole erano scritte col lapis su un foglietto di carta sporco e stropicciato. Felix Dummett era seduto al tavolo del suo club con l'amico Alfred Cosgrave e gli aveva passato quel bigliettino perché lo aiutasse a tradurlo. Definire la cultura di Alfred Cosgrave come enciclopedica era riduttivo. Ex ufficiale del British Army in Asia, ora fellow del Trinity College di Londra, conosceva alla perfezione le principali lingue asiatiche e diverse altre dell'Europa dell'Est. Dummett, che viveva della rendita del consistente patrimonio ereditato dal padre, lo aveva incontrato ad Eton, ai tempi dell'università, ed erano rimasti amici.

«Dice: AIUTAMI. È russo. Chi te l'ha dato?»

«Te lo devo proprio raccontare. Ieri notte io, Rupert e Adrian abbiamo evidentemente esagerato con i giri di punch a casa di Herbert Conway, perché quando, dopo averli lasciati davanti ai loro portoni, sono sceso a mia volta dalla carrozza, ho perso subito l'orientamento e ho camminato a casaccio per smaltire la sbornia. Mi ci è voluto un po' per realizzare che ero capitato nell'East End, addirittura a Whitechapel. Avevo oggetti di valore con me, una penna d'oro, un orologio pure d'oro, trenta sterline nel portafoglio ed ero vestito bene. Rischiavo di essere aggredito e rapinato». Rabbrividì: Whitechapel era un intrico di vicoli e un covo di criminali.

«Sono sbucato in un vicolo vicino al Tamigi. C'era una locanda per marinai e mi sono fermato a chiedere indicazioni ad una piccola fioraia. Quella ha indicato se stessa. "Yelena" ha detto, oltre che un torrente di parole in russo, di cui ho capito solo tre nomi ripetuti spesso: Maria, Kalinin e Primosc. Poi si è messa il dito sulla bocca e mi ha dato questo».

«Kalinina, un villaggio nella regione di Primorsk» lo corresse Cosgrave. «Siberia. Non mi sorprende. Sono posti di terribile povertà. Quella bimba ha fatto un lunghissimo viaggio, probabilmente sui carri merci, è sopravvissuta per miracolo a temperature da assideramento. Quanti anni aveva?»

«Penso non più di dodici. Non saprei: era così mingherlina».

«Questa macchia sembra sangue».

«Me ne sono accorto dopo. Sono tornato indietro, ma non ho trovato più traccia della bambina. Ho provato a chiedere in giro, ma viste le facce ho lasciato subito perdere».

«Che intendi fare, vecchio mio?»

«Niente, Alfred. Ho deciso che non ritornerò in quei bassifondi neanche morto».

«Non ti posso dare torto, old chap» concordò Cosgrave. «Purtroppo ci sono situazioni contro le quali non possiamo far nulla, né tu né io».

Altri membri del club si erano nel frattempo avvicinati per ascoltare. In silenzio vuotarono i bicchieri di Porto.

 

Ma Felix non era stato del tutto sincero. Continuava a pensare a quella bambina, Yelena. Qualche giorno dopo incontrò di nuovo Cosgrave, che riportò la conversazione sul misterioso biglietto.

«Ti devo avvertire, vecchio mio. Ho parlato con James Finnigan, sai che lavora a Scotland Yard. Quella zona di Whitechapel che mi hai descritto si chiama Five Points. È tristemente nota alle forze dell'ordine. Se tieni alla tua reputazione, oltre che alla tua incolumità, è bene che non ti faccia vedere da quelle parti, perché le fioraie fanno quello che fanno tutte le fioraie fuori dagli alberghi, vale a dire si prostituiscono. Ma quelle sono bambine. Non sei stato aggredito o rapinato per la semplice ragione che in quelle zone i crimini violenti attirerebbero l'attenzione indesiderata della polizia, e i protettori hanno cura che ciò non capiti».

«Ma mi ha offerto solo dei fiori!»

«Ha capito che eri lì per errore e ti ha lasciato una richiesta di aiuto».

«La polizia non può fare niente?»

«Secondo Finnigan, la sola cosa intelligente che può fare, se non vuol rischiare di perdere un paio di agenti a settimana, è rimanere fuori da quei vicoli. Fattene una ragione».

«Terribile» mormorò Felix, e fece cenno al cameriere perché gli portasse dell'altro liquore.

 

Anziché farsene una ragione, Five Points e la bambina si radicarono nei suoi pensieri. Ormai deciso, Felix si era ripromesso di convincere Cosgrave ad accompagnarlo. L'amico aveva combattuto sul fronte italiano nel 1916 e nel 1917 ed era un eccellente tiratore, con una notevole esperienza di combattimento. Con lui si sarebbe sentito al sicuro più che con una squadra di poliziotti, su cui sapeva di non poter contare.

Cosgrave era stato al comando di un reggimento di Gurkha, le truppe scelte di mercenari nepalesi che venivano impiegate dall'esercito britannico nelle azioni più sanguinose e nelle campagne più dure. Scuoteva la testa ricordando i temutissimi e crudeli contrattacchi delle truppe bosniache dell'implacabile generale Borojević, che si reimpadronivano rapidamente delle trincee occupate dagli italiani utilizzando mazze ferrate, tirapugni e coltelli. In quelle condizioni impossibili, tre quarti dei suoi Gurkha – per quanto feroci e indomabili – erano morti di febbri e di dissenteria prima che il suo reggimento fosse stato richiamato.

 

«Non se ne parla, Felix. Proprio non se ne parla». Cosgrave aveva opposto un reciso rifiuto alla richiesta dell'amico.

«I vicoli di Five Points sono un calderone ribollente di immigrati, Felix. Russi, tedeschi, cinesi, africani, malesi, scandinavi, indù, armeni, egiziani, si ammassano in quegli edifici come la feccia nel fondo del barile».

«Alfred, mi devi accompagnare a quell'albergo. Devo trovare quella bambina. Se è in pericolo devo salvarla. Forse stavolta saremo fortunati».

Felix sapeva che l'amico era rimasto turbato dal suo racconto, e insistette anche nei giorni successivi, senza dargli tregua. Alla fine Cosgrave assentì, ma ciò che lo convinse fu la coincidenza con l'inaspettata richiesta di incontrarli da parte del principe Andrej Rumyantsev-Zadunaisky.

Il principe era un anziano nobile russo di ingentissimi mezzi, ormai da tempo espatriato a Londra ed accolto nei salotti dell'aristocrazia britannica. Manteneva i contatti con l'aristocrazia russa, sia quella emigrata che quella della madrepatria. Si incontrarono al club, e dopo i convenevoli sedettero ad un tavolino e Rumyantsev spiegò la ragione per cui aveva voluto vederli.

«Perdonerete, spero, il fatto che un mio conoscente mi abbia riferito la vostra conversazione della settimana scorsa, quando sentirete il motivo del mio interesse». Mostrò loro un foglio. «È la trascrizione in inglese di una lettera che un certo capitano Brjusov ha consegnato al mio maggiordomo, nella speranza che la facessi recapitare al destinatario, non avendolo lui trovato all'indirizzo indicato. Appena ho letto il nome l'ho aperta. Leggetela pure».

 

PLICO POSTALE AFFIDATO AL CAPITANO OLEG BRJUSOV, DELLA GOLETTA PETR VELIKIY

DESTINATARIO: SUA ECCELLENZA BARONE ALEXEI FYODOROVICH ORLOV

17 DRURY LANE, LONDRA

 

Vyborgsky, Petrograd Oblast', 20 agosto 1921

 

Eccellenza, Le invio questa lettera tramite il capitano Oleg Brjusov, della goletta Petr Velikiy, che farà tappa a Londra per diverse settimane, scopo riparazioni, e ripartirà alla volta di Rotterdam con un carico di lana e olio di elefante marino delle Shetland.

Il capitano Brjusov non tornerà più in patria, essendo salpato in tutta fretta dal porto di Kaliningrad con il nostromo e quattro marinai fidati, sperando che le condizioni del mare si mantenessero buone, per mettere in salvo il carico di olio di balena, ambra e barili di aringhe in cui aveva investito tutto il suo capitale.

I bolscevichi, data la terribile carestia che per colpa loro devasta il nostro sventurato Paese, stanno sequestrando qualsiasi carico di derrate alimentari o merci scambiabili con esse, sovente con l'aiuto degli equipaggi, che per la quasi totalità simpatizzano per loro. Il capitano ha così deciso di commerciare in proprio sulla rotta Londra-Città del Capo. Gli ho chiesto di consegnarLe questa mia missiva.

Eccellenza, non so come esprimerLe la mia gratitudine per aver accettato di occuparsi di Mariya e Yelena, le mie due adorate figlie, da cui purtroppo sono costretto a separarmi perché partirò definitivamente con l'armata del generale Semënov, con prospettive incertissime di ritorno.

Come Lei avrà appreso dai giornali, l'Armata Bianca della Siberia ormai si è disintegrata sotto il contrattacco bolscevico. Lo stesso generale Kolčak, dopo la caduta di Omsk, ha rassegnato le dimissioni e designato come successore il giovane generale Grigorij Semënov, prima di essere arrestato sulla strada per Irkutsk dai cecoslovacchi e consegnato al direttivo socialista locale per la fucilazione.

Le truppe si stanno ritirando in disordine verso il mare di Ochotsk, sulla costa pacifica, dove, con l'aiuto delle unità che i giapponesi hanno inviato, controlliamo ancora il territorio della provincia di Chabarovsk.

In questa situazione devo preoccuparmi del futuro delle mie creature. La mia amatissima moglie Nataliya ha deciso di seguirmi e di condividere la mia sorte, sapendo che metterò le ragazze in buone mani. Se riusciremo a salpare per l'America ricongiungeremo finalmente la famiglia. L'Europa ormai ci respinge: dovunque le forze comuniste rivoluzionarie sono presenti ed attive per operare la sovversione.

Ho appreso che Lei ha fatto questo favore anche ad altri commilitoni che hanno avuto l’onore di servire sotto il Suo comando, e quindi mi sono permesso di chiedere che le mie due figlie, che viaggeranno scortate dalla governante e dal mio fedelissimo giardiniere, vengano accolte nell’istituto per giovani aristocratici che mi si dice la signora Elizaveta Chernikova, la vedova del nostro compianto camerataArkadiy, ha aperto a Londra ormai da tre anni.

Il latore della presente Le consegnerà un capitale, in gioielli, che io e mia moglie abbiamo messo da parte: una somma che, spero, basterà per il loro mantenimento fino alla maggiore età.

Le auguro la migliore riuscita per la Sua missione di trovare fondi e appoggi per la nostra santa causa. Attendiamo il Suo ritorno.

 

Il Suo devotissimo Piotr Mihajlovic Belochkin e sua moglie,  Nataliya Sergevna Belochkinova.

 

«Del giardiniere e della governante dei Belochkin non si sono avute più notizie dopo lo sbarco» disse Rumyantsev dopo che ebbero finito di leggere. «Mi ha colpito il fatto che i due nomi, Maria – Mariya, in realtà – e Yelena, del racconto di Mr. Dummett, sono gli stessi menzionati nella lettera. Questo conferma i miei peggiori sospetti su Alexei Fyodorovich Orlov ed Elizaveta Chernikova. Giravano voci circa un traffico di bambini che venivano fatti arrivare dalla Russia ed impiegati nelle fabbriche di Whitechapel. Pare che Orlov promettesse ai genitori, tutti ufficiali dell'Armata Bianca, che i figli avrebbero trovato accoglienza in un istituto di istruzione per fanciulli dell'aristocrazia gestito dalla donna, vedova di guerra. I bambini venivano poi rinchiusi in sudici sotterranei e costretti a lavorare diciotto ore al giorno per produrre piccoli oggetti – fiori di carta, scatole di fiammiferi, spille, ornamenti di pizzo ed altro ancora.

«Avevamo tentato di avvertire in Russia di non mandare i propri figli da Orlov e dalla Chernikova, ma senza grandi risultati. Ora, quanto ha riferito Mr. Dummett è molto peggio di quel che pensavo, ed è tempo di intervenire».

Si versò due dita di cognac e sollevò il bicchiere con mano tremante.

«Sono stato anche informato, di recente, che Orlov ha avuto l'insolenza di utilizzare il mio nome in collegamento a questo inesistente istituto».

Ecco perché hai sentito che è "tempo di intervenire", pensò Felix, senza troppo scandalizzarsi.

Cosgrave lo informò della spedizione che intendevano fare.

«Se lo permetterete, il mio domestico, Leonid, vi accompagnerà. Conosce la zona per avervi vissuto in passato, e il suo russo potrà farvi comodo».

«In effetti il mio è alquanto arrugginito» ammise Cosgrave.

«Siamo d'accordo, allora» sancì Rumyantsev. «Ma ora lasciate che vi dica qualcosa di Alexei Fyodorovich Orlov. Servirà a mettervi in guardia».

 

«Alexei Fyodorovich Orlov è stato ufficiale e comandante nell'esercito imperiale per più di trent'anni, dal 1880 al 1918. Da ultimo ha partecipato, col grado di colonnello dell'Armata Bianca del Baltico, alla guerra di resistenza antibolscevica. Ha una notevole esperienza di guerra, maturata in Afghanistan e ai confini della Manciuria. È un cavaliere esperto ed ha ricevuto un addestramento militare sin da giovanissimo. La sua famiglia soffre di un vero fanatismo per l'uso proprio e improprio delle armi. È una stirpe di militari di nobiltà cosacca, gli Orlov-Denisov. Suo nonno, Vasily Orlov-Denisov, era nientemeno che il nipote da parte di madre del primo generale cosacco di cavalleria nominato conte dallo Zar, Fyodor Petrovich Denisov.

«I Denisov sono per discendenza Sich, cosacchi di Zaporižžja, più selvaggi e incontrollabili di quelli del Don, utilizzati dagli Zar sin dalla metà del Seicento contro gli Ottomani e i loro vassalli Tartari di Crimea a protezione del confine ucraino, in una guerriglia crudele per il controllo della steppa a nord del Mar Nero. Abitavano in un covo imprendibile a monte delle rapide del Dnepr, scendevano il fiume per assaltare le galee turche su barchini che sbucavano dai canali laterali e si dileguavano dopo aver saccheggiato e massacrato.

«Crimea, Dobrugia e pure le vicinanze di Istanbul non erano al sicuro dai loro attacchi fulminei. Persino le galee ottomane temevano le loro incursioni notturne, perché i barchini erano bassi sull'acqua e potevano scorgerle prima di essere scoperti, e si avvicinavano con l'albero abbassato e col silenzio dei remi.

«Durante la campagna di Afghanistan che ha portato alla conquista dell'oasi di Panjdeh, e anche altrove, Alexei Fyodorovich ha dato prova di una brutalità eccezionale persino tra gli ufficiali russi. Si vociferava che avesse partecipato allo sterminio di interi villaggi sul semplice sospetto che collaborassero col nemico, ma è sempre riuscito ad evitare la corte marziale, perché è un militare molto capace e assolutamente fedele allo Zar.

«Nei cinque anni di scontri che avevano preceduto l'accordo anglo-russo sui confini del moderno Afghanistan, nel territorio montuoso della Transoxiana i russi dovettero fronteggiare una implacabile guerriglia, e subirono notevoli perdite, con un susseguirsi di atrocità da entrambe le parti. Per tutto quel tempo Orlov fu al comando di un reggimento che operò nelle zone più pericolose del Paese.

«È un uomo brutale e sgradevole anche nella vita privata. La moglie, appartenente ad una importante famiglia nobile della Capitale, i Vorontsov-Dashkov, è fuggita all'inizio della Rivoluzione bolscevica con un giovane rivoluzionario. Sapeva che questo avrebbe reso suo marito pazzo di rabbia. Nella primavera del 1918, Orlov ha lasciato improvvisamente il Baltico per sbarcare in Inghilterra. Ufficialmente ha affermato di essere venuto per trovare denaro e appoggi per la causa dei Russi Bianchi. In realtà, non ha mai avuto intenzione di tornare. Mi è stato presentato subito dopo il suo arrivo, e ha sollecitato una donazione che mi sono ben guardato di fare, conoscendo la cinica spregiudicatezza degli Orlov-Denisov. Ci divideva un'antipatia personale. Io lo ritenevo un selvaggio cosacco delle steppe, lui mi giudicava un nobile imbelle.

«Ma la mia diffidenza era più che fondata. Orlov ha dilapidato velocemente in donne, alcol e gioco tutto quello che era riuscito a mungere dalla comunità russa e, ormai screditato e cacciato da tutti i salotti dell'aristocrazia, è finito nei bassifondi, dove si è messo in combutta con una donna di pessima reputazione, Elizaveta Chernikova, una ex prostituta di alto bordo e mezzana, coinvolta in traffici loschi. Di quando in quando dà notizie di sé, sempre in relazione ad atti di criminalità violenta. La comunità russa lo considera una pecora nera, un soggetto estremamente imbarazzante, la cui sparizione sarebbe un bene per tutti. Purtroppo Orlov sembra avere sette vite come i gatti».

Rumyantsev bevve un altro sorso di cognac e passò a descrivere le prodezze del colonnello Orlov in terra inglese.

 

Orlov aveva una corta e ispida barba grigia e capelli tagliati a spazzola. Girava sia d'inverno che d'estate con un cappotto lungo dell'armata zarista. Non portava copricapo e nei giorni più freddi si intabarrava il volto con una pesante sciarpa di lana. Indossava i guanti bianchi degli ufficiali zaristi, che ormai erano tanto logori, bucati e lerci da sembrare dei mezzi guanti grigiastri. Immancabilmente armato fino ai denti, era un uomo vissuto in costante pericolo di vita, sempre all'erta. C'era chi giurava che avesse alla cintura delle granate che era pronto a far esplodere.

Orlov si era presto reso conto che per un soldato intelligente, spietato e addestrato come lui, che aveva visto di tutto, sapeva maneggiare qualsiasi tipo di arma, e aveva ucciso più uomini di quanti riuscisse a ricordare, era un gioco da ragazzi sopraffare la malavita locale delle strade. Dopo le prime aggressioni non lo disturbarono più. I capi delle bande avevano capito che per lui sarebbe stato facile toglierli di mezzo e sostituirli. Era molto più intelligente ed altrettanto spietato di loro – se non di più.

All'inizio avevano fatto l'errore di tentare di intimidirlo. In tre arrivarono alla locanda in cui alloggiava, gli fecero vedere i coltelli e gli ingiunsero di andarsene, lasciando a loro i bambini. Orlov, per tutta risposta, estrasse il revolver, uccise a bruciapelo due di loro e si fece portare dal terzo dal capo della banda.

Se ne tornò alla locanda lasciando in strada due teste mozzate e all'interno due cadaveri evirati e torturati. Per lui erano poco più che bol'shevistskoj svolochi, feccia bolscevica, e provava gusto nell'ammazzarli. Tutti coloro che frequentavano i vicoli di Five Points impararono a temere il suo chura, l'affilatissimo coltello afghano che portava nelle pieghe del cappotto e che era lesto nell'estrarre e altrettanto veloce nel maneggiare.

I criminali di strada non sono dei leoni, ma delle iene, che agiscono in branco e attaccano dove sanno di rischiare il minor danno. Orlov era un pazzo che non aveva più niente da perdere, e tutti sapevano bene che avrebbe portato con sé un buon numero di aggressori. Era difficile se non impossibile da cogliere di sorpresa. Col tempo, si era sviluppata una tregua e Orlov procurava persino, di quando in quando, armi dell'esercito zarista alla criminalità di Whitechapel.

Iniziava a bere la mattina tardi, appena alzato, e per l'ora di pranzo era già completamente ubriaco, ma reggeva l'alcol in modo prodigioso, al punto che non ci si sarebbe accorti del suo grado di ebbrezza fino a quando non fosse caduto a terra: quando era completamente annebbiato si poteva solo notare che i suoi movimenti divenivano più lenti e più cauti. La sera si metteva al tavolo del Gray Goose Inn, di fronte alla finestra, a tracannare lentamente il contenuto di una bottiglia di gin e a controllare la sua merce – le bambine – dall'altro lato della strada. I clienti erano avvisati di non creare problemi all'uomo con il chura.

Sebbene la comunità russa lo detestasse e fosse noto alle autorità di polizia per i suoi traffici, nessuno sino ad allora aveva avuto il coraggio di arrestarlo. Il ventre di Londra contiene più segreti e vizi inconfessabili di quello della prostituta di Babilonia, e Orlov ne avrebbe potuti rivelare parecchi. Ordini dall'alto avevano sino ad allora vietato a Scotland Yard di intervenire. La comunità omosessuale di Londra proteggeva la riservatezza di certi traffici, e Orlov poteva fare il nome di persone molto in vista, nomi che non dovevano essere fatti, forse addirittura collegati al Governo.

 

Felix e Cosgrave si trovavano all'imbocco di Anthony Street, insieme a Leonid, un uomo taciturno di cinquant'anni, vigoroso nonostante l'età.

«Puoi ricordarmi perché alla fine sono stato tanto pazzo da venire con te?» chiese Cosgrave a Felix.

«Perché anche tu hai un cuore, dopotutto».

«No: quello che ho, per tua fortuna, è un revolver nella tasca del soprabito. Dio non voglia che il mio partner per le partite a scacchi del giovedì finisca morto ammazzato e gettato nel Tamigi».

Felix provò un moto di riconoscenza mista a sollievo. «Mi pare che la sera in cui ho incontrato la bambina sono andato per di là» disse, e li precedette. Erano passate da poco le nove di sera, il momento in cui il teatro delle attività notturne cominciava a prendere vita. La notte era velata di nuvole, con un chiarore lattiginoso che pioveva su vie male illuminate, tra edifici fatiscenti e fango dovuto alle piogge di inizio primavera. Improvvisamente si aprì una porta e una donna venne scaraventata per strada da un'altra. Era completamente ubriaca e continuò ad urlare a lungo vomitando bestemmie e minacce agli occupanti della casa. Felix e i compagni la udirono per molto tempo.

Più avanti lo scenario si animava. Uomini e donne passeggiavano da entrambi i lati della strada. Un uomo era a braccetto con una giovane donna talmente sbronza da dover essere trascinata mentre borbottava frasi senza senso. Due o tre volte un gruppo di una mezza dozzina di ragazze uscì da una casa e, chiacchierando e ridendo rumorosamente entrò in un'altra porta lungo la strada. Felix e i suoi compagni videro che si trattava di sale da ballo. Vendite di liquori, bar dove venivano servite ostriche al banco, luoghi di ritrovo di ogni tipo abbondavano.

La notte non era fredda e molte donne sedevano agli usci delle case, li invitavano ad entrare e fermarsi un minuto, per poi insultarli o schernirli come essi le superavano senza rivolgere loro la parola.

Felix gettò lo sguardo in una di tali stanze illuminate. Aveva un'unica lampada, qualche mobile, un pavimento di terra battuta, un piccolo bar con qualche bottiglia e dei bicchieri. Una donna anziana era seduta all'ingresso e non si mosse. Una ragazza giovane invitò Felix. «La camera da letto è appena oltre il bar» disse. Felix intravide una stanza poco più grande della cabina di un armadio, con un piccolo letto, un materasso che aveva tutta l'apparenza di essere di paglia, e una sedia mezza rotta. «Un quarto di sterlina!» gridò loro dietro la ragazza con una nota di disperazione nella voce. Imbarazzato, Felix continuò a camminare.

Alcune ragazze erano molto giovani, quindici-sedici anni, e sembrava che una parte di loro non fosse capitata nel mondo del vizio per una serie di circostanze che le aveva allontanate da una condizione rispettabile, ma fossero nate e cresciute in quell'ambiente terribilmente degradato, esposte alla perdizione fin dalla loro tenera infanzia. E forse erano le meno sfortunate tra le più giovani.

Più avanti le strade si fecero meno frequentate. I passanti entravano furtivamente dietro porte che si richiudevano subito. Erano arrivati nei dintorni del luogo descritto da Felix, più avanti nella strada si vedeva l'insegna illuminata del Gray Goose Inn. «Ci siamo» disse Cosgrave. «State in guardia».

A lato della strada passeggiavano donne anziane che portavano a braccetto adolescenti più giovani di quelle che avevano visto sino a quel momento, di tredici-quattordici anni. Altre sedevano a terra accanto a paccottiglia disposta su un semplice panno: fiori di carta, bigiotteria insulsa, fermacapelli, con la ragazzina che richiamava i passanti. Alcune erano sole e offrivano mazzi di fiori. Diversi di loro si fermavano a confabulare un po' con le donne anziane, poi si allontanavano, preceduti dalle ragazzine, che si dirigevano veloci verso qualche andito o edificio, oppure entravano nella locanda.

Improvvisamente Felix esclamò «Eccola!»

Una bambina di dodici anni, estremamente magra e infagottata in un vestito di panno grezzo, era uscita dalle ombre del marciapiede di fronte alla locanda e dopo aver percorso neanche cinquanta metri nella direzione inversa alla loro, aveva svoltato in un vicolo laterale.

Felix, Alfred e Leonid accelerarono il passo; la videro venti metri più avanti, che procedeva spedita con il suo enorme mazzo di fiori rossi. Felix la chiamò più volte, ma quella non si fermò e mantenne la distanza. Arrivata dove il vicolo sboccava nella zona del porto, si voltò un attimo, come per invitarli a seguirla, e sparì di nuovo nelle ombre. I tre uomini si trovavano in una zona di fabbriche in parte abbandonate e sprangate con assi di legno e di magazzini con porte di ferro chiuse da pesanti catene.

Il vestitino della bambina compariva di tanto in tanto sotto un lampione e spariva rapidamente. Giunti ad uno spiazzo, alla fine di una strada senza sbocco che terminava con un enorme cancello arrugginito, i tre si fermarono, incerti sul da farsi. Poi, dietro il cancello semiaperto, sentirono lo scalpiccìo dei piccoli piedi.

Penetrarono in un cortile circondato da bassi edifici ad un piano. Una folata di vento trasportò una puzza terribile, che sembrava provenire da un lato del cortile dove si aprivano le grate di un seminterrato. Cosgrave si bloccò di botto. «Questo odore…» Impallidì. «Non è possibile». Si diresse a grandi passi verso le grate. Mentre camminava, spiegò a Felix il motivo dei suoi timori.

«Sul fronte italiano, come dovunque, venivano usati i lanciafiamme. Erano alimentati a benzina. Non sto a dirti l'orrore delle trincee spazzate da un attacco con armi simili, l'odore di carne bruciata, i corpi contorti nell'agonia.

«Per aggravare le ferite veniva sciolta nella benzina della celluloide, in modo che quella miscela micidiale aderisse alla pelle delle vittime, e queste non avessero scampo. Dovunque ti si attaccassero le fiamme, ti mangiavano la carne fino all'osso. L'odore in questo cortile è troppo caratteristico perché lo possa confondere. È stata usata la stessa miscela incendiaria».

Avvicinandosi, Felix scorse, qualche metro a destra della porta, qualcosa di bianco che sporgeva a terra da una delle finestre con le grate. Si avvicinò per vedere di cosa si trattasse e fu raggelato dall'orrore. Era la parte superiore, testa e spalle, di un bambino morto, gli occhi aperti con un'espressione folle, gli abiti e i capelli parzialmente bruciati, le braccia che artigliavano il terreno.

«Cosgrave, per l'amor di Dio, vieni qui a vedere!»

Cosgrave rimase un istante a contemplarlo scuotendo la testa. Evidentemente dinanzi agli occhi gli stavano scorrendo altre immagini, dal passato. «È morto. Entriamo. Preparati al peggio» disse infine.

Oltre all'odore ripugnante della carne bruciata, il loro olfatto fu aggredito da effluvi di benzina. Scendendo, a Felix venne la nausea e barcollò. La cantina era composta da un'unica stanza col pavimento di cemento, del tutto priva di mobili, con tre finestre.

Due di esse avevano delle grate metalliche che erano state coperte da tende, mentre la terza era semplicemente chiusa da assi inchiodate. Trasversalmente al muro erano disposti tre pagliericci, e altri due contro il muro opposto. Da un grande secchio di latta a destra della porta proveniva l'odore acre di escrementi che evidentemente nessuno si era preoccupato di portare fuori per lungo tempo. A sinistra erano ammonticchiati dei viveri, bottiglie, gallette, confezioni di carne secca. Un piccolo camino annerito si apriva tra la prima e la seconda finestra.

In fondo, dalla parte opposta all'ingresso, due ante davano su una specie di cubicolo che era stato risparmiato dal fuoco. Ospitava un lettino da campo. Di traverso era steso scompostamente un uomo, la testa che toccava terra, il viso schizzato di sangue e la gola oscenamente esposta, sgozzato. La testa era grossa, sembrava una zucca deforme, il volto asimmetrico.

«Probabilmente un subnormale» disse Cosgrave. Si voltò indietro e abbracciò con lo sguardo lo stanzone. «Qui venivano portate le bambine e i bambini prima di farli prostituire. Quest'uomo era incaricato di sorvegliarli». Felix aveva un groppo alla gola che gli impediva di parlare.

I muri e i pavimenti erano anneriti dalle fiamme che li avevano lambiti, senza peraltro riuscire ad appiccare il fuoco all'intero edificio. Dalle tende carbonizzate e dalle assi della finestra centrale i primi raggi dell'alba si insinuavano sottili illuminando di un chiarore diffuso la stanza.

Contarono quattro cadaveri nella cantina, appartenenti a bambine dagli otto agli undici anni. Un corpo era a sinistra della porta, prono. Un altro vicino all'anta del cubicolo, supino. Un altro ancora, seduto come a gambe incrociate al centro della stanza, con le braccia raggomitolate sul busto. Un quarto, in alto, infilato fino a due terzi della colonna vertebrale sotto il tavolame della finestra centrale, di cui era riuscito a schiodare l'asse in basso. Il busto, intatto, era quello che sporgeva all'esterno, con il viso impietrito dal dolore, il resto del corpo praticamente distrutto, dalla cintura pelvica agli alluci.

«Hai visto le schegge di vetro, per terra?» disse Felix. «Ce n'erano ovunque… Tu cosa ne dici?»

Cosgrave rifletté, pensieroso. «Mi ricordo che gli ufficiali dibattevano sul modo più efficace di fermare un carro armato. Uno di loro aveva proposto di mettere del liquido incendiario in una bottiglia, poi di fissarvi con del nastro adesivo dei fiammiferi antivento e accenderli, in modo che all'impatto il liquido prendesse fuoco. Un altro aveva obiettato che non si poteva condurre un attacco notturno con simili mezzi, perché il fuoco avrebbe rivelato la posizione degli aggressori. A quanto pare qualcuno ha realizzato un ordigno del genere. Si tratta senza dubbio di bottiglie. Ho visto il fondo di una proprio davanti al primo cadavere, di fianco alle catene».

«Catene?»

«In realtà è solo una, ma molto allentata, che li blocca tutti alle caviglie, con dei collari simili a manette» precisò Cosgrave. «Attaccata ad anelli nel muro».

Li indicò. «Anche quella che è riuscito ad infilarsi sotto le assi della finestra» aggiunse.

«Sì, è vero» fece Felix inorridito, «altrimenti sarebbe riuscito a scappare».

«Peccato per lui» sospirò Cosgrave.

«Quanti anni avrà?» chiese Felix indicando il cadavere al centro della stanza, seduto a gambe incrociate, totalmente carbonizzato.

«Otto, non di più» rispose Cosgrave. Mostrò dei residui di vetro rotto sulle spalle, e il collo di una bottiglia che giaceva tra le gambe del bambino. «La bottiglia gli è scoppiata direttamente addosso. Ha preso fuoco in un attimo». Felix sgranò gli occhi. L'amico aveva ragione.

«Le altre due, invece, si sono dibattute tra le fiamme» proseguì Cosgrave, dopo aver tossicchiato per schiarirsi la voce.

«Com'è possibile che il bambino al centro della stanza sia rimasto immobile mentre una bottiglia gli esplodeva addosso?» disse Felix.

«Guarda meglio» lo corresse Cosgrave.

Felix si avvicinò e rabbrividì. Il bambino era stato strettamente incaprettato con del filo elettrico, i nodi abilmente disposti in modo che dimenandosi non avrebbe fatto altro che stringerli, uno straccio fissato in bocca con un legaccio. «Evidentemente era il più irrequieto, ed è stato legato per impedire che si agitasse o gridasse. Quando è scoppiato l'incendio non ha avuto nessuna possibilità di salvezza» constatò disgustato Cosgrave.

In quella stava scendendo Finnigan. «Quanti ce ne sono esattamente?»

Un agente sulle scale gli rispose «Cinque, a meno di non esserci sbagliati. Un adulto e quattro bambini. Magari ce n'era uno nascosto in qualche angolo, vai a sapere».

«Sono sei» disse Cosgrave. «Quattro morti nell'incendio, l'uomo e una bambina già morta prima. Non l'avete vista, è sotto il cadavere sul lettino. Venite a vedere».

Si sporsero in due nello sgabuzzino mentre Cosgrave spostava il cadavere dell'uomo. Sfuggì loro una esclamazione di stupore. Sebbene il corpo presentasse numerose ferite da taglio, riconobbero le fattezze e l'abito della piccola fioraia.

Felix sbiancò. «Come è possibile? Deve essere morta da giorni». L'odore e i segni di avanzata decomposizione erano terribili.

«Beh, pare sia tornata indietro per chiederci di salvare sua sorella. Ed è ciò che faremo» disse Cosgrave.

«Bastardi, bastardi…» mormorò semplicemente Finnigan, gli occhi lucidi. Poi disse loro quanto aveva saputo dai suoi informatori.

«Quello sgozzato è Yurji, il figlio ritardato di Elizaveta. Avrà trent'anni, difficile dirlo con precisione. Dubito che sapesse distinguere tra una bambina e una donna adulta quando si trattava di soddisfare i suoi bisogni. Yurji aveva degli accessi di ira incontrollata. Avete visto quanto è grosso. Era capace di uccidere, e pare lo abbia fatto con Yelena».

Felix e Cosgrave tacquero un momento per assimilare quello che avevano sentito. «E quello?» disse Finnigan indicando il bambino incastrato sotto il tavolato in alto. «Pare sia rimasto intrappolato mentre l'incendio gli mangiava le gambe».

«Difficile da immaginare, eh?» disse Cosgrave cupo.

Ritornarono fuori.

«Nessuno ha sentito niente, anche nei giorni precedenti? Se fossi incatenato in una casa abbandonata, urlerei come un ossesso» disse Cosgrave.

«Magari sono stati incatenati lì dentro ieri sera e poi subito bruciati. Forse sono stati portati qui per essere uccisi. Solo per essere uccisi» fece Felix.

«No. Hai visto i viveri sulla sinistra, appena si entra? Sufficienti a nutrirli per qualche giorno. Devono aver chiamato aiuto. È chiaro».

«I vicini o i passanti forse da giorni ascoltavano impassibili le grida. Grida che invocavano aiuto» concluse Finnigan.

«O forse erano mezzi addormentati. Gli facevano ingoiare laudano o chissà quali schifezze per tenerli tranquilli» ipotizzò pensosamente Cosgrave.

«È possibile» disse Finnigan.

Il bambino che avevano visto mezzo carbonizzato di sotto dimostrava a malapena nove anni e li fissava con sguardo allucinato, gli occhi spalancati. «Si… si è strappato i capelli a ciocche, per quanto soffriva…» riuscì a balbettare Felix.

«E per lo stesso motivo si è graffiato le guance, lo vedete anche voi» disse Cosgrave.

Contemplarono le dita contorte, le unghie insanguinate, le mascelle contratte; i muscoli del collo tesi come corde. La lingua, bloccata tra gli incisivi, mezza spezzata; i rivoli di vomito che sporcavano il mento, l'epidermide del busto venata di macchie violette. E gli occhi fuori dalle orbite, che non la smettevano di fissare il cielo.

Fu Felix a girare i tacchi per primo. Cosgrave e Finnigan lo seguirono a ruota. Si trovarono di fronte una squadra di poliziotti pronti a portare via i corpi e a fare gli accertamenti del caso. «Procedete pure» disse brusco Finnigan. «Ma sarà meglio che non abbiate già mangiato».

 

Un uomo di Finnigan arrivò di corsa. «Ispettore, una bambina venditrice di fiori ci ha chiesto di venire con lei ed esprimendosi a gesti ci ha condotto all'ingresso del seminterrato di un altro edificio. Venga a vedere». Felix e Cosgrave si guardarono allarmati. Erano ormai le nove di una mattina fredda e nuvolosa e aveva cominciato a cadere una pioggia insistente. L'edificio a cui li guidò l'agente si trovava nella stessa zona, a due isolati di distanza, in un'area di fabbriche abbandonate ai margini di un canale maleodorante.

Arrivarono ad una porta scardinata; l'agente, pallido, si fece da parte per farli passare. «Era chiusa a chiave. Abbiamo dovuto forzarla con un ariete».

Si trattava di un'entrata esterna che dava su una rampa buia di scale, alla fine della quale si apriva una seconda porta di accesso ad uno stanzone situato sotto il livello del terreno. Anche da quello scantinato proveniva un odore acre di incendio.

Finnigan non fece in tempo ad alzare la lanterna che inciampò nel primo cadavere. I corpi di sei o sette tra bambini e bambine, di età variabile dagli otto ai quattordici anni, giacevano scompostamente sui gradini, ammonticchiati l'uno sull'altro nel vano tentativo di raggiungere l'esterno. Ne erano prova i segni di graffi sulla porta e sulle pareti vicino ad essa.

Per proseguire furono costretti a scavalcarli, cercando di non calpestarli. L'odore di incendio si fece più forte. Oltre la seconda porta, che non era chiusa a chiave, le scale seguitavano per un'altra rampa fino al pavimento in terra battuta di un grande stanzone. Le pareti erano nere di fuliggine e sul pavimento c'erano mucchi di materiale carbonizzato. Si trattava evidentemente di un laboratorio clandestino dove i bambini venivano costretti a lavorare e a vivere. Da un lato della stanza erano allineati i pagliericci, accanto ai quali delle cassette fungevano da sedie e da banchi di lavoro.

Finnigan raccolse un oggetto da terra: era un fiore di carta, uno dei piccoli oggetti che venivano venduti nelle vie intorno al Gray GooseInn. I materiali carbonizzati dovevano essere altamente infiammabili: carta, colla, spago. Un grosso braciere si era rovesciato su un mucchio di carbonella, innescando l'incendio. Accanto ad esso il cadavere di Elizaveta Chernikova, con la gola squarciata da un orecchio all'altro e i vestiti lacerati sul ventre e intrisi di sangue.

«Orlov ha fatto visita ad Elizaveta. Durante la colluttazione quella è caduta trascinando il braciere e il carbone ha incendiato il materiale utilizzato nella fabbrica. L'incendio ha rapidamente consumato l'ossigeno e si è estinto da solo. Orlov deve aver sprangato la porta esterna, uscendo. Per quelli che erano qui dentro non c'è stato scampo: sono morti per asfissia nel giro di pochi minuti. Le feritoie di aerazione non sono state in grado di assicurare con sufficiente velocità il ricambio d'aria».

In tutto, una ventina di piccoli corpi giacevano qua e là nelle varie pose dell'agonia. Felix aprì una porta che dava su uno stretto stanzino e si lasciò sfuggire una esclamazione quando una figuretta gli si scagliò addosso per poi lanciarsi di corsa verso l'uscita. Cosgrave e Finnigan riuscirono ad afferrarla e la tennero ferma mentre si dibatteva, mordeva e scalciava selvaggiamente. Si trattava di una bimba di nove anni, coperta di fuliggine. Leonid si avvicinò e le disse alcune parole in russo. Quella sembrò calmarsi e gli rispose, esitante. Il domestico tradusse: «Si chiama Mariya. È la sorellina di Yelena». A sentire il nome, Mariya scoppiò in pianto e cominciò a raccontare ciò che era successo.

Il pomeriggio del giorno precedente, Orlov era entrato mezzo ubriaco. Si era avvicinato ad Elizaveta Chernikova. «Devo partire dall'Inghilterra. Dammi i tuoi soldi». Elizaveta era indietreggiata lentamente. «Alexei Fyodorovich, ognuno ha avuto la sua parte. Tu hai preso il denaro che ti spetta, e ti ho anche anticipato dei soldi che non mi hai ancora restituito». Orlov estrasse il coltello. «Dimmi dove tieni i soldi, chertovski bliad', brutta puttana!»

Elizaveta prese un attizzatoio e indietreggiò ancora.

«Ho lasciato che una blyadischa, una meretrice come te, facesse i suoi sordidi profitti. Non ti bastava sfruttare il lavoro di questi bambini. Dovevi anche prostituirli. Le ossa degli ufficiali zaristi si rivoltano contro di me». Orlov le fu addosso e la colpì al ventre.

«Dimmi dove li tieni!» Elizaveta cadde all'indietro, contro il braciere che veniva utilizzato per attenuare il freddo terribile dello scantinato. Frammenti di torba incandescente si rovesciarono sul mucchio di carta e colla.

Orlov la colpì ancora all'inguine. La donna aveva ora gli occhi chiusi, si teneva il ventre con le mani insanguinate mentre gorgogliava parole incomprensibili. Orlov infierì ripetutamente, ma non ottenne niente. Le lingue di fuoco cominciavano ad illuminare le pareti. I bambini gridando si erano lanciati verso l'uscita.

Orlov, con una bestemmia, si rialzò e si diresse barcollando verso la porta, fendendo l'aria col coltello sporco di sangue per farli scostare. Uscì richiudendo la porta. I bambini vi si avventarono e riuscirono ad aprirla. Ma la porta in cima alle scale era chiusa a chiave. Molti di loro morirono lì, nel tentativo di uscire all'aria aperta, quando il gas della combustione risalì fino al soffitto saturando l'ambiente.

«Mariya dice che in quel momento ha visto sua sorella Yelena, che le ha fatto cenno di entrare nello stanzino, di chiuderlo e di arrampicarsi su una sedia fino alla grata di aerazione. È questo che le ha salvato la vita».

Felix abbracciò la bambina tremante. «Portiamola via» disse.

 

Erano tutti seduti ad un tavolo del Gray Goose Inn intenti a stabilire il da farsi. «Orlov si è reso colpevole di omicidio. Sarà incriminato per l'assassinio dei bambini. Non c'è più nessuno che possa ostacolare la caccia, ora» disse Finnigan.

«L'unico problema» proseguì, «è che non abbiamo la più pallida idea di dove si trovi. Abbiamo perquisito l'alloggio di Drury Lane inutilmente. È stato lasciato in tutta fretta e Orlov non è stato più visto in giro. Ha un giorno di vantaggio su di noi. Potrebbe essere già fuori dall'Inghilterra».

Cosgrave guardò Felix e Finnigan. «Credo di sapere dove si trovi».

 

L'enorme sagoma della goletta, uno schooner a sei alberi, del tipo utilizzato per il trasporto di grandi carichi, si stagliava contro un cielo lattiginoso, al di là degli alberi delle navi più piccole, ancorate una accanto all'altra ai moli. Il silenzio della notte era riempito dagli sciabordii e dai risucchi dell'acqua tra gli scafi, separati da appena due metri di intervallo, e protetti da enormi ciambelle di sughero contro lo sfregamento delle fiancate. Superarono gli attracchi e giunsero in fondo al molo. La Petr Velikiy era alla fonda ad una cinquantina di metri di distanza. Oscillava lentamente, trattenuta dalle due ancore di prua e di poppa, con l'eleganza di un grande levriero.

Non si vedeva alcuna luce. Evidentemente all'equipaggio era stato dato qualche giorno di permesso prima della partenza. Cosgrave e Dummett presero un dinghy, una barchetta leggera a remi, e si accostarono alla nave. Cosgrave si era fatto dare dal soprintendente della banchina un rampino che gettò oltre la murata, nel punto dove il parapetto, dalla tipica linea curva delle golette, era meno alto sull'acqua. Si issò agilmente a bordo ed aiutò Felix. Estrasse la pistola.

Sulla nave non c'era alcun movimento. «Eppure deve essere qui» bisbigliò Cosgrave. «Proviamo con gli alloggi dell'equipaggio» suggerì Felix dopo dieci minuti di inutile ricerca in coperta.

Raggiunsero il pozzetto di prua e scesero per la scaletta che conduceva alla camerata dell'equipaggio. La cabina aveva dieci cuccette per lato, poste due a due, una sopra l'altra. Era deserta. Cosgrave accese la lampada a petrolio sopra la porta. Realizzarono l'errore che avevano fatto troppo tardi, quando sentirono un rumore in cima alle scale. Dal buio giunse loro chiara la voce di Orlov.

 

«Vedo che anche tu sei stato un soldato, anglijskij, da come tieni la pistola: ravvicinata al corpo, alta sul fianco, in modo da poterla puntare rapidamente in uno spazio ristretto e impedire che un colpo possa fartela volare via».

Cosgrave aveva spento la lampada della cabina e aveva fatto cenno a Dummett di mettersi dietro di lui. Puntò la pistola verso l'alto.

Nel silenzio che seguì, si udì il rumore di sfregamento di uno zolfanello, poi la cima delle scale fu illuminata dalla debole fiamma di uno stoppino.

«È inutile che punti la pistola, mi è sufficiente accendere lo stoppino di questa bottiglia piena di benzina e gettarla giù. Non avrete scampo. Dovrò trovarmi un'altra nave e probabilmente uccidere Brjusov prima che mi uccida lui, ma pazienza. Voi siete l'ultimo ostacolo, poi potrò andarmene da questo Paese freddo, buio e piovoso, dove il gin annacquato fa schifo e non si trova una vodka decente neanche a pagarla a peso d'oro».

Cosgrave, sempre tenendo la pistola puntata, cominciò a salire in silenzio le scale.

«Non fare un altro passo, gospodin oficier, o ti trasformerò in una torcia prima del tempo». Cosgrave si immobilizzò.

«Vuoi sapere perché sono andato via dal Baltico e sono venuto in Inghilterra? Perché ho capito che avremmo perso. Che avevamo già perso. E non solo perché i milioni di contadini poveri, con la loro fame di terra, non si sarebbero fermati fino a quando non avessero spazzato via l'ultimo proprietario terriero. O perché Lloyd George ci aveva venduto ai soviet e i giapponesi, che fino a quel momento avevano combattuto con noi nella Kamčatka, se ne stavano andando.

«Sai cosa disprezzavo di più, dopo gli ufficiali dello Zar al servizio dei rivoluzionari, a cui riservavo una morte lenta, con i metodi appresi dagli afghani? Mi disgustava la debolezza dei miei commilitoni. Vengo da una famiglia di nobiltà cosacca e l'estrema povertà, la fame, il freddo, non hanno mai spaventato un Orlov. I miei antenati, ai confini dell'impero russo, conducevano una guerriglia implacabile con i tartari Giray, vivendo nella steppa nelle loro stesse condizioni. Sentire lamentarsi i miei camerati mi era insopportabile.

«Mia moglie mi ha tradito con un bolscevico rivoluzionario. Era stanca della brutalità e del disprezzo con cui la trattavo. Non era stata capace di darmi un figlio, ma non l'avevo ripudiata, perché la santa religione ortodossa, per un nobile russo, è un dovere, e avrei condiviso con lei il legame matrimoniale fino alla morte. Lei morì – come previdi sarebbe avvenuto, essendo di salute cagionevole – di colera a Stavropol', durante l'assedio del generale dell'Armata Bianca Pyotr Wrangel, nell'ottobre del 1918. Il suo amante l'aveva lasciata già da parecchie settimane per andare a combattere in Siberia, perché la causa rivoluzionaria, ai suoi occhi, veniva prima dei rapporti personali. Conoscendo Lydia, so che per orgoglio non sarebbe comunque tornata da me.

«Certamente, neanch'io sono un immacolato patriota. Mio nonno soleva dire che in tempi di caos e violenza incontrollata niente è più sicuro che essere un soldato anziché un civile. Molti di noi erano in guerra per questo semplice motivo. Meglio essere l'ingranaggio di ferro che il dito che ne viene schiacciato. Con le armi ci si può proteggere, si possono requisire i viveri alla popolazione, sequestrare i mezzi di trasporto per fuggire. Così, alla fine, requisimmo tutte le navi. Impedimmo a migliaia di famiglie rispettabili, impiegati, nobili, ragazze, vecchi, bambini, di fuggire, perché eravamo noi, i loro difensori, che si erano impadroniti dei mezzi di trasporto. La guerra è una cosa sporca, tu e io lo sappiamo, anglijskij, anche tu avrai visto la tua parte di barbarie».

«Perché le bambine?» chiese Cosgrave, per prendere tempo.

«Sono un nobile, dovevo pur vivere. Il lavoro non fa per me. I miei antenati hanno sempre sfruttato i contadini e i servi. Mio nonno esercitava ancora il diritto di vita e di morte sui suoi contadini. Che differenza faceva se Elizaveta Chernikova sfruttava quei bambini? Sapete come li trattano nelle miniere di Krasnoyarsk o nelle filande intorno a Novgorod?»

Improvvisamente, Cosgrave spalancò gli occhi. Felix, seguendo il suo sguardo, sussultò a sua volta. Yelena si era materializzata dalle ombre. Passò dinanzi a loro, li guardò e pose un dito sulle labbra, poi cominciò a salire lentamente le scale. Orlov, che non l'aveva vista, continuò a parlare.

«Poi Elizaveta notò che alcune delle bambine stavano crescendo e come le guardavano gli uomini, ed ebbe l'idea. Era avida, il denaro che già guadagnava non le bastava. Era terrorizzata dalla prospettiva di morire all'ospizio dei poveri e aveva l'ossessione di mettere da parte abbastanza soldi per una vecchiaia agiata. Io, neanche questa volta, mi opposi».

Orlov tacque. Quando riprese il suo tono era diverso.

«Sto invecchiando. Chiacchiero come una vecchia babushka che racconta a tutti le sue storie. Cinque anni fa vi avrei già uccisi e sarei sulla via per Birmingham. Ora basta. Accenderò i fiammiferi antivento che sono legati alla bottiglia e la lancerò. Se mai riuscirai a colpirla affretterai solo la tua fine, inglese».

Si udì uno sfrigolìo e poi il sibilo dei fiammiferi antivento che bruciavano. Ma Yelena era arrivata i cima alle scale. Superò il boccaporto. Allungò una mano. I fiammiferi si spensero come per magia. Orlov esclamò «Stai lontana da me!» e barcollò indietro, rendendosi visibile un singolo istante nel vano della porta. La pistola di Cosgrave fece fuoco in rapida successione. Due colpi andarono a segno. Orlov fu scaraventato contro la parete e scivolò in ginocchio sui primi scalini.

«Chyort voz’mi» disse solo, "sono fottuto". Si rialzò, appoggiandosi alla parete, tossì sangue. Aveva il suo coltello in mano.

«Lo sai cos'è questo, anglijskij? È un pugnale afghano. Sai come l'ho preso? Mentre la nostra fanteria si avvicinava a Panjdeh io ero in ricognizione sulle alture intorno all'oasi. Mi trovavo lì da due settimane quando cademmo in un agguato dei montanari. Perdemmo cinquanta uomini. Li inseguii fino al loro villaggio inerpicato sulle pendici del valico per Herat e li circondai. Feci a pezzi il capo villaggio con il suo pugnale di fronte ai suoi, prima di ordinare lo sterminio di tutti, uomini, donne e bambini».

«Non ascoltare, old boy, sta tentando di spaventarti» disse Cosgrave.

Orlov cominciò a scendere, appoggiandosi con una mano insanguinata alla parete e tenendo con l'altra avanti a sé il lungo pugnale che scintillava maligno nella semioscurità.

«Morgaly vikalyu, padla – ti caverò gli occhi, anglijskij. Tu e il tuo amico verrete con me. Dobbiamo tutti morire, ne tak li

La pistola di Cosgrave fece un singolo clic. Aveva esaurito i colpi.

Orlov strisciò sugli ultimi gradini e si avventò su di loro. Cosgrave prese una sedia e gliela scaraventò contro. Ma Orlov era dotato di una forza disumana. Afferrò con una mano il bordo del tavolo di quercia e diede un singolo violentissimo strattone. Quello volò prendendo in pieno Alfred e fracassandogli il petto.

Felix si appiattì contro la parete. Il respiro di Orlov era gorgogliante, i polmoni stavano riempiendosi di sangue.

«Idi k chertu – vai all'inferno» ansimò, e alzò il pugnale.

Felix chiuse gli occhi. Una detonazione rimbombò assordante e lui li riaprì: parte della testa di Orlov non c'era più. Il russo rimase diversi attimi immobile, grottescamente in piedi, poi cadde di schianto all'indietro e continuò a contorcersi sul pavimento per un altro minuto in preda a sussulti. Nel vano delle scale apparve la sagoma di un uomo armato.

«Kooshi govno» imprecò il capitano Brjusov. «Volevi distruggere la mia nave, e invece sei andato all'inferno, bastardo».

 

Era passata una settimana. Felix e Finnigan avevano partecipato al funerale di Cosgrave. La comunità russa aveva tirato un sospiro di sollievo. Il principe Rumyantsev aveva mandato le sue condoglianze e si era offerto di accogliere in casa la piccola Mariya, in attesa di poter contattare i genitori.

In piedi, fuori dal club, due uomini fecero cenno ad una carrozza. Erano le dieci di sera ed erano diretti alle rispettive abitazioni.

Il principe Rumyantsev si tolse il cappello e lo mise accanto a sé sul sedile. «15 Belgravia Street» disse al cocchiere. La carrozza si rimise in moto. Rumyantsev guardò l'altro uomo. «C'è mancato poco» disse.

«Già, abbiamo avuto una notevole dose di fortuna, ma se non fossi stato bravo ad afferrare l'occasione non sarebbe andata così bene» rispose Felix Dummett.

«Com'è che ti trovavi fuori da quella cantina quando Orlov è entrato?» chiese Rumyantsev.

«In realtà l'avevo pedinato dal Gray Goose Inn. Quando l'ho visto uscire fuori di sé dallo scantinato di Yurji ho atteso qualche minuto, poi ho aperto la porta e ho gettato tre di queste». Fece vedere a Rumyantsev una bottiglia piena di un liquido scuro, con dei fiammiferi antivento incollati con un nastro adesivo.

«Sei pazzo?» esclamò Rumyantsev. «Se Finnigan ti vede con quella siamo spacciati».

«È solo un souvenir» ironizzò Dummett accarezzando affettuosamente la bottiglia.

«Ti ha dato di volta il cervello» commentò Rumyantsev. Batté sul tetto della carrozza. «All'Embankment». Poi si rivolse di nuovo a Dummett.

«Getterai la bottiglia nel Tamigi e tornerai a casa con un'altra vettura. Meglio non farsi vedere insieme per un po'».

Dummett annuì con aria distratta, continuando a giocherellare con la bottiglia. «Un peccato, che non possa tenerla. Non ho avuto bisogno di usarla, nella cantina di Elizaveta» disse. «Mi è bastato chiudere la porta esterna dopo che Orlov se n'era andato. Mariya ha visto qualcosa?»

«Leonid l'ha interrogata a lungo. Non sa nulla. E tuttavia penso sia meglio liberarcene» rispose Rumyantsev.

«Sono d'accordo, ma prima potremmo…»

«Dummett, la tua propensione a sopprimere vite umane in modo doloroso è inquietante persino per me. Se non fosse per il fatto che il patrimonio che dici a tutti di avere si è volatilizzato ormai da tempo, che dipendi completamente da me per la tua sussistenza e che quindi hai tutta la convenienza a controllare i tuoi istinti, avrei già preso in considerazione l'idea di farti eliminare da Leonid. Negli ultimi due anni in quella cantina hai ucciso tre bambine e ho dovuto risarcire lautamente Elizaveta. Gli accordi erano che tu le passassi a me, non che perdessi il controllo dei tuoi impulsi. La risposta è no, rischiamo di lasciare troppe tracce sul cadavere».

Dummett non rispose, cominciò a fischiettare. Rumyantsev gli fece cenno di smettere e proseguì. «Leonid avrà l'incarico di scortarla a Parigi: diremo che sono riuscito a rintracciare i genitori e a prendere accordi perché la famiglia si riunisca in Francia. Ce ne libereremo sul traghetto per Calais. Non è la prima volta che un bambino troppo vivace si sottrae alla vigilanza di un adulto e cade in acqua. Leonid è molto bravo in questo genere di cose. Qui, diremo che la bimba è arrivata a destinazione».

Dummett annuì, poi sorrise a se stesso, al pensiero di qualcosa.

«Mi incuriosisci, Felix. Puoi dirmi cosa ti sembra così divertente?» fece Rumyantsev.

Dummett lo guardò. «Non ti è venuto in mente che in tutta questa storia abbiamo gabbato anche un fantasma? Yelena non mi aveva mai visto nello scantinato, e crede che Mariya con noi sia in buone mani. Evidentemente nell'aldilà i morti non acquisiscono una migliore conoscenza delle faccende dei vivi».

Il principe stava per replicare quando guardò fuori dalla finestra e aggrottò le sopracciglia. «Che diavolo…» Erano davanti al Gray Goose Inn. Perché il cocchiere li aveva portati sin lì? Un pensiero lo colpì, mentre un brivido gelido gli serpeggiava per la schiena.

«Il cocchiere, Felix: non hai notato che indossava un pastrano dell'armata zarista?»

Aveva appena finito di dirlo che una piccola fioraia con un mazzo di fiori rossi sbucò da una via laterale e si parò dinanzi al cavallo.

L'animale si imbizzarrì. La carrozza oscillò violentemente e andò a battere la fiancata contro un muro. La bottiglia sfuggì di mano a Felix e si ruppe. Un odore di petrolio invase l'abitacolo.

«Usciamo di qui, per l'amor di Dio!» urlò Rumyantsev.

In quel preciso momento una piccola fioraia si affacciò dal vetro frantumato del finestrino. Aveva con sé una scatola di zolfanelli. Ne sfregò uno e l'accese.

«È ora che veniate con noi».