IL NICHILISMO

 

 

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INDICE

  

«Itinerarium mentis in nihilum».  Per una storia del concetto e del problema

Turgenev  e la sua presunta paternità

Nichilismo,  romanticismo, idealismo

Il  nichilismo in senso sociale e politico e la sua provenienza francese

Il  nichilismo senza fondamenti di Max Stirner

Nichilismo,  anarchismo, populismo nel pensiero russo

Nichilismo  e decadenza in Nietzsche

Nichilismo,  relativismo e disincanto nella «cultura della crisi»

Il  nichilismo estetico-letterario

Il  nichilismo europeo nella storia dell’essere: Heidegger e Nietzsche

Il  primo interesse di Heidegger per Nietzsche

La  comparsa di Nietzsche in «Essere e tempo»

Il  punto di svolta

Nietzsche  nel 1933

Concomitanze:  Heidegger, Scheler e l’Archivio-Nietzsche

I  corsi universitari su Nietzsche dal 1936 al 1940

Perché  il nichilismo

Il  «Nietzsche» del 1961

Nietzsche:  né vero né falso, ma o vivo o morto

Dal  «de profundis» nietzscheano

Oltre  la linea del nichilismo: Jünger «versus» Heidegger

Nichilismo,  esistenzialismo, gnosi

Nichilismo,  teologia politica, secolarizzazione: Carl Schmitt

Nichilismo, "posthistoire", fine della storia: Kojève, Gehlen

Tecnica e nichilismo

Per una filosofia della tecnica

Il conflitto tra tecnica e umanesimo

La tecno-scienza come pericolo

Per un'antropologia a misura della tecnica

Il nichilismo in Italia

Oltre il nichilismo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Itinerarium mentis in nihilum».  Per una storia del concetto e del problema

 

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L’uomo contemporaneo versa in una situazione di incertezza e di precarietà. La sua condizione è simile a quella di un viandante che per lungo tempo ha camminato su una superficie ghiacciata, ma che con il disgelo avverte che la banchisa si mette in movimento e va spezzandosi in mille lastroni. La superficie dei valori e dei concetti tradizionali è in frantumi e la prosecuzione del cammino risulta difficile.

Il pensiero filosofico ha cercato di offrire una diagnosi di tale situazione, dei mali che affliggono l’uomo contemporaneo e dei pericoli che lo minacciano. E ha creduto di poter individuare la causa essenziale di tutto ciò nel «nichilismo». Ma che cos’è il nichilismo?

Come termine il nichilismo fa la sua comparsa già a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento nelle controversie che caratterizzano la nascita dell’idealismo tedesco. Più tardi, nella seconda metà dell’Ottocento, esso è diventato tema generale di discussione, ma è emerso come problema, in tutta la sua virulenza e vastità, solo nel pensiero del Novecento. Quale espressione di tentativi artistici, letterari e filosofici volti a sperimentare la potenza del negativo e a viverne le conseguenze, esso ha portato alla superficie il malessere profondo che fende come una crepa l’autocomprensione del nostro tempo. Già Nietzsche lo apostrofava come «il più inquietante» fra tutti gli ospiti. Nel frattempo quest’ospite sinistro si aggira ormai ovunque per la casa e non ha più senso fingere che non ci sia o cercare di metterlo semplicemente alla porta. Ma che cosa significa propriamente nichilismo?

Troviamo la risposta al nostro interrogativo in Nietzsche, il primo grande profeta e teorico del nichilismo. In un frammento vergato negli ultimi sprazzi di lucidità, nell’autunno del 1887, ponendosi egli stesso la domanda, Nietzsche risponde:

 

 

Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al «perché?»; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano (VIII, ii, 12).

 

Il nichilismo è dunque la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al «perché?» e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo. In un altro importante frammento steso nell’inverno 1887-88 Nietzsche illustra ulteriormente la dinamica che innesca la svalutazione dei valori supremi e provoca l’avvento del nichilismo:

 

 

L’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido... Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli... (VIII, ii, 266).

 

 

Nel frattempo la profezia di Nietzsche – questo Saulo rapito dalla demenza sulla via di Damasco – ha trovato conferma. Il fuoco da lui appiccato divampa oggi dappertutto. Chiunque può vedere che il nichilismo non è più soltanto il fosco esperimento di stravaganti avanguardie intellettuali, ma fa parte ormai dell’aria stessa che respiriamo. La sua presenza ubiqua e multiforme lo impone alla nostra considerazione con una evidenza che è pari solamente alla difficoltà di abbracciarlo in una definizione chiara e univoca. Sulla diagnosi del nichilismo, sulla anamnesi delle patologie e del disagio culturale che rappresenta, gli animi si dividono. Anche le indagini storiche sulla genesi del termine hanno portato alla luce le tracce di un manifestarsi complesso e ramificato del fenomeno.

Come una prima definizione vorrebbe, in ossequio all’etimologia, il nichilismo – da nihil, niente – è il pensiero ossessionato dal nulla. Se così fosse, si potrebbe essere tentati di ritrovare il nichilismo e le sue tracce un po’ ovunque nella storia della filosofia occidentale, perlomeno in ogni pensiero in cui il nulla si accampa come problema centrale – con buona pace di Bergson che lo annoverava tra le pseudo-questioni (Bergson, 1970: 1306).

In tal senso Gorgia potrebbe essere considerato il primo nichilista della storia occidentale per la fulminea inferenza che di lui ci è tramandata (fr. 3): nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; e anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile (anhermèneuton). Stando così le cose, c’è da chiedersi se una storia del nichilismo non dovrebbe includere anche Fridugiso di Tours, l’allievo di Alcuino che nel De substantia nihili et tenebrarum, con gesto filosofico scandaloso per i tempi, volle mostrare che il nulla si impone con una sua presenza e che gli competono dunque un qualche essere e una sua sostanzialità. E poi Giovanni Scoto Eriugena, che apre il terzo libro del suo De divisione naturae con una sottile Quaestio de nihilo volta a stabilire che cosa rispettivamente intendano con tale difficile concetto la filosofia greca e la teologia cristiana. E non rientrerebbero a pieno diritto in tale storia anche le meditazioni nelle quali Meister Eckhart, con una vertiginosa annihilatio, dichiara che Dio e il nulla, «l’angelo, la mosca e l’anima» sono la stessa cosa – come per esempio nel commento al detto di Luca: «Paolo si levò da terra e, con gli occhi aperti, vide il nulla»? E perché insieme a lui non altre sublimi espressioni della mistica speculativa, da Dionigi Areopagita fino a Giovanni della Croce e ad Angelo Silesio?

E allora perché non includervi Charles de Bovelles che in pieno Rinascimento, nel suo Liber de nihilo (1509), si arrovella circa quella «negazione originaria delle creature e della materia» che è il nulla, impiegandolo come concetto cardinale nella sua teologia negativa? O perfino Leonardo che in un appunto del Codice Atlantico (folio 389 verso d) annota: «Infralle cose grandi che infra noi si trovano, l’essere del nulla è grandissima»? O la bibbia dello scetticismo nichilistico, il Quod nihil scitur di Francisco Sanches? E poi soprattutto Leibniz con la celebre domanda formulata nei Principes de la Nature et de la Grâce: «Pourquoy il y a plustôt quelque chose que rien?» e con la ancor più stupefacente risposta: «Car le rien est plus simple et plus facil que quelque chose» (Leibniz, 1875-90: VI, 602)? E infine perché non quel sublime maestro del nulla che fu Leopardi con la sua tesi annotata nello Zibaldone secondo la quale «il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla» (Leopardi, 1997: I, 971 [1341])?

Al pari di un’insopprimibile ombra, da sempre il nulla ha accompagnato e travagliato la riflessione filosofica – come Mefistofele il suo Faust. Lo «spirito che sempre nega» si insinua tra i pensieri che animano la mente umana, facendosi forte delle ragioni della negatività che furono già di Anassimandro:

 

 

...denn alles, was entsteht,

Ist wert, daß es zu Grunde geht;

Drum besser wär’s, daß nichts entstünde.

[«...perché tutto ciò che nasce / è tale che perisce; / perciò meglio sarebbe che nulla nascesse» (Goethe, Faust, I, vv. 1339-1341]

 

 

Né la filosofia può esimersi dal pensare il nulla se è vero che, per ottemperare al compito che le è proprio, vale a dire l’interrogazione intorno all’essere in quanto essere, essa deve demarcare quest’ultimo dalla sua opposizione essenziale, cioè dal nulla. È questa la ragione della drastica conclusione cui perviene a tale proposito Heidegger:

La pietra di paragone più dura, ma anche meno ingannevole, per saggiare il carattere genuino e la forza di un filosofo è se egli esperisca subito e dalle fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza del niente. Colui al quale questa esperienza rimane preclusa sta definitivamente e senza speranza fuori dalla filosofia (Heidegger, 1994: 382).

Ciò detto, va subito fatta una restrizione del campo d’indagine in cui ci inoltreremo nella nostra ricostruzione del nichilismo. Lasciando da parte il problema filosofico del nulla e la sua storia (cfr. Givone, 1995; Lütkehaus, 1999), ci limiteremo al nichilismo in senso stretto così come esso è emerso in seno al pensiero filosofico, come concetto e come problema, nell’Ottocento e soprattutto nel Novecento. Le nostre perlustrazioni – che si affiancano ad altri studi (in particolare Verra, 1979; Vercellone, 1992) e sviluppano una precedente sinossi (Volpi, 1995c) – seguono quale filo conduttore la storia del concetto e del problema. Nutriamo nei confronti del nichilismo la stessa convinzione che vale per tutti i veri problemi filosofici: essi non hanno soluzione ma storia.

 

 

 

Turgenev  e la sua presunta paternità

 

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La prima cosa da appurare in una ricostruzione storica del nichilismo sono i suoi natali. È opinione comunemente accettata che i due padri fondatori e grandi teorizzatori del nichilismo siano stati Dostoevskij e Nietzsche. A loro mettono rispettivamente capo il filone letterario e quello più propriamente filosofico del movimento. Il termine, tuttavia, era già stato coniato prima di loro. Ma quando e da chi?

A rivendicarne per primo la paternità fu Turgenev. In verità, sulla scorta di indagini lessicografiche noi oggi sappiamo che si tratta di una paternità più presunta che effettiva. Ma vediamo anzitutto che cosa dichiara egli stesso.

In una retrospettiva autobiografica Turgenev afferma di essere stato lui, nel romanzo Padri e figli (Otcy i deti, 1862), ad avere inventato il termine «nichilista». Con tale denominazione egli definisce in effetti il modo di pensare del protagonista del suo romanzo, Bazarov, e dice anzi di aver voluto dare corpo, con questo personaggio, a un tipo di uomo e di atteggiamento, teorico e pratico, che andava imponendosi nella realtà storica del suo tempo. Motivo centrale del romanzo – le cui vicende si svolgono nella Russia del 1859, vale a dire due anni prima dell’abolizione della servitù della gleba e della liberazione dei contadini – è il conflitto tra la generazione dei padri, che si ispira agli ideali umanistici tradizionali, e quella ribelle dei figli, materialistica, disincantata e priva di illusioni. Bazarov, che appartiene a quest’ultima, è un giovane medico venuto a far visita a un amico che lo riceve nel suo podere alla presenza di suo padre e suo zio. Egli esprime prima disappunto e poi condanna per il modo di vivere ozioso di costoro, indifferenti e sordi a quanto sta accadendo nella società del loro tempo. I nobiluomini si domandano se Bazarov non sia un pericoloso «negatore» dei valori e dell’ordine sociale esistenti, un «nichilista». E Bazarov accetta volentieri tale appellativo: dichiara di voler effettivamente negare l’ordine inveterato e con esso i princìpi e i valori della vecchia generazione che vive in una opulenta indifferenza di fronte a ciò che sta accadendo al popolo. Essere nichilista significa tuttavia per lui non solo distruggere il vecchio, ma anche impegnarsi nel compito sociale che ha scelto, quello di medico (morirà per un’infezione contratta curando un malato). Bazarov è – come Turgenev lo definisce – l’«uomo nuovo», l’«eroe del nostro tempo» passato per la dura scuola del lavoro e del sacrificio, destinato a rimpiazzare la stanca e fiacca nobiltà. Egli sa di dover negare, sa che per avanzare deve calpestare credenze e valori tradizionali, ma procede imperterrito senza troppo preoccuparsi delle ceneri e delle distruzioni che lascia alle sue spalle. «Nichilista» è perciò l’appellativo che gli conviene.

Nel quinto e ultimo capitolo delle sue Memorie letterarie e di vita Turgenev spiega la sua scelta:

 

 

Come punto di partenza per la figura principale, Bazarov, avevo preso la personalità, che m’aveva colpito, d’un giovane medico di provincia (che morì poco prima del 1860). In quest’uomo singolare si compendiava, ai miei occhi, quell’insieme di princìpi che ricevette poi il nome di nichilismo (Turgenev, 1992: 186; 1993: 277-78).

 

 

Quanto agli effetti che la rappresentazione letteraria del fenomeno produsse, è ancora Turgenev che ce ne offre l’illustrazione più efficace:

 

 

Non mi dilungherò sull’impressione che produsse questo racconto; dirò soltanto che, quando tornai a Pietroburgo, nel medesimo giorno del famoso incendio dell’Apraksinskij Dvor [gli edifici del grande mercato della città], la parola «nichilista» era già su migliaia di bocche, e la prima esclamazione che udii sulle labbra del primo conoscente in cui mi imbattei presso la Neva [il corso principale di Pietroburgo] furono: «Guardate quel che fanno i vostri nichilisti! Bruciano Pietroburgo!» (Turgenev, 1992: 187-88; 1993: 278-79).

Il romanzo suscitò insomma, anche se scritto a scopo di condanna e di reazione, una interpretazione del nichilismo che era più radicale di quella dell’autore stesso – come lascia intravedere la sagace osservazione di una lettrice che Turgenev riporta e che coglie probabilmente nel segno:

«Né padri né figli» mi disse una spiritosa signora, dopo aver letto il mio libro. «Ecco il vero titolo del vostro racconto; e voi stesso siete un nichilista» (Turgenev, 1992: 195; 1993: 283).

Lo scopo che questi osservatori più o meno consapevolmente perseguivano, e che affinava oltremodo la loro sensibilità nei confronti del fenomeno del nichilismo, era quello di arginare il movimento di idee che con tale termine si indicava e quindi fermare gli sconvolgimenti sociali che esso aveva avviato.

Della parola da me creata: «nichilista», si sono valsi allora molti altri i quali non attendevano che l’occasione, il pretesto per arrestare il movimento da cui era trascinata la società russa. Non nel senso d’un rimprovero, non per un fine di mortificazione fu da me adoperata quella parola, ma come espressione precisa ed esatta d’un fatto reale, storico; essa fu trasformata in uno strumento di delazione, di condanna inappellabile, quasi in un marchio d’infamia (Turgenev, 1992: 198; 1993: 284-85).

 

 

Non appena creato, il termine «nichilista» sfuggì dunque di mano al suo dichiarato inventore e dilagò come una categoria di critica sociale. Ma come era stato definito il termine «nichilista» in Padri e figli? Vale la pena rileggere il punto preciso del romanzo nel quale Turgenev lo introduce e ne precisa l’accezione.

«Un nichilista» proferì Nikolaj Petrovicˇ. «Viene dal latino nihil, nulla, per quanto posso giudicare; dunque questa parola indica un uomo, il quale... il quale non ammette nulla?»

«Di’ piuttosto: il quale non rispetta nulla» riprese Pavel Petrovicˇ...

«Il quale considera tutto da un punto di vista critico», osservò Arkadij.

«E non è forse lo stesso?» domandò Pavel Petrovicˇ.

«No, non è lo stesso. Il nichilista è un uomo che non s’inchina dinanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato».

«E ti pare una bella cosa?» lo interruppe Pavel Petrovicˇ.

«Secondo chi, zio. Per taluno ne deriva un bene, e per qualcun altro un gran male».

«Ah, così? Beh, vedo che non è una partita di nostra competenza. Noi siamo gente del vecchio secolo, noi riteniamo che senza “prensìp” (Pavel Petrovicˇ pronunciava questa parola dolcemente, al modo francese, Arkadij, al contrario, pronunciava “principii”, strascicando la sillaba finale) senza “prensìp”, accettati, come tu dici, per dogma, non si può muovere un passo, non si può trarre un respiro... Come vi chiamate?»

«Nichilisti» proferì distintamente Arkadij.

«Sì, prima c’erano gli hegeliani, ora ci sono i nichilisti. Vedremo come farete a esistere nel vuoto, nello spazio senz’aria...» (Turgenev, 1991: 809-10).

In queste poche battute si condensa la tensione che anima la narrazione di Turgenev e che genera la frattura tra la vecchia e la nuova visione del mondo, quella dei padri, ancorata agli antichi princìpi, e quella dei figli, che non è più capace di coltivare una fede. Non è detto che la definizione di Turgenev cogliesse veramente nel segno. Probabilmente, come testimoniano le molte proteste e rettifiche che essa suscitò, la nuova generazione dei figli era tutt’altro che indifferente ai princìpi. Solo che essi erano ormai altri: erano quelli della nuova visione positivistica e materialistica del mondo. Ma comunque stessero le cose, di fatto la definizione di Turgenev risultò efficace nel cogliere una tendenza in atto nella cultura e nella società russa di allora.

Del resto, il termine nichilismo era già stato impiegato in precedenza, sia altrove sia nella stessa Russia. Per esempio già nel 1829 il critico romantico N.I. Nadeždin, in un articolo intitolato L’adunata dei nichilisti (Somnišcˇe nigilistov), aveva definito nichilisti coloro che nulla sanno e nulla capiscono. E anche M.N. Katkov aveva usato l’epiteto di «nichilisti» per criticare i collaboratori della rivista «Il Contemporaneo» come gente che non crede a nulla. Comunque sia, a Turgenev va riconosciuto, se non la paternità, almeno il merito di aver reso popolare il termine.

 

 

 

Nichilismo,  romanticismo, idealismo

 

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Fatto salvo il merito di Turgenev di avere messo in circolazione l’idea del nichilismo e averla trasformata in un problema avvertito su vasta scala, va detto che egli ignorava l’origine più antica del termine. A parte l’uso che ne era stato fatto nella stessa cultura russa a lui precedente, anche altrove la parola aveva già fatto la sua comparsa. Per restare nell’ambito della letteratura di cui Turgenev avrebbe potuto avere conoscenza, la troviamo ad esempio nel titolo di una novella di Karl Ferdinand Gutzkow (Die Nihilisten, 1853), romanziere e drammaturgo tedesco di un certo successo, esponente del movimento della «Giovane Germania», che si era confrontato polemicamente con Schopenhauer sulla questione dell’impegno sociale dello scrittore.

Grazie a indagini di storia concettuale (Arendt, 1974; Riedel 1978) oggi sappiamo che l’origine del concetto di nichilismo va spostata ancora più indietro. Prescindendo dall’uso non meglio attestato che già Agostino ne avrebbe fatto con l’apostrofare come nihilisti i non credenti, l’apparizione del termine, nella variante nihilianismus, è documentata in Gualtiero di San Vittore. Questi lo usa per designare l’eresia cristologica secondo la quale, essendo il logos divino eterno e non creato, l’umanità compete a Cristo solo come accidente. Tale «nichilianismo teologico» sarebbe stato sostenuto da Pietro Lombardo nel quarto dei suoi celebri Libri sententiarum, che per questo è attaccato da Gualtiero di San Vittore e da Roberto di Melun, e poi ufficialmente condannato da papa Alessandro III, che nel 1173 scrive a Guglielmo di Champagne, allora arcivescovo di Sens, per condannare l’eresia dei nichilisti. Se ci si attiene invece rigorosamente alla forma nihilismus, essa compare per la prima volta nel 1733 nel titolo del trattato di Fridrich Lebrecht Goetz De nonismo et nihilismo in theologia, in cui è definito nichilismo il ritenere che tutto sia nulla, «pro nihilo habere omnia» (ivi: 34; cfr. Müller-Lauter, 1984: 846).

Ma, al di là di queste occorrenze isolate, un primo uso più generale della parola è stato individuato nella cultura francese della Rivoluzione. In questo contesto storico l’attributo «nichilista» fu impiegato per qualificare la schiera di coloro che non erano «né per, né contro la Rivoluzione». Trasferendo questo significato sul piano delle convinzioni religiose Anacharsis Cloots – pseudonimo di Jean-Baptiste du Val-de-Grâce, barone di Cloots, membro della Convenzione nazionale che fu poi ghigliottinato – affermava in un suo discorso del 26 dicembre 1793 che «la Repubblica dei diritti dell’uomo non è né teista né atea, è nichilista» (Cloots, 1979: 643).

Tuttavia, al di là delle occorrenze lessicali, ciò che qui interessa è l’uso filosofico vero e proprio del concetto. Circa le premesse storico-filosofiche generali che lo rendono possibile, un lungo discorso andrebbe fatto in merito al manifestarsi del nichilismo prima della nascita del termine stesso. Si dovrebbe mostrare, in particolare, come la cosmologia moderna con la sua concezione della natura quale res extensa, cioè mero spazio vuoto e materia, abbia provocato la spaesatezza metafisica dell’uomo. All’inizio dell’età nuova una raggelante constatazione di Pascal dà la misura di quale profonda trasformazione la cosmologia materialistica abbia causato nella posizione metafisica dell’uomo nell’universo. «Inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano – annota Pascal – io mi spavento» (Pascal, 1962: 94). Questo preoccupato lamento segnala che con la nuova cosmologia cambia la situazione spirituale dell’uomo. Nell’universo fisico della cosmologia moderna egli non può più abitare e sentirsi a casa propria come nel cosmo antico e medievale. L’universo è ora percepito come estraneo al suo destino individuale: gli appare come una angusta cella in cui la sua anima si sente prigioniera oppure come una spaesante infinità che lo inquieta. Di fronte all’eterno silenzio delle stelle e agli spazi infiniti che gli rimangono indifferenti, l’uomo sta solo con se stesso. È senza patria.

Nominando in termini così chiari la spaesatezza metafisica dell’uomo moderno, l’annotazione di Pascal tocca con largo anticipo, alle soglie dell’età moderna, la ragione più profonda dell’emergere del nichilismo. Quando viene meno il senso, quando manca la risposta al «perché?», il nichilismo è ormai alle porte. Quest’ospite inquietante – secondo l’espressione di Nietzsche – si è già insinuato furtivo nella casa in modo che nessuno potrà più scacciarlo. Naturalmente Pascal affronta e pensa questa nuova condizione per contrastarla: dietro la irrefragabile necessità della natura v’è ancora un Deus absconditus che la governa e che ci governa, per quanto Egli non sia immediatamente riconoscibile nel suo creato. L’uomo è, sì, un frammento di natura, un nulla schiacciato dalle forze cosmiche, ma può, in quanto pensa e crede, sottrarre la sua contingenza al condizionamento delle leggi naturali e proclamarsi cittadino dell’altro mondo, quello dello spirito.

Ma lo scenario è ormai tracciato. Presto anche Dio si eclisserà. Dapprima solo per ipotesi: tutto va immaginato «come se Dio non ci fosse» (etiamsi Deus non daretur). Poi per davvero: tutto va ripensato, in primo luogo il senso della nostra esistenza, prendendo atto del fatto che «Dio è morto». Allora, quando la trascendenza perde la sua forza vincolante e ammutolisce, l’uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Anzi, non gli resta che prendersela: l’uomo è la libertà stessa poiché ormai non è altro che quello che progetta di essere, e tutto gli è permesso. Che questa libertà finisca poi per essere una libertà disperata, la quale infonde più angoscia che non pienezza d’essere, è un fatto con il quale l’esistenzialismo ha cercato di convivere.

L’orizzonte speculativo a cui queste poche battute alludono, e che si sviluppa in un crescendo nichilistico lungo l’arco storico che va da Pascal all’esistenzialismo contemporaneo, consente di inquadrare le prime occorrenze del termine nichilismo e la genesi stessa del movimento in un contesto meno ristretto rispetto a quello a cui si limita la semplice indagine lessicografica o storico-concettuale. In questo orizzonte si capisce meglio il primo uso filosofico vero e proprio del concetto, individuato verso la fine del XVIII secolo nel contesto delle controversie che caratterizzano la nascita dell’idealismo.

Nella contrapposizione dell’idealismo al realismo e al dogmatismo, il termine «nichilismo» è impiegato per caratterizzare l’operazione filosofica mediante la quale l’idealismo intende «annullare» nella riflessione l’oggetto del senso comune, al fine di mostrare come esso in verità non sia altro che il prodotto di una invisibile e inconsapevole attività del soggetto. A seconda del punto di vista, favorevole o meno a tale operazione, il termine acquista un senso positivo o negativo. Nichilismo significa allora, nell’accezione positiva, la distruzione filosofica di ogni presupposto e ogni dato immediato; in quella negativa, invece, la distruzione delle evidenze e delle certezze del senso comune da parte della speculazione idealistica. Nel significato della contrapposizione al realismo William Hamilton, ultimo esponente della Scuola scozzese di Thomas Reid, nei primi decenni dell’Ottocento vedeva «an illustrious exemple of Nihilism» niente meno che in Hume, senza peraltro poter indicare occorrenze precise (Hamilton, 1861-66: I, 294).

È precisamente in tale senso negativo che Jacobi accusa l’idealismo di essere un nichilismo, introducendo così per primo il termine con una valenza filosofica. Il passo più celebre, solitamente indicato come la prima occorrenza del termine nella sua accezione speculativa, è contenuto in una missiva di Jacobi a Fichte stesa nel marzo e pubblicata nell’autunno del 1799. Jacobi afferma:

 

 

In verità, mio caro Fichte, non deve infastidirmi se Lei, o chicchessia, vuole chiamare chimerismo quello che io contrappongo all’idealismo, a cui muovo il rimprovero di nichilismo (Jacobi, 1972: 245; cfr. anche 223).

 

 

Questo uso del concetto non è occasionale, dal momento che Jacobi lo impiega anche in altri luoghi. Lo adopera per esempio nello scritto Sulle cose divine e la loro rivelazione (Von den göttlichen Dingen und ihrer Offenbarung, 1811), nella cui prima parte, nella quale ricorre il termine, rielabora e inserisce una recensione delle opere di Matthias Claudius progettata nel 1798 (dunque prima della missiva a Fichte) e poi ritirata a causa dell’Atheismusstreit del 1799. Jacobi combatte come «nichilismo», ma anche come «ateismo», il modo in cui Dio viene fatto rientrare nella considerazione della filosofia, da Spinoza a Fichte fino a Schelling: Egli diventa oggetto di argomentazione, cioè di un sapere discorsivo, dialettico, razionale, e cessa di essere l’Assoluto puro e semplice a cui solo un coglimento diretto di tipo intuitivo può arrivare. Tale coglimento è per Jacobi la funzione propria della Vernunft, cioè della ragione, intesa, secondo l’etimologia del termine sottolineata già da Leibniz e da Herder, come un Vernehmen (percepire), ossia come la percezione dell’Assoluto. Di qui la riduzione della ragione a una sorta di contatto immediato con l’Assoluto, cioè a una «fede» (Glaube) – riduzione che contraddistingue la posizione filosofica di Jacobi e che sarà severamente attaccata dagli idealisti, in particolare da Hegel. Quanto alle fonti dalle quali Jacobi potrebbe avere attinto il termine «nichilismo», si può congetturare che egli l’avesse sentito impiegare nell’ambiente culturale francese in cui esso già circolava, anche se con un altro significato. È stato inoltre mostrato che Jacobi conosceva la continuazione tedesca del Discours sur l’histoire universelle di Bossuet a opera di Johann Andreas Cramer, del 1786, nella quale si dichiarava che i teologi che si erano serviti del concetto di «nulla» per distinguere la divinità di Cristo dalla sua umanità si erano macchiati dell’«eresia del nichilianismo», alla quale si è già accennato (Baum, 1969).

Che il termine entrasse allora in circolazione in Germania, forse addirittura come «termine fondamentale nella discussione sull’idealismo» (Pöggeler in Arendt, 1974: 310), è comprovato dalla circostanza che un’opera diffusa di consultazione come il Dizionario portatile universale delle scienze filosofiche di Wilhelm Traugott Krug (Allgemeines Handwörterbuch der philosophischen Wissenschaften, 1828) gli dedica un lemma apposito, espressamente aggiunto nel volume di supplementi. Ma la conferma principale viene da ricerche lessicali che hanno documentato l’uso del termine in altri pensatori dell’età romantica, anche prima della missiva di Jacobi a Fichte. Per esempio Daniel Jenisch – un teologo altrimenti quasi sconosciuto, che fu vicino a Hamann ed ebbe rapporti con Kant, e finì suicida nella Spree – lo impiega ripetutamente nel suo trattato Sul fondamento e sul valore delle scoperte del prof. Kant in metafisica, morale ed estetica (Über Grund und Wert der Entdeckungen des Herrn Professor Kant in der Metaphysik, Moral und Ästhetik, 1796), presentato al celebre concorso dell’Accademia prussiana sui progressi della metafisica, al quale partecipò anche Kant. Nel rispondere al quesito su «quali fossero stati i progressi reali della metafisica in Germania dai tempi di Leibniz e di Wolff», Jenisch contrappone allo spinozismo, cioè al dogmatismo e al realismo, la nuova posizione emersa con Kant, cioè l’idealismo, e si propone di illustrare – come recita il titolo della missiva dell’autore a Kant, pubblicata in appendice allo scritto – «gli effetti favorevoli e sfavorevoli della filosofia critica avutisi fin qui». Fautore di un «realismo relativo» (Verhältnis-Realismus), Jenisch interpreta l’idealismo kantiano non in un senso assoluto, bensì in senso critico, cioè come idealismo trascendentale: essendo il nostro intelletto non «archetipico» ma «ectipico», ossia non originario né capace di produrre esso stesso le idee e i concetti che conosce, bensì limitato e finito, la cosa in sé non può essere eliminata. Rimane cioè una resistenza dura dell’essere che non si lascia assorbire e risolvere interamente nel pensiero. Ora, nonostante l’annullamento della cosa in sé appaia alla nostra ragione e alla nostra immaginazione come un’ipotesi mostruosa e terribile, nondimeno essa è stata largamente praticata dalla filosofia più recente che ha inteso e sviluppato l’idealismo in senso assoluto. Ma con questa operazione essa ha finito per negare la realtà delle cose, cioè per annientare nell’abisso dell’irrealtà, tra le «onde leteiche dell’eterno nulla», l’intera natura con la miriade di esseri e creature che pullulano nell’universo. Se così fossero da interpretare, l’idealismo e il criticismo «predicherebbero il più manifesto ateismo e nichilismo» (cfr. Pöggeler in Arendt, 1974: 335 sgg.; Riedel, 1978: 380).

Più o meno contemporaneamente a Jacobi, in qualche caso prima di lui, usano il termine «nichilismo» anche altri autori noti come Friedrich Schlegel e Jean Paul. Il primo addirittura più volte e con significati diversi. Ad esempio in un appunto del 1797 Schlegel annota che «ogni arguzia tende al nichilismo». L’occorrenza del concetto in questo frammento non è facile da contestualizzare né da interpretare. Probabilmente Schlegel si riferisce alla funzione corrosiva dell’arguzia (Witz), cioè dell’ironia: essa produce uno scarto di prospettiva e un distacco rispetto al finito, ne sospende e ne distrugge le pretese di valere assolutamente, e in tal senso tende a quel «nichilismo» che, mettendo in questione il finito e relativizzandolo, apre la strada verso l’infinito, cioè verso il vero Assoluto. Un impiego del termine in chiaro riferimento alla polemica di Jacobi con Fichte si trova invece nei corsi universitari tenuti da Schlegel tra il 1804 e il 1806. Ecco quanto egli osserva al riguardo:

 

 

Nonostante l’idealismo e il realismo stiano fra loro in una antitesi assoluta, è tuttavia facilissimo saltare da un estremo all’altro. Entrambi conducono facilmente al nichilismo (...). Il nichilismo non dovrebbe costituire un proprio sistema determinato? (Schlegel, 1837: 475; cfr. anche 428, 486).

 

 

Schlegel usa il termine «nichilismo» in un altro senso ancora, per caratterizzare la visione orientale del mondo. Egli dice che il nichilismo è la forma mistico-orientale del panteismo (Schlegel, 1963: 27, 573, 575) – equazione, questa, che si ritrova più tardi anche nell’Essenza del cristianesimo di Feuerbach.

Mentre in Schlegel il significato del termine oscilla e cambia nelle diverse fasi del suo pensiero, Jean Paul ne fa invece un uso ben preciso e definito. Creatore, non a caso, del personaggio di Roquairol (Titan, 1800-01), una delle più significative figure di nichilista della letteratura tedesca, Jean Paul critica nella Clavis Fichtiana seu Leibgeberiana (1800), dedicata a Jacobi, e poi in un intero capitolo della Propedeutica all’estetica (Vorschule der Ästhetik, 1804), coloro che egli chiama i «nichilisti poetici», cioè i romantici. Essi vedono solo l’arte e non la natura: ebbri del loro io, profondamente «egoisti», non fanno che celebrare il libero gioco della fantasia, vale a dire l’attività spontanea dell’io creatore, dimenticando il non-io, la natura, l’intero universo, Dio compreso, che essi finiscono per ridurre a nulla. Ma quando, quasi come un sole che tramonta, anche Dio scompare e svanisce per un’epoca, allora tutto il mondo entra nell’oscurità (Jean Paul, 1959: V, 31). L’ateismo spezza l’intero universo in una miriade di io isolati, senza unità e connessione, in cui ciascuno sta solo in mezzo a quel Nulla al cui cospetto perfino Cristo, alla fine dei tempi, dispera dell’esistenza di Dio-padre. È la sconcertante visione apocalittica che Jean Paul immagina ben due volte. Una prima nel Lamento di Shakespeare morto, tra i morti che lo ascoltano in chiesa, sulla non esistenza di Dio (Des toten Shakespear’s Klage unter den toten Zuhörern in der Kirche, daß kein Gott sei, 1789). Cimentandosi in una descrizione letteraria della sua esperienza del Nulla, Jean Paul immagina una voce che dall’altare proclama:

 

 

Non v’è Dio né tempo. L’eternità non fa che rimuginare se stessa e rodere il caos. L’arcobaleno iridato degli esseri s’inarca senza sole sopra l’abisso e si dissolve goccia a goccia – noi assistiamo alla muta sepoltura della Natura suicida e veniamo sepolti con lei. Chi mai solleva lo sguardo verso un occhio divino della Natura? Lei vi fissa con una smisurata orbita vuota e nera (Jean Paul, 1959: II, ii, 590-91).

 

 

Una seconda volta nel celebre Discorso del Cristo morto, dall’alto dell’universo, sulla non esistenza di Dio (Rede des toten Christus, vom Weltgebäude herab, daß kein Gott sei, 1796), inserito nel romanzo Siebenkäs e fatto conoscere da Madame de Staël che lo tradusse in francese in De l’Allemagne. Qui Jean Paul perfeziona e radicalizza la sua scandalosa visione del Nulla assoluto:

 

 

Nulla immobile e muto! Fredda, eterna necessità! Folle caso! Conoscete voi ciò che dominate? Quando abbatterete l’edificio e me? – Caso, sai tu quello che fai quando avanzi coi tuoi uragani nel nevischio delle stelle, spegnendo un sole dopo l’altro col tuo soffio, e quando la rugiada luminosa delle costellazioni cessa di scintillare al tuo passaggio? – Come ciascuno è solo nell’immensa tomba dell’universo! Accanto a me ci sono solo io – O padre! o padre! dov’è il tuo seno infinito perché mi possa riposare su di esso? (Jean Paul, 1977: 30).

 

 

Nel Nulla finisce per inabissarsi anche il punto fermo sul quale gli idealisti basavano la loro annihilatio mundi, cioè l’io.

Se ciascun io è padre e creatore di se stesso – si interroga Jean Paul – perché mai non può essere anche il proprio angelo sterminatore? (Jean Paul, 1977: 30).

Non è un caso che in un altro testo, da molti considerato per la sua radicale e caustica ironia il culmine del nichilismo romantico, i Notturni di Bonaventura (Nachtwachen des Bonaventura, 1804), l’anonimo autore riprenda, nell’episodio dell’Ebreo errante, lo stesso motivo nichilistico di Jean Paul senza più stemperarlo nella cornice del sogno come fa quest’ultimo. Tutto lo scritto è un cimentarsi con il Nulla, e la professione di nichilismo fatta nell’ottavo notturno non potrebbe essere più tetra:

 

 

Il teschio non diserta mai la maschera che occhieggia, la vita non è che l’abito a sonagli che il Nulla indossa per tintinnare prima di stracciarselo via di dosso. Che cos’è il Tutto? nient’altro che il Nulla: esso si strozza da sé, e giù s’ingoia voracemente: ecco a che si riduce la perfida ciarlataneria secondo la quale esisterebbe qualcosa! Se infatti una sola volta lo strozzamento sostasse, il Nulla balzerebbe evidente agli occhi degli uomini da farli inorridire; i folli chiamano eternità questo fermarsi! – ma no, è proprio il Nulla invece, la morte assoluta – poiché la vita consiste solamente in un ininterrotto morire (Bonaventura, 1984: 77-78; 1990: 187).

 

 

E nella chiusa dello scritto viene lanciata ancora una volta la sfida autodistruttiva all’indirizzo del Nulla:

 

 

Io voglio guardare furente nel Nulla e affratellarmi con lui, in modo da non avvertire più residui umani quando infine mi ghermirà!

Con te, vecchio alchimista, vorrei mettermi in cammino; solo, non devi mendicare per ottenere il cielo – non mendicare – espugnalo piuttosto, se ne hai la forza (...) smettila di mendicare; ti disgiungo a forza le mani! Ahimè! Che è questo – anche tu non sei che una maschera e mi inganni? Non ti vedo più, Padre – dove sei? Al tocco delle mie dita tutto si riduce in cenere e sul suolo non resta altro che una manciata di polvere, mentre un paio di vermi satolli strisciano via di soppiatto (...). Spargo questa manciata di polvere paterna nell’aria, e che cosa rimane – Nulla!

Di fronte, sulla tomba, il visionario ancora indugia e abbraccia il Nulla!

E l’eco nell’ossario chiama per l’ultima volta – «Nulla!» (Bonaventura, 1990: 319, 323; 1984: 143-45).

 

 

Questi elementi possono bastare a dare un’idea dell’immaginoso contesto in cui i romantici trattano il problema del «nichilismo». Ma ancora più significativo da un punto di vista filosofico è il fatto che il termine viene impiegato in senso tecnico niente meno che dai giovani Schelling e Hegel. Mentre Schelling prende atto della polemica tra Jacobi e Fichte e respinge l’accusa secondo cui egli stesso sarebbe un nichilista, Hegel rivendica la necessità del nichilismo trascendentale come procedimento metodico della filosofia. Nel saggio Fede e sapere (Glauben und Wissen, 1802), pubblicato nel «Kritisches Journal der Philosophie», la rivista da lui diretta insieme a Schelling, egli prende posizione in merito alla controversia tra Jacobi e Fichte e li critica entrambi, assieme a Kant, come dualisti. L’argomento principale fatto valere contro di loro è che essi rimangono fermi a una dicotomia ontologica di fondo, in quanto non riescono a risolvere completamente l’essere nel pensiero. In questo contesto Hegel afferma – contro Jacobi – che il «nichilismo della filosofia trascendentale» di Fichte è un passo metodologico inevitabile, ma al tempo stesso – contro Fichte – che il suo nichilismo è meramente relativo e incapace di giungere a quel pensiero puro in cui l’opposizione all’essere è superata. «Primo compito della filosofia», «compito del nichilismo», è di arrivare a «conoscere il nulla assoluto», cioè di giungere alla «compiutezza del vero nulla» – dove va notato che a differenza di quanto accadrà nella Scienza della logica (Wissenschaft der Logik, 1812) qui è il nulla, non l’essere, a fungere da termine di partenza nel cominciamento della filosofia (Hegel, 1981: 231). Questa prima tematizzazione del nulla è lo sfondo sul quale Hegel svilupperà successivamente la diagnosi nichilistica della transizione al mondo moderno in termini di «morte di Dio», «ateismo», «fatalismo», «pessimismo», «egoismo», «atomismo», e dichiarerà la necessità che la dialettica attraversi la negatività e il «nichilismo», cioè il «sentimento che Dio è morto», pur riconoscendolo come semplice momento nella vita dello spirito, che va superato.

Che anche un pensatore importante come Hegel impieghi in senso filosofico il termine «nichilismo», anche se solo nella fase giovanile del suo pensiero, è un episodio molto significativo per la ricostruzione della storia del concetto e del problema. In seguito, specialmente attraverso il confronto critico con Schelling, la problematica del «nulla» e della «negatività», congiuntamente all’uso dei relativi termini, subirà in Hegel una notevole trasformazione.

Per quanto riguarda la presenza ulteriore del concetto in seno all’idealismo, a testimoniare la non occasionalità del suo impiego va detto che lo si ritrova anche in altri esponenti minori del movimento, come Karl Rosenkranz, Christian Weisse e Immanuel H. Fichte, di volta in volta con accentuazioni diverse. Ma più ci si allontana dall’originaria controversia circa la genesi dell’idealismo, più il significato del termine si sposta dall’ambito strettamente filosofico-speculativo a quello sociale e politico, cioè alle conseguenze ingenerate dall’assunzione, da parte di un soggetto privilegiato, di un atteggiamento di radicale annichilimento di tutto ciò che ne delimita l’agire. Fa la sua comparsa la figura del «nichilista» quale libero pensatore che demolisce ogni presupposto, ogni pregiudizio, ogni condizione già data, quindi anche ogni valore tradizionale, e che prefigura così i tratti del nichilista anarchico-libertario che vivrà la sua stagione più intensa negli ultimi decenni dell’Ottocento.

 

 

 

Il  nichilismo in senso sociale e politico e la sua provenienza francese

 

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La nuova accezione del concetto, usato per descrivere uno stato della società da superare, è rintracciabile nell’opera dell’unico grande pensatore romantico di confessione cattolica, cioè Franz von Baader. Più che dalle discussioni idealistico-romantiche Baader riprende il concetto di nichilismo dalla cultura francese, specialmente da Joseph de Maistre, e lo impiega in due scritti: nell’articolo Su cattolicesimo e protestantesimo (Über Katholicismus und Protestantismus, 1824) e nella prolusione accademica Sulla libertà dell’intelligenza (Über die Freiheit der Intelligenz, 1826).

Nel primo testo Baader sostiene che il protestantesimo avrebbe dato origine, da un lato, a un «nichilismo scientifico, distruttivo» e, dall’altro, a un «pietismo (misticismo) non scientifico, separatista». Compito del cattolicesimo è combattere entrambe le tendenze, specialmente la prima, ripristinando «il concetto di autorità in senso ecclesiastico, politico e scientifico contro ogni dubbio o protesta, antichi o nuovi» (Baader, 1851: 76). Il nichilismo è qui identificato con la dissoluzione delle «sacre verità», cioè con la distruzione degli ordinamenti e delle regole tradizionali nella loro funzione di principi della coesione sociale. La causa di siffatto nichilismo è individuata nell’esercizio incontrollato della razionalità della scienza.

Nella prolusione accademica del 1826 questa accezione del termine viene ulteriormente precisata. Il «nichilismo» è qui definito come un «abuso dell’intelligenza distruttivo per la religione» e viene associato all’«oscurantismo», cioè alla «altrettanto riprovevole inibizione del suo uso derivante in parte dal timore per il sapere, in parte dal disprezzo del sapere» (Baader, 1851: 149). Nichilismo e oscurantismo, considerati rispettivamente come conseguenze dell’uso troppo libero o troppo inibito della ragione, sono entrambi severamente stigmatizzati come sintomi di degenerazione e disgregazione della vita religiosa, sociale e civile. Anche in questo testo programmatico Baader ritiene che si debba intervenire contro le tendenze «nichilistiche» presenti nella società, e che la forza in grado di contrastarle sia il cattolicesimo: esso deve organizzarsi, cercando di superarle mediante una riconciliazione di scienza e religione.

Preoccupato degli stessi effetti disgregatori del nichilismo si mostra Juan Donoso Cortés. Nel suo Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo (1851) egli accusa di nichilismo i socialisti francesi, specialmente Proudhon. Dal punto di vista di questo principe dei conservatori antirivoluzionari il nichilismo non è che una delle molte forme perverse in cui si manifesta il razionalismo, cioè l’illuminismo, e che sono: «Deismo, panteismo, umanitarismo, manicheismo, fatalismo, scetticismo, ateismo» (Donoso Cortés, 1972: 254). Esso va contrastato e combattuto in quanto porta alla negazione del governo sia divino che umano del mondo (Donoso Cortés, 1972: 357).

Viene in luce, in questi autori ostili all’illuminismo e alla Rivoluzione, l’impiego del termine «nichilismo» come categoria di analisi e critica sociale. Ma la parola era già stata usata in tal senso, dalla fine del secolo XVIII in poi, nell’area linguistica francese, dove è probabile che già Jacobi, avendo soggiornato più volte a Parigi, avesse avuto occasione di recepirla. Nella cultura della Rivoluzione l’appellativo di «nichilista» era stato usato per indicare la schiera di coloro che non erano «né per, né contro la Rivoluzione». Come si è ricordato, Anacharsis Cloots – un membro della Convenzione – in un suo discorso del 26 dicembre 1793 aveva affermato che «la Repubblica dei diritti dell’uomo non è né teista né atea, è nichilista».

E proprio nella Francia dell’illuminismo e della Rivoluzione fu partorito un pensiero, quello del marchese de Sade, che si presenta come una delle forme più radicali di nichilismo ateo e materialista. Nei suoi romanzi, ma anche nei suoi due dialoghi filosofici (Dialogue entre un prêtre et un moribond, 1782 e La Philosophie dans le boudoir, 1795), Sade inscena con dissoluta fantasia tutte le corrosive e nefaste conseguenze che la sua visione nichilista della Natura e della Ragione comporta per il costume e per la società. Fin dagli inizi, cioè già nella risposta del moribondo al prete contenuta nell’omonimo dialogo, il suo nichilismo è formulato come conseguenza metafisica di un coerente razionalismo materialistico:

 

 

Quale sistema, amico mio? Quello del nulla. Non mi ha mai spaventato e non ci vedo altro che non sia semplice e consolante. Tutti gli altri sistemi sono opera dell’orgoglio, quello solo della ragione. D’altronde non è né odioso né assoluto; non ho forse sott’occhio le perpetue generazioni e rigenerazioni della natura? Nulla perisce, amico mio, nulla si distrugge nel mondo (...) Come puoi rivendicare la bontà del tuo cosiddetto Dio con codesto sistema? (Sade, 1976: 20).

 

 

A prescindere da una conoscenza precisa di queste e altre occorrenze del concetto e del problema, già allora era chiaro che come la Rivoluzione così il «nichilismo» erano fenomeni di provenienza francese. Lo sottolinea il già ricordato Wilhelm Traugott Krug nel suo Dizionario portatile universale delle scienze filosofiche. Anzitutto egli dà questa definizione di nichilismo:

 

 

Nihil est – nulla è – è una affermazione che si distrugge da sé e che è stata chiamata anche nichilismo. Infatti se nulla fosse, non si potrebbe nemmeno affermare nulla (Krug, 1969: III, 63).

 

 

E in un supplemento dell’opera annota:

 

 

In francese si chiama «nihiliste» anche colui che nella società, e in particolare in quella borghese, non ha nessuna importanza (che è solo numero, ma non ha nessun peso e nessun valore), e parimenti in questioni religiose non crede a nulla. Tali nichilisti sociali o politici e religiosi sono molto più numerosi dei nichilisti filosofici o metafisici che vogliono annientare tutto ciò che è (Krug, 1969: V, ii, 83).

 

 

La fonte alla quale Krug probabilmente attinge in questo suo riferimento all’uso linguistico francese è l’opera di Louis-Sébastien Mercier Néologie ou Vocabulaire de mots nouveaux (1801), nella quale «nihiliste» o «rienniste» è definito colui «qui ne croit à rien, qui ne s’intéresse à rien».

«Riennisme» come termine per designare l’atteggiamento dell’assoluta mancanza di fede – in contrasto con le diverse credenze, sètte e visioni del mondo – è usato incidentalmente anche da Joseph de Maistre nella sua Correspondance diplomatique da San Pietroburgo (1811-17). De Maistre lamenta il fatto che in Russia sono ammesse tutte le sètte, persino il «nichilismo», mentre non è tollerato il cattolicesimo.

E per aggiungere un altro nome famoso alla nostra ricognizione sulla storia del concetto, si può ricordare che di «nichilismo» parlerà esplicitamente più tardi anche Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly. In Les prophètes du passé (1851) egli collega il fenomeno nichilistico al soggettivismo egologico della filosofia cartesiana che sta alle origini della modernità. Il fondamento apparentemente incontrovertibile costituito dal cogito ergo sum di Descartes – ripreso, sviluppato e portato all’estremo in tutte le variazioni dalla filosofia moderna – è in realtà un fondamento molto gracile, è quel vacillante punto d’appoggio che solo la mente dell’uomo inteso come ego può scambiare per un punto fermo. L’esito di questa operazione non può essere che un «nichilismo incapace di qualsiasi risposta» (cfr. Hofer, 1969).

Nel frattempo, nell’area linguistica tedesca il termine nichilismo continuava a essere usato in senso sociale e politico con un valore negativo anche dopo la rivoluzione del 1848. È quanto accadde nell’opera anonima Eritis sicut Deus (1854), tortuoso romanzo in tre volumi, nel quale è lo hegelismo a essere considerato come la radice e la causa del nichilismo, in particolare di quello sociale e politico. L’anonimo scrittore pensa evidentemente alle conseguenze cui si era pervenuti negli ambienti radicali dello hegelismo di sinistra. Una analoga preoccupazione inquieta anche Karl F. Gutzkow, autore del già nominato racconto I nichilisti e del romanzo I cavalieri dello spirito (Die Ritter vom Geiste, 1849-50), che guarda peraltro con una certa simpatia alla rivoluzione. I «nichilisti» sono per lui sofisti che criticano il vecchio senza saper creare il nuovo, sono i «filosofi del nulla assoluto», i «Liebig del mondo invisibile», nel senso che, come in chimica, dissolvono tutto.

 

 

 

Il  nichilismo senza fondamenti di Max Stirner

 

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La prima autentica teorizzazione di una posizione filosofica che può essere definita come nichilismo, anche se in assenza di un uso esplicito del concetto, si ha con Max Stirner. La sua opera capitale, L’Unico e la sua proprietà (Der Einzige und sein Eigentum, 1844), è l’espressione più rabbiosa e corrosiva del radicalismo di sinistra nato come reazione allo hegelismo. Sostenendo le ragioni di una rivolta anarchico-libertaria spinta all’estremo, Stirner si scaglia contro ogni tentativo di assegnare alla vita dell’individuo un senso che la trascende e che pretende di rappresentarne le esigenze, i bisogni, i diritti e perfino l’immagine. E chiama l’indefinibile entità che io stesso sono «l’Unico», così come in quei medesimi anni Kierkegaard – anch’egli contro Hegel – la chiama «il Singolo».

Principe degli iconoclasti moderni, Stirner intende smontare ogni sistema filosofico, ogni astrazione, ogni idea – Dio, ma anche lo Spirito di Hegel o l’Uomo di Feuerbach – che arroghi a sé l’impossibile compito di esprimere l’«indicibilità» dell’Unico. Sa che questi non è oggetto di pensiero e non tollera usurpatori del proprio inalienabile diritto ad autodeterminarsi. In tal senso all’inizio della propria opera Stirner pone a mo’ di emblema la tesi che regge tutta l’autoaffermazione speculativa dell’Unico: «Io non ho fondato la mia causa su nulla». Non «sul Nulla» (auf das Nichts), ma proprio «su nulla» (auf nichts). Ciò significa che il nichilismo che ne consegue non si basa su una affermazione filosofica del Nulla, ma è semplicemente la negazione e il rifiuto di ogni fondamento che trascenda l’esistenza originaria e irripetibile dell’individuo.

È questo il motivo conduttore di tutta l’opera, dall’inizio alla fine. Essa esordisce con la perentoria dichiarazione della inespropriabile unicità dell’Unico:

 

 

Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico (...) Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto (Stirner, 1979: 13).

 

 

E dopo avere cavalcato questo motivo per pagine e pagine, l’opera si chiude con il categorico rifiuto di qualsiasi compito, missione o ideale in cui l’Unico si identifichi, cioè annulli se stesso in quanto unico. Al punto da rifiutare qualsiasi nome che pretenda di essere il suo «nome proprio»:

 

 

Si dice di Dio: «Nessun nome può nominarti». Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi (...) Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico. Nell’unico il proprietario stesso rientra nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma, e io posso dire: ho fondato la mia causa su nulla (Stirner, 1979: 380-81).

 

 

Il tenore blasfemo del rifiuto stirneriano di ogni fondamento risulta chiaro se si considera che l’espressione «Io non ho fondato la mia causa su nulla» fu introdotta da Goethe nella poesia Vanitas! Vanitatum vanitas! rovesciando il titolo di un canto ecclesiastico di Johannes Pappus (1549-1610) che recita: «Io ho affidato la mia causa a Dio» (Ich hab’ mein’ Sach’ Gott heimgestellt).

Riprendendo Goethe ma ignorando Stirner, di lì a qualche anno anche Schopenhauer interviene su questo motivo, aiutandoci a collocare storicamente la tesi di Stirner. Negli Aforismi sulla saggezza della vita, pubblicati nei Parerga e paralipomena nel 1851 con grande successo di pubblico, scrive:

 

 

Il Lied tanto popolare di Goethe: «Ich hab’ mein’ Sach’ auf nichts gestellt», significa propriamente che solo quando l’uomo dovrà abbandonare tutte le sue pretese e sarà ricondotto a un’esistenza nuda e spoglia, egli potrà partecipare di quella tranquillità di spirito che costituisce il fondamento della felicità umana (Schopenhauer, 1981-83: I, 561).

 

 

Ma l’esito ultimo a cui Stirner approda nel suo pensiero nomade è tratteggiato in una lettera sulla quale ha richiamato l’attenzione Carl Schmitt:

 

 

La sua pulsione ultima la espresse in una lettera nella quale dice: ridiventeremo allora come gli animali della foresta e i fiori di campo. Questa è la vera nostalgia di un simile invasato dell’io. Questo è il nuovo paradiso. Questi la natura e il diritto naturale, l’eliminazione dell’autoalienazione e dell’autoestraneazione in una corporeità senza problemi. La felicità adamitica del Giardino delle delizie che Hieronymus Bosch ha gettato in bianca nudità su tavola. Ma vi si aggiungono gli animali della foresta e i fiori di campo. Il volo dei moscerini nel raggio di sole. La natura affatto naturale e il diritto naturale delle sfere più profonde dell’esistenza tellurica. Il cinguettio completamente spensierato della gazza ladra di Rossini. La pura identità con se stessi nel senso di felicità di una circolazione sanguigna beatamente accelerata (Schmitt, 1987: 84).

 

 

Se mai nel suo orgoglioso isolamento l’Unico può avere punti d’appoggio per questo suo ritorno alla natura, essi stanno nelle due uniche verità che egli riconosce: «la mia potenza» e lo «splendido egoismo delle stelle». Una professione di fede molto contagiosa, che eccitò gli animi e suscitò nell’immediato reazioni scandalizzate. Non per caso nell’Ideologia tedesca Marx e Engels dedicarono all’Unico una critica di oltre trecento pagine. Ma l’eccentricità e l’emarginazione dell’autore fecero in modo che il morbo anarchico-individualistico fosse per il momento isolato. Di lì a pochi decenni – diciamo pure: da allora in poi – esso si sarebbe rapidamente e inarrestabilmente diffuso. Solo a posteriori, dunque, Stirner ha trovato uno spazio e una collocazione nella storia del nichilismo.

 

 

 

Nichilismo,  anarchismo, populismo nel pensiero russo

 

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Nel pensiero russo degli ultimi decenni dell’Ottocento il nichilismo divenne un fenomeno di portata generale, che impregnò di sé l’atmosfera culturale dell’intera epoca. A spingere in tale direzione fu, tra gli altri fattori, la circostanza che il termine, divenuto la designazione di un movimento di ribellione sociale e ideologica, fuoriuscì dall’ambito delle discussioni filosofiche e si innestò direttamente nel tessuto della società, agendo su componenti anarchiche e libertarie, e mettendo in moto un vasto processo di trasformazione (cfr. Masaryk, 1971; Venturi, 1972).

I teorici del nichilismo russo si impegnarono in una rivolta anti-romantica e anti-metafisica dei «figli contro i padri», contestando l’autorità e l’ordine esistenti e attaccando specialmente i valori della religione, della metafisica e dell’estetica tradizionali, considerate come «nullità», come illusioni destinate a dissolversi. Il movimento nichilista russo fu sovente più dogmatico e ribelle che non critico e scettico, convinto com’era dell’imperativo del negare a ogni costo, del dover procedere comunque, non importa se tra rovine e frantumi. Rinnegava dunque il passato, condannava il presente, ma senza la capacità di aprirsi a una configurazione concreta e positiva del futuro. Ciò che veniva esaltato era il senso dell’individualità, la freddezza utilitaristica, non cinica né indifferente, ma radicale e coerente nel sostenere la rivolta dell’intelligencija contro il potere e la cultura dominanti. Decisiva per la preparazione e la diffusione del nichilismo furono l’opera del già menzionato Turgenev, che mise in circolazione il concetto, e l’attività di una schiera di altri intellettuali tra i quali vanno ricordati anzitutto i due che morirono giovanissimi, non ancora trentenni: Nikolaj A. Dobroljubov (1836-1861) e Dmitrij I. Pisarev (1840-1866). Il primo fu collaboratore della rivista «Il Contemporaneo», e con la sua critica dell’Oblomov (1856) di Goncˇarov, che rappresentava la nobiltà passiva e conservatrice, si fece fautore di un radicalismo democratico e progressista che egli intendeva promuovere per mezzo della letteratura e del romanzo. (A lui si ispirerà Lukács con il suo realismo critico e la sua estetica marxista). Contestando risolutamente l’ideale dell’arte fine a se stessa (Razrusšenie estetiki, 1865: La distruzione dell’estetica), Pisarev portò alle estreme conseguenze il nichilismo, lasciando cadere ogni residuo di antropologismo o moralismo, e accettò in senso positivo l’appellativo di «nichilista» reso popolare da Turgenev (Bazarov, 1862).

Ma la vera mente dei nichilisti degli anni Sessanta fu Nikolaj G. Cˇernyševskij, studioso di economia e fautore di un rigoroso materialismo. Il suo romanzo di agitazione sociale a sfondo utopistico Che fare? (Cˇto delat’, 1863), scritto in carcere, ebbe un vasto successo di pubblico e va considerato tra i principali manifesti del nichilismo russo. Vi erano presentate le nuove forme di vita improntate all’abolizione delle convenzioni e delle tradizioni, a un comunitarismo che bandiva ogni sentimento possessivo, all’emancipazione della donna, alla dedizione alla causa del popolo. Tutto ciò equivaleva, naturalmente, a una negazione dei principi su cui poggiava il precedente ordine della società, e dunque a una radicale forma di nichilismo.

Il movimento nichilistico degli anni Sessanta ebbe presto il capo mozzato. Dobroljubov e Pisarev morirono prematuramente, Cˇernyševskij fu imprigionato a trentaquattro anni, nel 1862, e riebbe la libertà solo poco prima di morire, nel 1888. Ciò non impedì tuttavia alle idee nichiliste di diffondersi rapidamente e di infiammare la gioventù russa. Ma senza successi concreti: per tutto il decennio successivo vi furono grandi processi con condanne e deportazioni di massa. Nel generale inasprimento dei contrasti sociali, nacque il movimento della «Volontà del Popolo» (Narodnaja Volja) che sosteneva che l’abbattimento del simbolo del potere, cioè l’uccisione dello zar, era la prima azione concreta da compiere per poter avviare i cambiamenti auspicati. Dopo una serie di attentati, il 1º aprile 1881 lo zar Alessandro II cadeva sotto le bombe dei narodnovoliki. Nel corso della durissima repressione fu catturato un estremista, Sergej G. Necˇaev, autore di un Catechismo del rivoluzionario (Katechizis revoljucionera) le cui tesi si distinguono per lo spietato senso dell’organizzazione messo al servizio della fede nella rivoluzione. L’espressione «necˇaevismo» fu allora impiegata per designare le forme più spregiudicate e intransigenti di nichilismo politico – un modo radicale di concepire l’azione rivoluzionaria, quello di Necˇaev, che fu respinto da Aleksandr I. Herzen e condiviso invece da Michail A. Bakunin. Alcuni ritengono addirittura che quest’ultimo fosse ispiratore e coautore del Catechismo.

Questi due pensatori incarnano effettivamente modi opposti di concepire la visione del mondo nichilistico-rivoluzionaria: estremismo radicale e ribelle in Bakunin, moderazione e concretezza in Herzen. Bakunin si proclamava «fondatore del nichilismo e apostolo dell’anarchia» e dichiarava:

Pour vaincre les ennemis du prolétariat il nous faut détruire, encore détruire et toujours détruire. Car! l’esprit destructeur est en même temps l’esprit constructeur (cfr. Wittkopf, 1974: 83).

Bakunin glorificava dunque il momento della negatività, che egli riprendeva dallo hegelismo di sinistra e considerava un «ariete terribile», l’espressione della forza dello spirito che annienta e distrugge. E radicalizzava il nichilismo in un connubio esplosivo di idee anarchiche, socialiste, utopico-libertarie.

Quanto a Herzen, egli diresse gli strali della sua critica contro i «buddhisti della scienza» che si attardavano nella contemplazione in un’epoca che chiamava invece all’azione. Contrario a ogni conservatorismo, egli fu il principale teorico del populismo, ma, opponendosi al terrorismo di Necˇaev e al ribellismo di Bakunin, condusse le sue battaglie con la moderazione che gli derivava dall’amore per la cultura e per la storia, come risulta dalle lettere A un vecchio compagno (K staromu tovarišcˇu) e dai saggi dettati in tedesco Dall’altra sponda (Vom anderen Ufer, 1850; l’edizione russa è del 1855). In tal modo egli riuscì ad articolare una visione differenziata del nichilismo, concependolo come logica della trasformazione e salutandolo come fenomeno positivo:

Il nichilismo è la logica senza stretture, è la scienza senza dogmi, è l’incondizionata ubbidienza all’esperienza e l’umile accettazione di tutte le conseguenze, quali che siano, se scaturiscono dall’osservazione, se sono richieste dalla ragione. Il nichilismo non trasforma qualcosa in nulla, ma svela che il nulla, scambiato per qualcosa, è un’illusione ottica e che ogni verità, per quanto contraddica fantastiche rappresentazioni, è più sana di queste e in ogni caso obbligatoria.

Che questo nome sia appropriato o no, non importa. Ad esso ci si è abituati, è accettato da amici e nemici, è finito per diventare un contrassegno per la polizia, si è fatto delazione, offesa per gli uni, lode per gli altri (Herzen, 1977: 31).

Ma Herzen vide anche i pericoli che il nichilismo nascondeva e lo valutò con occhio critico:

Naturalmente, se per nichilismo intenderemo la creazione inversa, cioè la trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, in sterile scetticismo, in altezzoso «star con le mani in mano», in disperazione che conduce all’inazione, allora i veri nichilisti meno di tutti rientreranno in questa definizione e uno dei nichilisti più grandi sarà I. Turgenev, che contro di loro ha gettato la prima pietra, e forse il suo filosofo prediletto Schopenhauer (...). Quando Bakunin smascherava i professori berlinesi e i rivoluzionari parigini del 1848, accusando i primi di timidezza e i secondi di conservatorismo, egli era un perfetto nichilista (...). Quando i petraševcy andarono ai lavori forzati perché «volevano abbattere tutte le leggi umane e divine e distruggere le basi della società» (...) essi erano nichilisti (Herzen, 1977: 31-32).

Per questo all’abisso che il nichilismo aveva aperto egli oppose la consapevolezza dei limiti entro i quali il fenomeno si era manifestato:

Il nichilismo da quel tempo si è ampliato, ha preso più chiara coscienza di sé, in parte è diventato una dottrina, ha accolto in sé molto della scienza e ha suscitato uomini d’azione dotati di forze enormi e di enormi talenti (...) tutto ciò è indiscutibile. Ma non ha portato nuovi princìpi (Herzen, 1977: 32).

Lo scenario del nichilismo si spalanca in tutta la sua ampiezza e la sua profondità nell’opera di Dostoevskij. Scrittore universale, destinato a influire non solo in Russia ma su tutta la letteratura europea, Dostoevskij dà corpo nelle figure e nelle situazioni esistenziali dei suoi romanzi – specialmente Delitto e castigo (Prestuplenie i nakazanie, 1863), I demoni (Besy, 1873) e I fratelli Karamazov (Brat’ja Karamazovy, 1879-80) – a intuizioni e motivi filosofici che anticipano esperienze decisive del pensiero novecentesco, prima fra tutte quella dell’ateismo e del nichilismo. In lui il fenomeno della dissoluzione dei valori, vissuto come una crisi che consuma l’anima russa, si squaderna davanti agli occhi in tutte le sue conseguenze nefaste, fino al crimine e alla perversione. E quantunque la sua esibizione del male abbia come fine ultimo quello di istruirne la requisitoria, la fortuna letteraria della sua opera favorì in realtà la diffusione del morbo nichilista, contribuendo a minare certezze inveterate e a corrompere ordinamenti stabiliti. Tra i suggestivi personaggi dei suoi romanzi, che rappresentano altrettanti esempi di come Dostoevskij abbia saputo svolgere il tema del nichilismo, declinandolo in tutte le sue varietà e rappresentandolo in figure concrete, possono essere ricordati qui soltanto i principali.

1) Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo, per il quale la rivendicazione incondizionata della propria libertà diventa un problema filosofico-morale con infinite tribolazioni.

2) Nei Demoni, grande romanzo concepito originariamente come pamphlet contro il nichilismo, forma russa dell’ateismo, diversi personaggi danno corpo ad altrettanti aspetti della nuova devastante Weltanschauung: l’«angelo nero» Stavrogin – il cui modello storico reale è Bakunin – nichilista dall’intelligenza luciferina e depravata che tutto corrode e distrugge, senza riuscire a trasformare la propria demoniaca volontà in una creatività produttiva; l’anarchico e rivoluzionario Pëtr Verchovenskij, che applica sul piano sociale e politico il principio di Stavrogin secondo cui «tutto è indifferente»; e quindi l’ateo Kirillov che, seguendo ciecamente il rigido filo della logica, inferisce dalla sua ipotesi («Se Dio non fosse...») la liceità di ogni comportamento amorale e, alla fine, si uccide per provare la non esistenza di Dio.

3) Nei Fratelli Karamazov il personaggio di Ivan, ateo sottile a cui Dostoevskij mette in bocca il terribile racconto del Grande Inquisitore per illustrare la lacerazione tra gli ideali del cristianesimo, che appartengono al cielo e «vorrebbero andare a mani vuote» sulla terra, e il realismo di questo mondo sul quale è sovrano il Male, «lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere» (Dostoevskij, 1984: II, 845; cfr. Hessen, 1980).

Importante ai fini della comprensione filosofica del nichilismo è il fatto che lo scorcio aperto da Dostoevskij sullo scenario nichilista – nonostante la sua «grande ira» e la sua categorica condanna del fenomeno in nome di una rigenerazione degli ideali secondo lo spirito evangelico – trovò un osservatore entusiasta in Nietzsche, e che il congiungersi della loro influenza, in Europa, diede una impronta decisiva alla letteratura e all’atmosfera spirituale dei primi decenni del Novecento (cfr. Schubart, 1939;  estov, 1950).

 

 

 

Nichilismo  e decadenza in Nietzsche

 

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È nell’opera di Nietzsche – specialmente nei frammenti degli anni Ottanta pubblicati postumi nella dubbia e controversa compilazione La volontà di potenza (Der Wille zur Macht), in prima edizione nel 1901 e in una seconda, più che raddoppiata, nel 1906 – che il nichilismo è fatto oggetto di una esplicita riflessione filosofica. Con lui l’analisi del fenomeno raggiunge il suo culmine, maturando una consapevolezza storica circa le sue più lontane radici, nel platonismo e nel cristianesimo, e alimentando nel contempo l’esigenza critica di un superamento dei mali in esso proliferatisi. Non è dunque una iperbole considerare Nietzsche come il massimo profeta e teorico del nichilismo, come colui che diagnostica per tempo la «malattia» che affliggerà il secolo e di cui egli offre una terapia. Ma per quale via Nietzsche giunse al problema del nichilismo?

Il termine si trova impiegato per la prima volta negli appunti dell’estate 1880, ma da tempo Nietzsche aveva riconosciuto e individuato, seguendo il motivo della «morte di Dio», i tratti distintivi del fenomeno. Avvertito come problema capitale, esso diventa l’asse tematico intorno al quale ruota la sua ultima, estenuante ricerca. Di questo intende tenere conto la distribuzione dei frammenti proposta dai curatori della Volontà di potenza, il cui primo libro, dei quattro in cui l’opera è suddivisa, ha per tema «Il nichilismo europeo».

Decisiva per la costituzione dell’orizzonte di pensiero nel quale Nietzsche maturò una sensibilità per il problema fu la lettura giovanile di Schopenhauer e di alcuni esponenti della scuola del pessimismo, in particolare Eduard von Hartmann, Julius Bahnsen e Philipp Mainländer (cfr. Müller-Seyfarth, 1993; Invernizzi, 1994; Pauen, 1997). Quanto a Schopenhauer, la sua importanza nella formazione di Nietzsche è nota, ed è stata oggetto di numerose indagini. Senza l’orizzonte metafisico che si spalanca con la concezione schopenhaueriana della Volontà, sarebbero impensabili tanto Nietzsche quanto Wagner, e così pure tutto ciò che essi hanno rappresentato per la cultura tedesca. Relativamente al nostro problema, bisognerebbe mostrare in che misura la tematizzazione schopenhaueriana del Nulla, pur in assenza del concetto di «nichilismo», abbia influenzato la ricezione di tale fenomeno in Nietzsche. In ogni caso, Nietzsche considera il pessimismo schopenhaueriano e lo struggimento nel Nulla che esso alimenta come una forma di «nichilismo passivo», come un indebolimento della potenza dello spirito. Lo stesso vale anche per gli sviluppi dello schopenhauerismo che Nietzsche ben conosceva: per la filosofia dell’inconscio di Eduard von Hartmann, per il «pessimismo della contraddizione» di Julius Bahnsen, che qualifica la propria filosofia come «nichilismo» e definisce l’uomo come «un Nulla consapevole di sé», creando in analogia con Existenz il neologismo Nihilenz (Bahnsen, 1931: 161-62), e soprattutto per la «metafisica dell’entropia» di Philipp Mainländer, che intende la creazione del mondo e l’evoluzione dell’universo come una sorta di «autocadaverizzazione di Dio».

Questi tre pensatori formarono una vera e propria «scuola del pessimismo», e trasformarono il concetto – snobbato inizialmente come «la barocca intuizione di un originale dilettante» – nella denominazione di una «forza vivente» nella cultura del tempo, in una importante Weltanschauung. In questi termini si espresse Eduard von Hartmann (1880) tirando un primo bilancio del movimento.

Per l’influenza che ebbe su Nietzsche, merita di essere presentato soprattutto Mainländer, il cui vero nome era Philipp Batz. Incline alla speculazione e alla poesia, fu appassionato lettore di Schopenhauer e poi di Leopardi, entrambi scoperti durante i quasi sei anni passati a Napoli tra il 1858 e il 1863. La sua opera capitale, La filosofia della redenzione (Die Philosophie der Erlösung, 1876), dopo una risonanza iniziale, fu presto dimenticata ed è stata riscoperta solo di recente (cfr. Müller-Seyfarth, 1993, 2000). Prendendo a modello Il mondo come volontà e rappresentazione essa sviluppa un sistema del pessimismo in sei parti: «Analitica della facoltà conoscitiva», «Fisica», «Estetica», «Etica», «Politica», «Metafisica», cui si aggiunge un’appendice sulla «Critica delle dottrine di Kant e Schopenhauer». Il tutto è fondato su un’ontologia negativa che muove dal principio secondo cui «il non essere è preferibile all’essere». Nella spiegazione della facoltà del conoscere Mainländer si attiene alla gnoseologia postkantiana di Schopenhauer, ed è anch’egli convinto che noi non conosciamo la cosa in sé ma soltanto le apparenze. Tuttavia, egli giunge a una conclusione opposta a quella di Schopenhauer: la «cosa in sé» non è identificata con la schopenhaueriana «Volontà di vita» (Wille zum Leben), che è universale, superindividuale, oltre il tempo e lo spazio, bensì con la «volontà di morte» (Wille zum Tode). Quest’ultima è per Mainländer individuale e sta alla base di tutti gli esseri. Nel loro vivere è insito, paradossalmente, un impulso di morte. Ma da dove scaturisce tale spinta disgregatrice? Mainländer prospetta un’ardita ipotesi teologico-metafisica: la volontà di morte che inerisce a tutto l’essere dipende dal fatto che la sostanza divina – concetto che egli riprende da Spinoza – trapassa dalla sua originaria unità trascendente alla pluralità immanente del mondo, il quale, in tale trapasso, ha la propria genesi. E dichiara:

 

 

Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo (Mainländer, 1996-99: I, 108).

 

 

Egli conia così per primo un’espressione che sarà resa famosa da Nietzsche. A uccidere Dio, secondo Mainländer, non fu però l’uomo, non siamo stati noi, come affermerà Nietzsche, bensì è Dio stesso che si dà la morte seguendo l’impulso in lui connaturato a passare dall’essere al nulla.

In verità, accettando l’interdetto kantiano secondo cui la nostra conoscenza non può spingersi oltre i limiti dell’esperienza, Mainländer intende essere fedele all’immanenza, e nega quindi che si possa conoscere la natura del principio divino trascendente. Professa, anzi, un «ateismo scientifico» secondo il quale l’essenza del principio divino è costitutivamente inconoscibile. Nondimeno egli ritiene che da un punto di vista «regolativo» noi possiamo pensare l’origine del mondo «come se essa fosse il risultato di un atto di volontà motivato» (Mainländer, 1996-99: I, 322), ovvero il risultato di un’azione della trascendenza, altrimenti a noi sconosciuta e inconoscibile, e precisamente come l’atto mediante il quale la trascendenza, ossia il «super-essere» che sta oltre l’essere (Über-Sein) e precede il mondo, si dissolve nell’immanenza del mondo, quindi nel non essere (Nicht-Sein): la genesi del mondo ha origine dalla volontà di Dio di passare dal super-essere al nulla, è l’«autocadaverizzazione di Dio». Tutto ciò che noi vediamo nel mondo è manifestazione di siffatta volontà di autoannullamento (Selbst-ver-nicht-ung).

Mainländer trasforma e radicalizza dunque il pessimismo schopenhaueriano in una vera e propria «metafisica dell’entropia», da cui ricava con sistematicità tutto il suo pensiero: la sua filosofia della natura, la sua filosofia della storia sottoposta alla legge universale del dolore, la sua politica e la sua etica eudaimonistica, che sostiene la massima della verginità e che raccomanda il suicidio come radicale negazione della volontà. In questa scelta radicale egli vede la possibilità di una «redenzione dall’esistenza», la disingannata speranza di potere alla fine «guardare negli occhi il Nulla assoluto» (Mainländer, 1996-99: I, 358).

Con rigorosa coerenza, senza aspettare il capriccio di Madre Natura, egli si affrettò ad esaudire da sé tale speranza. Ricevuta la prima copia fresca di stampa della sua opera, nella notte tra il 31 marzo e il 1º aprile 1876 il trentaquattrenne filosofo ritenne giunto il momento di far coincidere in modo definitivo la sua vita con il suo pensiero, mostrando con l’esempio che delle cose importanti non si deve dare solo dimostrazione ma anche testimonianza: strettosi un cappio al collo, si impiccò.

La sorella Minna, che lo aveva seguito nei suoi studi filosofici, con lui aveva composto il dramma Gli ultimi Hohenstaufen, e che più tardi (1891) ne imitò il gesto disperato, pubblicò nel 1886 alcuni saggi del fratello come secondo volume dell’opera maggiore, secondo il piano da lui stesso previsto. Essi trattano vari argomenti, in particolare di filosofia della religione (uno è dedicato al «buddhismo») e di filosofia politica («Il socialismo»). Benché, come si è detto, l’opera sollevasse nell’immediato interesse e reazioni, finì poi per essere dimenticata. Essa è stata comunque meta di solitarie ma importanti rivisitazioni. Non soltanto Nietzsche, che lesse subito con curiosa attenzione la Filosofia della redenzione, ma anche Alfred Kubin, Borges e Cioran si sono interessati dell’opera di questo moderno Egesia, teutonico «persuaditor di morte». Specialmente l’idea della morte di Dio confluì nell’articolata esperienza filosofica e intellettuale che spinse Nietzsche alla propria concezione del nichilismo. «Abbiamo letto molto Voltaire», scriveva da Sorrento a Franz Overbeck il 6 dicembre 1876, «ora è la volta di Mainländer» (Nietzsche, 1977: III, 184; 1986: V, 202).

Da un punto di vista storico, naturalmente, in aggiunta a ciò va considerata l’attenzione per il fenomeno che si sviluppò in quegli anni in tutta Europa in seguito agli attentati in Russia, i quali portarono la stampa e l’opinione pubblica a equiparare nichilismo e terrorismo. Ma l’occasione prossima che spinse Nietzsche a occuparsi intensamente del fenomeno, influenzandone la comprensione, fu la lettura, oltre che di Padri e figli di Turgenev, oltre che di Mainländer, soprattutto di due autori: Paul Bourget e Dostoevskij.

Quanto a Dostoevskij, l’influenza che la lettura delle sue opere ebbe su Nietzsche e le analogie strutturali rintracciabili nelle esperienze letterarie e speculative dei due richiederebbero, per essere illustrate in maniera minimamente sufficiente, una indagine a sé. Al di là del rimando agli studi classici già menzionati (Schubart, 1939;  estov, 1950) basterà qui ricordare che Nietzsche stesso, in una lettera a Overbeck del 23 febbraio 1887, racconta la propria scoperta di Dostoevskij avvenuta nel pieno del febbrile lavoro alla progettata Volontà di potenza:

 

 

Poche settimane fa non ne conoscevo neppure il nome, da persona incolta che non legge «riviste»! La visita di una libreria mi ha messo per caso sotto gli occhi l’Esprit souterrain, la sua opera appena tradotta in francese (e egualmente per caso ho scoperto a 21 anni Schopenhauer e a 35 Stendhal!). L’istinto di affinità (o come debbo chiamarlo?) si è fatto immediatamente sentire, la mia gioia è stata straordinaria... (Nietzsche, 1986: VIII, 27).

 

 

Meno nota, invece, è l’influenza che ebbe su di lui la lettura di Paul Bourget (1852-1935). Questo scrittore, poco conosciuto in ambito filosofico, gode di una certa notorietà come romanziere e come critico letterario. I suoi romanzi furono salutati come sismografi dell’incipiente modernità letteraria, nonostante gli attacchi di critici conservatori come Ferdinand Brunetière. Di essi il più fortunato fu Le Disciple (1889). Il protagonista è un giovane studente che viene iniziato alla filosofia da un maestro, Adrien Sixte, dietro il quale si riconosce la figura di Taine, con cui Bourget si era formato ma dal quale, proprio con questo romanzo, prese le distanze.

Come critico letterario Bourget acquistò notorietà grazie a una serie di articoli nei quali descriveva con efficacia i tratti salienti della letteratura di fine secolo, adoperando come categorie per l’analisi della società dell’epoca concetti che avrebbero fatto fortuna quali «decadenza», «pessimismo», «cosmopolitismo» e «nichilismo». Gli articoli uscirono tra il 15 dicembre 1881 e il 1° ottobre 1885, con il titolo Psychologie contemporaine – Notes et Portraits, nella «Nouvelle Revue» fondata da Juliette Adam nel 1879 e da lei edita e promossa per un ventennio nel suo salotto parigino. Nel 1883 Bourget raccolse in libro gli articoli su Baudelaire, Renan, Flaubert, Taine e Stendhal con il titolo Essais de psychologie contemporaine (1883), e nel 1885 fece seguire un secondo volume: Nouveaux Essais de psychologie contemporaine, comprendente gli articoli su Dumas figlio, Leconte de Lisle, i fratelli Goncourt, Turgenev e Amiel.

La critica letteraria che Bourget pratica servendosi di quello che egli chiama il «metodo psicologico» descrive la transizione dal tardo romanticismo francese alla modernità e vede nelle tendenze in atto nella letteratura decadentista il riflesso di trasformazioni che riguardano l’intera società. Gli Essais costituiscono una lucida analisi di «alcune delle conseguenze fatali della vita cosmopolitica» (Bourget, 1993: 439) e illustrano i processi di decadenza e di decomposizione del tessuto sociale così come si andavano manifestando nella letteratura dell’epoca. Bourget fa gravitare la sua analisi «psicologica» della decadenza intorno ad alcuni temi, motivi e interrogativi capitali.

1) Un primo ambito è quello estetico. Bourget si interroga intorno alle seguenti questioni di fondo: quali sono la funzione e il posto dell’arte nel processo di trasformazione sociale? Qual è il ruolo dell’artista di fronte al processo di decomposizione della società che caratterizza la vita cosmopolitica moderna? Può l’artista, rispetto alle tendenze egualitarie che si impongono ovunque, mantenere il primato aristocratico che gli viene dalla consapevolezza circa il suo compito di sperimentatore e di creatore?

2) Una seconda serie di interrogativi ruota intorno alla prospettiva morale: è possibile, oltre che descrivere, dare una valutazione della decadenza della società contemporanea? Ma ammettere la possibilità di un tale giudizio non significa introdurre un punto di vista morale?

3) Qual è allora l’atteggiamento da tenere nei confronti della decomposizione della società e del decadimento delle sue forze vitali? Che fare di fronte alla «malattia della volontà», cioè all’incapacità di domare, in forza di un principio, la contraddizione che emerge dalle pulsioni fisiologiche? Bourget considera legittimo il punto di vista del moralista e del politico, i quali producono «reazioni» alle forze della decadenza, ma ritiene che solo un altro punto di vista, quello «psicologico», sia in grado di vedere in positivo la decadenza e di cogliere i «valori estetici» che essa esprime – motivo, anche questo, che trova eco in Nietzsche.

A rendere famosi gli Essais di Bourget furono specialmente le quattro pagine a conclusione del saggio su Baudelaire, il primo della serie, intitolato Théorie de la décadence (Bourget, 1993: 13-18). Attraverso una disincantata analisi Bourget riconosce nel pessimismo e nel nichilismo della letteratura a lui contemporanea il «male del secolo» (Bourget, 1993: 438), e dichiara che, a prendere sul serio la malattia, bisogna ammettere che non vi sono rimedi in grado di contrastarla e che, dunque, conviene accettarla insieme ai valori estetici che essa produce (Bourget, 1993: 442). Si capisce meglio tutto questo se si tiene presente ciò che Bourget intende per «décadence».

Il termine ha per lui due significati analoghi: uno è riferito alla società, l’altro allo stile e alla letteratura. Sia la società sia la lingua possono essere paragonate a un organismo. Si ha la decadenza sociale quando gli individui che compongono la società si rendono indipendenti e «gli organismi che compongono l’organismo totale cessano di subordinare la loro energia all’energia totale e l’anarchia che si instaura costituisce la decadenza dell’insieme» (Bourget, 1993: 14).

Da questa idea di decadenza sociale Bourget ricava per analogia una teoria della decadenza letteraria e la formula in termini che verranno ripresi, quasi alla lettera, da Nietzsche:

Una legge uguale governa lo sviluppo e la decadenza di quell’altro organismo che è il linguaggio. Uno stile decadente è quello in cui l’unità del libro si decompone per far posto all’indipendenza della pagina, la pagina si decompone per far posto all’indipendenza della frase e la frase per far posto all’indipendenza della parola (Bourget, 1993: 14).

È stato suggerito da tempo (cfr. Weigand, 1893; Andler, 1958: III, 418 sgg.), ed è stato poi mostrato con dovizia di prove seguendo una linea di ricerca indicata da Mazzino Montinari (cfr. Kuhn, 1992; Campioni, 1993, 2001; Volpi, 1995a), che tale teoria della decadenza trovò in Nietzsche un lettore attento e vorace. Ma prima di passare a Nietzsche, va detto quali conseguenze Bourget ricava dalle sue tesi. Ebbene, di fronte alla decadenza egli constata la possibilità di due atteggiamenti: la decadenza può essere affrontata da una prospettiva «morale-politica» oppure da una prospettiva che egli chiama «psicologica». La prima prospettiva, quella secondo la quale «ragionano i politici e i moralisti», guarda alla «quantità di forza» complessiva che può mantenere in funzione l’organismo sociale nel suo insieme e, qualora ne constati la mancanza o l’insufficienza, ne arguisce una prospettiva di decadenza e cerca di contrastarla. Opposto al punto di vista del moralista e del politico è il punto di vista dello «psicologo»: il suo interesse è diretto non all’insieme, ma alle singole individualità e mira a studiarne l’originalità, l’irripetibilità e l’ineffabilità con tutti i loro caratteri più attraenti e affascinanti, e con i valori estetici che producono.

Mediante la considerazione «psicologica» Bourget si apre un accesso al fenomeno della decadenza che gli consente di valorizzarne gli effetti positivi, cioè soprattutto i valori estetici che l’individualità artistica produce rendendosi indipendente dalla società. Aperto tale accesso, egli può fare un’apologia dell’esistenza sperimentale ed eccentrica del letterato e dell’artista: questi non vive che di se stesso e si autogiustifica, dal punto di vista «psicologico», per il suo valore intrinseco, secondo il principio dell’arte per l’arte. Bourget presenta dunque il punto di vista estetizzante della decadenza come la «suprema equità» dello spirito e delle idee, perché esso è in grado di assaporarle e assimilarle tutte senza aderire a nessuna, producendo così «un più ricco tesoro di acquisizione umana».

 

 

Se i cittadini di una decadenza sono inferiori come operai della grandezza del paese, non sono forse assai superiori come artisti dell’interiorità della loro anima? Se sono inadatti all’azione privata o pubblica, non è forse perché sono troppo adatti al pensiero solitario? Se sono cattivi riproduttori delle generazioni future, non è forse perché l’abbondanza delle sensazioni fini e la squisitezza dei sentimenti rari ne hanno fatto dei virtuosi, sterili ma raffinati, delle voluttà e dei dolori? Se sono incapaci delle dedizioni proprie della fede profonda, non è forse perché la loro intelligenza troppo colta li ha liberati dai pregiudizi e perché, avendo fatto la rassegna delle idee, sono giunti a quella equità suprema che legittima tutte le dottrine escludendo tutti i fanatismi? Certo, un capo germanico del II secolo era più capace di invadere l’impero di quanto un patrizio romano fosse capace di difenderlo; ma il romano erudito e fine, curioso e disincantato, quale l’imperatore Adriano, per esempio, il Cesare che amava Tivoli, rappresentava un più ricco tesoro di acquisizione umana (Bourget, 1993: 15).

 

 

Con ciò Bourget contrasta le argomentazioni da sempre fatte valere contro il punto di vista della decadenza, cioè che esso sarebbe perdente e non avrebbe futuro. Egli neutralizza la valutazione negativa del fenomeno e mostra le ragioni che consentono di comprenderlo nei valori estetici che produce.

 

 

Il grande argomento contro le decadenze è che esse non hanno domani e che vi sarà sempre una barbarie che le schiaccerà. Ma il retaggio fatale dello squisito e del raro non è forse quello di avere torto dinanzi alla brutalità? Si è in diritto di confessare un siffatto torto e di preferire la sconfitta di Atene in decadenza al trionfo del Macedone violento (Bourget, 1993: 15).

 

 

Con una analogia questa convinzione circa la decadenza sociale e politica viene estesa anche alle letterature della decadenza.

Nemmeno queste letterature hanno un domani. Sfociano in alterazioni del vocabolario, in sottigliezze di parole che renderanno questo stile inintelligibile alle generazioni a venire.

 

 

Tra cinquant’anni, ad esempio, la lingua dei fratelli Goncourt non sarà compresa che da specialisti. Che importa? Forse che il fine dello scrittore è di presentarsi come candidato perpetuo dinanzi al suffragio universale dei secoli? Noi ci dilettiamo di quelle che voi chiamate le nostre corruzioni stilistiche, e dilettiamo con noi i raffinati della nostra razza e della nostra ora. Si tratta di sapere se la nostra eccezione non sia una aristocrazia, e se, nell’ordine dell’estetica, la pluralità dei suffragi non rappresenti altro che la pluralità delle ignoranze (Bourget, 1993: 16).

 

 

Emerge evidente da queste righe l’ideale dell’aristocrazia estetica che Bourget coltiva e in base al quale egli giustifica l’ideale del grande artista. Poiché tra individuo e società esiste un rapporto di azione reciproca, l’individualità che prende le distanze dall’ambiente sociale finisce per recidere il radicamento nel terreno dal quale trae le proprie energie vitali, e rischia di deperire e morire. Sarà allora così che soltanto l’artista coraggioso, forte e maturo, dalla grande personalità e creatività, riuscirà a praticare la prospettiva della decadenza e ad affermare la propria individualità indipendentemente dalla società. È il caso di Baudelaire: fatalmente attratto dalla «fosforescenza del male» egli ha la forza e il coraggio di «proclamarsi decadente» e di cercare «tutto ciò che nella vita e nell’arte alle nature semplici sembrava morboso e artificiale» (Bourget, 1993: 16). È capace di decadere e rovinare senza perire, producendo al contrario valori estetici imperituri.

Bourget abbozza in questo modo una teoria della decadenza sociale e letteraria in cui l’ideale aristocratico dell’arte ha in se stesso la propria giustificazione e il proprio senso. L’artista decadente nobilita con la sua comparsa lo scenario e trae dalle manifestazioni di decadenza il proprio nutrimento estetico e spirituale. Temi, questi, che elaborati con ben altro vigore speculativo si ritrovano in Nietzsche.

In effetti il motivo della decadenza, strettamente connesso a quello del nichilismo, attraversa un po’ tutta l’opera di Nietzsche e diventa, dopo l’esplorazione della letteratura francese e lo studio degli Essais di Bourget, un filone tematico centrale nella speculazione degli ultimi anni di lucidità. Ne è un condensato il libello Nietzsche contra Wagner, dove già nella prefazione ci si imbatte nelle tracce dell’influenza di Bourget. Nietzsche dichiara che si tratta di «un saggio (Essai) per psicologi, non per tedeschi» (VII, iii, 389), alludendo evidentemente alla prospettiva «psicologica», contrapposta a quella morale, che Bourget aveva adottato per poter capire la decadenza in un’ottica positiva. E nel corso del libello – in cui, come è noto, sono compendiate riflessioni fatte altrove – Nietzsche dà fondo al repertorio di motivi sulla décadence raccolto attraverso l’esplorazione della letteratura francese seguendo la guida «psicologica» di Bourget.

Un motivo, in particolare, sembra avere toccato Nietzsche: quello secondo il quale la décadence è caratterizzata dalla dissoluzione fisiologica dell’organismo e dalla disgregazione delle parti che si staccano dal tutto e se ne rendono indipendenti. Già in una breve annotazione dell’inverno 1883-84 Nietzsche si appunta la tesi centrale di Bourget:

 

 

Stile della decadenza in Wagner: la frase singola diventa sovrana, la subordinazione e coordinazione diventa casuale. Bourget, p. 25 (VII, i/2, 313).

 

 

In questo frammento è contenuta in nuce la teoria della decadenza che Nietzsche sviluppa sulla scorta di Bourget e che applica a quella che è secondo lui la manifestazione per eccellenza della decadenza, cioè la musica di Wagner. Tale applicazione viene prospettata in una lettera a Carl Fuchs della metà di aprile del 1886, spedita da Nizza, la «cosmopoli» in cui soggiornava. Parlando della «decadenza (Verfall) del senso melodico» che egli dice di percepire nei musicisti tedeschi, quindi della sempre maggiore attenzione per il singolo gesto e della sempre maggiore abilità nel particolare e nella configurazione del singolo momento, Nietzsche scrive di Wagner:

 

 

La formula wagneriana «melodia infinita» esprime nel modo più amabile il pericolo, la corruzione dell’istinto, e anche la buona fede, la tranquillità della coscienza in mezzo a tale corruzione. L’ambiguità ritmica, per cui non si sa più né si deve più sapere se una cosa è capo o coda, è senza dubbio un espediente artistico mediante il quale si possono ottenere effetti meravigliosi: il Tristano ne è ricco –; ma come sintomo di un’arte è e rimane il segno del dissolvimento. La parte impera sul tutto, la frase sulla melodia, l’attimo sul tempo (anche sul tempo musicale), il pathos sull’ethos (carattere o stile o come lo si voglia chiamare), e finalmente l’esprit sul «senso» (Nietzsche, 1986: VII, 176-77).

 

 

Anche qui, pur senza farne il nome, Nietzsche ricalca la propria definizione della decadenza su quella di Bourget. Va tuttavia notata una differenza di accento e di valutazione. Nietzsche è attratto dalla fosforescenza che la decadenza emana; sa però che si tratta di una luce che assorbe ma è insufficiente a illuminare. È figlio della decadenza, eppure lotta e protesta contro di essa. Se accoglie dunque la tendenza disgregatrice che spinge dall’organismo alle sue singole funzioni, dalla società all’individuo, dal tutto alle parti, che Bourget salutava come germe di una sensibilità più raffinata, non è semplicemente per subirla. Al contrario, Nietzsche vuole contrastarla mediante un «contromovimento» che ha il proprio baricentro nell’arte come volontà di potenza, cioè come creatività e attività, e non come fruizione passiva. Nella stessa lettera a Carl Fuchs prosegue:

 

 

Scusi! Ma quello che io credo di percepire è un cambiamento della prospettiva: si vede molto, troppo minutamente il particolare; molto, troppo vago l’insieme. In musica la volontà è tesa verso quest’ottica sovvertitrice, è più della volontà l’ingegno. E questo è décadence: una parola che tra gente come noi, s’intende, non sprezza ma definisce (Nietzsche, 1986: 177).

 

 

Due anni più tardi, nel Caso Wagner, Nietzsche ripropone in forma ormai definitiva la propria teoria sulla decadenza, riprendendo da Bourget l’analogia tra la decadenza letteraria e la decadenza sociale, tra la disgregazione del tutto di un testo e il dissolvimento dell’insieme della società. Solo che a dispetto delle dichiarazioni di intenti – décadence è «una parola che (...) non sprezza ma definisce» – egli non osserva la decadenza con distaccata neutralità, ma vi si oppone con forza. Per questo, da un lato egli non può non riconoscere le ragioni della decadenza come fenomeno intrinseco alla vita stessa e alla parabola del suo sviluppo, affermando nel frammento 14 [75] della primavera 1888, intitolato «Concetto di “decadenza”»:

 

 

Il fenomeno della decadenza è altrettanto necessario quanto qualsiasi sorgere e progredire della vita: non è in nostro potere eliminarlo. La ragione vuole al contrario che gli si riconosca il suo buon diritto (...) (VIII, iii, 46).

 

 

Dall’altro, però, egli reputa contro Bourget che l’estenuazione della decadenza nell’individualità non sia produttrice di nuovi e più raffinati valori estetici, e che sia invece indispensabile riconquistare la vita del tutto. Riprendendo quasi negli stessi termini la descrizione di Bourget, Nietzsche la riformula in modo da ricavarne un giudizio critico sulla decadenza:

 

 

Da che cosa è caratterizzata ogni décadence letteraria? Dal fatto che la vita non risiede più nel tutto. La parola diventa sovrana e spicca un salto fuori dalla frase, la frase usurpa e offusca il senso della pagina, la pagina prende vita a spese del tutto, – il tutto non è più tutto. Ma questa è l’allegoria di ogni stile della décadence: sempre anarchia atomistica, disgregazione del volere, «libertà dell’individuo», o per dirla con il linguaggio della morale esteso a teoria politica, «diritti uguali per tutti». La vita, la uguale vitalità, la vibrazione e l’esuberanza della vita compresa negli organismi più piccoli, e il resto povero di vita. Ovunque paralisi, pena, irrigidimento oppure inimicizia e caos: entrambe le cose sempre più balzano agli occhi, quanto più elevate sono le forme della organizzazione verso cui si ascende. Il tutto non vive generalmente più: è giustapposto, calcolato, posticcio, un prodotto artificiale (VI, iii, 22-23).

 

 

E in un frammento postumo corrispondente nomina apertamente la sua fonte:

 

 

Questo insensato sovraccaricare di dettagli, questa sottolineatura dei piccoli tratti, l’effetto a mosaico: Paul Bourget (VIII, ii, 339).

 

 

Tutto ciò fa luce sul contesto storico di idee e di esperienze nel quale la teoria nietzscheana della decadenza affonda le proprie radici, e mostra fino a quale punto essa ne dipenda. D’altro canto, però, Nietzsche innesta i motivi che recepisce quasi alla lettera da Bourget nel più vasto orizzonte della sua interpretazione del nichilismo come logica della storia occidentale. Egli può così mettere in guardia dallo scambiare le conseguenze per le cause, dal confondere le manifestazioni di superficie della decadenza per le ragioni metafisiche profonde che l’hanno innescata. Nel frammento 14 [85] della primavera del 1888 egli compendia e formula l’intuizione che lo proietta ben oltre Bourget:

 

 

Il nichilismo non è una causa, ma solo la logica della decadenza (VIII, iii, 55).

 

 

Se di Bourget si serve per diagnosticare il fenomeno della decadenza, Nietzsche tenta d’altro canto, contro Bourget, di penetrarlo più a fondo per azzardare una prognosi e prescrivere una terapia. Di qui la sua relativa presa di distanze da Bourget, espressa in alcune lettere a Peter Gast (7 marzo 1887), a Taine (4 luglio 1887), a Malwida von Meysenbug (4 ottobre 1888) (cfr. Nietzsche, 1986: VIII, 42, 106, 447). Insomma, come scrive nella prefazione al Caso Wagner, se è vero che la decadenza è il problema che più profondamente lo ha occupato, è anche vero che altrettanto decisamente egli ha cercato di difendersene (VI, iii, 5). Nietzsche aveva dunque pienamente ragione quando in Ecce homo proclamava di essere un decadente ma al tempo stesso anche l’antitesi del decadente, di avere appreso «l’arte della filigrana nel prendere e nel comprendere in genere» e sperimentato su di sé l’affinamento che dalla décadence deriva, ma nello stesso tempo di avere la forza per la sana e robusta visione del tutto e per la trasvalutazione dei valori:

 

 

Con ottica di malato guardare a concetti e valori più sani, o all’inverso, dalla pienezza e sicurezza della vita ricca far cadere lo sguardo sul lavoro segreto dell’istinto della décadence – questo è stato il mio più lungo esercizio, la mia vera esperienza, l’unica in cui, se mai, sia diventato maestro. Ora è in mano mia, mi sono fatta la mano a spostare le prospettive: ragione prima per cui forse a me solo è possibile una «trasvalutazione dei valori» (VI, iii, 273).

 

 

È chiaro, a questo punto, in quale misura la lettura di Mainländer, quella di Dostoevskij e quella di Bourget sollecitano il pensiero nietzscheano. Giunge a maturazione con queste tre letture un motivo conduttore del proprio pensiero che da tempo Nietzsche aveva colto nella sentenza «Dio è morto» e che era confluito nella diagnosi della svalutazione dei valori supremi e nel riconoscimento della dinamica della storia dell’Occidente interpretata come decadenza, come storia del platonismo-nichilismo.

Già in anni giovanili (1870) Nietzsche aveva rinvenuto il motivo della «morte di Dio» nell’affermazione, riportata nel De defectu oraculorum da Plutarco, che «il grande Pan è morto». E subito l’aveva radicalizzata:

 

 

Io credo nell’antica sentenza germanica: tutti gli dèi debbono morire (III, iii/1, 121).

 

 

È nella Gaia scienza (Die fröhliche Wissenschaft, 1882), nel brano n. 125 intitolato «L’uomo folle», che la morte di Dio viene presentata come l’esperienza decisiva in cui è acquisita la consapevolezza dello svanire dei valori tradizionali. Non a caso quattro anni più tardi, quando per la nuova edizione dell’opera scriverà un quinto libro, Nietzsche esordirà insistendo sul medesimo tema:

 

 

Il più grande avvenimento recente – che «Dio è morto», che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa (V, ii, 239).

 

 

La morte di Dio, immagine che simboleggia il venire meno dei valori tradizionali, diventa il filo conduttore per interpretare la storia occidentale come decadenza e fornire una diagnosi critica del presente. Dalla scoperta di Bourget e Dostoevskij in poi, Nietzsche interpreterà sempre più nettamente questo processo storico in termini di «nichilismo».

Ma che cosa vuol dire propriamente «nichilismo»? Nel porsi egli stesso la domanda, Nietzsche risponde con una definizione secca e precisa che descrive il fenomeno nella sua essenza e ne indica la causa:

 

 

Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al «perché?»; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano (VIII, ii, 12).

 

 

Il nichilismo è dunque la «mancanza di senso» che subentra quando viene meno la forza vincolante delle risposte tradizionali al «perché?» della vita e dell’essere, e ciò accade lungo il processo storico nel corso del quale i supremi valori tradizionali che davano risposta a quel «perché?» – Dio, la Verità, il Bene – perdono il loro valore e periscono, generando la condizione di «insensatezza» in cui versa l’umanità contemporanea. Scrive Nietzsche in uno dei frammenti stesi per la prefazione alla progettata opera La volontà di potenza nell’inverno 1887-88:

 

 

Descrivo ciò che verrà: l’avvento del nichilismo (...). L’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido (...). Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli (...) (VIII, ii, 266-67).

 

 

E in un rifacimento dello stesso brano si chiede:

 

 

Perché infatti è ormai necessario l’avvento del nichilismo? Perché sono i nostri stessi valori precedenti che traggono in esso la loro ultima conclusione; perché il nichilismo è una logica pensata sino in fondo dei nostri grandi valori e ideali – perché dobbiamo prima vivere il nichilismo, per accorgerci di quel che fosse propriamente il valore di questi «valori» (...) (VIII, ii, 393-94).

 

 

Secondo Nietzsche il processo della svalutazione dei valori è il tratto più profondo che caratterizza lo svolgimento della storia del pensiero europeo, che è quindi la storia di una decadenza: l’atto originario di tale decadenza è già presente nella fondazione della dottrina dei due mondi a opera di Socrate e Platone, vale a dire nella postulazione di un mondo ideale, trascendente, in sé, che in quanto mondo vero è sovraordinato al mondo sensibile, considerato invece come mondo apparente.

Perché questo? Perché presto il mondo soprasensibile, in quanto ideale, si dimostra irraggiungibile e l’irraggiungibilità significa un difetto d’essere, una diminuzione della sua consistenza ontologica e del suo valore. L’idealità, cioè l’irraggiungibilità, è una «forza calunniatrice del mondo e dell’uomo», un «soffio velenoso sulla realtà», «la grande seduzione che porta al nulla» (VIII, ii, 265). La svalutazione dei valori supremi, cioè il nichilismo, si inizia già qui, cioè con il platonismo che distingue tra due mondi e introduce così nell’essere una frattura, una dicotomia. Il nichilismo, in quanto storia della postulazione e del progressivo dissolvimento del mondo ideale, è l’altra faccia del platonismo e «il nichilista è colui che, del mondo qual è, giudica che non dovrebbe essere e, del mondo quale dovrebbe essere, giudica che non esiste» (VIII, ii, 26).

In un breve testo inserito nel Crepuscolo degli idoli (Götzendämmerung, 1888) e intitolato «Come il mondo vero finì per diventare favola» Nietzsche offre un compendio illuminante della storia del nichilismo-platonismo in sei capitoli. Vediamoli concisamente.

 

 

1. Il mondo vero, raggiungibile dal sapiente, dal pio, dal virtuoso, – egli vive in esso, lui stesso è questo mondo (VI, iii, 75).

 

 

Nietzsche allude qui alla situazione che si verifica nella prima fase della storia del platonismo-nichilismo, cioè al capitolo che corrisponde al pensiero di Platone: si postula l’esistenza di un mondo vero, soprasensibile, che però non è ancora diventato una entità meramente «ideale», «platonica», ma è raggiungibile da parte dei sapienti.

 

 

2. Il mondo vero, per il momento irraggiungibile, ma promesso al sapiente, al pio, al virtuoso («al peccatore che fa penitenza») (VI, iii, 75).

 

 

Nella seconda fase della storia del platonismo-nichilismo si apre la frattura tra mondo ideale e mondo sensibile, tra trascendenza e immanenza, dal momento che anche per il sapiente il mondo ideale è soltanto una promessa, dunque per ora è irraggiungibile. Contestualmente viene svalutato il mondo sensibile: l’esistenza terrena è degradata ad ambito dell’apparenza, della transitorietà, anche se le viene prospettata la possibilità di raggiungere, un giorno, il mondo vero. L’esistenza umana si svolge nell’aldiqua, ma è protesa verso l’aldilà – il quale diventa oggetto di promessa e di fede. Il platonismo si trasforma in platonismo per il popolo, cioè cristianesimo.

 

 

3. Il mondo vero irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo (VI, iii, 75).

 

 

Il terzo capitolo della storia del platonismo-nichilismo è quello che corrisponde al pensiero di Kant. Il mondo vero, soprasensibile, viene escluso dall’ambito dell’esperienza ed è quindi dichiarato inconoscibile e indimostrabile entro i limiti della sola ragione teoretica. Viene però recuperato come postulato dalla ragione pratica: pur costretto alla pallida esistenza di una mera ipotesi, esso continua a vincolare nella forma di un imperativo.

 

 

4. Il mondo vero – irraggiungibile? Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto? (VI, iii, 75).

 

 

Con il quarto capitolo della storia del platonismo-nichilismo Nietzsche contrassegna la fase di scetticismo e di incredulità metafisica che segue al kantismo e all’idealismo, e che può essere identificata con l’incipiente positivismo. Come conseguenza della distruzione kantiana delle certezze metafisiche viene meno la credenza nel mondo ideale e nella sua conoscibilità. Ciò non significa però che il platonismo-nichilismo stesso sia già superato. Una volta che il mondo sovrasensibile è dichiarato assolutamente inconoscibile, ne consegue che non si può sapere niente di esso e che, a rigore, non ci si può decidere né per esso né contro di esso. Esso perde la rilevanza morale-religiosa che ancora aveva in quanto postulato della ragione pratica. Cade nell’indifferenza.

 

 

5. Il «mondo vero» – un’idea che non è più utile a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: aboliamola! (VI, iii, 75).

 

 

Negli ultimi due capitoli del suo compendio Nietzsche incomincia a presentare la propria prospettiva filosofica. Lo rivela già il fatto che l’espressione «mondo vero» viene ora virgolettata. Infatti, dal momento che il «mondo vero» va abolito, tale termine perde il suo valore e va quindi sospeso, messo tra virgolette. Nietzsche pensa qui alla propria opera di demolizione che con La gaia scienza ha raggiunto un suo primo risultato: si trova all’inizio, nella fase del pensiero mattutino, anche se non ancora al pieno meriggio. Ma dopo l’abolizione del mondo soprasensibile, in quanto ipotesi superflua, rimangono ancora aperti due problemi: che ne è del luogo in cui stava l’ideale e che dopo l’abolizione di quest’ultimo rimane ora vuoto? E qual è il senso del mondo sensibile dopo che è stato abolito quello ideale? Si rende necessario un passo ulteriore in cui sia portata a compimento la demolizione intrapresa.

 

 

6. Il mondo vero lo abbiamo abolito: quale mondo è rimasto? forse quello apparente? (...) Ma no! Con il mondo vero abbiamo abolito anche quello apparente (VI, iii, 76).

 

 

Quest’ultimo capitolo, che comporta l’abolizione anche del mondo apparente, indica il compito che Nietzsche si prefigge nell’ultima fase del suo pensiero. Siamo all’«incipit Zarathustra», alla filosofia del pieno meriggio, al momento dell’ombra più corta in cui il platonismo-nichilismo è davvero superato. Ma affinché tale superamento si compia, è necessario che sia abolito anche il «mondo apparente». Ciò non significa togliere semplicemente di mezzo il mondo sensibile come tale. Se così fosse, dal momento che il mondo ideale e il mondo sensibile costituiscono nel loro insieme la totalità dell’essere, la loro abolizione produrrebbe come risultato il nulla. Ma Nietzsche non può volere questo, se è vero che egli mira a un superamento del nichilismo. Abolire il «mondo apparente» significa piuttosto eliminare il modo in cui il sensibile è visto dalla prospettiva del platonismo, cioè togliergli il carattere di apparenza. Non si tratta dunque di abolire il mondo sensibile, ma di eliminare il fraintendimento platonico e aprire così la strada a una nuova concezione del sensibile e a un nuovo rapporto tra sensibile e non sensibile. A tal fine non basta semplicemente rovesciare la vecchia gerarchia e porre in alto ciò che prima stava in basso, apprezzando il sensibile e disprezzando il non sensibile. Bisogna invece uscire interamente dall’orizzonte del platonismo-nichilismo, ossia dalla dicotomia ontologica che esso implica e dalle relative contrapposizioni.

In un celebre frammento intitolato «Critica del nichilismo» (VIII, ii, 256-59) Nietzsche asserisce che il nichilismo subentra di necessità come stato psicologico quando le grandi categorie, con le quali si era introdotto nel mondo un principio organizzatore e si era dato un senso al divenire, vengono erose dal sospetto che ad alimentarle fosse semplicemente l’inconscia autoillusione di cui la vita umana si serve per sopravvivere. Si tratta delle categorie di «fine», «unità» e «verità».

 

 

Mentre un tempo ci si era illusi che il divenire avesse un senso, una meta – fosse essa l’«ordine morale del mondo», l’«accrescimento dell’amore e dell’armonia» o l’«avvicinamento a uno stato universale di felicità» – con l’insorgere del nichilismo «si capisce che col divenire non si mira a nulla, non si raggiunge nulla (...) Dunque la delusione su un preteso fine del divenire è una causa del nichilismo» (VIII, ii, 256-57).

 

 

Viene meno in secondo luogo anche un’altra strategia tradizionale per dominare il divenire: quella che consiste nel ricondurlo a un principio unificatore, cioè che ne semplifica la complessità organizzandola come unità e considerando quest’ultima come il suo valore finale.

 

 

La terza grande categoria che viene a cadere con il nichilismo è quella di verità: dato che nel divenire non v’è né fine né unità, non resta come scappatoia che condannare come illusione tutto questo mondo del divenire e inventare un mondo che sia al di là di esso, come mondo vero. Ma appena l’uomo si accorge che questo mondo è stato fabbricato solo in base a bisogni psicologici, e che in nessun modo egli ha diritto di fare ciò, sorge l’ultima forma del nichilismo, che racchiude in sé l’incredulità per un mondo metafisico – che proibisce a se stessa di credere in un mondo vero (VIII, ii, 257-58).

 

 

Quando si fa chiaro che «non è lecito interpretare il carattere generale dell’esistenza né col concetto di “fine”, né col concetto di “unità”, né col concetto di “verità”», si finisce per inibire ogni principio organizzatore e ogni trascendenza e per ammettere come unica realtà il mondo nel suo eterno fluire e divenire: il problema è che quest’ultimo appare privo di senso e di valore. Quindi «non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare» (VIII, ii, 258); «le categorie “fine”, “unità”, “essere”, con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente estratte – e ora il mondo appare privo di valore» (VIII, ii, 258).

Il nichilismo che si impone come uno «stato psicologico», e che avvia il processo di svalutazione e dissoluzione dei supremi valori tradizionali, è tuttavia un nichilismo incompleto. In esso si inizia la distruzione dei vecchi valori, ma i nuovi che subentrano vanno a occupare il medesimo posto dei precedenti, cioè conservano un carattere soprasensibile, ideale. Nel nichilismo incompleto la distinzione tra mondo vero e mondo apparente non scompare del tutto e rimane ancora operante una fede. Per rovesciare l’antico si deve ancora credere in qualcosa, in un ideale; si ha ancora un «bisogno di verità». Nella fenomenologia che Nietzsche presenta, il nichilismo incompleto si manifesta in diversi ambiti e forme:

a) nell’ambito del sapere scientifico sono manifestazioni di nichilismo incompleto il positivismo e la spiegazione naturalistica, causale e meccanicistica dell’universo; ad esse si associa nelle scienze dello spirito il positivismo storiografico delle scienze storiche, che trova la sua formulazione filosofica nello storicismo;

b) nell’ambito della politica il nichilismo incompleto si manifesta come nazionalismo, chauvinismo, democraticismo, socialismo e anarchismo (il nichilismo russo);

c) infine in ambito artistico sono manifestazioni di nichilismo incompleto il naturalismo e l’esteticismo francesi.

Solo con il maturare di quello che Nietzsche chiama il nichilismo completo viene distrutto, insieme ai vecchi valori, anche il luogo che essi occupavano, cioè il mondo vero, ideale, soprasensibile.

a) Tale nichilismo è anzitutto un nichilismo passivo, cioè una reazione di difesa, un segno di «declino e regresso della potenza dello spirito», incapace di raggiungere i fini finora perseguiti. La sua manifestazione per eccellenza è la trasformazione e l’assimilazione del buddhismo orientale nel pensiero occidentale, con la coltivazione dello struggimento nel Nulla, già presente nei romantici ma alimentato soprattutto dalla filosofia schopenhaueriana.

b) Il nichilismo completo si manifesta inoltre come nichilismo attivo, cioè come un segnale della «cresciuta potenza dello spirito» la quale si esplica nel promuovere e nell’accelerare il processo di distruzione (VIII, ii, 12-13; n. 9 [35]).

c) Nietzsche chiama infine estrema la forma di nichilismo attivo che toglie definitivamente di mezzo non solo i valori tradizionali, quindi la visione morale del mondo e lo stesso valore di verità, ma anche il luogo soprasensibile che tali valori occupavano:

 

 

La forma estrema del nichilismo sarebbe il sostenere che ogni fede, ogni tener per vero sia necessariamente falso: perché non esiste affatto un mondo vero. Dunque: un’illusione prospettica, la cui origine è in noi (avendo noi costantemente bisogno di un mondo ristretto, abbreviato, semplificato) (VIII, ii, 15).

 

 

E ancora:

 

 

Che non ci sia verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una «cosa in sé»; – ciò stesso è nichilismo, è anzi il nichilismo estremo (VIII, ii, 13-14).

 

 

Solo con l’abolizione del luogo ideale dei valori tradizionali si fa spazio alla possibilità di una nuova posizione di valori. In riferimento al fatto che in tal modo il nichilismo estremo crea spazio e viene allo scoperto, Nietzsche parla pure di nichilismo estatico (VII, iii, 222). Il carattere negativo che inerisce al nichilismo come tale assume qui una declinazione positiva nella misura in cui questa forma di nichilismo rende possibile la nuova posizione di valori, basata sul riconoscimento della volontà di potenza quale carattere fondamentale di tutto ciò che è. Giungendo ad aprire di nuovo la possibilità dell’affermazione, il nichilismo supera la sua incompletezza e diventa compiuto; diventa nichilismo classico. È questo il nichilismo che Nietzsche rivendica come proprio quando dice di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso – che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé» (VIII, ii, 393).

Ora, per portare veramente a compimento l’ipotesi nichilistica – come Nietzsche illustra, tra l’altro, nel grande frammento su «Il nichilismo europeo» (Lenzer Heide, 10 giugno 1887), smembrato nella edizione della sorella e restituito da Colli-Montinari nella sua forma integrale (VIII, i, 199-206; n. 5 [71]) – è necessario che noi «pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: “l’eterno ritorno”. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la “mancanza di senso”) eterno!» (VIII, i, 201). Il compimento del nichilismo richiede il pensiero dell’eterno ritorno. Ciò significa che non dobbiamo pensare soltanto che la vita non si prefigga nulla e che, come il volgere dei pianeti, nulla insegua nella sua corsa se non se stessa: come quelli percorrono milioni di chilometri per continuare semplicemente nella loro orbita, così la vita fa tutto ciò che le consentono la meccanica e l’energia del cosmo – e null’altro. Ma dobbiamo pensare inoltre che tutto questo ritorni eternamente. La conclusione di Nietzsche è coerente:

 

 

Il carattere complessivo del mondo è caos per tutta l’eternità (V, ii, 136-37).

 

 

Ciò significa rinunciare a imprimere all’essere un qualsiasi ordine, senso o forma che non siano quelli del divenire e del suo inesausto ripetersi.

Ma chi è in grado di sopportare questo terribile pensiero che sembra rendere insostenibile l’esistenza? È il «superuomo». Questa figura – come è stato spiegato (Heidegger, 1961: 204, 241) – non va intesa nel senso di un essere prodigioso che abbia potenziato a dismisura le facoltà dell’uomo normale, ma come colui che «supera» l’uomo tradizionale in quanto smette gli atteggiamenti, le credenze e i valori propri di quest’ultimo e ha la forza per crearne di nuovi. La trasvalutazione di tutti i valori è il movimento che si oppone al nichilismo e che lo supera: essa alleva il «super-uomo» come colui che esprime la massima concentrazione di volontà di potenza e che accetta l’eterno ritorno delle cose.

La domanda con la quale si conclude il dianzi citato frammento sul nichilismo europeo, e cioè «Come penserebbe un tale uomo all’eterno ritorno?» (VIII, i, 206), indica appunto che dopo l’abolizione dell’antitesi tra il mondo vero e il mondo apparente, cioè dopo che la visione del mondo platonico-nichilistica è stata superata, resta il compito di ripensare il senso del divenire senza ricadere negli schemi e nei valori prodotti dalla dicotomia platonico-nichilistica o, peggio ancora, nei suoi surrogati. Ed è appunto la dottrina dell’eterno ritorno a offrire per Nietzsche tale opportunità.

Come si vede, l’analisi del nichilismo quale logica della decadenza, la dottrina della volontà di potenza e l’ipotesi dell’eterno ritorno sono connesse in una sequenza teorica coerente.

 

 

 

Nichilismo,  relativismo e disincanto nella «cultura della crisi»

 

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Nietzsche evocava l’antica dottrina dell’eterno ritorno nei termini di un suggestivo insegnamento che prometteva di conferire un nuovo baricentro all’esistenza e di rendere sopportabile il perenne divenire di tutte le cose. L’ipotesi con la quale egli introduce l’eterno ritorno alla fine della prima edizione della Gaia scienza (1882), nel brano intitolato «Il peso più grande», è diventata classica:

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo chiaro di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterno orologio a polvere dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolto – e tu con esso, granello di polvere dalla polvere venuto!» (...) Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti volere bene a te stesso e alla vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? (V, ii, 236-37).

Dal momento della sua scoperta in poi – avvenuta, come è ricordato in Ecce homo, nell’agosto 1881 lungo il lago di Silvaplana nei pressi di Surlei, «seimila piedi al di là dell’uomo e del tempo» (VI, iii, 344) – il pensiero dell’eterno ritorno non abbandonerà più Nietzsche, che elaborerà questa sua concezione, «la suprema formula dell’affermazione che possa mai essere raggiunta», in numerosi frammenti e la proporrà in almeno altre due importanti comunicazioni pubbliche. La prima nello Zarathustra, opera che può essere considerata il capolavoro di Nietzsche e che nel suo insieme rappresenta l’elaborazione in grande stile e la comunicazione della dottrina dell’eterno ritorno. La seconda in Al di là del bene e del male, nel terzo capitolo intitolato «L’essere religioso», dove è racchiusa nella formula «circulus vitiosus deus?» (VI, ii, 61-62) che, nonostante le molteplici esegesi succedutesi, rimane a tutt’oggi un enigma.

È un fatto però che il carattere intrinsecamente esoterico dell’eterno ritorno, l’apparente contraddizione in cui esso sta con la dottrina della volontà di potenza, la difficoltà di interpretarlo nel significato e nelle conseguenze con cui esso grava sull’esistenza umana e sull’interpretazione ontologica del divenire, erano tutti fattori che intralciavano la sua fortuna. Ci sarebbero voluti Heidegger e Löwith, in campo filosofico, e poi Borges e Kundera, in quello letterario, per penetrare a fondo il senso dell’eterno ritorno e mostrarne l’essenziale appartenenza al pensiero di Nietzsche.

A cavallo tra i due secoli e nei primi decenni del Novecento fu invece la diagnosi della decadenza e della crisi dei valori, cioè la teorizzazione del nichilismo e la lungimirante previsione delle conseguenze che esso avrebbe innescato, l’aspetto dell’opera di Nietzsche che lo fece diventare un autore così letto da portarlo ad occupare nell’anima tedesca il posto che prima di lui, e nella sua stessa formazione intellettuale, era stato di Schopenhauer. La sua opera ha così allungato la sua ombra su buona parte del pensiero e della cultura di fine Ottocento e del primo Novecento, e anche in seguito non ha cessato di tormentare l’autocomprensione filosofica del nostro tempo. Ormai divenuta impraticabile la sintesi dialettica, minata alle fondamenta dallo sviluppo dell’immagine scientifica del mondo, ci si richiamò al pensiero di Nietzsche per compensare il vuoto filosofico spalancatosi nel «dopo Hegel» e per evitare entrambe le insidie in cui era fin troppo facile cadere: la nostalgia per la totalità dialettica perduta, da un lato, oppure la piatta adesione al positivismo dei fatti, dall’altro. Sennonché, seguendo il paradigma nietzscheano in maniera sempre più tenace e rabbiosa si produsse non solo la consunzione dei grandi ideali di Dio, del Bene e del Vero, ma si minò alla base ogni possibilità di riempire il vuoto di senso che ne risultava. Inoltre, la critica che a Nietzsche si ispirava, corrosiva e tagliente, non fu mera descrizione ma contribuì a produrre, o ad accelerare, lo stato di crisi che descriveva. L’esito è noto: è stato il «deserto che avanza», l’allungarsi dell’ombra del nichilismo.

Ecco perché nel Novecento Nietzsche ha suscitato entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato atteggiamenti, mode culturali e stili di pensiero, ma al tempo stesso ha provocato reazioni e rifiuti altrettanto radicali. Egli era stato buon profeta di sé quando, nel monologo fatale di Ecce homo, aveva preconizzato che un giorno il suo nome, quello del primo immoralista e del distruttore per eccellenza, sarebbe stato legato a una profonda collisione delle coscienze, a un cataclisma dello spirito senza pari.

Una eloquente testimonianza della diffusione del suo «mito», ma anche del suo duplice effetto, di attrazione e di rifiuto, è il libello del sociologo Ferdinand Tönnies Il culto di Nietzsche. Una critica (Der Nietzsche-Kultus. Eine Kritik, 1897). Dopo essere stato egli stesso un nietzscheano entusiasta – aveva apprezzato soprattutto la Nascita della tragedia in cui vedeva prefigurata l’idea di una «comunità dionisiaca», che è alla base della celebre distinzione tra «comunità» (Gemeinschaft) e «società» (Gesellschaft) da lui introdotta – Tönnies rimosse la sua passione giovanile e proclamò ad alta voce le viscerali ragioni per le quali urgeva opporsi al nichilismo nietzscheano: esse erano sostanzialmente l’immoralismo individualistico e la concezione elitaria e antidemocratica cui era approdato l’ultimo Nietzsche nella sua strenua difesa del diritto del superuomo all’eccellenza.

Ma questa e altre prese di posizione non arginarono la marea nichilistica che a Nietzsche si ispirava e che stava montando. Schiere di artisti e letterati continuarono a guardare a lui come a un mito da emulare: Gide, Strindberg, von Hofmannsthal, George, Musil, Broch, Klages, Thomas e Heinrich Mann, Benn, Jünger sono i nomi che spiccano fra tanti altri. Anche in campo strettamente filosofico pensatori dalle provenienze più diverse recepirono le sue dottrine: Vaihinger, Simmel, Spengler, Scheler, Jaspers, Heidegger e altri ancora. Perfino Carnap, nel celebre saggio del 1931 in cui si riprometteva di demolire ogni metafisica passata, presente e futura mediante l’analisi logica del linguaggio, riconosceva alla «metafisica» di Nietzsche un suo statuto legittimo, anche se solo «estetico» (Carnap, 1969: 531).

La piena nichilistica si ebbe soprattutto quando le influenze del pensiero nietzscheano confluirono con gli esiti relativistici dello storicismo. Ciò avvenne in particolare in seno alla cosiddetta «filosofia della vita» e nella serie di critiche della civiltà che caratterizzarono la riflessione europea dei primi decenni del Novecento. Muovendo dalla convinzione di provenienza nietzscheana che esistesse un radicale e insopprimibile antagonismo tra il Dionisiaco e l’Apollineo, cioè tra la vita e lo spirito, tra la natura e la cultura, tra l’anima intesa come principio vitale e le forme come schemi entro i quali la vita è catturata, fu data espressione – filosofica, letteraria e artistica – a una diffusa sfiducia nelle pretese di sintesi della ragione e a un corrispondente richiamo alla dimensione, altra, della «vita». La vita – come si andava affermando – doveva essere colta al suo livello originario, nei suoi caratteri propri, e non secondo le modalità teoretiche tradizionali, che, oggettivandola, la reificavano e ne impedivano in linea di principio la comprensione genuina.

Un significativo esito relativistico e nichilistico della filosofia della vita si ebbe con il pensiero dell’ultimo Georg Simmel. Dopo l’iniziale adesione al positivismo evoluzionistico, Simmel si era successivamente avvicinato al neocriticismo e alla filosofia dei valori, approdando attraverso lo studio di Bergson e di Nietzsche a una filosofia della vita pessimistica, dagli esiti misticheggianti, di cui è espressione soprattutto l’opera Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici (Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, 1918). È significativo che nel 1897 Simmel recensisse in termini critici il summenzionato libello di Tönnies, difendendo Nietzsche dall’accusa di immoralismo e opponendo a essa una valorizzazione del concetto nietzscheano di «nobiltà» o «distinzione» (Vornehmheit) in nome del diritto all’eccellenza. Questa recensione segnala quanto Simmel fosse allora impegnato in una assimilazione del pensiero nietzscheano che, dopo il 1900, impregnerà sempre più la sua visione tragica della cultura, il suo Kulturpessimismus. La convinzione di fondo che Simmel maturerà è che la pluralità dei mondi e delle sfere che lo studio storico dello spirito umano rivela – il mito, l’arte, la religione, la scienza, la tecnica – non si compongono in una sintesi e in una conciliazione. Ciascuno di tali ambiti sembra affermarsi nella sua autonomia e validità; in ciascuno di essi si manifesta una tendenza organica che è espressione della vita, la quale si afferma e si autopotenzia selezionando le verità che le sono utili e lasciando soccombere come falso ciò che la danneggia. La vita sta in un contrasto perenne con le forme culturali che essa stessa produce, in quanto queste ultime tendono a cristallizzarsi e a giustapporsi a essa.

Di fronte alla vita dell’anima che vibra senza posa sviluppandosi illimitatamente, e che è in un qualche senso creatrice, sta il suo prodotto solido, idealmente inamovibile, che ha l’inquietante effetto retroattivo di fissare, anzi di irrigidire, quella vitalità: spesso, è come se la dinamicità creatrice dell’anima morisse nel suo prodotto (Simmel, 1985: 193).

Ma la tendenza che spinge le forme oggettive, una volta prodotte, a conservarsi contrapponendosi alla vita soggettiva che le produce, quindi il predominio dell’oggetto sul soggetto, che si impone nella modernità, conducono nell’ambito della cultura all’«estensione illimitata dello spirito oggettivo» (Simmel, 1985: 211). Si ha allora una ipertrofia di oggetti, prodotti e offerte culturali che la vita soggettiva non è più in grado né di recepire né di assimilare. In questa discrasia, cioè nella inadeguatezza delle produzioni dello spirito oggettivo rispetto alla capacità assimilativa dello spirito soggettivo, sta la «tragedia della cultura». Come scriveva Siegfried Kracauer nel saggio Die Wartenden (In attesa), pubblicato nella «Frankfurter Zeitung» del 22 marzo 1922, questa prospettiva filosofica che vedeva nella vita «l’ultimo Assoluto» era «un gesto di disperazione del relativismo».

Il motivo del Kulturpessimismus, che Simmel accarezzava con raffinatezza e moderazione, fu spinto all’estremo ed esibito nella sua forma più cruda da Oswald Spengler. In lui l’assimilazione del pensiero nietzscheano, il relativismo storicistico e le esigenze della filosofia della vita si combinarono in una vera e propria filosofia della storia e della crisi a curvatura scettico-nichilistica. Da giovane aveva progettato di scrivere una tragedia su Erostrato, l’efesino che nel 356 a.C. aveva dato alle fiamme il tempio di Artemide affinché il proprio nome rimanesse famoso in eterno. Un «antenato del nichilismo» – come lo definirà Günther Anders (1956-80: I, 301, 316 sgg.) –, un eroe che rappresentava agli occhi di Spengler la tragedia del destino, la lotta tra la volontà del grande individuo e le forze della storia. Nella succinta tesi di dottorato (1904), in cui si appassionava per la filosofia del divenire di Eraclito facendo propria l’idea del perenne fluire delle cose, Spengler mostrava, sulle tracce di Nietzsche, una pronunciata inclinazione per la visione tragica del mondo. Tutto diviene, tutto trapassa, tutto è relativo: la massima che Spengler dichiarava di seguire era quella di considerare «il mondo come storia». Assumendo questo atteggiamento, che significava per lui una rivoluzione copernicana, Spengler intendeva essere il Galilei della storia, colui che si riprometteva di decifrare l’instabile e mutevole linguaggio di ciò che nasce, cresce e perisce. Tutto ciò era declinato in un torvo pessimismo, rispetto al quale Spengler reclamava l’atteggiamento robusto e virile del Romano, mentre sprezzava ostentatamente quello del Graeculus histrio, artista e filosofo. Contro la filosofia universitaria, che non riteneva all’altezza dei compiti dell’epoca contemporanea, l’era del «cesarismo», egli dichiarava di scrivere «per uomini di azione e non per spiriti critici». Il suo pessimismo non voleva essere «un sistema in cui poter speculare» ma «un’immagine del mondo in cui vivere». «La filosofia per amore di se stessa – scriveva nel saggio Pessimismus? del 1921 – l’ho sempre disprezzata profondamente» (Spengler, 1937: 64).

Nella sua opera capitale Il tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes), che fu edita in due parti alla fine della guerra (1918-22) ed ebbe subito un vasto successo di pubblico, egli prospettava una «morfologia della storia universale» nella quale la successione delle diverse civiltà, ognuna considerata come organismo con una sua «forma» e chiusa nel proprio orizzonte, è determinata non da disegni e finalità razionali, ma dal ritmo vitale che le contraddistingue e che è analogo a quello dell’individuo: nascita, crescita, declino e morte. Le civiltà non si sviluppano e non si succedono edificandosi l’una sull’altra, ma ciascuna in forza del suo impulso iniziale e seguendo il proprio ritmo energetico, avendo in se stessa il principio e il compimento del suo ciclo vitale. Se è così, la storia universale non può avere uno sviluppo lineare, ma avrà piuttosto un carattere ciclico. Dietro questa visione sta la convinzione, di provenienza nietzscheana, che alla vita, in quanto carattere comune di tutto ciò che diviene, si contrapponga lo spirito, cioè il principio stabilizzante della forma e della razionalità. Ora, secondo la prognosi spengleriana, la forza vitale della civiltà occidentale, soffocata dalle forme della cultura, della civilizzazione e della tecnica, sarebbe entrata nella fase del suo tramonto. Non per caso, ma per una ineluttabile necessità che sta scritta nei ritmi vitali della storia. E poiché ciò che è frutto di necessità non concede la libertà di scegliere o rifiutare, a chi è preso nella ruota della storia universale non resta che accettare questo destino, perché, come Spengler si compiace di rammentare con Seneca: ducunt fata volentem, nolentem trahunt. Anziché a una scienza della storia Spengler aveva dato vita in tal modo a una metafisica del divenire dai toni cupi e apocalittici, che alimentò l’atmosfera di crisi in cui la cultura tedesca era effettivamente piombata dopo la prima guerra mondiale.

Il pessimismo nichilistico di Spengler funse da punto di riferimento, in positivo e in negativo, per un’intera serie di critiche della civiltà e di «filosofie della crisi» che caratterizzarono l’atmosfera culturale tedesca tra le due guerre. Nella copiosa letteratura che ne nacque si avverte, accanto al Kulturpessimismus, l’esigenza di un suo superamento e di una guarigione dalle patologie nichilistiche della modernità.

Già prima del Tramonto dell’Occidente era emerso un diffuso disagio, ben presto tradottosi in una aperta reazione, nei confronti della civiltà borghese dell’età guglielmina, della visione positivistica del mondo e dell’ottimistica fiducia nel progresso che caratterizzavano la «Belle Époque». Basti pensare all’irrazionalismo torbido e opaco, ispirato alla filosofia romantica di Carus, alle indagini mitologiche di Bachofen e alla concezione tragica della vita di Nietzsche, che animava le visioni dionisiache del circolo dei cosiddetti «cosmici» di Alfred Schuler e del giovane Ludwig Klages nella Monaco di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento. Oppure alla linea culturale promossa con successo da Eugen Diederichs, fondatore nel 1896 di una casa editrice che sostenne una moda neo-mistica e che si avvalse della collaborazione di autori che solo dopo la prima guerra mondiale, con l’avvento della Repubblica di Weimar, si sarebbero separati nel fronte della Destra e in quello della Sinistra, ma che allora erano accomunati nella ricerca di una alternativa alla società borghese del XIX secolo, quali Ferdinand Avenarius, Walter Benjamin, Eduard Bernstein, Lujo Brentano, Martin Buber, Hans Freyer, Hermann Hesse, Karl Korsch, Ernst Krieck, György Lukács. Per questa ragione si possono qui nominare insieme analisi della decadenza che altrimenti andrebbero separate come quelle di Lukács in L’anima e le forme (Die Seele und die Formen, 1911), di Walter Rathenau in Per la critica del tempo presente (Zur Kritik der Zeit, 1912) e Di cose venture (Von kommenden Dingen, 1917), di Rudolf Pannwitz in La crisi della civiltà europea (Die Krise der europäischen Kultur, 1917).

Dopo Spengler, alcuni seguendolo, altri contro di lui, altri ancora indipendentemente da lui, la schiera dei «critici della civiltà» si ingrossò fino all’inverosimile: Theodor Lessing, amico e seguace di Klages, dalla torbida personalità, con La storia come conferimento di un senso all’insensato (Geschichte als Sinngebung des Sinnlosen, 1919) e La maledetta civiltà (Die verfluchte Kultur, 1921); il neognostico Leopold Ziegler, poi seguace dell’idea guénoniana di tradizione, con la fortunata opera in due volumi Metamorfosi degli dèi (Gestaltwandel der Götter, 1920); il teologo protestante Albert Schweitzer con Decadenza e ricostruzione della civiltà (Verfall und Wiederaufbau der Kultur, 1923), e da parte cattolica Romano Guardini con le Lettere dal Lago di Como. Pensieri sulla tecnica (Briefe vom Comer See. Gedanken über Technik, 1927). E ancora Hermann Keyserling, il fondatore della «Scuola della Sapienza», con Lo spettro d’Europa (Das Spektrum Europas, 1927); Freud con Il disagio nella civiltà (Das Unbehagen in der Kultur, 1929); infine lo psicologo, mitologo e grafologo Ludwig Klages con l’imponente opera Lo spirito come antagonista dell’anima (Der Geist als Widersacher der Seele, 1929-32), il cui titolo divenne uno slogan sulle labbra delle giovani generazioni.

In campo più rigorosamente filosofico, uscite dalla crisi nichilistica furono prospettate da Bloch in Eredità di questo tempo (Erbschaft dieser Zeit, 1918), da Lukács in Storia e coscienza di classe (Geschichte und Klassenbewußtsein, 1923), da Scheler in L’uomo nell’età del livellamento (Der Mensch im Zeitalter des Ausgleichs, 1929), da Jaspers in La situazione spirituale del nostro tempo (Die geistige Situation der Zeit, 1931), da Husserl in La crisi delle scienze europee (Die Krisis der europäischen Wissenschaften, 1936), da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo (Dialektik der Aufklärung, 1947).

Il fenomeno della «critica della civiltà» non fu peraltro limitato all’ambito culturale di lingua tedesca, ma si manifestò in tutta Europa: nella Francia di Valéry (La Crise de l’esprit, 1919) e Julien Benda (La Trahison des clercs, 1927), ma anche in quella degli emigrati russi  estov (La Philosophie de la tragédie, 1926) e Berdiaev (Un nouveau Moyen Age, 1927) e in quella iniziatica di Guénon (La Crise du monde moderne, 1927); nella Spagna di José Ortega y Gasset (La rebelión de las masas, 1930) e nell’Olanda di Johan Huizinga con Nelle ombre di domani (In de schaduwen van morgen, 1935) e Lo scempio del mondo (Geschonden wereld, 1943).

Pur nel frenetico accavallarsi delle prospettive e dei motivi che la caratterizzano, tutta questa letteratura contribuì ad acuire la sensazione che un ciclo storico stava per finire e che con esso venivano meno gli ordinamenti e i valori veteroeuropei della religione, della metafisica e della morale tradizionali. I venti gelidi della nuova consapevolezza critica che andava formandosi, e che giunse ad avere la sua espressione più lucida in Max Weber, spazzarono le caligini che si addensavano su quel paesaggio culturale.

Già alla fine della sua prima grande ricostruzione dei processi di razionalizzazione che caratterizzano lo sviluppo del mondo moderno e che hanno nella scienza, nella tecnica e nella burocrazia i loro fattori capitali, nella celebre chiusa dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo (Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1904-5) Max Weber salutava con favore il nuovo spirito della modernità, ma avvertiva al tempo stesso che il «sottile manto della razionalizzazione», inizialmente al servizio del mondo della vita, era diventato una «calotta d’acciaio» (stahlhartes Gehäuse), sotto la quale i figli della moderna civiltà occidentale rischiavano di diventare «specialisti senza spirito ed edonisti senza cuore». E con un giudizio severo sull’«ultimo uomo» aggiungeva: «Questo Nulla crede di essersi elevato a uno stadio di umanità mai raggiunto prima» (Weber, 1965: 306).

Alla fine del proprio lavoro scientifico, un anno prima della morte, in due celebri conferenze tenute nel gennaio del 1919 a Monaco durante la profonda crisi seguita alla prima guerra mondiale – La scienza come professione (Wissenschaft als Beruf) e La politica come professione (Politik als Beruf) – Max Weber offrì un’analisi ancora più chiara e illuminante della prospettiva storica che si andava delineando. Con pochi tratti essenziali egli mostrò come la razionalizzazione scientifica avesse prodotto un irreversibile «disincanto» (Entzauberung), secolarizzando le vecchie visioni del mondo di origine mitologico-religiosa e rimpiazzandole con una immagine «oggettiva». E se attraverso la neutralità descrittiva della sua diagnosi traspariva, nemmeno troppo celata, una presa di posizione in favore della nuova situazione, quindi del progresso della scienza e della ragione, Weber appariva altresì consapevole del duro destino che la modernità riservava. Perduta l’innocenza delle origini, l’umanità che ha mangiato all’albero della conoscenza non è più disposta al sacrificium intellectus e diventa refrattaria a ogni fede. Paga le sue conquiste con l’incapacità di fondare razionalmente valori ultimi e scelte di vita.

È il destino della nostra epoca – scriveva Weber – con la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto con il suo disincanto del mondo, che proprio i valori ultimi e più sublimi si siano ritirati dalla sfera pubblica per rifugiarsi nel regno extramondano della vita mistica o della fraternità di rapporti immediati fra i singoli (Weber, 1922: 612; cfr. 1948: 41).

La conseguenza del disincanto è il politeismo dei valori, la compresenza di istanze e scelte di vita ultime in conflitto fra loro, il cui antagonismo risulta razionalmente indecidibile. L’isostenia dei valori porta alla svalutazione e infine all’indifferenza dei valori. Il politeismo non è più politeismo di valori ma di decisioni. Nemmeno l’arte appare in grado di creare nuovi valori condivisi: rispetto alla realtà della razionalizzazione essa può essere «protesta» che diventa facilmente «fuga», oppure «integrazione» che si trasforma facilmente in «apologia». In questa situazione storico-culturale «priva di dèi e di profeti», in cui Weber vedeva sopraggiungere non «il fiorire dell’estate», ma una «notte polare di una oscurità e rigidità glaciali» (Weber, 1921: 559; cfr. 1948: 120), non resta, quale unico eroismo possibile alla ragione, che prendere congedo dalle nostalgie per l’intero perduto e dalle aspettative globali di salvezza. Weber affermava ciò sia contro l’amico Ernst Troeltsch, che nella conferenza Cultura tedesca (Deutsche Bildung, 1918) riponeva le sue speranze nelle tre grandi potenze tradizionali che avevano formato l’Europa, cioè l’umanesimo, il cristianesimo e lo spirito germanico; sia soprattutto contro sètte e profeti che spuntavano ovunque – come già Thomas Mann aveva colto nella novella Visita al profeta (Beim Propheten, 1904) e come egli stesso constatava potendo osservare da vicino nella sua Heidelberg l’esempio del circolo esoterico formatosi intorno a Stefan George. La reazione del circolo alle tesi weberiane non si fece peraltro attendere, e fu affidata al saggio La professione della scienza (Der Beruf der Wissenschaft, 1920) di Erich von Kahler.

Weber faceva invece appello al senso di responsabilità dell’intellettuale e dello scienziato, e invitava a vivere virilmente, senza profeti né redentori, il destino del relativismo e nichilismo della nostra epoca seguendo, nella dedizione al compito del giorno, il demone che tiene le fila dell’esistenza di ciascuno. A chi di questo non fosse stato capace, non rimaneva che il sacrificio dell’intelletto, e con esso il ritorno nelle braccia sempre misericordiosamente aperte delle confraternite e delle chiese: che il discepolo tornasse pure al profeta e il credente al redentore; ma per chi aveva fatto della ragione il filo conduttore della propria esistenza non restava, come sola virtù, che l’esercizio radicale della ragione stessa.

La ragione si mantiene lucida soltanto se non si sottomette a nessun principio eteronomo, ma dà a se stessa la propria legge e la propria forma: la potenza del razionale sta nel dissolvere ogni sostanziale e nell’ergersi a fondamento di sé. L’esercizio della ragione è la virtù di un’ascetica mondana che riconosce e accetta la creaturalità di questo mondo, ma che rinuncia a qualsiasi valore di trascendenza e considera la finitudine come l’unica dimensione temporale in cui si misura il successo o il fallimento dell’esistenza.

In questo senso può essere letta l’astinenza che Weber raccomandava alla fine della sua prima conferenza monacense, riprendendo le parole del canto della scolta idumea nell’oracolo di Isaia:

Una voce chiama da Se’îr in Edom: «Sentinella, quanto durerà ancora la notte?». La sentinella risponde: «Verrà il mattino, ma ancora è notte. Se volete domandare tornate un’altra volta» (Weber, 1922: 613; cfr. 1948: 42).

 

 

 

Il  nichilismo estetico-letterario

 

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Nella diffusa sfiducia nei confronti degli ideali ottimistici del progresso e della grande marcia dell’umanità verso il meglio, si avvertiva sempre più l’ingombrante presenza di una forza che – comunque la si chiamasse e la si esorcizzasse – non appariva governabile dalla ragione, anzi sembrava asservirla alle proprie cieche finalità. I concetti che furono coniati per evocarla segnarono profondamente l’atmosfera culturale dell’epoca: Wille zur Macht (Nietzsche), élan vital (Bergson), Erlebnis (Dilthey) o Leben (Simmel, Klages), Paideuma (Frobenius), Es o Inconscio (Freud), l’Archetipico (Jung), il Demoniaco (Th. Mann). Appena coniati, tali concetti divennero presto slogan intorno ai quali si catalizzò l’attenzione delle giovani generazioni. A ragione o a torto, finirono per essere sbandierati contro il culto della scienza e della ragione del XIX secolo.

Non stupisce che in tale atmosfera si mettesse in atto una ricerca di risorse alternative alla razionalità. La principale e la più tentata fu l’arte. Non che ciò rappresentasse una novità. C’era una intera e nobile tradizione che aveva considerato il Bello come lo «splendor del Vero»; anche in tempi non lontanissimi, il romanticismo aveva visto nell’arte una via d’accesso privilegiata all’Assoluto; Schopenhauer l’aveva teorizzata come catarsi dalla Volontà; Nietzsche come l’unica attività metafisica che la vita ancora ci consente per non perire a causa della verità; le avanguardie artistiche primonovecentesche avevano sottolineato in maniera vistosa la funzione-guida dell’arte, proponendola come una esperienza rivelatrice alla quale affidarsi ogniqualvolta la razionalità non fosse più capace di conferire all’essere e all’esistenza un senso che li redima. La letteratura della crisi pullula di fermenti speculativi che fanno ricorso al potenziale emancipatore dell’arte per tentare di attraversare il nichilismo e superarlo. Musil, Broch, ma soprattutto Benn e Jünger hanno sfruttato a tal fine le risorse estetico-letterarie della forma, cimentandosi da vicino con la diagnosi nietzscheana della decadenza e del nichilismo.

Tale diagnosi, almeno in ambito tedesco, si impose con forza e segnò in maniera profonda l’esperienza di intere generazioni. Perfino personalità educate ai valori dell’umanesimo classico, come i fratelli Mann, ne furono fatalmente attratte. Non solo Heinrich, che dall’emigrazione curerà una fortunata antologia dei «pensieri immortali di Nietzsche» per la celebre collana «Living Thoughts Library». Anche Thomas, che nella medesima collana pubblicò un’analoga scelta dei pensieri di Schopenhauer, fu profondamente influenzato dalla lettura di Nietzsche, per quanto restìo egli fosse a ogni forma di estremismo estetico-letterario. Già ventenne – Nietzsche vegetava, ma era ancora in vita – aveva studiato e annotato fittamente Aurora e La gaia scienza. Più tardi lesse avidamente la seconda Considerazione inattuale, Ecce homo e l’epistolario, come si vede dai motivi e dai pensieri nietzscheani che ricorrono nelle conversazioni dei personaggi della Montagna incantata (Der Zauberberg, 1924). Li rilesse poi con attenzione mentre preparava il romanzo Doktor Faustus (1947), il cui protagonista, il musicista Adrian Leverkühn, esempla la sua vita sulla biografia di Nietzsche. Del resto, la produzione saggistica di Thomas Mann – dalle Considerazioni di un impolitico (Betrachtungen eines Unpolitischen, 1918) fino ai due studi monografici su Nietzsche del 1924 e del 1948 – rende esplicita la diffusa presenza del filosofo di Röcken nel suo universo mentale.

Rivelatrice del fatale influsso è soprattutto la tormentata opera del 1918, concepita e scritta di getto sotto la martellante impressione della Grande Guerra. In polemica con il fratello Heinrich, che si professava umanista e perciò democratico, liberale, progressista, pacifista, Thomas Mann declinava l’umanesimo nei termini di un’aristocrazia spirituale di ascendenza nietzscheana, che esaltava i valori alti dello spirito e della cultura (Kultur) opponendoli a quelli materiali della civilizzazione (Zivilisation). La cultura rappresentava la nobiltà dello spirito, l’ordine delle aspirazioni più elevate proprie dell’anima tedesca, essenzialmente attratta dalla dimensione dell’interiorità (Innerlichkeit) e della profondità (Tiefsinn), ossia dallo squillante canto della vita con le sue fiammeggianti contraddizioni e la sua zampillante e insondabile ricchezza. La civilizzazione era invece la forza che domina il mondo occidentale con il mito del progresso, dell’economia, della tecnica e dello sviluppo, con la democrazia ridotta al principio formale del diritto di voto e della maggioranza.

Thomas Mann percepiva il contrasto in modo così stridente che nel saggio Pensieri in guerra (Gedanken im Krieg, 1914), lasciandosi coinvolgere nell’entusiasmo bellico generale, salutava la guerra come «purificazione, liberazione, immensa speranza» ovvero occasione per emanciparsi da una «civilizzazione che puzza come un cadavere in decomposizione». Con una simile presa di posizione si alienò, naturalmente, la considerazione di scrittori quali Romain Rolland, Stefan Zweig e Hermann Hesse.

Ma, al di là di ogni contingenza, la contrapposizione era di principio. Riprendendo l’antitesi nietzscheana di apollineo e dionisiaco, e insieme quella romantica e vitalistica di spirito e vita, Thomas Mann la riempiva della nuova semantica della modernità, articolandola con sovrana maestria nelle sue molteplici sfaccettature: opponeva la creatività alla conoscenza astratta, la semplicità originaria all’intellettualità, la pienezza torbida e demoniaca della vita alla purezza ascetica della razionalità. E ancora: sosteneva il primato dello spirito eroico germanico sullo spirito mercantile anglosassone, gli «eroi» (Helden) contro i «mercanti» (Händler), l’individualismo estetico contro l’universalismo morale, lo slancio mistico contro la disciplina etica, lo spirito contro la politica. Riusciva soprattutto a trasformare in virtù la devozione antipolitica del tedesco, la sua tradizionale impoliticità (Unberufenheit zur Politik), celebrandola come liberazione dalla schiavitù del mondo (Weltversklavung) e conquista della vera libertà e sovranità sul mondo (Weltherrschaft), tutta spirituale e per nulla politica. Insomma, si chiamava fuori dalla civilizzazione occidentale, dalla politicizzazione della vita, dalla turba dei letterati neoumanisti, per proclamarsi cittadino di una repubblica superiore: quella dello spirito, della religione, dell’arte, della filosofia. E con malcelato orgoglio nazionale dichiarava:

 

 

La “germanicità” è cultura, anima, libertà, arte, e non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura (Th. Mann, 1997: 51).

 

 

Questa contrapposizione chiaramente nietzscheana, che sottolinea la componente ctonia, irrazionale e demoniaca della vita e avvicina Thomas Mann alla letteratura conservatrice, a Hofmannsthal, Spengler, Ernst Jünger, rimane presente anche nella sua opera successiva, ma è stemperata e purificata delle sue asprezze antiumanistiche, antidemocratiche e antipolitiche. Già in Sulla repubblica tedesca (Von Deutscher Republik, 1922), e poi con maggiore risolutezza in La Germania e i tedeschi (Deutschland und die Deutschen, 1945), paventando di avere fornito armi all’oscurantismo, Thomas Mann fa un passo indietro rispetto alla Weltanschauung metafisico-individualistica e si orienta decisamente verso una considerazione più responsabile della politica. Dichiara però di avere cambiato pensieri, ma non il proprio sentire, e nemmeno la sua passione per Nietzsche, di cui avverte ora tutta l’esplosiva pericolosità.

Nietzsche era per Thomas Mann un pensatore che aveva vissuto la filosofia non come «fredda astrazione» ma come «esperienza, sofferenza, sacrificio per l’umanità», e in questo modo aveva sentito e preavvertito il nuovo. La sua figura tragica, amletica, gli appariva «circondata dal fiammeggiare dei lampi di un mondo che si rinnova» (Th. Mann, 1980: 104), ed egli si servì della diagnosi nietzscheana del nichilismo per mettere a fuoco la propria rappresentazione della crisi. Ma, preoccupato com’era di riesumare i tanto calpestati valori della tradizione umanistica, finì inevitabilmente per considerare il nichilismo estetico nietzscheano con la sua esaltazione romantica del male e la sua distruzione della morale come una pericolosa fantasmagoria. Rispetto alle forze demoniache che Nietzsche evocava, rispetto alla lotta da lui scatenata dell’istinto contro la ragione, Thomas Mann dichiarava:

 

 

Chi prende sul serio Nietzsche, chi lo prende alla lettera e gli crede, è perduto (Th. Mann, 1968: III, 46; cfr. 1980: 100).

 

 

Nondimeno, pur mantenendo le distanze da lui e soprattutto dai «diecimila professori dell’irrazionale che, alla sua ombra, sono spuntati come funghi in tutta la Germania» (Th. Mann, 1980: 102), egli riconosceva che Nietzsche aveva visto giusto quando aveva indicato nella discrasia tra il dionisiaco e l’apollineo, tra l’istinto e la ragione, tra la vita e lo spirito, la scaturigine delle malattie della civiltà. Andando oltre Nietzsche, cioè oltre il «tragico fato» che egli aveva rappresentato, si trattava di ricostruire la ragione su nuove basi e di conquistare un nuovo e più profondo concetto di humanitas, capace di soddisfare le esigenze della vita cui Nietzsche aveva dato la stura.

Meno appariscente e più silenziosa, ma non meno importante, è la ricezione del nichilismo nietzscheano in Robert Musil. Al pari di molti altri scrittori della sua generazione, Musil lesse Nietzsche giovanissimo, a diciotto anni. In L’uomo tedesco come sintomo (Der deutsche Mensch als Symptom, 1923) dichiara egli stesso che Nietzsche era stato, assieme a Marx, Bergson, Bismarck, tra le figure che più avevano influito sulla formazione dell’anima tedesca dal 1890 ai propri giorni (Musil, 1978: 1355). E questa dichiarazione va intesa nel senso forte che risulta da un’altra sua affermazione di pochi anni prima (1918):

 

 

Kant può essere vero o falso. Epicuro o Nietzsche non sono né veri né falsi, ma sono vivi o morti (Musil, 1986: 67).

 

 

Tuttavia, diversamente da quanto accadde in molti altri scrittori della sua generazione, lo sfruttamento musiliano di Nietzsche non è ostentato, non si fa forte di tesi e proclami, ma procede latente ed è sempre accompagnato da una vigile attenzione per i pericoli del nietzscheanismo epigonale. Contro il quale egli lancia volentieri gli strali della sua sottile ironia, come nel caso di Spengler, criticato nelle sue «note per i lettori scampati al tramonto dell’Occidente» intitolate Spirito ed esperienza (Geist und Erfahrung, 1921), o in quello delle storie universali della decadenza prese di mira nell’Europa abbandonata a se stessa (Das hilflose Europa, 1922). Ciò non impedisce a Musil di fare nel suo capolavoro abbondanti riferimenti a Nietzsche – basti, per tutti, l’esempio di Clarissa con il suo dichiarato entusiasmo per le opere del filosofo scrittore – ma anche di elaborare, nelle modalità proprie del romanzo, motivi nietzscheani come l’analisi della decadenza e delle sue manifestazioni, la critica della morale e dei valori tradizionali, il prospettivismo, l’estetismo, la genialità e le patologie della creatività artistica, infine il superamento del nichilismo mediante l’esistenza sperimentale dell’artista.

Ancora più netto, nella storia della fortuna di Nietzsche, è il caso di Hermann Broch. La sua produzione letteraria, notoriamente alimentata da una articolata riflessione filosofica sulla «disgregazione dei valori» (Zerfall der Werte), è impensabile senza la teorizzazione nietzscheana del nichilismo. Pur prendendone nettamente le distanze, Broch riconosce che Nietzsche ha ragione nell’assumere la decadenza dei valori come chiave di volta per capire la crisi contemporanea. Gli rimprovera però di avere semplicemente capovolto, con la sua «scepsi gnoseologica», i vecchi valori e di non avere saputo crearne di nuovi. Nietzsche sarebbe rimasto entro un orizzonte «isomorfo» rispetto a quello tradizionale, cioè non sarebbe veramente uscito dalla prospettiva dei valori che intende criticare e li avrebbe semplicemente riproposti in forma rovesciata. Influenzato dal neokantismo, nel saggio Ethik (1914) scritto prendendo spunto dal libro su Kant di Houston Stewart Chamberlain, Broch asserisce per contro che il Kant della ragione pratica, con la sua «scepsi eroica» demolitrice degli edifici del dogmatismo, avrebbe aperto un «nichilismo ben più profondo» e operato un «rovesciamento dei valori ben più radicale» di Nietzsche. Con la sua determinazione della libertà egli avrebbe dato corso «alla scepsi più potente di tutti i tempi» (Broch, 1977: X/1, 246-47). Ma la ragione più profonda per la quale Broch si allontana definitivamente da Nietzsche è il primato dell’etica sull’estetica che egli intende affermare, modificando contestualmente anche la funzione dell’arte: in Nietzsche essa è funzione della vita nichilisticamente concepita come pura volontà di potenza, in lui diventa invece espressione e apertura di verità. Mentre per Nietzsche la «verità», se mai di verità è lecito parlare, è quella «specie di errore», quella finzione necessaria come strategia di sopravvivenza nel mezzo del divenire e del suo eterno ritornare, per Broch essa si situa piuttosto nell’atemporalità propria dell’«immagine originaria» (Urbild) che la creazione artistica ha il compito di far risplendere.

Chi invece assunse verso il «modello Nietzsche» un atteggiamento di ammirazione ed emulazione pressoché incondizionate è Gottfried Benn. Già nel 1935, in una lettera all’amico Oelze del 16 settembre, scriveva:

 

 

Nietzsche è stato grande, nulla di più grande ha visto questo secolo. Ed esso non è stato più grande di Nietzsche, che lo ha abbracciato tutto e ha coinciso con esso. È il Reno – o il Nilo, in questo momento non lo so di preciso –, il vecchio barbuto su cui tutto brulica, la figura sdraiata da cui si dipartono le varie specie: questo è stato Nietzsche per noi tutti, senza eccezione (Benn, 1977-80: I, 71).

 

 

Dopo la guerra, nella conferenza radiofonica Nietzsche cinquant’anni dopo, che sta agli antipodi di quella del 1947 di Thomas Mann, Benn ribadiva senza esitazioni il suo giudizio. E lo faceva senza troppo curarsi della «pericolosità politica» di Nietzsche che in clima di «rieducazione» (Umerziehung) molti si affrettavano a denunciare. Non tanto perché Nietzsche stesso, con lungimiranza, l’aveva parata dicendo che avrebbe voluto erigere steccati intorno ai propri pensieri affinché «porci ed esaltati» non irrompessero nei suoi giardini. Ma soprattutto perché Nietzsche rimaneva per Benn, nonostante tutto, «la gigantesca figura dominante dell’epoca post-goethiana» e «dopo Lutero il più grande genio della lingua tedesca», colui che aveva sofferto e anticipato tutte le esperienze spirituali decisive dei tempi moderni, prima fra tutte quella del nichilismo e del suo superamento mediante l’arte (Benn, 1992: 254-55). Nell’autobiografia del 1949 dichiara:

 

 

In verità tutto ciò che la mia generazione discusse, tutto ciò con cui interiormente si confrontò, si potrebbe dire: che patì, o anche: che discusse in lungo e in largo – tutto questo si era già espresso ed esaurito e aveva trovato una formulazione definitiva in Nietzsche. Tutto il resto fu esegesi (Benn, 1986-91: V, 160).

 

 

L’esperienza decisiva anticipata da Nietzsche è quella del nichilismo e del nuovo tipo d’uomo in grado di reggere alle ondate del nulla.

 

 

Nietzsche (...) inaugurò «il quarto uomo» del quale adesso tanto si parla, l’uomo con la «perdita del centro», di un centro che romanticamente si cerca di risvegliare. L’uomo senza contenuto morale e filosofico che vive per i princìpi della forma e dell’espressione. È un errore ritenere che l’uomo abbia ancora un contenuto o debba averne uno (...) non esiste anzi più affatto l’uomo, esistono ormai soltanto i suoi sintomi (Benn, 1992: 264).

 

Nella prospettiva delle frantumazioni prodotte dal nichilismo Benn cerca di spiegare anche lo stile aforistico di Nietzsche:

 

 

Adesso capisco – comunica a Oelze il 27 dicembre 1949 – perché Nietzsche scriveva per aforismi. Chi non vede più connessioni, più alcuna traccia di un sistema, può ancora procedere solo per episodi (Benn, 1990: 81).

 

 

È una congettura, questa, tutta da verificare: perché dire che la verità non può stare nel frammento significa indirettamente presupporre che il discorso prolisso la contenga tutta. Ma ciò che qui importa è che al disorientamento e al vuoto causati dal nichilismo Benn reagisce, sulle tracce di Nietzsche, con la forza della creatività artistica, con la metafisica dell’espressione e della forma. L’arte è l’atteggiamento capace di corrispondere all’impulso della forza dionisiaca della vita, di esprimerne il perenne fluire e l’ineludibile prospetticità. Questo perché l’arte produce la forma, cioè lo scorcio creativo che penetra la realtà del divenire meglio di quanto possa fare il concetto metafisico di verità. Nell’ottica dell’artista il destino del nichilismo – più che «sopportato virilmente» come voleva Weber – va vissuto fruendone e godendone: «Il nichilismo è un sentimento di felicità» (Benn, 1986-91: IV, 185). In una età «in cui non lo spirito di Dio aleggia sulle acque, bensì il nichilismo» vale quindi per Benn la tesi di Nietzsche «che l’arte è l’unica attività metafisica alla quale la vita ci obblighi ancora» (Benn, 1992: 155). Questo motivo centrale, che Benn riprende quasi alla lettera dal frammento 853 della Volontà di potenza, lo si ritrova più volte nei suoi scritti, toccato e svolto in variazioni diverse. Esso ha il suo corrispettivo speculare nell’altra tesi nietzscheana, anch’essa fatta propria da Benn, secondo la quale il mondo si giustifica soltanto come «fenomeno estetico». Ciò dà corpo a un estetismo che Benn fonde con un altro motivo-pilastro del suo pensiero, quello dell’isolamento monologico e della radicale estraneazione dell’io dal mondo. In Cervelli (Gehirne, 1915) ne troviamo l’espressione letteraria più bruciante e nella poesia Due cose soltanto (Nur zwei Dinge), che sono «il vuoto e l’io che ne resta segnato», ne abbiamo invece il condensato più intenso, una sorta di suggello che nel 1956 Benn porrà sulla sua opera.

Ma dal momento che l’identificazione con il «modello Nietzsche» non è in Benn affatto epigonale, bensì produttiva, si hanno inevitabilmente anche la trasformazione e la distanza. Per Benn, ad esempio, la «forza ctonia» della vita non vuole solo conservarsi e accrescersi come in Nietzsche, ma anche perire. Vita e morte, eros e thanatos, sono indissolubilmente congiunte. Per questo Benn ritiene che l’arte non si esaurisca nell’essere una semplice funzione della vita, ma debba giungere a riscattare la vita cristallizzandola in forme statiche. Di qui il suo approdo a una «metafisica statica» dell’essere che lo distacca dalla nietzscheana esaltazione del divenire. Un esperimento estetico-metafisico, questo, che vorrebbe proiettarsi oltre il nichilismo. Certo è che, al di là di quese sue aspirazioni post-nichilistiche, Benn rimane – assieme a Jünger, Heidegger e Carl Schmitt – tra coloro che hanno sperimentato a fondo il destino nichilistico del Novecento e che hanno tentato di aprire vie e prospettive per uscirne.

 

 

 

Il  nichilismo europeo nella storia dell’essere: Heidegger e Nietzsche

 

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«Guardo talvolta la mia mano, pensando che ho in mano il destino dell’umanità: lo spezzo invisibilmente in due parti, prima di me, dopo di me...» (VIII, iii, 409).

 

 

Queste parole di esaltazione, vergate da Nietzsche poco prima della crisi finale in un frammento del 1888, emanano una singolare fosforescenza: una luce che attrae ma che non basta a illuminare. Al contrario, sono parole che, poste quasi a suggello della sua opera, la oscurano con lo schermo del narcisismo e della follia. Chi voglia penetrarne il senso non può esimersi da un arduo lavoro di interpretazione e di confronto, altrimenti non resta che liquidarle imputandole all’insondabilità dell’obnubilamento mentale.

Il frammento successivo – secondo l’ordine cronologico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, che qui si rivela prezioso – insiste sul medesimo motivo e lo svolge in una inquietante sequenza che, pressoché immutata, forma l’esordio del celebre capitolo «Perché io sono un destino» di Ecce homo:

 

 

Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione di coscienze, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato... Io vengo a contraddire, come mai si è contraddetto... Perché ora che la verità dà battaglia alla millenaria menzogna, avremo degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti, monti e valli che si spostano, come mai prima si era sognato... ci sarà guerra come mai prima sulla terra... (VI, iii, 375-76; cfr. VIII, iii, 409-10).

 

 

Questo monologo ossessivo, in cui Nietzsche eleva la sua visione a profezia, ci mette letteralmente davanti agli occhi lo scandalo che il suo pensiero ha rappresentato per l’autocomprensione critica del nostro tempo. Nietzsche ha toccato punti nevralgici della nostra condizione storica: la morte di Dio e lo svanire dei valori tradizionali, la perdita del centro e il frantumarsi di antiche identità, la radicale esperienza del negativo e l’impraticabilità di ogni sintesi dialettica, quindi l’impossibilità di dare un nome all’intero. Ma nel contempo ha trasmesso al suo discorso una vibrazione così stridula ed estrema da rendere difficile, se non impossibile, interpretare il disperato messaggio che egli intendeva trasmettere.

Fra tutti coloro che nel Novecento si sono cimentati con Nietzsche, Heidegger è certamente colui che, oltre ad averne subito come pochi il fascino, ha ingaggiato nel corso del proprio cammino speculativo il confronto filosofico più serrato e profondo con i problemi che l’opera nietzscheana solleva. I risultati da lui raggiunti giganteggiano nel panorama delle interpretazioni succedutesi nel Novecento. In una magistrale e imponente interrogazione dei testi egli è riuscito a tracciare i contorni di una lettura che connette in un insieme coerente le dottrine fondamentali di Nietzsche e le riporta nell’alveo della filosofia occidentale. E lo fa assegnando loro una funzione di invisibile spartiacque – tra compimento della metafisica e nuovo inizio – che Nietzsche stesso, nel frammento dianzi citato, si era profeticamente assegnato. Al tempo stesso Nietzsche è diventato per Heidegger un termine di confronto decisivo in merito alla «cosa stessa» che nel pensiero è in questione. Ma quando, come e perché Heidegger ha incrociato sul suo cammino Nietzsche?

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: Il  primo interesse di Heidegger per Nietzsche

 

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Stando alla testimonianza autobiografica fornita da Heidegger in diverse circostanze – nel discorso tenuto in occasione della sua nomina a membro dell’Accademia delle Scienze di Heidelberg (1957), nella prefazione alla riedizione dei suoi scritti giovanili (1972), che riprende la sostanza di quel discorso, quindi in Il mio cammino nella fenomenologia (Mein Weg in die Phänomenologie, 1963) – ciò avvenne assai presto, anche se l’incontro non fu subito decisivo.

Formatosi sugli arcigni paragrafi di Husserl, su Brentano, su Aristotele e sui classici della Scolastica, specialmente Tommaso d’Aquino, Duns Scoto e Suárez, egli ricorda di essere stato sfiorato in gioventù dall’aura che l’opera di Nietzsche emanava nella cultura primonovecentesca. E menziona tra gli eventi significativi che ravvivarono l’atmosfera filosofica in Germania agli inizi del secolo, all’epoca della propria formazione – oltre alla traduzione in tedesco di Kierkegaard e Dostoevskij (quest’ultima a cura di Arthur Moeller van den Bruck e Dmitri Merežkovskij), oltre al crescente interesse per Hegel e Schelling, all’edizione delle opere complete di Dilthey, alla poesia di Rilke e di Trakl – soprattutto la pubblicazione dei frammenti postumi di Nietzsche nella controversa compilazione della sorella, La volontà di potenza (Der Wille zur Macht), apparsa dapprima nel 1901, in una seconda edizione più che raddoppiata nel 1906, infine con gli apparati di Otto Weiß nel 1911 (cfr. HGA, I, 56). Sappiamo inoltre che durante gli studi universitari a Friburgo Heidegger frequentò le lezioni su Nietzsche di Rickert, eminente neokantiano interessato a lumeggiare l’origine del problema filosofico dei valori nel pensiero nietzscheano. Nella tesi di libera docenza La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, 1916), dedicata a Rickert, troviamo la prima fugace citazione pubblica. In essa Heidegger afferma che Nietzsche sarebbe riuscito, «nel suo modo di pensare impietosamente aspro e nella sua plastica capacità espositiva», a mostrare il radicamento soggettivo di ogni filosofia – intesa come un «valore culturale» (Kulturwert) che è al tempo stesso un «valore vitale» (Lebenswert) – in una personalità, più precisamente in quello che Nietzsche chiama l’«istinto che fa filosofia» (HGA, I, 196). Sappiamo infine, sulla scorta dei corsi universitari, che Nietzsche fu certamente presente sullo sfondo del lavoro filosofico del giovane Heidegger, se non altro perché a Nietzsche risale l’impianto di alcune posizioni filosofiche allora dominanti con le quali Heidegger si confronta, prime fra tutte la filosofia della vita (Simmel, Dilthey, Spengler) e la filosofia dei valori (Rickert e più tardi Scheler). Tuttavia, per trovare un primo riferimento significativo a Nietzsche bisogna attendere Essere e tempo. Fino ad allora, a giudicare dalle occorrenze sparse che si possono rintracciare, si ha l’impressione di una presenza più avvertita che effettivamente sondata, si percepisce l’atmosfera della crisi evocata da Nietzsche, che anche Heidegger respira e che condiziona il pathos del suo filosofare, ma non si nota ancora il riferimento preciso al corpus dei testi e dei frammenti nietzscheani.

Si è visto come la ricezione dell’opera di Nietzsche contribuisse a caratterizzare il clima dell’epoca, con il suo nichilismo e relativismo, il suo disincanto e il suo Kulturpessimismus. I problemi apertisi nel «dopo Nietzsche» dovevano inevitabilmente incrociare la riflessione del giovane Heidegger che – mosso da esigenze filosofiche autentiche, soprattutto dallo studio dell’esperienza protocristiana dell’esistenza e dal confronto con la filosofia pratica di Aristotele – si preoccupava di elaborare una comprensione genuina della vita umana al suo livello originario. I programmi filosofici di una «scienza preteoretica originaria» (vortheoretische Urwissenschaft) o «scienza preliminare» (Vorwissenschaft) nel semestre del dopoguerra del 1919, quello di una «ermeneutica della fatticità» (Hermeneutik der Faktizität) nel semestre estivo del 1923, poi l’«analitica dell’esistenza» (Daseinsanalyse) in Essere e tempo, infine la «metafisica dell’esserci» (Metaphysik des Daseins) nel libro su Kant del 1929, cioè le prime tappe del suo cammino speculativo, altro non sono che altrettanti tentativi di soddisfare questa esigenza.

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: La  comparsa di Nietzsche in «Essere e tempo»

 

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Bisogna tuttavia attendere Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927) per trovare una esplicita citazione di Nietzsche. Tre sono le volte in cui è nominato, ma una in particolare è importante. Verso la fine della parte pubblicata dell’opera, nel contesto della trattazione del problema della storicità dell’esserci (par. 76), Heidegger si richiama alla seconda delle Unzeitgemäße Betrachtungen (Considerazioni inattuali) rievocando la triplice pratica della storia che vi è teorizzata: monumentale, antiquaria e critica. Qui, finalmente, Nietzsche è menzionato in un punto e per una questione decisivi. Ma in termini che appaiono altalenanti e ambivalenti: Heidegger alterna approvazione e rifiuto, valutazione positiva e reticenza.

Mediante la sua triplice articolazione dell’esperienza storiografica Nietzsche avrebbe colto l’aspetto essenziale della storiografia, i suoi vantaggi e svantaggi per la vita, illustrandoli in modo ficcante e persuasivo. Subito dopo Heidegger corregge però l’elogio: né la necessità della triplice articolazione dell’esperienza storiografica né il fondamento della sua unità sarebbero stati individuati e mostrati da Nietzsche in termini sufficienti. Come egli spiega, con una tesi significativamente posta in corsivo, Nietzsche non avrebbe visto che «la triplicità della storiografia è prefigurata nella storicità dell’esserci». Ma dopo un paio di righe, daccapo, il giudizio limitativo è ridimensionato: benché a un esame filosofico non risulti abbastanza radicale, la suddivisione di Nietzsche non è accidentale. Essa ha le proprie buone ragioni di essere che derivano dalla cosa stessa in questione, ossia dalla struttura della storicità dell’esistenza umana. Dunque, in fondo, Nietzsche ha intuito e colto il problema. Anzi, Heidegger azzarda l’impegnativa attribuzione a Nietzsche di un’ermeneutica della reticenza: l’inizio della seconda Considerazione inattuale fa supporre che Nietzsche abbia compreso molto più di quanto abbia detto.

A questo punto Heidegger conclude la digressione su Nietzsche e riprende l’analisi della storicità facendo proprie le tre determinazioni nietzscheane della monumentalità, antiquarità e criticità secondo la tipica strategia appropriativa che contraddistingue il suo modo di fare i conti con pensatori del passato per lui importanti, cioè mirando non alla ricostruzione storiografica della loro filosofia, bensì a cogliere la logica dei problemi da loro individuati e a sollecitarne una formulazione più radicale ai fini del proprio progetto filosofico. Una strategia praticata fino ad allora soprattutto nei confronti di Aristotele e di Kant, e che per forza di cose risulta ambivalente: perché l’appropriazione implica l’assunzione e l’assimilazione, ma anche lo scarto e la trasformazione.

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: Il  punto di svolta

 

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Malgrado tale sforzo appropriativo, all’epoca di Essere e tempo Nietzsche non è ancora un pensatore decisivo. Ma lo diventerà ben presto. È Heidegger stesso a indicare quando. Nel presentare i suoi due volumi su Nietzsche egli asserisce che quest’opera, comprendente testi concepiti tra il 1936 e il 1946, offre un’idea del cammino da lui percorso dal 1930 al 1947: Heidegger indica così indirettamente che già agli inizi degli anni Trenta Nietzsche era diventato un termine di confronto fondamentale per il suo pensiero. Oggi, sulla scorta dei testi pubblicati nella Gesamtausgabe, possiamo individuare ancora più precisamente il punto di svolta, situabile nel corso universitario del 1929-30. Qui Nietzsche compare in due punti significativi: una prima volta, quando un’intera lezione è impiegata per mostrare come le critiche della civiltà di Spengler, Klages, Scheler e Ziegler dipendano nel loro impianto filosofico da Nietzsche, e precisamente dall’antitesi tra apollineo e dionisiaco che tutti costoro tacitamente riprendono in declinazioni ogni volta diverse, utilizzandola come categoria di filosofia della storia per una critica del presente (HGA, XXIX-XXX, par. 18). Nietzsche compare poi un’altra volta alla fine del corso, quando Heidegger chiude in bellezza le sue lezioni recitando il «trunknes Lied» dello Zarathustra.

Queste due menzioni sono segnali inconfondibili dell’incipiente avvicinamento a Nietzsche, che avviene mentre Heidegger sta progressivamente radicalizzando il distacco dalla tradizione metafisica e trova nel pensiero nietzscheano, e nella sua attitudine decostruttiva, un termine di confronto decisivo. Proprio all’inizio del corso del 1929-30 Heidegger mette in chiaro la struttura onto-teo-logica della metafisica – illustrata anche nel libro su Kant del 1929 – e matura una consapevolezza sempre più lucida circa il carattere ancora troppo metafisico dell’«ontologia fondamentale» di Essere e tempo. Di conseguenza, quanto più egli lascia cadere gli intenti fondativi perseguiti fino ad allora, tanto più cambiano i punti di riferimento da lui scelti nella storia della filosofia occidentale. Fino a quel momento si era dedicato al confronto con pensatori fondanti – specie Aristotele e Kant, ma anche Descartes e Leibniz – cercando, mediante la distruzione fenomenologica, di appropriarsi di ciò che essi insegnano ai fini di una costruzione più radicale. Quando invece matura l’idea che la metafisica può essere superata solo lasciandola a se stessa, senza più voler cambiare niente di essa, si rivolge allora soprattutto alle figure del compimento della metafisica: cioè Nietzsche e i pensatori che rappresentano una alternativa, vuoi pre-metafisica (i Presocratici), vuoi post-metafisica (Hölderlin).

L’emergere di Nietzsche come pensatore decisivo ha dunque una sua precisa ragione filosofica. Il celebre saggio La dottrina platonica della verità (Platons Lehre von der Wahrheit, concepito agli inizi degli anni Trenta, ma pubblicato solo nel 1942), la esibisce con chiarezza: Nietzsche vi è nominato come colui che porta a compimento la tradizione metafisica iniziatasi con Platone, in quanto, pur rovesciando il platonismo, ossia la dottrina dei due mondi, quello intelligibile postulato come mondo vero e quello sensibile considerato invece solo apparente, egli rimane entro l’orizzonte di pensiero che pretende di rovesciare, e per questo è definito «il platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale» (Heidegger, 1987: 182).

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: Nietzsche  nel 1933

 

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Una terza menzione – dopo quella nella tesi di libera docenza e quella in Essere e tempo – conferma che Nietzsche era ormai diventato per Heidegger un riferimento costante. Essa si trova nel famigerato discorso su L’autoaffermazione dell’università tedesca (Die Selbstbehauptung der deutschen Universität), tenuto il 27 maggio 1933 in occasione dell’assunzione del rettorato. Heidegger vi menziona per inciso la sentenza nietzscheana sulla morte di Dio. L’importanza dell’occasione e il fatto che sia nominata un’esperienza centrale come quella della negatività, di cui Heidegger intende farsi carico in termini filosofici, rendono l’accenno, per quanto incidentale, assai significativo. Al fine di conferire intelligibilità al «grande mutamento» che «la nostra stessa esistenza storica più propria si trova dinanzi» Heidegger evoca la testimonianza di Nietzsche, chiamandolo in causa come l’«ultimo filosofo tedesco che ha cercato appassionatamente Dio» – quel Dio che per Heidegger è presente più intensamente laddove è vissuto come un interrogativo e un problema, che non laddove si sia trasformato in certezza – e che tuttavia nella sua diagnosi dell’età presente è giunto alla raggelante conclusione che «Dio è morto». Una tesi da prendere come invito a riflettere su «questo abbandono dell’uomo odierno in mezzo all’ente» (Heidegger, 1933: 12).

Sappiamo con quanta insistenza Heidegger abbia sottolineato la centralità di questo motivo in Nietzsche, e non solo nel celebre brano n. 125 della Gaia Scienza, «L’uomo folle», in cui la morte di Dio diventa esplicitamente la figura che simboleggia il tramonto dei valori finora supremi. Ciò che qui interessa è il fatto che Heidegger menzioni la morte di Dio come la riprova dell’abbandono dell’uomo odierno in mezzo all’ente. Egli comincia dunque a «pensare in parallelo» con Nietzsche: legge il motivo nietzscheano (la «morte di Dio») alla luce del proprio (l’«abbandono dell’uomo in mezzo all’ente») e, viceversa, elabora e corrobora questo sulla scorta di quello. Nietzsche diventa una sorta di filo conduttore e di termine di confronto per pensare in maniera radicale la negatività che inerisce all’essere.

Il problema, come è noto, era già emerso nella prolusione Che cos’è metafisica? (Was ist Metaphysik?, 1929). Si accennava in essa all’impossibilità di esperire il Niente attraverso la semplice negazione logica dell’ente, e si affermava per contro l’esigenza di averne una esperienza più originaria di quella a cui si accede mediante la predicazione logica – che per Heidegger, contro Hegel, è solo un pallido riflesso dell’immane potenza del nulla. Tale esperienza era individuata nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia. Analogamente, nella conferenza Dell’essenza della verità (Vom Wesen der Wahrheit, concepita nel 1930 ma pubblicata nel 1943) la «verità» dell’essere era pensata insieme alla «non verità» quale sua componente essenziale. Allo stesso modo l’«essenza» (Wesen) era pensata come includente la «non essenza» o «malaessenza» (Unwesen). Per inciso: è per abbracciare meglio l’intero movimento speculativo nella sua duplicità che, più o meno negli stessi anni, Heidegger inclina a un significativo spostamento terminologico: la questione del senso dell’essere, così recita l’impostazione del problema in Essere e tempo, è tacitamente riformulata come questione della verità dell’essere, in quanto quest’ultima, proprio se pensata come A-létheia e Un-verborgenheit, implica il riferimento al negativo.

Il problema della negatività giunge così ad occupare una posizione sempre più importante nelle riflessioni di Heidegger. Per metterlo in chiaro, bisognerebbe considerare i reiterati tentativi che egli intraprende per pensare l’essere nel suo sottrarsi e rifiutarsi, ed esaminare la centralità delle determinazioni Entzug e Verweigerung che vengono introdotte nel tentativo di tematizzare la struttura dell’essere. Ma ciò che qui interessa sono i pensatori con cui Heidegger si confronta: Hegel appare come il modello da tenere a distanza, in quanto la negatività non sarebbe da lui pensata in modo sufficientemente radicale e verrebbe quindi superata troppo rapidamente (per esempio all’inizio della Logica con il trapasso di essere e nulla nel divenire). Per alcuni anni, e a più riprese, Heidegger interpreta Schelling e il suo tentativo di concepire il «male» non come una obiezione nei confronti di Dio ma come una sua componente essenziale, e questo – come egli stesso scrive a Jaspers – «affannandomi in un lavoro faticoso come quello su Aristotele di quindici anni or sono» (Heidegger-Jaspers, 1990: 161). Ma è soprattutto Nietzsche l’amico-nemico con il quale ingaggiare un confronto ravvicinato sul problema: specialmente con lo Zarathustra e con la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale (si vedano nel Nietzsche le magistrali interpretazioni de «La visione e l’enigma» e «Il convalescente») egli si sforza di pensare l’esperienza della negatività attenendosi al punto di vista di una finitudine radicale.

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: Concomitanze:  Heidegger, Scheler e l’Archivio-Nietzsche

 

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Ora, a parte queste e altre ragioni filosofiche di principio, se si dovesse indagare su quali circostanze concomitanti fossero importanti per il volgersi di Heidegger a Nietzsche, ebbene, quella probabilmente più interessante, anche se finora non considerata, è l’intenso rapporto di Heidegger con Scheler negli anni 1927 e 1928, interrotto dalla morte di quest’ultimo (19 maggio 1928). Il commosso necrologio che Heidegger pronuncia a lezione, e nel quale Scheler è ricordato come colui che, assieme a Dilthey e a Max Weber, aveva lucidamente anticipato ciò che si stava profilando all’orizzonte dell’epoca, riverbera l’intensità del sodalizio filosofico tra i due (cfr. HGA, XXVI, par. 2). Quello con Scheler fu per Heidegger un dialogo stimolante e produttivo sotto più di un aspetto. Anzitutto per il progetto di una comprensione filosofica del problema dell’uomo, che Scheler affrontava nei termini di una «antropologia filosofica», Heidegger invece in quelli di una «metafisica dell’esserci». La dedica a Scheler del libro su Kant del 1929, in cui compare quest’ultima designazione, è un’eloquente testimonianza di ciò. Ma il dialogo con Scheler fu importante anche per il maturare in Heidegger di un’attenzione specifica verso il problema della tecnica che, come è noto, diventerà per lui capitale. Infine – ed è ciò che qui interessa – soprattutto per la scoperta e lo sfruttamento filosofico di Nietzsche, che Scheler aveva brillantemente promosso, tanto da meritarsi l’appellativo di «Nietzsche cristiano» (E. Troeltsch). Alla luce di questa circostanza non è un caso che quando, già nel 1932, Heidegger entrò nel comitato per l’edizione delle opere complete di Scheler – diretto da Richard Oehler e comprendente, fra gli altri, Nicolai Hartmann, Walter F. Otto e Adhémar Gelb – egli manifestasse l’intenzione di trasferire il lascito scheleriano presso l’Archivio-Nietzsche di Weimar.

I rapporti di Heidegger con l’Archivio-Nietzsche, e il suo coinvolgimento nel progetto di una riedizione dei frammenti postumi della Volontà di potenza, sono l’altra importante circostanza che va tenuta presente. Già alla fine degli anni Venti Heidegger aveva avuto qualche contatto con l’Archivio, anche per via dell’edizione delle opere di Scheler, il cui direttore, Richard Oehler (1878-1948), parente di Nietzsche, era contemporaneamente uno dei principali collaboratori di Elisabeth Förster-Nietzsche e dell’Archivio di Weimar. La prima visita di Heidegger all’Archivio ebbe luogo nel maggio del 1934 per una circostanza casuale, cioè per il fatto che Carl August Emge, docente di filosofia del diritto nella vicina Jena e presidente del comitato scientifico dell’edizione storico-critica delle opere e delle lettere di Nietzsche pubblicata dall’editore Beck, aveva convocato presso l’Archivio di Weimar, dal 3 al 5 maggio 1934, la riunione del comitato di filosofia del diritto dell’Akademie für Deutsches Recht di cui Heidegger era membro. In quell’occasione Heidegger fu ricevuto a Weimar da Elisabeth, visitò l’Archivio e prese visione dei manoscritti.

Dopo la morte di Elisabeth (8 novembre 1935) Emge – fallito il suo tentativo di contrastare l’influenza dei parenti di Nietzsche, cioè degli Oehler, nella direzione dell’Archivio annettendolo all’Accademia delle Scienze prussiana – si dimise sia dal direttivo sia dal comitato scientifico. Fu seguito in questa decisione da Spengler che già il 22 settembre aveva comunicato alla sorella le proprie dimissioni dal direttivo e che, con Emge, uscì anche dal comitato scientifico. A rimpiazzare queste defezioni fu eletto nel direttivo Walter F. Otto, già membro del comitato scientifico dal 1933. Questi, a sua volta, fece eleggere Heidegger nel comitato scientifico. Heidegger rimase in carica fino al 26 dicembre 1942, data in cui comunicò al presidente Richard Leutheußer le proprie dimissioni con la seguente lettera, oggi esposta nelle vetrine del restaurato Archivio-Nietzsche di Villa Silberblick a Weimar:

 

 

Egregio signor Ministro,

dichiaro con la presente la mia uscita dal comitato scientifico per l’edizione delle opere di Friedrich Nietzsche.

I miei lavori preliminari, durati anni, per la nuova edizione della Volontà di potenza sono stati portati a termine.

I volumi inviatimi dell’edizione finora pubblicata sono a disposizione dell’Archivio.

La prego personalmente, signor Ministro, di voler scusare questo passo resosi oggettivamente necessario.

Al tempo stesso La prego di voler rendere nota la mia uscita ai signori del comitato.

Rimango, signor Ministro, con esimia stima

il Suo devotissimo

[firmato:] M. Heidegger.

 

 

L’attività principale di Heidegger – come si ricava dalla lettera – avrebbe dovuto consistere nella preparazione di una nuova edizione della Volontà di potenza, che proprio Walter F. Otto, in una riunione del 5 dicembre 1934, aveva auspicato come «straordinariamente importante ma altrettanto difficile» in quanto avrebbe dovuto «presentare per la prima volta i frammenti stesi nel contesto della Volontà di potenza senza interventi redazionali, esattamente così come si trovano nei quaderni manoscritti, difficilissimi da leggere e che vanno ora decifrati di nuovo» (Hoffmann, 1991: 105).

È difficile stabilire in quale misura Heidegger si impegnasse nel lavoro di edizione vero e proprio, anche perché l’interesse che lo animava era sicuramente più speculativo che filologico. Il 20 dicembre 1935 scrive per esempio a Elisabeth Blochmann:

 

 

Dovrei far parte del comitato per la grande edizione di Nietzsche; anche in questo non sono ancora deciso; in ogni caso collaborerei solo come consulente (Heidegger-Blochmann, 1989: 87).

 

 

E il 16 maggio 1936 annuncia a Jaspers, congratulandosi per il suo libro su Nietzsche, fresco di stampa:

 

 

Dall’autunno scorso – assai di malavoglia, ma per amore della cosa stessa – sono nella commissione per l’edizione di Nietzsche. Mi preoccuperò, secondo le mie forze, che i Suoi desiderata non restino meri auspici (Heidegger-Jaspers, 1990: 160).

 

 

Sta di fatto che dal 1936 al 1938 Heidegger si recò a Weimar un paio di volte l’anno per partecipare alle riunioni del comitato scientifico, lavorò sui manoscritti e inoltrò all’Archivio diverse interrogazioni circa la datazione precisa di alcuni frammenti (a cui rispose Karl Schlechta, il principale curatore dell’edizione storico-critica allora in corso). Questo, peraltro, ci consente di capire meglio perché Heidegger nei suoi corsi universitari, in punti decisivi, entri nel merito di questioni cronologiche e filologiche, e giudichi criticamente, con cognizione di causa, l’edizione della Volontà di potenza. Da quanto poi egli afferma nella lettera di dimissioni sembra che i «lavori preliminari», durati anni, fossero stati «portati a termine».

Le ragioni per le quali Heidegger abbandonò il progetto della nuova edizione e uscì dal comitato scientifico non risultano dalla lettera a Leutheußer, nella quale le dimissioni sono presentate semplicemente come «un passo resosi oggettivamente necessario». Ci si può attenere, per ora, all’ipotesi formulata da Marion Heinz, curatrice del corso universitario del 1937. Da un appunto manoscritto annotato da Heidegger su una comunicazione circolare dell’Archivio-Nietzsche del 27 ottobre 1938, Marion Heinz inferisce che la ragione delle dimissioni di Heidegger stesse nell’atteggiamento supino dell’Archivio-Nietzsche nei confronti della Reichschriftumskammer, l’organo che vigilava su quanto si pubblicava in Germania. Per evitare che l’edizione di Nietzsche fosse esclusa dalle opere sovvenzionabili, si decise – sembra contro il parere di Heidegger, che proponeva una diversa strategia – di sottoporre i volumi, prima della pubblicazione, all’approvazione dell’organo nazionalsocialista. Sulla menzionata circolare Heidegger annota:

 

 

C’era da aspettarselo; di conseguenza diventa impossibile la mia collaborazione alla commissione per l’edizione, d’ora in poi lavorerò soltanto per l’opera di Nietzsche – indipendentemente dall’edizione (HGA, XLIV, 253-54).

 

 

A questo si può aggiungere la testimonianza di Ernesto Grassi, che racconta di avere fatto visita un giorno a Heidegger e di averlo trovato molto rabbuiato. Alle sue domande circa la ragione del suo stato d’animo, Heidegger gli avrebbe confidato: «Ho lavorato a lungo a una nuova sistemazione degli scritti nietzscheani della Volontà di potenza, in contrapposizione a quella lasciataci dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth Förster: stamane ho distrutto i miei appunti» (Grassi, 1988: 26).

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: I  corsi universitari su Nietzsche dal 1936 al 1940

 

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Fu ciò che in effetti avvenne. Fin dall’inizio, comunque, l’approccio di Heidegger a Nietzsche era essenzialmente orientato al confronto filosofico, rispetto al quale il lavoro filologico doveva servire da supporto. L’interesse di Heidegger per Nietzsche sbocciò verso la metà degli anni Trenta, in un periodo in cui si era acceso un significativo dibattito pro et contra Nietzsche. Dopo le monografie di Ernst Bertram (Nietzsche. Versuch einer Mythologie, Bondi, Berlin 1918), Ludwig Klages (Die psychologischen Errungenschaften Nietzsches, Barth, Leipzig 1926) e Alfred Baeumler (Nietzsche. Der Philosoph und Politiker, Reclam, Leipzig 1931), si erano avute allora alcune interpretazioni filosofiche destinate a lasciare il segno: anzitutto quella di un allievo di Heidegger, cioè Karl Löwith (Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Die Runde, Berlin, 1935); poi quella di Karl Jaspers (Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1936); e infine la serie di seminari sullo Zarathustra tenuti a Zurigo dal 1934 al 1939 da Carl Gustav Jung.

Proprio a Jaspers, nella già citata lettera del 16 maggio 1936, Heidegger scrive di avere annunciato per il semestre invernale 1936-37 un corso sulla Volontà di potenza e aggiunge:

 

 

Sarà la mia prima lezione su Nietzsche. Ora che però è uscita la Sua opera non c’è bisogno che io faccia questo tentativo; giacché l’intenzione era proprio quella che nella prefazione Lei esprime in modo chiaro e semplice: mostrare che è tempo di passare dal leggere Nietzsche a lavorare su di lui. Nella prossima ora di lezione posso rimandare alla Sua opera che per di più è alla portata delle tasche degli studenti. E per il semestre invernale sceglierò un altro corso (Heidegger-Jaspers, 1990: 160).

 

 

In realtà, ben lungi dall’accontentarsi dell’interpretazione di Jaspers, che anzi criticherà con decisione (Heidegger, 1994: 37 sgg.; HGA, XLVIII, 28, nota), nel semestre invernale Heidegger tenne il primo di un’intera serie di corsi su Nietzsche nei quali sviluppa un confronto che lo terrà impegnato per un decennio, dal 1936 al 1946, e i cui risultati saranno raccolti nell’opera del 1961. Fu probabilmente il decennio più drammatico nell’esistenza di Heidegger, segnato da una profonda crisi avvenuta nel 1938, nel mezzo dell’estenuante corpo a corpo con i testi nietzscheani e quando ormai aveva concluso la grande opera lasciata inedita, i Contributi alla filosofia (Beiträge zur Philosophie, 1936-38), e da una nuova crisi, dopo la fine della guerra, per la pesante situazione personale in cui si era venuto a trovare.

La serie di corsi su Nietzsche è davvero impressionante, se si pensa che per ben quattro anni, dal 1936-37 fino al 1940, Heidegger tenne lezione quasi esclusivamente su Nietzsche. Una insistenza che è indice della caparbietà con la quale egli si arrovellò sui problemi che l’opera nietzscheana presentava, e che ha il suo pari soltanto nel tentacolare confronto con Aristotele durante il primo insegnamento di Friburgo e nei primi anni a Marburgo. Ripercorriamo, per chiarezza, la serie dei corsi.

1) Nel semestre invernale 1936-37 Heidegger annunciò due ore settimanali di lezione con il titolo «Nietzsche. La volontà di potenza». In occasione della pubblicazione del corso – nel Nietzsche del 1961 e nell’ambito della Gesamtausgabe (vol. XLIII) – tale titolo è stato specificato in «La volontà di potenza come arte» sia perché il corso tratta effettivamente l’ultimo capitolo del terzo libro della Volontà di potenza, dedicato al problema dell’arte, sia per distinguerlo dal corso del semestre estivo 1939 che tratta anch’esso della volontà di potenza, ma come conoscenza, tema del primo capitolo del terzo libro dell’opera.

2) Nel semestre estivo 1937, al posto del corso in un primo tempo annunciato: «La verità e la necessità della scienza», Heidegger decise di continuare il confronto con Nietzsche e annunciò un nuovo corso di due ore settimanali: «La posizione metafisica di fondo di Nietzsche», accompagnandolo con esercitazioni anch’esse su Nietzsche («Über Sein und Schein»). Nel manoscritto, e a lezione, specificò poi il contenuto con un sottotitolo: «L’eterno ritorno dell’uguale», divenuto nel libro del 1961 l’unico titolo, mentre nella Gesamtausgabe (vol. XLIV) sono riportati entrambi.

3) Nel semestre estivo 1939, dunque dopo un apparente intermezzo di due anni, segnato tra l’altro dalla ricordata crisi del 1938, Heidegger tenne di nuovo il suo corso principale su Nietzsche. Durante i due anni l’«assillo di Nietzsche» continuò, come comprova il fatto che nel 1938-39 Heidegger tenne una esercitazione seminariale sulla seconda Considerazione inattuale (pubblicata in HGA, XLVI). Il corso del semestre estivo 1939, il terzo della serie, di complessive venti lezioni, si intitolava «La dottrina nietzscheana della volontà di potenza come conoscenza». Nel libro del 1961 sta alla fine del primo tomo e nella Gesamtausgabe è il vol. XLVII. Qui il confronto con Nietzsche giunge a un primo importante risultato, come testimonia la circostanza che nel 1939 Heidegger stese un testo – pubblicato nell’esordio del secondo tomo del libro del 1961 (mentre ora, in HGA, XLVII, è stato riannesso al corso del 1939) – che presenta un consuntivo del lavoro svolto, mostrando in particolare la connessione delle dottrine della volontà di potenza e dell’eterno ritorno come aspetti complementari dell’«unico pensiero» di Nietzsche, cioè della sua concezione dell’ente.

4) Nel secondo trimestre 1940 il confronto fu ripreso con il corso «Nietzsche: il nichilismo europeo», pubblicato nel secondo tomo del libro del 1961 e ora anche in HGA, XLVIII.

5) Nell’agosto del 1940 Heidegger continuò a lavorare su Nietzsche preparando un ulteriore corso, «La metafisica di Nietzsche», in cui forniva una concisa esposizione d’insieme della sua interpretazione. In settembre, ottobre e dicembre rimise mano al manoscritto di questo corso previsto, che fu annunciato per il semestre invernale 1941-42. In realtà Heidegger finì poi per tenere un altro corso: «L’inno di Hölderlin Andenken». Ma inserì il testo nel libro del 1961. Oggi esso è stato ripubblicato in HGA, XL insieme al corso del semestre invernale 1944-45 «Introduzione alla filosofia. Pensiero e poesia», che tratta ampiamente di Nietzsche.

 

 

 

Heideggere e Nietzsche: Perché  il nichilismo

 

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A questo punto affiora spontaneo un interrogativo: quand’è che il termine «nichilismo» entra nel vocabolario filosofico heideggeriano, dato che in Essere e tempo (1927) ancora non compare? E quando diventa l’indice di una questione per lui cruciale? Ovvero una categoria filosofica portante?

La risposta appare scontata: da quando Heidegger incrocia il pensiero di Nietzsche. Eppure non basta, perché Nietzsche è la conditio sine qua non, ma non è tutto. Si è visto come l’interesse per il pensiero nietzscheano sia presente fin dagli inizi del cammino filosofico di Heidegger, già dalla lettura giovanile della Volontà di potenza, come diventi poi esplicito in Essere e tempo e si faccia ancora più chiaro verso la fine degli anni Venti, specie nel corso del 1929-30. Ma fin qui, malgrado Nietzsche, il termine nichilismo non fa ancora la sua comparsa.

Perché esso emerga bisogna attendere che l’interesse per Nietzsche si combini con l’attenzione per la negatività che contrassegna l’epoca moderna, e in generale la storia della metafisica e la storia stessa dell’essere. Ecco che allora, ma solo allora, il nichilismo diventerà una delle categorie privilegiate per interpretare, se così si può dire, il lato notturno dell’Occidente.

La menzione apparentemente occasionale di Nietzsche nel celebre discorso su L’autoaffermazione dell’università tedesca, sopra ricordata, segnala l’intrecciarsi di questi due motivi. In tale contesto, allotrio ma significativo, Heidegger ricorda la sentenza nietzscheana sulla morte di Dio, proponendosi di pensarla fino in fondo e di farsene carico in termini filosofici. In effetti, nei corsi contigui egli matura un’attenzione sempre più determinata per l’esperienza della negatività, confrontandosi sia con la prospettiva di Hegel, che tuttavia respinge come non sufficientemente radicale perché solo logico-speculativa, sia con Nietzsche, con cui invece ingaggia un confronto ravvicinato.

È a questo punto che Heidegger inizia a usare in modo significativo il termine nichilismo. Dapprima in occorrenze sporadiche, poi in maniera tematica. Il primo indizio si incontra nel corso su Schelling dell’estate 1936, di cui esistono due versioni: quella pubblicata dallo stesso Heidegger (Schelling. Über das Wesen der menschlichen Freiheit [1809], Niemeyer, Tübingen 1971) e quella edita nella Gesamtausgabe come vol. 42 (Schelling: Vom Wesen der menschlichen Freiheit [1809], Klostermann, Frankfurt a.M. 1988).

Heidegger nomina in questo corso il fenomeno del nichilismo, ponendosi esplicitamente il problema del suo superamento. Riconosce quindi a Nietzsche il merito di avere sperimentato su di sé tutta la potenza del nichilismo, di averne elaborato una «grande conoscenza», e di avere dato avvio a un contromovimento non solo astratto, ma portatore di autentiche decisioni storiche. Qui il testo licenziato da Heidegger chiude il discorso su Nietzsche e passa all’esame del problema della libertà (Heidegger, 1971: 28).

Invece il testo originale del corso, pubblicato nella Gesamtausgabe, prosegue le considerazioni sul nichilismo e sui possibili contromovimenti con una frase su cui vale la pena richiamare l’attenzione:

È risaputo inoltre – continua Heidegger – che i due uomini che in Europa hanno avviato, in modo rispettivamente diverso, dei contromovimenti in base alla configurazione politica della nazione, cioè del popolo, ossia Mussolini e Hitler, sono stati influenzati per diversi aspetti da Nietzsche in modo essenziale, senza che l’autentico ambito metafisico del pensiero nietzscheano fosse fatto valere in modo diretto (HGA, XLII, 40-41).

Vien fatto di chiedere: come mai il problema del nichilismo, che qui appare sul nascere ma che presto si farà ostinato e assillante, è associato a due nomi storici così ingombranti – tanto che nell’edizione del 1971 saranno espunti?

L’associazione di Nietzsche e del nichilismo con gli eventi dell’epoca è semplicemente episodica? Strumentale? Opportunistica? Oppure l’espunzione del 1971 segnala una connessione poco edificante, ma non per questo meno vera ed essenziale?

Si fa strada una ipotesi tutta da verificare, ma avvincente. A provocare Heidegger e a spingerlo ad approfondire la questione del nichilismo potrebbero aver concorso motivazioni legate alla lotta ideologica accesasi nel movimento nazionalsocialista per la leadership culturale. Dopo l’adesione al partito e l’assunzione del rettorato, per la fama di cui godeva grazie al successo di Essere e tempo, Heidegger cominciava a essere considerato «il filosofo del nazionalsocialismo». La cosa aveva suscitato invidia e risentimenti nel partito, tanto che si era formato uno schieramento anti-Heidegger, rappresentato soprattutto da Alfred Rosenberg e, per ragioni diverse, da Ernst Krieck.

In particolare quest’ultimo – docente di pedagogia e filosofia diventato potente gerarca delle SS, poi nel 1933-34 rettore dell’Università di Francoforte sul Meno, infine dimessosi e passato a Heidelberg come successore di Heinrich Rickert – attaccò Heidegger in termini violenti. Evidentemente per rivalità politica più che per motivazioni filosofiche reali. Nella rivista nazionalsocialista «Volk im Werden», da lui diretta, nel febbraio del 1934 scriveva:

 

 

Il tenore ideologico di fondo della dottrina di Heidegger è definito dai concetti di Cura e di Angoscia, che mirano entrambi al Nulla. Il senso di questa filosofia è un esplicito ateismo e un nichilismo metafisico, analogo a quello rappresentato specialmente da scrittori ebrei, dunque un fermento per la depravazione e la dissoluzione del popolo tedesco (Schneeberger, 1962: 225).

 

 

Un impiego tanto rozzo e strumentale di un concetto filosofico alto come metafisica, su cui da tempo Heidegger andava meditando, e la sua associazione a un termine come nichilismo, che pullulava nei testi di Nietzsche ma il cui significato più profondo era ancora tutto da definire, equivalevano per Heidegger a una insolente, bruciante provocazione. Egli raccolse perciò la sfida e, in silenzio, senza mai nominare Krieck, rispose da par suo all’avversario con una grandiosa analisi storico-speculativa che campeggia al centro della sua opera in questo periodo, e che mira a definire che cos’è metafisica, che cosa nichilismo, e come essi si intreccino nel determinare l’essenza della storia occidentale.

Lo si vede in parte già nell’Introduzione alla metafisica, il corso del semestre estivo del 1935 destinato a studenti di tutte le facoltà. Se per molti aspetti esso è una risposta alle critiche avanzate da Carnap contro Heidegger nel saggio Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache (Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, 1931), non mancano velati accenni alle accuse di Krieck.

Ci sono poi i corsi universitari successivi in cui il nichilismo diventa sempre più una categoria centrale per capire la metafisica e la logica del suo sviluppo storico. In particolare, dal semestre invernale 1936-37 Heidegger inizia l’impressionante, pluriennale serie di lezioni interamente occupate dal confronto con Nietzsche e i suoi cinque capisaldi filosofici: il nichilismo, la trasvalutazione dei valori, la volontà di potenza, l’eterno ritorno dell’uguale e il superuomo.

Insomma, la superficiale associazione di nichilismo e metafisica eruttata da Krieck come insulto avrebbe fornito a Heidegger l’occasione per avviare la sua radicale indagine del loro rapporto essenziale

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: Il  «Nietzsche» del 1961

 

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Solo a distanza di circa vent’anni Heidegger decise di raccogliere e pubblicare nel loro insieme i risultati del suo estenuante confronto con Nietzsche – contro le resistenze della moglie, preoccupata che si potesse ripetere la profonda crisi in cui, nel 1938, Nietzsche lo aveva precipitato. Con l’aiuto di Otto Pöggeler, che stava allora lavorando al suo libro Der Denkweg Martin Heideggers (Neske, Pfullingen 1963), Heidegger raccolse i cinque corsi universitari dal 1936 al 1940, escludendo il seminario sulla seconda Considerazione inattuale del 1938-39 per il carattere frammentario del manoscritto, e aggiungendovi alcune trattazioni stese negli anni tra il 1940 e il 1946. Nella preparazione editoriale del testo, anche a composizione tipografica avvenuta, Heidegger ritenne necessario intervenire a fondo: si procedette in particolare a una più dettagliata articolazione in capitoli, i cui titoli furono formulati in gran parte da Pöggeler, e ciò comportò non poche modifiche e riformulazioni, ampliamenti e riduzioni.

In queste settimane – scrive Heidegger a Elisabeth Blochmann il 12 aprile 1961 – sto portando a termine il fastidioso lavoro di correzione sui due volumi del Nietzsche. Ma la cosa più faticosa è stata percorrere ancora una volta questi ragionamenti, che sono un punto finale del pensiero occidentale, ma contemporaneamente sono realtà, in molteplici, spesso irriconoscibili forme esteriori (Heidegger-Blochmann, 1989: 114).

Il risultato fu la grande opera pubblicata in due tomi presso l’editore Neske di Pfullingen nel 1961 con il titolo Nietzsche. Nel frattempo essa è stata riedita come vol. VI, in due tomi, nell’ambito della Gesamtausgabe. In essa sono stati ripubblicati anche i corsi tenuti dal 1936 al 1940, nella versione originale, cioè senza i rifacimenti operati per l’edizione del 1961 e con l’aggiunta delle Wiederholungen, le «Ricapitolazioni» che Heidegger era solito tenere all’inizio di ogni ora per riprendere l’argomento della lezione precedente.

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: "Nietzsche:  né vero né falso, ma o vivo o morto"

 

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Quanto al contenuto dell’opera, esso sta davanti agli occhi in tutta la sua vastità e articolazione, e non è questo il luogo per analizzarlo. Ciò che va sottolineato è che Heidegger non intende proporre l’ennesima monografia su Nietzsche – del resto già la struttura del testo lo fa capire – né vuole fornire una nuova e magari originale immagine di Nietzsche. Egli va chiaramente oltre i confini di una mera interpretazione. Come dichiarano le parole con cui l’opera si apre, qui il nome di Nietzsche «sta, come titolo, a indicare la cosa in questione nel suo pensiero», e tale questione è per Heidegger quella dell’essere, a cui Nietzsche, al pari di tutti i grandi pensatori, dà la sua risposta.

L’approccio che Heidegger mette in atto è, corrispondentemente, quello di un vasto e serrato confronto a tutto campo che egli designa come Aus-einander-setzung: questo termine significa il «confrontarsi», il contendere e dibattere di una «cosa» con qualcuno. Heidegger lo impiega anche come termine tecnico per rendere il pólemos di Eraclito. La grafia che Heidegger usa per mettere in risalto le componenti della parola intende suggerire ciò che un confronto implica, vale a dire il dis-porsi delle parti l’una rispetto all’altra, lo spiegamento delle forze in campo e il prendere le necessarie distanze l’uno dall’altro allo scopo di contendere per amore della cosa stessa che è in questione: il disputare non fine a se stesso ma in vista del problema in discussione, un disputare mè katà dóxan allà kat’ousían.

Ingaggiando tale confronto Heidegger interroga con martellante insistenza i testi nietzscheani e giunge a scoprire il filo conduttore che lega gli insegnamenti capitali di Nietzsche in una trama unitaria collegata con la tradizione metafisica: la volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale (dottrine che risponderebbero alle tradizionali domande metafisiche circa il «che cosa» e il «come» l’ente è), la trasvalutazione di tutti i valori, il nichilismo e il superuomo. Lungo un itinerario che va da Nietzsche a Platone, e da Platone a noi, attraversando l’intera storia della filosofia, Heidegger mostra che tutte queste dottrine non sono lo stravagante parto della mente malata del pensatore-poeta, ma costituiscono l’essenziale e ineludibile compimento della metafisica occidentale, rigorosamente pensata fino alle sue estreme conseguenze.

Per questo è riduttivo e insufficiente interpretare Nietzsche come moralista e psicologo, per quanto importanti siano le conquiste psicologico-morali che gli si riconoscono (Klages); o come pensatore politico e critico della civiltà, per quanto lucido e chiaroveggente sia il progetto che gli si attribuisce (Baeumler); oppure come il filosofo dell’esistenza le cui affermazioni suscitano scandalo, ma non sono vincolanti e non richiedono di essere prese sul serio (Jaspers). Per Heidegger, invece, il pensiero di Nietzsche non è «meno oggettivo e rigoroso del pensiero di Aristotele che nel quarto libro della Metafisica pensa il principio di non contraddizione come la verità prima circa l’essere dell’ente» (HGA, V, 249). E la sua filosofia è la metafisica propria dell’età contemporanea, perché pensa la nostra verità circa l’ente nel suo insieme – come volontà di potenza – e fornisce una diagnosi penetrante dei tratti fondamentali della nostra epoca. Quale «platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale» Nietzsche attua un radicale rovesciamento della metafisica portandola fino al suo termine estremo, e apre, alle soglie del Novecento, interrogativi su una crisi, e sul suo possibile superamento, che tormentano l’autocomprensione del nostro mondo.

Non si tratta perciò né di opporsi a Nietzsche né di pronunciarsi in suo favore, ma di pensare ciò che egli ha portato a compimento e ciò che ha previsto con la sua opera. E questo è possibile solo se considera la cosa stessa che è in discussione nel suo pensiero, ovvero la risposta che esso dà alla questione guida della metafisica: «che cosa è l’ente?». Tale risposta recita: «l’ente è volontà di potenza ed eterno ritorno dell’uguale». Presentata così, l’interpretazione heideggeriana ha tutto l’aspetto di una arbitraria violenza che stende l’opera di Nietzsche sul letto di Procuste della questione dell’essere. Ma se si segue la trama esegetica che Heidegger intesse passo dopo passo, alla fine risulta chiaro che per lui si tratta in primo luogo di «ascoltare Nietzsche stesso, porre le domande con lui, per mezzo di lui e così al tempo stesso contro di lui, ma per l’unica intima cosa comune in questione nella filosofia occidentale» (Heidegger, 1994: 34-35). In questa prospettiva Nietzsche è uno di quei pensatori che non sono né veri né falsi, ma soltanto o vivi o morti.

Ora, la cosa in questione nel pensiero di Nietzsche viene in luce per Heidegger non tanto nell’opera pubblicata, la quale rimane «vestibolo» e «preambolo», ma negli appunti postumi – che Heidegger rifiuta perfino di chiamare «frammenti» considerandoli pensieri compiuti – e in quella che avrebbe dovuto essere l’«opera capitale» (Hauptwerk), cioè la Volontà di potenza. La filosofia vera e propria di Nietzsche è contenuta nelle carte inedite degli anni Ottanta, e il vero compito che esse pongono è filosofico: quello di ordinarle in modo tale che sia possibile coglierne il senso profondo.

Heidegger individua dunque nella «volontà di potenza» il problema che sta al centro della speculazione dell’ultimo Nietzsche. Ciò non significa tuttavia che egli approvi o legittimi l’edizione della Volontà di potenza allestita dalla sorella. Gli è ben chiara la differenza tra il problema filosofico della volontà di potenza, il progetto letterario dedicato da Nietzsche a tale problema e la ricostruzione sommaria che di questo progetto fu fatta a posteriori dalla sorella con l’aiuto di Peter Gast. Nel corso delle sue lezioni Heidegger ritorna ripetutamente su questa questione con critiche molto esplicite nei confronti delle scelte dei curatori (Heidegger, 1994: 338 ss., 342 ss., 399 ss., 572-74, 619, 639-40), e le circostanze della sua collaborazione con l’Archivio-Nietzsche per una riedizione della Volontà di potenza lumeggiano ulteriormente le ragioni delle sue digressioni filologiche.

Ciò che lo interessa primariamente è però il confronto filosofico con Nietzsche, in cui egli mette in atto una sottile strategia di appropriazione e di distacco. Limitandoci alle due dottrine fondamentali della volontà di potenza e dell’eterno ritorno, si noterà che l’interpretazione della volontà di potenza in chiave ontologica – ossia come modo in cui Nietzsche concepisce la vita nella sua modalità d’essere, quindi l’essere dell’ente nel suo insieme relativamente al suo «che cos’è» – pur rimanendo costante nel corso di tutto il confronto è affrontata a volte nell’attitudine includente della comprensione, altre in quella escludente della critica. Inizialmente, associando la volontà di potenza al suo carattere di affetto, passione e sentimento, Heidegger mette in luce gli aspetti per i quali la volontà è non-volontà, cioè è condizionata da una situazione e dalla Stimmung corrispondente. Tende cioè a pensarla in parallelo con la propria concezione della «risolutezza» (Entschlossenheit) in quanto determinazione portante dell’esserci, la quale è sempre una gestimmte Entschlossenheit, come egli mostra in Essere e tempo. Questo parallelo è lasciato cadere nel secondo libro, dove la volontà diventa invece in modo sempre più netto la figura finale della «soggettità» (Subiectität), ovvero del principio che regge la metafisica nel suo insieme e in particolare la metafisica dell’età moderna, costituendo la condizione ontologica di possibilità dell’«impianto» (Gestell) quale figura epocale dell’età della tecnica.

Qualcosa di analogo può essere affermato per l’altra dottrina fondamentale, quella dell’eterno ritorno dell’uguale. Essa è strettamente connessa per Heidegger con quella della volontà di potenza. Se quest’ultima dice che cosa è l’ente nel suo insieme – giacché sotto l’egemonia del principio della soggettività tutto ciò che è acquista il carattere della volontà di potenza –, l’eterno ritorno dice invece come è l’ente che è stato ridotto a volontà di potenza. Ora, laddove Heidegger, con una suggestiva esegesi dei capitoli dello Zarathustra «La visione e l’enigma» e «Il convalescente», interpreta il ripercuotersi della dottrina del ritorno sull’esistenza umana e le conseguenze pratico-morali che ne derivano, è lampante il suo sforzo di leggere e illuminare il testo nietzscheano mediante proprie intuizioni filosofiche, nella fattispecie mediante la propria concezione del Dasein incentrata sull’idea che il movimento originario della vita umana abbia il carattere della prassi e sia fondato sul suo poter-essere e la sua temporalità. In questo senso Heidegger esibisce autentici pezzi di bravura ermeneutica. Per esempio l’analisi del brano «Come il “mondo vero” finì per diventare favola», che egli legge come l’esposizione in sei capitoli della storia del platonismo. Oppure l’interpretazione dell’enigmatica locuzione nietzscheana: «circulus vitiosus deus», intesa come formulazione ipotetica dell’eterno ritorno quale alternativa alla tradizionale spiegazione teologica del divenire (deus?), e implicante il ritorno di tutte le cose, anche di quelle negative e del nichilismo stesso (vitium). Infine la delucidazione del sottotitolo dello Zarathustra, libro «per tutti e per nessuno»: «per tutti» in quanto chiunque può convertirsi alla filosofia, «per nessuno» giacché nessuno di noi può riuscire in una tale conversione senza una adeguata disposizione e iniziazione. Che è la stessa idea di filosofia coltivata da Heidegger contro la filosofia accademica del tempo e contro il suo stesso maestro Husserl. Anche qui, tuttavia, allo sforzo di appropriazione seguono la presa di distanza e la critica.

 

 

 

Heidegger e Nietzsche: Dal  «de profundis» nietzscheano

 

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Come qualificare, allora, il confronto che Heidegger ingaggia con Nietzsche? Una cosa è certa: si tratta di un’esegesi filosofica magistrale, di un memorabile confronto che ridà la vertigine del fare filosofia in grande stile. Nonostante le forzature, Heidegger arriva molto più in là delle innumerevoli interpretazioni, tanto meritorie quanto unilaterali e alla fine insoddisfacenti, che si sono susseguite nel Novecento. Con Heidegger, più che con chiunque altro, abbiamo la sensazione, se non di risolvere, di giungere almeno assai vicini all’«enigma Nietzsche» – quell’enigma che Nietzsche stesso aveva previsto di essere allorché, nel monologo fatale sopra ricordato, aveva proiettato l’ombra del suo destino sui tempi a venire. E questo perché il pensiero nietzscheano – come si è detto – non è per Heidegger né vero né falso, ma o vivo o morto. Prendendolo finalmente sul serio, anche nelle sue affermazioni più scomode e difficili, Heidegger finisce per esperire su di sé tutta la devastante potenza della sua scepsi. Va incontro a Nietzsche senza paventare la profonda verità a cui metteva di fronte Thomas Mann con il suo prudente ammonimento: «Chi prende “sul serio” Nietzsche, chi lo prende alla lettera e gli crede, è perduto» (Th. Mann, 1968, III, 46; 1980: 100). E nel suo corpo a corpo con i testi e con le pericolose fantasmagorie che essi evocano finisce per precipitare, egli stesso, in quello che da un certo momento in poi chiamerà l’«abisso» di Nietzsche. L’esperienza del nichilismo innesca in Heidegger una profonda crisi, personale e filosofica. Negli anni che seguono immediatamente il confronto con Nietzsche, scrive a Jaspers:

 

 

Ho la sensazione di crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami (Heidegger-Jaspers, 1990: 174).

 

 

In casa e con gli amici va ripetendo: «Nietzsche mi ha distrutto!». Il 16 agosto 1960 scrive all’amico Medard Boss: «Sto ancora nell’“abisso” di Nietzsche» (Heidegger, 1987: 320).

Tra le ragioni per le quali Heidegger non pubblicò mai la grande opera stesa parallelamente al confronto con Nietzsche, cioè i Beiträge zur Philosophie (Contributi alla filosofia), andrebbe considerata con attenzione la crisi a cui Nietzsche lo aveva portato. È forse un caso che il Nietzsche si apra con una citazione dall’Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Beiträge? Questa tratta dell’ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione in esergo:

 

 

Quasi due millenni e non un solo nuovo dio! (Heidegger, 1994: 17).

 

 

Il provocatorio suggerimento che se ne potrebbe ricavare è quello di leggere il pensiero di Heidegger successivo al confronto con Nietzsche, cioè l’ultimo Heidegger, come il disperato tentativo di sollevarsi dal de profundis nietzscheano. Il caso Heidegger conferma in tal modo la profezia che Nietzsche fece una volta su se stesso, e che ha conservato intatta la sua validità: dopo avere scoperto Nietzsche è stato facile trovarlo; il difficile, ora, è perderlo.

 

 

 

  Oltre  la linea del nichilismo: Jünger «versus» Heidegger

 

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Un memorabile confronto sul nichilismo come categoria per la diagnosi della situazione del mondo contemporaneo ebbe luogo nella prima metà degli anni Cinquanta tra Ernst Jünger e Heidegger. Spetta al primo, con l’intervento Oltre la linea (Über die Linie, 1950) offerto a Heidegger in occasione del suo sessantesimo compleanno, il merito di avere attirato l’attenzione sul problema. Al secondo, con la sua risposta in occasione dei sessant’anni di Jünger (1955), quello di essere ritornato sull’argomento richiamando a una interrogazione filosofica più profonda. I due testi, presi insieme, rappresentano l’analisi contemporanea più penetrante del problema del nichilismo, un itinerarium mentis in nihilum a misura del ventesimo secolo.

Oggetto del contendere è la «linea» del nichilismo. Essa segna il punto di svolta al quale l’epoca contemporanea sembra essere arrivata, lo spartiacque che marca l’avvenuta consunzione dell’Antico senza che ancora si intraveda il sorgere del Nuovo, il magico «meridiano zero» passato il quale non valgono più i vecchi strumenti di navigazione, e lo spirito, sottoposto a un’accelerazione tecnologica sempre più veloce, appare disorientato. Ora, mentre per Jünger le élites spirituali debbono avere il coraggio di oltrepassare la linea e andare in avanscoperta, e in questo senso Über die Linie significa per lui trans lineam, Heidegger crede che ciò sia ancora prematuro e richiama «coloro che pensano» a riflettere con maggior prudenza sulla linea del nichilismo – il titolo vuol dire per lui de linea – cercando di risalire ai fondamenti metafisici di tale situazione.

Il punto di partenza comune da cui muove il confronto fra i due è la convinzione che la questione del nichilismo sia centrale per la nostra epoca. A conclusione di Oltre la linea Jünger scrive:

 

 

Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del Niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca (Jünger-Heidegger, 1989: 104).

 

 

Dal canto suo già nel 1937, in un corso universitario pubblicato nel 1961 nel Nietzsche (ma allora sconosciuto a Jünger), Heidegger aveva dichiarato:

 

 

La pietra di paragone più dura, ma anche meno ingannevole, per saggiare il carattere genuino e la forza di un filosofo è se egli esperisca subito e dalle fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza del Niente. Colui al quale questa esperienza rimane preclusa sta definitivamente e senza speranza fuori dalla filosofia (Heidegger, 1994: 382).

 

 

Quanto al concetto di nichilismo, già prima della guerra, e soprattutto nei saggi La mobilitazione totale (Die totale Mobilmachung, 1930), Il lavoratore (Der Arbeiter, 1932) e quindi Sul dolore (Über den Schmerz, 1934), Jünger aveva prospettato una lucida e disincantata visione di ciò che stava accadendo. La crisi della civiltà, da altri tanto lamentata, era da lui vista come l’inevitabile passaggio verso una nuova situazione storica, quella in cui è il lavoro, organizzato secondo gli imperativi della tecnica, a mobilitare tutte le risorse del pianeta, a sprigionare tutto ciò che l’essere può dare. Il vuoto di «valori» e di «senso» che la tecnica ha prodotto non suscita in lui un atteggiamento passivo e querulo, ma un nichilismo eroico dell’azione. A rigore, in questa fase del pensiero di Jünger andrebbe evitato un uso in senso positivo del termine nichilismo. Il tema che lo interessa non è ancora il nichilismo, né come fenomeno europeo né come fenomeno planetario, bensì il nuovo principio del lavoro che dà forma a tutta la realtà. L’ombra del nichilismo si profila in questa fase solo per chi non ha ancora colto e accettato siffatto principio. Il nichilismo è dunque ancora qualcosa di negativo e di subordinato: si manifesta dove lo spirito rimane attaccato ai vecchi valori e si attarda a lamentare la loro consunzione. Ma né il processo di svalutazione dei valori tradizionali né lo sforzo di trasformarli è ciò che interessa lo Jünger del Lavoratore. In un passo di quest’opera, molto significativo al riguardo, afferma:

 

 

È diventato superfluo continuare a occuparsi di una trasvalutazione dei valori, basta vedere il Nuovo e prendervi parte (Jünger, 1978: VIII, 50).

 

 

Solo nel saggio Sul dolore del 1934 può essere registrato uno spostamento di prospettiva. Per la prima volta si fa spazio l’idea che la tecnica sia un fattore di nichilismo: quando alla nuova forma non corrisponde lo sviluppo di contenuti adeguati, quando la realtà è plasmata e trasformata dalla tecnica senza che le idee, le persone e le istituzioni si adeguino con la stessa rapidità, quando la disciplina, la capacità di organizzazione, il potenziale energetico crescono senza una pari crescita di nuova sostanza, allora la tecnica produce nichilismo. Sorge a questo punto il problema dell’atteggiamento adeguato che l’uomo deve assumere quando il vortice dell’accelerazione tecnologica sembra risucchiarlo. Può l’uomo sperare, giunto al punto zero, in una «nuova dedizione dell’essere» in cui balugini «ciò che realmente è»? Jünger ha qui ormai raggiunto il livello di consapevolezza critica che si manifesta nel romanzo Sulle scogliere di marmo (Auf den Marmorklippen, 1939) – «un libro che con grande arditezza descrive gli abissi che si celano dietro le maschere d’ordine del nichilismo» (Schmitt, 1987: 24) – e da cui egli osserverà la situazione anche dopo la guerra, in Oltre la linea.

In questo saggio – da leggere insieme al Trattato del ribelle (il cui titolo originario è Der Waldgang, 1951) – Jünger riprende lo spunto d’anteguerra e lo sviluppa in una vera e propria fenomenologia del nichilismo, con le sue avvisaglie, le sue manifestazioni e le sue conseguenze. Come Heidegger riconosce, essa supera per originalità ed efficacia la copiosa letteratura di ispirazione nietzscheana sull’argomento. In effetti, muovendo da Nietzsche e da Dostoevskij, Jünger traccia una penetrante visione del nichilismo come processo dell’ormai ubiquo e generale «svanimento dei valori». La sua originalità, rispetto al modello nietzscheano, sta nel riconoscere il carattere non solo europeo ma planetario del nichilismo, e nel prospettare anche ottimisticamente una terapia dei mali che esso ha prodotti. Essa consiste nella strenua difesa dei ristretti ma inviolabili spazi dell’interiorità individuale da Jünger considerati l’ultimo baluardo di resistenza possibile. Seguendo questa strategia, senza venir meno alla convinzione che ciò che cade non va mantenuto in piedi ma va aiutato a cadere, egli non inscena un attacco frontale contro i valori e gli ordinamenti tradizionali, come è invece nello stile di Nietzsche. Non si atteggia cioè a demolitore, ma mette piuttosto in atto una descrizione che evidenzia i processi di deperimento, perdita e consunzione, da lui denominati «riduzione» e «svanimento» (Schwund), mostrando come essi intacchino ogni sostanza psichica, spirituale, estetica e religiosa, ma anche come accelerino l’avvicinamento al termine del nichilismo.

Ciò che è decisivo è capire dove si trovi la linea, dove e quando avvenga il suo attraversamento, vale a dire il superamento del nichilismo. Ora, contrariamente all’impressione che le obiezioni di Heidegger suscitano, per Jünger la linea non è il punto finale, il termine oltre il quale cessa il nichilismo. Essa si situa piuttosto entro il nichilismo stesso segnandone il punto mediano.

 

 

L’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero divide lo spettacolo; esso indica il punto mediano, non la fine. La sicurezza è ancora molto lontana (Jünger-Heidegger, 1989: 79).

 

 

Con l’oltrepassamento della linea, allora, l’attraversamento del nichilismo non è ancora compiuto. Si avvicina alle sue mete ultime, ma non è ancora arrivato al termine.

È vero che, in confronto alla prudenza di Heidegger, Jünger indulge a un certo ottimismo. In una retrospettiva del 1993 su Oltre la linea egli rammenta che quel saggio era «il tentativo di qualcuno colpito da due terremoti che voleva prendere di nuovo piede in modo stabile», e che la particolarità dell’analisi del nichilismo che vi veniva svolta era «la sua natura ottimistica» (cfr. Jünger, 1993: 20). È chiaro che in Oltre la linea il nichilismo è presentato come la fase di un travaglio spirituale che può essere sopportato fino in fondo, superato e «magari ricoperto di nuova pelle come una cicatrice» (Jünger-Heidegger, 1989: 50). E a giustificare il suo relativo ottimismo Jünger nomina alcuni segnali positivi che accennano a una volontà di superare il nichilismo. Essi sono «l’inquietudine metafisica delle masse, la nascita delle singole scienze fuori dallo spazio copernicano e la comparsa di temi teologici nella letteratura mondiale» (Jünger-Heidegger, 1989: 90). Ma si tratta solo di avvisaglie. La conquista di un territorio post-nichilistico è ancora lontana. Chi attraversa la linea entra piuttosto nella zona in cui il nichilismo si fa condizione normale nel senso che diventa un aspetto essenziale e costitutivo della realtà. Per questo esso non si lascia arrestare né tanto meno estirpare con facilità. L’unica possibilità per resistere al suo irrefrenabile avanzare è erigere un baluardo interiore a difesa delle rare oasi di libertà che rimangono nel «deserto che avanza». Queste oasi – l’eros, l’amicizia, l’arte, la morte – sono il territorio selvaggio (Wildnis) dell’interiorità in cui l’individuo si ritira corazzandosi contro ogni attacco portato alla sua inviolabilità: qui egli resiste agli appelli delle chiese, alle minacce del Leviatano, agli ingranaggi dell’organizzazione, e riesce a mantenere l’equilibrio nel «vortice del nichilismo».

Nel vortice del nichilismo Jünger si cala in profondità e ne uscirà definitivamente solo in Al muro del tempo (An der Zeitmauer, 1959), il suo testo teorico più importante dopo il Lavoratore. È un trattato che rappresenta il condensato di un «decennio filosofico» di intense meditazioni, segnato dalle insistenti visite dell’«angelo della malinconia» – come testimoniano le due parole che ricorrono nelle pagine coeve dei diari: tristitia e cafard. L’opera emerge dunque da un de profundis e, forse proprio per uscirne, si avventura in audaci slanci speculativi: che cosa sono il tempo, la storia, il destino? Come può l’uomo, che li attraversa e ne è attraversato, conferire loro un barlume di intelligibilità? Inanellando pensieri e digressioni che spaziano da un capo all’altro dello scibile, dall’astrologia alla metafisica, dalle scienze naturali alla storiografia, dalla mitologia alla teologia e alla filosofia della storia, Jünger scruta qui il divenire del cosmo e i suoi ritmi per capire il senso dell’apparizione principesca dell’uomo. Che posto occupano nell’evoluzione del cosmo le res gestae, le magnifiche sorti e progressive?

La storia del genere umano gli appare ora come un capitolo della storia della terra da riportare al suo letto geologico, da «rinaturalizzare», in modo che l’umanità appaia per quello che è: un’efflorescenza della crosta terrestre. È l’astrologia che apre questa prospettiva. Non tanto per il preteso influsso degli astri sulla nostra vita, ma perché l’astrologia ci familiarizza con le rivoluzioni celesti e i cicli della terra, ristabilisce un collegamento – occultato dalla civilizzazione tecnica – con il ritmo del grande orologio primordiale. Il tempo e la storia dell’uomo eccedono, è vero, la naturalità, eppure affondando in essa le loro radici. E se la comparsa del genere umano rende unica la terra, rispetto alle infinite distanze cosmiche che ci sgomentano noi non siamo che un breve respiro della natura. Se è vero, come insegna Vico, che la storia è un factum, un prodotto del genere umano, l’umanità è a sua volta soltanto un brulichio che anima la superficie del globo.

Nell’anno di pubblicazione dell’opera Jünger diede vita a un progetto che lumeggia questo suo sforzo speculativo per uscire dal vortice nichilismo. Con Mircea Eliade fondò e diresse fino al 1971 la rivista «Antaios», che ambiva a fornire una «mitografia delle forze cosmiche». Essa raccolse una straordinaria serie di indagini sul mito, la religione, l’arte, la cultura, sotto il patrocinio di Anteo, il gigante che diventava invincibile quando poggiava i piedi sulla Madre Terra, e che Eracle riuscì ad uccidere solo sollevandolo dal suolo.

La Terra è dunque il grembo che genera l’uomo, la nutrice che lo alimenta e lo protegge, il fondo da cui egli trae le sue forze ed energie. È una sorta di «trascendenza naturale» che fa da contrappeso alla tecnica, quando quest’ultima diventa fattore di nichilismo, cioè quando consuma ed erode le risorse simboliche e naturali dell’uomo, provocando impoverimento, diminuzione, perdita.

A rigore, dal punto di vista della tecnica e del Lavoratore non si dà nichilismo: chi «vede il Nuovo e vi prende parte» non si volta indietro e non si preoccupa di che cosa ne derivi, un’edificazione o una distruzione. Qui invece la prospettiva è mutata: le trasformazioni e le accelerazioni cui la tecnica sottopone l’uomo appaiono sotto il segno dei prossimi Titani, sono prodromi di una nuova età del ferro sfavorevole allo spirito. Qui «Dio si ritira» (L. Bloy), e lo svanire della fede, la sparizione dell’Antico, non lascia dietro di sé il nulla, bensì «un vuoto, con la sua potenza di risucchio», un’inquietudine e un bisogno.

Eppure Jünger guarda con ottimismo alla transizione verso la nuova epoca, fiducioso che lo spirito non soccomberà. E coniuga la dottrina gioachimita dei tre Evi storici, del Padre, del Figlio e dello Spirito, con l’antica concezione astrologica, basata sulla precessione degli equinozi, secondo cui dopo l’Età dell’Ariete e quella dei Pesci entreremmo nell’Età dell’Acquario, che sarà «una grande epoca dello Spirito».

Si capisce allora la conclusione cui Jünger giunge: vero interlocutore della Terra non è l’intelletto con i suoi titanici progetti, ma lo Spirito come potenza cosmica. E si capisce il suo nuovo temerario intento: superare il nichilismo ripercorrendo all’indietro le tappe che Comte aveva assegnato allo sviluppo del sapere umano, dalla scienza alla metafisica fino a ritrovare la religione e il mito, con le loro potenti immagini.

Heidegger – che fin dai primi anni Trenta si era intensamente occupato delle tesi di Jünger, mutuando dai suoi scritti l’interesse per la tecnica quale chiave di lettura del mondo moderno, e che nei suoi corsi universitari su Nietzsche aveva affrontato a tutto campo la questione del nichilismo – riconosce a Jünger il merito di prospettare una visione penetrante del problema. Attraverso una originale assimilazione della dottrina della volontà di potenza, egli avrebbe messo in luce i due tratti essenziali dell’odierna realtà: il suo carattere totale di lavoro e la consunzione di ogni valore e risorsa di senso, cioè la tecnica e il nichilismo, e precisamente come fenomeni non più soltanto europei bensì planetari.

La visione jüngeriana mette dunque a fuoco due motivi che sono fondamentali anche per Heidegger. Secondo quest’ultimo si tratta però, andando oltre Jünger, di capire questi due tratti in riferimento alla storia dell’essere come figure essenziali ed estreme del compimento della metafisica occidentale. La sintonia di Heidegger con il quadro tracciato da Jünger riguarda pertanto solo la fenomenologia del nichilismo, le sue manifestazioni di superficie. Quanto all’anamnesi della malattia, cioè alla ricerca delle sue radici storiche e delle sue cause più profonde, egli imbocca un’altra strada e apre con Jünger un contenzioso. Egli è naturalmente convinto che gli scritti di Jünger non siano da considerare «alla stregua di atti d’archivio del movimento nichilistico» (Jünger-Heidegger, 1989: 119). Ma ritiene che la suggestiva descrizione letteraria del nichilismo tracciata da Jünger non consenta una analisi filosofica profonda della malattia. E questo perché nello spaccato jüngeriano né la metafisica nietzscheana della volontà di potenza, né il suo compimento nella tecnica intesa come mobilitazione totale delle risorse nella forma del lavoro sono veramente compresi nel loro autentico fondamento, cioè in relazione alla storia dell’essere. Per poterlo fare, bisogna interrogarsi circa l’apertura epocale che rende possibile la determinazione nietzscheana dell’ente come volontà di potenza e quindi lo sviluppo propostone da Jünger nelle descrizioni del Lavoratore.

Tale apertura è data dalla metafisica intesa non come una disciplina della filosofia, ma come «radura» (Lichtung) dell’essere stesso, cioè come il modo di schiudersi e di ritrarsi dell’essere in rapporto all’uomo, che ha caratterizzato la storia occidentale. Nel corso delle diverse epoche l’uomo esperisce di volta in volta l’ente che gli si presenta dinanzi in un determinato modo: come qualcosa di generato dalla natura o come artefatto, come creazione divina, realtà estesa, oggetto, materia suscettibile di sperimentazione e di ricerca scientifica. Che cosa l’ente è, ovvero quale sia l’«essere dell’ente», viene esperito ogni volta in un modo diverso. Ora, nel comprendere ciò che gli enti sono nel loro «essere» l’uomo non rimane sul piano degli enti ma lo «trascende», e siffatto trascendimento (Überstieg) è per Heidegger l’origine della «metafisica». La metafisica è il modo fondamentale dell’uomo occidentale di comprendere l’essere dell’ente. Ciò che caratterizza l’accadere della metafisica è il «presentarsi» (Anwesen) dell’ente in un certo modo, con un certo suo «essere», all’uomo che lo comprende. Di volta in volta prende consistenza una determinata comprensione dell’essere dell’ente, cioè si stabilisce una determinata risposta alla domanda «che cosa è l’ente?», nella quale è tendenzialmente dimenticata l’originaria apertura del «presentarsi», dell’Anwesen. Quando l’ente è definitivamente compreso e determinato come volontà di potenza e come lavoro, quando l’essenziale è soltanto assicurare e rendere disponibile l’ente come possibile fonte di energia, allora l’originaria apertura del presentarsi dell’ente, cioè il suo essere suscettibile di comprensioni d’essere diverse, è occlusa. Si instaura così non solo la dimenticanza dell’essere, ma anche la dimenticanza di tale dimenticanza. Il vero e proprio nichilismo metafisico è esattamente questa situazione in cui dell’essere «non ne è niente» (Heidegger, 1994: 812). La domanda che si impone è: che fare?

Prima di ogni altra cosa va richiamata alla memoria la questione dell’essere. Ma proprio questo, a giudizio di Heidegger, è ciò che Jünger non fa né può fare. Al pari della metafisica che costituisce il presupposto non interrogato delle sue descrizioni, Jünger pensa entro l’orizzonte della dimenticanza dell’essere. Il suo quadro tanto plastico ed efficace si ferma ai sintomi del nichilismo, alla svalutazione dei valori e alla perdita di sostanza, ma non ne spiega la logica più profonda. In fondo Jünger rimane prigioniero del nichilismo stesso. La conclusione e il giudizio di Heidegger sono perentori:

 

 

Il tentativo di attraversare la linea resta in balìa di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza) (Jünger-Heidegger, 1989: 161).

 

 

Prima di voler superare il nichilismo, è indispensabile per Heidegger coglierne l’essenza, e ciò significa capire che il nichilismo è un evento che appartiene alla storia stessa dell’essere, al suo donarsi e sottrarsi nelle diverse aperture storico-epocali della metafisica. Le tracce di questo movimento di «donazione» e «sottrazione» dell’essere possono essere riconosciute nei tratti fondamentali della storia della metafisica. Nei testi compresi nel Nietzsche Heidegger si è confrontato a fondo con la storia della metafisica: ha mostrato come il nichilismo nietzscheano sia il rovesciamento del platonismo e come in esso si manifesti nel suo aspetto estremo la figura archetipica della metafisica, che il platonismo inaugura e rappresenta, e che egli chiama «soggettità» (Subiectität).

Non è qui nemmeno il caso di tentare di illustrare i passaggi attraverso i quali, nella ricostruzione heideggeriana, il platonismo trapassa nella metafisica della volontà di potenza, e come la «trascendenza» dell’ideale platonico si trasformi e si rovesci nella «rescendenza» del nichilismo. L’essenziale è che la «soggettità» insorta con il platonismo – cioè l’«apparizione sovrana» dell’uomo quale figura che si fa portatrice del progetto di padroneggiamento conoscitivo e operativo di tutto ciò che è – trova il suo inveramento essenziale nella configurazione tecnica dell’essere dell’ente denominata Gestell. Questo termine – che può essere tradotto con «impianto», «montatura» o più liberamente con «ingranaggio», e sta a indicare l’essenza di ciò che è posto, artefatto, in contrapposizione a ciò che nasce e cresce spontaneamente come gli enti per natura – è scelto da Heidegger per definire l’essenza della tecnica. Quest’ultima, in quanto mobilitazione totale del mondo nella forma del lavoro, è la figura epocale in cui l’essere si manifesta e al tempo stesso si occulta alla fine del destino metafisico dell’Occidente. Platonismo e nichilismo appaiono quindi a Heidegger come i due termini estremi dello stesso paradigma – la metafisica – ed entrambi sono considerati omogenei e funzionali all’essenza della tecnica. La tecnica è l’ultima forma di metafisica, cioè di platonismo, così come la metafisica è la preistoria della tecnica, cioè del nichilismo. Ecco perché Heidegger è convinto che la forma del Lavoratore e l’idea platonica, una volta che si tenti di pensarle nella loro provenienza essenziale, abbiano una origine comune nella costellazione epocale, tecnico-metafisica, del Gestell.

Impostando in questi termini la sua risposta, Heidegger, pur essendo solidale con la fenomenologia jüngeriana del nichilismo, raccomanda un atteggiamento filosofico più vigile. Non per demolire una descrizione sotto molti aspetti così efficace e insostituibile dei sintomi del nichilismo, ma per riprenderne le intuizioni a un livello più profondo. A tal fine bisogna però mettere in discussione i presupposti della visione jüngeriana, cioè l’orizzonte metafisico in cui si muove e i concetti di cui si serve come di un sistema ottico attraverso cui guardare: «forma», «dominio», «rappresentazione», «volontà», «valore», «sicurezza». Ma bisogna poi capire soprattutto che, se mai l’attraversamento della linea sarà possibile, esso richiede che il nichilismo sia prima veramente compiuto, cioè compreso nella sua essenza metafisica: «Invece di volere oltrepassare il nichilismo, dobbiamo prima raccoglierci nella sua essenza (Wesen)» (Jünger-Heidegger, 1989: 162). Ciò significa capire come esso sia la conseguenza di una occlusione dell’originaria apertura del presentarsi (Anwesen) dell’ente nel suo essere. Senza dunque rimuovere il problema che la linea sta a indicare, anzi facendolo proprio, bisogna compiere un passo indietro: non stimolare la volontà di oltrepassare il nichilismo, né allestire alla meglio una nuova strumentazione per procedere nella navigazione a ogni costo, ma pensare a una «topologia» del nichilismo e individuare nella storia dell’essere il luogo essenziale in cui il destino del nichilismo si decide.

Se infatti l’attraversamento della linea del nichilismo ha quale sua condizione essenziale il superamento della metafisica e della dimenticanza dell’essere, questo superamento non può essere «voluto». Così facendo non solo si ricadrebbe in una determinazione metafisica compromessa come la volontà, ma si finirebbe per credere che la dimenticanza dell’essere sia una semplice «macchinazione» dell’uomo, cioè stia in suo potere. Essa dipende invece dall’essere e dal suo modo di riferirsi all’uomo. Proprio in corrispondenza con la finitudine di colui a cui si destina, il darsi dell’essere non è mai assoluto, ma è sempre epocalmente determinato e al tempo stesso anche sempre aperto a un’altra determinazione epocale. Ciò fa sì che esso sia contemporaneamente un donarsi e un ritrarsi. Quando la «soggettità», ossia il primato dell’uomo come soggetto, avanza sulla scena in primo piano e pretende di essere la risposta definitiva alla domanda «che cosa è l’ente?», ciò significa che l’essere è dimenticato e si «dà» ormai soltanto nella forma della sottrazione e della dimenticanza, cioè della negazione e del nichilismo.

Neppure la razionalità – meno ancora della volontà – può essere il punto archimedeo sul quale far leva per catapultarsi oltre il nichilismo. Anche il razionalismo è per Heidegger espressione di soggettità e di antropocentrismo. Dinanzi alle cose ultime, dove il tutto è in gioco, la fiducia nei calcoli della ragione non è migliore delle fughe nell’irrazionale. Razionalismo e irrazionalismo sono per Heidegger – d’accordo in questo con Jünger – due figure complementari e convertibili del nichilismo. Se il nichilismo è un destino che dipende dall’essere, la volontà e la ragione dell’uomo possono arrivare semmai a qualcosa di penultimo. Una volta preso atto di ciò, non è più il caso, né per Heidegger né per Jünger, di attardarsi nella escogitazione di etiche o di virtù possibili per l’età della tecnica.

Riconoscere questo non significa rinunciare alla responsabilità. Significa, anzi, richiedere quella più alta responsabilità del pensiero che consiste nel farsi carico del nichilismo nella sua massima problematicità – senza pretendere di mettere alla porta l’ospite che ormai da tempo si aggira ovunque per la casa, quindi senza chiudere gli occhi di fronte al fatto che il nichilismo fa ormai parte della realtà stessa in cui viviamo. L’unico effetto possibile a cui il pensiero può mirare è quello di produrre una accelerazione del nichilismo. In Jünger ciò avviene attraverso quella peculiare descrizione della consunzione, dello svanimento e della riduzione innescati dal nichilismo, la quale, mettendoci sotto gli occhi i tratti decisivi della nuova realtà, contribuisce a produrla. In Heidegger ciò accade invece mediante la sua disincantata critica dei valori – un motivo che egli svolge a più riprese in base al confronto con Nietzsche e in contrapposizione al neokantismo e alla filosofia dei valori, sostenendo che, se davvero si intende superare il nichilismo, non ha senso produrre resistenze e reazioni né erigere le fragili barriere di nuovi improbabili valori. È preferibile piuttosto lasciare che l’immane potenza del nulla si sprigioni e che tutte le possibilità del nichilismo si esauriscano fino al loro compimento essenziale.

Questa non è – come è potuto sembrare – una apologia del nichilismo, né in Jünger né in Heidegger. Riconoscere che l’accelerazione del nichilismo è l’unica via che può portare al suo superamento, non significa prendere le parti del nichilismo né salutarlo come il «gaio sapere», come la disincantata lucidità che si compiace di avere riconosciuto che il «mondo vero», il senso e la verità del divenire sono illusioni prospettiche. Sia Heidegger che Jünger invitano a sperimentare fino in fondo la potenza del nulla, convinti che solo lo spiegamento totale del nichilismo produca anche il suo esaurimento e, con esso, la possibilità del suo superamento. Si tratta insomma per entrambi «di lasciar sgorgare le fonti di energia ancora intatte e di fare ricorso a ogni ausilio, per reggersi “nel vortice del nichilismo”» (Jünger-Heidegger, 1989: 139).

Ma dove rintracciare queste fonti di energia? Su questo punto l’itinerario dei due diverge. Jünger indica un punto di resistenza al quale i suoi scritti successivi – valga per tutti il Trattato del Ribelle – si abbarbicano con sempre maggiore tenacia, ma che già qui è individuato con soverchia chiarezza. Esso è costituito dalla figura dell’Anarca, l’individuo ribelle che si sente braccato dagli eserciti delle chiese e del Leviatano, ma che sa di non appartenere più a niente e a nessuno. Come l’Unico di Stirner, l’Anarca è un solitario che si rifugia nella propria interiorità. Non è da confondere con l’anarchico. Non è un rivoluzionario che vuole trasformare il mondo e che pur di raggiungere il suo fine è disposto anche al crimine e al terrore. L’Anarca può anche sottomettersi esteriormente all’ordine e alla legge, ma nel suo intimo, nella solitudine della notte, pensa e fa quel che gli pare. E anche quando marcia tra le righe di un esercito, combatte solo le sue guerre. Si rifugia nei territori selvaggi e nelle poche oasi rimaste per rigenerare le forze. La postazione dell’Anarca è quella in cui Jünger immaginava di essere in un appunto datato Parigi, 9 luglio 1942:

 

 

Se chiudo gli occhi, scorgo a volte un paesaggio tetro ai margini dell’infinito, con pietre, scogliere e montagne. Sullo sfondo, ai bordi di un mare nero, riconosco me stesso, una figura minuscola, quasi tratteggiata a gesso. Quello è il mio avamposto, prossimo al Nulla – laggiù, nell’abisso, io conduco da solo la mia lotta (Jünger, 1978: II, 344).

 

 

In Oltre la linea egli conclude le sue considerazioni sullo stesso motivo, aprendo una prospettiva ottimistica:

Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il Nulla si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso (Jünger-Heidegger, 1989: 104).

Heidegger è più vigile e guardingo: non vi sono punti archimedei su cui appoggiarsi, non ricette né strategie da seguire. Ai pelagiani del ventesimo secolo, convinti che la salvezza stia nelle loro mani, Heidegger oppone la sentenza: «Ormai soltanto un dio ci può salvare». Se mai un punto d’appoggio è possibile, esso sta in quell’eroismo del pensiero capace di pazientare, in attesa dell’«altro inizio», nella sola disposizione in grado di corrispondere al destino epocale del nichilismo e della tecnica, cioè dell’epoca degli dèi fuggiti e del dio nuovo di là da venire: la Gelassenheit, l’atteggiamento pacato dell’«abbandono».

 

 

 

Nichilismo,  esistenzialismo, gnosi

 

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Non v’è dubbio che l’opera di Heidegger fornisca un contributo fondamentale per l’analisi del nichilismo europeo. Essa mette però in luce, nei suoi esiti ultimi, un singolare paradosso, che è al tempo stesso il paradosso di una parte significativa del pensiero contemporaneo. Si tratta del fatto che in essa sembrano toccarsi e convivere due estremi incompatibili: un nichilismo radicale, da un lato, e l’abbandono alla visione ispirata, se non al misticismo, dall’altro. Per questo, quanto più nel recepire l’insegnamento heideggeriano ci si attiene all’una prospettiva, tanto più ci si vede confrontati con i problemi che l’altra apre. La radicalizzazione del domandare filosofico, che tutto investe e tutto consuma, produce da un lato una accelerazione della dissoluzione, un potenziamento del nichilismo. Dall’altro, nel compiersi di tale dissoluzione il pensiero si apre all’aspettativa del totalmente altro, a ciò che sta radicalmente al di là di quanto è stato dissolto. La decostruzione dei concetti e dei teoremi della filosofia tradizionale ha come risultato l’apertura alla problematica del sacro e del divino. Il domandare che Heidegger considera «la pietà del pensare» implica la messa in questione e la dissoluzione, ma al tempo stesso anche la ricerca e l’attesa: conduce a quel Nulla che è la purificazione estrema della finitudine e la spoglia di tutto per consentirle di accedere al divino; porta a quel punto estremo che Meister Eckhart chiamava con le parole quasi blasfeme ricordate all’inizio il punto «dove l’angelo, la mosca e l’anima sono la stessa cosa». È un domandare che rade al suolo la metafisica per preparare l’avvento del «nuovo inizio».

La chiave di lettura che meglio di ogni altra ha portato alla luce questa possibilità di convivenza tra nichilismo e misticismo è quella dell’accostamento del pensiero heideggeriano alla gnosi. Questo raffronto è una variazione dalla più generale ripresa del paradigma gnostico – scorporato dalla sua collocazione storica nella tarda antichità – come palinsesto per una interpretazione della modernità. Una strada che era già stata battuta nell’Ottocento da Ferdinand Christian Baur. Nel secolo scorso, il merito della riscoperta della gnosi va ascritto a Carl Gustav Jung e agli incontri da lui promossi a partire dagli anni Trenta ad Ascona, di cui l’«Eranos Jahrbuch» fornisce la documentazione. Ma fu soprattutto negli anni Cinquanta che la fruttuosità ermeneutica del paradigma gnostico venne alla luce e fu discussa su scala più vasta. Il dibattito si accese intorno alle tesi sostenute rispettivamente da Eric Voegelin e Hans Blumenberg.

Il primo attaccò frontalmente la legittimità dell’epoca moderna, sostenendo che il suo sviluppo andava interpretato come il trionfo della gnosi. Filosofi decisivi per la modernità come Hegel, Marx e Nietzsche sarebbero da considerare «gnostici» in quanto nel loro pensiero sarebbe operante uno schema speculativo di derivazione gnostica. In Hegel, il processo nel corso del quale da una situazione di alienazione lo spirito giunge a ritrovare se stesso è per Voegelin analogo alla peregrinazione attraverso la quale la scintilla alienata (pneuma) degli gnostici fa ritorno dal suo esilio nel cosmo fino alla pienezza originaria (pleroma). In Marx il processo dialettico della storia, che il materialismo storico-dialettico permette di riconoscere, libera l’uomo dall’alienazione e lo trasporta nella pienezza di un’esistenza umana integrale. In Nietzsche il principio naturale della volontà di potenza trasforma l’uomo, soffocato dai valori ostili alla vita e ormai esangue, nel superuomo. In tutti e tre i casi è operante l’idea di una autosalvazione dell’uomo mediante la «conoscenza» della propria condizione di cattività e alienazione, la quale diventa lo strumento del riscatto. In virtù di tale «gnosi», quindi in forza di se stesso, l’essere degradato ripristina la propria pienezza originaria. Il trionfo moderno della gnosi significa per Voegelin l’immanentizzazione dell’escatologia cristiana, che alla fine sfocia nel nichilismo: Dio e la vita spirituale dell’uomo vengono sacrificati alla civiltà con la consacrazione di tutte le energie umane all’impresa della salvezza mediante l’azione immanente nel mondo.

A queste tesi si oppose fermamente Blumenberg. Egli prese le difese della modernità, sostenendo che essa non è tanto la secolarizzazione del cristianesimo, bensì il processo dell’affermazione autonoma dell’uomo nel mondo. Con la sua assolutizzazione della dimensione terrena la modernità nega il dualismo gnostico, ancora presente nella speculazione teologica tardomedievale che separa radicalmente Dio e il mondo. La modernità, dunque, non è il trionfo, ma la seconda, definitiva sconfitta della gnosi (cfr. Faber, 1984; Taubes, 1984).

Ciò che qui interessa – al di là delle metamorfosi moderne della gnosi – è che il paradigma dualistico gnostico consente di vedere il nichilismo contemporaneo da una prospettiva diversa, più ampia e illuminante. Se la gnosi, considerata non come fenomeno storico ma come modello di pensiero, può essere interpretata alla stregua di un nichilismo esistenzialistico ante litteram, che mediante la annihilatio mundi opera un radicale isolamento dell’anima al fine di ottenerne la salvezza e il ricongiungimento con Dio, allora il nichilismo contemporaneo può essere letto a sua volta come un moderno gnosticismo ateo: cieco a ogni trascendenza, esso si concentra in una tragica descrizione dello sradicamento e della spaesatezza dell’esistenza mortale. Nella sua solitudine cosmica, l’esistenza ripete l’interrogazione gnostica, sapendo che rimarrà senza risposta: chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

È stato merito soprattutto di Hans Jonas, allievo di Heidegger e Bultmann a Marburgo, avere portato alla luce le connessioni strutturali tra la gnosi antica e l’esistenzialismo e il nichilismo contemporanei, e avere utilizzato il modello di pensiero gnostico come chiave interpretativa per capire la crisi esistenzialistica e nichilistica dell’uomo d’oggi. Dalla sua approfondita ricostruzione storica della gnosi antica Jonas ha ricavato un profilo tipologico per mostrare come il raffronto con il paradigma gnostico liberi le questioni poste dal nichilismo e dall’esistenzialismo dalla gabbia dell’assurdo e le illumini di un senso più ampio (Jonas, 1992: 23-47).

Ma anche Jaspers ed Émil Bréhier avevano notato l’importante analogia che sussiste tra l’esistenzialismo e il nichilismo, da un lato, e lo gnosticismo dall’altro. In particolare Bréhier ha fatto osservazioni molto penetranti sulla corrispondenza che sussiste tra l’analitica esistenziale di Essere e tempo e la struttura del romanzo gnostico. In Heidegger si racconterebbe la caduta dell’esistenza individuale nella finitudine, così come nella gnosi si racconta la caduta dell’anima nell’abisso del mondo. Soltanto che in Essere e tempo la narrazione è priva dell’inizio e della fine, ed è proprio questa ignoranza circa la sua provenienza e la sua destinazione ciò che conferisce alla vita romanzata la sua tensione drammatica – come in una tragedia di cui non si conoscessero l’origine e la soluzione. Semplificando, lo svolgimento del romanzo gnostico si articola nei seguenti episodi: 1) v’è anzitutto l’Unità originaria; 2) da essa si staccano alcune ipostasi che vogliono rendersi indipendenti – qui stanno il peccato e la colpa – e cadono nel mondo, nel quale, dimentiche della loro origine e inclini alla curiositas, si perdono (il che corrisponde secondo Bréhier alla «cura» heideggeriana); 3) mediante la conoscenza (gnosi) alcune esistenze riescono a superare la dimenticanza e a riacquisire la reminiscenza della loro origine, facendovi ritorno.

Ebbene, se del racconto si oscurano l’inizio e la fine, si ottiene esattamente la sequenza temporale dell’esistenza finita nella dinamica di inautenticità e autenticità così come Heidegger la descrive. L’analitica esistenziale sarebbe dunque l’espressione di un atteggiamento gnostico e nichilista che non conosce più l’unità divina originaria né crede in un ritorno, ma si consuma tutto nell’orizzonte vuoto e drammatico della finitudine.

Questo paradigma di lettura lumeggia da una nuova angolatura non solo l’opera di Heidegger, ma anche due sviluppi opposti del pensiero contemporaneo che vi si sono ispirati: quello in direzione della teologia e della filosofia della religione, e quello in direzione dell’esistenzialismo ateo e nichilista. Nel primo caso si è saggiata la possibilità di pensare il sacro e il divino nell’epoca del disincanto, ostile alle trascendenze, mettendo in questione le categorie filosofiche impiegate dalle teologie tradizionali e affinandone gli strumenti concettuali. Ciò ha condotto a rivalutare quei modi di pensare il divino, come la teologia apofatica, nei quali è attuata ante litteram, per ragioni e in modalità diverse, una vigilanza critica nei confronti delle determinazioni positive di Dio (cfr. Weischedel, 1972; Garaventa, 1989). In tal senso si è potuto perfino sostenere – comparando il monoteismo ebraico, cristiano e islamico – che la causa del nichilismo culturale dell’Occidente è una conseguenza della determinazione di Dio come persona e dell’uomo come individuo. Andrebbero dunque messi in questione il primato metafisico che l’Occidente accorda al principio di individualità e il dualismo cosmoteologico che ne scaturisce (cfr. Corbin, 1986: 136 sgg.; Guénon, 1972: 83-99).

Nell’altra direzione, quella dell’esistenzialismo ateo e nichilistico, si è tentato di pensare la fatticità e la finitudine dell’esistenza, e precisamente nell’assurdità che le deriva per la mancanza di princìpi che la spieghino e le diano un senso. In questa prospettiva, il fondersi di esistenzialismo e nichilismo – ad esempio nell’opera di pensatori come Jean-Paul Sartre e Albert Camus – ha apportato un contributo decisivo alla tematizzazione e alla chiarificazione dell’esistenza umana.

Negli scritti di Sartre, per esempio, senza che il concetto di nichilismo sia impiegato come tale, si avverte ovunque la presenza di un atteggiamento nichilistico esplicito, a volte quasi ostentato. Ciò vale soprattutto per gli scritti del periodo esistenzialista. In L’être et le néant (1943) – le cui intuizioni sono preparate e accompagnate da una copiosa produzione letteraria, nella quale spicca per l’atmosfera nichilistica evocata il romanzo filosofico La nausée (1938) – il nulla e la negatività campeggiano al centro della trattazione e hanno una funzione determinante nello sforzo di definire il carattere radicalmente libero dell’esistenza umana. Quest’ultima, in quanto è libertà, non può essere condizionata da nessuna determinazione, nessun concetto, nessuna definizione; essa è per essenza ciò che sceglierà di essere e ciò che diventerà con la sua scelta. L’uomo è l’essere in cui l’esistenza precede l’essenza e la determina. Esistenza e libertà, pensate coerentemente insieme, impongono da un lato la negazione di Dio – giacché, se lo si ammettesse, si avrebbe eo ipso un principio che determinerebbe l’essenza dell’uomo prima della sua esistenza – e dall’altro costringono l’uomo, abbandonato a se stesso, a inventare ognora la sua esistenza decidendo che farne. Sennonché, la libertà cosciente, il «per-sé», che espone l’uomo all’inevitabile incombenza di un continuo progettarsi, non è una libertà astratta, ma è sempre calata in una situazione, gettata in una condizione, inserita nel mondo delle cose, dell’«in-sé». L’esistenza è coscienza e libertà che trascende il mondo, ma non può trascenderlo se non riferendovisi continuamente. In quanto poi l’esistenza è corpo, diventa cosa tra cose, contingenza assurda fra contingenze. Il corpo «è la forma contingente assunta dalla necessità della mia contingenza» (Sartre, 1965: 385). La libertà del per-sé ha nella contingenza dell’in-sé il proprio termine di riferimento: l’esistenza, in quanto coscienza e libertà, non si riduce alla gratuità opaca dell’essere del corpo o delle cose, ma costantemente lo nega e lo trascende. Essa si esplica, tutta, nella libertà che la costituisce come per-sé e con cui, negando ogni preventivo condizionamento e ogni fatticità, si proietta dal nulla nel nulla. La libertà dell’esistere umano, per essere affermata nella radicalità delle sue conseguenze, implica una «nientificazione» (néantisation) che priva l’uomo di qualsiasi riferimento esterno a cui appoggiarsi e lo costringe a ripiegarsi su se stesso, a essere la propria libertà e il proprio nulla. La libertà è quel peculiare modo d’essere che si fa mancanza d’essere, cioè nulla. La conclusione di Sartre è coerente: l’uomo è una passione inutile. Ricompare qui, benché non esplicitato, il motivo del nichilismo gnostico.

Chi invece ha pienamente presente la struttura gnostica sottesa alla propria riflessione esistenzialistica e nichilistica è Camus. Questa consapevolezza non stupisce se si considera che nella tesi di laurea Métaphysique chrétienne et néoplatonisme (1936), in cui al centro della trattazione stanno le figure di Plotino e Agostino, Camus si era occupato della gnosi e le aveva dedicato l’intero secondo capitolo del lavoro (Camus, 1965: 1250-69). Benché qui egli non raggiunga ancora né la prospettiva né l’originalità degli scritti che lo resero famoso, e non sia quindi possibile stabilire connessioni precise, si può tuttavia mettere in evidenza come la sua trattazione della gnosi proceda per «temi» e «soluzioni», e segua un approccio problematico interessato a cogliere la struttura di tale pensiero. Ciò segnala un interesse non meramente storico ma tipologico, alla luce del quale non si può liquidare come una semplice coincidenza il fatto che Camus scelga come titoli di alcune sue opere altrettante metafore gnostiche: L’étranger, La chute, L’exile et le royaume. Da tale prospettiva appare inoltre assai più chiaro l’orizzonte metafisico del nichilismo che Camus tratta e svolge lungo il filo conduttore dei due motivi che lo ossessionano, cioè l’assurdo e la rivolta della finitudine. Il primo motivo sta al centro di Le mythe de Sisyphe (1942), dove la gratuità dell’esistere – una volta tacitati o morti gli dèi – è rivendicata come una faccenda umana che va vissuta senza ragioni e senza spiegazioni. Il secondo motivo sostanzia di sé quello che va considerato uno tra gli studi più illuminanti e profondi sul problema del nichilismo, L’homme revolté (1951). Forte del suo invidiabile talento letterario Camus ricostruisce in una suggestiva rassegna la storia del nichilismo, e alla fine presenta l’attitudine della rivolta come l’unica virtù praticabile per strappare un senso all’assurdità della condizione umana.

Ma la tematica del nichilismo ha trovato un clima propizio per attecchire e diffondersi non solo nella stagione e negli ambienti dell’esistenzialismo. Condizioni favorevoli a ciò si sono verificate anche in altri luoghi e momenti del pensiero francese contemporaneo, specialmente là dove ci si è fatti carico del problema della finitudine. Per la confluenza di esistenzialismo e nichilismo, tipica di un certo stile filosofico francese, non si sottolinerà mai abbastanza l’importanza che ebbero i seminari sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel tenuti da Alexandre Kojève all’École des Hautes-Études tra il 1933 e il 1939 – e frequentati, tra gli altri, da Raymond Queneau, Georges Bataille, Jacques Lacan, Raymond Aron, André Breton, Pierre Klossowski, Maurice Merleau-Ponty, Jean Hyppolite, Jean Wahl e secondo alcuni anche dal giovane Sartre. Non è un caso che, contro le letture tradizionali di Hegel, nei suoi seminari Kojève evidenziasse e valorizzasse fortemente il momento della negatività e la sua funzione decisiva nella costituzione della finitudine e delle sue figure, come vedremo più avanti (cfr. cap. XIV).

Ma per dare un’idea immediatamente convincente della presenza delle tematiche nichilistiche nella cultura francese basterà ricordare, per il loro valore di paradigma e per le suggestioni che evocano, due nomi: Georges Bataille ed Emil M. Cioran. Il primo fu presente ai seminari di Kojève, rimase in rapporto con lui al punto da chiedergli, agli inizi del 1950, una prefazione per la nuova edizione di L’expérience intérieure, riconoscendo però alla fine l’inconciliabilità delle loro prospettive. La sua opera è talmente difficile da abbracciare, che non è qui nemmeno il caso di cercare di indicarne il filo conduttore. Ciò che preme dire è che essa è attraversata da cima a fondo dalla lucida consapevolezza che il nichilismo è un’ombra costante che inevitabilmente ci accompagna quando pensiamo in assenza di dèi o quando ci picchiamo di portare al linguaggio la negatività, il limite, l’alterità. Ed è proprio quanto avviene nei tre volumi della «summa atheologica» con cui Bataille esordì da filosofo: L’expérience intérieure (1943), Le coupable (1944), Sur Nietzsche (1945).

Quanto a Cioran, anche il suo pensiero richiederebbe un discorso articolato, ma ci limitiamo qui a una sola osservazione. La sua opera somministra, pagina dopo pagina, un concentrato di pessimismo che avvelena mortalmente tutti gli ideali, le speranze e gli slanci metafisici della filosofia, cioè tutti i tentativi di ancorare l’esistenza a un senso che la rassicuri di fronte all’abisso dell’assurdità che in ogni momento la minaccia. Le meditazioni di Cioran ci sospingono fino a quel punto in cui ciascuno di noi sta nudo di fronte al suo nudo destino. In La chute dans le temps (1964) – un titolo di chiara provenienza gnostica – si dice:

Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità (Cioran, 1995: 11-12).

L’uomo è insomma un nulla conscio di sé, è «colui che non è»: così asserisce Cioran rovesciando la definizione veterotestamentaria di Dio come «colui che è». La sua costellazione di pensiero non va confusa con quella delle speranzose filosofie dell’esistenza. È piuttosto quella dello gnostico che – consapevole di essere caduto nel tempo e nella finitudine, di essere libero ma al tempo stesso prigioniero nell’angusta cella dell’universo – vuole salvarsi in forza di se stesso e nega disperatamente ogni valore positivo del mondo, incendiando con furore iconoclastico tutte le immagini, i fantasmi e gli dèi che lo popolano, pur sapendo che gli altari abbandonati verranno abitati da demoni. Un’aura palesemente gnostico-nichilistica emana così dagli scritti di questo mistico senza Dio e si condensa, come un’ossessione, nella sequela dei suoi taglienti aforismi e delle sue peregrinazioni saggistiche. Il nichilismo con cui si ha qui a che fare è più evocato con immagini ed effetti letterari che non svolto ed esposto nei giri ampi e rigorosi del ragionamento filosofico. Ma proprio così vengono alla luce in maniera quasi abbagliante la disperazione e insieme la lucidità che lo sostengono, la malinconia e l’accanimento di cui si nutre, l’empietà che lo attrae verso la fosforescenza del male e al tempo stesso la devozione con cui Cioran si slancia verso quella «versione più pura di Dio» che è per lui il Nulla.

Ai confini di questo scenario si colloca poi un’altra singolare figura, poco nota e probabilmente minore, ma inevitabile per chiunque affronti l’argomento del nichilismo gnostico: Albert Caraco. Nato a Istanbul nel 1919, all’indomani della Rivoluzione russa e della prima guerra mondiale, quando l’antica capitale era stata occupata dalle potenze vincitrici e invasa dagli emigranti russi, il giovane fu presto coinvolto nella vita errante della famiglia ebrea da cui discendeva. Il padre José, procuratore di banca, si trasferì prima a Vienna, poi a Praga, e qualche anno più tardi a Berlino. «I miei genitori erano nomadi, lo trovavano normale, vivevano pericolosamente, senza capitali né passaporto», annoterà con un velo di mestizia in Ma confession, il testamento autobiografico pubblicato postumo (Caraco, 1975: 13). Con la preveggenza dei nomadi, i Caraco abbandonarono per tempo anche la Germania e agli inizi degli anni Trenta si stabilirono a Parigi. Qui il geniale rampollo, che parlava e scriveva correntemente francese, tedesco, spagnolo e inglese, si annoiò non poco tra i banchi del modesto Lycée Janson-de-Sailly. Voleva diventare medico. I genitori lo costrinsero invece all’inutile diploma dell’École des Hautes Etudes Commerciales, conseguito nel 1939 e da allora abbandonato in un cassetto.

All’approssimarsi della guerra la famiglia cercò un rifugio più sicuro oltre Oceano: in Honduras, poi in Brasile, a Buenos Aires, infine a Montevideo. Qui i Caraco rimasero fino a dopo la guerra, acquisendo la cittadinanza uruguayana e convertendosi per convenienza sociale al cattolicesimo. A questo periodo risalgono i primi tentativi letterari di Albert, in prosa e in versi, ispirati al simbolismo e alla letteratura fantastica. Il giovanissimo autore illustra di sua mano con disegni stilizzati in bianco e nero i libri che pubblica: Inés de Castro (1941), Il ciclo di Giovanna d’Arco (Le cycle de Jeanne d’Arc, 1942), I misteri di Eusebio (Les mystères d’Eusèbe, 1942), Il ritorno di Serse (Retour de Xerxès, 1943). Nei salotti coloniali della buona società latino-americana le sue opere riscuotono un certo successo, che alimenta le morbose aspettative del padre e della madre. I due si impegnano per riservare al giovane un’unica incombenza: quella di coltivare il proprio talento letterario. Del resto la scrittura è l’unica attività di cui è capace, l’unica a cui si sente votato, anzi, obbligato. «Scrivo per una specie di bisogno fisico» (Caraco, 1975: 232), «se non scrivessi sarei morto da tempo» (Caraco, 1975: 164). Pagine e pagine vergate giorno dopo giorno, isolandosi dal mondo e rifugiandosi nei propri sogni, nelle proprie chimere, nelle proprie idiosincrasie.

Quando al rientro della famiglia in Europa, a Parigi, prende atto del compiuto isolamento, lo vive come una rigenerazione: «Sono nato a me stesso tra il 1946 e il 1948, fu allora che aprii gli occhi sul mondo, ero stato, fino a trent’anni passati, cieco» (Caraco, 1975: 33). Ovviamente il mondo su cui apre le sue finestre non è quello di Parigi, ma il tetro universo dei propri pensieri, tra i quali comincia a peregrinare senza speranza. Il libro delle lotte dell’anima (Le livre des combats de l’âme, 1949) ottiene il premio Edgar Poe. Ma Albert è sempre più solo, chiuso in se stesso:

 

 

La solitudine e il nulla bastano al mio essere (Caraco, 1975: 12).

 

 

Da questa solinga postazione lancia strali e veleni contro tutti. Roger Caillois è apostrofato come «magro sofista e ragionatore appuntito, sub-machiavellico da prefettura, cresciuto nel serraglio di un editore», «un uomo che non ha gran che da dire, che manca in modo assoluto di fiamma e di genio, e la cui opera è una successione di noticiole messe in fila una dopo l’altra» (Caraco, 1975: 168). Sulla Beauvoir e Simone Weil sentenzia: «Non c’è nulla di più miserabile del Secondo sesso, e se, a rigore, stimo la forma della Weil, il contenuto mi sembra ridicolo» (Caraco, 1975: 164). E delle riviste francesi più celebri scrive: «Quando per caso apro “Esprit” o “Les Temps modernes” mi prende l’orrore» (Caraco, 1975: 172). Exempla non sunt multiplicanda praeter necessitatem.

Fedele alla disciplina quotidiana della scrittura, accumula un’impressionante opera filosofica, ma non si cura nemmeno di pubblicarla. La ragione? «Scrivo per il mio cassetto», constata sconsolato (Caraco, 1975: 196). Il distillato dei corrosivi pensieri che zampillano dal suo calamaio è un piccolo denso taccuino: Breviario del caos (Bréviaire du chaos, 1982). A esso si associa un suo personale dizionario del pessimismo: l’Abécédaire de Martin-Batôn (1994). Annotazioni fulminanti, massime e sentenze dal nitore stilistico che le avvicina all’aforisma. Impressiona la martellante insistenza con cui Caraco batte e ribatte motivi classici del nichilismo europeo, l’occhio rapace con cui scruta l’universo per spogliarlo di qualsiasi senso o ipotesi esplicativa. Il suo pessimismo metafisico è drastico: l’essere, al livello più profondo che il nostro pensiero scandagli, non è altro che caos, indifferenza, declinazione del nulla in tutte le sue variazioni.

 

 

La natura del mondo è l’assoluta indifferenza, e dovere del filosofo è quanto meno essere simile alla natura del mondo (Caraco, 1998: 24).

 

 

Noi invochiamo il caos e la morte sull’universo attuale e plaudiamo alla loro venuta (Caraco, 1998: 59).

 

 

Il futuro dirà che gli unici chiaroveggenti erano gli Anarchici e i Nichilisti (Caraco, 1998: 105).

 

 

«Disfattismo filosofico» potremmo definire il principio intorno a cui ruotano i motivi della sua plumbea e disperata riflessione: l’assoluta indifferenza verso l’esistente, corroso dal tarlo della decadenza, l’opposizione inflessibile a ogni ideale, l’apodittico rifiuto di ogni trascendenza e ogni ordine, l’ossessione della catastrofe e della morte. L’unica religione che accetta è quella gnostica:

 

 

Se mi si domandasse quel che credo, mi confesserei Gnostico, e lo fui da quando ho cominciato a ragionare e sentire (Caraco, 1975: 64).

 

 

Una fede, questa, che il tempo consolida in lui:

 

 

Più invecchio e più la Gnosi parla alla mia ragione, il mondo non è governato da una Provvidenza, è essenzialmente malvagio, profondamente assurdo, e la Creazione è il sogno di un’intelligenza cieca o il gioco di un principio senza morale (Caraco, 1975: 77).

 

 

Una certa consolazione sembra venirgli dall’Eterno Femminino: «Voglio che il principio femminile presieda alla fondazione della Città futura» (Caraco, 1998: 76). E annuncia questo miraggio nella convinzione di essere «uno dei profeti del nostro tempo», irrefragabilmente certo della sua previsione: «Quello che affermo non è un’utopia, è una verità che intravedo» (Caraco, 1998: 76). Ma il cammino verso il Nuovo Inizio è lungo e travagliato. Dovrà passare per la fine della storia, altra pesante tesi metafisica su cui egli insiste:

 

 

L’ordine a venire sarà la tomba della storia, e solo a questo prezzo la nostra specie sopravviverà; dobbiamo uscire dalla Storia e ne usciremo solo per mezzo delle donne, la dominazione delle donne ci affrancherà dalla sua tutela e toglierà la sua ipoteca (Caraco, 1998: 78).

 

 

È bene però non farsi illusioni: non tanto perché il femminile sia per essenza volubile, ma perché non c’è ragionamento di Caraco che non nasconda in cauda venenum. L’esaltazione del principio femminile si ribalta nel rifiuto della donna in carne e ossa, cioè del sesso, della vita. Compulsando le sue frasi sull’argomento, gli si estorce la verità: «La mia politica consiste nell’opporre alle donne il principio femminile, ho la religione di tale principio, e ciò mi consente di ignorare le donne» (Caraco, 1975: 201). Di qui la sua perentoria inferenza: «La castità risolve tutti i problemi» (Caraco, 1975: 200). Ciò vale anche in prospettiva filosofica: «Il maggior vantaggio della continenza è che ci distacca dal mondo, il mondo è donna e quando fornichiamo ci alleiamo con il mondo e veniamo coinvolti nel dolore e nella preoccupazione» (Caraco, 1975: 174). Va detto peraltro, a onor del vero, che per Caraco il maschio non è migliore della femmina. Sperare negli esseri umani è una pia illusione:

 

 

A che serve predicare a quei miliardi di sonnambuli che vanno verso il caos con passo uniforme, sotto il pastorale dei loro seduttori spirituali e sotto il bastone dei loro padroni? (Caraco, 1998: 62).

 

 

Queste tesi, che ci vengono imposte come dogmatiche certezze più che argomentate con ragionamenti, rimandano alla vasta trattazione che Caraco ne ha fornito in svariate opere, i cui titoli parlano da sé: La scuola degli intransigenti (L’école des intransigeants, 1952), Il desiderabile e il sublime. Fenomenologia dell’apocalisse (Le désirable et le sublime. Phénoménologie de l’apocalypse, 1953), Otto saggi sul male (Huit essais sur le mal, 1963), La tomba della storia (Le tombeau de l’histoire, 1966). E rinviano soprattutto all’esperienza vissuta da cui il suo pensiero dell’assurdo è germogliato, e che è evocata in Ma confession e nei diari postumi: Semainier de l’agonie (1985), Semainier de l’incertitude (1994).

 

 

In un suo appunto leggiamo: «Il Signor Padre dorme nella stanza accanto, come se volesse imparare a morire; lui è l’ultimo legame che mi tiene attaccato a questo mondo, e se un bel mattino non dovesse svegliarsi, lo seguirei di buona grazia» (Caraco, 1975: 16).

 

 

Albert Caraco fu di parola. Un giorno di settembre del 1971 in cui il padre rese l’anima a Dio, aspettò con pazienza la sera. Poi, imbottitosi di barbiturici, si tagliò la gola con una lama per andare incontro il più rapidamente possibile alla fine della sua peregrinazione terrena.

 

 

Nichilismo,  teologia politica, secolarizzazione: Carl Schmitt

 

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A differenza di quanto è avvenuto nella cultura francese, almeno in pensatori come Camus, Bataille e soprattutto Cioran, che si compiacciono del loro spleen nichilistico, non si può dire lo stesso dei pensatori dell’altra sponda del Reno. Certo, i grandi teorici tedeschi del nichilismo – Benn, Jünger, Heidegger – nelle loro analisi si sono talmente chinati sull’esperienza nichilistica che spesso questa propensione è stata loro rinfacciata come una colpa. In verità il loro pensiero è mosso nel profondo da una volontà di superare, o quanto meno di esorcizzare, la crisi e la negatività di cui tale movimento è espressione.

Merita di essere nominata in questo senso una figura che, insieme ai tre appena menzionati, ha dato nel Novecento un contributo decisivo alla comprensione e all’elaborazione teorica del nichilismo: Carl Schmitt. Nella sua opera è svolta, dal punto di vista della filosofia politica, una lucida indagine sul nichilismo moderno e contemporaneo e sui processi di secolarizzazione e neutralizzazione che lo hanno provocato. Una indagine che appare tanto più disincantata e spregiudicata quanto più accanita è l’avversione che Schmitt, in nome di una professione di fede cattolico-gnostica, nutre nei confronti degli esiti disgregatori della secolarizzazione. Come spesso accade nel caso di pensatori che fanno vibrare la forza dell’elementare, Schmitt è stato molto discusso e le sue tesi sono state oggetto di esacerbate controversie. Per gli uni egli ha impersonato un decisionismo politico che minaccia i princìpi del parlamentarismo e della democrazia, cioè i due pilastri sui quali poggia la vita politica delle società moderne; per gli altri è stato il teorico di uno Stato forte, politicamente capace di agire, cioè di decidere. Comunque sia, alcuni suoi testi – da Il concetto del Politico (Der Begriff des Politischen, 1927) a Il nomos della terra (Der Nomos der Erde, 1950) – costituiscono per la filosofia politica contemporanea punti di riferimento inevitabili.

Prendendo le mosse dal problema della odierna crisi di legittimità dello Stato, Schmitt constata che la nostra situazione è caratterizzata dall’impraticabilità delle risorse tradizionali per far fronte alla crisi, cioè dall’impossibilità di ricorrere a istanze pre-politiche in grado di dare fondamento e legittimità alla sovranità dello Stato. Tali erano in passato la teologia, le visioni del mondo e le ideologie, che oggi hanno perduto la loro forza vincolante e appaiono destinate al tramonto. Nella situazione di nichilismo politico che caratterizza la nostra epoca diventa determinante, per individuare il fondamento del potere, definire l’autentico soggetto della sovranità, cioè stabilire «chi decide». Ora, il positivismo giuridico – su questo punto il grande interlocutore e antagonista di Schmitt è Kelsen – identifica lo Stato con l’ordinamento giuridico delle leggi, nel quale però è detto soltanto come funziona l’insieme delle norme, cioè «come» si deve decidere, ma non chi decide di questo «come», cioè non chi determina il funzionamento del sistema politico-giuridico né in che modo ciò avvenga. Il funzionamento delle norme presuppone dunque una situazione di normalità già prodotta. Ma per capire come essa venga prodotta, è decisivo il momento che precede la normalità giuridica: lo «stato di eccezione». In esso, non vigendo ancora, o non vigendo più, norma alcuna, si debbono imporre le condizioni affinché le norme possano valere. Essere sovrano significa per Schmitt essere «colui che decide nello stato di eccezione» (precisamente su chi è «amico» e chi «nemico»). La chiave di volta di ogni ordinamento giuridico non sta in una norma fondamentale, come vuole Kelsen, bensì in una decisione originaria che pone la legalità e garantisce la sua efficacia.

È in questo quadro che va concepito per Schmitt lo Stato, forma tipicamente moderna del Politico. Il processo di formazione della legittimità e della sovranità dello Stato è tuttavia inscindibile dal fenomeno del nichilismo politico che ne travaglia l’autorappresentazione teorica. La modernità si caratterizza per il progressivo venire meno del fondamento teologico tradizionale della legittimità e per la corrispondente esigenza di produrla autonomamente, etiamsi Deus non daretur, cioè tramite la «finzione» della non esistenza di Dio e l’utilizzazione in sua vece di una argomentazione razionale indipendente dai dettami della teologia. Il tradizionale fondamento teologico viene allora progressivamente secolarizzato e neutralizzato, secondo il principio proferito già da Alberico Gentile: Silete, theologi, in munere alieno! I sacelli della teologia vengono svuotati e il loro contenuto trasferito nel pensiero politico, il quale, per darsi fondamento, ricorre a quadri di riferimento succedanei rispetto a quello teologico: a quello metafisico (XVII secolo), poi a quello morale (XVIII secolo), quindi a quello economico (XIX secolo) e infine, nel XX secolo, a quello tecnico. Ma la tecnica, in quanto serve a qualsiasi fine, produce lo sradicamento di ogni riferimento e orientamento tradizionale, anche di quello legato alla terra che, nella contrapposizione al mare, caratterizza per Schmitt la tradizione dello Jus Publicum Europaeum. Nel racconto Land und Meer (Terra e mare), scritto per la figlia Anima nel 1942, quando si trovava ormai isolato nella Berlino nazionalsocialista in guerra, Schmitt rilegge la storia europea alla luce della opposizione elementare di terra e mare, ordinamento politico-giuridico continentale e marittimo, ricavandone una vertiginosa affabulazione: quella di una «filosofia della storia» che vede segretamente all’opera dietro gli eventi potenze elementari quali la terra e il mare, Behemot e Leviatano, ma anche la tecnica. È quest’ultima che ha reso possibile la conquista dei mari, e quindi la nuova forma di esistenza insulare-marittima tipica dell’Inghilterra. È essa che sta dischiudendo all’uomo un nuovo grande spazio di conquista, l’aria, affiancando a Behemot e Leviatano un terzo mostro, il Grifone, signore dei cieli. Ma quale sarà, e su che cosa si fonderà, il nuovo nomos che tutti auspicano? La tecnica, che tutto uniforma e amalgama, non può in realtà costituire fondamento e ordine alcuno. Essa non riconosce alcun «luogo» naturale in cui mettere radici. È questa per Schmitt la vera condizione che caratterizza l’epoca contemporanea: la condizione di u-topia e nichilismo – fenomeni che, nel mondo sradicato dalla tecnica, sono latentemente congiunti (Schmitt, 1991a: 53). In questa situazione, quale unico criterio praticabile per una individuazione del «Politico» rimane la nuda e cruda contrapposizione di «amico e nemico» – dove per nemico non è inteso l’inimicus, cioè colui che nutre sentimenti ostili sul piano personale, né il rivalis, ossia il concorrente, o l’adversarius, vale a dire l’avversario in generale, ma l’hostis, il nemico «della patria», pubblico, politico, colui che è semplicemente «altro» e che nella sua alterità irriducibile richiede di essere affrontato nella sola disposizione adeguata, quella strategico-conflittuale della lotta.

Ma non si capirebbero veramente le tesi di Schmitt se non le si inquadrasse nell’orizzonte del problema che ha costituito il filo conduttore del suo pensiero e lo ha ossessionato fino all’ultimo: la lotta tra cattolicesimo ed ebraismo circa l’interpretazione del senso della storia universale. Tale conflitto non è per Schmitt una questione accademica ma un problema vitale. La modernità è per lui il campo di questo grandioso scontro dal quale, con la secolarizzazione, gli ebrei uscirebbero vincitori. Schmitt era convinto che i grandi pensatori ebrei del XIX secolo avessero compreso che per averla vinta sul piano della storia universale si doveva eliminare l’antico ordinamento cristiano del mondo – dunque che bisognava favorire la secolarizzazione e la disgregazione di quell’ordine. In effetti con loro entrano in circolazione i concetti fondamentali della dissoluzione: Marx, con la sua teoria del capitalismo, ha introdotto l’idea della lotta di classe che abbatte l’ordine sociale tradizionale. Freud, con la psicoanalisi e l’inconscio, ha dissolto i concetti di anima e di persona, perno dell’antropologia cristiana. Einstein, con la teoria della relatività, ha distrutto per sempre l’immagine antropocentrica dell’universo.

Ma il teorico più temibile dell’ebraismo è Benjamin Disraeli, di cui non a caso Schmitt teneva appeso il ritratto sopra il proprio scrittoio nella casa di Dahlem, a Berlino. Secondo Disraeli – che affida questa sua tesi al romanzo Tancredi o la nuova crociata (Tancred, or The New Crusade, 1847) con cui conclude la Young England Trilogy – la storia è un conflitto fra razze e v’è un popolo, quello di Israele, superiore agli altri e destinato ad affermarsi su tutti. Nella frase-chiave del romanzo si dice: «Il cristianesimo è ebraismo per il popolo». Si tratta per Schmitt di un’affermazione inaudita, che capovolge duemila anni di storia. Se fosse vera, l’eone cristiano equivarrebbe a un errore. Di più: il cristianesimo sarebbe semplicemente la strategia escogitata dagli ebrei per avere la meglio sugli altri popoli. Ma Schmitt è convinto che la storia stia dando ragione all’ebraismo e proprio per questo è colpito dalla tesi di Disraeli. L’escatologia cristiana, basata sul peccato originale e sulla redenzione dell’uomo nell’aldilà, si sta rivelando come l’interpretazione perdente della storia universale. Vincente è il messianismo ebraico: l’umanità è in cammino progressivo verso il «regno di pace» futuro, verso la «Nuova Gerusalemme», lontano nel tempo ma situata nell’aldiqua. Per Schmitt è chiaro che con la secolarizzazione moderna, al più tardi dalla Rivoluzione francese in poi, i popoli europei hanno interpretato la storia nel senso dell’ebraismo, e che l’idea ebraica di un principio universale che abbraccia tutta l’umanità ha trovato la sua incipiente realizzazione nell’era globale in cui il mondo moderno è effettivamente entrato. Dal punto di vista del teologo politico che considera il cattolicesimo romano come il katéchon, la forza che frena l’avvento dell’Anticristo, ciò equivale alla vittoria dell’élite ebraica che vuole la dissoluzione. In base a ciò si capisce l’affermazione riportata in Ex captivitate salus che Schmitt soleva ripetere: «Il nemico è la personificazione del nostro proprio problema» (Schmitt, 1987: 92).

Poco importa, ai fini di una analisi storica e teorica del nichilismo, che Schmitt – come testimoniano i diari stesi negli anni di crisi dopo la guerra, Ex captivitate salus e Glossarium – azzardi la crudezza di queste tesi inscrivendole nel quadro di una interpretazione teologico-escatologica della storia, e che rispetto a essa egli assuma l’attitudine di un «Epimeteo cristiano». Poco importa, cioè, che egli si presenti semplicemente come colui il quale mostra i mali contenuti nel vaso di Pandora, ma al tempo stesso condanna sprezzantemente, nello spirito del cattolicesimo, il soggettivismo egologico e il nichilismo del pensiero moderno e contemporaneo. Poco importa che dietro a quest’ultimo egli veda all’opera le forze del Male, cui può opporsi solo la «forza che trattiene», il katéchon rappresentato dalla Chiesa romana. Poco importano i veleni che nel Glossarium Schmitt versa contro la modernità, dichiarando, per esempio, che il preteso fundamentum inconcussum del cogito cartesiano è una sfida a Dio di una arroganza senza pari; o che Spinoza, con la sua equiparazione di Dio e Natura, abbia portato al Divino la più spudorata offesa mai proferita; o che Nietzsche, con la sua filosofia della volontà di potenza, rappresenti «il culmine della più miserabile mancanza di gusto e stupidità esistenziale». Ciò che importa è che questo Epimeteo del nostro tempo non ha paventato quella analisi radicale che lo ha condotto a scoperchiare il vaso del nichilismo.

 

 

 

Nichilismo, "posthistoire", fine della storia: Kojève, Gehlen

 

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Nel corso della secolarizzazione – di cui l’opera di Carl Schmitt mette a nudo la dinamica – la neutralizzazione nichilistica dei valori attacca anche la comprensione della storia intesa come orizzonte dell’agire umano che s’inarca tra passato e futuro abbracciando lo sviluppo progressivo degli eventi.

Nelle moderne filosofie della storia – nate dalla secolarizzazione di motivi della storia sacra in Bossuet (Discours sur l’histoire universelle, 1681), Voltaire (Essai sur l’histoire générale et sur les moeurs et l’esprit des nations, 1756), Condorcet (Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, 1795) – una polarità di fondo determina la tensione che caratterizza il corso delle res gestae: la polarità fra storia e utopia, fra tradizione e rivoluzione. Ma con l’avvento della mentalità storicista, ossia di quel positivismo della storia che considera quest’ultima non come «maestra di vita», bensì come oggetto di osservazione scientifica, viene riassorbita la tensione che tradizionalmente la storia trasmetteva all’agire. Nella seconda delle Considerazioni inattuali (Unzeitgemäße Betrachtungen, 1873-76), dal celebre titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1874), Nietzsche ha previsto l’esito a cui approda la moderna comprensione scientifica della storia. Prigioniero della mentalità storicista, l’uomo si aggira come un turista ozioso nel giardino della storia rendendo visita a tutte le bellezze e le curiosità di cui esso fa mostra, ma diventa egli stesso incapace di azione storica: si comporta da osservatore distaccato, indifferente alla tradizione e all’utopia, in conformità con quel tout comprendre che è al tempo stesso un tout pardonner e che lo priva della forza di decidere, cioè di agire. Nel compiersi della modernità – anziché fungere, mediante l’assimilazione critica della tradizione, come orizzonte e serbatoio dal quale attingere contenuti e motivi per progettare l’avvenire – il peso della comprensione storiografica della storia finisce per soffocare e paralizzare l’agire. Relativismo e scetticismo, pessimismo e nichilismo sono momenti del cammino che porta verso l’esaurimento della storia intesa come decorso lineare delle magnifiche sorti e progressive.

A confermare questo processo fanno la loro comparsa riflessioni e convinzioni crepuscolari che incrementano la sensazione che si sia giunti a uno stadio finale irreversibile. Viene teorizzata espressamente l’idea di una «fine della storia» e di una «posthistoire». La «fine di tutte le cose», che l’illuminista Kant prospettava come senso finale della storia a cui mettesse capo il costante progresso dell’umanità verso il meglio, nell’odierno dibattito sulla «posthistoire» e sulla fine della storia è diventata una mera «agonia della fine», il soffocante riconoscimento dell’irreversibilità dello stato raggiunto.

Ma che cosa si intende per «posthistoire»? Il senso dell’espressione, evidentemente, dipende dall’idea di storia che si pretende di essersi lasciati alle spalle. Nel dibattito attuale essa è stata introdotta e usata in funzione di una diagnosi critica del presente: si vorrebbe indicare l’uscita dalla storia intesa come progresso lineare e l’entrata in una dimensione dove ciò che era storia – evoluzione, sviluppo, progresso secondo il corso inarrestabile e irreversibile del tempo – è stato messo fuori gioco dalla stagnazione a cui gli eventi storici hanno portato. Intellettuali di destra e di sinistra hanno usato il concetto di «posthistoire» riempiendolo di contenuti rispettivamente diversi. Vale la pena, qui, menzionare soprattutto due pensatori che, indipendentemente l’uno dall’altro, hanno entrambi fatto uso di tale concetto: Alexandre Kojève e Arnold Gehlen.

Kojève, nato a Mosca, si era occupato in gioventù del messianismo russo. La sua vasta tesi di dottorato, presentata a Heidelberg con Jaspers nel 1926, verteva sulla filosofia della religione di Solov’ëv. A Parigi, dove era emigrato, aveva avuto contatti con Berdiaev. Questi, specialmente in Le sens de l’histoire (1923) e nell’Essai de métaphysique eschatologique (1941), aveva già sviluppato contro l’ottimismo del progresso e la «divinizzazione del futuro» il motivo della «fine della storia», inserendolo nella cornice di una escatologia millenarista. Kojève, nei già ricordati seminari sulla Fenomenologia dello spirito, è anch’egli affascinato dalla tesi della «fine della storia», ma la elabora – partendo dalla propria lettura della dialettica hegeliana di servo e signore e da una singolare interpretazione della figura di Napoleone – in una prospettiva marxista del tutto originale.

La tesi, in breve, è questa: la storia finisce, in linea di principio, con la vittoria di Napoleone a Jena. Tale evento – di cui Hegel coglie immediatamente l’importanza scrivendo il 13 ottobre 1806 a Niethammer di avere provato una «meravigliosa sensazione» nell’ammirare nel vincitore di Jena «l’anima del mondo concentrata in un solo punto» – rappresenta per Kojève l’affermazione su scala mondiale dei principi della libertà e dell’uguaglianza, rivendicati dalla Rivoluzione francese e realizzati nell’impero fondato da Napoleone, l’État universel et homogène, con cui la storia giunge a compimento e finisce. La Fenomenologia dello spirito descrive il processo attraverso il quale l’uomo si afferma come soggetto autocosciente e libero, e diventa cittadino dello Stato universale e omogeneo. In tal senso essa è una sorta di «antropologia filosofica» ovvero di ricostruzione razionale del percorso attraverso il quale l’uomo, in virtù della sua costituzione temporale che lo rende capace di prassi, cioè di proiettarsi nel futuro e di agire, si stacca dalla naturalità dell’animale e produce storia, realizzando se stesso come possibilità nell’esistenza temporale concreta.

Il processo della formazione dell’uomo non è tuttavia un percorso lineare e pacifico, ma è essenzialmente segnato dalla lotta che l’individuo conduce al fine di farsi riconoscere dall’altro come soggetto libero, anche al rischio della morte, cioè della negatività, della possibilità del non-essere. È la celebre dialettica di servo e signore, mirabilmente colta da Hegel e valorizzata da Kojève, la quale possiede un carattere «antropogeno» nel senso che «solo in e mediante questa Lotta l’uomo può crearsi a partire dall’animale» (Kojève, 1996: 710).

È il desiderio del riconoscimento e della libertà – dunque non un elemento razionale, ma l’appetitività, che è negatività – a mettere in moto la storia come processo di formazione dell’umanità. Quando l’uomo, attraversati tutti i passaggi e le tappe descritte da Hegel, giunge a farsi riconoscere come libero ed uguale, cioè trova soddisfazione e realizzazione, allora «la storia è finita» perché ha esaurito le possibilità che la lotta per il riconoscimento implicava. Nell’impero universale e omogeneo fondato da Napoleone, la contrapposizione mortale tra servo e signore perviene alla sua conclusione, i conflitti e le contraddizioni precedenti trovano conciliazione nella libertà e nell’uguaglianza. Insomma, il processo della formazione dell’uomo è compiuto e con ciò le possibilità della storia, in quanto regno dell’agire, sono giunte a saturazione:

 

 

Non ci sarà mai più niente di nuovo sulla terra (Kojève, 1996: 552).

 

 

Come intendere questa tesi spettacolare in relazione alle convulsioni e alle novità storiche del Novecento? È concepibile sostenere che la storia sia finita proprio nel momento in cui essa subisce tante terribili accelerazioni? L’applicazione all’oggi della tesi hegeliana è un punto capitale sul quale Kojève ha sempre adoperato molta circospezione, una sottile ironia e a volte reticenza, ma sul quale ha dato, in un modo o nell’altro, indicazioni di grande lungimiranza. Se inizialmente la fine della storia poteva sembrare una sorta di suo esperimento mentale, una possibilità teorica di là da venire, in seguito egli si è convinto che essa è ormai diventata realtà effettiva. E che se la fine della storia significa «la morte dell’uomo in senso proprio» ovvero «la cessazione dell’azione nel senso forte del termine», allora l’uomo che vive nei prolungamenti «post-istorici» del tempo non è più propriamente umano: dominata la natura e pacificata la società, egli non è più capace di azione, cioè di quella negatività distruttrice e creatrice che fonda la storia. A questo punto le masse regrediscono a una forma di vita «animale», resa non tanto «felice», come Kojève ipotizzava originariamente, bensì «contenta», come si corregge in una nota aggiunta nel 1968 (Kojève, 1996: 543-44), nel senso che si «accontenta» dall’edonismo «naturale» del gioco e dell’amore che regna sovrano nelle moderne società consumistiche. È l’American way of life «il genere di vita proprio del periodo post-istorico, dal momento che l’attuale presenza degli Stati Uniti nel Mondo prefigura il futuro “eterno presente” dell’umanità tutt’intera» (Kojève, 1996: 543). A ciò egli guarda con disincantato realismo, da una prospettiva pragmatica e materialista, come a un dato di fatto da assumere nella sua positività, senza la «negatività ideale» generata dall’immagine elitaria dell’uomo libero ed emancipato.

 

 

La scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale che è in accordo con la Natura o con l’Essere-dato. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto, cioè l’Azione negatrice del dato e l’Errore, o in generale il Soggetto opposto all’Oggetto (Kojève, 1996: 541).

 

 

Per l’élite intellettuale rimane tuttavia un’altra strada, diametralmente opposta a quella del ritorno all’animalità. Kojève ne intravede una prefigurazione nello «snobismo allo stato puro», completamente disinteressato, della civiltà giapponese, che ha creato «delle discipline negatrici del dato “naturale” o “animale” [come la cerimonia del tè] che superano, per efficacia, di gran lunga quelle che nascevano dall’Azione “storica”» (Kojève, 1996: 543). Si apre qui la possibilità di sublimarsi nella forma di vita del saggio:

 

 

Una volta istituito l’Impero universale e omogeneo, non ci sono più guerre, né rivoluzioni. In esso l’uomo può ormai vivere senza rischiare la propria vita. Ma l’esistenza veramente umana è allora quella del Saggio, che si limita a comprendere tutto, senza mai negare o modificare nulla (se non trasferendo le «essenze» dal reale nel discorso) (Kojève, 1996: 700).

 

 

Eppure, a rigore, nemmeno la Saggezza è una forma di vita umana. Essa infatti «non è né libera, né storica nel senso proprio di questi termini, nel senso attribuito loro da Hegel quando parla dell’Uomo prima della fine della Storia» (Kojève, 1996: 700).

L’uomo in senso proprio è per Kojève – secondo una celebre espressione di Hegel – «questa notte, questo Nulla, che tutto contiene nella sua semplicità-indivisa». Ciò vuol dire «che il fondamento della sorgente della realtà oggettiva (Wirklichkeit) e dell’esistenza empirica (Dasein) umane sono il Nulla che si manifesta o si rivela come Azione negatrice o creatrice, libera e cosciente di se stessa», e che la storia è «il movimento dialettico del potere che mantiene nell’Essere il Nulla che è l’Uomo» (Kojève, 1996: 716). Kojève conclude:

 

 

Questo potere stesso si realizza e si manifesta come Azione negatrice o creatrice: Azione negatrice del dato che è l’Uomo stesso, o azione della Lotta che crea l’Uomo storico; e Azione negatrice del dato che è il Mondo naturale in cui vive l’animale, o azione del Lavoro che crea il Mondo culturale, al di fuori del quale l’Uomo non è che il Nulla puro, e nel quale egli differisce dal Nulla solo per un certo tempo (Kojève, 1996: 716-17).

 

 

Assai diversa è la prospettiva di Arnold Gehlen. In saggi pubblicati negli anni Cinquanta e Sessanta, egli ha introdotto il concetto di «posthistoire» e di «fine della storia» nell’area culturale tedesca, elaborandolo in chiave essenzialmente sociologica e in una colorazione politica che – a differenza di quella marxista di Kojève – si dichiara conservatrice. Gehlen si basa in verità sulle indicazioni storico-terminologiche fornite nel libro Massificazione e decadenza culturale (Vermassung und Kulturverfall, 1951) da Hendrik de Man, altra singolare figura di «conservatore rivoluzionario», il quale già aveva osservato che apparentemente «noi siamo entrati in un’epoca che non fa più parte della storia» (de Man, 1951: 135). E aggiungeva che il primo a formulare questa idea era stato Bertrand de Jouvenel, e che prima ancora di lui il matematico ed economista francese Anton-Augustin Cournot (1801-1877) aveva usato il concetto di «post-histoire», sia pure in un senso diverso, insieme a quelli di «stabilizzazione morfologica» e «archetipo». Applicando al presente la concezione di Cournot, de Man afferma che «la nostra civiltà ha saturato il proprio senso “archetipico” ed è quindi entrata in una fase di insensatezza; l’alternativa sarebbe allora, dal punto di vista biologico, o la morte o la mutilazione» (de Man, 1951: 135). Riprendendo de Man, a sua volta Gehlen asserisce che Cournot ipotizza «uno stato finale in cui la storia per così dire entrerà in una stasi, giacché, rispetto al funzionamento regolare delle ruote dell’amministrazione e dell’industria, essa non avrà ormai che disfunzioni. Il futuro stato sociale che subentrerà, retto da una amministrazione universale che verrà a capo da sé delle proprie disfunzioni, in linea di principio non sarà condannato alla morte, ma è possibile immaginarselo in lassi di tempo che si estendono a piacere» (Gehlen, 1975: 126).

Per Gehlen questa dimensione «post-istorica» connota già parzialmente il nostro presente e determinerà completamente la civiltà del futuro: la dinamica dello sviluppo tecnologico-industriale, quantunque alterni accelerazioni e rallentamenti, progressi e regressi, ha condotto a uno «stato di motilità perpetua» che si riproduce e si ripete senza fine. Si ha allora una «stasi della storia» in cui la società e la cultura si «cristallizzano». È questa la situazione che Gehlen chiama «posthistoire» o – come dice esplicitamente in uno dei suoi ultimi saggi – «fine della storia»:

 

 

Dal 1954 in poi, rifacendoci a Cournot, abbiamo definito lo stato così raggiungibile «posthistoire». Subentrerà un risucchio nel futuro in cui motivi ideali passano in secondo piano, mentre invenzioni che invecchiano rapidamente vengono sostituite da nuove, e tutto ciò nel quadro da lungo tempo abituale di una continua crescita dell’umanità con un crescente standard di vita. «Il sentimento futuro dell’umanità», diceva Gottfried Benn, «non sarà quello dello sviluppo, ma quello del movimento incessante» (Gehlen, 1975: 65).

 

 

Gehlen ribadisce la tesi della «posthistoire» a più riprese – specialmente nei saggi La secolarizzazione del progresso (Die Säkularisierung des Fortschritts, 1967) e Fine della storia? (Ende der Geschichte?, 1974) – e la integra con considerazioni sulla stasi della politica mondiale. Come fattori decisivi per l’emergere di questo fenomeno egli indica l’instaurarsi dell’equilibrio tra le due superpotenze e soprattutto l’affermarsi dell’impero planetario della civiltà tecnologica: la mobilitazione totale delle risorse tecnico-lavorative elevata a stato permanente. Ciò vuol dire soprattutto il venire meno della possibilità del nuovo e del diverso, il fatto che la civiltà tecnologico-industriale ha ormai raggiunto un punto di non ritorno e ha assunto il carattere dell’irreversibilità. Non v’è più forza – non il sapere, non la filosofia, né la religione né l’arte – in grado di produrre una nuova immagine del mondo. La civiltà della scienza e della tecnica è giunta a quella che – in un omonimo saggio del 1961 – Gehlen chiama la cristallizzazione culturale.

Con l’estinguersi dell’ossigeno della storia e della tradizione, si spegne anche il fuoco dell’utopia. La tensione tra l’essere e il dover essere – che nelle forme della secolarizzazione moderna era stata il motivo trainante dell’agire umano nella storia, che Kant aveva assunto come fondamento della speranza che l’umanità fosse in costante progresso verso il meglio, e che ancora Hegel, pur domandola nell’identità di realtà e razionalità, teneva accesa nel movimento della vita dello spirito – oggi si scarica e viene meno. Spenti i vulcani del marxismo, smantellate le ultime roccaforti del pensiero utopico, prende piede la convinzione che i contenuti della vita felice non possano più essere anticipati, nemmeno in una descrizione controfattuale. È svanita la volontà di immaginare un lieto fine della storia e non si azzardano più filosofie della storia, se non sul piano del sapere esoterico. Il nichilismo della cultura contemporanea non è soltanto crisi dei valori e assenza di trascendenze condivise: è anche il fatto che l’agire dell’uomo non si infiamma più tra i due poli opposti della tradizione e della rivoluzione, ma si avvita nella ristretta prospettiva del «qui e ora». Non la storia né l’avvenire, ma la puntiformità dell’attimo presente è l’orizzonte per l’agire dell’uomo contemporaneo. La soggettività, principio regale del pensiero moderno, è oggi indebolita, decostruita, ed è incapace di reggere il peso dell’arco che si tende tra storia e utopia. La sua progettualità si appiattisce tutta nella fruizione e nel godimento del presente: noi vogliamo la realizzazione più libera e più completa possibile dell’individuo e la vogliamo ora; noi vogliamo la felicità più grande possibile e la vogliamo oggi; noi vogliamo la soluzione di tutti i problemi sociali, ma non un giorno futuro, nell’avvenire, bensì oggi stesso o al più tardi domani o dopodomani.

Così, alla «fine della storia» o nell’età «post-istorica», tra le ceneri spente dell’utopia l’intelligenza appare oggi incapace di produrre esperienze simboliche suscettibili di consenso e rischia di ridursi a una intelligenza cinica, che per cancellare il disagio della perdita di centri di gravità si compiace e si inebria del qui e dell’ora, del presente nella sua più puntiforme ed effimera attualità, del senso nella sua più immediata consumazione. Anche questo è nichilismo.

 

 

 

Tecnica e nichilismo

 

 

Tecnica e Nichilismo: Per una filosofia della tecnica

 

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Tra i principali fattori di accelerazione del nichilismo, ovvero tra le cause che maggiormente hanno contribuito alla consunzione dei valori e degli ordinamenti tradizionali, non pochi analisti pongono oggi la tecnica. Congiuntamente alla diffusa consapevolezza che essa sia diventata uno degli elementi dominanti della nostra epoca, il fattore trainante della globalizzazione, è emersa anche la preoccupazione circa la sua vera natura, il suo sviluppo e la possibilità di controllarne la dinamica. In ambito filosofico si è formato intorno a essa un campo di riflessioni ben definito: la filosofia della tecnica.

A giudicare da quanto è accaduto nelle aree culturali in cui questo tipo di indagine si è organizzato con le sue corporazioni, le sue riviste, i suoi congressi, e ha già ottenuto il riconoscimento di disciplina scientifica, si nota un rischio: quello che si produca una ennesima filosofia al genitivo. Voglio dire: una riflessione che sicuramente richiama una meritoria attenzione sul fenomeno di cui si occupa, ma che sostanzialmente svolge una funzione soltanto ancillare e subalterna, scarsamente orientativa.

Ora, è vero che la filosofia si è sempre sviluppata sotto vari protettorati: agli inizi quello della religione e della teologia, in seguito quello della politica, della storia e delle scienze umane, oggi soprattutto quello dell’epistemologia. Dunque nulla di male se oggi anche la tecnica ospita il suo domandare. Ma il rischio che si corre in questa nuova disciplinarizzazione – e in generale il rischio delle numerose filosofie al genitivo che sorgono in quantità: filosofia della medicina, filosofia dello sport, filosofia della moda, filosofia del design, filosofia di questo e di quello – è di ridurre la riflessione filosofica a una nobile anabasi, a una ritirata strategica dalle grandi questioni per rifugiarsi in problemi di dettaglio.

Da sempre, invece, la filosofia si è contraddistinta come forma eccelsa di pensiero trasversale, capace di inventarsi ragioni per dubitare dell’evidente, di andare alle radici e di mirare all’intero. Vien fatto allora di chiedersi: è possibile una filosofia della tecnica al nominativo? Si può fare della tecnica un problema filosofico fondamentale invitando a riflettere su ciò che essa, con le trasformazioni che ha provocato, significa per l’uomo e per la sua autorappresentazione culturale?

Tutti abbiamo dimestichezza con la variopinta vegetazione di oggetti e strumenti di cui la tecnica quotidianamente ci circonda. Tutti conosciamo il frastuono del progresso che soverchia l’uomo moderno, e il senso di smarrimento che si avverte la domenica quando la macchina riposa. Tutti vediamo quanto l’uomo d’oggi sia abile nell’innalzare capannoni industriali, ma incapace di edificare un tempio o una chiesa. Dall’età dell’oro siamo approdati alla civiltà della plastica. Ci chiediamo: è possibile abbracciare la trasformazione tecnica del mondo entro un’esperienza simbolica? Oppure la tecnica è un sistema asimbolico che sfugge alla sovranità delle nostre immagini, una «macchinazione» che non dominiamo più e che invece ci domina?

Se si volesse ricostruire la storia della moderna filosofia della tecnica – come in genere si fa per nobilitare le discipline scientifiche appena nate con una galleria di antenati – si potrebbe considerare come suo atto di nascita il celebre Discours sur cette question: le rétablissement des sciences et des arts a-t-il contribué à épurer les moeurs? che Rousseau presentò nel 1750 in risposta al quesito messo a concorso dall’Accademia di Digione. È un esempio eccelso di filosofia della tecnica al nominativo. Ma, anche senza risalire tanto indietro, basta guardare alle maggiori espressioni della filosofia della tecnica del Novecento: anch’esse hanno avuto questo carattere fondamentale.

Si pensi alle considerazioni di Werner Sombart su Tecnica e cultura (Technik und Kultur, 1911) o ai Pensieri sulla tecnica (Gedanken über Technik) che Romano Guardini concepì in forma di Lettere dal Lago di Como (Briefe vom Comer See, 1927). Oppure al Lavoratore (Der Arbeiter, 1932) di Ernst Jünger e alla Perfezione della tecnica (Die Perfektion der Technik, 1949) del fratello Friedrich Georg, alla Meditazione sulla tecnica (Meditación de la técnica, 1939) di Ortega y Gasset e a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter ihrer technischen Reproduzierbarkeit, 1936) di Walter Benjamin. O, ancora, dopo la guerra, alla critica della razionalità tecnologica di Adorno, Horkheimer e Marcuse, e a quella opposta, ma complementare, dell’ultimo Heidegger. E poi L’anima nell’età della tecnica (Die Seele im technischen Zeitalter, 1949 e 1957) di Arnold Gehlen, La tecnica, rischio del secolo (La technique ou l’enjeu du siècle, 1954) di Jacques Ellul, L’uomo è antiquato (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956-80) di Günther Anders o ancora Il principio responsabilità (Das Prinzip Verantwortung, 1979) di Hans Jonas. Fino a Techne. Le radici della violenza (1979) di Emanuele Severino. Con la loro incisività e radicalità, tutte queste analisi hanno segnalato l’emergere del problema.

 

 

 

Tecnica e nichilismo: Il conflitto tra tecnica e umanesimo

 

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In verità, per molti aspetti le conseguenze che la trasformazione scientifico-tecnologica del mondo avrebbe provocato si erano già annunciate con la prima e la seconda rivoluzione industriale. Tuttavia, anziché un atteggiamento vigile, prevalse allora l’ottimismo del progresso, una filosofia fiduciosa che assegnava senz’altro alla scienza e alla tecnica una funzione trainante nello sviluppo dell’uomo, insieme alla convinzione che grazie a esse si sarebbero potuti risolvere i suoi problemi presenti e futuri. La scienza e la tecnica furono salutate come fattore di progresso, di emancipazione e di disincanto, come un elemento omogeneo e funzionale all’umanesimo. Le prime riflessioni filosofiche sulla scienza moderna – per esempio in Comte – ne fanno il principio supremo nell’ultimo stadio di sviluppo dell’uomo, addirittura una sorta di nuova religione dell’umanità.

Anche nel Novecento, nonostante l’allarme lanciato nelle opere citate, le cose non sono molto cambiate. Si può dire che la filosofia si sia trovata sostanzialmente impreparata dinanzi al fenomeno della scienza e della tecnica, e che dunque essa non abbia prestato una considerazione particolarmente attenta al problema del loro straordinario ma incontrollato sviluppo. In un primo momento essa non ha affatto alzato la guardia. Al contrario, ha ingenuamente continuato a considerare la razionalità scientifico-tecnologica come una componente, tra le altre, dell’umanesimo progressista (Hottois, 1984; 1996).

Questa prospettiva ottimistica derivava dal convincimento che la scienza e la tecnica appartenessero a due ordini di attività diversi: teorico e pratico. La prima consisterebbe nell’ideazione e nell’accumulazione di teorie, cioè in un sapere puro. La seconda invece nell’invenzione e nella realizzazione di applicazioni pratiche. La scienza sarebbe un bene in sé, e la tecnica, a sua volta, uno strumento neutro il cui valore dipende unicamente dall’impiego che noi ne facciamo. Insomma, essa pone solo il problema del suo uso corretto. Di questa differenza è rimasta traccia perfino nel linguaggio comune che distingue tra le «scoperte» della scienza e le «invenzioni» della tecnica, tra l’individuazione di ciò che esiste già in natura secondo una sua legge, e ciò che è artefatto, prodotto dall’uomo.

In tal modo la scienza e la tecnica sono state da sempre intese come una componente essenziale della cultura umana, come strumenti indispensabili di cui essa si serve nella lotta contro l’oscurantismo e l’alienazione, per il progresso e l’emancipazione. Esse assicurano all’uomo il vivere bene o, quanto meno, una qualità di vita superiore. Sono dunque intese come «valori» che vanno salvaguardati in un duplice senso: debbono poter essere praticate e sviluppate senza vincoli secondo il principio fondamentale della libertà della ricerca, e tutti debbono poter beneficiare dei progressi scientifici e tecnologici.

Se le cose stanno così, allora, daccapo, non c’è bisogno di una particolare vigilanza nei confronti della crescita e dello sviluppo di quella che, a un certo momento, si è cominciata a chiamare semplicemente «tecno-scienza». Anche là dove si è prospettata una critica radicale dell’universo tecnologico – come nella Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer o in Eros e civiltà di Marcuse – più che la tecnica come tale si è criticata la sua organizzazione politica di tipo capitalistico.

Da tempo, tuttavia, le cose non stanno più in questi termini. Poco a poco, specialmente nel corso degli ultimi decenni, la posizione e l’immagine della scienza e della tecnica nel nostro mondo e nella sua autorappresentazione culturale hanno cominciato a cambiare. Raggiunta ormai una dimensione planetaria, ed essendo anzi diventate il primo e più importante fattore di globalizzazione, la scienza e la tecnica si presentano sempre meno come una tra le molte componenti della nostra realtà, e si sono invece trasformate nella potenza predominante ed esclusiva, alla quale si accompagna una straordinaria crescita del potere di intervento sulla natura.

Questa evoluzione è stata perseguita in nome del progresso, a fin di bene, e ha effettivamente portato a conquiste impensabili fino a poco tempo fa, potenziando sempre più la nostra capacità di sopperire al carattere difettoso dell’uomo naturale. Come già Herder faceva notare nel contesto della sua filosofia della storia, e come Arnold Gehlen ha ribadito nel quadro della sua fondazione antropo-biologica delle istituzioni, l’uomo è un «animale incompleto» (Mangelwesen) nel senso che è sprovvisto di un istinto sicuro che guidi il suo comportamento e le sue azioni. La conseguenza è che egli esperisce le situazioni della vita come problema, e in tale esperienza si trova esposto alla libertà di dover inventare il mondo delle sue possibilità, che si apre tra due estremi ugualmente insidiosi: la spaventosa naturalezza delle sue pulsioni e la sconfinatezza del suo ragionare.

La tecnica sopperisce dunque al carattere difettoso dell’uomo naturale, risolvendo i problemi che egli deve affrontare per orientarsi con successo nella vita. Lo sottolineava Ortega y Gasset quando, contro la Physis vagheggiata da Heidegger quale sede ospitale dell’abitare umano, affermava l’ostilità della Natura e la necessità che l’uomo la contrasti con la tecnica (Ortega y Gasset, 1982: 127-33). Essa produce tuttavia una sempre più potente capacità di manipolazione, che si applica a ogni cosa, compresa la realtà umana. L’universale «uomo», l’entità metafisica un tempo oggetto di astratte speculazioni e definizioni filosofiche, oggi è stata trasformata in una entità concreta, disponibile in laboratorio nella forma del genoma e suscettibile di essere trattata e modificata. Insomma, la scienza e la tecnica non riconoscono altri limiti se non ciò che è tecnicamente possibile e fattibile, e in questa loro perenne tentazione del possibile sono doppiamente protette: di diritto in virtù del principio della libertà di ricerca, di fatto perché aumentano la nostra libertà individuale e collettiva in una misura impensabile fino a non troppo tempo fa.

 

 

 

Tecnica e nichilismo: La tecno-scienza come pericolo

 

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A questo punto, però, il loro sviluppo comincia a erodere il quadro simbolico tradizionale entro il quale erano cresciute e ad entrare in conflitto con l’umanesimo progressista sotto l’egida del quale erano state accolte. Esse si scontrano in particolare con l’idea di «persona» e di «natura umana», fortemente connotata da una semantica religiosa e morale.

L’associazione tra la scienza e il progresso umano non è più così evidente e immediata come prima. Si percepisce che la tecno-scienza nasconde alcune insidie giacché sta diventando sempre più manipolatrice e va a toccare l’essenzialismo e il sostanzialismo della tradizionale visione umanistico-cristiana dell’uomo. D’altro canto essa non è in grado, in quanto asimbolica, di fornire elementi per una antropologia alternativa, all’altezza dei rivolgimenti che provoca e dei problemi che pone. Anche le formule fino a qualche tempo fa sbandierate, come quella di un’alleanza tra le due culture, di una felice armonia tra il pensiero umanistico, letterario e filosofico, e quello scientifico e tecnico, si rivelano vuote. La purezza e la neutralità cognitiva della tecno-scienza non sono più né ovvie né scontate: il pericolo potenziale è avvertito non solo sul piano delle applicazioni, ma già a livello della ricerca di base. Al punto che si solleva la questione se non sia opportuno introdurre moratorie o addirittura vietare determinate ricerche e sperimentazioni, limitando così una delle conquiste fondamentali e imprescindibili della modernità, il principio della libertà di ricerca.

Insomma, se durante il XIX secolo e all’inizio del XX la scienza e la tecnica furono considerate – con le menzionate eccezioni – come direttamente funzionali e favorevoli al progresso umano, oggi nascono dubbi a proposito di una tale identificazione immediata tra il progresso scientifico-tecnologico e la realizzazione culturale e spirituale dell’uomo. L’«epistemofilia» e la «tecnofilia» ingenue hanno lasciato il posto a un atteggiamento ispirato alla cautela e alla vigilanza. Nessuno mette in dubbio che la crescita dell’impero tecnologico presenti una infinità di aspetti positivi e affascinanti, e apra molte nuove potenzialità. Nello stesso tempo è difficile tacitare le inquietudini e le preoccupazioni circa la minacciosa eventualità che, anziché promuovere la realizzazione dell’uomo, la tecno-scienza finisca per sradicarlo dal suo mondo naturale e culturale, depauperandone le risorse simboliche.

Non occorre essere heideggeriani per condividere l’allarmata constatazione del maestro teutonico:

 

 

Ciò che è veramente inquietante non è il fatto che il mondo diventi un mondo completamente tecnico. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non sia affatto preparato a questa trasformazione del mondo (Heidegger, 1959: 20; 1983: 36).

 

 

Affermazione che va letta insieme a quest’altra:

 

 

Il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui grandezza, storicamente determinante, non può essere affatto sopravvalutata. È per me oggi un problema decisivo come si possa assegnare un sistema politico – e quale – all’età della tecnica (Heidegger, 1988: 96; 1987: 131).

 

 

Indipendentemente dalla prospettiva da cui Heidegger esamina e critica la tecnica, ciò che è decisivo è il problema da lui qui sollevato: l’essenza della tecnica e la sua governabilità da parte dell’uomo. E va riconosciuto quanto meno che il mondo contemporaneo si trova al riguardo in una situazione paradossale.

Il processo planetario della razionalizzazione scientifico-tecnica ha portato alla soluzione di intere serie di problemi. Eppure, a fronte dei loro successi, la scienza e la tecnica sono incapaci di produrre esperienze simboliche di senso in cui inscrivere il nostro essere nel mondo e nella storia. Anzi, le trasformazioni che esse hanno prodotto accelerano il disincanto e la crisi dei fondamenti, cioè l’erosione e la dissoluzione dei quadri di riferimento tradizionali.

Si è così aperta una frattura sempre più profonda fra l’homo faber e l’homo sapiens, tra ciò che l’uomo sa e può fare e la sua capacità di valutare ciò che è ragionevole fare. Scienza e tecnica ci insegnano a fare un’infinità di cose, ma non ci dicono quali è bene fare e quali invece lasciar stare. Pertanto, in una situazione in cui la nostra potenza di agire, in forza della scienza e della tecnica, cresce sia nella macrodimensione che nella microdimensione, cioè di fronte a una situazione che richiederebbe in linea di principio un orientamento maggiormente vincolante di quello passato, noi oggi non disponiamo nemmeno più dei punti di riferimento sui quali poteva orientarsi l’umanità d’un tempo.

La tendenza che si vede farsi strada un po’ ovunque per fronteggiare tale situazione è quella di fare ricorso a compensazioni che vengono ricercate in forme di sapere alternative a quelle della scienza e che sono prevalentemente l’arte, il mito, la religione o il sacro, a volte anche l’esoterico e l’occulto.

Quanto al pensiero filosofico, esso è lacerato tra due alternative: da un lato l’epistemofilia e la tecnofilia summenzionate, ovvero una attitudine di semplice accompagnamento con la conseguente sottomissione ancillare alla scienza e alla tecnica; dall’altro un sapere di tipo arcadico ma esangue, con funzioni compensatorie di cui approfittare come di uno svago e di un’evasione.

L’orizzonte dell’autorappresentazione culturale e filosofica dell’età contemporanea – che la si etichetti come «dopo Nietzsche», «dopo Weber» o «dopo Heidegger» – è un orizzonte segnato dalla convinzione che sia venuta meno ogni capacità di sintesi e che sia ormai vano sperare di dare un nome all’intero. In ogni caso non è la filosofia bensì la tecno-scienza a inventare il futuro.

Nel cristallizzarsi di questa condizione di rinuncia non sono mancate neofondazioni e riabilitazioni. Ma anch’esse possono ben poco contro l’orizzonte storico-culturale del politeismo dei valori, anzi, nemmeno più dei valori, ma delle opzioni e delle decisioni di fondo. Oggi la tirannia dei valori d’un tempo si è trasformata nell’isostenia e quindi nell’anarchia dei valori. Il formale ha prevaricato sul materiale, il convenzionale ha attaccato l’essenziale, Max Weber ha avuto la meglio su Max Scheler.

Anche chi non si rassegna a questa condizione riconosce che è ormai difficile la costituzione di senso capace di catalizzare una identità comune e di trovare disponibilità all’ascolto. La dottrina del sospetto e il disincanto del mondo, la fine insomma della ragione ingenua e sentimentale, hanno radicalmente eroso la possibilità di credere in quadri fondativi di tipo teologico, metafisico e perfino antropologico.

 

 

 

Tecnica e nichilismo: Per un'antropologia a misura della tecnica

 

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Disponiamo quindi di elementi più che sufficienti per renderci conto che la tecno-scienza sfonda ormai di continuo le barriere e il quadro culturale entro cui la visione del mondo umanistica vorrebbe contenerla. Nella situazione di evidente spaesamento verificatasi ci si chiede: l’umanesimo fornisce ancora una antropologia sufficiente per rispondere sul piano culturale e simbolico alle sollecitazioni della tecno-scienza? L’idea di umanità a essa sottesa è ancora valida e condivisa? E quali «valori» vi sono inclusi?

Come è noto, le radici fondamentali dalle quali l’Occidente ha tratto la sua concezione dell’uomo sono due: quella greca e quella biblica. Dalla prima deriva la concezione dell’uomo come «animale politico, dotato di ragione e linguaggio» (zôon politikòn lógon échon), formulata da Aristotele nella Politica (A 1, 1253 a 2-3). Dall’altra l’idea che egli sia «persona» dotata di pensiero e volontà, cioè capace di intendere e di volere, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio (faciamus hominem ad imaginem nostram et similitudinem, Gn 1, 26).

In verità, già nella letteratura umanistica sulla dignitas hominis – Pico della Mirandola, Giannozzo Manetti, Bartolomeo Facio – la celebrazione dell’uomo contro la tradizione medievale del contemptus mundi non è associata a una determinazione fissa della sua natura, bensì, al contrario, alla constatazione che l’uomo è un animale indefinito. «Magnum miraculum est homo», esordisce Pico della Mirandola nel suo celebre discorso Sulla dignità dell’uomo (De hominis dignitate, 1486), perché non ha «nihil proprium», ed è dunque «indiscretae opus imaginis»: «un’opera dalla forma indeterminata». Mentre ogni altro essere è ingabbiato entro un’essenza predefinita, l’uomo è «sui ipsius plastes et fictor», e deve darsela da sé: «L’uomo è animale di natura varia, multiforme e cangiante» (homo variae ac multiformis et desultoriae naturae animal), è un camaleonte che può trasformarsi in un bruto o in un essere divino (Pico della Mirandola, 1987: 2-9).

Viene poi Kant a denunciare l’insufficienza della definizione greca dell’uomo come animale razionale. Egli si chiede – nella Religione entro i limiti della sola ragione (Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, 1793) – che cosa costituisca la humanitas dell’uomo, e risponde che non bastano a ciò né ovviamente l’animalitas, ma nemmeno la rationalitas. Ci vuole soprattutto quella che egli chiama la spiritualitas o personalitas, e che esplicita in termini filosofici come il fatto che l’uomo è fine in sé e mai mezzo, dignità e mai cosa o strumento. Un’idea, questa, ancora ricavata – anche se ormai indirettamente – dalla radice biblico-cristiana.

È appena il caso di ricordare che anche questa diga eretta da Kant è stata nel frattempo erosa, e che l’uomo – come afferma Nietzsche in un frammento della primavera 1884 (25 [428]) – è «l’animale non ancora definito» (das noch nicht festgestellte Tier). L’ente – dirà Sartre – in cui l’esistenza precede e determina l’essenza (Sartre, 1964: 25-29).

Ebbene, oggi la tecno-scienza sfonda sempre più massicciamente l’orizzonte dell’antropologia tradizionale. Essa accresce il nostro sapere e il nostro potere sull’entità «uomo» in un modo che confligge con i simboli e l’immaginario della tradizione umanistico-cristiana. Ci troviamo oggi in una sorta di «crisi antropologica» in cui difetta un’idea condivisa di umanità, adeguata ai problemi posti dalla tecno-scienza.

Ovviamente, la straordinaria crescita dell’impero tecnologico non ha solo aspetti preoccupanti. Essa apre anche prospettive affascinanti che arricchiscono costantemente il nostro patrimonio culturale. Vero è, però, che essa non sembra soggetta a regole e norme sufficientemente resistenti e vincolanti per guidare il nostro comportamento e il nostro agire, dotato ormai di un immenso potere. La tecno-scienza manipola già le origini della vita, presto sarà in grado di controllare il codice genetico dell’uomo, correggere la sua programmazione biologica, migliorare il suo patrimonio naturale. La tecno-scienza sta profondamente trasformando l’uomo, in assenza di una guida responsabile ed efficace. L’uomo è più che mai un animale precario.

Ma se la sua precarietà e la sua unicità reclamano una speciale vigilanza, volta a preservarlo, vien fatto di chiedersi: a che cosa può ancora attenersi lo spirito oggi in affanno e disorientato? Sussistono risorse di senso o energie simboliche ancora intatte per mantenere l’equilibrio nel vortice del nichilismo che la tecnica induce?

Ancora una volta: non occorre essere heideggeriani per ammettere con il maestro teutonico che è assai difficile, se non impossibile, ridare oggi un senso alla parola «umanismo». Non tanto, come egli asserisce nella Lettera sull’«umanismo», perché quest’ultimo rappresenterebbe un’esperienza dell’uomo non originaria, nata dalla traduzione della philanthropía ellenistica entro l’orizzonte epocale della romanitas. Bensì perché l’umanismo – e a maggior ragione l’«antropologia della Lichtung» prospettata da Heidegger, in cui l’uomo è semplicemente dichiarato un problema senza soluzione umana – non garantisce nulla.

Nella generale impossibilità di ricette condivisibili, è forse possibile rifugiarsi in un’indicazione fragile, ma praticabile: quella di un atteggiamento senza illusioni che si prefigga di conservare l’uomo senza farne il centro dell’universo, la pratica – diciamo così – di un «umanesimo» non antropocentrico che si apra alla crescita tecnico-scientifica senza nostalgie per l’Immemorabile perduto, ma che non si sottoponga nemmeno docilmente all’imperativo della tecnica all’infuori di ogni regola. Un atteggiamento che pratichi un linguaggio di verità, senza catastrofismi né infondati ottimismi, e si metta alla ricerca di risorse simboliche per risignificare l’abitare dell’uomo sulla terra, radicandolo nella natura e nella storia. Insomma, un umanesimo che, di fronte al carattere asimbolico della tecnica, si sforzi di attivare il senso di responsabilità di cui l’umanità è in linea di principio capace.

Una cosa è certa. Se la tecnica è la magica danza che l’epoca contemporanea esegue, allora l’undicesima Tesi su Feuerbach di Marx non basta più. Non basta più cambiare il mondo, perché esso cambia anche senza il nostro intervento. Si tratta piuttosto di interpretare questo cambiamento, affinché esso non porti a un mondo senza di noi, a un regnum hominis privo del suo sovrano. Guidare tale interpretazione è uno dei compiti più urgenti di una filosofia della tecnica al nominativo.

 

 

 

Il nichilismo in Italia

 

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Per una serie di ragioni che non è qui possibile esaminare, la cultura filosofica italiana è stata particolarmente sensibile nel captare le manifestazioni del nichilismo e nel tentarne una elaborazione teorica. Va ricordata, per cominciare, una circostanza trascurata nelle storie del nichilismo, cioè che nella lingua italiana sono attestate occorrenze assai antiche del termine (cfr. Battaglia, 1981: 423-24).

Esso è impiegato incidentalmente da Pasquale Galluppi nelle Considerazioni filosofiche sull’idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto pubblicate un anno prima della morte, nel 1845. Galluppi accenna alla posizione di Zenone di Elea, che nega per confutazione il movimento, e la definisce «nihilismo» (Galluppi, 1845: 204). Egli impiega dunque il concetto di un’accezione tecnica per designare una posizione filosofica che «annienta», ossia riduce a nulla, la realtà del divenire.

Più o meno negli stessi anni il termine si trova in Carlo Cattaneo, che ne fa anch’egli un uso sporadico, ma più generico e in senso spregiativo. Basta una occorrenza, a titolo di esempio, per rendersi conto di come qui «nichilismo» equivalga a un insulto. Scrive Cattaneo nel suo tipico stile polemico:

 

 

Fatta la filosofia sollazzo d’imbelli e arte di scetticismo e nichilismo non si vede come la conoscenza del mondo potesse fiorire (Cattaneo, 1960: I, 335)

 

.

Ma è soprattutto Francesco De Sanctis a impiegare il concetto di nichilismo, e precisamente per qualificare la posizione filosofica di Leopardi e la sua tematizzazione del nulla. Al fine di mettere in rilievo la contraddizione tra il radicamento del poeta nel razionalismo illuministico, da un lato, e il suo struggimento poetico nel nulla, dall’altro, De Sanctis afferma:

 

 

La sua volontà debole e scissa non lo lascia venire a conclusione stabile, a coerenza filosofica, sospeso e scisso tra un nichilismo assoluto e disperato e velleità individuali e umanitarie (De Sanctis, 1960: 286).

 

 

Al di là di queste occorrenze storico-terminologiche, è sul piano teorico che la cultura italiana ha offerto contributi importanti all’analisi del nichilismo. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si è registrata una vera e propria efflorescenza di letteratura nichilistica, sbocciata in concomitanza con la fortuna del pensiero di Nietzsche e di Heidegger. Ne è nato un ampio dibattito nel quale si è affermata l’esigenza di una critica filosofica dell’attualità e nel quale sono intervenuti pensatori di diversa impostazione come Pareyson, Caracciolo, Severino, Sini, Vitiello, Ruggenini, Vattimo, Givone, Cacciari, per non citare che alcuni nomi.

Il merito di portare l’attenzione sul nichilismo quale orizzonte per una diagnosi critica del presente, e di fornirne una prima elaborazione filosofica, è stato di pensatori come Alberto Caracciolo e Luigi Pareyson e delle loro rispettive scuole. Nelle opere di entrambi, sia pure da prospettive teoriche e con argomentazioni diverse, l’analisi del nichilismo occupa una posizione centrale. Il nichilismo è accolto da entrambi come un’esperienza decisiva del Novecento. Essa va dunque pensata fino in fondo, in tutte le sue manifestazioni e le sue conseguenze, nella convinzione però che l’assimilazione teorica del fenomeno apra il cammino al suo superamento. Quest’ultima esigenza spiega la costante connessione – sia in Pareyson, sia in Caracciolo – con la problematica del sacro e del religioso, in cui è intravista una via di uscita dagli esiti nichilistici della modernità.

Dalla scuola di Pareyson è venuta però anche un’interpretazione di segno opposto del nichilismo, che ha finito per dare il tono al dibattito: quella di Gianni Vattimo. Questi non ha ricusato il nichilismo come un malessere della nostra cultura, ma ha sostenuto, al contrario, che il disagio che esso provoca nella coscienza contemporanea nasce dal fatto che quest’ultima non è ancora sufficientemente nichilistica, non ha ancora rinunciato alla volontà di imporre un senso alle cose, non sa ancora accettarle nel loro nudo e crudo divenire. Vattimo ha pertanto eletto la consapevolezza nichilistica, così intesa, a orizzonte del suo pensiero e non si è peritato di professarsi apologeta del nichilismo.

Egli ha pertanto dichiarato la propria «vocazione nichilistica» e ha salutato con coerenza i fenomeni nichilistici della cultura contemporanea come eventi positivi. Intervenendo in tal senso nel dibattito filosofico – su temi come la crisi del pensiero dialettico (Le avventure della differenza, 1980), la morte del soggetto (Al di là del soggetto, 1981), il postmoderno (La fine della modernità, 1985) – ha messo progressivamente a fuoco una prospettiva filosofica definita come «pensiero debole» (Il pensiero debole, 1983). In tale programma, recependo a suo modo la critica e il superamento della metafisica teorizzata da Nietzsche e Heidegger, egli ha affermato l’esigenza di rinunciare alle categorie forti della tradizione filosofica occidentale e ha sbozzato una «ontologia debole» che intende riconoscere e accettare il divenire nella sua fatticità, senza accollargli un senso che lo trascenda e senza imporgli forme, categorie o schemi interpretativi forti che finirebbero inevitabilmente per inibirne il fluire. Proprio questo irrigidimento è secondo Vattimo ciò che caratterizza la metafisica tradizionale, la quale, con la sua ricerca di una spiegazione «trascendente» di tutto ciò che è, rappresenta una reazione di difesa eccessiva: è l’indice di un pensiero che mal sopporta il carattere imprevedibile del divenire. Contro di essa Vattimo propugna un atteggiamento filosofico che non rimuova né tenti maldestramente di ricondurre a unità la frammentazione del reale, l’irriducibile diversità dei giochi linguistici e delle forme del sapere, e nemmeno subisca tutto ciò come una circostanza inevitabile, ma lo accetti come caratteristica essenziale e positiva del mondo contemporaneo.

Per questo suo tratto peculiare il «pensiero debole» è certamente in sintonia con le intenzioni programmatiche della cultura postmoderna. In esso l’analisi della dissoluzione delle categorie tradizionali non si accompagna – come nelle filosofie della crisi primonovecentesche – al sentimento di nostalgia per l’unità e l’intero perduti, ma saluta la diversificazione e la frantumazione, quindi la pluralità e l’instabilità, come aspetti intrinseci del reale da riconoscere nel loro carattere positivo, senza pretendere di ricondurli a unità e a gerarchie forti costruite dall’alto o dall’esterno. Di conseguenza Vattimo ha dichiarato la necessità di far valere un paradigma di razionalità debole, paralogico, non subordinante e gerarchizzante ma paratattico, non verticale ma trasversale, tale cioè da essere intrinsecamente differenziato e quindi tagliato e adeguato ai rispettivi campi oggettuali di applicazione. Sulla falsariga del modello wittgensteiniano della pluralità dei giochi linguistici, ha constatato e dichiarato il carattere positivo della pluralità delle forme del sapere, delle possibilità dell’agire, dei sensi dei mondi vitali, sottolineando a partire da tale pluralità non la possibilità della compattazione e dell’uniformazione, ma il potenziale della frammentazione, della conflittualità e persino dell’incommensurabilità. Di qui è venuta la teorizzazione di operazioni, atteggiamenti e pratiche culturali di rottura, quali la «frammentazione» e la «regionalizzazione» dei saperi, la «decanonizzazione», ossia l’abbandono dei «canoni» tradizionali, e l’«ibridamento» ovvero la contaminazione dei generi (cfr. Welsch, 1987).

Tutto ciò è stato affermato rivendicando una predisposizione nichilistica. Se, come vuole il pensiero debole, si accetta il divenire delle cose con remissività, senza sovrainterpretarlo né trascenderlo, si dissolve allora il nichilismo tetro e nostalgico – che subentra quando si coltivano ancora la memoria e la nostalgia dei valori perduti – e si apre, con Nietzsche, la possibilità di un nichilismo «gaio» che intende essere vicino alla finitudine umana, alle sue gioie e alle sue sofferenze, più di quanto non fosse la metafisica tradizionale. Una posizione, questa, che con la sua ricusa del pessimismo culturale si discosta nettamente dalle altre interpretazioni del nichilismo, compresa quella di Pareyson e quella di Sergio Givone, nelle quali si appalesa uno stretto legame tra nichilismo e problema del male (cfr. Pareyson, 1993, 1995; Givone, 1984, 1988).

Ma l’interpretazione del nichilismo che spicca nel panorama della filosofia italiana per originalità e sistematicità è quella di Emanuele Severino. Formatosi nell’Università Cattolica di Milano con Gustavo Bontadini – che rifiutava l’etichetta di «neoscolastico» per rivendicare quella di «metafisico classico» – Severino si confronta fin dalle sue prime opere con il problema metafisico: come va compreso e spiegato l’essere di ciò che diviene? La presenza di questo problema, riproposto da Bontadini, si fa sentire nei primi scritti di Severino: Heidegger e il problema della metafisica (1950), che contiene un’analisi della critica heideggeriana alla metafisica così come è esposta nel libro su Kant e nei saggi del 1929, e le Note sul problematicismo italiano (1950), in cui sono raccolti studi critici su Ugo Spirito, Nicola Abbagnano e Antonio Banfi. In rapporto alla ripresa della metafisica classica a opera di Bontadini è possibile afferrare meglio sia il punto nevralgico del pensiero severiniano, sia l’originalità della sua posizione.

Va precisato anzitutto che la ripresa del problema metafisico da parte di Bontadini non era un’opera di restaurazione. Al di là del riferimento al paradigma greco essa mirava a definire la struttura logico-ontologica della metafisica per rivendicarne la necessità contro il predominio moderno della gnoseologia. Interessante, nel nostro contesto, è il cammino che Bontadini seguì per arrivare a questo. Egli prese le mosse da un’interpretazione della filosofia moderna come «gnoseologismo», vale a dire come impostazione speculativa in cui, essendo naturalisticamente presupposta la trascendenza dell’essere rispetto al pensiero, l’essere non risulta immediatamente manifesto e si prende dunque come punto di partenza alternativo il conoscere di cui si teorizza il primato nella «gnoseologia». Date l’eterogeneità e l’eccedenza dell’essere rispetto al conoscere, le filosofie a impostazione gnoseologistica non possono fondare l’esperienza, ossia il manifestarsi dell’essere all’atto del conoscere, ma devono presupporla come data. In genere esse finiscono per interpretarla surrettiziamente come ricettività o come costruzione: ricettività rispetto a un essere che le si dà dall’esterno, costruzione in base a un principio interno. Nell’idealismo lo gnoseologismo moderno giunge alla sua formulazione estrema, ma anche alla sua risoluzione. Infatti il ripensamento del concetto di esperienza che esso impone riapre la possibilità della metafisica, la quale, nella sua struttura classica, cioè nella sua essenzialità, altro non è che la spiegazione filosofica coerente dell’essere di ciò che diviene. Tre sono le componenti e al tempo stesso i passi dell’argomentare metafisico: l’esperienza, il principio di non contraddizione e l’idea di ciò che è «altro» o «ulteriore» rispetto all’esperienza.

Ora, la prima definizione della struttura della metafisica è data dal pensiero greco, in particolare da Parmenide, che per primo formula il principio di non contraddizione nella sua valenza ontologica. Dicendo che l’essere è ed è impossibile che non sia, e che il non essere non è ed è impossibile che sia, egli stabilisce il principio – che Bontadini fa proprio in tutta la sua portata ontologica – secondo il quale l’essere non può né potrà mai essere contaminato dal non essere. Se ci si attiene rigorosamente a siffatto principio, la realtà del divenire che l’esperienza immediata ci attesta, e in cui le cose, cioè gli enti, in parte sono e in parte non sono, appare contraddittoria: il divenire si presenta come quell’essere la cui realtà è mescolata al non essere. Ma poiché la contraddizione non può essere ammessa, si deve allora pensare che l’essere del divenire, che appare limitato dal non essere, non esaurisca la totalità dell’essere. Attraverso una «inferenza metempirica» si deve pensare alla realtà incontraddittoria di un essere assoluto che non sia limitato dal divenire: tale è la realtà dell’essere divino.

Nelle sue prime opere speculative, specialmente nella Struttura originaria (1958), Severino riprende e radicalizza questa impostazione attraverso l’analisi rigorosa della struttura logico-ontologica dell’essere assoluto e incontraddittorio nonché del pensiero incontrovertibile, epistéme, che le corrisponde. Ora, secondo Severino tale pensiero è struttura, ossia relazione originaria dell’«immediatezza logica» e dell’«immediatezza fenomenologica», e tale relazione è l’apparire dell’«eternità» dell’ente in quanto ente, cioè di ogni ente. L’eternità, vale a dire l’impossibilità di non essere, non è però semplicemente una proprietà del puro essere, come in Parmenide, o di un principio metafisico-teologico, ma è il predicato essenziale della totalità delle differenze dell’essere. Nella Struttura originaria, attraverso un discorso analitico assai articolato, Severino intende mostrare che la struttura dell’origine è ciò a cui compete autenticamente la proprietà che Aristotele attribuisce al principio di non contraddizione: di essere l’incontrovertibile, ciò che non può non essere perché anche la sua negazione lo presuppone.

Prendendo le mosse dall’insegnamento bontadiniano Severino giunge in tal modo a conclusioni inattese e scomode, venute alla luce soprattutto nel saggio Ritornare a Parmenide, pubblicato originariamente nella «Rivista di filosofia neoscolastica» (56, 1964, pp. 137-75, con un Poscritto, ivi, 57, 1965, pp. 559-618) e poi incluso in Essenza del nichilismo (1972). Mentre dalla contraddittorietà del divenire Bontadini inferiva in forza del principio di non contraddizione l’esistenza di un essere trascendente che non diviene, Severino ricava dallo stesso punto di partenza una conclusione opposta: se il divenire è contraddittorio bisogna negarne la realtà, ma non per postulare un principio trascendente incontraddittorio assolutamente diverso dal divenire stesso, bensì per riconoscere che tutto ciò che è, non potendo essere ammesso come diveniente, pena la contraddizione, deve essere allora pensato come eterno e necessario.

Sviluppata con coerenza e rigore, questa posizione si venne sempre meglio delineando per quello che era, vale a dire come una ontologia «neoparmenidea», la quale, per il pulpito dal quale era professata e per la personalità di chi la professava, non poté non suscitare prima stupore, poi scandalo, quindi l’anatema. Essa fu ufficialmente condannata dalla Congregazione per la dottrina della fede come speculazione atea, inconciliabile con i contenuti della rivelazione e con l’insegnamento della Chiesa Cattolica. Severino replicò alla condanna con la sua Risposta alla Chiesa (cfr. Severino, 1982: 317-87, e 2001a), ma lasciò l’Università Cattolica e si trasferì, seguito dai propri allievi, nell’Università di Venezia.

Successivamente a questa importante cesura Severino ha continuato a dipanare in maniera sempre più rigorosa e radicale le premesse dalle quali era partito, dando forma via via più compiuta al proprio «neoparmenideismo». Non solo. Sul fondamento di questa sua originale concezione egli ha pure sviluppato una diagnosi della civiltà occidentale usando in questo contesto la categoria di «nichilismo», diventata per lui centrale. In particolare, il suo insistere sul nichilismo e sulla tecnica quali contrassegni dell’attuale epoca del mondo hanno indotto ad associare la sua analisi alla celebre tesi heideggeriana circa il compimento della metafisica nel nichilismo e nell’essenza della tecnica moderna. Tuttavia non vi sarebbe nulla di più fuorviante dell’intendere il pensiero severiniano come una sorta di heideggerismo all’italiana. Severino argomenta in termini completamente diversi da Heidegger e giunge a una conclusione opposta: mentre Heidegger teorizza la declinazione storico-epocale dell’essere, Severino sostiene che l’essere non può essere contaminato dal tempo. Quello di Heidegger è un pensiero finitista, quello di Severino assolutista. Oltre a Essenza del nichilismo, i testi nei quali vengono sviluppati questi motivi sono: Gli abitatori del tempo, interessante soprattutto per l’analisi del cristianesimo, del marxismo e della tecnica quali forme fondamentali del nichilismo occidentale; Techne. Le radici della violenza (1979), dedicato all’esame delle diverse manifestazioni della sradicatezza dell’epoca contemporanea. Segue la sua produzione adelphiana: Legge e caso (1979), Il parricidio mancato (1985), La tendenza fondamentale del nostro tempo (1988), Oltre il linguaggio (1992) e soprattutto Destino della necessità (Milano 1980), Il giogo (1989), Tautótes (1995) e La Gloria (2001), in cui è ripreso il vasto disegno speculativo delle prime opere sistematiche nell’intento di esporre in maniera ancora più rigorosa, in alternativa all’alienazione nichilistica dell’Occidente, la struttura della verità dell’essere dal puro punto di vista della necessità di tale verità. E per quanto concerne il problema del nichilismo e della tecnica è importante anche l’interpretazione di Leopardi a cui Severino ha dedicato ben due libri: Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi (1990) e Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi (1997).

Ora, benché in alcuni testi, specialmente nella lunga Introduzione alla nuova edizione (1981) della Struttura originaria e in Tautótes, si alluda a una certa sua evoluzione, il pensiero di Severino si presta a essere considerato come un blocco monolitico e unitario. Si possono qui illustrare, almeno sinteticamente, le due componenti che lo costituiscono nel suo nocciolo essenziale: l’esame della struttura fondamentale dell’Occidente in quanto storia del nichilismo dimentico dell’essere, e l’analisi teoretica della struttura necessaria e incontrovertibile dell’essere nella sua radicale e assoluta differenza dal niente.

Per Severino il pensare e l’agire dell’umanità occidentale hanno la loro motivazione metafisica più profonda in una struttura inconscia. Essa viene situata a un livello ontologico più radicale rispetto alle strutture dell’accadere storico individuate da Hegel, Marx, Nietzsche e dalla psicoanalisi. Tale struttura inconscia è riconducibile, nella sua essenza, alla volontà che l’ente sia niente. E questo volere nichilistico è attribuito a tutte le forme e le fasi del pensiero occidentale, nella misura in cui ciò che tutte le accomuna è la credenza nel divenire, ossia la convinzione che tutte le cose stiano e scorrano nel tempo. La credenza che «tutto scorre e nulla permane» (pánta rheî kaì oudèn choreî) non è solo di Eraclito, ma di tutto l’Occidente. E perché mai questa credenza dovrebbe equivalere alla volontà che le cose siano niente? Semplicemente per questo: perché pensare che le cose siano nel tempo, che nascano e muoiano, che escano dal niente e ritornino nel niente, significa pensare che esse, pur essendo enti, siano state niente nel passato e saranno di nuovo niente nel futuro. Ma credere ciò significa ritenere possibile che (in un certo tempo, nel passato o nel futuro) l’ente sia niente. Quando noi pensiamo e diciamo che le cose sono nel tempo, che le cose passate non sono (più) e quelle future non sono (ancora), noi pensiamo e diciamo che l’ente è niente, e siamo quindi, secondo Severino, nichilisti in un senso essenziale. Ma dire che l’ente è niente è contraddittorio. Dunque l’uomo occidentale, nel suo nichilismo, poggia sull’inconsistente fondamento di una contraddizione. Ciò nonostante non c’è verso di smuoverlo dalla sua credenza nella realtà del divenire, dal pensare e dall’agire come se l’ente provenisse dal niente e vi ritornasse, come se l’ente fosse niente. Calando l’ente nel tempo – tempo che è interpretato come l’elemento che separa (in base alla riconduzione etimologica di tempus al greco témnein e di chrónos a krínein) – l’uomo occidentale lo separa dall’essere e lo pensa come non ente, come niente, dimenticando l’ammonimento di Parmenide che dice: «Tu non separerai l’essere dall’essere» (fr. 4).

È questa la contraddizione di fondo nella quale l’Occidente inconsciamente permane nella misura in cui crede nell’esistenza del divenire. Ma ascoltiamo l’argomentazione di Severino come lui stesso la formula:

 

 

Per la metafisica, le cose «sono». Il loro «essere» è il loro non essere un niente. In quanto sono, si dicono «enti» o «esseri». Ma l’ente, come tale, è ciò che può non essere: sia nel senso che sarebbe potuto o potrebbe non essere, sia nel senso che incomincia e finisce (non era e non è più). La metafisica è il consentimento al non essere dell’ente. Affermando che l’ente non è – consentendo all’inesistenza dell’ente –, afferma che il non-niente è niente. Il pensiero fondamentale della metafisica è che l’ente, come tale, è niente (Severino, 1982: 195).

 

 

E altrove:

 

 

Noi diciamo: «le cose passate e le cose future sono niente». Che cosa c’è di più indiscutibile? Ma in questa nostra convinzione indiscutibile intendiamo qualcosa di diverso dall’affermazione: «il niente è niente»; cioè non è del niente che intendiamo dire che sia un niente, ma è delle cose passate, o delle cose future, ossia di ciò il cui significato non è identico al significato «niente». Ma ciò il cui significato non è identico al significato «niente» non è un niente. Della città di Hiroshima noi diciamo che è diventata niente. Ma Hiroshima non significa «niente», e cioè non è un niente. Hiroshima, di cui diciamo che ora è un «niente», non è un niente. Noi dunque pensiamo che ciò che non è un niente è un niente. Il passato e il futuro sono il tempo in cui le cose, ossia ciò che non è un niente, sono niente. Se ci dicessero che il passato e il futuro sono il tempo in cui il circolo è quadrato, noi saremo ben pronti a ribattere che non può esserci alcun tempo in cui si realizzi questa assurda identificazione del circolo e del quadrato. Ma questa sensibilità all’assurdo (...) non ci impedisce di pensare invece un tempo in cui la cosa, ossia ciò che non è un niente, sia niente e non ci impedisce di vivere e agire conformemente a questo pensiero. Noi pensiamo e viviamo le cose come se fossero un niente. Per la civiltà europea le cose sono niente: il senso della cosa, che guida la storia dell’Occidente, è la nientità delle cose. L’essenza della civiltà europea è il nichilismo, poiché il senso fondamentale del nichilismo è il rendere niente le cose, la persuasione che l’ente sia un niente, ed è l’agire guidato e stabilito da questa persuasione (Severino, 1978: 20).

 

 

Da Parmenide in poi, l’Occidente rimane per Severino entro l’orizzonte di tale nichilismo. Anzi, nichilistiche sarebbero tutte le civiltà, tutti i popoli e le religioni, le istituzioni sociali, le masse e gli individui che rimangono legati alla credenza nel divenire. Nella civiltà occidentale, con la tecnica, tale credenza perverrebbe alla sua forma più alta e alla sua diffusione più profonda e inestirpabile. Infatti, là dove non solo il pensiero, ma anche l’agire dell’uomo è guidato dalla convinzione nichilistica che le cose siano niente nel senso che possono essere ricavate dal niente e riportate nel niente, ossia fabbricate e distrutte, il nichilismo perviene al suo massimo grado di realtà. Ma la tecnica è proprio questo, giacché essa presuppone che le cose possano essere prodotte (dal niente) e distrutte (nel niente) secondo il proprio piacimento. E mentre un tempo il compito di creare e distruggere le cose era affidato a Dio, nell’era contemporanea la tecnica arroga a sé tale prerogativa divina: se la teologia è la prima forma di tecnica, la tecnica è l’ultima forma di teologia. La conclusione coerente è:

 

 

Dio e la tecnica moderna sono le due fondamentali espressioni del nichilismo metafisico (Severino, 1982: 197).

 

 

In base a questa determinazione del nichilismo Severino costruisce la sua diagnosi critica del mondo contemporaneo e dei valori da esso prodotti. L’abitare il tempo, credendo nel divenire e quindi nella libertà delle cose di andare e venire dal niente, implica la consumazione e il tramonto di tutti quelli che Severino chiama gli «immutabili» dell’Occidente. Sono tali le figure, le forme, gli ideali e i valori mediante i quali il pensiero occidentale tenta di catturare e di stabilizzare il divenire nella sua imprevedibile complessità. Il tempo implica insomma la caduta di tutti gli dèi e gli idoli prodotti dalla storia: il Dio del cristianesimo al pari degli dèi delle altre religioni, l’organizzazione capitalistica del lavoro come il marxismo, le varie forme del pensiero filosofico da Platone a Husserl. E il tramonto degli immutabili non è solo un processo di tipo sociologico-culturale, ma ha la sua causa nella scelta metafisico-nichilistica per il divenire.

A tale proposito, tenendo fermo il senso preciso in cui Severino sostiene che la civiltà occidentale è nichilistica e i termini in cui egli ne critica le manifestazioni, bisogna dire che buona parte dell’attenzione che le sue opere hanno suscitato si basa su un equivoco. Esso consiste nel credere che egli parli di nichilismo nell’accezione filosofica comune del termine, quindi come di un fenomeno culturale che per qualcuno è interessante da studiare, per altri preoccupante, per altri ancora indifferente. Ma il senso in cui il nichilismo è per gli uni preoccupante e per gli altri interessante o indifferente è del tutto diverso da quello che Severino intende con tale concetto.

In base all’individuazione della struttura inconscia dell’Occidente Severino prospetta l’alternativa alla via della notte finora seguita. Essa è rappresentata dalla via del giorno di cui parla Parmenide, e che consiste nel riconoscere la necessità che l’essere è e non può non essere, e che il niente non è e non può essere. Severino non vuole però un semplice ritorno a Parmenide, come si potrebbe pensare e come si è effettivamente ritenuto. È invece necessario ripetere il «parricidio» con il quale Platone crede di liberarsi di Parmenide e si illude di salvare il mondo dei fenomeni. Nella ripetizione del «parricidio» le differenze sono finalmente ricondotte nell’essere: se non vengono più isolate da esso – come avviene in Parmenide, in Platone, nell’intera storia dell’Occidente – esse appaiono nella loro eternità. Muta quindi radicalmente anche il senso del loro divenire, che non è più da intendere come l’uscire dal niente e il ritornarvi, ma come l’apparire e lo scomparire dell’eterno. Se noi lasciamo che questa struttura necessaria e incontrovertibile venga alla luce nel nostro pensare e nel nostro dire, allora la credenza nichilistica nel divenire degli enti, cioè la pervicacia del volere abitare nel tempo, cioè fuori della necessità, e di volere separare l’ente dal suo essere, apparirà – questa la tesi severiniana – come l’alienazione più profonda, come il male più radicale e più tenace di qualsiasi peccato originale, di qualsiasi errore economico o psicologico. Ecco come Severino stesso riassume questa sua proposta in un significativo passo di Essenza del nichilismo:

 

 

Per ridestare la verità dell’essere, che sin dal giorno della sua nascita giace addormentata nel pensiero occidentale, si dovrà pur sempre penetrare il senso di questo semplice e grande pensiero: che l’essere è e non gli è consentito di non essere. Il suo risveglio costituisce certo il maggior pericolo per il lungo inverno della ragione, che vede sconvolte le più antiche abitudini e si sente proporre un compito nuovo, ed il più essenziale. Se si è capaci, bisogna soffocare questo pensiero prima che giunga a fiorire, perché altrimenti è destinato, lui solo, ad avere diritto alla fioritura. Spinge infatti lungo una via dalla quale non è più possibile tornare indietro: se dell’essere (di ogni e di tutto l’essere) non si può pensare che non sia, allora dell’essere (di ogni, di tutto l’essere) non si può pensare che divenga, perché, divenendo, non sarebbe – non sarebbe cioè prima del suo nascimento e dopo la sua corruzione. Sicché tutto l’essere è immutabile. Non esce dal nulla e non ritorna nel nulla. È eterno (Severino, 1982: 69).

 

 

In Destino della necessità il nichilismo occidentale è analizzato nel suo sedimentarsi nella struttura delle lingue indoeuropee e nella maniera occidentale di comprendere l’agire a partire da Aristotele. Anche in questo caso Severino riconduce le molteplici manifestazioni del nichilismo a un’unica radice, la credenza nel divenire, cioè la convinzione contraddittoria che l’ente sia un niente, e spiega ancora una volta come la decisione occidentale di separare l’ente dall’essere, ovvero dal destino della necessità, per sottometterlo all’arbitrio umano abbia determinato in profondità il corso della storia occidentale fino a noi. E di nuovo Severino intende mostrare che l’Occidente non rappresenta che uno dei due corsieri che trascinano l’accadere della terra in due direzioni opposte: è il corsiero visibile, quello guidato dalla volontà di potenza; l’altro corsiero, invisibile nell’orizzonte delle apparenze mortali, si lascia invece guidare dalla «volontà del destino», e precisamente dalla volontà di quel destino della necessità di cui il pensiero severiniano intende essere testimonianza.

Va da sé che questa posizione rappresenta una provocazione senza pari non solo per il senso comune, ma anche per il pensiero contemporaneo. Ovunque si registra oggi un atteggiamento difensivo da parte della filosofia, preoccupata di salvaguardare la propria legittimità e la propria consistenza disciplinare su un duplice fronte, cioè sia rispetto alla razionalità della scienza e della tecnica, sia rispetto al mito e alla religione. Tale atteggiamento difensivo ha portato ad abbandonare le pretese di assolutezza e a ricercare paradigmi di razionalità filosofica parziali, limitati a campi di riferimento e di applicazione determinati, come nel caso della cosiddetta razionalità pratica, oppure più deboli, cioè dalle pretese di validità circoscritte o persino azzerate come quando lo statuto del discorso filosofico è considerato semplicemente letterario e narrativo. Ebbene, contro queste tendenze predominanti, Severino non solo rivendica un ruolo conoscitivo forte al discorso filosofico, ma sostiene addirittura che esso debba avere il carattere dell’incontrovertibilità. Deve essere il luogo logico del manifestarsi della struttura ontologica della necessità dell’essere, il quale è ciò che è e non può non essere, nella sua radicale differenza dal niente come ciò che non è e non potrà mai essere.

Non c’è da stupirsi, pertanto, che i suoi scritti siano stati attaccati un po’ da tutte le parti, anche se la veemenza degli attacchi nulla toglie al generale riconoscimento della coerenza con la quale egli ha saputo sviluppare il suo discorso filosofico. Naturalmente le critiche che hanno preoccupato Severino non sono state quelle che si sono limitate a polemizzare con lui, bensì quelle che, entrando nel cuore delle sue argomentazioni, hanno mirato a scardinare dall’interno l’edificio neoparmenideo. È stato soprattutto il caso delle critiche mosse a Severino dal suo maestro Gustavo Bontadini, da Cornelio Fabro e da Enrico Berti – quest’ultimo da un punto di vista aristotelico, dunque facendo valere le ragioni di quella concezione plurivoca dell’essere che rappresenta l’antitesi più potente e pericolosa per la concezione univocistica a cui Severino si richiama. Severino ha dedicato molta attenzione anche alle obiezioni di Lucio Colletti, soprattutto in relazione al problema della contraddizione (Severino, 1978).

In luogo di un esame di queste diverse critiche, sia qui consentito soltanto un breve rilievo per comprendere il pensiero di Severino soprattutto in considerazione degli sviluppi contenuti in Destino della necessità, nel Giogo e in Tautótes, in cui la posizione sviluppata nella Struttura originaria e in Essenza del nichilismo è radicalizzata assumendo in maniera ancora più rigorosa il punto di vista della necessità. Appare chiaro che per Severino le verità di ragione e i princìpi fondamentali che le reggono, il principio di identità e il principio di non contraddizione, non solo hanno valore ontologico ma rappresentano la struttura dell’Assoluto. Insomma il pensiero, nella sua struttura logica, riflette la struttura immutabile dell’essere nella sua incontrovertibile necessità. Pertanto il pensiero, nella sua attuazione perfetta, consente all’uomo di oltrepassare l’orizzonte fenomenologico del conoscere finito e di elevarsi fino al punto di vista dell’Assoluto. Tenendo presente ciò, si può capire il senso della negazione severiniana del divenire: nell’orizzonte dell’Assoluto, cioè sub specie aeternitatis, il divenire si risolve nella «sequenza» immobile già data ed eterna di tutti i suoi infiniti momenti; solo dal punto di vista di una mente finita, cioè sub specie temporis, questi infiniti momenti, non riconosciuti nella loro connessione eterna, appaiono di volta in volta nel loro fluire e nel loro scorrere, generando l’apparenza del divenire. Per questo la negazione del tempo e del divenire ha assunto, da Destino della necessità in poi, una connotazione per così dire «spinozistica» – anche se ovviamente la determinazione severiniana dell’essere non ha nulla a che vedere con l’idea metafisica di sostanza presupposta da Spinoza. In tal senso l’operazione speculativa che Severino compie consiste in fondo in questo: nel riportare il conoscere filosofico, attraverso il riconoscimento della necessità logico-ontologica che viene alla luce nella struttura razionale che anche una mente finita può riconoscere, a quel «punto di vista» partendo dal quale il conoscere stesso non si presenta più come il punto di vista della finitezza, ma come la manifestazione della necessità logico-ontologica dell’Assoluto, di Dio stesso. Severino vuole elevare l’esistenza umana a quel «punto di vista» che gli permette di guardare, al di là del cerchio dell’apparire, verso la Necessità stessa e oltrepassare così il nichilismo.

Rimangono naturalmente aperti molti problemi, specialmente, per nominare quello col quale mi pare si cimentino le pagine decisive di Destino della necessità e di Tautótes, la difficoltà di mediare tra il tutto dell’essere e i contenuti dell’apparire, tra l’essere e gli enti, tra la coscienza infinita e quella finita, tra il pensiero e l’esperienza, tra la logica e la fenomenologia. È questo un interrogativo fondamentale con il quale tutte le forme di pensiero dell’Assoluto hanno da sempre dovuto fare i conti, ma che in Severino si presenta in termini particolarmente evidenti, dal momento che il «punto di vista» dell’Assoluto è in lui riconosciuto e definito unicamente in forza del principio di non contraddizione assunto nella sua valenza ontologica. Ciò rappresenta un problema perché – come Aristotele ha mostrato – proprio l’assunzione del principio di non contraddizione nella sua portata ontologica impone di riconoscere le determinazioni molteplici e diverse dell’essere (che in effetti Severino ammette come eterne). Ci si chiede allora: come è possibile dire il diverso senza negare, cioè senza dire «questo non è quello» o «quello non è questo»? Ovvero senza dire che un «quello», che è ente, non è un «questo», che è anch’esso ente? Quindi senza dire che qualcosa che è non è, ovvero che l’ente è non ente, cioè niente?

È chiaro a questo punto che la resa dei conti deve essere fatta con Aristotele, che per primo ha mostrato come l’assunzione del principio di non contraddizione implichi il riconoscimento della pluralità dei significati dell’essere e quindi il rifiuto della concezione univocistica dell’essere di cui quella parmenidea è la prima rigorosa formulazione. Viceversa, accettando quest’ultima, si è costretti non solo a negare il divenire, come effettivamente fa Severino, ma anche a togliere le differenze, cosa che Severino invece non ammette. Ora, mentre nella sua ripresa di Parmenide Severino ha avuto buon gioco nel negare il divenire e il tempo dichiarandoli mere forme dell’apparire, rimane invece ancora aperto il problema di spiegare e dire le differenze e le determinazioni senza contraddizione; in quanto per farlo – nell’orizzonte di una concezione univocistica dell’essere, entro la quale la copula «è» viene impiegata sempre e soltanto nel significato di «è identico», anzi, di «è eternamente identico», quindi nel senso della predicazione essenziale di identità – bisogna dire le differenze senza usare la negazione. È ciò che Severino cerca di fare in Tautótes.

 

 

 

Oltre il nichilismo?

 

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Dal momento che ha avuto sulla nostra epoca una presa tanto tenace, è lecito supporre che il nichilismo rappresenti qualcosa di più che una semplice corrente del pensiero contemporaneo o una cupa avventura delle sue avanguardie intellettuali. Non occorre essere nietzscheani per riconoscere che il suo fantasma si aggira un po’ ovunque nella cultura del nostro tempo. Né si deve arrivare a pensare, con Heidegger, che il nichilismo sia l’accadere stesso della storia occidentale, per riconoscere che «chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca» (Jünger-Heidegger, 1989: 104).

Il nichilismo – una parola riservata fino a qualche tempo fa a poche élites – è oggi espressione di un profondo malessere della nostra cultura: che si accavalla, sul piano storico-sociale, ai processi di secolarizzazione e di razionalizzazione, quindi di disincanto e di frantumazione della nostra immagine del mondo, e che ha provocato sul piano filosofico, in merito alle visioni del mondo e ai valori ultimi, la corrosione delle fedi e il diffondersi del relativismo e dello scetticismo. E quale che sia l’atteggiamento che si assume nei suoi confronti, di accettazione o di rifiuto, di tolleranza o di reazione, chiunque può vedere quanto la storia abbia riempito il nichilismo «di sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori» (Jünger-Heidegger, 1989: 49).

Avendo toccato in tal senso un punto nevralgico della coscienza critica e dell’autorappresentazione culturale del nostro tempo, il nichilismo ha provocato reazioni e tentativi di superamento altrettanto determinati. Specialmente sul piano della morale e dell’etica pullulano ormai gli sforzi che mirano a oltrepassare la nostra condizione nichilistica e i mali che ne derivano (cfr. Reale, 1995; Scalfari, 1995; Zecchi, 1993).

Eppure proprio sul piano morale ed etico vale, oggi più che mai, la constatazione fatta dal sociologo Niklas Luhmann: Paradigm lost. Abbiamo perduto i tradizionali paradigmi per orientarci. E questa variazione del celebre titolo di John Milton vale in un duplice senso: sia sul piano della fondazione che su quello dell’applicazione, sia nella dimensione teorica che in quella pratico-applicativa (cfr. Luhmann, 1990).

Certo, è innegabile oggi l’esigenza di superare il nichilismo, testimoniata soprattutto dalla presenza di una diffusa domanda di etica. La cosa non deve sorprendere più di tanto. Con uno sguardo storico sulla modernità – a cui Luhmann ci invita – si può constatare che dall’invenzione della stampa in poi, negli ultimi decenni di ogni secolo dell’età nuova, le richieste di etica ritornano con una regolarità quasi astronomica.

1) Verso la fine del XVI secolo, con Giusto Lipsio, si ha la grande diffusione del neostoicismo.

2) Più o meno cent’anni dopo, tra il 1670 e il 1690, dominano la scena le etiche parenetiche dei grandi moralisti: Baltasar Gracián, Pascal, La Rochefoucauld.

3) Un secolo più tardi, in Germania, v’è Kant con la critica della ragione pratica e, in Inghilterra, Bentham con i suoi calcoli utilitaristici. In Francia la tematizzazione più vistosa della virtù e del vizio, nella loro contrapposizione speculare e nei loro effetti, è affidata alla penna dissoluta del marchese de Sade.

4) L’ondata successiva arriva regolarmente intorno al 1880, quando con Simmel e il neokantismo si ha il rigoglio delle filosofie dei valori.

E il Novecento? Noi abbiamo addirittura anticipato questo ritorno periodico. Dagli anni Sessanta in poi assistiamo alla ripresa della domanda di etica e a una corrispondente efflorescenza di teorie che si propongono di soddisfarla.

Come interpretare questo fenomeno? Forse come la manifestazione di un ritmo storico nella vita della cultura moderna? O come l’espressione di una consapevolezza critica e di una salute filosofica? O forse come segno di una reazione alla crisi e di una volontà di superarla?

Lasciamo volentieri agli astrologi l’interpretazione di questi ritorni periodici e constatiamo semplicemente che il panorama delle teorie etiche contemporanee offre uno spettacolo babelico. La confusione regna sovrana sia nella tradizione del pensiero continentale, dove si può andare dal «neoaristotelismo» di Gadamer all’«etica dell’argomentazione» di Habermas e Apel fino all’«etica della responsabilità» di Hans Jonas, sia nel campo della discussione anglo-americana, dove si passa dall’utilitarismo alla metaetica, dal neocontrattualismo all’etica pubblica, dal liberalismo al comunitarismo, dalla bioetica all’etica dell’ambiente. Il catalogo delle idee è svariato e il turista curioso potrebbe passeggiare all’infinito nel giardino-mercato delle etiche.

La realtà è che si sta ripetendo oggi, in misura aggravata in ragione del quadro nichilistico e del carattere planetario e complesso della vita moderna, la crisi che ha solcato altre epoche storiche e che è caratterizzata dal conflitto tra visioni del mondo e sistemi di norme differenti, dalla difficoltà di inquadrare nei paradigmi etici tradizionali azioni e fatti morali di nuovo tipo, dalla concorrenza tra le diverse teorie etiche che genera logomachie senza vincitori né vinti e dà come risultato l’indifferenza, il relativismo e lo scetticismo.

Le cose non vanno meglio sul piano pratico. Sono svanite la forza vincolante delle norme morali e la possibilità che esse trovino disponibilità ad essere accettate e applicate. Anche qui bisogna constatare: Paradigm lost. I riferimenti tradizionali – i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori – sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto l’indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e l’isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella di freni di bicicletta montati su un jumbo jet (Beck, 1988: 194). Sotto la calotta d’acciaio del nichilismo non v’è più virtù o morale possibile.

Il fatto è che il paradigma perduto è stato sostituito da uno nuovo che impone i propri imperativi a ogni condotta e comportamento umano. È il paradigma tecnico-scientifico. La scienza e la tecnica – che raccorciano lo spazio e velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che mobilitano e sfruttano le risorse del pianeta – forniscono una guida assai più efficace e coercitiva dell’agire di quanto non possa fare la morale. Impongono obbligazioni che vincolano più di tutte le morali scritte nella storia dell’umanità, rendendo superfluo, d’ora in avanti, ogni altro imperativo. La scienza e la tecnica organizzano la vita sul pianeta con l’ineluttabilità di uno spostamento geologico. Al loro cospetto l’etica e la morale hanno ormai la bellezza di fossili rari.

L’uomo contemporaneo non ha alternative: qualsiasi cosa pensi o faccia, è già comunque sottomesso alla coercizione della «tecno-scienza». Ciò nonostante egli si culla ancora nell’attitudine edificante dell’umanesimo tradizionale e dei suoi ideali, che appaiono però impotenti rispetto alla realtà della tecno-scienza e che producono, tutt’al più, un’evasione e una compensazione. C’è chi pensa – come Heidegger – che inquietante oggi non sia il fatto che il mondo diventi completamente tecnico, ma che l’uomo si trovi impreparato a questa trasformazione del mondo. Chi si attarda a pensare in termini di morale e di etica, non è ancora all’altezza della sfida della tecno-scienza. A chi gli domandava perché dopo Essere e tempo non avesse ancora scritto un’etica, Heidegger rispondeva che un’etica adeguata ai problemi del mondo moderno è già implicita nella comprensione dell’essenza della tecnica. Qualsiasi altra etica – pensata a misura del singolo – sarebbe inadeguata alla macroazione planetaria dell’umanità, rimarrebbe qualcosa di «penultimo» rispetto alle realtà ultime prodotte dalla tecno-scienza. Nell’età dominata dal nichilismo le etiche rimangono sul piano dell’omiletica.

La domanda che a questo punto si impone è se il nichilismo sia davvero – come riteneva Heidegger – un approdo inevitabile del razionalismo occidentale, una sorta di inveramento essenziale del potere distruttivo della razionalità nata con i Greci, o se esso non sia piuttosto – come pensava Husserl – un tradimento dell’originaria idea di ragione, un imbarbarimento e un impoverimento di quel logos, che con Socrate, Platone e Aristotele aveva saputo imporsi sul nichilismo di un Gorgia. Questo dilemma ha tormentato il pensiero contemporaneo – lo testimonia la polemica in merito alla «critica totale della ragione» intercorsa tra due suoi esponenti di spicco, Apel e Derrida – e, se mai si potrà dirimerlo, appare indispensabile per farlo una distanza storica che ancora non abbiamo maturato.

Ancora non sono troppo lontani i tempi in cui Talleyrand diceva che per stabilire qualcosa di durevole bisogna agire secondo un principio: con un principio noi siamo forti e non incontriamo resistenza. Ma noi sappiamo – grazie a questo diplomatico capace di servire tanti sovrani e di arrivare prima o poi a tradirli tutti, grazie a questo principe camaleontico capace di indossare gli abiti dell’Ancien Régime sulla pelle dell’individuo moderno e di conciliare virtù cristiane e laicità, princìpi morali e realismo politico – che questa dichiarazione nasconde il suo esatto contrario e che le dichiarazioni di princìpi mascherano oggi l’assenza di princìpi. Principes, c’est bien! Cela n’engage point. Perciò quando oggi ci si richiama ai princìpi, si ha l’impressione che qualcuno stia mentendo. La figura di Talleyrand, con la sua fedeltà alla massima larvatus prodeo, segnala quanto il nichilismo sia diventato realtà (cfr. Calasso, 1983).

Ma – ci si chiede – se è vero che il nichilismo comincia là dove cessa la volontà di autoingannarci, possiamo allora trasformare l’esperienza che ne abbiamo fatto in un insegnamento, ovvero in un vigoroso invito alla lucidità del pensiero e alla radicalità del domandare – in un’epoca in cui gli altari abbandonati vengono abitati da demoni?

Jean Dubuffet ha scritto che «soltanto il nichilismo è costruttivo» perché è «l’unico cammino che porta l’uomo a stabilirsi nella chimera» (Dubuffet, 1969: 80). La provocazione di questo artista e teorico dell’avanguardia, anche senza essere condivisa, aiuta a vedere che il nichilismo ci ha trasmesso effettivamente un insegnamento corrosivo e inquietante, ma al tempo stesso profondo e coerente.

Ci ha insegnato che noi non abbiamo più una prospettiva privilegiata – non la religione né il mito, non l’arte né la metafisica, non la politica né la morale e nemmeno la scienza – in grado di parlare per tutte le altre, che non disponiamo più di un punto archimedeo facendo leva sul quale potremmo di nuovo dare un nome all’intero. È questo il senso più profondo della terminologia negativa – «perdita del centro», «svalutazione dei valori», «crisi di senso» – che il nichilismo ha fatto fiorire e che evidentemente esprime la crisi d’autodescrizione del nostro tempo. Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v’è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare.

Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all’altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro. Dopo la caduta delle trascendenze e l’entrata nel mondo moderno della tecnica e delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è una filosofia di Penelope che disfa (analýei) incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà.

Ancora non sappiamo infatti quando potremmo dire di noi stessi quello che Nietzsche osava pensare di sé allorché affermava di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso – che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé» (VIII, ii, 393).