IL NICHILISMO
«Itinerarium mentis in
nihilum». Per una storia del concetto e
del problema
Turgenev e la sua presunta paternità
Nichilismo, romanticismo, idealismo
Il
nichilismo in senso sociale e politico e la sua provenienza francese
Il nichilismo senza fondamenti di Max Stirner
Nichilismo, anarchismo, populismo nel pensiero russo
Nichilismo e decadenza in Nietzsche
Nichilismo, relativismo e disincanto nella «cultura della
crisi»
Il
nichilismo estetico-letterario
Il nichilismo europeo nella storia dell’essere:
Heidegger e Nietzsche
Il primo interesse di Heidegger per Nietzsche
La comparsa di Nietzsche in «Essere e tempo»
Concomitanze: Heidegger, Scheler e l’Archivio-Nietzsche
I corsi universitari su Nietzsche dal 1936 al
1940
Nietzsche: né vero né falso, ma o vivo o morto
Dal
«de profundis» nietzscheano
Oltre la linea del nichilismo: Jünger «versus»
Heidegger
Nichilismo, esistenzialismo, gnosi
Nichilismo, teologia politica, secolarizzazione: Carl
Schmitt
Nichilismo,
"posthistoire", fine della storia: Kojève, Gehlen
Per una filosofia della tecnica
Il conflitto tra tecnica e umanesimo
La tecno-scienza come pericolo
Per un'antropologia a misura
della tecnica
«Itinerarium mentis in nihilum». Per una storia del concetto e del problema
L’uomo contemporaneo versa in una situazione di
incertezza e di precarietà. La sua condizione è simile a quella di un viandante
che per lungo tempo ha camminato su una superficie ghiacciata, ma che con il
disgelo avverte che la banchisa si mette in movimento e va spezzandosi in mille
lastroni. La superficie dei valori e dei concetti tradizionali è in frantumi e
la prosecuzione del cammino risulta difficile.
Il pensiero filosofico ha cercato di offrire una
diagnosi di tale situazione, dei mali che affliggono l’uomo contemporaneo e dei
pericoli che lo minacciano. E ha creduto di poter individuare la causa
essenziale di tutto ciò nel «nichilismo». Ma che cos’è il nichilismo?
Come termine il nichilismo fa la sua comparsa già a
cavallo tra il Settecento e l’Ottocento nelle controversie che caratterizzano
la nascita dell’idealismo tedesco. Più tardi, nella seconda metà
dell’Ottocento, esso è diventato tema generale di discussione, ma è emerso come
problema, in tutta la sua virulenza e vastità, solo nel pensiero del Novecento.
Quale espressione di tentativi artistici, letterari e filosofici volti a
sperimentare la potenza del negativo e a viverne le conseguenze, esso ha
portato alla superficie il malessere profondo che fende come una crepa
l’autocomprensione del nostro tempo. Già Nietzsche lo apostrofava come «il più
inquietante» fra tutti gli ospiti. Nel frattempo quest’ospite sinistro si
aggira ormai ovunque per la casa e non ha più senso fingere che non ci sia o
cercare di metterlo semplicemente alla porta. Ma che cosa significa
propriamente nichilismo?
Troviamo la risposta al nostro interrogativo in
Nietzsche, il primo grande profeta e teorico del nichilismo. In un frammento
vergato negli ultimi sprazzi di lucidità, nell’autunno del 1887, ponendosi egli
stesso la domanda, Nietzsche risponde:
Nichilismo: manca il
fine; manca la risposta al «perché?»; che cosa significa nichilismo? – che i
valori supremi si svalutano (VIII, ii, 12).
Il nichilismo è dunque la situazione di
disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti
tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al
«perché?» e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo. In un altro
importante frammento steso nell’inverno 1887-88 Nietzsche illustra ulteriormente
la dinamica che innesca la svalutazione dei valori supremi e provoca l’avvento
del nichilismo:
L’uomo
moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi
lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più
vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il
movimento è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di
rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce
l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco
il pathos, il nuovo brivido... Quella che racconto è la storia dei
prossimi due secoli... (VIII, ii, 266).
Nel frattempo la profezia di Nietzsche – questo Saulo
rapito dalla demenza sulla via di Damasco – ha trovato conferma. Il fuoco da
lui appiccato divampa oggi dappertutto. Chiunque può vedere che il nichilismo
non è più soltanto il fosco esperimento di stravaganti avanguardie
intellettuali, ma fa parte ormai dell’aria stessa che respiriamo. La sua presenza
ubiqua e multiforme lo impone alla nostra considerazione con una evidenza che è
pari solamente alla difficoltà di abbracciarlo in una definizione chiara e
univoca. Sulla diagnosi del nichilismo, sulla anamnesi delle patologie e del
disagio culturale che rappresenta, gli animi si dividono. Anche le indagini
storiche sulla genesi del termine hanno portato alla luce le tracce di un
manifestarsi complesso e ramificato del fenomeno.
Come una prima definizione vorrebbe, in ossequio
all’etimologia, il nichilismo – da nihil, niente – è il pensiero
ossessionato dal nulla. Se così fosse, si potrebbe essere tentati di ritrovare
il nichilismo e le sue tracce un po’ ovunque nella storia della filosofia
occidentale, perlomeno in ogni pensiero in cui il nulla si accampa come
problema centrale – con buona pace di Bergson che lo annoverava tra le
pseudo-questioni (Bergson, 1970: 1306).
In tal senso Gorgia potrebbe essere considerato il
primo nichilista della storia occidentale per la fulminea inferenza che di lui
ci è tramandata (fr. 3): nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; e
anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile (anhermèneuton).
Stando così le cose, c’è da chiedersi se una storia del nichilismo non dovrebbe
includere anche Fridugiso di Tours, l’allievo di Alcuino che nel De
substantia nihili et tenebrarum, con gesto filosofico scandaloso per i
tempi, volle mostrare che il nulla si impone con una sua presenza e che gli
competono dunque un qualche essere e una sua sostanzialità. E poi Giovanni
Scoto Eriugena, che apre il terzo libro del suo De divisione naturae con
una sottile Quaestio de nihilo volta a stabilire che cosa
rispettivamente intendano con tale difficile concetto la filosofia greca e la
teologia cristiana. E non rientrerebbero a pieno diritto in tale storia anche
le meditazioni nelle quali Meister Eckhart, con una vertiginosa annihilatio,
dichiara che Dio e il nulla, «l’angelo, la mosca e l’anima» sono la stessa cosa
– come per esempio nel commento al detto di Luca: «Paolo si levò da terra e,
con gli occhi aperti, vide il nulla»? E perché insieme a lui non altre sublimi
espressioni della mistica speculativa, da Dionigi Areopagita fino a Giovanni
della Croce e ad Angelo Silesio?
E allora perché non includervi Charles de Bovelles che
in pieno Rinascimento, nel suo Liber de nihilo (1509), si arrovella
circa quella «negazione originaria delle creature e della materia» che è il
nulla, impiegandolo come concetto cardinale nella sua teologia negativa? O
perfino Leonardo che in un appunto del Codice Atlantico (folio 389 verso
d) annota: «Infralle cose grandi che infra noi si trovano, l’essere del nulla è
grandissima»? O la bibbia dello scetticismo nichilistico, il Quod nihil
scitur di Francisco Sanches? E poi soprattutto Leibniz con la celebre
domanda formulata nei Principes de la Nature et de la Grâce: «Pourquoy
il y a plustôt quelque chose que rien?» e con la ancor più stupefacente
risposta: «Car le rien est plus simple et plus facil que quelque chose»
(Leibniz, 1875-90: VI, 602)? E infine perché non quel sublime maestro del nulla
che fu Leopardi con la sua tesi annotata nello Zibaldone secondo la
quale «il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla» (Leopardi, 1997:
I, 971 [1341])?
Al pari di un’insopprimibile ombra, da sempre il nulla
ha accompagnato e travagliato la riflessione filosofica – come Mefistofele il
suo Faust. Lo «spirito che sempre nega» si insinua tra i pensieri che animano
la mente umana, facendosi forte delle ragioni della negatività che furono già
di Anassimandro:
...denn
alles, was entsteht,
Ist wert,
daß es zu Grunde geht;
Drum besser
wär’s, daß nichts entstünde.
[«...perché
tutto ciò che nasce / è tale che perisce; / perciò meglio sarebbe che nulla
nascesse» (Goethe, Faust, I,
vv. 1339-1341]
Né la filosofia può esimersi dal pensare il nulla se è
vero che, per ottemperare al compito che le è proprio, vale a dire
l’interrogazione intorno all’essere in quanto essere, essa deve demarcare
quest’ultimo dalla sua opposizione essenziale, cioè dal nulla. È questa la
ragione della drastica conclusione cui perviene a tale proposito Heidegger:
La pietra di paragone più dura, ma anche meno
ingannevole, per saggiare il carattere genuino e la forza di un filosofo è se
egli esperisca subito e dalle fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza
del niente. Colui al quale questa esperienza rimane preclusa sta
definitivamente e senza speranza fuori dalla filosofia (Heidegger, 1994: 382).
Ciò detto, va subito fatta una restrizione del campo
d’indagine in cui ci inoltreremo nella nostra ricostruzione del nichilismo.
Lasciando da parte il problema filosofico del nulla e la sua storia (cfr.
Givone, 1995; Lütkehaus, 1999), ci limiteremo al nichilismo in senso stretto
così come esso è emerso in seno al pensiero filosofico, come concetto e come
problema, nell’Ottocento e soprattutto nel Novecento. Le nostre perlustrazioni
– che si affiancano ad altri studi (in particolare Verra, 1979; Vercellone,
1992) e sviluppano una precedente sinossi (Volpi, 1995c) – seguono quale filo
conduttore la storia del concetto e del problema. Nutriamo nei confronti
del nichilismo la stessa convinzione che vale per tutti i veri problemi
filosofici: essi non hanno soluzione ma storia.
Turgenev e la sua presunta paternità
La prima cosa da appurare in una ricostruzione storica
del nichilismo sono i suoi natali. È opinione comunemente accettata che i due
padri fondatori e grandi teorizzatori del nichilismo siano stati Dostoevskij e
Nietzsche. A loro mettono rispettivamente capo il filone letterario e quello
più propriamente filosofico del movimento. Il termine, tuttavia, era già stato
coniato prima di loro. Ma quando e da chi?
A rivendicarne per primo la paternità fu Turgenev. In
verità, sulla scorta di indagini lessicografiche noi oggi sappiamo che si
tratta di una paternità più presunta che effettiva. Ma vediamo anzitutto che
cosa dichiara egli stesso.
In una retrospettiva autobiografica Turgenev afferma
di essere stato lui, nel romanzo Padri e figli (Otcy i deti,
1862), ad avere inventato il termine «nichilista». Con tale denominazione egli
definisce in effetti il modo di pensare del protagonista del suo romanzo,
Bazarov, e dice anzi di aver voluto dare corpo, con questo personaggio, a un
tipo di uomo e di atteggiamento, teorico e pratico, che andava imponendosi
nella realtà storica del suo tempo. Motivo centrale del romanzo – le cui
vicende si svolgono nella Russia del 1859, vale a dire due anni prima
dell’abolizione della servitù della gleba e della liberazione dei contadini – è
il conflitto tra la generazione dei padri, che si ispira agli ideali umanistici
tradizionali, e quella ribelle dei figli, materialistica, disincantata e priva
di illusioni. Bazarov, che appartiene a quest’ultima, è un giovane medico
venuto a far visita a un amico che lo riceve nel suo podere alla presenza di
suo padre e suo zio. Egli esprime prima disappunto e poi condanna per il modo
di vivere ozioso di costoro, indifferenti e sordi a quanto sta accadendo nella
società del loro tempo. I nobiluomini si domandano se Bazarov non sia un
pericoloso «negatore» dei valori e dell’ordine sociale esistenti, un
«nichilista». E Bazarov accetta volentieri tale appellativo: dichiara di voler
effettivamente negare l’ordine inveterato e con esso i princìpi e i valori della
vecchia generazione che vive in una opulenta indifferenza di fronte a ciò che
sta accadendo al popolo. Essere nichilista significa tuttavia per lui non solo
distruggere il vecchio, ma anche impegnarsi nel compito sociale che ha scelto,
quello di medico (morirà per un’infezione contratta curando un malato). Bazarov
è – come Turgenev lo definisce – l’«uomo nuovo», l’«eroe del nostro tempo»
passato per la dura scuola del lavoro e del sacrificio, destinato a rimpiazzare
la stanca e fiacca nobiltà. Egli sa di dover negare, sa che per avanzare deve
calpestare credenze e valori tradizionali, ma procede imperterrito senza troppo
preoccuparsi delle ceneri e delle distruzioni che lascia alle sue spalle.
«Nichilista» è perciò l’appellativo che gli conviene.
Nel quinto e ultimo capitolo delle sue Memorie
letterarie e di vita Turgenev spiega la sua scelta:
Come punto
di partenza per la figura principale, Bazarov, avevo preso la personalità, che
m’aveva colpito, d’un giovane medico di provincia (che morì poco prima del 1860).
In quest’uomo singolare si compendiava, ai miei occhi, quell’insieme di
princìpi che ricevette poi il nome di nichilismo (Turgenev, 1992: 186; 1993:
277-78).
Quanto agli effetti che la rappresentazione letteraria
del fenomeno produsse, è ancora Turgenev che ce ne offre l’illustrazione più
efficace:
Non mi
dilungherò sull’impressione che produsse questo racconto; dirò soltanto che,
quando tornai a Pietroburgo, nel medesimo giorno del famoso incendio
dell’Apraksinskij Dvor [gli edifici del grande mercato della città], la parola
«nichilista» era già su migliaia di bocche, e la prima esclamazione che udii
sulle labbra del primo conoscente in cui mi imbattei presso la Neva [il corso
principale di Pietroburgo] furono: «Guardate quel che fanno i vostri nichilisti!
Bruciano Pietroburgo!» (Turgenev, 1992: 187-88; 1993: 278-79).
Il romanzo
suscitò insomma, anche se scritto a scopo di condanna e di reazione, una
interpretazione del nichilismo che era più radicale di quella dell’autore
stesso – come lascia intravedere la sagace osservazione di una lettrice che
Turgenev riporta e che coglie probabilmente nel segno:
«Né
padri né figli» mi disse una spiritosa signora, dopo aver letto il mio
libro. «Ecco il vero titolo del vostro racconto; e voi stesso siete un nichilista»
(Turgenev, 1992: 195; 1993: 283).
Lo scopo
che questi osservatori più o meno consapevolmente perseguivano, e che affinava
oltremodo la loro sensibilità nei confronti del fenomeno del nichilismo, era
quello di arginare il movimento di idee che con tale termine si indicava e
quindi fermare gli sconvolgimenti sociali che esso aveva avviato.
Della
parola da me creata: «nichilista», si sono valsi allora molti altri i quali non
attendevano che l’occasione, il pretesto per arrestare il movimento da cui era
trascinata la società russa. Non nel senso d’un rimprovero, non per un fine di
mortificazione fu da me adoperata quella parola, ma come espressione precisa ed
esatta d’un fatto reale, storico; essa fu trasformata in uno strumento di
delazione, di condanna inappellabile, quasi in un marchio d’infamia (Turgenev,
1992: 198; 1993: 284-85).
Non appena creato, il termine «nichilista» sfuggì
dunque di mano al suo dichiarato inventore e dilagò come una categoria di
critica sociale. Ma come era stato definito il termine «nichilista» in Padri
e figli? Vale la pena rileggere il punto preciso del romanzo nel quale
Turgenev lo introduce e ne precisa l’accezione.
«Un nichilista» proferì Nikolaj Petrovicˇ. «Viene
dal latino nihil, nulla, per quanto posso giudicare; dunque questa
parola indica un uomo, il quale... il quale non ammette nulla?»
«Di’ piuttosto: il quale non rispetta nulla» riprese
Pavel Petrovicˇ...
«Il quale considera tutto da un punto di vista
critico», osservò Arkadij.
«E non è forse lo stesso?» domandò Pavel
Petrovicˇ.
«No, non è lo stesso. Il nichilista è un uomo che non
s’inchina dinanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da
qualsiasi rispetto tale principio sia circondato».
«E ti pare una bella cosa?» lo interruppe Pavel
Petrovicˇ.
«Secondo chi, zio. Per taluno ne deriva un bene, e per
qualcun altro un gran male».
«Ah, così? Beh, vedo che non è una partita di nostra
competenza. Noi siamo gente del vecchio secolo, noi riteniamo che senza
“prensìp” (Pavel Petrovicˇ pronunciava questa parola dolcemente, al modo
francese, Arkadij, al contrario, pronunciava “principii”, strascicando la
sillaba finale) senza “prensìp”, accettati, come tu dici, per dogma, non si può
muovere un passo, non si può trarre un respiro... Come vi chiamate?»
«Nichilisti» proferì distintamente Arkadij.
«Sì, prima c’erano gli hegeliani, ora ci sono i
nichilisti. Vedremo come farete a esistere nel vuoto, nello spazio
senz’aria...» (Turgenev, 1991: 809-10).
In queste poche battute si condensa la tensione che
anima la narrazione di Turgenev e che genera la frattura tra la vecchia e la
nuova visione del mondo, quella dei padri, ancorata agli antichi princìpi, e quella
dei figli, che non è più capace di coltivare una fede. Non è detto che la
definizione di Turgenev cogliesse veramente nel segno. Probabilmente, come
testimoniano le molte proteste e rettifiche che essa suscitò, la nuova
generazione dei figli era tutt’altro che indifferente ai princìpi. Solo che
essi erano ormai altri: erano quelli della nuova visione positivistica e
materialistica del mondo. Ma comunque stessero le cose, di fatto la definizione
di Turgenev risultò efficace nel cogliere una tendenza in atto nella cultura e
nella società russa di allora.
Del resto, il termine nichilismo era già stato
impiegato in precedenza, sia altrove sia nella stessa Russia. Per esempio già
nel 1829 il critico romantico N.I. Nadeždin, in un articolo intitolato L’adunata
dei nichilisti (Somnišcˇe nigilistov), aveva definito
nichilisti coloro che nulla sanno e nulla capiscono. E anche M.N. Katkov aveva
usato l’epiteto di «nichilisti» per criticare i collaboratori della rivista «Il
Contemporaneo» come gente che non crede a nulla. Comunque sia, a Turgenev va
riconosciuto, se non la paternità, almeno il merito di aver reso popolare il
termine.
Nichilismo, romanticismo, idealismo
Fatto salvo il merito di Turgenev di avere messo in
circolazione l’idea del nichilismo e averla trasformata in un problema
avvertito su vasta scala, va detto che egli ignorava l’origine più antica del
termine. A parte l’uso che ne era stato fatto nella stessa cultura russa a lui
precedente, anche altrove la parola aveva già fatto la sua comparsa. Per
restare nell’ambito della letteratura di cui Turgenev avrebbe potuto avere
conoscenza, la troviamo ad esempio nel titolo di una novella di Karl Ferdinand
Gutzkow (Die Nihilisten, 1853), romanziere e drammaturgo tedesco di un
certo successo, esponente del movimento della «Giovane Germania», che si era
confrontato polemicamente con Schopenhauer sulla questione dell’impegno sociale
dello scrittore.
Grazie a indagini di storia concettuale (Arendt, 1974;
Riedel 1978) oggi sappiamo che l’origine del concetto di nichilismo va spostata
ancora più indietro. Prescindendo dall’uso non meglio attestato che già
Agostino ne avrebbe fatto con l’apostrofare come nihilisti i non
credenti, l’apparizione del termine, nella variante nihilianismus, è
documentata in Gualtiero di San Vittore. Questi lo usa per designare l’eresia
cristologica secondo la quale, essendo il logos divino eterno e non
creato, l’umanità compete a Cristo solo come accidente. Tale «nichilianismo
teologico» sarebbe stato sostenuto da Pietro Lombardo nel quarto dei suoi
celebri Libri sententiarum, che per questo è attaccato da Gualtiero di
San Vittore e da Roberto di Melun, e poi ufficialmente condannato da papa
Alessandro III, che nel 1173 scrive a Guglielmo di Champagne, allora
arcivescovo di Sens, per condannare l’eresia dei nichilisti. Se ci si attiene
invece rigorosamente alla forma nihilismus, essa compare per la prima
volta nel 1733 nel titolo del trattato di Fridrich Lebrecht Goetz De nonismo
et nihilismo in theologia, in cui è definito nichilismo il ritenere che
tutto sia nulla, «pro nihilo habere omnia» (ivi: 34; cfr. Müller-Lauter, 1984:
846).
Ma, al di là di queste occorrenze isolate, un primo
uso più generale della parola è stato individuato nella cultura francese della
Rivoluzione. In questo contesto storico l’attributo «nichilista» fu impiegato
per qualificare la schiera di coloro che non erano «né per, né contro la
Rivoluzione». Trasferendo questo significato sul piano delle convinzioni
religiose Anacharsis Cloots – pseudonimo di Jean-Baptiste du Val-de-Grâce,
barone di Cloots, membro della Convenzione nazionale che fu poi ghigliottinato
– affermava in un suo discorso del 26 dicembre 1793 che «la Repubblica dei
diritti dell’uomo non è né teista né atea, è nichilista» (Cloots, 1979: 643).
Tuttavia, al di là delle occorrenze lessicali, ciò che
qui interessa è l’uso filosofico vero e proprio del concetto. Circa le premesse
storico-filosofiche generali che lo rendono possibile, un lungo discorso
andrebbe fatto in merito al manifestarsi del nichilismo prima della nascita del
termine stesso. Si dovrebbe mostrare, in particolare, come la cosmologia
moderna con la sua concezione della natura quale res extensa, cioè mero
spazio vuoto e materia, abbia provocato la spaesatezza metafisica dell’uomo.
All’inizio dell’età nuova una raggelante constatazione di Pascal dà la misura
di quale profonda trasformazione la cosmologia materialistica abbia causato
nella posizione metafisica dell’uomo nell’universo. «Inabissato nell’infinita
immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano – annota Pascal – io mi
spavento» (Pascal, 1962: 94). Questo preoccupato lamento segnala che con la
nuova cosmologia cambia la situazione spirituale dell’uomo. Nell’universo
fisico della cosmologia moderna egli non può più abitare e sentirsi a casa
propria come nel cosmo antico e medievale. L’universo è ora percepito come
estraneo al suo destino individuale: gli appare come una angusta cella in cui
la sua anima si sente prigioniera oppure come una spaesante infinità che lo
inquieta. Di fronte all’eterno silenzio delle stelle e agli spazi infiniti che
gli rimangono indifferenti, l’uomo sta solo con se stesso. È senza patria.
Nominando in termini così chiari la spaesatezza
metafisica dell’uomo moderno, l’annotazione di Pascal tocca con largo anticipo,
alle soglie dell’età moderna, la ragione più profonda dell’emergere del
nichilismo. Quando viene meno il senso, quando manca la risposta al «perché?»,
il nichilismo è ormai alle porte. Quest’ospite inquietante – secondo
l’espressione di Nietzsche – si è già insinuato furtivo nella casa in modo che
nessuno potrà più scacciarlo. Naturalmente Pascal affronta e pensa questa nuova
condizione per contrastarla: dietro la irrefragabile necessità della natura v’è
ancora un Deus absconditus che la governa e che ci governa, per quanto
Egli non sia immediatamente riconoscibile nel suo creato. L’uomo è, sì, un
frammento di natura, un nulla schiacciato dalle forze cosmiche, ma può, in
quanto pensa e crede, sottrarre la sua contingenza al condizionamento delle
leggi naturali e proclamarsi cittadino dell’altro mondo, quello dello spirito.
Ma lo scenario è ormai tracciato. Presto anche Dio si
eclisserà. Dapprima solo per ipotesi: tutto va immaginato «come se Dio non ci
fosse» (etiamsi Deus non daretur). Poi per davvero: tutto va ripensato,
in primo luogo il senso della nostra esistenza, prendendo atto del fatto che
«Dio è morto». Allora, quando la trascendenza perde la sua forza vincolante e
ammutolisce, l’uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Anzi, non
gli resta che prendersela: l’uomo è la libertà stessa poiché ormai non è altro
che quello che progetta di essere, e tutto gli è permesso. Che questa libertà
finisca poi per essere una libertà disperata, la quale infonde più angoscia che
non pienezza d’essere, è un fatto con il quale l’esistenzialismo ha cercato di
convivere.
L’orizzonte speculativo a cui queste poche battute
alludono, e che si sviluppa in un crescendo nichilistico lungo l’arco storico
che va da Pascal all’esistenzialismo contemporaneo, consente di inquadrare le
prime occorrenze del termine nichilismo e la genesi stessa del movimento in un
contesto meno ristretto rispetto a quello a cui si limita la semplice indagine
lessicografica o storico-concettuale. In questo orizzonte si capisce meglio il
primo uso filosofico vero e proprio del concetto, individuato verso la fine del
XVIII secolo nel contesto delle controversie che caratterizzano la nascita
dell’idealismo.
Nella contrapposizione dell’idealismo al realismo e al
dogmatismo, il termine «nichilismo» è impiegato per caratterizzare l’operazione
filosofica mediante la quale l’idealismo intende «annullare» nella riflessione
l’oggetto del senso comune, al fine di mostrare come esso in verità non sia altro
che il prodotto di una invisibile e inconsapevole attività del soggetto. A
seconda del punto di vista, favorevole o meno a tale operazione, il termine
acquista un senso positivo o negativo. Nichilismo significa allora,
nell’accezione positiva, la distruzione filosofica di ogni presupposto e ogni
dato immediato; in quella negativa, invece, la distruzione delle evidenze e
delle certezze del senso comune da parte della speculazione idealistica. Nel
significato della contrapposizione al realismo William Hamilton, ultimo
esponente della Scuola scozzese di Thomas Reid, nei primi decenni
dell’Ottocento vedeva «an illustrious exemple of Nihilism» niente meno che in
Hume, senza peraltro poter indicare occorrenze precise (Hamilton, 1861-66: I,
294).
È precisamente in tale senso negativo che Jacobi
accusa l’idealismo di essere un nichilismo, introducendo così per primo il
termine con una valenza filosofica. Il passo più celebre, solitamente indicato
come la prima occorrenza del termine nella sua accezione speculativa, è
contenuto in una missiva di Jacobi a Fichte stesa nel marzo e pubblicata
nell’autunno del 1799. Jacobi afferma:
In verità,
mio caro Fichte, non deve infastidirmi se Lei, o chicchessia, vuole chiamare chimerismo
quello che io contrappongo all’idealismo, a cui muovo il rimprovero di nichilismo
(Jacobi, 1972: 245; cfr. anche 223).
Questo uso del concetto non è occasionale, dal momento
che Jacobi lo impiega anche in altri luoghi. Lo adopera per esempio nello
scritto Sulle cose divine e la loro rivelazione (Von den göttlichen
Dingen und ihrer Offenbarung, 1811), nella cui prima parte, nella quale
ricorre il termine, rielabora e inserisce una recensione delle opere di
Matthias Claudius progettata nel 1798 (dunque prima della missiva a Fichte) e
poi ritirata a causa dell’Atheismusstreit del 1799. Jacobi combatte come
«nichilismo», ma anche come «ateismo», il modo in cui Dio viene fatto rientrare
nella considerazione della filosofia, da Spinoza a Fichte fino a Schelling:
Egli diventa oggetto di argomentazione, cioè di un sapere discorsivo,
dialettico, razionale, e cessa di essere l’Assoluto puro e semplice a cui solo
un coglimento diretto di tipo intuitivo può arrivare. Tale coglimento è per
Jacobi la funzione propria della Vernunft, cioè della ragione, intesa,
secondo l’etimologia del termine sottolineata già da Leibniz e da Herder, come
un Vernehmen (percepire), ossia come la percezione dell’Assoluto. Di qui
la riduzione della ragione a una sorta di contatto immediato con l’Assoluto,
cioè a una «fede» (Glaube) – riduzione che contraddistingue la posizione
filosofica di Jacobi e che sarà severamente attaccata dagli idealisti, in
particolare da Hegel. Quanto alle fonti dalle quali Jacobi potrebbe avere
attinto il termine «nichilismo», si può congetturare che egli l’avesse sentito
impiegare nell’ambiente culturale francese in cui esso già circolava, anche se
con un altro significato. È stato inoltre mostrato che Jacobi conosceva la
continuazione tedesca del Discours sur l’histoire universelle di Bossuet
a opera di Johann Andreas Cramer, del 1786, nella quale si dichiarava che i
teologi che si erano serviti del concetto di «nulla» per distinguere la
divinità di Cristo dalla sua umanità si erano macchiati dell’«eresia del
nichilianismo», alla quale si è già accennato (Baum, 1969).
Che il termine entrasse allora in circolazione in
Germania, forse addirittura come «termine fondamentale nella discussione
sull’idealismo» (Pöggeler in Arendt, 1974: 310), è comprovato dalla circostanza
che un’opera diffusa di consultazione come il Dizionario portatile
universale delle scienze filosofiche di Wilhelm Traugott Krug (Allgemeines
Handwörterbuch der philosophischen Wissenschaften, 1828) gli dedica un
lemma apposito, espressamente aggiunto nel volume di supplementi. Ma la
conferma principale viene da ricerche lessicali che hanno documentato l’uso del
termine in altri pensatori dell’età romantica, anche prima della missiva di
Jacobi a Fichte. Per esempio Daniel Jenisch – un teologo altrimenti quasi
sconosciuto, che fu vicino a Hamann ed ebbe rapporti con Kant, e finì suicida
nella Spree – lo impiega ripetutamente nel suo trattato Sul fondamento e sul
valore delle scoperte del prof. Kant in metafisica, morale ed estetica (Über
Grund und Wert der Entdeckungen des Herrn Professor Kant in der Metaphysik,
Moral und Ästhetik, 1796), presentato al celebre concorso dell’Accademia
prussiana sui progressi della metafisica, al quale partecipò anche Kant. Nel
rispondere al quesito su «quali fossero stati i progressi reali della
metafisica in Germania dai tempi di Leibniz e di Wolff», Jenisch contrappone
allo spinozismo, cioè al dogmatismo e al realismo, la nuova posizione emersa
con Kant, cioè l’idealismo, e si propone di illustrare – come recita il titolo
della missiva dell’autore a Kant, pubblicata in appendice allo scritto – «gli
effetti favorevoli e sfavorevoli della filosofia critica avutisi fin qui».
Fautore di un «realismo relativo» (Verhältnis-Realismus), Jenisch
interpreta l’idealismo kantiano non in un senso assoluto, bensì in senso critico,
cioè come idealismo trascendentale: essendo il nostro intelletto non
«archetipico» ma «ectipico», ossia non originario né capace di produrre esso
stesso le idee e i concetti che conosce, bensì limitato e finito, la cosa in sé
non può essere eliminata. Rimane cioè una resistenza dura dell’essere che non
si lascia assorbire e risolvere interamente nel pensiero. Ora, nonostante
l’annullamento della cosa in sé appaia alla nostra ragione e alla nostra
immaginazione come un’ipotesi mostruosa e terribile, nondimeno essa è stata
largamente praticata dalla filosofia più recente che ha inteso e sviluppato
l’idealismo in senso assoluto. Ma con questa operazione essa ha finito per
negare la realtà delle cose, cioè per annientare nell’abisso dell’irrealtà, tra
le «onde leteiche dell’eterno nulla», l’intera natura con la miriade di esseri
e creature che pullulano nell’universo. Se così fossero da interpretare,
l’idealismo e il criticismo «predicherebbero il più manifesto ateismo e nichilismo»
(cfr. Pöggeler in Arendt, 1974: 335 sgg.; Riedel, 1978: 380).
Più o meno contemporaneamente a Jacobi, in qualche
caso prima di lui, usano il termine «nichilismo» anche altri autori noti come
Friedrich Schlegel e Jean Paul. Il primo addirittura più volte e con
significati diversi. Ad esempio in un appunto del 1797 Schlegel annota che
«ogni arguzia tende al nichilismo». L’occorrenza del concetto in questo
frammento non è facile da contestualizzare né da interpretare. Probabilmente
Schlegel si riferisce alla funzione corrosiva dell’arguzia (Witz), cioè
dell’ironia: essa produce uno scarto di prospettiva e un distacco rispetto al
finito, ne sospende e ne distrugge le pretese di valere assolutamente, e in tal
senso tende a quel «nichilismo» che, mettendo in questione il finito e
relativizzandolo, apre la strada verso l’infinito, cioè verso il vero Assoluto.
Un impiego del termine in chiaro riferimento alla polemica di Jacobi con Fichte
si trova invece nei corsi universitari tenuti da Schlegel tra il 1804 e il
1806. Ecco quanto egli osserva al riguardo:
Nonostante
l’idealismo e il realismo stiano fra loro in una antitesi assoluta, è tuttavia
facilissimo saltare da un estremo all’altro. Entrambi conducono facilmente al
nichilismo (...). Il nichilismo non dovrebbe costituire un proprio sistema
determinato? (Schlegel, 1837: 475; cfr. anche 428, 486).
Schlegel usa il termine «nichilismo» in un altro senso
ancora, per caratterizzare la visione orientale del mondo. Egli dice che il
nichilismo è la forma mistico-orientale del panteismo (Schlegel, 1963: 27, 573,
575) – equazione, questa, che si ritrova più tardi anche nell’Essenza del
cristianesimo di Feuerbach.
Mentre in Schlegel il significato del termine oscilla
e cambia nelle diverse fasi del suo pensiero, Jean Paul ne fa invece un uso ben
preciso e definito. Creatore, non a caso, del personaggio di Roquairol (Titan,
1800-01), una delle più significative figure di nichilista della letteratura
tedesca, Jean Paul critica nella Clavis Fichtiana seu Leibgeberiana
(1800), dedicata a Jacobi, e poi in un intero capitolo della Propedeutica
all’estetica (Vorschule der Ästhetik, 1804), coloro che egli chiama
i «nichilisti poetici», cioè i romantici. Essi vedono solo l’arte e non la
natura: ebbri del loro io, profondamente «egoisti», non fanno che celebrare il
libero gioco della fantasia, vale a dire l’attività spontanea dell’io creatore,
dimenticando il non-io, la natura, l’intero universo, Dio compreso, che essi
finiscono per ridurre a nulla. Ma quando, quasi come un sole che tramonta,
anche Dio scompare e svanisce per un’epoca, allora tutto il mondo entra
nell’oscurità (Jean Paul, 1959: V, 31). L’ateismo spezza l’intero universo in
una miriade di io isolati, senza unità e connessione, in cui ciascuno sta solo
in mezzo a quel Nulla al cui cospetto perfino Cristo, alla fine dei tempi,
dispera dell’esistenza di Dio-padre. È la sconcertante visione apocalittica che
Jean Paul immagina ben due volte. Una prima nel Lamento di Shakespeare
morto, tra i morti che lo ascoltano in chiesa, sulla non esistenza di Dio (Des
toten Shakespear’s Klage unter den toten Zuhörern in der Kirche, daß kein Gott
sei, 1789). Cimentandosi in una descrizione letteraria della sua esperienza
del Nulla, Jean Paul immagina una voce che dall’altare proclama:
Non v’è Dio
né tempo. L’eternità non fa che rimuginare se stessa e rodere il caos.
L’arcobaleno iridato degli esseri s’inarca senza sole sopra l’abisso e si
dissolve goccia a goccia – noi assistiamo alla muta sepoltura della Natura
suicida e veniamo sepolti con lei. Chi mai solleva lo sguardo verso un occhio
divino della Natura? Lei vi fissa con una smisurata orbita vuota e nera (Jean
Paul, 1959: II, ii, 590-91).
Una seconda volta nel celebre Discorso del Cristo
morto, dall’alto dell’universo, sulla non esistenza di Dio (Rede des
toten Christus, vom Weltgebäude herab, daß kein Gott sei, 1796), inserito
nel romanzo Siebenkäs e fatto conoscere da Madame de Staël che lo
tradusse in francese in De l’Allemagne. Qui Jean Paul perfeziona e
radicalizza la sua scandalosa visione del Nulla assoluto:
Nulla
immobile e muto! Fredda, eterna necessità! Folle caso! Conoscete voi ciò che
dominate? Quando abbatterete l’edificio e me? – Caso, sai tu quello che fai
quando avanzi coi tuoi uragani nel nevischio delle stelle, spegnendo un sole
dopo l’altro col tuo soffio, e quando la rugiada luminosa delle costellazioni
cessa di scintillare al tuo passaggio? – Come ciascuno è solo nell’immensa
tomba dell’universo! Accanto a me ci sono solo io – O padre! o padre! dov’è il
tuo seno infinito perché mi possa riposare su di esso? (Jean Paul, 1977: 30).
Nel Nulla finisce per inabissarsi anche il punto fermo
sul quale gli idealisti basavano la loro annihilatio mundi, cioè l’io.
Se ciascun io è padre e creatore di se stesso – si
interroga Jean Paul – perché mai non può essere anche il proprio angelo
sterminatore? (Jean Paul, 1977: 30).
Non è un caso che in un altro testo, da molti
considerato per la sua radicale e caustica ironia il culmine del nichilismo
romantico, i Notturni di Bonaventura (Nachtwachen des Bonaventura,
1804), l’anonimo autore riprenda, nell’episodio dell’Ebreo errante, lo stesso
motivo nichilistico di Jean Paul senza più stemperarlo nella cornice del sogno
come fa quest’ultimo. Tutto lo scritto è un cimentarsi con il Nulla, e la
professione di nichilismo fatta nell’ottavo notturno non potrebbe essere più
tetra:
Il teschio
non diserta mai la maschera che occhieggia, la vita non è che l’abito a sonagli
che il Nulla indossa per tintinnare prima di stracciarselo via di dosso. Che
cos’è il Tutto? nient’altro che il Nulla: esso si strozza da sé, e giù s’ingoia
voracemente: ecco a che si riduce la perfida ciarlataneria secondo la quale
esisterebbe qualcosa! Se infatti una sola volta lo strozzamento sostasse, il
Nulla balzerebbe evidente agli occhi degli uomini da farli inorridire; i folli
chiamano eternità questo fermarsi! – ma no, è proprio il Nulla invece,
la morte assoluta – poiché la vita consiste solamente in un ininterrotto morire
(Bonaventura, 1984: 77-78; 1990: 187).
E nella chiusa dello scritto viene lanciata ancora una
volta la sfida autodistruttiva all’indirizzo del Nulla:
Io voglio
guardare furente nel Nulla e affratellarmi con lui, in modo da non avvertire
più residui umani quando infine mi ghermirà!
Con te,
vecchio alchimista, vorrei mettermi in cammino; solo, non devi mendicare per
ottenere il cielo – non mendicare – espugnalo piuttosto, se ne hai la forza
(...) smettila di mendicare; ti disgiungo a forza le mani! Ahimè! Che è questo
– anche tu non sei che una maschera e mi inganni? Non ti vedo più, Padre – dove
sei? Al tocco delle mie dita tutto si riduce in cenere e sul suolo non resta
altro che una manciata di polvere, mentre un paio di vermi satolli strisciano
via di soppiatto (...). Spargo questa manciata di polvere paterna nell’aria, e
che cosa rimane – Nulla!
Di fronte,
sulla tomba, il visionario ancora indugia e abbraccia il Nulla!
E l’eco
nell’ossario chiama per l’ultima volta – «Nulla!» (Bonaventura, 1990: 319, 323;
1984: 143-45).
Questi elementi possono bastare a dare un’idea dell’immaginoso
contesto in cui i romantici trattano il problema del «nichilismo». Ma ancora
più significativo da un punto di vista filosofico è il fatto che il termine
viene impiegato in senso tecnico niente meno che dai giovani Schelling e Hegel.
Mentre Schelling prende atto della polemica tra Jacobi e Fichte e respinge
l’accusa secondo cui egli stesso sarebbe un nichilista, Hegel rivendica la
necessità del nichilismo trascendentale come procedimento metodico della
filosofia. Nel saggio Fede e sapere (Glauben und Wissen, 1802),
pubblicato nel «Kritisches Journal der Philosophie», la rivista da lui diretta
insieme a Schelling, egli prende posizione in merito alla controversia tra
Jacobi e Fichte e li critica entrambi, assieme a Kant, come dualisti.
L’argomento principale fatto valere contro di loro è che essi rimangono fermi a
una dicotomia ontologica di fondo, in quanto non riescono a risolvere
completamente l’essere nel pensiero. In questo contesto Hegel afferma – contro
Jacobi – che il «nichilismo della filosofia trascendentale» di Fichte è un
passo metodologico inevitabile, ma al tempo stesso – contro Fichte – che il suo
nichilismo è meramente relativo e incapace di giungere a quel pensiero puro in
cui l’opposizione all’essere è superata. «Primo compito della filosofia»,
«compito del nichilismo», è di arrivare a «conoscere il nulla assoluto»,
cioè di giungere alla «compiutezza del vero nulla» – dove va notato che a
differenza di quanto accadrà nella Scienza della logica (Wissenschaft
der Logik, 1812) qui è il nulla, non l’essere, a fungere da termine di
partenza nel cominciamento della filosofia (Hegel, 1981: 231). Questa prima
tematizzazione del nulla è lo sfondo sul quale Hegel svilupperà successivamente
la diagnosi nichilistica della transizione al mondo moderno in termini di
«morte di Dio», «ateismo», «fatalismo», «pessimismo», «egoismo», «atomismo», e
dichiarerà la necessità che la dialettica attraversi la negatività e il
«nichilismo», cioè il «sentimento che Dio è morto», pur riconoscendolo come
semplice momento nella vita dello spirito, che va superato.
Che anche un pensatore importante come Hegel impieghi
in senso filosofico il termine «nichilismo», anche se solo nella fase giovanile
del suo pensiero, è un episodio molto significativo per la ricostruzione della
storia del concetto e del problema. In seguito, specialmente attraverso il
confronto critico con Schelling, la problematica del «nulla» e della
«negatività», congiuntamente all’uso dei relativi termini, subirà in Hegel una
notevole trasformazione.
Per quanto riguarda la presenza ulteriore del concetto
in seno all’idealismo, a testimoniare la non occasionalità del suo impiego va
detto che lo si ritrova anche in altri esponenti minori del movimento, come
Karl Rosenkranz, Christian Weisse e Immanuel H. Fichte, di volta in volta con
accentuazioni diverse. Ma più ci si allontana dall’originaria controversia
circa la genesi dell’idealismo, più il significato del termine si sposta
dall’ambito strettamente filosofico-speculativo a quello sociale e politico, cioè
alle conseguenze ingenerate dall’assunzione, da parte di un soggetto
privilegiato, di un atteggiamento di radicale annichilimento di tutto ciò che
ne delimita l’agire. Fa la sua comparsa la figura del «nichilista» quale libero
pensatore che demolisce ogni presupposto, ogni pregiudizio, ogni condizione già
data, quindi anche ogni valore tradizionale, e che prefigura così i tratti del
nichilista anarchico-libertario che vivrà la sua stagione più intensa negli
ultimi decenni dell’Ottocento.
Il nichilismo in senso sociale e
politico e la sua provenienza francese
La nuova accezione del concetto, usato per descrivere
uno stato della società da superare, è rintracciabile nell’opera dell’unico
grande pensatore romantico di confessione cattolica, cioè Franz von Baader. Più
che dalle discussioni idealistico-romantiche Baader riprende il concetto di
nichilismo dalla cultura francese, specialmente da Joseph de Maistre, e lo
impiega in due scritti: nell’articolo Su cattolicesimo e protestantesimo
(Über Katholicismus und Protestantismus, 1824) e nella prolusione
accademica Sulla libertà dell’intelligenza (Über die Freiheit der
Intelligenz, 1826).
Nel primo testo Baader sostiene che il protestantesimo
avrebbe dato origine, da un lato, a un «nichilismo scientifico, distruttivo» e,
dall’altro, a un «pietismo (misticismo) non scientifico, separatista». Compito
del cattolicesimo è combattere entrambe le tendenze, specialmente la prima,
ripristinando «il concetto di autorità in senso ecclesiastico, politico e
scientifico contro ogni dubbio o protesta, antichi o nuovi» (Baader, 1851: 76).
Il nichilismo è qui identificato con la dissoluzione delle «sacre verità», cioè
con la distruzione degli ordinamenti e delle regole tradizionali nella loro
funzione di principi della coesione sociale. La causa di siffatto nichilismo è
individuata nell’esercizio incontrollato della razionalità della scienza.
Nella prolusione accademica del 1826 questa accezione
del termine viene ulteriormente precisata. Il «nichilismo» è qui definito come
un «abuso dell’intelligenza distruttivo per la religione» e viene associato
all’«oscurantismo», cioè alla «altrettanto riprovevole inibizione del suo uso
derivante in parte dal timore per il sapere, in parte dal disprezzo del sapere»
(Baader, 1851: 149). Nichilismo e oscurantismo, considerati rispettivamente
come conseguenze dell’uso troppo libero o troppo inibito della ragione, sono
entrambi severamente stigmatizzati come sintomi di degenerazione e
disgregazione della vita religiosa, sociale e civile. Anche in questo testo
programmatico Baader ritiene che si debba intervenire contro le tendenze
«nichilistiche» presenti nella società, e che la forza in grado di contrastarle
sia il cattolicesimo: esso deve organizzarsi, cercando di superarle mediante
una riconciliazione di scienza e religione.
Preoccupato degli stessi effetti disgregatori del
nichilismo si mostra Juan Donoso Cortés. Nel suo Ensayo sobre el
catolicismo, el liberalismo y el socialismo (1851) egli accusa di
nichilismo i socialisti francesi, specialmente Proudhon. Dal punto di vista di
questo principe dei conservatori antirivoluzionari il nichilismo non è che una
delle molte forme perverse in cui si manifesta il razionalismo, cioè
l’illuminismo, e che sono: «Deismo, panteismo, umanitarismo, manicheismo,
fatalismo, scetticismo, ateismo» (Donoso Cortés, 1972: 254). Esso va
contrastato e combattuto in quanto porta alla negazione del governo sia divino
che umano del mondo (Donoso Cortés, 1972: 357).
Viene in luce, in questi autori ostili all’illuminismo
e alla Rivoluzione, l’impiego del termine «nichilismo» come categoria di
analisi e critica sociale. Ma la parola era già stata usata in tal senso, dalla
fine del secolo XVIII in poi, nell’area linguistica francese, dove è probabile
che già Jacobi, avendo soggiornato più volte a Parigi, avesse avuto occasione
di recepirla. Nella cultura della Rivoluzione l’appellativo di «nichilista» era
stato usato per indicare la schiera di coloro che non erano «né per, né contro
la Rivoluzione». Come si è ricordato, Anacharsis Cloots – un membro della
Convenzione – in un suo discorso del 26 dicembre 1793 aveva affermato che «la
Repubblica dei diritti dell’uomo non è né teista né atea, è nichilista».
E proprio nella Francia dell’illuminismo e della
Rivoluzione fu partorito un pensiero, quello del marchese de Sade, che si
presenta come una delle forme più radicali di nichilismo ateo e materialista.
Nei suoi romanzi, ma anche nei suoi due dialoghi filosofici (Dialogue entre
un prêtre et un moribond, 1782 e La Philosophie dans le boudoir,
1795), Sade inscena con dissoluta fantasia tutte le corrosive e nefaste
conseguenze che la sua visione nichilista della Natura e della Ragione comporta
per il costume e per la società. Fin dagli inizi, cioè già nella risposta del
moribondo al prete contenuta nell’omonimo dialogo, il suo nichilismo è
formulato come conseguenza metafisica di un coerente razionalismo
materialistico:
Quale
sistema, amico mio? Quello del nulla. Non mi ha mai spaventato e non ci vedo
altro che non sia semplice e consolante. Tutti gli altri sistemi sono opera
dell’orgoglio, quello solo della ragione. D’altronde non è né odioso né
assoluto; non ho forse sott’occhio le perpetue generazioni e rigenerazioni
della natura? Nulla perisce, amico mio, nulla si distrugge nel mondo (...) Come
puoi rivendicare la bontà del tuo cosiddetto Dio con codesto sistema? (Sade,
1976: 20).
A prescindere da una conoscenza precisa di queste e
altre occorrenze del concetto e del problema, già allora era chiaro che come la
Rivoluzione così il «nichilismo» erano fenomeni di provenienza francese. Lo
sottolinea il già ricordato Wilhelm Traugott Krug nel suo Dizionario
portatile universale delle scienze filosofiche. Anzitutto egli dà questa
definizione di nichilismo:
Nihil est – nulla è
– è una affermazione che si distrugge da sé e che è stata chiamata anche
nichilismo. Infatti se nulla fosse, non si potrebbe nemmeno affermare nulla
(Krug, 1969: III, 63).
E in un supplemento dell’opera annota:
In francese
si chiama «nihiliste» anche colui che nella società, e in particolare in quella
borghese, non ha nessuna importanza (che è solo numero, ma non ha nessun peso e
nessun valore), e parimenti in questioni religiose non crede a nulla. Tali
nichilisti sociali o politici e religiosi sono molto più numerosi dei
nichilisti filosofici o metafisici che vogliono annientare tutto ciò che è
(Krug, 1969: V, ii, 83).
La fonte alla quale Krug probabilmente attinge in
questo suo riferimento all’uso linguistico francese è l’opera di
Louis-Sébastien Mercier Néologie ou Vocabulaire de mots nouveaux (1801),
nella quale «nihiliste» o «rienniste» è definito colui «qui ne croit à rien,
qui ne s’intéresse à rien».
«Riennisme» come termine per designare l’atteggiamento
dell’assoluta mancanza di fede – in contrasto con le diverse credenze, sètte e
visioni del mondo – è usato incidentalmente anche da Joseph de Maistre nella
sua Correspondance diplomatique da San Pietroburgo (1811-17). De Maistre
lamenta il fatto che in Russia sono ammesse tutte le sètte, persino il
«nichilismo», mentre non è tollerato il cattolicesimo.
E per aggiungere un altro nome famoso alla nostra
ricognizione sulla storia del concetto, si può ricordare che di «nichilismo»
parlerà esplicitamente più tardi anche Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly. In Les
prophètes du passé (1851) egli collega il fenomeno nichilistico al
soggettivismo egologico della filosofia cartesiana che sta alle origini della
modernità. Il fondamento apparentemente incontrovertibile costituito dal cogito
ergo sum di Descartes – ripreso, sviluppato e portato all’estremo in tutte
le variazioni dalla filosofia moderna – è in realtà un fondamento molto
gracile, è quel vacillante punto d’appoggio che solo la mente dell’uomo inteso
come ego può scambiare per un punto fermo. L’esito di questa operazione
non può essere che un «nichilismo incapace di qualsiasi risposta» (cfr. Hofer,
1969).
Nel frattempo, nell’area linguistica tedesca il
termine nichilismo continuava a essere usato in senso sociale e politico con un
valore negativo anche dopo la rivoluzione del 1848. È quanto accadde nell’opera
anonima Eritis sicut Deus (1854), tortuoso romanzo in tre volumi, nel
quale è lo hegelismo a essere considerato come la radice e la causa del
nichilismo, in particolare di quello sociale e politico. L’anonimo scrittore
pensa evidentemente alle conseguenze cui si era pervenuti negli ambienti
radicali dello hegelismo di sinistra. Una analoga preoccupazione inquieta anche
Karl F. Gutzkow, autore del già nominato racconto I nichilisti e del
romanzo I cavalieri dello spirito (Die Ritter vom Geiste,
1849-50), che guarda peraltro con una certa simpatia alla rivoluzione. I
«nichilisti» sono per lui sofisti che criticano il vecchio senza saper creare
il nuovo, sono i «filosofi del nulla assoluto», i «Liebig del mondo
invisibile», nel senso che, come in chimica, dissolvono tutto.
Il nichilismo senza fondamenti di Max Stirner
La prima autentica teorizzazione di una posizione
filosofica che può essere definita come nichilismo, anche se in assenza di un
uso esplicito del concetto, si ha con Max Stirner. La sua opera capitale, L’Unico
e la sua proprietà (Der Einzige und sein Eigentum, 1844), è
l’espressione più rabbiosa e corrosiva del radicalismo di sinistra nato come
reazione allo hegelismo. Sostenendo le ragioni di una rivolta
anarchico-libertaria spinta all’estremo, Stirner si scaglia contro ogni
tentativo di assegnare alla vita dell’individuo un senso che la trascende e che
pretende di rappresentarne le esigenze, i bisogni, i diritti e perfino
l’immagine. E chiama l’indefinibile entità che io stesso sono «l’Unico», così
come in quei medesimi anni Kierkegaard – anch’egli contro Hegel – la chiama «il
Singolo».
Principe degli iconoclasti moderni, Stirner intende
smontare ogni sistema filosofico, ogni astrazione, ogni idea – Dio, ma anche lo
Spirito di Hegel o l’Uomo di Feuerbach – che arroghi a sé l’impossibile compito
di esprimere l’«indicibilità» dell’Unico. Sa che questi non è oggetto di
pensiero e non tollera usurpatori del proprio inalienabile diritto ad
autodeterminarsi. In tal senso all’inizio della propria opera Stirner pone a
mo’ di emblema la tesi che regge tutta l’autoaffermazione speculativa
dell’Unico: «Io non ho fondato la mia causa su nulla». Non «sul Nulla» (auf
das Nichts), ma proprio «su nulla» (auf nichts). Ciò significa che
il nichilismo che ne consegue non si basa su una affermazione filosofica del
Nulla, ma è semplicemente la negazione e il rifiuto di ogni fondamento che
trascenda l’esistenza originaria e irripetibile dell’individuo.
È questo il motivo conduttore di tutta l’opera,
dall’inizio alla fine. Essa esordisce con la perentoria dichiarazione della
inespropriabile unicità dell’Unico:
Dio e
l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi.
Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al
pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono
l’unico (...) Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla
creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto
(Stirner, 1979: 13).
E dopo avere cavalcato questo motivo per pagine e
pagine, l’opera si chiude con il categorico rifiuto di qualsiasi compito,
missione o ideale in cui l’Unico si identifichi, cioè annulli se stesso in
quanto unico. Al punto da rifiutare qualsiasi nome che pretenda di essere il
suo «nome proprio»:
Si dice di
Dio: «Nessun nome può nominarti». Ciò vale per me: nessun concetto mi
esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono
solo nomi (...) Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono
nel momento in cui so di essere unico. Nell’unico il proprietario
stesso rientra nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere superiore
a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e
impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io fondo
la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé
che se stesso consuma, e io posso dire: ho fondato la mia causa su nulla
(Stirner, 1979: 380-81).
Il tenore blasfemo del rifiuto stirneriano di ogni
fondamento risulta chiaro se si considera che l’espressione «Io non ho fondato
la mia causa su nulla» fu introdotta da Goethe nella poesia Vanitas!
Vanitatum vanitas! rovesciando il titolo di un canto ecclesiastico di
Johannes Pappus (1549-1610) che recita: «Io ho affidato la mia causa a Dio» (Ich
hab’ mein’ Sach’ Gott heimgestellt).
Riprendendo Goethe ma ignorando Stirner, di lì a
qualche anno anche Schopenhauer interviene su questo motivo, aiutandoci a
collocare storicamente la tesi di Stirner. Negli Aforismi sulla saggezza
della vita, pubblicati nei Parerga e paralipomena nel 1851 con
grande successo di pubblico, scrive:
Il Lied
tanto popolare di Goethe: «Ich hab’ mein’ Sach’ auf nichts gestellt», significa
propriamente che solo quando l’uomo dovrà abbandonare tutte le sue pretese e
sarà ricondotto a un’esistenza nuda e spoglia, egli potrà partecipare di quella
tranquillità di spirito che costituisce il fondamento della felicità umana
(Schopenhauer, 1981-83: I, 561).
Ma l’esito ultimo a cui Stirner approda nel suo
pensiero nomade è tratteggiato in una lettera sulla quale ha richiamato
l’attenzione Carl Schmitt:
La sua
pulsione ultima la espresse in una lettera nella quale dice: ridiventeremo
allora come gli animali della foresta e i fiori di campo. Questa è la vera
nostalgia di un simile invasato dell’io. Questo è il nuovo paradiso. Questi la
natura e il diritto naturale, l’eliminazione dell’autoalienazione e
dell’autoestraneazione in una corporeità senza problemi. La felicità adamitica
del Giardino delle delizie che Hieronymus Bosch ha gettato in bianca
nudità su tavola. Ma vi si aggiungono gli animali della foresta e i fiori di
campo. Il volo dei moscerini nel raggio di sole. La natura affatto naturale e
il diritto naturale delle sfere più profonde dell’esistenza tellurica. Il
cinguettio completamente spensierato della gazza ladra di Rossini. La pura identità
con se stessi nel senso di felicità di una circolazione sanguigna beatamente
accelerata (Schmitt, 1987: 84).
Se mai nel suo orgoglioso isolamento l’Unico può avere
punti d’appoggio per questo suo ritorno alla natura, essi stanno nelle due
uniche verità che egli riconosce: «la mia potenza» e lo «splendido egoismo
delle stelle». Una professione di fede molto contagiosa, che eccitò gli animi e
suscitò nell’immediato reazioni scandalizzate. Non per caso nell’Ideologia
tedesca Marx e Engels dedicarono all’Unico una critica di oltre
trecento pagine. Ma l’eccentricità e l’emarginazione dell’autore fecero in modo
che il morbo anarchico-individualistico fosse per il momento isolato. Di lì a
pochi decenni – diciamo pure: da allora in poi – esso si sarebbe rapidamente e
inarrestabilmente diffuso. Solo a posteriori, dunque, Stirner ha
trovato uno spazio e una collocazione nella storia del nichilismo.
Nichilismo, anarchismo, populismo nel pensiero russo
Nel pensiero russo degli ultimi decenni dell’Ottocento
il nichilismo divenne un fenomeno di portata generale, che impregnò di sé
l’atmosfera culturale dell’intera epoca. A spingere in tale direzione fu, tra
gli altri fattori, la circostanza che il termine, divenuto la designazione di
un movimento di ribellione sociale e ideologica, fuoriuscì dall’ambito delle
discussioni filosofiche e si innestò direttamente nel tessuto della società,
agendo su componenti anarchiche e libertarie, e mettendo in moto un vasto
processo di trasformazione (cfr. Masaryk, 1971; Venturi, 1972).
I teorici del nichilismo russo si impegnarono in una
rivolta anti-romantica e anti-metafisica dei «figli contro i padri»,
contestando l’autorità e l’ordine esistenti e attaccando specialmente i valori
della religione, della metafisica e dell’estetica tradizionali, considerate
come «nullità», come illusioni destinate a dissolversi. Il movimento nichilista
russo fu sovente più dogmatico e ribelle che non critico e scettico, convinto
com’era dell’imperativo del negare a ogni costo, del dover procedere comunque,
non importa se tra rovine e frantumi. Rinnegava dunque il passato, condannava
il presente, ma senza la capacità di aprirsi a una configurazione concreta e
positiva del futuro. Ciò che veniva esaltato era il senso dell’individualità,
la freddezza utilitaristica, non cinica né indifferente, ma radicale e coerente
nel sostenere la rivolta dell’intelligencija contro il potere e la
cultura dominanti. Decisiva per la preparazione e la diffusione del nichilismo
furono l’opera del già menzionato Turgenev, che mise in circolazione il
concetto, e l’attività di una schiera di altri intellettuali tra i quali vanno
ricordati anzitutto i due che morirono giovanissimi, non ancora trentenni:
Nikolaj A. Dobroljubov (1836-1861) e Dmitrij I. Pisarev (1840-1866). Il primo
fu collaboratore della rivista «Il Contemporaneo», e con la sua critica dell’Oblomov
(1856) di Goncˇarov, che rappresentava la nobiltà passiva e
conservatrice, si fece fautore di un radicalismo democratico e progressista che
egli intendeva promuovere per mezzo della letteratura e del romanzo. (A lui si
ispirerà Lukács con il suo realismo critico e la sua estetica marxista).
Contestando risolutamente l’ideale dell’arte fine a se stessa (Razrusšenie
estetiki, 1865: La distruzione dell’estetica), Pisarev portò alle
estreme conseguenze il nichilismo, lasciando cadere ogni residuo di
antropologismo o moralismo, e accettò in senso positivo l’appellativo di
«nichilista» reso popolare da Turgenev (Bazarov, 1862).
Ma la vera mente dei nichilisti degli anni Sessanta fu
Nikolaj G. Cˇernyševskij, studioso di economia e fautore di un rigoroso
materialismo. Il suo romanzo di agitazione sociale a sfondo utopistico Che
fare? (Cˇto delat’, 1863), scritto in carcere, ebbe un vasto
successo di pubblico e va considerato tra i principali manifesti del nichilismo
russo. Vi erano presentate le nuove forme di vita improntate all’abolizione
delle convenzioni e delle tradizioni, a un comunitarismo che bandiva ogni
sentimento possessivo, all’emancipazione della donna, alla dedizione alla causa
del popolo. Tutto ciò equivaleva, naturalmente, a una negazione dei principi su
cui poggiava il precedente ordine della società, e dunque a una radicale forma
di nichilismo.
Il movimento nichilistico degli anni Sessanta ebbe
presto il capo mozzato. Dobroljubov e Pisarev morirono prematuramente,
Cˇernyševskij fu imprigionato a trentaquattro anni, nel 1862, e riebbe la
libertà solo poco prima di morire, nel 1888. Ciò non impedì tuttavia alle idee
nichiliste di diffondersi rapidamente e di infiammare la gioventù russa. Ma
senza successi concreti: per tutto il decennio successivo vi furono grandi
processi con condanne e deportazioni di massa. Nel generale inasprimento dei
contrasti sociali, nacque il movimento della «Volontà del Popolo» (Narodnaja
Volja) che sosteneva che l’abbattimento del simbolo del potere, cioè
l’uccisione dello zar, era la prima azione concreta da compiere per poter
avviare i cambiamenti auspicati. Dopo una serie di attentati, il 1º aprile 1881
lo zar Alessandro II cadeva sotto le bombe dei narodnovoliki. Nel corso
della durissima repressione fu catturato un estremista, Sergej G. Necˇaev,
autore di un Catechismo del rivoluzionario (Katechizis revoljucionera)
le cui tesi si distinguono per lo spietato senso dell’organizzazione messo al
servizio della fede nella rivoluzione. L’espressione «necˇaevismo» fu
allora impiegata per designare le forme più spregiudicate e intransigenti di
nichilismo politico – un modo radicale di concepire l’azione rivoluzionaria,
quello di Necˇaev, che fu respinto da Aleksandr I. Herzen e condiviso
invece da Michail A. Bakunin. Alcuni ritengono addirittura che quest’ultimo
fosse ispiratore e coautore del Catechismo.
Questi due pensatori incarnano effettivamente modi
opposti di concepire la visione del mondo nichilistico-rivoluzionaria:
estremismo radicale e ribelle in Bakunin, moderazione e concretezza in Herzen.
Bakunin si proclamava «fondatore del nichilismo e apostolo dell’anarchia» e
dichiarava:
Pour vaincre les ennemis du prolétariat il nous faut
détruire, encore détruire et toujours détruire. Car! l’esprit destructeur
est en même temps l’esprit constructeur (cfr. Wittkopf, 1974: 83).
Bakunin glorificava dunque il momento della
negatività, che egli riprendeva dallo hegelismo di sinistra e considerava un
«ariete terribile», l’espressione della forza dello spirito che annienta e
distrugge. E radicalizzava il nichilismo in un connubio esplosivo di idee
anarchiche, socialiste, utopico-libertarie.
Quanto a Herzen, egli diresse gli strali della sua
critica contro i «buddhisti della scienza» che si attardavano nella
contemplazione in un’epoca che chiamava invece all’azione. Contrario a ogni
conservatorismo, egli fu il principale teorico del populismo, ma, opponendosi
al terrorismo di Necˇaev e al ribellismo di Bakunin, condusse le sue
battaglie con la moderazione che gli derivava dall’amore per la cultura e per
la storia, come risulta dalle lettere A un vecchio compagno (K
staromu tovarišcˇu) e dai saggi dettati in tedesco Dall’altra
sponda (Vom anderen Ufer, 1850; l’edizione russa è del 1855). In tal
modo egli riuscì ad articolare una visione differenziata del nichilismo,
concependolo come logica della trasformazione e salutandolo come fenomeno
positivo:
Il nichilismo è la logica senza stretture, è la
scienza senza dogmi, è l’incondizionata ubbidienza all’esperienza e l’umile
accettazione di tutte le conseguenze, quali che siano, se scaturiscono
dall’osservazione, se sono richieste dalla ragione. Il nichilismo non trasforma
qualcosa in nulla, ma svela che il nulla, scambiato per qualcosa,
è un’illusione ottica e che ogni verità, per quanto contraddica fantastiche
rappresentazioni, è più sana di queste e in ogni caso obbligatoria.
Che questo nome sia appropriato o no, non importa. Ad
esso ci si è abituati, è accettato da amici e nemici, è finito per diventare un
contrassegno per la polizia, si è fatto delazione, offesa per gli uni, lode per
gli altri (Herzen, 1977: 31).
Ma Herzen vide anche i pericoli che il nichilismo nascondeva
e lo valutò con occhio critico:
Naturalmente, se per nichilismo intenderemo la
creazione inversa, cioè la trasformazione dei fatti e delle idee in nulla,
in sterile scetticismo, in altezzoso «star con le mani in mano», in
disperazione che conduce all’inazione, allora i veri nichilisti meno di
tutti rientreranno in questa definizione e uno dei nichilisti più grandi sarà
I. Turgenev, che contro di loro ha gettato la prima pietra, e forse il suo
filosofo prediletto Schopenhauer (...). Quando Bakunin smascherava i professori
berlinesi e i rivoluzionari parigini del 1848, accusando i primi di timidezza e
i secondi di conservatorismo, egli era un perfetto nichilista (...).
Quando i petraševcy andarono ai lavori forzati perché «volevano
abbattere tutte le leggi umane e divine e distruggere le basi della società»
(...) essi erano nichilisti (Herzen, 1977: 31-32).
Per questo all’abisso che il nichilismo aveva aperto
egli oppose la consapevolezza dei limiti entro i quali il fenomeno si era
manifestato:
Il nichilismo da quel tempo si è ampliato, ha preso
più chiara coscienza di sé, in parte è diventato una dottrina, ha accolto in sé
molto della scienza e ha suscitato uomini d’azione dotati di forze enormi e di
enormi talenti (...) tutto ciò è indiscutibile. Ma non ha portato nuovi
princìpi (Herzen, 1977: 32).
Lo scenario del nichilismo si spalanca in tutta la sua
ampiezza e la sua profondità nell’opera di Dostoevskij. Scrittore universale,
destinato a influire non solo in Russia ma su tutta la letteratura europea,
Dostoevskij dà corpo nelle figure e nelle situazioni esistenziali dei suoi
romanzi – specialmente Delitto e castigo (Prestuplenie i nakazanie,
1863), I demoni (Besy, 1873) e I fratelli Karamazov (Brat’ja
Karamazovy, 1879-80) – a intuizioni e motivi filosofici che anticipano
esperienze decisive del pensiero novecentesco, prima fra tutte quella
dell’ateismo e del nichilismo. In lui il fenomeno della dissoluzione dei
valori, vissuto come una crisi che consuma l’anima russa, si squaderna davanti
agli occhi in tutte le sue conseguenze nefaste, fino al crimine e alla
perversione. E quantunque la sua esibizione del male abbia come fine ultimo
quello di istruirne la requisitoria, la fortuna letteraria della sua opera
favorì in realtà la diffusione del morbo nichilista, contribuendo a minare
certezze inveterate e a corrompere ordinamenti stabiliti. Tra i suggestivi
personaggi dei suoi romanzi, che rappresentano altrettanti esempi di come
Dostoevskij abbia saputo svolgere il tema del nichilismo, declinandolo in tutte
le sue varietà e rappresentandolo in figure concrete, possono essere ricordati
qui soltanto i principali.
1) Raskolnikov, il protagonista di Delitto e
castigo, per il quale la rivendicazione incondizionata della propria
libertà diventa un problema filosofico-morale con infinite tribolazioni.
2) Nei Demoni, grande romanzo concepito
originariamente come pamphlet contro il nichilismo, forma russa
dell’ateismo, diversi personaggi danno corpo ad altrettanti aspetti della nuova
devastante Weltanschauung: l’«angelo nero» Stavrogin – il cui modello
storico reale è Bakunin – nichilista dall’intelligenza luciferina e depravata
che tutto corrode e distrugge, senza riuscire a trasformare la propria
demoniaca volontà in una creatività produttiva; l’anarchico e rivoluzionario
Pëtr Verchovenskij, che applica sul piano sociale e politico il principio di
Stavrogin secondo cui «tutto è indifferente»; e quindi l’ateo Kirillov che,
seguendo ciecamente il rigido filo della logica, inferisce dalla sua ipotesi
(«Se Dio non fosse...») la liceità di ogni comportamento amorale e, alla fine,
si uccide per provare la non esistenza di Dio.
3) Nei Fratelli Karamazov il personaggio di
Ivan, ateo sottile a cui Dostoevskij mette in bocca il terribile racconto del
Grande Inquisitore per illustrare la lacerazione tra gli ideali del
cristianesimo, che appartengono al cielo e «vorrebbero andare a mani vuote»
sulla terra, e il realismo di questo mondo sul quale è sovrano il Male, «lo
spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non
essere» (Dostoevskij, 1984: II, 845; cfr. Hessen, 1980).
Importante ai fini della comprensione filosofica del
nichilismo è il fatto che lo scorcio aperto da Dostoevskij sullo scenario
nichilista – nonostante la sua «grande ira» e la sua categorica condanna del
fenomeno in nome di una rigenerazione degli ideali secondo lo spirito
evangelico – trovò un osservatore entusiasta in Nietzsche, e che il
congiungersi della loro influenza, in Europa, diede una impronta decisiva alla
letteratura e all’atmosfera spirituale dei primi decenni del Novecento (cfr.
Schubart, 1939; estov, 1950).
Nichilismo e decadenza in Nietzsche
È nell’opera di Nietzsche – specialmente nei frammenti
degli anni Ottanta pubblicati postumi nella dubbia e controversa compilazione La
volontà di potenza (Der Wille zur Macht), in prima edizione nel 1901
e in una seconda, più che raddoppiata, nel 1906 – che il nichilismo è fatto
oggetto di una esplicita riflessione filosofica. Con lui l’analisi del fenomeno
raggiunge il suo culmine, maturando una consapevolezza storica circa le sue più
lontane radici, nel platonismo e nel cristianesimo, e alimentando nel contempo
l’esigenza critica di un superamento dei mali in esso proliferatisi. Non è dunque
una iperbole considerare Nietzsche come il massimo profeta e teorico del
nichilismo, come colui che diagnostica per tempo la «malattia» che affliggerà
il secolo e di cui egli offre una terapia. Ma per quale via Nietzsche giunse al
problema del nichilismo?
Il termine si trova impiegato per la prima volta negli
appunti dell’estate 1880, ma da tempo Nietzsche aveva riconosciuto e
individuato, seguendo il motivo della «morte di Dio», i tratti distintivi del
fenomeno. Avvertito come problema capitale, esso diventa l’asse tematico
intorno al quale ruota la sua ultima, estenuante ricerca. Di questo intende
tenere conto la distribuzione dei frammenti proposta dai curatori della Volontà
di potenza, il cui primo libro, dei quattro in cui l’opera è suddivisa, ha per
tema «Il nichilismo europeo».
Decisiva per la costituzione dell’orizzonte di
pensiero nel quale Nietzsche maturò una sensibilità per il problema fu la
lettura giovanile di Schopenhauer e di alcuni esponenti della scuola del
pessimismo, in particolare Eduard von Hartmann, Julius Bahnsen e Philipp
Mainländer (cfr. Müller-Seyfarth, 1993; Invernizzi, 1994; Pauen, 1997). Quanto
a Schopenhauer, la sua importanza nella formazione di Nietzsche è nota, ed è
stata oggetto di numerose indagini. Senza l’orizzonte metafisico che si
spalanca con la concezione schopenhaueriana della Volontà, sarebbero
impensabili tanto Nietzsche quanto Wagner, e così pure tutto ciò che essi hanno
rappresentato per la cultura tedesca. Relativamente al nostro problema,
bisognerebbe mostrare in che misura la tematizzazione schopenhaueriana del
Nulla, pur in assenza del concetto di «nichilismo», abbia influenzato la
ricezione di tale fenomeno in Nietzsche. In ogni caso, Nietzsche considera il
pessimismo schopenhaueriano e lo struggimento nel Nulla che esso alimenta come
una forma di «nichilismo passivo», come un indebolimento della potenza dello
spirito. Lo stesso vale anche per gli sviluppi dello schopenhauerismo che
Nietzsche ben conosceva: per la filosofia dell’inconscio di Eduard von Hartmann,
per il «pessimismo della contraddizione» di Julius Bahnsen, che qualifica la
propria filosofia come «nichilismo» e definisce l’uomo come «un Nulla
consapevole di sé», creando in analogia con Existenz il neologismo Nihilenz
(Bahnsen, 1931: 161-62), e soprattutto per la «metafisica dell’entropia» di
Philipp Mainländer, che intende la creazione del mondo e l’evoluzione
dell’universo come una sorta di «autocadaverizzazione di Dio».
Questi tre pensatori formarono una vera e propria
«scuola del pessimismo», e trasformarono il concetto – snobbato inizialmente
come «la barocca intuizione di un originale dilettante» – nella denominazione
di una «forza vivente» nella cultura del tempo, in una importante Weltanschauung.
In questi termini si espresse Eduard von Hartmann (1880) tirando un primo
bilancio del movimento.
Per l’influenza che ebbe su Nietzsche, merita di
essere presentato soprattutto Mainländer, il cui vero nome era Philipp Batz.
Incline alla speculazione e alla poesia, fu appassionato lettore di Schopenhauer
e poi di Leopardi, entrambi scoperti durante i quasi sei anni passati a Napoli
tra il 1858 e il 1863. La sua opera capitale, La filosofia della redenzione
(Die Philosophie der Erlösung, 1876), dopo una risonanza iniziale, fu
presto dimenticata ed è stata riscoperta solo di recente (cfr. Müller-Seyfarth,
1993, 2000). Prendendo a modello Il mondo come volontà e rappresentazione
essa sviluppa un sistema del pessimismo in sei parti: «Analitica della facoltà
conoscitiva», «Fisica», «Estetica», «Etica», «Politica», «Metafisica», cui si
aggiunge un’appendice sulla «Critica delle dottrine di Kant e Schopenhauer». Il
tutto è fondato su un’ontologia negativa che muove dal principio secondo cui
«il non essere è preferibile all’essere». Nella spiegazione della facoltà del
conoscere Mainländer si attiene alla gnoseologia postkantiana di Schopenhauer,
ed è anch’egli convinto che noi non conosciamo la cosa in sé ma soltanto le
apparenze. Tuttavia, egli giunge a una conclusione opposta a quella di
Schopenhauer: la «cosa in sé» non è identificata con la schopenhaueriana
«Volontà di vita» (Wille zum Leben), che è universale, superindividuale,
oltre il tempo e lo spazio, bensì con la «volontà di morte» (Wille zum Tode).
Quest’ultima è per Mainländer individuale e sta alla base di tutti gli esseri.
Nel loro vivere è insito, paradossalmente, un impulso di morte. Ma da dove
scaturisce tale spinta disgregatrice? Mainländer prospetta un’ardita ipotesi
teologico-metafisica: la volontà di morte che inerisce a tutto l’essere dipende
dal fatto che la sostanza divina – concetto che egli riprende da Spinoza –
trapassa dalla sua originaria unità trascendente alla pluralità immanente del
mondo, il quale, in tale trapasso, ha la propria genesi. E dichiara:
Dio è morto
e la sua morte fu la vita del mondo (Mainländer, 1996-99: I, 108).
Egli conia così per primo un’espressione che sarà resa
famosa da Nietzsche. A uccidere Dio, secondo Mainländer, non fu però l’uomo,
non siamo stati noi, come affermerà Nietzsche, bensì è Dio stesso che si dà la
morte seguendo l’impulso in lui connaturato a passare dall’essere al nulla.
In verità, accettando l’interdetto kantiano secondo
cui la nostra conoscenza non può spingersi oltre i limiti dell’esperienza,
Mainländer intende essere fedele all’immanenza, e nega quindi che si possa
conoscere la natura del principio divino trascendente. Professa, anzi, un
«ateismo scientifico» secondo il quale l’essenza del principio divino è
costitutivamente inconoscibile. Nondimeno egli ritiene che da un punto di vista
«regolativo» noi possiamo pensare l’origine del mondo «come se essa fosse il
risultato di un atto di volontà motivato» (Mainländer, 1996-99: I, 322), ovvero
il risultato di un’azione della trascendenza, altrimenti a noi sconosciuta e
inconoscibile, e precisamente come l’atto mediante il quale la trascendenza,
ossia il «super-essere» che sta oltre l’essere (Über-Sein) e precede il
mondo, si dissolve nell’immanenza del mondo, quindi nel non essere (Nicht-Sein):
la genesi del mondo ha origine dalla volontà di Dio di passare dal super-essere
al nulla, è l’«autocadaverizzazione di Dio». Tutto ciò che noi vediamo nel
mondo è manifestazione di siffatta volontà di autoannullamento (Selbst-ver-nicht-ung).
Mainländer trasforma e radicalizza dunque il
pessimismo schopenhaueriano in una vera e propria «metafisica dell’entropia»,
da cui ricava con sistematicità tutto il suo pensiero: la sua filosofia della
natura, la sua filosofia della storia sottoposta alla legge universale del
dolore, la sua politica e la sua etica eudaimonistica, che sostiene la massima
della verginità e che raccomanda il suicidio come radicale negazione della
volontà. In questa scelta radicale egli vede la possibilità di una «redenzione
dall’esistenza», la disingannata speranza di potere alla fine «guardare negli
occhi il Nulla assoluto» (Mainländer, 1996-99: I, 358).
Con rigorosa coerenza, senza aspettare il capriccio di
Madre Natura, egli si affrettò ad esaudire da sé tale speranza. Ricevuta la
prima copia fresca di stampa della sua opera, nella notte tra il 31 marzo e il
1º aprile 1876 il trentaquattrenne filosofo ritenne giunto il momento di far
coincidere in modo definitivo la sua vita con il suo pensiero, mostrando con
l’esempio che delle cose importanti non si deve dare solo dimostrazione ma anche
testimonianza: strettosi un cappio al collo, si impiccò.
La sorella Minna, che lo aveva seguito nei suoi studi
filosofici, con lui aveva composto il dramma Gli ultimi Hohenstaufen, e
che più tardi (1891) ne imitò il gesto disperato, pubblicò nel 1886 alcuni
saggi del fratello come secondo volume dell’opera maggiore, secondo il piano da
lui stesso previsto. Essi trattano vari argomenti, in particolare di filosofia
della religione (uno è dedicato al «buddhismo») e di filosofia politica («Il
socialismo»). Benché, come si è detto, l’opera sollevasse nell’immediato
interesse e reazioni, finì poi per essere dimenticata. Essa è stata comunque
meta di solitarie ma importanti rivisitazioni. Non soltanto Nietzsche, che
lesse subito con curiosa attenzione la Filosofia della redenzione, ma
anche Alfred Kubin, Borges e Cioran si sono interessati dell’opera di questo
moderno Egesia, teutonico «persuaditor di morte». Specialmente l’idea della
morte di Dio confluì nell’articolata esperienza filosofica e intellettuale che
spinse Nietzsche alla propria concezione del nichilismo. «Abbiamo letto molto
Voltaire», scriveva da Sorrento a Franz Overbeck il 6 dicembre 1876, «ora è la
volta di Mainländer» (Nietzsche, 1977: III, 184; 1986: V, 202).
Da un punto di vista storico, naturalmente, in
aggiunta a ciò va considerata l’attenzione per il fenomeno che si sviluppò in
quegli anni in tutta Europa in seguito agli attentati in Russia, i quali
portarono la stampa e l’opinione pubblica a equiparare nichilismo e terrorismo.
Ma l’occasione prossima che spinse Nietzsche a occuparsi intensamente del
fenomeno, influenzandone la comprensione, fu la lettura, oltre che di Padri
e figli di Turgenev, oltre che di Mainländer, soprattutto di due autori:
Paul Bourget e Dostoevskij.
Quanto a Dostoevskij, l’influenza che la lettura delle
sue opere ebbe su Nietzsche e le analogie strutturali rintracciabili nelle
esperienze letterarie e speculative dei due richiederebbero, per essere
illustrate in maniera minimamente sufficiente, una indagine a sé. Al di là del
rimando agli studi classici già menzionati (Schubart, 1939; estov, 1950)
basterà qui ricordare che Nietzsche stesso, in una lettera a Overbeck del 23
febbraio 1887, racconta la propria scoperta di Dostoevskij avvenuta nel pieno
del febbrile lavoro alla progettata Volontà di potenza:
Poche
settimane fa non ne conoscevo neppure il nome, da persona incolta che non legge
«riviste»! La visita di una libreria mi ha messo per caso sotto gli occhi l’Esprit
souterrain, la sua opera appena tradotta in francese (e egualmente per caso
ho scoperto a 21 anni Schopenhauer e a 35 Stendhal!). L’istinto di affinità (o
come debbo chiamarlo?) si è fatto immediatamente sentire, la mia gioia è stata
straordinaria... (Nietzsche, 1986: VIII, 27).
Meno nota, invece, è l’influenza che ebbe su di lui la
lettura di Paul Bourget (1852-1935). Questo scrittore, poco conosciuto in
ambito filosofico, gode di una certa notorietà come romanziere e come critico
letterario. I suoi romanzi furono salutati come sismografi dell’incipiente
modernità letteraria, nonostante gli attacchi di critici conservatori come
Ferdinand Brunetière. Di essi il più fortunato fu Le Disciple (1889). Il
protagonista è un giovane studente che viene iniziato alla filosofia da un
maestro, Adrien Sixte, dietro il quale si riconosce la figura di Taine, con cui
Bourget si era formato ma dal quale, proprio con questo romanzo, prese le
distanze.
Come critico letterario Bourget acquistò notorietà
grazie a una serie di articoli nei quali descriveva con efficacia i tratti
salienti della letteratura di fine secolo, adoperando come categorie per
l’analisi della società dell’epoca concetti che avrebbero fatto fortuna quali
«decadenza», «pessimismo», «cosmopolitismo» e «nichilismo». Gli articoli
uscirono tra il 15 dicembre 1881 e il 1° ottobre 1885, con il titolo Psychologie
contemporaine – Notes et Portraits, nella «Nouvelle Revue» fondata da
Juliette Adam nel 1879 e da lei edita e promossa per un ventennio nel suo
salotto parigino. Nel 1883 Bourget raccolse in libro gli articoli su
Baudelaire, Renan, Flaubert, Taine e Stendhal con il titolo Essais de
psychologie contemporaine (1883), e nel 1885 fece seguire un secondo
volume: Nouveaux Essais de psychologie contemporaine, comprendente gli
articoli su Dumas figlio, Leconte de Lisle, i fratelli Goncourt, Turgenev e
Amiel.
La critica letteraria che Bourget pratica servendosi
di quello che egli chiama il «metodo psicologico» descrive la transizione dal
tardo romanticismo francese alla modernità e vede nelle tendenze in atto nella
letteratura decadentista il riflesso di trasformazioni che riguardano l’intera
società. Gli Essais costituiscono una lucida analisi di «alcune delle
conseguenze fatali della vita cosmopolitica» (Bourget, 1993: 439) e illustrano
i processi di decadenza e di decomposizione del tessuto sociale così come si
andavano manifestando nella letteratura dell’epoca. Bourget fa gravitare la sua
analisi «psicologica» della decadenza intorno ad alcuni temi, motivi e
interrogativi capitali.
1) Un primo ambito è quello estetico. Bourget si
interroga intorno alle seguenti questioni di fondo: quali sono la funzione e il
posto dell’arte nel processo di trasformazione sociale? Qual è il ruolo
dell’artista di fronte al processo di decomposizione della società che
caratterizza la vita cosmopolitica moderna? Può l’artista, rispetto alle
tendenze egualitarie che si impongono ovunque, mantenere il primato
aristocratico che gli viene dalla consapevolezza circa il suo compito di
sperimentatore e di creatore?
2) Una seconda serie di interrogativi ruota intorno
alla prospettiva morale: è possibile, oltre che descrivere, dare una
valutazione della decadenza della società contemporanea? Ma ammettere la
possibilità di un tale giudizio non significa introdurre un punto di vista
morale?
3) Qual è allora l’atteggiamento da tenere nei
confronti della decomposizione della società e del decadimento delle sue forze
vitali? Che fare di fronte alla «malattia della volontà», cioè all’incapacità
di domare, in forza di un principio, la contraddizione che emerge dalle
pulsioni fisiologiche? Bourget considera legittimo il punto di vista del
moralista e del politico, i quali producono «reazioni» alle forze della
decadenza, ma ritiene che solo un altro punto di vista, quello «psicologico»,
sia in grado di vedere in positivo la decadenza e di cogliere i «valori
estetici» che essa esprime – motivo, anche questo, che trova eco in Nietzsche.
A rendere famosi gli Essais di Bourget furono
specialmente le quattro pagine a conclusione del saggio su Baudelaire, il primo
della serie, intitolato Théorie de la décadence (Bourget, 1993: 13-18).
Attraverso una disincantata analisi Bourget riconosce nel pessimismo e nel
nichilismo della letteratura a lui contemporanea il «male del secolo» (Bourget,
1993: 438), e dichiara che, a prendere sul serio la malattia, bisogna ammettere
che non vi sono rimedi in grado di contrastarla e che, dunque, conviene
accettarla insieme ai valori estetici che essa produce (Bourget, 1993: 442). Si
capisce meglio tutto questo se si tiene presente ciò che Bourget intende per
«décadence».
Il termine ha per lui due significati analoghi: uno è
riferito alla società, l’altro allo stile e alla letteratura. Sia la società
sia la lingua possono essere paragonate a un organismo. Si ha la decadenza
sociale quando gli individui che compongono la società si rendono indipendenti
e «gli organismi che compongono l’organismo totale cessano di subordinare la
loro energia all’energia totale e l’anarchia che si instaura costituisce la
decadenza dell’insieme» (Bourget, 1993: 14).
Da questa idea di decadenza sociale Bourget ricava per
analogia una teoria della decadenza letteraria e la formula in termini che
verranno ripresi, quasi alla lettera, da Nietzsche:
Una legge uguale governa lo sviluppo e la decadenza di
quell’altro organismo che è il linguaggio. Uno stile decadente è quello in cui
l’unità del libro si decompone per far posto all’indipendenza della pagina, la
pagina si decompone per far posto all’indipendenza della frase e la frase per
far posto all’indipendenza della parola (Bourget, 1993: 14).
È stato suggerito da tempo (cfr. Weigand, 1893;
Andler, 1958: III, 418 sgg.), ed è stato poi mostrato con dovizia di prove
seguendo una linea di ricerca indicata da Mazzino Montinari (cfr. Kuhn, 1992;
Campioni, 1993, 2001; Volpi, 1995a), che tale teoria della decadenza trovò in
Nietzsche un lettore attento e vorace. Ma prima di passare a Nietzsche, va
detto quali conseguenze Bourget ricava dalle sue tesi. Ebbene, di fronte alla
decadenza egli constata la possibilità di due atteggiamenti: la decadenza può
essere affrontata da una prospettiva «morale-politica» oppure da una
prospettiva che egli chiama «psicologica». La prima prospettiva, quella secondo
la quale «ragionano i politici e i moralisti», guarda alla «quantità di forza» complessiva
che può mantenere in funzione l’organismo sociale nel suo insieme e, qualora ne
constati la mancanza o l’insufficienza, ne arguisce una prospettiva di
decadenza e cerca di contrastarla. Opposto al punto di vista del moralista e
del politico è il punto di vista dello «psicologo»: il suo interesse è diretto
non all’insieme, ma alle singole individualità e mira a studiarne
l’originalità, l’irripetibilità e l’ineffabilità con tutti i loro caratteri più
attraenti e affascinanti, e con i valori estetici che producono.
Mediante la considerazione «psicologica» Bourget si
apre un accesso al fenomeno della decadenza che gli consente di valorizzarne
gli effetti positivi, cioè soprattutto i valori estetici che l’individualità
artistica produce rendendosi indipendente dalla società. Aperto tale accesso,
egli può fare un’apologia dell’esistenza sperimentale ed eccentrica del
letterato e dell’artista: questi non vive che di se stesso e si autogiustifica,
dal punto di vista «psicologico», per il suo valore intrinseco, secondo il
principio dell’arte per l’arte. Bourget presenta dunque il punto di vista
estetizzante della decadenza come la «suprema equità» dello spirito e delle
idee, perché esso è in grado di assaporarle e assimilarle tutte senza aderire a
nessuna, producendo così «un più ricco tesoro di acquisizione umana».
Se i
cittadini di una decadenza sono inferiori come operai della grandezza del
paese, non sono forse assai superiori come artisti dell’interiorità della loro
anima? Se sono inadatti all’azione privata o pubblica, non è forse perché sono
troppo adatti al pensiero solitario? Se sono cattivi riproduttori delle
generazioni future, non è forse perché l’abbondanza delle sensazioni fini e la
squisitezza dei sentimenti rari ne hanno fatto dei virtuosi, sterili ma
raffinati, delle voluttà e dei dolori? Se sono incapaci delle dedizioni proprie
della fede profonda, non è forse perché la loro intelligenza troppo colta li ha
liberati dai pregiudizi e perché, avendo fatto la rassegna delle idee, sono
giunti a quella equità suprema che legittima tutte le dottrine escludendo tutti
i fanatismi? Certo, un capo germanico del II secolo era più capace di invadere
l’impero di quanto un patrizio romano fosse capace di difenderlo; ma il romano
erudito e fine, curioso e disincantato, quale l’imperatore Adriano, per
esempio, il Cesare che amava Tivoli, rappresentava un più ricco tesoro di
acquisizione umana (Bourget, 1993: 15).
Con ciò Bourget contrasta le argomentazioni da sempre
fatte valere contro il punto di vista della decadenza, cioè che esso sarebbe
perdente e non avrebbe futuro. Egli neutralizza la valutazione negativa del
fenomeno e mostra le ragioni che consentono di comprenderlo nei valori estetici
che produce.
Il grande
argomento contro le decadenze è che esse non hanno domani e che vi sarà sempre
una barbarie che le schiaccerà. Ma il retaggio fatale dello squisito e del raro
non è forse quello di avere torto dinanzi alla brutalità? Si è in diritto di
confessare un siffatto torto e di preferire la sconfitta di Atene in decadenza
al trionfo del Macedone violento (Bourget, 1993: 15).
Con una analogia questa convinzione circa la decadenza
sociale e politica viene estesa anche alle letterature della decadenza.
Nemmeno queste letterature hanno un domani. Sfociano in
alterazioni del vocabolario, in sottigliezze di parole che renderanno questo
stile inintelligibile alle generazioni a venire.
Tra
cinquant’anni, ad esempio, la lingua dei fratelli Goncourt non sarà compresa
che da specialisti. Che importa? Forse che il fine dello scrittore è di
presentarsi come candidato perpetuo dinanzi al suffragio universale dei secoli?
Noi ci dilettiamo di quelle che voi chiamate le nostre corruzioni stilistiche,
e dilettiamo con noi i raffinati della nostra razza e della nostra ora. Si
tratta di sapere se la nostra eccezione non sia una aristocrazia, e se,
nell’ordine dell’estetica, la pluralità dei suffragi non rappresenti altro che
la pluralità delle ignoranze (Bourget, 1993: 16).
Emerge evidente da queste righe l’ideale dell’aristocrazia
estetica che Bourget coltiva e in base al quale egli giustifica l’ideale del
grande artista. Poiché tra individuo e società esiste un rapporto di azione
reciproca, l’individualità che prende le distanze dall’ambiente sociale finisce
per recidere il radicamento nel terreno dal quale trae le proprie energie
vitali, e rischia di deperire e morire. Sarà allora così che soltanto l’artista
coraggioso, forte e maturo, dalla grande personalità e creatività, riuscirà a
praticare la prospettiva della decadenza e ad affermare la propria
individualità indipendentemente dalla società. È il caso di Baudelaire:
fatalmente attratto dalla «fosforescenza del male» egli ha la forza e il
coraggio di «proclamarsi decadente» e di cercare «tutto ciò che nella vita e nell’arte
alle nature semplici sembrava morboso e artificiale» (Bourget, 1993: 16). È
capace di decadere e rovinare senza perire, producendo al contrario valori
estetici imperituri.
Bourget abbozza in questo modo una teoria della
decadenza sociale e letteraria in cui l’ideale aristocratico dell’arte ha in se
stesso la propria giustificazione e il proprio senso. L’artista decadente
nobilita con la sua comparsa lo scenario e trae dalle manifestazioni di
decadenza il proprio nutrimento estetico e spirituale. Temi, questi, che
elaborati con ben altro vigore speculativo si ritrovano in Nietzsche.
In effetti il motivo della decadenza, strettamente
connesso a quello del nichilismo, attraversa un po’ tutta l’opera di Nietzsche
e diventa, dopo l’esplorazione della letteratura francese e lo studio degli Essais
di Bourget, un filone tematico centrale nella speculazione degli ultimi anni di
lucidità. Ne è un condensato il libello Nietzsche contra Wagner, dove
già nella prefazione ci si imbatte nelle tracce dell’influenza di Bourget.
Nietzsche dichiara che si tratta di «un saggio (Essai) per psicologi, non
per tedeschi» (VII, iii, 389), alludendo evidentemente alla prospettiva
«psicologica», contrapposta a quella morale, che Bourget aveva adottato per
poter capire la decadenza in un’ottica positiva. E nel corso del libello – in
cui, come è noto, sono compendiate riflessioni fatte altrove – Nietzsche dà
fondo al repertorio di motivi sulla décadence raccolto attraverso
l’esplorazione della letteratura francese seguendo la guida «psicologica» di
Bourget.
Un motivo, in particolare, sembra avere toccato
Nietzsche: quello secondo il quale la décadence è caratterizzata dalla
dissoluzione fisiologica dell’organismo e dalla disgregazione delle parti che
si staccano dal tutto e se ne rendono indipendenti. Già in una breve
annotazione dell’inverno 1883-84 Nietzsche si appunta la tesi centrale di
Bourget:
Stile della decadenza
in Wagner: la frase singola diventa sovrana, la subordinazione e
coordinazione diventa casuale. Bourget, p. 25 (VII, i/2, 313).
In questo frammento è contenuta in nuce la
teoria della decadenza che Nietzsche sviluppa sulla scorta di Bourget e che
applica a quella che è secondo lui la manifestazione per eccellenza della
decadenza, cioè la musica di Wagner. Tale applicazione viene prospettata in una
lettera a Carl Fuchs della metà di aprile del 1886, spedita da Nizza, la
«cosmopoli» in cui soggiornava. Parlando della «decadenza (Verfall) del
senso melodico» che egli dice di percepire nei musicisti tedeschi, quindi della
sempre maggiore attenzione per il singolo gesto e della sempre maggiore abilità
nel particolare e nella configurazione del singolo momento, Nietzsche scrive di
Wagner:
La formula
wagneriana «melodia infinita» esprime nel modo più amabile il pericolo, la
corruzione dell’istinto, e anche la buona fede, la tranquillità della coscienza
in mezzo a tale corruzione. L’ambiguità ritmica, per cui non si sa più né si deve
più sapere se una cosa è capo o coda, è senza dubbio un espediente artistico
mediante il quale si possono ottenere effetti meravigliosi: il Tristano
ne è ricco –; ma come sintomo di un’arte è e rimane il segno del dissolvimento.
La parte impera sul tutto, la frase sulla melodia, l’attimo sul tempo (anche
sul tempo musicale), il pathos sull’ethos (carattere o stile o
come lo si voglia chiamare), e finalmente l’esprit sul «senso»
(Nietzsche, 1986: VII, 176-77).
Anche qui, pur senza farne il nome, Nietzsche ricalca
la propria definizione della decadenza su quella di Bourget. Va tuttavia notata
una differenza di accento e di valutazione. Nietzsche è attratto dalla
fosforescenza che la decadenza emana; sa però che si tratta di una luce che
assorbe ma è insufficiente a illuminare. È figlio della decadenza, eppure lotta
e protesta contro di essa. Se accoglie dunque la tendenza disgregatrice che
spinge dall’organismo alle sue singole funzioni, dalla società all’individuo,
dal tutto alle parti, che Bourget salutava come germe di una sensibilità più
raffinata, non è semplicemente per subirla. Al contrario, Nietzsche vuole
contrastarla mediante un «contromovimento» che ha il proprio baricentro
nell’arte come volontà di potenza, cioè come creatività e attività, e non come
fruizione passiva. Nella stessa lettera a Carl Fuchs prosegue:
Scusi! Ma
quello che io credo di percepire è un cambiamento della prospettiva: si vede
molto, troppo minutamente il particolare; molto, troppo vago l’insieme. In
musica la volontà è tesa verso quest’ottica sovvertitrice, è più della
volontà l’ingegno. E questo è décadence: una parola che tra gente
come noi, s’intende, non sprezza ma definisce (Nietzsche, 1986: 177).
Due anni più tardi, nel Caso Wagner, Nietzsche
ripropone in forma ormai definitiva la propria teoria sulla decadenza,
riprendendo da Bourget l’analogia tra la decadenza letteraria e la decadenza
sociale, tra la disgregazione del tutto di un testo e il dissolvimento
dell’insieme della società. Solo che a dispetto delle dichiarazioni di intenti
– décadence è «una parola che (...) non sprezza ma definisce» – egli non
osserva la decadenza con distaccata neutralità, ma vi si oppone con forza. Per
questo, da un lato egli non può non riconoscere le ragioni della decadenza come
fenomeno intrinseco alla vita stessa e alla parabola del suo sviluppo,
affermando nel frammento 14 [75] della primavera 1888, intitolato «Concetto di
“decadenza”»:
Il fenomeno
della decadenza è altrettanto necessario quanto qualsiasi sorgere e progredire
della vita: non è in nostro potere eliminarlo. La ragione vuole al
contrario che gli si riconosca il suo buon diritto (...) (VIII,
iii, 46).
Dall’altro, però, egli reputa contro Bourget che
l’estenuazione della decadenza nell’individualità non sia produttrice di nuovi
e più raffinati valori estetici, e che sia invece indispensabile riconquistare
la vita del tutto. Riprendendo quasi negli stessi termini la descrizione di
Bourget, Nietzsche la riformula in modo da ricavarne un giudizio critico sulla
decadenza:
Da che cosa
è caratterizzata ogni décadence letteraria? Dal fatto che la vita non
risiede più nel tutto. La parola diventa sovrana e spicca un salto fuori dalla
frase, la frase usurpa e offusca il senso della pagina, la pagina prende vita a
spese del tutto, – il tutto non è più tutto. Ma questa è l’allegoria di ogni
stile della décadence: sempre anarchia atomistica, disgregazione del
volere, «libertà dell’individuo», o per dirla con il linguaggio della morale
esteso a teoria politica, «diritti uguali per tutti». La vita, la uguale
vitalità, la vibrazione e l’esuberanza della vita compresa negli organismi più
piccoli, e il resto povero di vita. Ovunque paralisi, pena,
irrigidimento oppure inimicizia e caos: entrambe le cose sempre più
balzano agli occhi, quanto più elevate sono le forme della organizzazione verso
cui si ascende. Il tutto non vive generalmente più: è giustapposto, calcolato,
posticcio, un prodotto artificiale (VI, iii, 22-23).
E in un frammento postumo corrispondente nomina
apertamente la sua fonte:
Questo
insensato sovraccaricare di dettagli, questa sottolineatura dei piccoli tratti,
l’effetto a mosaico: Paul Bourget (VIII, ii, 339).
Tutto ciò fa luce sul contesto storico di idee e di
esperienze nel quale la teoria nietzscheana della decadenza affonda le proprie
radici, e mostra fino a quale punto essa ne dipenda. D’altro canto, però,
Nietzsche innesta i motivi che recepisce quasi alla lettera da Bourget nel più
vasto orizzonte della sua interpretazione del nichilismo come logica della
storia occidentale. Egli può così mettere in guardia dallo scambiare le
conseguenze per le cause, dal confondere le manifestazioni di superficie della
decadenza per le ragioni metafisiche profonde che l’hanno innescata. Nel
frammento 14 [85] della primavera del 1888 egli compendia e formula
l’intuizione che lo proietta ben oltre Bourget:
Il nichilismo
non è una causa, ma solo la logica della decadenza (VIII, iii, 55).
Se di Bourget si serve per diagnosticare il fenomeno
della decadenza, Nietzsche tenta d’altro canto, contro Bourget, di penetrarlo
più a fondo per azzardare una prognosi e prescrivere una terapia. Di qui la sua
relativa presa di distanze da Bourget, espressa in alcune lettere a Peter Gast
(7 marzo 1887), a Taine (4 luglio 1887), a Malwida von Meysenbug (4 ottobre
1888) (cfr. Nietzsche, 1986: VIII, 42, 106, 447). Insomma, come scrive nella
prefazione al Caso Wagner, se è vero che la decadenza è il problema che
più profondamente lo ha occupato, è anche vero che altrettanto decisamente egli
ha cercato di difendersene (VI, iii, 5). Nietzsche aveva dunque pienamente
ragione quando in Ecce homo proclamava di essere un decadente ma al
tempo stesso anche l’antitesi del decadente, di avere appreso «l’arte della
filigrana nel prendere e nel comprendere in genere» e sperimentato su di sé
l’affinamento che dalla décadence deriva, ma nello stesso tempo di avere
la forza per la sana e robusta visione del tutto e per la trasvalutazione dei
valori:
Con ottica
di malato guardare a concetti e valori più sani, o all’inverso, dalla pienezza
e sicurezza della vita ricca far cadere lo sguardo sul lavoro segreto
dell’istinto della décadence – questo è stato il mio più lungo
esercizio, la mia vera esperienza, l’unica in cui, se mai, sia diventato
maestro. Ora è in mano mia, mi sono fatta la mano a spostare le prospettive:
ragione prima per cui forse a me solo è possibile una «trasvalutazione dei
valori» (VI, iii, 273).
È chiaro, a questo punto, in quale misura la lettura
di Mainländer, quella di Dostoevskij e quella di Bourget sollecitano il
pensiero nietzscheano. Giunge a maturazione con queste tre letture un motivo
conduttore del proprio pensiero che da tempo Nietzsche aveva colto nella
sentenza «Dio è morto» e che era confluito nella diagnosi della svalutazione
dei valori supremi e nel riconoscimento della dinamica della storia
dell’Occidente interpretata come decadenza, come storia del
platonismo-nichilismo.
Già in anni giovanili (1870) Nietzsche aveva rinvenuto
il motivo della «morte di Dio» nell’affermazione, riportata nel De defectu
oraculorum da Plutarco, che «il grande Pan è morto». E subito l’aveva radicalizzata:
Io credo
nell’antica sentenza germanica: tutti gli dèi debbono morire (III, iii/1, 121).
È nella Gaia scienza (Die fröhliche
Wissenschaft, 1882), nel brano n. 125 intitolato «L’uomo folle», che la
morte di Dio viene presentata come l’esperienza decisiva in cui è acquisita la
consapevolezza dello svanire dei valori tradizionali. Non a caso quattro anni
più tardi, quando per la nuova edizione dell’opera scriverà un quinto libro,
Nietzsche esordirà insistendo sul medesimo tema:
Il più grande
avvenimento recente – che «Dio è morto», che la fede nel Dio cristiano è
divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa
(V, ii, 239).
La morte di Dio, immagine che simboleggia il venire
meno dei valori tradizionali, diventa il filo conduttore per interpretare la
storia occidentale come decadenza e fornire una diagnosi critica del presente.
Dalla scoperta di Bourget e Dostoevskij in poi, Nietzsche interpreterà sempre
più nettamente questo processo storico in termini di «nichilismo».
Ma che cosa vuol dire propriamente «nichilismo»? Nel
porsi egli stesso la domanda, Nietzsche risponde con una definizione secca e
precisa che descrive il fenomeno nella sua essenza e ne indica la causa:
Nichilismo: manca il
fine; manca la risposta al «perché?»; che cosa significa nichilismo? – che i
valori supremi si svalutano (VIII, ii, 12).
Il nichilismo è dunque la «mancanza di senso» che
subentra quando viene meno la forza vincolante delle risposte tradizionali al
«perché?» della vita e dell’essere, e ciò accade lungo il processo storico nel
corso del quale i supremi valori tradizionali che davano risposta a quel
«perché?» – Dio, la Verità, il Bene – perdono il loro valore e periscono,
generando la condizione di «insensatezza» in cui versa l’umanità contemporanea.
Scrive Nietzsche in uno dei frammenti stesi per la prefazione alla progettata
opera La volontà di potenza nell’inverno 1887-88:
Descrivo
ciò che verrà: l’avvento del nichilismo (...). L’uomo moderno crede
sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi lasciarlo
cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si
avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento
è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla
fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce
l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco
il pathos, il nuovo brivido (...). Quella che racconto è la storia dei
prossimi due secoli (...) (VIII, ii, 266-67).
E in un rifacimento dello stesso brano si chiede:
Perché
infatti è ormai necessario l’avvento del nichilismo? Perché sono i
nostri stessi valori precedenti che traggono in esso la loro ultima
conclusione; perché il nichilismo è una logica pensata sino in fondo dei nostri
grandi valori e ideali – perché dobbiamo prima vivere il nichilismo, per
accorgerci di quel che fosse propriamente il valore di questi «valori»
(...) (VIII, ii, 393-94).
Secondo Nietzsche il processo della svalutazione dei
valori è il tratto più profondo che caratterizza lo svolgimento della storia
del pensiero europeo, che è quindi la storia di una decadenza: l’atto
originario di tale decadenza è già presente nella fondazione della dottrina dei
due mondi a opera di Socrate e Platone, vale a dire nella postulazione di un
mondo ideale, trascendente, in sé, che in quanto mondo vero è sovraordinato al
mondo sensibile, considerato invece come mondo apparente.
Perché questo? Perché presto il mondo soprasensibile,
in quanto ideale, si dimostra irraggiungibile e l’irraggiungibilità significa
un difetto d’essere, una diminuzione della sua consistenza ontologica e del suo
valore. L’idealità, cioè l’irraggiungibilità, è una «forza calunniatrice del
mondo e dell’uomo», un «soffio velenoso sulla realtà», «la grande seduzione
che porta al nulla» (VIII, ii, 265). La svalutazione dei valori supremi,
cioè il nichilismo, si inizia già qui, cioè con il platonismo che distingue tra
due mondi e introduce così nell’essere una frattura, una dicotomia. Il
nichilismo, in quanto storia della postulazione e del progressivo dissolvimento
del mondo ideale, è l’altra faccia del platonismo e «il nichilista è colui che,
del mondo qual è, giudica che non dovrebbe essere e, del mondo quale
dovrebbe essere, giudica che non esiste» (VIII, ii, 26).
In un breve testo inserito nel Crepuscolo degli
idoli (Götzendämmerung, 1888) e intitolato «Come il mondo vero finì
per diventare favola» Nietzsche offre un compendio illuminante della storia del
nichilismo-platonismo in sei capitoli. Vediamoli concisamente.
1. Il mondo
vero, raggiungibile dal sapiente, dal pio, dal virtuoso, – egli vive in esso, lui
stesso è questo mondo (VI, iii, 75).
Nietzsche allude qui alla situazione che si verifica
nella prima fase della storia del platonismo-nichilismo, cioè al capitolo che
corrisponde al pensiero di Platone: si postula l’esistenza di un mondo vero,
soprasensibile, che però non è ancora diventato una entità meramente «ideale»,
«platonica», ma è raggiungibile da parte dei sapienti.
2. Il mondo
vero, per il momento irraggiungibile, ma promesso al sapiente, al pio, al
virtuoso («al peccatore che fa penitenza») (VI, iii, 75).
Nella seconda fase della storia del
platonismo-nichilismo si apre la frattura tra mondo ideale e mondo sensibile,
tra trascendenza e immanenza, dal momento che anche per il sapiente il mondo
ideale è soltanto una promessa, dunque per ora è irraggiungibile.
Contestualmente viene svalutato il mondo sensibile: l’esistenza terrena è
degradata ad ambito dell’apparenza, della transitorietà, anche se le viene
prospettata la possibilità di raggiungere, un giorno, il mondo vero.
L’esistenza umana si svolge nell’aldiqua, ma è protesa verso l’aldilà – il
quale diventa oggetto di promessa e di fede. Il platonismo si trasforma in
platonismo per il popolo, cioè cristianesimo.
3. Il mondo
vero irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato
una consolazione, un obbligo, un imperativo (VI, iii, 75).
Il terzo capitolo della storia del platonismo-nichilismo
è quello che corrisponde al pensiero di Kant. Il mondo vero, soprasensibile,
viene escluso dall’ambito dell’esperienza ed è quindi dichiarato inconoscibile
e indimostrabile entro i limiti della sola ragione teoretica. Viene però
recuperato come postulato dalla ragione pratica: pur costretto alla pallida
esistenza di una mera ipotesi, esso continua a vincolare nella forma di un
imperativo.
4. Il mondo
vero – irraggiungibile? Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto,
anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico,
vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto? (VI, iii, 75).
Con il quarto capitolo della storia del
platonismo-nichilismo Nietzsche contrassegna la fase di scetticismo e di
incredulità metafisica che segue al kantismo e all’idealismo, e che può essere
identificata con l’incipiente positivismo. Come conseguenza della distruzione
kantiana delle certezze metafisiche viene meno la credenza nel mondo ideale e
nella sua conoscibilità. Ciò non significa però che il platonismo-nichilismo
stesso sia già superato. Una volta che il mondo sovrasensibile è dichiarato
assolutamente inconoscibile, ne consegue che non si può sapere niente di esso e
che, a rigore, non ci si può decidere né per esso né contro di esso. Esso perde
la rilevanza morale-religiosa che ancora aveva in quanto postulato della
ragione pratica. Cade nell’indifferenza.
5. Il
«mondo vero» – un’idea che non è più utile a niente, nemmeno più vincolante –
un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata:
aboliamola! (VI, iii, 75).
Negli ultimi due capitoli del suo compendio Nietzsche
incomincia a presentare la propria prospettiva filosofica. Lo rivela già il
fatto che l’espressione «mondo vero» viene ora virgolettata. Infatti, dal
momento che il «mondo vero» va abolito, tale termine perde il suo valore e va
quindi sospeso, messo tra virgolette. Nietzsche pensa qui alla propria opera di
demolizione che con La gaia scienza ha raggiunto un suo primo risultato:
si trova all’inizio, nella fase del pensiero mattutino, anche se non ancora al
pieno meriggio. Ma dopo l’abolizione del mondo soprasensibile, in quanto
ipotesi superflua, rimangono ancora aperti due problemi: che ne è del luogo in
cui stava l’ideale e che dopo l’abolizione di quest’ultimo rimane ora vuoto? E
qual è il senso del mondo sensibile dopo che è stato abolito quello ideale? Si
rende necessario un passo ulteriore in cui sia portata a compimento la
demolizione intrapresa.
6. Il mondo
vero lo abbiamo abolito: quale mondo è rimasto? forse quello apparente? (...)
Ma no! Con il mondo vero abbiamo abolito anche quello apparente (VI,
iii, 76).
Quest’ultimo capitolo, che comporta l’abolizione anche
del mondo apparente, indica il compito che Nietzsche si prefigge nell’ultima
fase del suo pensiero. Siamo all’«incipit Zarathustra», alla filosofia del
pieno meriggio, al momento dell’ombra più corta in cui il platonismo-nichilismo
è davvero superato. Ma affinché tale superamento si compia, è necessario che
sia abolito anche il «mondo apparente». Ciò non significa togliere
semplicemente di mezzo il mondo sensibile come tale. Se così fosse, dal momento
che il mondo ideale e il mondo sensibile costituiscono nel loro insieme la
totalità dell’essere, la loro abolizione produrrebbe come risultato il nulla.
Ma Nietzsche non può volere questo, se è vero che egli mira a un superamento
del nichilismo. Abolire il «mondo apparente» significa piuttosto eliminare il
modo in cui il sensibile è visto dalla prospettiva del platonismo, cioè togliergli
il carattere di apparenza. Non si tratta dunque di abolire il mondo sensibile,
ma di eliminare il fraintendimento platonico e aprire così la strada a una
nuova concezione del sensibile e a un nuovo rapporto tra sensibile e non
sensibile. A tal fine non basta semplicemente rovesciare la vecchia gerarchia e
porre in alto ciò che prima stava in basso, apprezzando il sensibile e
disprezzando il non sensibile. Bisogna invece uscire interamente
dall’orizzonte del platonismo-nichilismo, ossia dalla dicotomia ontologica che
esso implica e dalle relative contrapposizioni.
In un celebre frammento intitolato «Critica del
nichilismo» (VIII, ii, 256-59) Nietzsche asserisce che il nichilismo subentra
di necessità come stato psicologico quando le grandi categorie, con le quali si
era introdotto nel mondo un principio organizzatore e si era dato un senso al
divenire, vengono erose dal sospetto che ad alimentarle fosse semplicemente
l’inconscia autoillusione di cui la vita umana si serve per sopravvivere. Si
tratta delle categorie di «fine», «unità» e «verità».
Mentre un
tempo ci si era illusi che il divenire avesse un senso, una meta – fosse essa
l’«ordine morale del mondo», l’«accrescimento dell’amore e dell’armonia» o
l’«avvicinamento a uno stato universale di felicità» – con l’insorgere del
nichilismo «si capisce che col divenire non si mira a nulla, non si
raggiunge nulla (...) Dunque la delusione su un preteso fine del
divenire è una causa del nichilismo» (VIII, ii, 256-57).
Viene meno in secondo luogo anche un’altra strategia
tradizionale per dominare il divenire: quella che consiste nel ricondurlo a un
principio unificatore, cioè che ne semplifica la complessità organizzandola
come unità e considerando quest’ultima come il suo valore finale.
La terza
grande categoria che viene a cadere con il nichilismo è quella di verità: dato
che nel divenire non v’è né fine né unità, non resta come scappatoia che
condannare come illusione tutto questo mondo del divenire e inventare un mondo
che sia al di là di esso, come mondo vero. Ma appena l’uomo si accorge
che questo mondo è stato fabbricato solo in base a bisogni psicologici, e che
in nessun modo egli ha diritto di fare ciò, sorge l’ultima forma del
nichilismo, che racchiude in sé l’incredulità per un mondo metafisico –
che proibisce a se stessa di credere in un mondo vero (VIII, ii,
257-58).
Quando si fa chiaro che «non è lecito interpretare il
carattere generale dell’esistenza né col concetto di “fine”, né col
concetto di “unità”, né col concetto di “verità”», si finisce per
inibire ogni principio organizzatore e ogni trascendenza e per ammettere come
unica realtà il mondo nel suo eterno fluire e divenire: il problema è che
quest’ultimo appare privo di senso e di valore. Quindi «non si sopporta questo
mondo che pure non si vuole negare» (VIII, ii, 258); «le categorie “fine”,
“unità”, “essere”, con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono
da noi nuovamente estratte – e ora il mondo appare privo di valore»
(VIII, ii, 258).
Il nichilismo che si impone come uno «stato
psicologico», e che avvia il processo di svalutazione e dissoluzione dei
supremi valori tradizionali, è tuttavia un nichilismo incompleto. In
esso si inizia la distruzione dei vecchi valori, ma i nuovi che subentrano
vanno a occupare il medesimo posto dei precedenti, cioè conservano un carattere
soprasensibile, ideale. Nel nichilismo incompleto la distinzione tra mondo vero
e mondo apparente non scompare del tutto e rimane ancora operante una fede. Per
rovesciare l’antico si deve ancora credere in qualcosa, in un ideale; si ha
ancora un «bisogno di verità». Nella fenomenologia che Nietzsche presenta, il
nichilismo incompleto si manifesta in diversi ambiti e forme:
a) nell’ambito del sapere scientifico sono
manifestazioni di nichilismo incompleto il positivismo e la spiegazione
naturalistica, causale e meccanicistica dell’universo; ad esse si associa nelle
scienze dello spirito il positivismo storiografico delle scienze storiche, che
trova la sua formulazione filosofica nello storicismo;
b) nell’ambito della politica il nichilismo incompleto
si manifesta come nazionalismo, chauvinismo, democraticismo, socialismo e
anarchismo (il nichilismo russo);
c) infine in ambito artistico sono manifestazioni di
nichilismo incompleto il naturalismo e l’esteticismo francesi.
Solo con il maturare di quello che Nietzsche chiama il
nichilismo completo viene distrutto, insieme ai vecchi valori, anche il
luogo che essi occupavano, cioè il mondo vero, ideale, soprasensibile.
a) Tale nichilismo è anzitutto un nichilismo passivo,
cioè una reazione di difesa, un segno di «declino e regresso della potenza
dello spirito», incapace di raggiungere i fini finora perseguiti. La sua
manifestazione per eccellenza è la trasformazione e l’assimilazione del
buddhismo orientale nel pensiero occidentale, con la coltivazione dello
struggimento nel Nulla, già presente nei romantici ma alimentato soprattutto
dalla filosofia schopenhaueriana.
b) Il nichilismo completo si manifesta inoltre come nichilismo
attivo, cioè come un segnale della «cresciuta potenza dello spirito» la
quale si esplica nel promuovere e nell’accelerare il processo di distruzione
(VIII, ii, 12-13; n. 9 [35]).
c) Nietzsche chiama infine estrema la forma di
nichilismo attivo che toglie definitivamente di mezzo non solo i valori tradizionali,
quindi la visione morale del mondo e lo stesso valore di verità, ma anche il
luogo soprasensibile che tali valori occupavano:
La forma
estrema del nichilismo sarebbe il sostenere che ogni fede, ogni tener
per vero sia necessariamente falso: perché non esiste affatto un mondo
vero. Dunque: un’illusione prospettica, la cui origine è in noi (avendo
noi costantemente bisogno di un mondo ristretto, abbreviato, semplificato)
(VIII, ii, 15).
E ancora:
Che non ci
sia verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una «cosa in
sé»; – ciò stesso è nichilismo, è anzi il nichilismo estremo
(VIII, ii, 13-14).
Solo con l’abolizione del luogo ideale dei valori
tradizionali si fa spazio alla possibilità di una nuova posizione di valori. In
riferimento al fatto che in tal modo il nichilismo estremo crea spazio e viene
allo scoperto, Nietzsche parla pure di nichilismo estatico (VII, iii,
222). Il carattere negativo che inerisce al nichilismo come tale assume qui una
declinazione positiva nella misura in cui questa forma di nichilismo rende
possibile la nuova posizione di valori, basata sul riconoscimento della volontà
di potenza quale carattere fondamentale di tutto ciò che è. Giungendo ad aprire
di nuovo la possibilità dell’affermazione, il nichilismo supera la sua
incompletezza e diventa compiuto; diventa nichilismo classico. È questo
il nichilismo che Nietzsche rivendica come proprio quando dice di essere «il
primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo
il nichilismo stesso – che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé» (VIII,
ii, 393).
Ora, per portare veramente a compimento l’ipotesi
nichilistica – come Nietzsche illustra, tra l’altro, nel grande frammento su
«Il nichilismo europeo» (Lenzer Heide, 10 giugno 1887), smembrato nella
edizione della sorella e restituito da Colli-Montinari nella sua forma
integrale (VIII, i, 199-206; n. 5 [71]) – è necessario che noi «pensiamo questo
pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e
scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: “l’eterno
ritorno”. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la “mancanza
di senso”) eterno!» (VIII, i, 201). Il compimento del nichilismo richiede il
pensiero dell’eterno ritorno. Ciò significa che non dobbiamo pensare soltanto
che la vita non si prefigga nulla e che, come il volgere dei pianeti, nulla
insegua nella sua corsa se non se stessa: come quelli percorrono milioni di
chilometri per continuare semplicemente nella loro orbita, così la vita fa
tutto ciò che le consentono la meccanica e l’energia del cosmo – e null’altro.
Ma dobbiamo pensare inoltre che tutto questo ritorni eternamente. La
conclusione di Nietzsche è coerente:
Il
carattere complessivo del mondo è caos per tutta l’eternità (V, ii, 136-37).
Ciò significa rinunciare a imprimere all’essere un
qualsiasi ordine, senso o forma che non siano quelli del divenire e del suo
inesausto ripetersi.
Ma chi è in grado di sopportare questo terribile
pensiero che sembra rendere insostenibile l’esistenza? È il «superuomo». Questa
figura – come è stato spiegato (Heidegger, 1961: 204, 241) – non va intesa nel
senso di un essere prodigioso che abbia potenziato a dismisura le facoltà
dell’uomo normale, ma come colui che «supera» l’uomo tradizionale in quanto
smette gli atteggiamenti, le credenze e i valori propri di quest’ultimo e ha la
forza per crearne di nuovi. La trasvalutazione di tutti i valori è il movimento
che si oppone al nichilismo e che lo supera: essa alleva il «super-uomo» come
colui che esprime la massima concentrazione di volontà di potenza e che
accetta l’eterno ritorno delle cose.
La domanda con la quale si conclude il dianzi citato
frammento sul nichilismo europeo, e cioè «Come penserebbe un tale uomo
all’eterno ritorno?» (VIII, i, 206), indica appunto che dopo l’abolizione
dell’antitesi tra il mondo vero e il mondo apparente, cioè dopo che la visione
del mondo platonico-nichilistica è stata superata, resta il compito di
ripensare il senso del divenire senza ricadere negli schemi e nei valori
prodotti dalla dicotomia platonico-nichilistica o, peggio ancora, nei suoi
surrogati. Ed è appunto la dottrina dell’eterno ritorno a offrire per Nietzsche
tale opportunità.
Come si vede, l’analisi del nichilismo quale logica
della decadenza, la dottrina della volontà di potenza e l’ipotesi dell’eterno
ritorno sono connesse in una sequenza teorica coerente.
Nichilismo, relativismo e disincanto nella «cultura della
crisi»
Nietzsche evocava l’antica dottrina dell’eterno
ritorno nei termini di un suggestivo insegnamento che prometteva di conferire
un nuovo baricentro all’esistenza e di rendere sopportabile il perenne divenire
di tutte le cose. L’ipotesi con la quale egli introduce l’eterno ritorno alla
fine della prima edizione della Gaia scienza (1882), nel brano
intitolato «Il peso più grande», è diventata classica:
Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone
strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse:
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una
volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo,
ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa
indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte
nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo chiaro
di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterno orologio a
polvere dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolto – e tu con esso,
granello di polvere dalla polvere venuto!» (...) Se quel pensiero ti prendesse
in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti
stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: «Vuoi tu
questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire
come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti volere bene a te stesso e alla
vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna
sanzione, questo suggello? (V, ii, 236-37).
Dal momento della sua scoperta in poi – avvenuta, come
è ricordato in Ecce homo, nell’agosto 1881 lungo il lago di Silvaplana
nei pressi di Surlei, «seimila piedi al di là dell’uomo e del tempo» (VI, iii,
344) – il pensiero dell’eterno ritorno non abbandonerà più Nietzsche, che
elaborerà questa sua concezione, «la suprema formula dell’affermazione che
possa mai essere raggiunta», in numerosi frammenti e la proporrà in almeno
altre due importanti comunicazioni pubbliche. La prima nello Zarathustra,
opera che può essere considerata il capolavoro di Nietzsche e che nel suo
insieme rappresenta l’elaborazione in grande stile e la comunicazione della
dottrina dell’eterno ritorno. La seconda in Al di là del bene e del male,
nel terzo capitolo intitolato «L’essere religioso», dove è racchiusa nella
formula «circulus vitiosus deus?» (VI, ii, 61-62) che, nonostante le
molteplici esegesi succedutesi, rimane a tutt’oggi un enigma.
È un fatto però che il carattere intrinsecamente
esoterico dell’eterno ritorno, l’apparente contraddizione in cui esso sta con
la dottrina della volontà di potenza, la difficoltà di interpretarlo nel
significato e nelle conseguenze con cui esso grava sull’esistenza umana e
sull’interpretazione ontologica del divenire, erano tutti fattori che
intralciavano la sua fortuna. Ci sarebbero voluti Heidegger e Löwith, in campo
filosofico, e poi Borges e Kundera, in quello letterario, per penetrare a fondo
il senso dell’eterno ritorno e mostrarne l’essenziale appartenenza al pensiero
di Nietzsche.
A cavallo tra i due secoli e nei primi decenni del
Novecento fu invece la diagnosi della decadenza e della crisi dei valori, cioè
la teorizzazione del nichilismo e la lungimirante previsione delle conseguenze
che esso avrebbe innescato, l’aspetto dell’opera di Nietzsche che lo fece
diventare un autore così letto da portarlo ad occupare nell’anima tedesca il
posto che prima di lui, e nella sua stessa formazione intellettuale, era stato
di Schopenhauer. La sua opera ha così allungato la sua ombra su buona parte del
pensiero e della cultura di fine Ottocento e del primo Novecento, e anche in
seguito non ha cessato di tormentare l’autocomprensione filosofica del nostro
tempo. Ormai divenuta impraticabile la sintesi dialettica, minata alle fondamenta
dallo sviluppo dell’immagine scientifica del mondo, ci si richiamò al pensiero
di Nietzsche per compensare il vuoto filosofico spalancatosi nel «dopo Hegel» e
per evitare entrambe le insidie in cui era fin troppo facile cadere: la
nostalgia per la totalità dialettica perduta, da un lato, oppure la piatta
adesione al positivismo dei fatti, dall’altro. Sennonché, seguendo il paradigma
nietzscheano in maniera sempre più tenace e rabbiosa si produsse non solo la
consunzione dei grandi ideali di Dio, del Bene e del Vero, ma si minò alla base
ogni possibilità di riempire il vuoto di senso che ne risultava. Inoltre, la
critica che a Nietzsche si ispirava, corrosiva e tagliente, non fu mera
descrizione ma contribuì a produrre, o ad accelerare, lo stato di crisi che
descriveva. L’esito è noto: è stato il «deserto che avanza», l’allungarsi
dell’ombra del nichilismo.
Ecco perché nel Novecento Nietzsche ha suscitato
entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato atteggiamenti, mode culturali e
stili di pensiero, ma al tempo stesso ha provocato reazioni e rifiuti
altrettanto radicali. Egli era stato buon profeta di sé quando, nel monologo
fatale di Ecce homo, aveva preconizzato che un giorno il suo nome,
quello del primo immoralista e del distruttore per eccellenza, sarebbe stato
legato a una profonda collisione delle coscienze, a un cataclisma dello spirito
senza pari.
Una eloquente testimonianza della diffusione del suo
«mito», ma anche del suo duplice effetto, di attrazione e di rifiuto, è il
libello del sociologo Ferdinand Tönnies Il culto di Nietzsche. Una critica
(Der Nietzsche-Kultus. Eine Kritik, 1897). Dopo essere stato egli stesso
un nietzscheano entusiasta – aveva apprezzato soprattutto la Nascita della
tragedia in cui vedeva prefigurata l’idea di una «comunità dionisiaca», che
è alla base della celebre distinzione tra «comunità» (Gemeinschaft) e
«società» (Gesellschaft) da lui introdotta – Tönnies rimosse la sua
passione giovanile e proclamò ad alta voce le viscerali ragioni per le quali
urgeva opporsi al nichilismo nietzscheano: esse erano sostanzialmente
l’immoralismo individualistico e la concezione elitaria e antidemocratica cui
era approdato l’ultimo Nietzsche nella sua strenua difesa del diritto del
superuomo all’eccellenza.
Ma questa e altre prese di posizione non arginarono la
marea nichilistica che a Nietzsche si ispirava e che stava montando. Schiere di
artisti e letterati continuarono a guardare a lui come a un mito da emulare:
Gide, Strindberg, von Hofmannsthal, George, Musil, Broch, Klages, Thomas e
Heinrich Mann, Benn, Jünger sono i nomi che spiccano fra tanti altri. Anche in
campo strettamente filosofico pensatori dalle provenienze più diverse
recepirono le sue dottrine: Vaihinger, Simmel, Spengler, Scheler, Jaspers,
Heidegger e altri ancora. Perfino Carnap, nel celebre saggio del 1931 in cui si
riprometteva di demolire ogni metafisica passata, presente e futura mediante
l’analisi logica del linguaggio, riconosceva alla «metafisica» di Nietzsche un
suo statuto legittimo, anche se solo «estetico» (Carnap, 1969: 531).
La piena nichilistica si ebbe soprattutto quando le
influenze del pensiero nietzscheano confluirono con gli esiti relativistici
dello storicismo. Ciò avvenne in particolare in seno alla cosiddetta «filosofia
della vita» e nella serie di critiche della civiltà che caratterizzarono la
riflessione europea dei primi decenni del Novecento. Muovendo dalla convinzione
di provenienza nietzscheana che esistesse un radicale e insopprimibile
antagonismo tra il Dionisiaco e l’Apollineo, cioè tra la vita e lo spirito, tra
la natura e la cultura, tra l’anima intesa come principio vitale e le forme
come schemi entro i quali la vita è catturata, fu data espressione –
filosofica, letteraria e artistica – a una diffusa sfiducia nelle pretese di
sintesi della ragione e a un corrispondente richiamo alla dimensione, altra,
della «vita». La vita – come si andava affermando – doveva essere colta al suo
livello originario, nei suoi caratteri propri, e non secondo le modalità
teoretiche tradizionali, che, oggettivandola, la reificavano e ne impedivano in
linea di principio la comprensione genuina.
Un significativo esito relativistico e nichilistico
della filosofia della vita si ebbe con il pensiero dell’ultimo Georg Simmel.
Dopo l’iniziale adesione al positivismo evoluzionistico, Simmel si era
successivamente avvicinato al neocriticismo e alla filosofia dei valori,
approdando attraverso lo studio di Bergson e di Nietzsche a una filosofia della
vita pessimistica, dagli esiti misticheggianti, di cui è espressione soprattutto
l’opera Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici (Lebensanschauung.
Vier metaphysische Kapitel, 1918). È significativo che nel 1897 Simmel
recensisse in termini critici il summenzionato libello di Tönnies, difendendo
Nietzsche dall’accusa di immoralismo e opponendo a essa una valorizzazione del
concetto nietzscheano di «nobiltà» o «distinzione» (Vornehmheit) in nome
del diritto all’eccellenza. Questa recensione segnala quanto Simmel fosse
allora impegnato in una assimilazione del pensiero nietzscheano che, dopo il
1900, impregnerà sempre più la sua visione tragica della cultura, il suo Kulturpessimismus.
La convinzione di fondo che Simmel maturerà è che la pluralità dei mondi e
delle sfere che lo studio storico dello spirito umano rivela – il mito, l’arte,
la religione, la scienza, la tecnica – non si compongono in una sintesi e in
una conciliazione. Ciascuno di tali ambiti sembra affermarsi nella sua
autonomia e validità; in ciascuno di essi si manifesta una tendenza organica
che è espressione della vita, la quale si afferma e si autopotenzia
selezionando le verità che le sono utili e lasciando soccombere come falso ciò
che la danneggia. La vita sta in un contrasto perenne con le forme culturali
che essa stessa produce, in quanto queste ultime tendono a cristallizzarsi e a
giustapporsi a essa.
Di fronte alla vita dell’anima che vibra senza posa
sviluppandosi illimitatamente, e che è in un qualche senso creatrice, sta il
suo prodotto solido, idealmente inamovibile, che ha l’inquietante effetto
retroattivo di fissare, anzi di irrigidire, quella vitalità: spesso, è come se
la dinamicità creatrice dell’anima morisse nel suo prodotto (Simmel, 1985:
193).
Ma la tendenza che spinge le forme oggettive, una
volta prodotte, a conservarsi contrapponendosi alla vita soggettiva che le
produce, quindi il predominio dell’oggetto sul soggetto, che si impone nella
modernità, conducono nell’ambito della cultura all’«estensione illimitata dello
spirito oggettivo» (Simmel, 1985: 211). Si ha allora una ipertrofia di oggetti,
prodotti e offerte culturali che la vita soggettiva non è più in grado né di
recepire né di assimilare. In questa discrasia, cioè nella inadeguatezza delle
produzioni dello spirito oggettivo rispetto alla capacità assimilativa dello
spirito soggettivo, sta la «tragedia della cultura». Come scriveva Siegfried
Kracauer nel saggio Die Wartenden (In attesa), pubblicato nella
«Frankfurter Zeitung» del 22 marzo 1922, questa prospettiva filosofica che
vedeva nella vita «l’ultimo Assoluto» era «un gesto di disperazione del
relativismo».
Il motivo del Kulturpessimismus, che Simmel
accarezzava con raffinatezza e moderazione, fu spinto all’estremo ed esibito
nella sua forma più cruda da Oswald Spengler. In lui l’assimilazione del
pensiero nietzscheano, il relativismo storicistico e le esigenze della
filosofia della vita si combinarono in una vera e propria filosofia della
storia e della crisi a curvatura scettico-nichilistica. Da giovane aveva
progettato di scrivere una tragedia su Erostrato, l’efesino che nel 356 a.C.
aveva dato alle fiamme il tempio di Artemide affinché il proprio nome rimanesse
famoso in eterno. Un «antenato del nichilismo» – come lo definirà Günther
Anders (1956-80: I, 301, 316 sgg.) –, un eroe che rappresentava agli occhi di
Spengler la tragedia del destino, la lotta tra la volontà del grande individuo
e le forze della storia. Nella succinta tesi di dottorato (1904), in cui si
appassionava per la filosofia del divenire di Eraclito facendo propria l’idea
del perenne fluire delle cose, Spengler mostrava, sulle tracce di Nietzsche,
una pronunciata inclinazione per la visione tragica del mondo. Tutto diviene,
tutto trapassa, tutto è relativo: la massima che Spengler dichiarava di seguire
era quella di considerare «il mondo come storia». Assumendo questo
atteggiamento, che significava per lui una rivoluzione copernicana, Spengler
intendeva essere il Galilei della storia, colui che si riprometteva di
decifrare l’instabile e mutevole linguaggio di ciò che nasce, cresce e perisce.
Tutto ciò era declinato in un torvo pessimismo, rispetto al quale Spengler
reclamava l’atteggiamento robusto e virile del Romano, mentre sprezzava
ostentatamente quello del Graeculus histrio, artista e filosofo. Contro
la filosofia universitaria, che non riteneva all’altezza dei compiti dell’epoca
contemporanea, l’era del «cesarismo», egli dichiarava di scrivere «per uomini
di azione e non per spiriti critici». Il suo pessimismo non voleva essere «un
sistema in cui poter speculare» ma «un’immagine del mondo in cui vivere». «La
filosofia per amore di se stessa – scriveva nel saggio Pessimismus? del
1921 – l’ho sempre disprezzata profondamente» (Spengler, 1937: 64).
Nella sua opera capitale Il tramonto dell’Occidente
(Der Untergang des Abendlandes), che fu edita in due parti alla fine
della guerra (1918-22) ed ebbe subito un vasto successo di pubblico, egli
prospettava una «morfologia della storia universale» nella quale la successione
delle diverse civiltà, ognuna considerata come organismo con una sua «forma» e
chiusa nel proprio orizzonte, è determinata non da disegni e finalità
razionali, ma dal ritmo vitale che le contraddistingue e che è analogo a quello
dell’individuo: nascita, crescita, declino e morte. Le civiltà non si
sviluppano e non si succedono edificandosi l’una sull’altra, ma ciascuna in
forza del suo impulso iniziale e seguendo il proprio ritmo energetico, avendo
in se stessa il principio e il compimento del suo ciclo vitale. Se è così, la
storia universale non può avere uno sviluppo lineare, ma avrà piuttosto un carattere
ciclico. Dietro questa visione sta la convinzione, di provenienza nietzscheana,
che alla vita, in quanto carattere comune di tutto ciò che diviene, si
contrapponga lo spirito, cioè il principio stabilizzante della forma e della
razionalità. Ora, secondo la prognosi spengleriana, la forza vitale della
civiltà occidentale, soffocata dalle forme della cultura, della civilizzazione
e della tecnica, sarebbe entrata nella fase del suo tramonto. Non per caso, ma
per una ineluttabile necessità che sta scritta nei ritmi vitali della storia. E
poiché ciò che è frutto di necessità non concede la libertà di scegliere o
rifiutare, a chi è preso nella ruota della storia universale non resta che
accettare questo destino, perché, come Spengler si compiace di rammentare con
Seneca: ducunt fata volentem, nolentem trahunt. Anziché a una scienza
della storia Spengler aveva dato vita in tal modo a una metafisica del divenire
dai toni cupi e apocalittici, che alimentò l’atmosfera di crisi in cui la
cultura tedesca era effettivamente piombata dopo la prima guerra mondiale.
Il pessimismo nichilistico di Spengler funse da punto
di riferimento, in positivo e in negativo, per un’intera serie di critiche
della civiltà e di «filosofie della crisi» che caratterizzarono l’atmosfera
culturale tedesca tra le due guerre. Nella copiosa letteratura che ne nacque si
avverte, accanto al Kulturpessimismus, l’esigenza di un suo superamento
e di una guarigione dalle patologie nichilistiche della modernità.
Già prima del Tramonto dell’Occidente era
emerso un diffuso disagio, ben presto tradottosi in una aperta reazione, nei
confronti della civiltà borghese dell’età guglielmina, della visione
positivistica del mondo e dell’ottimistica fiducia nel progresso che
caratterizzavano la «Belle Époque». Basti pensare all’irrazionalismo torbido e
opaco, ispirato alla filosofia romantica di Carus, alle indagini mitologiche di
Bachofen e alla concezione tragica della vita di Nietzsche, che animava le
visioni dionisiache del circolo dei cosiddetti «cosmici» di Alfred Schuler e
del giovane Ludwig Klages nella Monaco di fine Ottocento e dei primi anni del
Novecento. Oppure alla linea culturale promossa con successo da Eugen
Diederichs, fondatore nel 1896 di una casa editrice che sostenne una moda
neo-mistica e che si avvalse della collaborazione di autori che solo dopo la
prima guerra mondiale, con l’avvento della Repubblica di Weimar, si sarebbero
separati nel fronte della Destra e in quello della Sinistra, ma che allora
erano accomunati nella ricerca di una alternativa alla società borghese del XIX
secolo, quali Ferdinand Avenarius, Walter Benjamin, Eduard Bernstein, Lujo
Brentano, Martin Buber, Hans Freyer, Hermann Hesse, Karl Korsch, Ernst Krieck,
György Lukács. Per questa ragione si possono qui nominare insieme analisi della
decadenza che altrimenti andrebbero separate come quelle di Lukács in L’anima
e le forme (Die Seele und die Formen, 1911), di Walter Rathenau in Per
la critica del tempo presente (Zur Kritik der Zeit, 1912) e Di
cose venture (Von kommenden Dingen, 1917), di Rudolf Pannwitz in La
crisi della civiltà europea (Die Krise der europäischen Kultur,
1917).
Dopo Spengler, alcuni seguendolo, altri contro di lui,
altri ancora indipendentemente da lui, la schiera dei «critici della civiltà»
si ingrossò fino all’inverosimile: Theodor Lessing, amico e seguace di Klages,
dalla torbida personalità, con La storia come conferimento di un senso
all’insensato (Geschichte als Sinngebung des Sinnlosen, 1919) e La
maledetta civiltà (Die verfluchte Kultur, 1921); il neognostico
Leopold Ziegler, poi seguace dell’idea guénoniana di tradizione, con la
fortunata opera in due volumi Metamorfosi degli dèi (Gestaltwandel
der Götter, 1920); il teologo protestante Albert Schweitzer con Decadenza
e ricostruzione della civiltà (Verfall und Wiederaufbau der Kultur,
1923), e da parte cattolica Romano Guardini con le Lettere dal Lago di Como.
Pensieri sulla tecnica (Briefe vom Comer See. Gedanken über Technik,
1927). E ancora Hermann Keyserling, il fondatore della «Scuola della Sapienza»,
con Lo spettro d’Europa (Das Spektrum Europas, 1927); Freud con Il
disagio nella civiltà (Das Unbehagen in der Kultur, 1929); infine lo
psicologo, mitologo e grafologo Ludwig Klages con l’imponente opera Lo
spirito come antagonista dell’anima (Der Geist als Widersacher der Seele,
1929-32), il cui titolo divenne uno slogan sulle labbra delle giovani
generazioni.
In campo più rigorosamente filosofico, uscite dalla
crisi nichilistica furono prospettate da Bloch in Eredità di questo tempo
(Erbschaft dieser Zeit, 1918), da Lukács in Storia e coscienza di
classe (Geschichte und Klassenbewußtsein, 1923), da Scheler in L’uomo
nell’età del livellamento (Der Mensch im Zeitalter des Ausgleichs,
1929), da Jaspers in La situazione spirituale del nostro tempo (Die
geistige Situation der Zeit, 1931), da Husserl in La crisi delle scienze
europee (Die Krisis der europäischen Wissenschaften, 1936), da
Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo (Dialektik der
Aufklärung, 1947).
Il fenomeno della «critica della civiltà» non fu
peraltro limitato all’ambito culturale di lingua tedesca, ma si manifestò in
tutta Europa: nella Francia di Valéry (La Crise de l’esprit, 1919) e
Julien Benda (La Trahison des clercs, 1927), ma anche in quella degli
emigrati russi estov (La Philosophie de la tragédie, 1926) e
Berdiaev (Un nouveau Moyen Age, 1927) e in quella iniziatica di Guénon (La
Crise du monde moderne, 1927); nella Spagna di José Ortega y Gasset (La
rebelión de las masas, 1930) e nell’Olanda di Johan Huizinga con Nelle
ombre di domani (In de schaduwen van morgen, 1935) e Lo scempio
del mondo (Geschonden wereld, 1943).
Pur nel frenetico accavallarsi delle prospettive e dei
motivi che la caratterizzano, tutta questa letteratura contribuì ad acuire la
sensazione che un ciclo storico stava per finire e che con esso venivano meno
gli ordinamenti e i valori veteroeuropei della religione, della metafisica e
della morale tradizionali. I venti gelidi della nuova consapevolezza critica
che andava formandosi, e che giunse ad avere la sua espressione più lucida in
Max Weber, spazzarono le caligini che si addensavano su quel paesaggio
culturale.
Già alla fine della sua prima grande ricostruzione dei
processi di razionalizzazione che caratterizzano lo sviluppo del mondo moderno
e che hanno nella scienza, nella tecnica e nella burocrazia i loro fattori
capitali, nella celebre chiusa dell’Etica protestante e lo spirito del
capitalismo (Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus,
1904-5) Max Weber salutava con favore il nuovo spirito della modernità,
ma avvertiva al tempo stesso che il «sottile manto della razionalizzazione»,
inizialmente al servizio del mondo della vita, era diventato una «calotta
d’acciaio» (stahlhartes Gehäuse), sotto la quale i figli della
moderna civiltà occidentale rischiavano di diventare «specialisti senza spirito
ed edonisti senza cuore». E con un giudizio severo sull’«ultimo uomo»
aggiungeva: «Questo Nulla crede di essersi elevato a uno stadio di umanità mai
raggiunto prima» (Weber, 1965: 306).
Alla fine del proprio lavoro scientifico, un anno
prima della morte, in due celebri conferenze tenute nel gennaio del 1919 a
Monaco durante la profonda crisi seguita alla prima guerra mondiale – La
scienza come professione (Wissenschaft als Beruf) e La politica
come professione (Politik als Beruf) – Max Weber offrì un’analisi
ancora più chiara e illuminante della prospettiva storica che si andava
delineando. Con pochi tratti essenziali egli mostrò come la razionalizzazione
scientifica avesse prodotto un irreversibile «disincanto» (Entzauberung),
secolarizzando le vecchie visioni del mondo di origine mitologico-religiosa e
rimpiazzandole con una immagine «oggettiva». E se attraverso la neutralità
descrittiva della sua diagnosi traspariva, nemmeno troppo celata, una presa di
posizione in favore della nuova situazione, quindi del progresso della scienza
e della ragione, Weber appariva altresì consapevole del duro destino che la
modernità riservava. Perduta l’innocenza delle origini, l’umanità che ha
mangiato all’albero della conoscenza non è più disposta al sacrificium
intellectus e diventa refrattaria a ogni fede. Paga le sue conquiste con
l’incapacità di fondare razionalmente valori ultimi e scelte di vita.
È il destino della nostra epoca – scriveva Weber – con
la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto
con il suo disincanto del mondo, che proprio i valori ultimi e più sublimi si
siano ritirati dalla sfera pubblica per rifugiarsi nel regno extramondano della
vita mistica o della fraternità di rapporti immediati fra i singoli (Weber,
1922: 612; cfr. 1948: 41).
La conseguenza del disincanto è il politeismo dei
valori, la compresenza di istanze e scelte di vita ultime in conflitto fra
loro, il cui antagonismo risulta razionalmente indecidibile. L’isostenia dei
valori porta alla svalutazione e infine all’indifferenza dei valori. Il
politeismo non è più politeismo di valori ma di decisioni. Nemmeno l’arte
appare in grado di creare nuovi valori condivisi: rispetto alla realtà della
razionalizzazione essa può essere «protesta» che diventa facilmente «fuga»,
oppure «integrazione» che si trasforma facilmente in «apologia». In questa
situazione storico-culturale «priva di dèi e di profeti», in cui Weber vedeva
sopraggiungere non «il fiorire dell’estate», ma una «notte polare di una
oscurità e rigidità glaciali» (Weber, 1921: 559; cfr. 1948: 120), non resta,
quale unico eroismo possibile alla ragione, che prendere congedo dalle
nostalgie per l’intero perduto e dalle aspettative globali di salvezza. Weber
affermava ciò sia contro l’amico Ernst Troeltsch, che nella conferenza Cultura
tedesca (Deutsche Bildung, 1918) riponeva le sue speranze nelle tre
grandi potenze tradizionali che avevano formato l’Europa, cioè l’umanesimo, il
cristianesimo e lo spirito germanico; sia soprattutto contro sètte e profeti
che spuntavano ovunque – come già Thomas Mann aveva colto nella novella Visita
al profeta (Beim Propheten, 1904) e come egli stesso constatava
potendo osservare da vicino nella sua Heidelberg l’esempio del circolo
esoterico formatosi intorno a Stefan George. La reazione del circolo alle tesi
weberiane non si fece peraltro attendere, e fu affidata al saggio La
professione della scienza (Der Beruf der Wissenschaft, 1920) di
Erich von Kahler.
Weber faceva invece appello al senso di responsabilità
dell’intellettuale e dello scienziato, e invitava a vivere virilmente, senza
profeti né redentori, il destino del relativismo e nichilismo della nostra
epoca seguendo, nella dedizione al compito del giorno, il demone che tiene le
fila dell’esistenza di ciascuno. A chi di questo non fosse stato capace, non
rimaneva che il sacrificio dell’intelletto, e con esso il ritorno nelle braccia
sempre misericordiosamente aperte delle confraternite e delle chiese: che il
discepolo tornasse pure al profeta e il credente al redentore; ma per chi aveva
fatto della ragione il filo conduttore della propria esistenza non restava,
come sola virtù, che l’esercizio radicale della ragione stessa.
La ragione si mantiene lucida soltanto se non si
sottomette a nessun principio eteronomo, ma dà a se stessa la propria legge e
la propria forma: la potenza del razionale sta nel dissolvere ogni sostanziale
e nell’ergersi a fondamento di sé. L’esercizio della ragione è la virtù di
un’ascetica mondana che riconosce e accetta la creaturalità di questo mondo, ma
che rinuncia a qualsiasi valore di trascendenza e considera la finitudine come
l’unica dimensione temporale in cui si misura il successo o il fallimento
dell’esistenza.
In questo senso può essere letta l’astinenza che Weber
raccomandava alla fine della sua prima conferenza monacense, riprendendo le
parole del canto della scolta idumea nell’oracolo di Isaia:
Una voce chiama da Se’îr in Edom: «Sentinella, quanto
durerà ancora la notte?». La sentinella risponde: «Verrà il mattino, ma ancora
è notte. Se volete domandare tornate un’altra volta» (Weber, 1922: 613; cfr.
1948: 42).
Il nichilismo estetico-letterario
Nella diffusa sfiducia nei confronti degli ideali
ottimistici del progresso e della grande marcia dell’umanità verso il meglio,
si avvertiva sempre più l’ingombrante presenza di una forza che – comunque la
si chiamasse e la si esorcizzasse – non appariva governabile dalla ragione,
anzi sembrava asservirla alle proprie cieche finalità. I concetti che furono
coniati per evocarla segnarono profondamente l’atmosfera culturale dell’epoca: Wille
zur Macht (Nietzsche), élan vital (Bergson), Erlebnis
(Dilthey) o Leben (Simmel, Klages), Paideuma (Frobenius), Es
o Inconscio (Freud), l’Archetipico (Jung), il Demoniaco (Th. Mann). Appena
coniati, tali concetti divennero presto slogan intorno ai quali si catalizzò
l’attenzione delle giovani generazioni. A ragione o a torto, finirono per
essere sbandierati contro il culto della scienza e della ragione del XIX
secolo.
Non stupisce che in tale atmosfera si mettesse in atto
una ricerca di risorse alternative alla razionalità. La principale e la più
tentata fu l’arte. Non che ciò rappresentasse una novità. C’era una intera e
nobile tradizione che aveva considerato il Bello come lo «splendor del Vero»;
anche in tempi non lontanissimi, il romanticismo aveva visto nell’arte una via
d’accesso privilegiata all’Assoluto; Schopenhauer l’aveva teorizzata come
catarsi dalla Volontà; Nietzsche come l’unica attività metafisica che la vita
ancora ci consente per non perire a causa della verità; le avanguardie
artistiche primonovecentesche avevano sottolineato in maniera vistosa la
funzione-guida dell’arte, proponendola come una esperienza rivelatrice alla
quale affidarsi ogniqualvolta la razionalità non fosse più capace di conferire
all’essere e all’esistenza un senso che li redima. La letteratura della crisi
pullula di fermenti speculativi che fanno ricorso al potenziale emancipatore
dell’arte per tentare di attraversare il nichilismo e superarlo. Musil, Broch,
ma soprattutto Benn e Jünger hanno sfruttato a tal fine le risorse
estetico-letterarie della forma, cimentandosi da vicino con la diagnosi
nietzscheana della decadenza e del nichilismo.
Tale diagnosi, almeno in ambito tedesco, si impose con
forza e segnò in maniera profonda l’esperienza di intere generazioni. Perfino
personalità educate ai valori dell’umanesimo classico, come i fratelli Mann, ne
furono fatalmente attratte. Non solo Heinrich, che dall’emigrazione curerà una
fortunata antologia dei «pensieri immortali di Nietzsche» per la celebre
collana «Living Thoughts Library». Anche Thomas, che nella medesima collana
pubblicò un’analoga scelta dei pensieri di Schopenhauer, fu profondamente
influenzato dalla lettura di Nietzsche, per quanto restìo egli fosse a ogni
forma di estremismo estetico-letterario. Già ventenne – Nietzsche vegetava, ma
era ancora in vita – aveva studiato e annotato fittamente Aurora e La
gaia scienza. Più tardi lesse avidamente la seconda Considerazione
inattuale, Ecce homo e l’epistolario, come si vede dai motivi e dai
pensieri nietzscheani che ricorrono nelle conversazioni dei personaggi della
Montagna incantata (Der Zauberberg, 1924). Li rilesse poi con
attenzione mentre preparava il romanzo Doktor Faustus (1947), il cui
protagonista, il musicista Adrian Leverkühn, esempla la sua vita sulla
biografia di Nietzsche. Del resto, la produzione saggistica di Thomas Mann –
dalle Considerazioni di un impolitico (Betrachtungen eines
Unpolitischen, 1918) fino ai due studi monografici su Nietzsche del 1924 e
del 1948 – rende esplicita la diffusa presenza del filosofo di Röcken nel suo
universo mentale.
Rivelatrice del fatale influsso è soprattutto la
tormentata opera del 1918, concepita e scritta di getto sotto la martellante
impressione della Grande Guerra. In polemica con il fratello Heinrich, che si
professava umanista e perciò democratico, liberale, progressista, pacifista,
Thomas Mann declinava l’umanesimo nei termini di un’aristocrazia spirituale di
ascendenza nietzscheana, che esaltava i valori alti dello spirito e della
cultura (Kultur) opponendoli a quelli materiali della civilizzazione (Zivilisation).
La cultura rappresentava la nobiltà dello spirito, l’ordine delle aspirazioni
più elevate proprie dell’anima tedesca, essenzialmente attratta dalla
dimensione dell’interiorità (Innerlichkeit) e della profondità (Tiefsinn),
ossia dallo squillante canto della vita con le sue fiammeggianti contraddizioni
e la sua zampillante e insondabile ricchezza. La civilizzazione era invece la
forza che domina il mondo occidentale con il mito del progresso, dell’economia,
della tecnica e dello sviluppo, con la democrazia ridotta al principio formale
del diritto di voto e della maggioranza.
Thomas Mann percepiva il contrasto in modo così
stridente che nel saggio Pensieri in guerra (Gedanken im Krieg,
1914), lasciandosi coinvolgere nell’entusiasmo bellico generale, salutava la
guerra come «purificazione, liberazione, immensa speranza» ovvero occasione per
emanciparsi da una «civilizzazione che puzza come un cadavere in
decomposizione». Con una simile presa di posizione si alienò, naturalmente, la
considerazione di scrittori quali Romain Rolland, Stefan Zweig e Hermann Hesse.
Ma, al di là di ogni contingenza, la contrapposizione
era di principio. Riprendendo l’antitesi nietzscheana di apollineo e
dionisiaco, e insieme quella romantica e vitalistica di spirito e vita, Thomas
Mann la riempiva della nuova semantica della modernità, articolandola con
sovrana maestria nelle sue molteplici sfaccettature: opponeva la creatività
alla conoscenza astratta, la semplicità originaria all’intellettualità, la
pienezza torbida e demoniaca della vita alla purezza ascetica della
razionalità. E ancora: sosteneva il primato dello spirito eroico germanico
sullo spirito mercantile anglosassone, gli «eroi» (Helden) contro i
«mercanti» (Händler), l’individualismo estetico contro l’universalismo
morale, lo slancio mistico contro la disciplina etica, lo spirito contro la
politica. Riusciva soprattutto a trasformare in virtù la devozione antipolitica
del tedesco, la sua tradizionale impoliticità (Unberufenheit zur Politik),
celebrandola come liberazione dalla schiavitù del mondo (Weltversklavung)
e conquista della vera libertà e sovranità sul mondo (Weltherrschaft),
tutta spirituale e per nulla politica. Insomma, si chiamava fuori dalla
civilizzazione occidentale, dalla politicizzazione della vita, dalla turba dei
letterati neoumanisti, per proclamarsi cittadino di una repubblica superiore:
quella dello spirito, della religione, dell’arte, della filosofia. E con
malcelato orgoglio nazionale dichiarava:
La
“germanicità” è cultura, anima, libertà, arte, e non civilizzazione,
società, diritto di voto, letteratura (Th. Mann, 1997: 51).
Questa contrapposizione chiaramente nietzscheana, che
sottolinea la componente ctonia, irrazionale e demoniaca della vita e avvicina
Thomas Mann alla letteratura conservatrice, a Hofmannsthal, Spengler, Ernst
Jünger, rimane presente anche nella sua opera successiva, ma è stemperata e
purificata delle sue asprezze antiumanistiche, antidemocratiche e
antipolitiche. Già in Sulla repubblica tedesca (Von Deutscher
Republik, 1922), e poi con maggiore risolutezza in La Germania e i
tedeschi (Deutschland und die Deutschen, 1945), paventando di avere
fornito armi all’oscurantismo, Thomas Mann fa un passo indietro rispetto alla Weltanschauung
metafisico-individualistica e si orienta decisamente verso una considerazione
più responsabile della politica. Dichiara però di avere cambiato pensieri, ma
non il proprio sentire, e nemmeno la sua passione per Nietzsche, di cui avverte
ora tutta l’esplosiva pericolosità.
Nietzsche era per Thomas Mann un pensatore che aveva
vissuto la filosofia non come «fredda astrazione» ma come «esperienza,
sofferenza, sacrificio per l’umanità», e in questo modo aveva sentito e
preavvertito il nuovo. La sua figura tragica, amletica, gli appariva
«circondata dal fiammeggiare dei lampi di un mondo che si rinnova» (Th. Mann, 1980:
104), ed egli si servì della diagnosi nietzscheana del nichilismo per mettere a
fuoco la propria rappresentazione della crisi. Ma, preoccupato com’era di
riesumare i tanto calpestati valori della tradizione umanistica, finì
inevitabilmente per considerare il nichilismo estetico nietzscheano con la sua
esaltazione romantica del male e la sua distruzione della morale come una
pericolosa fantasmagoria. Rispetto alle forze demoniache che Nietzsche evocava,
rispetto alla lotta da lui scatenata dell’istinto contro la ragione, Thomas
Mann dichiarava:
Chi prende
sul serio Nietzsche, chi lo prende alla lettera e gli crede, è perduto (Th.
Mann, 1968: III, 46; cfr. 1980: 100).
Nondimeno, pur mantenendo le distanze da lui e
soprattutto dai «diecimila professori dell’irrazionale che, alla sua ombra,
sono spuntati come funghi in tutta la Germania» (Th. Mann, 1980: 102), egli
riconosceva che Nietzsche aveva visto giusto quando aveva indicato nella
discrasia tra il dionisiaco e l’apollineo, tra l’istinto e la ragione, tra la
vita e lo spirito, la scaturigine delle malattie della civiltà. Andando oltre
Nietzsche, cioè oltre il «tragico fato» che egli aveva rappresentato, si
trattava di ricostruire la ragione su nuove basi e di conquistare un nuovo e
più profondo concetto di humanitas, capace di soddisfare le esigenze
della vita cui Nietzsche aveva dato la stura.
Meno appariscente e più silenziosa, ma non meno
importante, è la ricezione del nichilismo nietzscheano in Robert Musil. Al pari
di molti altri scrittori della sua generazione, Musil lesse Nietzsche
giovanissimo, a diciotto anni. In L’uomo tedesco come sintomo (Der
deutsche Mensch als Symptom, 1923) dichiara egli stesso che Nietzsche era
stato, assieme a Marx, Bergson, Bismarck, tra le figure che più avevano influito
sulla formazione dell’anima tedesca dal 1890 ai propri giorni (Musil, 1978:
1355). E questa dichiarazione va intesa nel senso forte che risulta da un’altra
sua affermazione di pochi anni prima (1918):
Kant può
essere vero o falso. Epicuro o Nietzsche non sono né veri né falsi, ma sono
vivi o morti (Musil, 1986: 67).
Tuttavia, diversamente da quanto accadde in molti
altri scrittori della sua generazione, lo sfruttamento musiliano di Nietzsche
non è ostentato, non si fa forte di tesi e proclami, ma procede latente ed è
sempre accompagnato da una vigile attenzione per i pericoli del nietzscheanismo
epigonale. Contro il quale egli lancia volentieri gli strali della sua sottile
ironia, come nel caso di Spengler, criticato nelle sue «note per i lettori scampati
al tramonto dell’Occidente» intitolate Spirito ed esperienza (Geist
und Erfahrung, 1921), o in quello delle storie universali della decadenza
prese di mira nell’Europa abbandonata a se stessa (Das hilflose
Europa, 1922). Ciò non impedisce a Musil di fare nel suo capolavoro
abbondanti riferimenti a Nietzsche – basti, per tutti, l’esempio di Clarissa
con il suo dichiarato entusiasmo per le opere del filosofo scrittore – ma anche
di elaborare, nelle modalità proprie del romanzo, motivi nietzscheani come
l’analisi della decadenza e delle sue manifestazioni, la critica della morale e
dei valori tradizionali, il prospettivismo, l’estetismo, la genialità e le
patologie della creatività artistica, infine il superamento del nichilismo
mediante l’esistenza sperimentale dell’artista.
Ancora più netto, nella storia della fortuna di
Nietzsche, è il caso di Hermann Broch. La sua produzione letteraria,
notoriamente alimentata da una articolata riflessione filosofica sulla
«disgregazione dei valori» (Zerfall der Werte), è impensabile senza la
teorizzazione nietzscheana del nichilismo. Pur prendendone nettamente le
distanze, Broch riconosce che Nietzsche ha ragione nell’assumere la decadenza
dei valori come chiave di volta per capire la crisi contemporanea. Gli rimprovera
però di avere semplicemente capovolto, con la sua «scepsi gnoseologica», i
vecchi valori e di non avere saputo crearne di nuovi. Nietzsche sarebbe rimasto
entro un orizzonte «isomorfo» rispetto a quello tradizionale, cioè non sarebbe
veramente uscito dalla prospettiva dei valori che intende criticare e li
avrebbe semplicemente riproposti in forma rovesciata. Influenzato dal
neokantismo, nel saggio Ethik (1914) scritto prendendo spunto dal libro
su Kant di Houston Stewart Chamberlain, Broch asserisce per contro che il Kant
della ragione pratica, con la sua «scepsi eroica» demolitrice degli edifici del
dogmatismo, avrebbe aperto un «nichilismo ben più profondo» e operato un
«rovesciamento dei valori ben più radicale» di Nietzsche. Con la sua
determinazione della libertà egli avrebbe dato corso «alla scepsi più potente
di tutti i tempi» (Broch, 1977: X/1, 246-47). Ma la ragione più profonda per la
quale Broch si allontana definitivamente da Nietzsche è il primato dell’etica
sull’estetica che egli intende affermare, modificando contestualmente anche la
funzione dell’arte: in Nietzsche essa è funzione della vita nichilisticamente
concepita come pura volontà di potenza, in lui diventa invece espressione e
apertura di verità. Mentre per Nietzsche la «verità», se mai di verità è lecito
parlare, è quella «specie di errore», quella finzione necessaria come strategia
di sopravvivenza nel mezzo del divenire e del suo eterno ritornare, per Broch
essa si situa piuttosto nell’atemporalità propria dell’«immagine originaria» (Urbild)
che la creazione artistica ha il compito di far risplendere.
Chi invece assunse verso il «modello Nietzsche» un
atteggiamento di ammirazione ed emulazione pressoché incondizionate è Gottfried
Benn. Già nel 1935, in una lettera all’amico Oelze del 16 settembre, scriveva:
Nietzsche è
stato grande, nulla di più grande ha visto questo secolo. Ed esso non è stato
più grande di Nietzsche, che lo ha abbracciato tutto e ha coinciso con esso. È
il Reno – o il Nilo, in questo momento non lo so di preciso –, il vecchio
barbuto su cui tutto brulica, la figura sdraiata da cui si dipartono le varie
specie: questo è stato Nietzsche per noi tutti, senza eccezione (Benn, 1977-80:
I, 71).
Dopo la guerra, nella conferenza radiofonica Nietzsche
cinquant’anni dopo, che sta agli antipodi di quella del 1947 di Thomas
Mann, Benn ribadiva senza esitazioni il suo giudizio. E lo faceva senza troppo
curarsi della «pericolosità politica» di Nietzsche che in clima di
«rieducazione» (Umerziehung) molti si affrettavano a denunciare. Non
tanto perché Nietzsche stesso, con lungimiranza, l’aveva parata dicendo che
avrebbe voluto erigere steccati intorno ai propri pensieri affinché «porci ed
esaltati» non irrompessero nei suoi giardini. Ma soprattutto perché Nietzsche
rimaneva per Benn, nonostante tutto, «la gigantesca figura dominante dell’epoca
post-goethiana» e «dopo Lutero il più grande genio della lingua tedesca», colui
che aveva sofferto e anticipato tutte le esperienze spirituali decisive dei
tempi moderni, prima fra tutte quella del nichilismo e del suo superamento
mediante l’arte (Benn, 1992: 254-55). Nell’autobiografia del 1949 dichiara:
In verità
tutto ciò che la mia generazione discusse, tutto ciò con cui interiormente si
confrontò, si potrebbe dire: che patì, o anche: che discusse in lungo e in
largo – tutto questo si era già espresso ed esaurito e aveva trovato una
formulazione definitiva in Nietzsche. Tutto il resto fu esegesi (Benn, 1986-91:
V, 160).
L’esperienza decisiva anticipata da Nietzsche è quella
del nichilismo e del nuovo tipo d’uomo in grado di reggere alle ondate del
nulla.
Nietzsche
(...) inaugurò «il quarto uomo» del quale adesso tanto si parla, l’uomo con la
«perdita del centro», di un centro che romanticamente si cerca di risvegliare.
L’uomo senza contenuto morale e filosofico che vive per i princìpi della forma
e dell’espressione. È un errore ritenere che l’uomo abbia ancora un contenuto o
debba averne uno (...) non esiste anzi più affatto l’uomo, esistono ormai
soltanto i suoi sintomi (Benn, 1992: 264).
Nella prospettiva delle frantumazioni prodotte dal
nichilismo Benn cerca di spiegare anche lo stile aforistico di Nietzsche:
Adesso
capisco – comunica a Oelze il 27 dicembre 1949 – perché Nietzsche scriveva per aforismi.
Chi non vede più connessioni, più alcuna traccia di un sistema, può ancora
procedere solo per episodi (Benn, 1990: 81).
È una congettura, questa, tutta da verificare: perché
dire che la verità non può stare nel frammento significa indirettamente
presupporre che il discorso prolisso la contenga tutta. Ma ciò che qui importa
è che al disorientamento e al vuoto causati dal nichilismo Benn reagisce, sulle
tracce di Nietzsche, con la forza della creatività artistica, con la metafisica
dell’espressione e della forma. L’arte è l’atteggiamento capace di
corrispondere all’impulso della forza dionisiaca della vita, di esprimerne il
perenne fluire e l’ineludibile prospetticità. Questo perché l’arte produce la
forma, cioè lo scorcio creativo che penetra la realtà del divenire meglio di
quanto possa fare il concetto metafisico di verità. Nell’ottica dell’artista il
destino del nichilismo – più che «sopportato virilmente» come voleva Weber – va
vissuto fruendone e godendone: «Il nichilismo è un sentimento di felicità»
(Benn, 1986-91: IV, 185). In una età «in cui non lo spirito di Dio aleggia
sulle acque, bensì il nichilismo» vale quindi per Benn la tesi di Nietzsche
«che l’arte è l’unica attività metafisica alla quale la vita ci obblighi
ancora» (Benn, 1992: 155). Questo motivo centrale, che Benn riprende quasi alla
lettera dal frammento 853 della Volontà di potenza, lo si ritrova più
volte nei suoi scritti, toccato e svolto in variazioni diverse. Esso ha il suo
corrispettivo speculare nell’altra tesi nietzscheana, anch’essa fatta propria
da Benn, secondo la quale il mondo si giustifica soltanto come «fenomeno
estetico». Ciò dà corpo a un estetismo che Benn fonde con un altro
motivo-pilastro del suo pensiero, quello dell’isolamento monologico e della
radicale estraneazione dell’io dal mondo. In Cervelli (Gehirne,
1915) ne troviamo l’espressione letteraria più bruciante e nella poesia Due
cose soltanto (Nur zwei Dinge), che sono «il vuoto e l’io che ne
resta segnato», ne abbiamo invece il condensato più intenso, una sorta di
suggello che nel 1956 Benn porrà sulla sua opera.
Ma dal momento che l’identificazione con il «modello
Nietzsche» non è in Benn affatto epigonale, bensì produttiva, si hanno
inevitabilmente anche la trasformazione e la distanza. Per Benn, ad esempio, la
«forza ctonia» della vita non vuole solo conservarsi e accrescersi come in
Nietzsche, ma anche perire. Vita e morte, eros e thanatos, sono
indissolubilmente congiunte. Per questo Benn ritiene che l’arte non si
esaurisca nell’essere una semplice funzione della vita, ma debba giungere a
riscattare la vita cristallizzandola in forme statiche. Di qui il suo approdo a
una «metafisica statica» dell’essere che lo distacca dalla nietzscheana
esaltazione del divenire. Un esperimento estetico-metafisico, questo, che
vorrebbe proiettarsi oltre il nichilismo. Certo è che, al di là di quese sue
aspirazioni post-nichilistiche, Benn rimane – assieme a Jünger, Heidegger e
Carl Schmitt – tra coloro che hanno sperimentato a fondo il destino
nichilistico del Novecento e che hanno tentato di aprire vie e prospettive per
uscirne.
Il nichilismo europeo nella storia dell’essere:
Heidegger e Nietzsche
«Guardo
talvolta la mia mano, pensando che ho in mano il destino dell’umanità: lo
spezzo invisibilmente in due parti, prima di me, dopo di me...» (VIII, iii,
409).
Queste parole di esaltazione, vergate da Nietzsche
poco prima della crisi finale in un frammento del 1888, emanano una singolare
fosforescenza: una luce che attrae ma che non basta a illuminare. Al contrario,
sono parole che, poste quasi a suggello della sua opera, la oscurano con lo
schermo del narcisismo e della follia. Chi voglia penetrarne il senso non può
esimersi da un arduo lavoro di interpretazione e di confronto, altrimenti non
resta che liquidarle imputandole all’insondabilità dell’obnubilamento mentale.
Il frammento successivo – secondo l’ordine cronologico
stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, che qui si rivela prezioso –
insiste sul medesimo motivo e lo svolge in una inquietante sequenza che,
pressoché immutata, forma l’esordio del celebre capitolo «Perché io sono un
destino» di Ecce homo:
Conosco la
mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme –
una crisi quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione di
coscienze, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato
creduto, preteso, consacrato... Io vengo a contraddire, come mai si è
contraddetto... Perché ora che la verità dà battaglia alla millenaria menzogna,
avremo degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti, monti e valli che si
spostano, come mai prima si era sognato... ci sarà guerra come mai prima sulla
terra... (VI, iii, 375-76; cfr. VIII, iii, 409-10).
Questo monologo ossessivo, in cui Nietzsche eleva la
sua visione a profezia, ci mette letteralmente davanti agli occhi lo scandalo
che il suo pensiero ha rappresentato per l’autocomprensione critica del nostro
tempo. Nietzsche ha toccato punti nevralgici della nostra condizione storica:
la morte di Dio e lo svanire dei valori tradizionali, la perdita del centro e
il frantumarsi di antiche identità, la radicale esperienza del negativo e
l’impraticabilità di ogni sintesi dialettica, quindi l’impossibilità di dare un
nome all’intero. Ma nel contempo ha trasmesso al suo discorso una vibrazione
così stridula ed estrema da rendere difficile, se non impossibile, interpretare
il disperato messaggio che egli intendeva trasmettere.
Fra tutti coloro che nel Novecento si sono cimentati
con Nietzsche, Heidegger è certamente colui che, oltre ad averne subito come
pochi il fascino, ha ingaggiato nel corso del proprio cammino speculativo il
confronto filosofico più serrato e profondo con i problemi che l’opera
nietzscheana solleva. I risultati da lui raggiunti giganteggiano nel panorama
delle interpretazioni succedutesi nel Novecento. In una magistrale e imponente
interrogazione dei testi egli è riuscito a tracciare i contorni di una lettura
che connette in un insieme coerente le dottrine fondamentali di Nietzsche e le
riporta nell’alveo della filosofia occidentale. E lo fa assegnando loro una
funzione di invisibile spartiacque – tra compimento della metafisica e nuovo
inizio – che Nietzsche stesso, nel frammento dianzi citato, si era
profeticamente assegnato. Al tempo stesso Nietzsche è diventato per Heidegger
un termine di confronto decisivo in merito alla «cosa stessa» che nel pensiero
è in questione. Ma quando, come e perché Heidegger ha incrociato sul suo
cammino Nietzsche?
Heidegger e Nietzsche: Il primo interesse di Heidegger per Nietzsche
Stando alla testimonianza autobiografica fornita da
Heidegger in diverse circostanze – nel discorso tenuto in occasione della sua
nomina a membro dell’Accademia delle Scienze di Heidelberg (1957), nella
prefazione alla riedizione dei suoi scritti giovanili (1972), che riprende la
sostanza di quel discorso, quindi in Il mio cammino nella fenomenologia (Mein
Weg in die Phänomenologie, 1963) – ciò avvenne assai presto, anche se
l’incontro non fu subito decisivo.
Formatosi sugli arcigni paragrafi di Husserl, su
Brentano, su Aristotele e sui classici della Scolastica, specialmente Tommaso
d’Aquino, Duns Scoto e Suárez, egli ricorda di essere stato sfiorato in
gioventù dall’aura che l’opera di Nietzsche emanava nella cultura
primonovecentesca. E menziona tra gli eventi significativi che ravvivarono
l’atmosfera filosofica in Germania agli inizi del secolo, all’epoca della
propria formazione – oltre alla traduzione in tedesco di Kierkegaard e
Dostoevskij (quest’ultima a cura di Arthur Moeller van den Bruck e Dmitri Merežkovskij),
oltre al crescente interesse per Hegel e Schelling, all’edizione delle opere
complete di Dilthey, alla poesia di Rilke e di Trakl – soprattutto la
pubblicazione dei frammenti postumi di Nietzsche nella controversa compilazione
della sorella, La volontà di potenza (Der Wille zur Macht),
apparsa dapprima nel 1901, in una seconda edizione più che raddoppiata nel
1906, infine con gli apparati di Otto Weiß nel 1911 (cfr. HGA, I, 56). Sappiamo
inoltre che durante gli studi universitari a Friburgo Heidegger frequentò le
lezioni su Nietzsche di Rickert, eminente neokantiano interessato a lumeggiare
l’origine del problema filosofico dei valori nel pensiero nietzscheano. Nella
tesi di libera docenza La dottrina delle categorie e del significato in Duns
Scoto (Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, 1916),
dedicata a Rickert, troviamo la prima fugace citazione pubblica. In essa
Heidegger afferma che Nietzsche sarebbe riuscito, «nel suo modo di pensare
impietosamente aspro e nella sua plastica capacità espositiva», a mostrare il
radicamento soggettivo di ogni filosofia – intesa come un «valore culturale» (Kulturwert)
che è al tempo stesso un «valore vitale» (Lebenswert) – in una
personalità, più precisamente in quello che Nietzsche chiama l’«istinto che fa
filosofia» (HGA, I, 196). Sappiamo infine, sulla scorta dei corsi universitari,
che Nietzsche fu certamente presente sullo sfondo del lavoro filosofico del
giovane Heidegger, se non altro perché a Nietzsche risale l’impianto di alcune
posizioni filosofiche allora dominanti con le quali Heidegger si confronta,
prime fra tutte la filosofia della vita (Simmel, Dilthey, Spengler) e la
filosofia dei valori (Rickert e più tardi Scheler). Tuttavia, per trovare un
primo riferimento significativo a Nietzsche bisogna attendere Essere e tempo.
Fino ad allora, a giudicare dalle occorrenze sparse che si possono
rintracciare, si ha l’impressione di una presenza più avvertita che
effettivamente sondata, si percepisce l’atmosfera della crisi evocata da
Nietzsche, che anche Heidegger respira e che condiziona il pathos del
suo filosofare, ma non si nota ancora il riferimento preciso al corpus
dei testi e dei frammenti nietzscheani.
Si è visto come la ricezione dell’opera di Nietzsche
contribuisse a caratterizzare il clima dell’epoca, con il suo nichilismo e
relativismo, il suo disincanto e il suo Kulturpessimismus. I problemi
apertisi nel «dopo Nietzsche» dovevano inevitabilmente incrociare la
riflessione del giovane Heidegger che – mosso da esigenze filosofiche autentiche,
soprattutto dallo studio dell’esperienza protocristiana dell’esistenza e dal
confronto con la filosofia pratica di Aristotele – si preoccupava di elaborare
una comprensione genuina della vita umana al suo livello originario. I
programmi filosofici di una «scienza preteoretica originaria» (vortheoretische
Urwissenschaft) o «scienza preliminare» (Vorwissenschaft) nel
semestre del dopoguerra del 1919, quello di una «ermeneutica della fatticità» (Hermeneutik
der Faktizität) nel semestre estivo del 1923, poi l’«analitica
dell’esistenza» (Daseinsanalyse) in Essere e tempo, infine la
«metafisica dell’esserci» (Metaphysik des Daseins) nel libro su Kant del
1929, cioè le prime tappe del suo cammino speculativo, altro non sono che
altrettanti tentativi di soddisfare questa esigenza.
Heidegger e Nietzsche: La comparsa
di Nietzsche in «Essere e tempo»
Bisogna tuttavia attendere Essere e tempo (Sein
und Zeit, 1927) per trovare una esplicita citazione di Nietzsche. Tre sono
le volte in cui è nominato, ma una in particolare è importante. Verso la fine
della parte pubblicata dell’opera, nel contesto della trattazione del problema
della storicità dell’esserci (par. 76), Heidegger si richiama alla seconda
delle Unzeitgemäße Betrachtungen (Considerazioni inattuali)
rievocando la triplice pratica della storia che vi è teorizzata: monumentale,
antiquaria e critica. Qui, finalmente, Nietzsche è menzionato in un punto e per
una questione decisivi. Ma in termini che appaiono altalenanti e ambivalenti:
Heidegger alterna approvazione e rifiuto, valutazione positiva e reticenza.
Mediante la sua triplice articolazione dell’esperienza
storiografica Nietzsche avrebbe colto l’aspetto essenziale della storiografia,
i suoi vantaggi e svantaggi per la vita, illustrandoli in modo ficcante e
persuasivo. Subito dopo Heidegger corregge però l’elogio: né la necessità della
triplice articolazione dell’esperienza storiografica né il fondamento della sua
unità sarebbero stati individuati e mostrati da Nietzsche in termini
sufficienti. Come egli spiega, con una tesi significativamente posta in
corsivo, Nietzsche non avrebbe visto che «la triplicità della storiografia è
prefigurata nella storicità dell’esserci». Ma dopo un paio di righe,
daccapo, il giudizio limitativo è ridimensionato: benché a un esame filosofico
non risulti abbastanza radicale, la suddivisione di Nietzsche non è
accidentale. Essa ha le proprie buone ragioni di essere che derivano dalla cosa
stessa in questione, ossia dalla struttura della storicità dell’esistenza
umana. Dunque, in fondo, Nietzsche ha intuito e colto il problema. Anzi,
Heidegger azzarda l’impegnativa attribuzione a Nietzsche di un’ermeneutica
della reticenza: l’inizio della seconda Considerazione inattuale fa
supporre che Nietzsche abbia compreso molto più di quanto abbia detto.
A questo punto Heidegger conclude la digressione su
Nietzsche e riprende l’analisi della storicità facendo proprie le tre
determinazioni nietzscheane della monumentalità, antiquarità e criticità
secondo la tipica strategia appropriativa che contraddistingue il suo modo di
fare i conti con pensatori del passato per lui importanti, cioè mirando non
alla ricostruzione storiografica della loro filosofia, bensì a cogliere la
logica dei problemi da loro individuati e a sollecitarne una formulazione più
radicale ai fini del proprio progetto filosofico. Una strategia praticata fino
ad allora soprattutto nei confronti di Aristotele e di Kant, e che per forza di
cose risulta ambivalente: perché l’appropriazione implica l’assunzione e
l’assimilazione, ma anche lo scarto e la trasformazione.
Heidegger e Nietzsche: Il punto di svolta
Malgrado tale sforzo appropriativo, all’epoca di Essere
e tempo Nietzsche non è ancora un pensatore decisivo. Ma lo diventerà ben
presto. È Heidegger stesso a indicare quando. Nel presentare i suoi due volumi
su Nietzsche egli asserisce che quest’opera, comprendente testi
concepiti tra il 1936 e il 1946, offre un’idea del cammino da lui percorso dal
1930 al 1947: Heidegger indica così indirettamente che già agli inizi degli
anni Trenta Nietzsche era diventato un termine di confronto fondamentale per il
suo pensiero. Oggi, sulla scorta dei testi pubblicati nella Gesamtausgabe,
possiamo individuare ancora più precisamente il punto di svolta, situabile nel
corso universitario del 1929-30. Qui Nietzsche compare in due punti
significativi: una prima volta, quando un’intera lezione è impiegata per
mostrare come le critiche della civiltà di Spengler, Klages, Scheler e Ziegler
dipendano nel loro impianto filosofico da Nietzsche, e precisamente
dall’antitesi tra apollineo e dionisiaco che tutti costoro tacitamente
riprendono in declinazioni ogni volta diverse, utilizzandola come categoria di filosofia
della storia per una critica del presente (HGA, XXIX-XXX, par. 18). Nietzsche
compare poi un’altra volta alla fine del corso, quando Heidegger chiude in
bellezza le sue lezioni recitando il «trunknes Lied» dello Zarathustra.
Queste due menzioni sono segnali inconfondibili
dell’incipiente avvicinamento a Nietzsche, che avviene mentre Heidegger sta
progressivamente radicalizzando il distacco dalla tradizione metafisica e trova
nel pensiero nietzscheano, e nella sua attitudine decostruttiva, un termine di
confronto decisivo. Proprio all’inizio del corso del 1929-30 Heidegger mette in
chiaro la struttura onto-teo-logica della metafisica – illustrata anche nel
libro su Kant del 1929 – e matura una consapevolezza sempre più lucida circa il
carattere ancora troppo metafisico dell’«ontologia fondamentale» di Essere e
tempo. Di conseguenza, quanto più egli lascia cadere gli intenti fondativi
perseguiti fino ad allora, tanto più cambiano i punti di riferimento da lui
scelti nella storia della filosofia occidentale. Fino a quel momento si era
dedicato al confronto con pensatori fondanti – specie Aristotele e Kant, ma
anche Descartes e Leibniz – cercando, mediante la distruzione fenomenologica,
di appropriarsi di ciò che essi insegnano ai fini di una costruzione più
radicale. Quando invece matura l’idea che la metafisica può essere superata
solo lasciandola a se stessa, senza più voler cambiare niente di essa, si
rivolge allora soprattutto alle figure del compimento della metafisica: cioè
Nietzsche e i pensatori che rappresentano una alternativa, vuoi pre-metafisica
(i Presocratici), vuoi post-metafisica (Hölderlin).
L’emergere di Nietzsche come pensatore decisivo ha
dunque una sua precisa ragione filosofica. Il celebre saggio La dottrina
platonica della verità (Platons Lehre von der Wahrheit, concepito
agli inizi degli anni Trenta, ma pubblicato solo nel 1942), la esibisce con
chiarezza: Nietzsche vi è nominato come colui che porta a compimento la
tradizione metafisica iniziatasi con Platone, in quanto, pur rovesciando il
platonismo, ossia la dottrina dei due mondi, quello intelligibile postulato
come mondo vero e quello sensibile considerato invece solo apparente, egli
rimane entro l’orizzonte di pensiero che pretende di rovesciare, e per questo è
definito «il platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale»
(Heidegger, 1987: 182).
Heidegger e Nietzsche: Nietzsche nel 1933
Una terza menzione – dopo quella nella tesi di libera
docenza e quella in Essere e tempo – conferma che Nietzsche era ormai
diventato per Heidegger un riferimento costante. Essa si trova nel famigerato
discorso su L’autoaffermazione dell’università tedesca (Die
Selbstbehauptung der deutschen Universität), tenuto il 27 maggio 1933 in occasione
dell’assunzione del rettorato. Heidegger vi menziona per inciso la sentenza
nietzscheana sulla morte di Dio. L’importanza dell’occasione e il fatto che sia
nominata un’esperienza centrale come quella della negatività, di cui Heidegger
intende farsi carico in termini filosofici, rendono l’accenno, per quanto
incidentale, assai significativo. Al fine di conferire intelligibilità al
«grande mutamento» che «la nostra stessa esistenza storica più propria si trova
dinanzi» Heidegger evoca la testimonianza di Nietzsche, chiamandolo in causa
come l’«ultimo filosofo tedesco che ha cercato appassionatamente Dio» – quel
Dio che per Heidegger è presente più intensamente laddove è vissuto come un
interrogativo e un problema, che non laddove si sia trasformato in certezza – e
che tuttavia nella sua diagnosi dell’età presente è giunto alla raggelante
conclusione che «Dio è morto». Una tesi da prendere come invito a riflettere su
«questo abbandono dell’uomo odierno in mezzo all’ente» (Heidegger, 1933: 12).
Sappiamo con quanta insistenza Heidegger abbia
sottolineato la centralità di questo motivo in Nietzsche, e non solo nel
celebre brano n. 125 della Gaia Scienza, «L’uomo folle», in cui la morte
di Dio diventa esplicitamente la figura che simboleggia il tramonto dei valori
finora supremi. Ciò che qui interessa è il fatto che Heidegger menzioni la
morte di Dio come la riprova dell’abbandono dell’uomo odierno in mezzo
all’ente. Egli comincia dunque a «pensare in parallelo» con Nietzsche: legge il
motivo nietzscheano (la «morte di Dio») alla luce del proprio (l’«abbandono
dell’uomo in mezzo all’ente») e, viceversa, elabora e corrobora questo sulla
scorta di quello. Nietzsche diventa una sorta di filo conduttore e di termine
di confronto per pensare in maniera radicale la negatività che inerisce
all’essere.
Il problema, come è noto, era già emerso nella
prolusione Che cos’è metafisica? (Was ist Metaphysik?, 1929). Si
accennava in essa all’impossibilità di esperire il Niente attraverso la
semplice negazione logica dell’ente, e si affermava per contro l’esigenza di
averne una esperienza più originaria di quella a cui si accede mediante la
predicazione logica – che per Heidegger, contro Hegel, è solo un pallido
riflesso dell’immane potenza del nulla. Tale esperienza era individuata nello
stato d’animo fondamentale dell’angoscia. Analogamente, nella conferenza Dell’essenza
della verità (Vom Wesen der Wahrheit, concepita nel 1930 ma
pubblicata nel 1943) la «verità» dell’essere era pensata insieme alla «non
verità» quale sua componente essenziale. Allo stesso modo l’«essenza» (Wesen)
era pensata come includente la «non essenza» o «malaessenza» (Unwesen).
Per inciso: è per abbracciare meglio l’intero movimento speculativo nella sua
duplicità che, più o meno negli stessi anni, Heidegger inclina a un
significativo spostamento terminologico: la questione del senso
dell’essere, così recita l’impostazione del problema in Essere e tempo,
è tacitamente riformulata come questione della verità dell’essere, in
quanto quest’ultima, proprio se pensata come A-létheia e Un-verborgenheit,
implica il riferimento al negativo.
Il problema della negatività giunge così ad occupare
una posizione sempre più importante nelle riflessioni di Heidegger. Per
metterlo in chiaro, bisognerebbe considerare i reiterati tentativi che egli
intraprende per pensare l’essere nel suo sottrarsi e rifiutarsi, ed esaminare
la centralità delle determinazioni Entzug e Verweigerung che
vengono introdotte nel tentativo di tematizzare la struttura dell’essere. Ma
ciò che qui interessa sono i pensatori con cui Heidegger si confronta: Hegel
appare come il modello da tenere a distanza, in quanto la negatività non
sarebbe da lui pensata in modo sufficientemente radicale e verrebbe quindi
superata troppo rapidamente (per esempio all’inizio della Logica con il
trapasso di essere e nulla nel divenire). Per alcuni anni, e a più riprese,
Heidegger interpreta Schelling e il suo tentativo di concepire il «male» non
come una obiezione nei confronti di Dio ma come una sua componente essenziale,
e questo – come egli stesso scrive a Jaspers – «affannandomi in un lavoro
faticoso come quello su Aristotele di quindici anni or sono»
(Heidegger-Jaspers, 1990: 161). Ma è soprattutto Nietzsche l’amico-nemico con
il quale ingaggiare un confronto ravvicinato sul problema: specialmente con lo Zarathustra
e con la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale (si vedano nel Nietzsche
le magistrali interpretazioni de «La visione e l’enigma» e «Il convalescente»)
egli si sforza di pensare l’esperienza della negatività attenendosi al punto di
vista di una finitudine radicale.
Heidegger e Nietzsche: Concomitanze: Heidegger, Scheler e l’Archivio-Nietzsche
Ora, a parte queste e altre ragioni filosofiche di
principio, se si dovesse indagare su quali circostanze concomitanti fossero
importanti per il volgersi di Heidegger a Nietzsche, ebbene, quella
probabilmente più interessante, anche se finora non considerata, è l’intenso
rapporto di Heidegger con Scheler negli anni 1927 e 1928, interrotto dalla
morte di quest’ultimo (19 maggio 1928). Il commosso necrologio che Heidegger
pronuncia a lezione, e nel quale Scheler è ricordato come colui che, assieme a
Dilthey e a Max Weber, aveva lucidamente anticipato ciò che si stava profilando
all’orizzonte dell’epoca, riverbera l’intensità del sodalizio filosofico tra i
due (cfr. HGA, XXVI, par. 2). Quello con Scheler fu per Heidegger un dialogo
stimolante e produttivo sotto più di un aspetto. Anzitutto per il progetto di
una comprensione filosofica del problema dell’uomo, che Scheler affrontava nei
termini di una «antropologia filosofica», Heidegger invece in quelli di una
«metafisica dell’esserci». La dedica a Scheler del libro su Kant del 1929, in
cui compare quest’ultima designazione, è un’eloquente testimonianza di ciò. Ma
il dialogo con Scheler fu importante anche per il maturare in Heidegger di
un’attenzione specifica verso il problema della tecnica che, come è noto,
diventerà per lui capitale. Infine – ed è ciò che qui interessa – soprattutto
per la scoperta e lo sfruttamento filosofico di Nietzsche, che Scheler aveva
brillantemente promosso, tanto da meritarsi l’appellativo di «Nietzsche
cristiano» (E. Troeltsch). Alla luce di questa circostanza non è un caso che
quando, già nel 1932, Heidegger entrò nel comitato per l’edizione delle opere
complete di Scheler – diretto da Richard Oehler e comprendente, fra gli altri,
Nicolai Hartmann, Walter F. Otto e Adhémar Gelb – egli manifestasse
l’intenzione di trasferire il lascito scheleriano presso l’Archivio-Nietzsche
di Weimar.
I rapporti di Heidegger con l’Archivio-Nietzsche, e il
suo coinvolgimento nel progetto di una riedizione dei frammenti postumi della Volontà
di potenza, sono l’altra importante circostanza che va tenuta presente. Già
alla fine degli anni Venti Heidegger aveva avuto qualche contatto con
l’Archivio, anche per via dell’edizione delle opere di Scheler, il cui
direttore, Richard Oehler (1878-1948), parente di Nietzsche, era
contemporaneamente uno dei principali collaboratori di Elisabeth
Förster-Nietzsche e dell’Archivio di Weimar. La prima visita di Heidegger
all’Archivio ebbe luogo nel maggio del 1934 per una circostanza casuale, cioè
per il fatto che Carl August Emge, docente di filosofia del diritto nella
vicina Jena e presidente del comitato scientifico dell’edizione storico-critica
delle opere e delle lettere di Nietzsche pubblicata dall’editore Beck, aveva
convocato presso l’Archivio di Weimar, dal 3 al 5 maggio 1934, la riunione del
comitato di filosofia del diritto dell’Akademie für Deutsches Recht di cui
Heidegger era membro. In quell’occasione Heidegger fu ricevuto a Weimar da
Elisabeth, visitò l’Archivio e prese visione dei manoscritti.
Dopo la morte di Elisabeth (8 novembre 1935) Emge –
fallito il suo tentativo di contrastare l’influenza dei parenti di Nietzsche,
cioè degli Oehler, nella direzione dell’Archivio annettendolo all’Accademia
delle Scienze prussiana – si dimise sia dal direttivo sia dal comitato
scientifico. Fu seguito in questa decisione da Spengler che già il 22 settembre
aveva comunicato alla sorella le proprie dimissioni dal direttivo e che, con
Emge, uscì anche dal comitato scientifico. A rimpiazzare queste defezioni fu
eletto nel direttivo Walter F. Otto, già membro del comitato scientifico dal
1933. Questi, a sua volta, fece eleggere Heidegger nel comitato scientifico.
Heidegger rimase in carica fino al 26 dicembre 1942, data in cui comunicò al
presidente Richard Leutheußer le proprie dimissioni con la seguente lettera,
oggi esposta nelle vetrine del restaurato Archivio-Nietzsche di Villa
Silberblick a Weimar:
Egregio
signor Ministro,
dichiaro
con la presente la mia uscita dal comitato scientifico per l’edizione delle
opere di Friedrich Nietzsche.
I miei
lavori preliminari, durati anni, per la nuova edizione della Volontà di
potenza sono stati portati a termine.
I volumi
inviatimi dell’edizione finora pubblicata sono a disposizione dell’Archivio.
La prego
personalmente, signor Ministro, di voler scusare questo passo resosi
oggettivamente necessario.
Al tempo
stesso La prego di voler rendere nota la mia uscita ai signori del comitato.
Rimango,
signor Ministro, con esimia stima
il Suo
devotissimo
[firmato:]
M. Heidegger.
L’attività principale di Heidegger – come si ricava
dalla lettera – avrebbe dovuto consistere nella preparazione di una nuova
edizione della Volontà di potenza, che proprio Walter F. Otto, in una
riunione del 5 dicembre 1934, aveva auspicato come «straordinariamente
importante ma altrettanto difficile» in quanto avrebbe dovuto «presentare per
la prima volta i frammenti stesi nel contesto della Volontà di potenza
senza interventi redazionali, esattamente così come si trovano nei quaderni
manoscritti, difficilissimi da leggere e che vanno ora decifrati di nuovo»
(Hoffmann, 1991: 105).
È difficile stabilire in quale misura Heidegger si
impegnasse nel lavoro di edizione vero e proprio, anche perché l’interesse che
lo animava era sicuramente più speculativo che filologico. Il 20 dicembre 1935
scrive per esempio a Elisabeth Blochmann:
Dovrei far
parte del comitato per la grande edizione di Nietzsche; anche in questo non
sono ancora deciso; in ogni caso collaborerei solo come consulente
(Heidegger-Blochmann, 1989: 87).
E il 16 maggio 1936 annuncia a Jaspers,
congratulandosi per il suo libro su Nietzsche, fresco di stampa:
Dall’autunno
scorso – assai di malavoglia, ma per amore della cosa stessa – sono nella
commissione per l’edizione di Nietzsche. Mi preoccuperò, secondo le mie forze,
che i Suoi desiderata non restino meri auspici (Heidegger-Jaspers, 1990:
160).
Sta di fatto che dal 1936 al 1938 Heidegger si recò a
Weimar un paio di volte l’anno per partecipare alle riunioni del comitato
scientifico, lavorò sui manoscritti e inoltrò all’Archivio diverse
interrogazioni circa la datazione precisa di alcuni frammenti (a cui rispose
Karl Schlechta, il principale curatore dell’edizione storico-critica allora in
corso). Questo, peraltro, ci consente di capire meglio perché Heidegger nei
suoi corsi universitari, in punti decisivi, entri nel merito di questioni
cronologiche e filologiche, e giudichi criticamente, con cognizione di causa,
l’edizione della Volontà di potenza. Da quanto poi egli afferma nella
lettera di dimissioni sembra che i «lavori preliminari», durati anni, fossero
stati «portati a termine».
Le ragioni per le quali Heidegger abbandonò il
progetto della nuova edizione e uscì dal comitato scientifico non risultano
dalla lettera a Leutheußer, nella quale le dimissioni sono presentate
semplicemente come «un passo resosi oggettivamente necessario». Ci si può
attenere, per ora, all’ipotesi formulata da Marion Heinz, curatrice del corso
universitario del 1937. Da un appunto manoscritto annotato da Heidegger su una
comunicazione circolare dell’Archivio-Nietzsche del 27 ottobre 1938, Marion Heinz
inferisce che la ragione delle dimissioni di Heidegger stesse
nell’atteggiamento supino dell’Archivio-Nietzsche nei confronti della
Reichschriftumskammer, l’organo che vigilava su quanto si pubblicava in
Germania. Per evitare che l’edizione di Nietzsche fosse esclusa dalle opere
sovvenzionabili, si decise – sembra contro il parere di Heidegger, che
proponeva una diversa strategia – di sottoporre i volumi, prima della
pubblicazione, all’approvazione dell’organo nazionalsocialista. Sulla
menzionata circolare Heidegger annota:
C’era da
aspettarselo; di conseguenza diventa impossibile la mia collaborazione alla
commissione per l’edizione, d’ora in poi lavorerò soltanto per l’opera di
Nietzsche – indipendentemente dall’edizione (HGA, XLIV, 253-54).
A questo si può aggiungere la testimonianza di Ernesto
Grassi, che racconta di avere fatto visita un giorno a Heidegger e di averlo
trovato molto rabbuiato. Alle sue domande circa la ragione del suo stato
d’animo, Heidegger gli avrebbe confidato: «Ho lavorato a lungo a una nuova
sistemazione degli scritti nietzscheani della Volontà di potenza, in
contrapposizione a quella lasciataci dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth
Förster: stamane ho distrutto i miei appunti» (Grassi, 1988: 26).
Heidegger e Nietzsche: I corsi universitari su Nietzsche dal 1936 al
1940
Fu ciò che in effetti avvenne. Fin dall’inizio,
comunque, l’approccio di Heidegger a Nietzsche era essenzialmente orientato al
confronto filosofico, rispetto al quale il lavoro filologico doveva servire da
supporto. L’interesse di Heidegger per Nietzsche sbocciò verso la metà degli
anni Trenta, in un periodo in cui si era acceso un significativo dibattito pro
et contra Nietzsche. Dopo le monografie di Ernst Bertram (Nietzsche.
Versuch einer Mythologie, Bondi, Berlin 1918), Ludwig Klages (Die
psychologischen Errungenschaften Nietzsches, Barth, Leipzig 1926) e Alfred
Baeumler (Nietzsche. Der Philosoph und Politiker, Reclam, Leipzig 1931),
si erano avute allora alcune interpretazioni filosofiche destinate a lasciare
il segno: anzitutto quella di un allievo di Heidegger, cioè Karl Löwith (Nietzsches
Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Die Runde, Berlin, 1935);
poi quella di Karl Jaspers (Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines
Philosophierens, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1936); e infine la serie di
seminari sullo Zarathustra tenuti a Zurigo dal 1934 al 1939 da Carl
Gustav Jung.
Proprio a Jaspers, nella già citata lettera del 16
maggio 1936, Heidegger scrive di avere annunciato per il semestre invernale
1936-37 un corso sulla Volontà di potenza e aggiunge:
Sarà la mia
prima lezione su Nietzsche. Ora che però è uscita la Sua opera non c’è bisogno
che io faccia questo tentativo; giacché l’intenzione era proprio quella che
nella prefazione Lei esprime in modo chiaro e semplice: mostrare che è tempo di
passare dal leggere Nietzsche a lavorare su di lui. Nella prossima ora di
lezione posso rimandare alla Sua opera che per di più è alla portata delle
tasche degli studenti. E per il semestre invernale sceglierò un altro corso
(Heidegger-Jaspers, 1990: 160).
In realtà, ben lungi dall’accontentarsi
dell’interpretazione di Jaspers, che anzi criticherà con decisione (Heidegger,
1994: 37 sgg.; HGA, XLVIII, 28, nota), nel semestre invernale Heidegger tenne
il primo di un’intera serie di corsi su Nietzsche nei quali sviluppa un
confronto che lo terrà impegnato per un decennio, dal 1936 al 1946, e i cui
risultati saranno raccolti nell’opera del 1961. Fu probabilmente il decennio
più drammatico nell’esistenza di Heidegger, segnato da una profonda crisi
avvenuta nel 1938, nel mezzo dell’estenuante corpo a corpo con i testi
nietzscheani e quando ormai aveva concluso la grande opera lasciata inedita, i Contributi
alla filosofia (Beiträge zur Philosophie, 1936-38), e da una nuova
crisi, dopo la fine della guerra, per la pesante situazione personale in cui si
era venuto a trovare.
La serie di corsi su Nietzsche è davvero
impressionante, se si pensa che per ben quattro anni, dal 1936-37 fino al 1940,
Heidegger tenne lezione quasi esclusivamente su Nietzsche. Una insistenza che è
indice della caparbietà con la quale egli si arrovellò sui problemi che l’opera
nietzscheana presentava, e che ha il suo pari soltanto nel tentacolare confronto
con Aristotele durante il primo insegnamento di Friburgo e nei primi anni a
Marburgo. Ripercorriamo, per chiarezza, la serie dei corsi.
1) Nel semestre invernale 1936-37 Heidegger annunciò
due ore settimanali di lezione con il titolo «Nietzsche. La volontà di
potenza». In occasione della pubblicazione del corso – nel Nietzsche del
1961 e nell’ambito della Gesamtausgabe (vol. XLIII) – tale titolo è
stato specificato in «La volontà di potenza come arte» sia perché il corso
tratta effettivamente l’ultimo capitolo del terzo libro della Volontà di
potenza, dedicato al problema dell’arte, sia per distinguerlo dal corso del
semestre estivo 1939 che tratta anch’esso della volontà di potenza, ma come
conoscenza, tema del primo capitolo del terzo libro dell’opera.
2) Nel semestre estivo 1937, al posto del corso in un
primo tempo annunciato: «La verità e la necessità della scienza», Heidegger
decise di continuare il confronto con Nietzsche e annunciò un nuovo corso di
due ore settimanali: «La posizione metafisica di fondo di Nietzsche»,
accompagnandolo con esercitazioni anch’esse su Nietzsche («Über Sein und
Schein»). Nel manoscritto, e a lezione, specificò poi il contenuto con un
sottotitolo: «L’eterno ritorno dell’uguale», divenuto nel libro del 1961
l’unico titolo, mentre nella Gesamtausgabe (vol. XLIV) sono riportati
entrambi.
3) Nel semestre estivo 1939, dunque dopo un apparente
intermezzo di due anni, segnato tra l’altro dalla ricordata crisi del 1938,
Heidegger tenne di nuovo il suo corso principale su Nietzsche. Durante i due
anni l’«assillo di Nietzsche» continuò, come comprova il fatto che nel 1938-39
Heidegger tenne una esercitazione seminariale sulla seconda Considerazione
inattuale (pubblicata in HGA, XLVI). Il corso del semestre estivo 1939, il
terzo della serie, di complessive venti lezioni, si intitolava «La dottrina
nietzscheana della volontà di potenza come conoscenza». Nel libro del 1961 sta
alla fine del primo tomo e nella Gesamtausgabe è il vol. XLVII. Qui il
confronto con Nietzsche giunge a un primo importante risultato, come testimonia
la circostanza che nel 1939 Heidegger stese un testo – pubblicato nell’esordio
del secondo tomo del libro del 1961 (mentre ora, in HGA, XLVII, è stato
riannesso al corso del 1939) – che presenta un consuntivo del lavoro svolto,
mostrando in particolare la connessione delle dottrine della volontà di potenza
e dell’eterno ritorno come aspetti complementari dell’«unico pensiero» di
Nietzsche, cioè della sua concezione dell’ente.
4) Nel secondo trimestre 1940 il confronto fu ripreso
con il corso «Nietzsche: il nichilismo europeo», pubblicato nel secondo tomo
del libro del 1961 e ora anche in HGA, XLVIII.
5) Nell’agosto del 1940 Heidegger continuò a lavorare
su Nietzsche preparando un ulteriore corso, «La metafisica di Nietzsche», in
cui forniva una concisa esposizione d’insieme della sua interpretazione. In
settembre, ottobre e dicembre rimise mano al manoscritto di questo corso
previsto, che fu annunciato per il semestre invernale 1941-42. In realtà
Heidegger finì poi per tenere un altro corso: «L’inno di Hölderlin Andenken».
Ma inserì il testo nel libro del 1961. Oggi esso è stato ripubblicato in HGA,
XL insieme al corso del semestre invernale 1944-45 «Introduzione alla
filosofia. Pensiero e poesia», che tratta ampiamente di Nietzsche.
Heideggere e Nietzsche: Perché il nichilismo
A questo punto affiora spontaneo un interrogativo:
quand’è che il termine «nichilismo» entra nel vocabolario filosofico
heideggeriano, dato che in Essere e tempo (1927) ancora non compare? E
quando diventa l’indice di una questione per lui cruciale? Ovvero una categoria
filosofica portante?
La risposta appare scontata: da quando Heidegger
incrocia il pensiero di Nietzsche. Eppure non basta, perché Nietzsche è la conditio
sine qua non, ma non è tutto. Si è visto come l’interesse per il pensiero
nietzscheano sia presente fin dagli inizi del cammino filosofico di Heidegger,
già dalla lettura giovanile della Volontà di potenza, come diventi poi
esplicito in Essere e tempo e si faccia ancora più chiaro verso la fine
degli anni Venti, specie nel corso del 1929-30. Ma fin qui, malgrado Nietzsche,
il termine nichilismo non fa ancora la sua comparsa.
Perché esso emerga bisogna attendere che l’interesse
per Nietzsche si combini con l’attenzione per la negatività che contrassegna
l’epoca moderna, e in generale la storia della metafisica e la storia stessa
dell’essere. Ecco che allora, ma solo allora, il nichilismo diventerà una delle
categorie privilegiate per interpretare, se così si può dire, il lato notturno
dell’Occidente.
La menzione apparentemente occasionale di Nietzsche
nel celebre discorso su L’autoaffermazione dell’università tedesca,
sopra ricordata, segnala l’intrecciarsi di questi due motivi. In tale contesto,
allotrio ma significativo, Heidegger ricorda la sentenza nietzscheana sulla
morte di Dio, proponendosi di pensarla fino in fondo e di farsene carico in
termini filosofici. In effetti, nei corsi contigui egli matura un’attenzione
sempre più determinata per l’esperienza della negatività, confrontandosi sia
con la prospettiva di Hegel, che tuttavia respinge come non sufficientemente
radicale perché solo logico-speculativa, sia con Nietzsche, con cui invece
ingaggia un confronto ravvicinato.
È a questo punto che Heidegger inizia a usare in modo
significativo il termine nichilismo. Dapprima in occorrenze sporadiche, poi in
maniera tematica. Il primo indizio si incontra nel corso su Schelling
dell’estate 1936, di cui esistono due versioni: quella pubblicata dallo stesso
Heidegger (Schelling. Über das Wesen der menschlichen Freiheit [1809],
Niemeyer, Tübingen 1971) e quella edita nella Gesamtausgabe come vol. 42
(Schelling: Vom Wesen der menschlichen Freiheit [1809], Klostermann,
Frankfurt a.M. 1988).
Heidegger nomina in questo corso il fenomeno del
nichilismo, ponendosi esplicitamente il problema del suo superamento. Riconosce
quindi a Nietzsche il merito di avere sperimentato su di sé tutta la potenza
del nichilismo, di averne elaborato una «grande conoscenza», e di avere dato
avvio a un contromovimento non solo astratto, ma portatore di autentiche
decisioni storiche. Qui il testo licenziato da Heidegger chiude il discorso su
Nietzsche e passa all’esame del problema della libertà (Heidegger, 1971: 28).
Invece il testo originale del corso, pubblicato nella Gesamtausgabe,
prosegue le considerazioni sul nichilismo e sui possibili contromovimenti con
una frase su cui vale la pena richiamare l’attenzione:
È risaputo inoltre – continua Heidegger – che i due uomini
che in Europa hanno avviato, in modo rispettivamente diverso, dei
contromovimenti in base alla configurazione politica della nazione, cioè del
popolo, ossia Mussolini e Hitler, sono stati influenzati per diversi aspetti da
Nietzsche in modo essenziale, senza che l’autentico ambito metafisico del
pensiero nietzscheano fosse fatto valere in modo diretto (HGA, XLII, 40-41).
Vien fatto di chiedere: come mai il problema del
nichilismo, che qui appare sul nascere ma che presto si farà ostinato e
assillante, è associato a due nomi storici così ingombranti – tanto che
nell’edizione del 1971 saranno espunti?
L’associazione di Nietzsche e del nichilismo con gli
eventi dell’epoca è semplicemente episodica? Strumentale? Opportunistica?
Oppure l’espunzione del 1971 segnala una connessione poco edificante, ma non
per questo meno vera ed essenziale?
Si fa strada una ipotesi tutta da verificare, ma
avvincente. A provocare Heidegger e a spingerlo ad approfondire la questione
del nichilismo potrebbero aver concorso motivazioni legate alla lotta
ideologica accesasi nel movimento nazionalsocialista per la leadership
culturale. Dopo l’adesione al partito e l’assunzione del rettorato, per la fama
di cui godeva grazie al successo di Essere e tempo, Heidegger cominciava
a essere considerato «il filosofo del nazionalsocialismo». La cosa aveva
suscitato invidia e risentimenti nel partito, tanto che si era formato uno
schieramento anti-Heidegger, rappresentato soprattutto da Alfred Rosenberg e,
per ragioni diverse, da Ernst Krieck.
In particolare quest’ultimo – docente di pedagogia e
filosofia diventato potente gerarca delle SS, poi nel 1933-34 rettore
dell’Università di Francoforte sul Meno, infine dimessosi e passato a
Heidelberg come successore di Heinrich Rickert – attaccò Heidegger in termini
violenti. Evidentemente per rivalità politica più che per motivazioni
filosofiche reali. Nella rivista nazionalsocialista «Volk im Werden», da lui
diretta, nel febbraio del 1934 scriveva:
Il tenore
ideologico di fondo della dottrina di Heidegger è definito dai concetti di Cura
e di Angoscia, che mirano entrambi al Nulla. Il senso di questa filosofia è un
esplicito ateismo e un nichilismo metafisico, analogo a quello
rappresentato specialmente da scrittori ebrei, dunque un fermento per la depravazione
e la dissoluzione del popolo tedesco (Schneeberger, 1962: 225).
Un impiego tanto rozzo e strumentale di un concetto
filosofico alto come metafisica, su cui da tempo Heidegger andava
meditando, e la sua associazione a un termine come nichilismo, che
pullulava nei testi di Nietzsche ma il cui significato più profondo era ancora
tutto da definire, equivalevano per Heidegger a una insolente, bruciante
provocazione. Egli raccolse perciò la sfida e, in silenzio, senza mai nominare
Krieck, rispose da par suo all’avversario con una grandiosa analisi
storico-speculativa che campeggia al centro della sua opera in questo periodo,
e che mira a definire che cos’è metafisica, che cosa nichilismo, e come essi si
intreccino nel determinare l’essenza della storia occidentale.
Lo si vede in parte già nell’Introduzione alla
metafisica, il corso del semestre estivo del 1935 destinato a studenti di
tutte le facoltà. Se per molti aspetti esso è una risposta alle critiche
avanzate da Carnap contro Heidegger nel saggio Überwindung der Metaphysik
durch logische Analyse der Sprache (Il superamento della metafisica
mediante l’analisi logica del linguaggio, 1931), non mancano velati accenni
alle accuse di Krieck.
Ci sono poi i corsi universitari successivi in cui il
nichilismo diventa sempre più una categoria centrale per capire la metafisica e
la logica del suo sviluppo storico. In particolare, dal semestre invernale
1936-37 Heidegger inizia l’impressionante, pluriennale serie di lezioni
interamente occupate dal confronto con Nietzsche e i suoi cinque capisaldi
filosofici: il nichilismo, la trasvalutazione dei valori, la volontà di
potenza, l’eterno ritorno dell’uguale e il superuomo.
Insomma, la superficiale associazione di nichilismo e
metafisica eruttata da Krieck come insulto avrebbe fornito a Heidegger
l’occasione per avviare la sua radicale indagine del loro rapporto essenziale
Heidegger e Nietzsche: Il «Nietzsche» del 1961
Solo a distanza di circa vent’anni Heidegger decise di
raccogliere e pubblicare nel loro insieme i risultati del suo estenuante
confronto con Nietzsche – contro le resistenze della moglie, preoccupata che si
potesse ripetere la profonda crisi in cui, nel 1938, Nietzsche lo aveva
precipitato. Con l’aiuto di Otto Pöggeler, che stava allora lavorando al suo
libro Der Denkweg Martin Heideggers (Neske, Pfullingen 1963), Heidegger
raccolse i cinque corsi universitari dal 1936 al 1940, escludendo il seminario
sulla seconda Considerazione inattuale del 1938-39 per il carattere
frammentario del manoscritto, e aggiungendovi alcune trattazioni stese negli
anni tra il 1940 e il 1946. Nella preparazione editoriale del testo, anche a
composizione tipografica avvenuta, Heidegger ritenne necessario intervenire a
fondo: si procedette in particolare a una più dettagliata articolazione in
capitoli, i cui titoli furono formulati in gran parte da Pöggeler, e ciò
comportò non poche modifiche e riformulazioni, ampliamenti e riduzioni.
In queste settimane – scrive Heidegger a Elisabeth
Blochmann il 12 aprile 1961 – sto portando a termine il fastidioso lavoro di
correzione sui due volumi del Nietzsche. Ma la cosa più faticosa è stata
percorrere ancora una volta questi ragionamenti, che sono un punto finale del
pensiero occidentale, ma contemporaneamente sono realtà, in molteplici, spesso
irriconoscibili forme esteriori (Heidegger-Blochmann, 1989: 114).
Il risultato fu la grande opera pubblicata in due tomi
presso l’editore Neske di Pfullingen nel 1961 con il titolo Nietzsche.
Nel frattempo essa è stata riedita come vol. VI, in due tomi, nell’ambito della
Gesamtausgabe. In essa sono stati ripubblicati anche i corsi tenuti dal
1936 al 1940, nella versione originale, cioè senza i rifacimenti operati per
l’edizione del 1961 e con l’aggiunta delle Wiederholungen, le
«Ricapitolazioni» che Heidegger era solito tenere all’inizio di ogni ora per
riprendere l’argomento della lezione precedente.
Heidegger e Nietzsche: "Nietzsche: né vero né falso, ma o vivo o morto"
Quanto al contenuto dell’opera, esso sta davanti agli
occhi in tutta la sua vastità e articolazione, e non è questo il luogo per
analizzarlo. Ciò che va sottolineato è che Heidegger non intende proporre
l’ennesima monografia su Nietzsche – del resto già la struttura del testo lo fa
capire – né vuole fornire una nuova e magari originale immagine di Nietzsche.
Egli va chiaramente oltre i confini di una mera interpretazione. Come
dichiarano le parole con cui l’opera si apre, qui il nome di Nietzsche «sta,
come titolo, a indicare la cosa in questione nel suo pensiero», e tale
questione è per Heidegger quella dell’essere, a cui Nietzsche, al pari di tutti
i grandi pensatori, dà la sua risposta.
L’approccio che Heidegger mette in atto è, corrispondentemente,
quello di un vasto e serrato confronto a tutto campo che egli designa come Aus-einander-setzung:
questo termine significa il «confrontarsi», il contendere e dibattere di una
«cosa» con qualcuno. Heidegger lo impiega anche come termine tecnico per
rendere il pólemos di Eraclito. La grafia che Heidegger usa per mettere
in risalto le componenti della parola intende suggerire ciò che un confronto
implica, vale a dire il dis-porsi delle parti l’una rispetto all’altra, lo
spiegamento delle forze in campo e il prendere le necessarie distanze l’uno
dall’altro allo scopo di contendere per amore della cosa stessa che è in
questione: il disputare non fine a se stesso ma in vista del problema in
discussione, un disputare mè katà dóxan allà kat’ousían.
Ingaggiando tale confronto Heidegger interroga con
martellante insistenza i testi nietzscheani e giunge a scoprire il filo
conduttore che lega gli insegnamenti capitali di Nietzsche in una trama
unitaria collegata con la tradizione metafisica: la volontà di potenza e
l’eterno ritorno dell’uguale (dottrine che risponderebbero alle tradizionali
domande metafisiche circa il «che cosa» e il «come» l’ente è), la
trasvalutazione di tutti i valori, il nichilismo e il superuomo. Lungo un
itinerario che va da Nietzsche a Platone, e da Platone a noi, attraversando
l’intera storia della filosofia, Heidegger mostra che tutte queste dottrine non
sono lo stravagante parto della mente malata del pensatore-poeta, ma
costituiscono l’essenziale e ineludibile compimento della metafisica
occidentale, rigorosamente pensata fino alle sue estreme conseguenze.
Per questo è riduttivo e insufficiente interpretare
Nietzsche come moralista e psicologo, per quanto importanti siano le conquiste
psicologico-morali che gli si riconoscono (Klages); o come pensatore politico e
critico della civiltà, per quanto lucido e chiaroveggente sia il progetto che
gli si attribuisce (Baeumler); oppure come il filosofo dell’esistenza le cui
affermazioni suscitano scandalo, ma non sono vincolanti e non richiedono di
essere prese sul serio (Jaspers). Per Heidegger, invece, il pensiero di
Nietzsche non è «meno oggettivo e rigoroso del pensiero di Aristotele che nel
quarto libro della Metafisica pensa il principio di non contraddizione
come la verità prima circa l’essere dell’ente» (HGA, V, 249). E la sua
filosofia è la metafisica propria dell’età contemporanea, perché pensa la
nostra verità circa l’ente nel suo insieme – come volontà di potenza – e
fornisce una diagnosi penetrante dei tratti fondamentali della nostra epoca.
Quale «platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale»
Nietzsche attua un radicale rovesciamento della metafisica portandola fino al
suo termine estremo, e apre, alle soglie del Novecento, interrogativi su una
crisi, e sul suo possibile superamento, che tormentano l’autocomprensione del
nostro mondo.
Non si tratta perciò né di opporsi a Nietzsche né di
pronunciarsi in suo favore, ma di pensare ciò che egli ha portato a compimento
e ciò che ha previsto con la sua opera. E questo è possibile solo se considera
la cosa stessa che è in discussione nel suo pensiero, ovvero la risposta che
esso dà alla questione guida della metafisica: «che cosa è l’ente?». Tale
risposta recita: «l’ente è volontà di potenza ed eterno ritorno dell’uguale».
Presentata così, l’interpretazione heideggeriana ha tutto l’aspetto di una
arbitraria violenza che stende l’opera di Nietzsche sul letto di Procuste della
questione dell’essere. Ma se si segue la trama esegetica che Heidegger intesse
passo dopo passo, alla fine risulta chiaro che per lui si tratta in primo luogo
di «ascoltare Nietzsche stesso, porre le domande con lui, per mezzo di lui e
così al tempo stesso contro di lui, ma per l’unica intima cosa
comune in questione nella filosofia occidentale» (Heidegger, 1994: 34-35). In
questa prospettiva Nietzsche è uno di quei pensatori che non sono né veri né
falsi, ma soltanto o vivi o morti.
Ora, la cosa in questione nel pensiero di Nietzsche
viene in luce per Heidegger non tanto nell’opera pubblicata, la quale rimane
«vestibolo» e «preambolo», ma negli appunti postumi – che Heidegger rifiuta
perfino di chiamare «frammenti» considerandoli pensieri compiuti – e in quella
che avrebbe dovuto essere l’«opera capitale» (Hauptwerk), cioè la Volontà
di potenza. La filosofia vera e propria di Nietzsche è contenuta nelle
carte inedite degli anni Ottanta, e il vero compito che esse pongono è
filosofico: quello di ordinarle in modo tale che sia possibile coglierne il
senso profondo.
Heidegger individua dunque nella «volontà di potenza»
il problema che sta al centro della speculazione dell’ultimo Nietzsche. Ciò non
significa tuttavia che egli approvi o legittimi l’edizione della Volontà di
potenza allestita dalla sorella. Gli è ben chiara la differenza tra il
problema filosofico della volontà di potenza, il progetto letterario dedicato
da Nietzsche a tale problema e la ricostruzione sommaria che di questo progetto
fu fatta a posteriori dalla sorella con l’aiuto di Peter Gast. Nel corso delle
sue lezioni Heidegger ritorna ripetutamente su questa questione con critiche
molto esplicite nei confronti delle scelte dei curatori (Heidegger, 1994: 338
ss., 342 ss., 399 ss., 572-74, 619, 639-40), e le circostanze della sua
collaborazione con l’Archivio-Nietzsche per una riedizione della Volontà di
potenza lumeggiano ulteriormente le ragioni delle sue digressioni
filologiche.
Ciò che lo interessa primariamente è però il confronto
filosofico con Nietzsche, in cui egli mette in atto una sottile strategia di
appropriazione e di distacco. Limitandoci alle due dottrine fondamentali della
volontà di potenza e dell’eterno ritorno, si noterà che l’interpretazione della
volontà di potenza in chiave ontologica – ossia come modo in cui Nietzsche
concepisce la vita nella sua modalità d’essere, quindi l’essere dell’ente nel
suo insieme relativamente al suo «che cos’è» – pur rimanendo costante nel corso
di tutto il confronto è affrontata a volte nell’attitudine includente della
comprensione, altre in quella escludente della critica. Inizialmente, associando
la volontà di potenza al suo carattere di affetto, passione e sentimento,
Heidegger mette in luce gli aspetti per i quali la volontà è non-volontà, cioè
è condizionata da una situazione e dalla Stimmung corrispondente. Tende
cioè a pensarla in parallelo con la propria concezione della «risolutezza» (Entschlossenheit)
in quanto determinazione portante dell’esserci, la quale è sempre una gestimmte
Entschlossenheit, come egli mostra in Essere e tempo. Questo
parallelo è lasciato cadere nel secondo libro, dove la volontà diventa invece
in modo sempre più netto la figura finale della «soggettità» (Subiectität),
ovvero del principio che regge la metafisica nel suo insieme e in particolare
la metafisica dell’età moderna, costituendo la condizione ontologica di possibilità
dell’«impianto» (Gestell) quale figura epocale dell’età della tecnica.
Qualcosa di analogo può essere affermato per l’altra
dottrina fondamentale, quella dell’eterno ritorno dell’uguale. Essa è
strettamente connessa per Heidegger con quella della volontà di potenza. Se
quest’ultima dice che cosa è l’ente nel suo insieme – giacché sotto
l’egemonia del principio della soggettività tutto ciò che è acquista il
carattere della volontà di potenza –, l’eterno ritorno dice invece come
è l’ente che è stato ridotto a volontà di potenza. Ora, laddove Heidegger, con
una suggestiva esegesi dei capitoli dello Zarathustra «La visione e
l’enigma» e «Il convalescente», interpreta il ripercuotersi della dottrina del
ritorno sull’esistenza umana e le conseguenze pratico-morali che ne derivano, è
lampante il suo sforzo di leggere e illuminare il testo nietzscheano mediante
proprie intuizioni filosofiche, nella fattispecie mediante la propria
concezione del Dasein incentrata sull’idea che il movimento originario
della vita umana abbia il carattere della prassi e sia fondato sul suo
poter-essere e la sua temporalità. In questo senso Heidegger esibisce autentici
pezzi di bravura ermeneutica. Per esempio l’analisi del brano «Come il “mondo
vero” finì per diventare favola», che egli legge come l’esposizione in sei
capitoli della storia del platonismo. Oppure l’interpretazione dell’enigmatica
locuzione nietzscheana: «circulus vitiosus deus», intesa come
formulazione ipotetica dell’eterno ritorno quale alternativa alla tradizionale
spiegazione teologica del divenire (deus?), e implicante il ritorno di
tutte le cose, anche di quelle negative e del nichilismo stesso (vitium).
Infine la delucidazione del sottotitolo dello Zarathustra, libro «per
tutti e per nessuno»: «per tutti» in quanto chiunque può convertirsi alla
filosofia, «per nessuno» giacché nessuno di noi può riuscire in una tale
conversione senza una adeguata disposizione e iniziazione. Che è la stessa idea
di filosofia coltivata da Heidegger contro la filosofia accademica del tempo e
contro il suo stesso maestro Husserl. Anche qui, tuttavia, allo sforzo di
appropriazione seguono la presa di distanza e la critica.
Heidegger e Nietzsche: Dal «de profundis» nietzscheano
Come qualificare, allora, il confronto che Heidegger
ingaggia con Nietzsche? Una cosa è certa: si tratta di un’esegesi filosofica
magistrale, di un memorabile confronto che ridà la vertigine del fare filosofia
in grande stile. Nonostante le forzature, Heidegger arriva molto più in là
delle innumerevoli interpretazioni, tanto meritorie quanto unilaterali e alla
fine insoddisfacenti, che si sono susseguite nel Novecento. Con Heidegger, più
che con chiunque altro, abbiamo la sensazione, se non di risolvere, di giungere
almeno assai vicini all’«enigma Nietzsche» – quell’enigma che Nietzsche stesso
aveva previsto di essere allorché, nel monologo fatale sopra ricordato, aveva
proiettato l’ombra del suo destino sui tempi a venire. E questo perché il
pensiero nietzscheano – come si è detto – non è per Heidegger né vero né falso,
ma o vivo o morto. Prendendolo finalmente sul serio, anche nelle sue
affermazioni più scomode e difficili, Heidegger finisce per esperire su di sé
tutta la devastante potenza della sua scepsi. Va incontro a Nietzsche senza
paventare la profonda verità a cui metteva di fronte Thomas Mann con il suo
prudente ammonimento: «Chi prende “sul serio” Nietzsche, chi lo prende alla
lettera e gli crede, è perduto» (Th. Mann, 1968, III, 46; 1980: 100). E nel suo
corpo a corpo con i testi e con le pericolose fantasmagorie che essi evocano
finisce per precipitare, egli stesso, in quello che da un certo momento in poi
chiamerà l’«abisso» di Nietzsche. L’esperienza del nichilismo innesca in
Heidegger una profonda crisi, personale e filosofica. Negli anni che seguono
immediatamente il confronto con Nietzsche, scrive a Jaspers:
Ho la
sensazione di crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami
(Heidegger-Jaspers, 1990: 174).
In casa e con gli amici va ripetendo: «Nietzsche mi ha
distrutto!». Il 16 agosto 1960 scrive all’amico Medard Boss: «Sto ancora
nell’“abisso” di Nietzsche» (Heidegger, 1987: 320).
Tra le ragioni per le quali Heidegger non pubblicò mai
la grande opera stesa parallelamente al confronto con Nietzsche, cioè i Beiträge
zur Philosophie (Contributi alla filosofia), andrebbe considerata
con attenzione la crisi a cui Nietzsche lo aveva portato. È forse un caso che
il Nietzsche si apra con una citazione dall’Anticristo che
corrisponde esattamente alla conclusione dei Beiträge? Questa tratta
dell’ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la
citazione in esergo:
Quasi due
millenni e non un solo nuovo dio! (Heidegger, 1994: 17).
Il provocatorio suggerimento che se ne potrebbe
ricavare è quello di leggere il pensiero di Heidegger successivo al confronto
con Nietzsche, cioè l’ultimo Heidegger, come il disperato tentativo di
sollevarsi dal de profundis nietzscheano. Il caso Heidegger
conferma in tal modo la profezia che Nietzsche fece una volta su se stesso, e
che ha conservato intatta la sua validità: dopo avere scoperto Nietzsche è
stato facile trovarlo; il difficile, ora, è perderlo.
Oltre la linea del nichilismo: Jünger «versus»
Heidegger
Un memorabile confronto sul nichilismo come categoria
per la diagnosi della situazione del mondo contemporaneo ebbe luogo nella prima
metà degli anni Cinquanta tra Ernst Jünger e Heidegger. Spetta al primo, con
l’intervento Oltre la linea (Über die Linie, 1950) offerto a
Heidegger in occasione del suo sessantesimo compleanno, il merito di avere
attirato l’attenzione sul problema. Al secondo, con la sua risposta in
occasione dei sessant’anni di Jünger (1955), quello di essere ritornato
sull’argomento richiamando a una interrogazione filosofica più profonda. I due
testi, presi insieme, rappresentano l’analisi contemporanea più penetrante del
problema del nichilismo, un itinerarium mentis in nihilum a misura del
ventesimo secolo.
Oggetto del contendere è la «linea» del nichilismo.
Essa segna il punto di svolta al quale l’epoca contemporanea sembra essere
arrivata, lo spartiacque che marca l’avvenuta consunzione dell’Antico senza che
ancora si intraveda il sorgere del Nuovo, il magico «meridiano zero» passato il
quale non valgono più i vecchi strumenti di navigazione, e lo spirito,
sottoposto a un’accelerazione tecnologica sempre più veloce, appare
disorientato. Ora, mentre per Jünger le élites spirituali debbono avere
il coraggio di oltrepassare la linea e andare in avanscoperta, e in questo
senso Über die Linie significa per lui trans lineam, Heidegger
crede che ciò sia ancora prematuro e richiama «coloro che pensano» a riflettere
con maggior prudenza sulla linea del nichilismo – il titolo vuol dire per lui de
linea – cercando di risalire ai fondamenti metafisici di tale situazione.
Il punto di partenza comune da cui muove il confronto
fra i due è la convinzione che la questione del nichilismo sia centrale per la
nostra epoca. A conclusione di Oltre la linea Jünger scrive:
Chi non ha
sperimentato su di sé l’enorme potenza del Niente e non ne ha subito la
tentazione conosce ben poco la nostra epoca (Jünger-Heidegger, 1989: 104).
Dal canto suo già nel 1937, in un corso universitario
pubblicato nel 1961 nel Nietzsche (ma allora sconosciuto a Jünger),
Heidegger aveva dichiarato:
La pietra
di paragone più dura, ma anche meno ingannevole, per saggiare il carattere
genuino e la forza di un filosofo è se egli esperisca subito e dalle
fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza del Niente. Colui al quale
questa esperienza rimane preclusa sta definitivamente e senza speranza fuori
dalla filosofia (Heidegger, 1994: 382).
Quanto al concetto di nichilismo, già prima della
guerra, e soprattutto nei saggi La mobilitazione totale (Die totale
Mobilmachung, 1930), Il lavoratore (Der Arbeiter, 1932) e
quindi Sul dolore (Über den Schmerz, 1934), Jünger aveva
prospettato una lucida e disincantata visione di ciò che stava accadendo. La
crisi della civiltà, da altri tanto lamentata, era da lui vista come
l’inevitabile passaggio verso una nuova situazione storica, quella in cui è il
lavoro, organizzato secondo gli imperativi della tecnica, a mobilitare tutte le
risorse del pianeta, a sprigionare tutto ciò che l’essere può dare. Il vuoto di
«valori» e di «senso» che la tecnica ha prodotto non suscita in lui un
atteggiamento passivo e querulo, ma un nichilismo eroico dell’azione. A rigore,
in questa fase del pensiero di Jünger andrebbe evitato un uso in senso positivo
del termine nichilismo. Il tema che lo interessa non è ancora il nichilismo, né
come fenomeno europeo né come fenomeno planetario, bensì il nuovo principio del
lavoro che dà forma a tutta la realtà. L’ombra del nichilismo si profila in
questa fase solo per chi non ha ancora colto e accettato siffatto principio. Il
nichilismo è dunque ancora qualcosa di negativo e di subordinato: si manifesta
dove lo spirito rimane attaccato ai vecchi valori e si attarda a lamentare la
loro consunzione. Ma né il processo di svalutazione dei valori tradizionali né
lo sforzo di trasformarli è ciò che interessa lo Jünger del Lavoratore.
In un passo di quest’opera, molto significativo al riguardo, afferma:
È diventato
superfluo continuare a occuparsi di una trasvalutazione dei valori, basta
vedere il Nuovo e prendervi parte (Jünger, 1978: VIII, 50).
Solo nel saggio Sul dolore del 1934 può essere
registrato uno spostamento di prospettiva. Per la prima volta si fa spazio
l’idea che la tecnica sia un fattore di nichilismo: quando alla nuova forma non
corrisponde lo sviluppo di contenuti adeguati, quando la realtà è plasmata e
trasformata dalla tecnica senza che le idee, le persone e le istituzioni si
adeguino con la stessa rapidità, quando la disciplina, la capacità di
organizzazione, il potenziale energetico crescono senza una pari crescita di
nuova sostanza, allora la tecnica produce nichilismo. Sorge a questo punto il
problema dell’atteggiamento adeguato che l’uomo deve assumere quando il vortice
dell’accelerazione tecnologica sembra risucchiarlo. Può l’uomo sperare, giunto
al punto zero, in una «nuova dedizione dell’essere» in cui balugini «ciò che
realmente è»? Jünger ha qui ormai raggiunto il livello di consapevolezza
critica che si manifesta nel romanzo Sulle scogliere di marmo (Auf
den Marmorklippen, 1939) – «un libro che con grande arditezza descrive gli
abissi che si celano dietro le maschere d’ordine del nichilismo» (Schmitt,
1987: 24) – e da cui egli osserverà la situazione anche dopo la guerra, in Oltre
la linea.
In questo saggio – da leggere insieme al Trattato
del ribelle (il cui titolo originario è Der Waldgang, 1951) – Jünger
riprende lo spunto d’anteguerra e lo sviluppa in una vera e propria
fenomenologia del nichilismo, con le sue avvisaglie, le sue manifestazioni e le
sue conseguenze. Come Heidegger riconosce, essa supera per originalità ed
efficacia la copiosa letteratura di ispirazione nietzscheana sull’argomento. In
effetti, muovendo da Nietzsche e da Dostoevskij, Jünger traccia una penetrante
visione del nichilismo come processo dell’ormai ubiquo e generale «svanimento
dei valori». La sua originalità, rispetto al modello nietzscheano, sta nel
riconoscere il carattere non solo europeo ma planetario del nichilismo,
e nel prospettare anche ottimisticamente una terapia dei mali che esso ha
prodotti. Essa consiste nella strenua difesa dei ristretti ma inviolabili spazi
dell’interiorità individuale da Jünger considerati l’ultimo baluardo di
resistenza possibile. Seguendo questa strategia, senza venir meno alla
convinzione che ciò che cade non va mantenuto in piedi ma va aiutato a cadere,
egli non inscena un attacco frontale contro i valori e gli ordinamenti
tradizionali, come è invece nello stile di Nietzsche. Non si atteggia cioè a
demolitore, ma mette piuttosto in atto una descrizione che evidenzia i processi
di deperimento, perdita e consunzione, da lui denominati «riduzione» e
«svanimento» (Schwund), mostrando come essi intacchino ogni sostanza
psichica, spirituale, estetica e religiosa, ma anche come accelerino
l’avvicinamento al termine del nichilismo.
Ciò che è decisivo è capire dove si trovi la linea,
dove e quando avvenga il suo attraversamento, vale a dire il superamento del
nichilismo. Ora, contrariamente all’impressione che le obiezioni di Heidegger
suscitano, per Jünger la linea non è il punto finale, il termine oltre il quale
cessa il nichilismo. Essa si situa piuttosto entro il nichilismo stesso
segnandone il punto mediano.
L’attraversamento
della linea, il passaggio del punto zero divide lo spettacolo; esso
indica il punto mediano, non la fine. La sicurezza è ancora molto lontana
(Jünger-Heidegger, 1989: 79).
Con l’oltrepassamento della linea, allora,
l’attraversamento del nichilismo non è ancora compiuto. Si avvicina alle sue
mete ultime, ma non è ancora arrivato al termine.
È vero che, in confronto alla prudenza di Heidegger,
Jünger indulge a un certo ottimismo. In una retrospettiva del 1993 su Oltre
la linea egli rammenta che quel saggio era «il tentativo di qualcuno
colpito da due terremoti che voleva prendere di nuovo piede in modo stabile», e
che la particolarità dell’analisi del nichilismo che vi veniva svolta era «la
sua natura ottimistica» (cfr. Jünger, 1993: 20). È chiaro che in Oltre la
linea il nichilismo è presentato come la fase di un travaglio spirituale
che può essere sopportato fino in fondo, superato e «magari ricoperto di nuova
pelle come una cicatrice» (Jünger-Heidegger, 1989: 50). E a giustificare il suo
relativo ottimismo Jünger nomina alcuni segnali positivi che accennano a una
volontà di superare il nichilismo. Essi sono «l’inquietudine metafisica delle
masse, la nascita delle singole scienze fuori dallo spazio copernicano e la
comparsa di temi teologici nella letteratura mondiale» (Jünger-Heidegger, 1989:
90). Ma si tratta solo di avvisaglie. La conquista di un territorio
post-nichilistico è ancora lontana. Chi attraversa la linea entra piuttosto
nella zona in cui il nichilismo si fa condizione normale nel senso che diventa
un aspetto essenziale e costitutivo della realtà. Per questo esso non si lascia
arrestare né tanto meno estirpare con facilità. L’unica possibilità per
resistere al suo irrefrenabile avanzare è erigere un baluardo interiore a
difesa delle rare oasi di libertà che rimangono nel «deserto che avanza».
Queste oasi – l’eros, l’amicizia, l’arte, la morte – sono il territorio
selvaggio (Wildnis) dell’interiorità in cui l’individuo si ritira
corazzandosi contro ogni attacco portato alla sua inviolabilità: qui egli
resiste agli appelli delle chiese, alle minacce del Leviatano, agli ingranaggi
dell’organizzazione, e riesce a mantenere l’equilibrio nel «vortice del
nichilismo».
Nel vortice del nichilismo Jünger si cala in
profondità e ne uscirà definitivamente solo in Al muro del tempo (An
der Zeitmauer, 1959), il suo testo teorico più importante dopo il Lavoratore.
È un trattato che rappresenta il condensato di un «decennio filosofico» di
intense meditazioni, segnato dalle insistenti visite dell’«angelo della
malinconia» – come testimoniano le due parole che ricorrono nelle pagine coeve
dei diari: tristitia e cafard. L’opera emerge dunque da un de
profundis e, forse proprio per uscirne, si avventura in audaci slanci
speculativi: che cosa sono il tempo, la storia, il destino? Come può l’uomo,
che li attraversa e ne è attraversato, conferire loro un barlume di
intelligibilità? Inanellando pensieri e digressioni che spaziano da un capo
all’altro dello scibile, dall’astrologia alla metafisica, dalle scienze
naturali alla storiografia, dalla mitologia alla teologia e alla filosofia
della storia, Jünger scruta qui il divenire del cosmo e i suoi ritmi per capire
il senso dell’apparizione principesca dell’uomo. Che posto occupano
nell’evoluzione del cosmo le res gestae, le magnifiche sorti e
progressive?
La storia del genere umano gli appare ora come un
capitolo della storia della terra da riportare al suo letto geologico, da
«rinaturalizzare», in modo che l’umanità appaia per quello che è:
un’efflorescenza della crosta terrestre. È l’astrologia che apre questa
prospettiva. Non tanto per il preteso influsso degli astri sulla nostra vita,
ma perché l’astrologia ci familiarizza con le rivoluzioni celesti e i cicli
della terra, ristabilisce un collegamento – occultato dalla civilizzazione
tecnica – con il ritmo del grande orologio primordiale. Il tempo e la storia
dell’uomo eccedono, è vero, la naturalità, eppure affondando in essa le loro
radici. E se la comparsa del genere umano rende unica la terra, rispetto alle
infinite distanze cosmiche che ci sgomentano noi non siamo che un breve respiro
della natura. Se è vero, come insegna Vico, che la storia è un factum,
un prodotto del genere umano, l’umanità è a sua volta soltanto un brulichio che
anima la superficie del globo.
Nell’anno di pubblicazione dell’opera Jünger diede
vita a un progetto che lumeggia questo suo sforzo speculativo per uscire dal
vortice nichilismo. Con Mircea Eliade fondò e diresse fino al 1971 la rivista
«Antaios», che ambiva a fornire una «mitografia delle forze cosmiche». Essa
raccolse una straordinaria serie di indagini sul mito, la religione, l’arte, la
cultura, sotto il patrocinio di Anteo, il gigante che diventava invincibile
quando poggiava i piedi sulla Madre Terra, e che Eracle riuscì ad uccidere solo
sollevandolo dal suolo.
La Terra è dunque il grembo che genera l’uomo, la
nutrice che lo alimenta e lo protegge, il fondo da cui egli trae le sue forze
ed energie. È una sorta di «trascendenza naturale» che fa da contrappeso alla
tecnica, quando quest’ultima diventa fattore di nichilismo, cioè quando consuma
ed erode le risorse simboliche e naturali dell’uomo, provocando impoverimento,
diminuzione, perdita.
A rigore, dal punto di vista della tecnica e del
Lavoratore non si dà nichilismo: chi «vede il Nuovo e vi prende parte» non si
volta indietro e non si preoccupa di che cosa ne derivi, un’edificazione o una
distruzione. Qui invece la prospettiva è mutata: le trasformazioni e le
accelerazioni cui la tecnica sottopone l’uomo appaiono sotto il segno dei
prossimi Titani, sono prodromi di una nuova età del ferro sfavorevole allo
spirito. Qui «Dio si ritira» (L. Bloy), e lo svanire della fede, la sparizione
dell’Antico, non lascia dietro di sé il nulla, bensì «un vuoto, con la sua
potenza di risucchio», un’inquietudine e un bisogno.
Eppure Jünger guarda con ottimismo alla transizione
verso la nuova epoca, fiducioso che lo spirito non soccomberà. E coniuga la
dottrina gioachimita dei tre Evi storici, del Padre, del Figlio e dello
Spirito, con l’antica concezione astrologica, basata sulla precessione degli
equinozi, secondo cui dopo l’Età dell’Ariete e quella dei Pesci entreremmo
nell’Età dell’Acquario, che sarà «una grande epoca dello Spirito».
Si capisce allora la conclusione cui Jünger giunge:
vero interlocutore della Terra non è l’intelletto con i suoi titanici progetti,
ma lo Spirito come potenza cosmica. E si capisce il suo nuovo temerario
intento: superare il nichilismo ripercorrendo all’indietro le tappe che Comte
aveva assegnato allo sviluppo del sapere umano, dalla scienza alla metafisica
fino a ritrovare la religione e il mito, con le loro potenti immagini.
Heidegger – che fin dai primi anni Trenta si era
intensamente occupato delle tesi di Jünger, mutuando dai suoi scritti
l’interesse per la tecnica quale chiave di lettura del mondo moderno, e che nei
suoi corsi universitari su Nietzsche aveva affrontato a tutto campo la
questione del nichilismo – riconosce a Jünger il merito di prospettare una
visione penetrante del problema. Attraverso una originale assimilazione della
dottrina della volontà di potenza, egli avrebbe messo in luce i due tratti
essenziali dell’odierna realtà: il suo carattere totale di lavoro e la
consunzione di ogni valore e risorsa di senso, cioè la tecnica e il nichilismo,
e precisamente come fenomeni non più soltanto europei bensì planetari.
La visione jüngeriana mette dunque a fuoco due motivi
che sono fondamentali anche per Heidegger. Secondo quest’ultimo si tratta però,
andando oltre Jünger, di capire questi due tratti in riferimento alla storia
dell’essere come figure essenziali ed estreme del compimento della metafisica
occidentale. La sintonia di Heidegger con il quadro tracciato da Jünger
riguarda pertanto solo la fenomenologia del nichilismo, le sue manifestazioni
di superficie. Quanto all’anamnesi della malattia, cioè alla ricerca delle sue
radici storiche e delle sue cause più profonde, egli imbocca un’altra strada e
apre con Jünger un contenzioso. Egli è naturalmente convinto che gli scritti di
Jünger non siano da considerare «alla stregua di atti d’archivio del movimento
nichilistico» (Jünger-Heidegger, 1989: 119). Ma ritiene che la suggestiva
descrizione letteraria del nichilismo tracciata da Jünger non consenta una
analisi filosofica profonda della malattia. E questo perché nello spaccato
jüngeriano né la metafisica nietzscheana della volontà di potenza, né il suo
compimento nella tecnica intesa come mobilitazione totale delle risorse nella
forma del lavoro sono veramente compresi nel loro autentico fondamento, cioè in
relazione alla storia dell’essere. Per poterlo fare, bisogna interrogarsi circa
l’apertura epocale che rende possibile la determinazione nietzscheana dell’ente
come volontà di potenza e quindi lo sviluppo propostone da Jünger nelle
descrizioni del Lavoratore.
Tale apertura è data dalla metafisica intesa non come
una disciplina della filosofia, ma come «radura» (Lichtung) dell’essere
stesso, cioè come il modo di schiudersi e di ritrarsi dell’essere in rapporto
all’uomo, che ha caratterizzato la storia occidentale. Nel corso delle diverse
epoche l’uomo esperisce di volta in volta l’ente che gli si presenta dinanzi in
un determinato modo: come qualcosa di generato dalla natura o come artefatto,
come creazione divina, realtà estesa, oggetto, materia suscettibile di
sperimentazione e di ricerca scientifica. Che cosa l’ente è, ovvero quale sia
l’«essere dell’ente», viene esperito ogni volta in un modo diverso. Ora, nel
comprendere ciò che gli enti sono nel loro «essere» l’uomo non rimane sul piano
degli enti ma lo «trascende», e siffatto trascendimento (Überstieg) è
per Heidegger l’origine della «metafisica». La metafisica è il modo
fondamentale dell’uomo occidentale di comprendere l’essere dell’ente. Ciò che
caratterizza l’accadere della metafisica è il «presentarsi» (Anwesen)
dell’ente in un certo modo, con un certo suo «essere», all’uomo che lo comprende.
Di volta in volta prende consistenza una determinata comprensione dell’essere
dell’ente, cioè si stabilisce una determinata risposta alla domanda «che cosa è
l’ente?», nella quale è tendenzialmente dimenticata l’originaria apertura del
«presentarsi», dell’Anwesen. Quando l’ente è definitivamente compreso e
determinato come volontà di potenza e come lavoro, quando l’essenziale è
soltanto assicurare e rendere disponibile l’ente come possibile fonte di
energia, allora l’originaria apertura del presentarsi dell’ente, cioè il suo
essere suscettibile di comprensioni d’essere diverse, è occlusa. Si instaura
così non solo la dimenticanza dell’essere, ma anche la dimenticanza di tale
dimenticanza. Il vero e proprio nichilismo metafisico è esattamente questa situazione
in cui dell’essere «non ne è niente» (Heidegger, 1994: 812). La domanda che si
impone è: che fare?
Prima di ogni altra cosa va richiamata alla memoria la
questione dell’essere. Ma proprio questo, a giudizio di Heidegger, è ciò che
Jünger non fa né può fare. Al pari della metafisica che costituisce il
presupposto non interrogato delle sue descrizioni, Jünger pensa entro
l’orizzonte della dimenticanza dell’essere. Il suo quadro tanto plastico ed
efficace si ferma ai sintomi del nichilismo, alla svalutazione dei valori e
alla perdita di sostanza, ma non ne spiega la logica più profonda. In fondo
Jünger rimane prigioniero del nichilismo stesso. La conclusione e il giudizio
di Heidegger sono perentori:
Il
tentativo di attraversare la linea resta in balìa di un rappresentare che
appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per
questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica
(forma, valore, trascendenza) (Jünger-Heidegger, 1989: 161).
Prima di voler superare il nichilismo, è
indispensabile per Heidegger coglierne l’essenza, e ciò significa capire che il
nichilismo è un evento che appartiene alla storia stessa dell’essere, al suo
donarsi e sottrarsi nelle diverse aperture storico-epocali della metafisica. Le
tracce di questo movimento di «donazione» e «sottrazione» dell’essere possono
essere riconosciute nei tratti fondamentali della storia della metafisica. Nei
testi compresi nel Nietzsche Heidegger si è confrontato a fondo con la
storia della metafisica: ha mostrato come il nichilismo nietzscheano sia il
rovesciamento del platonismo e come in esso si manifesti nel suo aspetto
estremo la figura archetipica della metafisica, che il platonismo inaugura e
rappresenta, e che egli chiama «soggettità» (Subiectität).
Non è qui nemmeno il caso di tentare di illustrare i
passaggi attraverso i quali, nella ricostruzione heideggeriana, il platonismo
trapassa nella metafisica della volontà di potenza, e come la «trascendenza»
dell’ideale platonico si trasformi e si rovesci nella «rescendenza» del
nichilismo. L’essenziale è che la «soggettità» insorta con il platonismo – cioè
l’«apparizione sovrana» dell’uomo quale figura che si fa portatrice del
progetto di padroneggiamento conoscitivo e operativo di tutto ciò che è – trova
il suo inveramento essenziale nella configurazione tecnica dell’essere
dell’ente denominata Gestell. Questo termine – che può essere tradotto
con «impianto», «montatura» o più liberamente con «ingranaggio», e sta a
indicare l’essenza di ciò che è posto, artefatto, in contrapposizione a
ciò che nasce e cresce spontaneamente come gli enti per natura – è scelto da
Heidegger per definire l’essenza della tecnica. Quest’ultima, in quanto
mobilitazione totale del mondo nella forma del lavoro, è la figura epocale in
cui l’essere si manifesta e al tempo stesso si occulta alla fine del destino
metafisico dell’Occidente. Platonismo e nichilismo appaiono quindi a Heidegger
come i due termini estremi dello stesso paradigma – la metafisica – ed entrambi
sono considerati omogenei e funzionali all’essenza della tecnica. La tecnica è
l’ultima forma di metafisica, cioè di platonismo, così come la metafisica è la
preistoria della tecnica, cioè del nichilismo. Ecco perché Heidegger è convinto
che la forma del Lavoratore e l’idea platonica, una volta che si tenti di
pensarle nella loro provenienza essenziale, abbiano una origine comune nella
costellazione epocale, tecnico-metafisica, del Gestell.
Impostando in questi termini la sua risposta,
Heidegger, pur essendo solidale con la fenomenologia jüngeriana del nichilismo,
raccomanda un atteggiamento filosofico più vigile. Non per demolire una
descrizione sotto molti aspetti così efficace e insostituibile dei sintomi del
nichilismo, ma per riprenderne le intuizioni a un livello più profondo. A tal
fine bisogna però mettere in discussione i presupposti della visione
jüngeriana, cioè l’orizzonte metafisico in cui si muove e i concetti di cui si
serve come di un sistema ottico attraverso cui guardare: «forma», «dominio»,
«rappresentazione», «volontà», «valore», «sicurezza». Ma bisogna poi capire
soprattutto che, se mai l’attraversamento della linea sarà possibile, esso
richiede che il nichilismo sia prima veramente compiuto, cioè compreso nella
sua essenza metafisica: «Invece di volere oltrepassare il nichilismo, dobbiamo
prima raccoglierci nella sua essenza (Wesen)» (Jünger-Heidegger,
1989: 162). Ciò significa capire come esso sia la conseguenza di una occlusione
dell’originaria apertura del presentarsi (Anwesen) dell’ente nel suo essere.
Senza dunque rimuovere il problema che la linea sta a indicare, anzi facendolo
proprio, bisogna compiere un passo indietro: non stimolare la volontà di
oltrepassare il nichilismo, né allestire alla meglio una nuova strumentazione
per procedere nella navigazione a ogni costo, ma pensare a una «topologia» del
nichilismo e individuare nella storia dell’essere il luogo essenziale in cui il
destino del nichilismo si decide.
Se infatti l’attraversamento della linea del
nichilismo ha quale sua condizione essenziale il superamento della metafisica e
della dimenticanza dell’essere, questo superamento non può essere «voluto».
Così facendo non solo si ricadrebbe in una determinazione metafisica
compromessa come la volontà, ma si finirebbe per credere che la dimenticanza
dell’essere sia una semplice «macchinazione» dell’uomo, cioè stia in suo
potere. Essa dipende invece dall’essere e dal suo modo di riferirsi all’uomo.
Proprio in corrispondenza con la finitudine di colui a cui si destina, il darsi
dell’essere non è mai assoluto, ma è sempre epocalmente determinato e al tempo
stesso anche sempre aperto a un’altra determinazione epocale. Ciò fa sì che
esso sia contemporaneamente un donarsi e un ritrarsi. Quando la «soggettità»,
ossia il primato dell’uomo come soggetto, avanza sulla scena in primo piano e
pretende di essere la risposta definitiva alla domanda «che cosa è l’ente?»,
ciò significa che l’essere è dimenticato e si «dà» ormai soltanto nella forma
della sottrazione e della dimenticanza, cioè della negazione e del nichilismo.
Neppure la razionalità – meno ancora della volontà –
può essere il punto archimedeo sul quale far leva per catapultarsi oltre il
nichilismo. Anche il razionalismo è per Heidegger espressione di soggettità e
di antropocentrismo. Dinanzi alle cose ultime, dove il tutto è in gioco, la
fiducia nei calcoli della ragione non è migliore delle fughe nell’irrazionale.
Razionalismo e irrazionalismo sono per Heidegger – d’accordo in questo con
Jünger – due figure complementari e convertibili del nichilismo. Se il
nichilismo è un destino che dipende dall’essere, la volontà e la ragione
dell’uomo possono arrivare semmai a qualcosa di penultimo. Una volta preso atto
di ciò, non è più il caso, né per Heidegger né per Jünger, di attardarsi nella
escogitazione di etiche o di virtù possibili per l’età della tecnica.
Riconoscere questo non significa rinunciare alla
responsabilità. Significa, anzi, richiedere quella più alta responsabilità del
pensiero che consiste nel farsi carico del nichilismo nella sua massima
problematicità – senza pretendere di mettere alla porta l’ospite che ormai da
tempo si aggira ovunque per la casa, quindi senza chiudere gli occhi di fronte
al fatto che il nichilismo fa ormai parte della realtà stessa in cui viviamo.
L’unico effetto possibile a cui il pensiero può mirare è quello di produrre una
accelerazione del nichilismo. In Jünger ciò avviene attraverso quella
peculiare descrizione della consunzione, dello svanimento e della riduzione
innescati dal nichilismo, la quale, mettendoci sotto gli occhi i tratti
decisivi della nuova realtà, contribuisce a produrla. In Heidegger ciò accade
invece mediante la sua disincantata critica dei valori – un motivo che egli
svolge a più riprese in base al confronto con Nietzsche e in contrapposizione al
neokantismo e alla filosofia dei valori, sostenendo che, se davvero si intende
superare il nichilismo, non ha senso produrre resistenze e reazioni né erigere
le fragili barriere di nuovi improbabili valori. È preferibile piuttosto
lasciare che l’immane potenza del nulla si sprigioni e che tutte le possibilità
del nichilismo si esauriscano fino al loro compimento essenziale.
Questa non è – come è potuto sembrare – una apologia
del nichilismo, né in Jünger né in Heidegger. Riconoscere che l’accelerazione del
nichilismo è l’unica via che può portare al suo superamento, non significa
prendere le parti del nichilismo né salutarlo come il «gaio sapere», come la
disincantata lucidità che si compiace di avere riconosciuto che il «mondo
vero», il senso e la verità del divenire sono illusioni prospettiche. Sia
Heidegger che Jünger invitano a sperimentare fino in fondo la potenza del
nulla, convinti che solo lo spiegamento totale del nichilismo produca anche il
suo esaurimento e, con esso, la possibilità del suo superamento. Si tratta
insomma per entrambi «di lasciar sgorgare le fonti di energia ancora intatte e
di fare ricorso a ogni ausilio, per reggersi “nel vortice del nichilismo”»
(Jünger-Heidegger, 1989: 139).
Ma dove rintracciare queste fonti di energia? Su questo
punto l’itinerario dei due diverge. Jünger indica un punto di resistenza al
quale i suoi scritti successivi – valga per tutti il Trattato del Ribelle
– si abbarbicano con sempre maggiore tenacia, ma che già qui è individuato con
soverchia chiarezza. Esso è costituito dalla figura dell’Anarca, l’individuo
ribelle che si sente braccato dagli eserciti delle chiese e del Leviatano, ma
che sa di non appartenere più a niente e a nessuno. Come l’Unico di Stirner,
l’Anarca è un solitario che si rifugia nella propria interiorità. Non è da
confondere con l’anarchico. Non è un rivoluzionario che vuole trasformare il
mondo e che pur di raggiungere il suo fine è disposto anche al crimine e al
terrore. L’Anarca può anche sottomettersi esteriormente all’ordine e alla legge,
ma nel suo intimo, nella solitudine della notte, pensa e fa quel che gli pare.
E anche quando marcia tra le righe di un esercito, combatte solo le sue guerre.
Si rifugia nei territori selvaggi e nelle poche oasi rimaste per rigenerare le
forze. La postazione dell’Anarca è quella in cui Jünger immaginava di essere in
un appunto datato Parigi, 9 luglio 1942:
Se chiudo
gli occhi, scorgo a volte un paesaggio tetro ai margini dell’infinito, con
pietre, scogliere e montagne. Sullo sfondo, ai bordi di un mare nero, riconosco
me stesso, una figura minuscola, quasi tratteggiata a gesso. Quello è il mio
avamposto, prossimo al Nulla – laggiù, nell’abisso, io conduco da solo la mia
lotta (Jünger, 1978: II, 344).
In Oltre la linea egli conclude le sue
considerazioni sullo stesso motivo, aprendo una prospettiva ottimistica:
Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella
Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui
spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo
e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli
ha la meglio, il Nulla si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i
tesori che le sue onde avevano sommerso (Jünger-Heidegger, 1989: 104).
Heidegger è più vigile e guardingo: non vi sono punti
archimedei su cui appoggiarsi, non ricette né strategie da seguire. Ai
pelagiani del ventesimo secolo, convinti che la salvezza stia nelle loro mani,
Heidegger oppone la sentenza: «Ormai soltanto un dio ci può salvare». Se mai un
punto d’appoggio è possibile, esso sta in quell’eroismo del pensiero capace di
pazientare, in attesa dell’«altro inizio», nella sola disposizione in grado di
corrispondere al destino epocale del nichilismo e della tecnica, cioè
dell’epoca degli dèi fuggiti e del dio nuovo di là da venire: la Gelassenheit,
l’atteggiamento pacato dell’«abbandono».
Nichilismo, esistenzialismo, gnosi
Non v’è dubbio che l’opera di Heidegger fornisca un
contributo fondamentale per l’analisi del nichilismo europeo. Essa mette però
in luce, nei suoi esiti ultimi, un singolare paradosso, che è al tempo stesso
il paradosso di una parte significativa del pensiero contemporaneo. Si tratta
del fatto che in essa sembrano toccarsi e convivere due estremi incompatibili:
un nichilismo radicale, da un lato, e l’abbandono alla visione ispirata, se non
al misticismo, dall’altro. Per questo, quanto più nel recepire l’insegnamento
heideggeriano ci si attiene all’una prospettiva, tanto più ci si vede
confrontati con i problemi che l’altra apre. La radicalizzazione del domandare
filosofico, che tutto investe e tutto consuma, produce da un lato una
accelerazione della dissoluzione, un potenziamento del nichilismo. Dall’altro,
nel compiersi di tale dissoluzione il pensiero si apre all’aspettativa del
totalmente altro, a ciò che sta radicalmente al di là di quanto è stato
dissolto. La decostruzione dei concetti e dei teoremi della filosofia
tradizionale ha come risultato l’apertura alla problematica del sacro e del
divino. Il domandare che Heidegger considera «la pietà del pensare» implica la
messa in questione e la dissoluzione, ma al tempo stesso anche la ricerca e
l’attesa: conduce a quel Nulla che è la purificazione estrema della finitudine
e la spoglia di tutto per consentirle di accedere al divino; porta a quel punto
estremo che Meister Eckhart chiamava con le parole quasi blasfeme ricordate
all’inizio il punto «dove l’angelo, la mosca e l’anima sono la stessa cosa». È
un domandare che rade al suolo la metafisica per preparare l’avvento del «nuovo
inizio».
La chiave di lettura che meglio di ogni altra ha
portato alla luce questa possibilità di convivenza tra nichilismo e misticismo
è quella dell’accostamento del pensiero heideggeriano alla gnosi. Questo
raffronto è una variazione dalla più generale ripresa del paradigma gnostico –
scorporato dalla sua collocazione storica nella tarda antichità – come
palinsesto per una interpretazione della modernità. Una strada che era già
stata battuta nell’Ottocento da Ferdinand Christian Baur. Nel secolo scorso, il
merito della riscoperta della gnosi va ascritto a Carl Gustav Jung e agli
incontri da lui promossi a partire dagli anni Trenta ad Ascona, di cui
l’«Eranos Jahrbuch» fornisce la documentazione. Ma fu soprattutto negli anni
Cinquanta che la fruttuosità ermeneutica del paradigma gnostico venne alla luce
e fu discussa su scala più vasta. Il dibattito si accese intorno alle tesi
sostenute rispettivamente da Eric Voegelin e Hans Blumenberg.
Il primo attaccò frontalmente la legittimità
dell’epoca moderna, sostenendo che il suo sviluppo andava interpretato come il
trionfo della gnosi. Filosofi decisivi per la modernità come Hegel, Marx e
Nietzsche sarebbero da considerare «gnostici» in quanto nel loro pensiero
sarebbe operante uno schema speculativo di derivazione gnostica. In Hegel, il
processo nel corso del quale da una situazione di alienazione lo spirito giunge
a ritrovare se stesso è per Voegelin analogo alla peregrinazione attraverso la
quale la scintilla alienata (pneuma) degli gnostici fa ritorno dal suo
esilio nel cosmo fino alla pienezza originaria (pleroma). In Marx il
processo dialettico della storia, che il materialismo storico-dialettico
permette di riconoscere, libera l’uomo dall’alienazione e lo trasporta nella
pienezza di un’esistenza umana integrale. In Nietzsche il principio naturale
della volontà di potenza trasforma l’uomo, soffocato dai valori ostili alla
vita e ormai esangue, nel superuomo. In tutti e tre i casi è operante l’idea di
una autosalvazione dell’uomo mediante la «conoscenza» della propria condizione
di cattività e alienazione, la quale diventa lo strumento del riscatto. In
virtù di tale «gnosi», quindi in forza di se stesso, l’essere degradato
ripristina la propria pienezza originaria. Il trionfo moderno della gnosi
significa per Voegelin l’immanentizzazione dell’escatologia cristiana, che alla
fine sfocia nel nichilismo: Dio e la vita spirituale dell’uomo vengono
sacrificati alla civiltà con la consacrazione di tutte le energie umane
all’impresa della salvezza mediante l’azione immanente nel mondo.
A queste tesi si oppose fermamente Blumenberg. Egli
prese le difese della modernità, sostenendo che essa non è tanto la
secolarizzazione del cristianesimo, bensì il processo dell’affermazione
autonoma dell’uomo nel mondo. Con la sua assolutizzazione della dimensione
terrena la modernità nega il dualismo gnostico, ancora presente nella
speculazione teologica tardomedievale che separa radicalmente Dio e il mondo.
La modernità, dunque, non è il trionfo, ma la seconda, definitiva sconfitta
della gnosi (cfr. Faber, 1984; Taubes, 1984).
Ciò che qui interessa – al di là delle metamorfosi
moderne della gnosi – è che il paradigma dualistico gnostico consente di vedere
il nichilismo contemporaneo da una prospettiva diversa, più ampia e
illuminante. Se la gnosi, considerata non come fenomeno storico ma come modello
di pensiero, può essere interpretata alla stregua di un nichilismo
esistenzialistico ante litteram, che mediante la annihilatio mundi
opera un radicale isolamento dell’anima al fine di ottenerne la salvezza e il
ricongiungimento con Dio, allora il nichilismo contemporaneo può essere letto a
sua volta come un moderno gnosticismo ateo: cieco a ogni trascendenza, esso si
concentra in una tragica descrizione dello sradicamento e della spaesatezza
dell’esistenza mortale. Nella sua solitudine cosmica, l’esistenza ripete
l’interrogazione gnostica, sapendo che rimarrà senza risposta: chi siamo? donde
veniamo? dove andiamo?
È stato merito soprattutto di Hans Jonas, allievo di
Heidegger e Bultmann a Marburgo, avere portato alla luce le connessioni
strutturali tra la gnosi antica e l’esistenzialismo e il nichilismo
contemporanei, e avere utilizzato il modello di pensiero gnostico come chiave
interpretativa per capire la crisi esistenzialistica e nichilistica dell’uomo
d’oggi. Dalla sua approfondita ricostruzione storica della gnosi antica Jonas
ha ricavato un profilo tipologico per mostrare come il raffronto con il
paradigma gnostico liberi le questioni poste dal nichilismo e
dall’esistenzialismo dalla gabbia dell’assurdo e le illumini di un senso più
ampio (Jonas, 1992: 23-47).
Ma anche Jaspers ed Émil Bréhier avevano notato
l’importante analogia che sussiste tra l’esistenzialismo e il nichilismo, da un
lato, e lo gnosticismo dall’altro. In particolare Bréhier ha fatto osservazioni
molto penetranti sulla corrispondenza che sussiste tra l’analitica esistenziale
di Essere e tempo e la struttura del romanzo gnostico. In Heidegger si
racconterebbe la caduta dell’esistenza individuale nella finitudine, così come
nella gnosi si racconta la caduta dell’anima nell’abisso del mondo. Soltanto
che in Essere e tempo la narrazione è priva dell’inizio e della fine, ed
è proprio questa ignoranza circa la sua provenienza e la sua destinazione ciò
che conferisce alla vita romanzata la sua tensione drammatica – come in una
tragedia di cui non si conoscessero l’origine e la soluzione. Semplificando, lo
svolgimento del romanzo gnostico si articola nei seguenti episodi: 1) v’è anzitutto
l’Unità originaria; 2) da essa si staccano alcune ipostasi che vogliono
rendersi indipendenti – qui stanno il peccato e la colpa – e cadono nel mondo,
nel quale, dimentiche della loro origine e inclini alla curiositas, si
perdono (il che corrisponde secondo Bréhier alla «cura» heideggeriana); 3)
mediante la conoscenza (gnosi) alcune esistenze riescono a superare la
dimenticanza e a riacquisire la reminiscenza della loro origine, facendovi
ritorno.
Ebbene, se del racconto si oscurano l’inizio e la fine,
si ottiene esattamente la sequenza temporale dell’esistenza finita nella
dinamica di inautenticità e autenticità così come Heidegger la descrive.
L’analitica esistenziale sarebbe dunque l’espressione di un atteggiamento
gnostico e nichilista che non conosce più l’unità divina originaria né crede in
un ritorno, ma si consuma tutto nell’orizzonte vuoto e drammatico della
finitudine.
Questo paradigma di lettura lumeggia da una nuova
angolatura non solo l’opera di Heidegger, ma anche due sviluppi opposti del
pensiero contemporaneo che vi si sono ispirati: quello in direzione della
teologia e della filosofia della religione, e quello in direzione
dell’esistenzialismo ateo e nichilista. Nel primo caso si è saggiata la
possibilità di pensare il sacro e il divino nell’epoca del disincanto, ostile
alle trascendenze, mettendo in questione le categorie filosofiche impiegate
dalle teologie tradizionali e affinandone gli strumenti concettuali. Ciò ha
condotto a rivalutare quei modi di pensare il divino, come la teologia
apofatica, nei quali è attuata ante litteram, per ragioni e in modalità
diverse, una vigilanza critica nei confronti delle determinazioni positive di
Dio (cfr. Weischedel, 1972; Garaventa, 1989). In tal senso si è potuto perfino
sostenere – comparando il monoteismo ebraico, cristiano e islamico – che la
causa del nichilismo culturale dell’Occidente è una conseguenza della
determinazione di Dio come persona e dell’uomo come individuo. Andrebbero
dunque messi in questione il primato metafisico che l’Occidente accorda al
principio di individualità e il dualismo cosmoteologico che ne scaturisce (cfr.
Corbin, 1986: 136 sgg.; Guénon, 1972: 83-99).
Nell’altra direzione, quella dell’esistenzialismo ateo
e nichilistico, si è tentato di pensare la fatticità e la finitudine
dell’esistenza, e precisamente nell’assurdità che le deriva per la mancanza di
princìpi che la spieghino e le diano un senso. In questa prospettiva, il
fondersi di esistenzialismo e nichilismo – ad esempio nell’opera di pensatori
come Jean-Paul Sartre e Albert Camus – ha apportato un contributo decisivo alla
tematizzazione e alla chiarificazione dell’esistenza umana.
Negli scritti di Sartre, per esempio, senza che il
concetto di nichilismo sia impiegato come tale, si avverte ovunque la presenza
di un atteggiamento nichilistico esplicito, a volte quasi ostentato. Ciò vale
soprattutto per gli scritti del periodo esistenzialista. In L’être et le
néant (1943) – le cui intuizioni sono preparate e accompagnate da una
copiosa produzione letteraria, nella quale spicca per l’atmosfera nichilistica
evocata il romanzo filosofico La nausée (1938) – il nulla e la
negatività campeggiano al centro della trattazione e hanno una funzione
determinante nello sforzo di definire il carattere radicalmente libero dell’esistenza
umana. Quest’ultima, in quanto è libertà, non può essere condizionata da
nessuna determinazione, nessun concetto, nessuna definizione; essa è per
essenza ciò che sceglierà di essere e ciò che diventerà con la sua scelta.
L’uomo è l’essere in cui l’esistenza precede l’essenza e la determina.
Esistenza e libertà, pensate coerentemente insieme, impongono da un lato la
negazione di Dio – giacché, se lo si ammettesse, si avrebbe eo ipso un
principio che determinerebbe l’essenza dell’uomo prima della sua esistenza – e
dall’altro costringono l’uomo, abbandonato a se stesso, a inventare ognora la
sua esistenza decidendo che farne. Sennonché, la libertà cosciente, il
«per-sé», che espone l’uomo all’inevitabile incombenza di un continuo
progettarsi, non è una libertà astratta, ma è sempre calata in una situazione,
gettata in una condizione, inserita nel mondo delle cose, dell’«in-sé».
L’esistenza è coscienza e libertà che trascende il mondo, ma non può
trascenderlo se non riferendovisi continuamente. In quanto poi l’esistenza è
corpo, diventa cosa tra cose, contingenza assurda fra contingenze. Il corpo «è
la forma contingente assunta dalla necessità della mia contingenza» (Sartre,
1965: 385). La libertà del per-sé ha nella contingenza dell’in-sé il proprio
termine di riferimento: l’esistenza, in quanto coscienza e libertà, non si
riduce alla gratuità opaca dell’essere del corpo o delle cose, ma costantemente
lo nega e lo trascende. Essa si esplica, tutta, nella libertà che la
costituisce come per-sé e con cui, negando ogni preventivo condizionamento e
ogni fatticità, si proietta dal nulla nel nulla. La libertà dell’esistere
umano, per essere affermata nella radicalità delle sue conseguenze, implica una
«nientificazione» (néantisation) che priva l’uomo di qualsiasi riferimento
esterno a cui appoggiarsi e lo costringe a ripiegarsi su se stesso, a essere la
propria libertà e il proprio nulla. La libertà è quel peculiare modo d’essere
che si fa mancanza d’essere, cioè nulla. La conclusione di Sartre è coerente:
l’uomo è una passione inutile. Ricompare qui, benché non esplicitato, il motivo
del nichilismo gnostico.
Chi invece ha pienamente presente la struttura
gnostica sottesa alla propria riflessione esistenzialistica e nichilistica è
Camus. Questa consapevolezza non stupisce se si considera che nella tesi di
laurea Métaphysique chrétienne et néoplatonisme (1936), in cui al centro
della trattazione stanno le figure di Plotino e Agostino, Camus si era occupato
della gnosi e le aveva dedicato l’intero secondo capitolo del lavoro (Camus,
1965: 1250-69). Benché qui egli non raggiunga ancora né la prospettiva né
l’originalità degli scritti che lo resero famoso, e non sia quindi possibile
stabilire connessioni precise, si può tuttavia mettere in evidenza come la sua
trattazione della gnosi proceda per «temi» e «soluzioni», e segua un approccio
problematico interessato a cogliere la struttura di tale pensiero. Ciò segnala
un interesse non meramente storico ma tipologico, alla luce del quale non si
può liquidare come una semplice coincidenza il fatto che Camus scelga come
titoli di alcune sue opere altrettante metafore gnostiche: L’étranger,
La chute, L’exile et le royaume. Da tale prospettiva appare inoltre
assai più chiaro l’orizzonte metafisico del nichilismo che Camus tratta e svolge
lungo il filo conduttore dei due motivi che lo ossessionano, cioè l’assurdo e
la rivolta della finitudine. Il primo motivo sta al centro di Le mythe de
Sisyphe (1942), dove la gratuità dell’esistere – una volta tacitati o morti
gli dèi – è rivendicata come una faccenda umana che va vissuta senza ragioni e
senza spiegazioni. Il secondo motivo sostanzia di sé quello che va considerato
uno tra gli studi più illuminanti e profondi sul problema del nichilismo, L’homme
revolté (1951). Forte del suo invidiabile talento letterario Camus
ricostruisce in una suggestiva rassegna la storia del nichilismo, e alla fine
presenta l’attitudine della rivolta come l’unica virtù praticabile per
strappare un senso all’assurdità della condizione umana.
Ma la tematica del nichilismo ha trovato un clima
propizio per attecchire e diffondersi non solo nella stagione e negli ambienti
dell’esistenzialismo. Condizioni favorevoli a ciò si sono verificate anche in
altri luoghi e momenti del pensiero francese contemporaneo, specialmente là
dove ci si è fatti carico del problema della finitudine. Per la confluenza di
esistenzialismo e nichilismo, tipica di un certo stile filosofico francese, non
si sottolinerà mai abbastanza l’importanza che ebbero i seminari sulla Fenomenologia
dello spirito di Hegel tenuti da Alexandre Kojève all’École des
Hautes-Études tra il 1933 e il 1939 – e frequentati, tra gli altri, da Raymond
Queneau, Georges Bataille, Jacques Lacan, Raymond Aron, André Breton, Pierre
Klossowski, Maurice Merleau-Ponty, Jean Hyppolite, Jean Wahl e secondo alcuni
anche dal giovane Sartre. Non è un caso che, contro le letture tradizionali di
Hegel, nei suoi seminari Kojève evidenziasse e valorizzasse fortemente il
momento della negatività e la sua funzione decisiva nella costituzione
della finitudine e delle sue figure, come vedremo più avanti (cfr. cap. XIV).
Ma per dare un’idea immediatamente convincente della
presenza delle tematiche nichilistiche nella cultura francese basterà
ricordare, per il loro valore di paradigma e per le suggestioni che evocano,
due nomi: Georges Bataille ed Emil M. Cioran. Il primo fu presente ai seminari
di Kojève, rimase in rapporto con lui al punto da chiedergli, agli inizi del
1950, una prefazione per la nuova edizione di L’expérience intérieure,
riconoscendo però alla fine l’inconciliabilità delle loro prospettive. La sua
opera è talmente difficile da abbracciare, che non è qui nemmeno il caso di
cercare di indicarne il filo conduttore. Ciò che preme dire è che essa è
attraversata da cima a fondo dalla lucida consapevolezza che il nichilismo è
un’ombra costante che inevitabilmente ci accompagna quando pensiamo in assenza
di dèi o quando ci picchiamo di portare al linguaggio la negatività, il limite,
l’alterità. Ed è proprio quanto avviene nei tre volumi della «summa
atheologica» con cui Bataille esordì da filosofo: L’expérience intérieure
(1943), Le coupable (1944), Sur Nietzsche (1945).
Quanto a Cioran, anche il suo pensiero richiederebbe
un discorso articolato, ma ci limitiamo qui a una sola osservazione. La sua
opera somministra, pagina dopo pagina, un concentrato di pessimismo che
avvelena mortalmente tutti gli ideali, le speranze e gli slanci metafisici
della filosofia, cioè tutti i tentativi di ancorare l’esistenza a un senso che
la rassicuri di fronte all’abisso dell’assurdità che in ogni momento la
minaccia. Le meditazioni di Cioran ci sospingono fino a quel punto in cui
ciascuno di noi sta nudo di fronte al suo nudo destino. In La chute
dans le temps (1964) – un titolo di chiara provenienza gnostica – si dice:
Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di
fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra
singolarità (Cioran, 1995: 11-12).
L’uomo è insomma un nulla conscio di sé, è «colui che
non è»: così asserisce Cioran rovesciando la definizione veterotestamentaria di
Dio come «colui che è». La sua costellazione di pensiero non va confusa con
quella delle speranzose filosofie dell’esistenza. È piuttosto quella dello
gnostico che – consapevole di essere caduto nel tempo e nella finitudine, di
essere libero ma al tempo stesso prigioniero nell’angusta cella dell’universo –
vuole salvarsi in forza di se stesso e nega disperatamente ogni valore positivo
del mondo, incendiando con furore iconoclastico tutte le immagini, i fantasmi e
gli dèi che lo popolano, pur sapendo che gli altari abbandonati verranno
abitati da demoni. Un’aura palesemente gnostico-nichilistica emana così dagli
scritti di questo mistico senza Dio e si condensa, come un’ossessione, nella
sequela dei suoi taglienti aforismi e delle sue peregrinazioni saggistiche. Il
nichilismo con cui si ha qui a che fare è più evocato con immagini ed effetti
letterari che non svolto ed esposto nei giri ampi e rigorosi del ragionamento
filosofico. Ma proprio così vengono alla luce in maniera quasi abbagliante la
disperazione e insieme la lucidità che lo sostengono, la malinconia e
l’accanimento di cui si nutre, l’empietà che lo attrae verso la fosforescenza
del male e al tempo stesso la devozione con cui Cioran si slancia verso quella
«versione più pura di Dio» che è per lui il Nulla.
Ai confini di questo scenario si colloca poi un’altra
singolare figura, poco nota e probabilmente minore, ma inevitabile per chiunque
affronti l’argomento del nichilismo gnostico: Albert Caraco. Nato a Istanbul
nel 1919, all’indomani della Rivoluzione russa e della prima guerra mondiale,
quando l’antica capitale era stata occupata dalle potenze vincitrici e invasa
dagli emigranti russi, il giovane fu presto coinvolto nella vita errante della
famiglia ebrea da cui discendeva. Il padre José, procuratore di banca, si
trasferì prima a Vienna, poi a Praga, e qualche anno più tardi a Berlino. «I
miei genitori erano nomadi, lo trovavano normale, vivevano pericolosamente,
senza capitali né passaporto», annoterà con un velo di mestizia in Ma
confession, il testamento autobiografico pubblicato postumo (Caraco, 1975:
13). Con la preveggenza dei nomadi, i Caraco abbandonarono per tempo anche la
Germania e agli inizi degli anni Trenta si stabilirono a Parigi. Qui il geniale
rampollo, che parlava e scriveva correntemente francese, tedesco, spagnolo e
inglese, si annoiò non poco tra i banchi del modesto Lycée Janson-de-Sailly.
Voleva diventare medico. I genitori lo costrinsero invece all’inutile diploma
dell’École des Hautes Etudes Commerciales, conseguito nel 1939 e da allora
abbandonato in un cassetto.
All’approssimarsi della guerra la famiglia cercò un
rifugio più sicuro oltre Oceano: in Honduras, poi in Brasile, a Buenos Aires,
infine a Montevideo. Qui i Caraco rimasero fino a dopo la guerra, acquisendo la
cittadinanza uruguayana e convertendosi per convenienza sociale al
cattolicesimo. A questo periodo risalgono i primi tentativi letterari di
Albert, in prosa e in versi, ispirati al simbolismo e alla letteratura fantastica.
Il giovanissimo autore illustra di sua mano con disegni stilizzati in bianco e
nero i libri che pubblica: Inés de Castro (1941), Il ciclo di
Giovanna d’Arco (Le cycle de Jeanne d’Arc, 1942), I misteri di
Eusebio (Les mystères d’Eusèbe, 1942), Il ritorno di Serse (Retour
de Xerxès, 1943). Nei salotti coloniali della buona società
latino-americana le sue opere riscuotono un certo successo, che alimenta le
morbose aspettative del padre e della madre. I due si impegnano per riservare
al giovane un’unica incombenza: quella di coltivare il proprio talento
letterario. Del resto la scrittura è l’unica attività di cui è capace, l’unica
a cui si sente votato, anzi, obbligato. «Scrivo per una specie di bisogno
fisico» (Caraco, 1975: 232), «se non scrivessi sarei morto da tempo» (Caraco,
1975: 164). Pagine e pagine vergate giorno dopo giorno, isolandosi dal mondo e
rifugiandosi nei propri sogni, nelle proprie chimere, nelle proprie
idiosincrasie.
Quando al rientro della famiglia in Europa, a Parigi,
prende atto del compiuto isolamento, lo vive come una rigenerazione: «Sono nato
a me stesso tra il 1946 e il 1948, fu allora che aprii gli occhi sul mondo, ero
stato, fino a trent’anni passati, cieco» (Caraco, 1975: 33). Ovviamente il
mondo su cui apre le sue finestre non è quello di Parigi, ma il tetro universo
dei propri pensieri, tra i quali comincia a peregrinare senza speranza. Il
libro delle lotte dell’anima (Le livre des combats de l’âme, 1949)
ottiene il premio Edgar Poe. Ma Albert è sempre più solo, chiuso in se stesso:
La
solitudine e il nulla bastano al mio essere (Caraco, 1975: 12).
Da questa solinga postazione lancia strali e veleni
contro tutti. Roger Caillois è apostrofato come «magro sofista e ragionatore
appuntito, sub-machiavellico da prefettura, cresciuto nel serraglio di un
editore», «un uomo che non ha gran che da dire, che manca in modo assoluto di
fiamma e di genio, e la cui opera è una successione di noticiole messe in fila
una dopo l’altra» (Caraco, 1975: 168). Sulla Beauvoir e Simone Weil sentenzia:
«Non c’è nulla di più miserabile del Secondo sesso, e se, a rigore,
stimo la forma della Weil, il contenuto mi sembra ridicolo» (Caraco, 1975:
164). E delle riviste francesi più celebri scrive: «Quando per caso apro
“Esprit” o “Les Temps modernes” mi prende l’orrore» (Caraco, 1975: 172). Exempla
non sunt multiplicanda praeter necessitatem.
Fedele alla disciplina quotidiana della scrittura,
accumula un’impressionante opera filosofica, ma non si cura nemmeno di
pubblicarla. La ragione? «Scrivo per il mio cassetto», constata sconsolato
(Caraco, 1975: 196). Il distillato dei corrosivi pensieri che zampillano dal
suo calamaio è un piccolo denso taccuino: Breviario del caos (Bréviaire
du chaos, 1982). A esso si associa un suo personale dizionario del pessimismo:
l’Abécédaire de Martin-Batôn (1994). Annotazioni fulminanti, massime e
sentenze dal nitore stilistico che le avvicina all’aforisma. Impressiona la
martellante insistenza con cui Caraco batte e ribatte motivi classici del
nichilismo europeo, l’occhio rapace con cui scruta l’universo per spogliarlo di
qualsiasi senso o ipotesi esplicativa. Il suo pessimismo metafisico è drastico:
l’essere, al livello più profondo che il nostro pensiero scandagli, non è altro
che caos, indifferenza, declinazione del nulla in tutte le sue variazioni.
La natura
del mondo è l’assoluta indifferenza, e dovere del filosofo è quanto meno essere
simile alla natura del mondo (Caraco, 1998: 24).
Noi
invochiamo il caos e la morte sull’universo attuale e plaudiamo alla loro venuta
(Caraco, 1998: 59).
Il futuro
dirà che gli unici chiaroveggenti erano gli Anarchici e i Nichilisti (Caraco,
1998: 105).
«Disfattismo filosofico» potremmo definire il
principio intorno a cui ruotano i motivi della sua plumbea e disperata
riflessione: l’assoluta indifferenza verso l’esistente, corroso dal tarlo della
decadenza, l’opposizione inflessibile a ogni ideale, l’apodittico rifiuto di
ogni trascendenza e ogni ordine, l’ossessione della catastrofe e della morte.
L’unica religione che accetta è quella gnostica:
Se mi si
domandasse quel che credo, mi confesserei Gnostico, e lo fui da quando ho
cominciato a ragionare e sentire (Caraco, 1975: 64).
Una fede, questa, che il tempo consolida in lui:
Più
invecchio e più la Gnosi parla alla mia ragione, il mondo non è governato da
una Provvidenza, è essenzialmente malvagio, profondamente assurdo, e la
Creazione è il sogno di un’intelligenza cieca o il gioco di un principio senza
morale (Caraco, 1975: 77).
Una certa consolazione sembra venirgli dall’Eterno Femminino:
«Voglio che il principio femminile presieda alla fondazione della Città futura»
(Caraco, 1998: 76). E annuncia questo miraggio nella convinzione di essere «uno
dei profeti del nostro tempo», irrefragabilmente certo della sua previsione:
«Quello che affermo non è un’utopia, è una verità che intravedo» (Caraco, 1998:
76). Ma il cammino verso il Nuovo Inizio è lungo e travagliato. Dovrà passare
per la fine della storia, altra pesante tesi metafisica su cui egli insiste:
L’ordine a
venire sarà la tomba della storia, e solo a questo prezzo la nostra specie
sopravviverà; dobbiamo uscire dalla Storia e ne usciremo solo per mezzo delle
donne, la dominazione delle donne ci affrancherà dalla sua tutela e toglierà la
sua ipoteca (Caraco, 1998: 78).
È bene però non farsi illusioni: non tanto perché il
femminile sia per essenza volubile, ma perché non c’è ragionamento di Caraco
che non nasconda in cauda venenum. L’esaltazione del principio femminile
si ribalta nel rifiuto della donna in carne e ossa, cioè del sesso, della vita.
Compulsando le sue frasi sull’argomento, gli si estorce la verità: «La mia
politica consiste nell’opporre alle donne il principio femminile, ho la
religione di tale principio, e ciò mi consente di ignorare le donne» (Caraco,
1975: 201). Di qui la sua perentoria inferenza: «La castità risolve tutti i
problemi» (Caraco, 1975: 200). Ciò vale anche in prospettiva filosofica: «Il
maggior vantaggio della continenza è che ci distacca dal mondo, il mondo è
donna e quando fornichiamo ci alleiamo con il mondo e veniamo coinvolti nel
dolore e nella preoccupazione» (Caraco, 1975: 174). Va detto peraltro, a onor
del vero, che per Caraco il maschio non è migliore della femmina. Sperare negli
esseri umani è una pia illusione:
A che serve
predicare a quei miliardi di sonnambuli che vanno verso il caos con passo
uniforme, sotto il pastorale dei loro seduttori spirituali e sotto il bastone
dei loro padroni? (Caraco, 1998: 62).
Queste tesi, che ci vengono imposte come dogmatiche
certezze più che argomentate con ragionamenti, rimandano alla vasta trattazione
che Caraco ne ha fornito in svariate opere, i cui titoli parlano da sé: La
scuola degli intransigenti (L’école des intransigeants, 1952), Il
desiderabile e il sublime. Fenomenologia dell’apocalisse (Le désirable
et le sublime. Phénoménologie de l’apocalypse, 1953), Otto saggi sul
male (Huit essais sur le mal, 1963), La tomba della storia (Le
tombeau de l’histoire, 1966). E rinviano soprattutto all’esperienza vissuta
da cui il suo pensiero dell’assurdo è germogliato, e che è evocata in Ma
confession e nei diari postumi: Semainier de l’agonie (1985), Semainier
de l’incertitude (1994).
In un suo
appunto leggiamo: «Il Signor Padre dorme nella stanza accanto, come se volesse
imparare a morire; lui è l’ultimo legame che mi tiene attaccato a questo mondo,
e se un bel mattino non dovesse svegliarsi, lo seguirei di buona grazia»
(Caraco, 1975: 16).
Albert Caraco fu di parola. Un giorno di settembre del
1971 in cui il padre rese l’anima a Dio, aspettò con pazienza la sera. Poi,
imbottitosi di barbiturici, si tagliò la gola con una lama per andare incontro
il più rapidamente possibile alla fine della sua peregrinazione terrena.
Nichilismo, teologia politica, secolarizzazione: Carl
Schmitt
A differenza di quanto è avvenuto nella cultura
francese, almeno in pensatori come Camus, Bataille e soprattutto Cioran, che si
compiacciono del loro spleen nichilistico, non si può dire lo stesso dei
pensatori dell’altra sponda del Reno. Certo, i grandi teorici tedeschi del
nichilismo – Benn, Jünger, Heidegger – nelle loro analisi si sono talmente
chinati sull’esperienza nichilistica che spesso questa propensione è stata loro
rinfacciata come una colpa. In verità il loro pensiero è mosso nel profondo da
una volontà di superare, o quanto meno di esorcizzare, la crisi e la negatività
di cui tale movimento è espressione.
Merita di essere nominata in questo senso una figura
che, insieme ai tre appena menzionati, ha dato nel Novecento un contributo
decisivo alla comprensione e all’elaborazione teorica del nichilismo: Carl
Schmitt. Nella sua opera è svolta, dal punto di vista della filosofia politica,
una lucida indagine sul nichilismo moderno e contemporaneo e sui processi di
secolarizzazione e neutralizzazione che lo hanno provocato. Una indagine che
appare tanto più disincantata e spregiudicata quanto più accanita è
l’avversione che Schmitt, in nome di una professione di fede
cattolico-gnostica, nutre nei confronti degli esiti disgregatori della
secolarizzazione. Come spesso accade nel caso di pensatori che fanno vibrare la
forza dell’elementare, Schmitt è stato molto discusso e le sue tesi sono state
oggetto di esacerbate controversie. Per gli uni egli ha impersonato un
decisionismo politico che minaccia i princìpi del parlamentarismo e della
democrazia, cioè i due pilastri sui quali poggia la vita politica delle società
moderne; per gli altri è stato il teorico di uno Stato forte, politicamente
capace di agire, cioè di decidere. Comunque sia, alcuni suoi testi – da Il
concetto del Politico (Der Begriff des Politischen, 1927) a Il
nomos della terra (Der Nomos der Erde, 1950) – costituiscono per la
filosofia politica contemporanea punti di riferimento inevitabili.
Prendendo le mosse dal problema della odierna crisi di
legittimità dello Stato, Schmitt constata che la nostra situazione è
caratterizzata dall’impraticabilità delle risorse tradizionali per far fronte
alla crisi, cioè dall’impossibilità di ricorrere a istanze pre-politiche in
grado di dare fondamento e legittimità alla sovranità dello Stato. Tali erano
in passato la teologia, le visioni del mondo e le ideologie, che oggi hanno
perduto la loro forza vincolante e appaiono destinate al tramonto. Nella
situazione di nichilismo politico che caratterizza la nostra epoca diventa
determinante, per individuare il fondamento del potere, definire l’autentico
soggetto della sovranità, cioè stabilire «chi decide». Ora, il positivismo
giuridico – su questo punto il grande interlocutore e antagonista di Schmitt è
Kelsen – identifica lo Stato con l’ordinamento giuridico delle leggi, nel quale
però è detto soltanto come funziona l’insieme delle norme, cioè «come» si deve
decidere, ma non chi decide di questo «come», cioè non chi determina il
funzionamento del sistema politico-giuridico né in che modo ciò avvenga. Il
funzionamento delle norme presuppone dunque una situazione di normalità già
prodotta. Ma per capire come essa venga prodotta, è decisivo il momento che
precede la normalità giuridica: lo «stato di eccezione». In esso, non vigendo
ancora, o non vigendo più, norma alcuna, si debbono imporre le condizioni
affinché le norme possano valere. Essere sovrano significa per Schmitt essere
«colui che decide nello stato di eccezione» (precisamente su chi è «amico» e
chi «nemico»). La chiave di volta di ogni ordinamento giuridico non sta in una
norma fondamentale, come vuole Kelsen, bensì in una decisione originaria che
pone la legalità e garantisce la sua efficacia.
È in questo quadro che va concepito per Schmitt lo
Stato, forma tipicamente moderna del Politico. Il processo di formazione della
legittimità e della sovranità dello Stato è tuttavia inscindibile dal fenomeno
del nichilismo politico che ne travaglia l’autorappresentazione teorica. La
modernità si caratterizza per il progressivo venire meno del fondamento
teologico tradizionale della legittimità e per la corrispondente esigenza di
produrla autonomamente, etiamsi Deus non daretur, cioè tramite la
«finzione» della non esistenza di Dio e l’utilizzazione in sua vece di una
argomentazione razionale indipendente dai dettami della teologia. Il
tradizionale fondamento teologico viene allora progressivamente secolarizzato e
neutralizzato, secondo il principio proferito già da Alberico Gentile: Silete,
theologi, in munere alieno! I sacelli della teologia vengono svuotati e il
loro contenuto trasferito nel pensiero politico, il quale, per darsi
fondamento, ricorre a quadri di riferimento succedanei rispetto a quello
teologico: a quello metafisico (XVII secolo), poi a quello morale (XVIII
secolo), quindi a quello economico (XIX secolo) e infine, nel XX secolo, a
quello tecnico. Ma la tecnica, in quanto serve a qualsiasi fine, produce lo
sradicamento di ogni riferimento e orientamento tradizionale, anche di quello
legato alla terra che, nella contrapposizione al mare, caratterizza per Schmitt
la tradizione dello Jus Publicum Europaeum. Nel racconto Land und
Meer (Terra e mare), scritto per la figlia Anima nel 1942, quando si
trovava ormai isolato nella Berlino nazionalsocialista in guerra, Schmitt
rilegge la storia europea alla luce della opposizione elementare di terra e
mare, ordinamento politico-giuridico continentale e marittimo, ricavandone una
vertiginosa affabulazione: quella di una «filosofia della storia» che vede
segretamente all’opera dietro gli eventi potenze elementari quali la terra e il
mare, Behemot e Leviatano, ma anche la tecnica. È quest’ultima che ha reso
possibile la conquista dei mari, e quindi la nuova forma di esistenza
insulare-marittima tipica dell’Inghilterra. È essa che sta dischiudendo all’uomo
un nuovo grande spazio di conquista, l’aria, affiancando a Behemot e Leviatano
un terzo mostro, il Grifone, signore dei cieli. Ma quale sarà, e su che cosa si
fonderà, il nuovo nomos che tutti auspicano? La tecnica, che tutto
uniforma e amalgama, non può in realtà costituire fondamento e ordine alcuno.
Essa non riconosce alcun «luogo» naturale in cui mettere radici. È questa per
Schmitt la vera condizione che caratterizza l’epoca contemporanea: la
condizione di u-topia e nichilismo – fenomeni che, nel mondo sradicato dalla
tecnica, sono latentemente congiunti (Schmitt, 1991a: 53). In questa
situazione, quale unico criterio praticabile per una individuazione del
«Politico» rimane la nuda e cruda contrapposizione di «amico e nemico» – dove
per nemico non è inteso l’inimicus, cioè colui che nutre sentimenti
ostili sul piano personale, né il rivalis, ossia il concorrente, o l’adversarius,
vale a dire l’avversario in generale, ma l’hostis, il nemico «della
patria», pubblico, politico, colui che è semplicemente «altro» e che nella sua
alterità irriducibile richiede di essere affrontato nella sola disposizione
adeguata, quella strategico-conflittuale della lotta.
Ma non si capirebbero veramente le tesi di Schmitt se
non le si inquadrasse nell’orizzonte del problema che ha costituito il filo
conduttore del suo pensiero e lo ha ossessionato fino all’ultimo: la lotta tra
cattolicesimo ed ebraismo circa l’interpretazione del senso della storia
universale. Tale conflitto non è per Schmitt una questione accademica ma un
problema vitale. La modernità è per lui il campo di questo grandioso scontro
dal quale, con la secolarizzazione, gli ebrei uscirebbero vincitori. Schmitt
era convinto che i grandi pensatori ebrei del XIX secolo avessero compreso che
per averla vinta sul piano della storia universale si doveva eliminare l’antico
ordinamento cristiano del mondo – dunque che bisognava favorire la
secolarizzazione e la disgregazione di quell’ordine. In effetti con loro
entrano in circolazione i concetti fondamentali della dissoluzione: Marx, con
la sua teoria del capitalismo, ha introdotto l’idea della lotta di classe che
abbatte l’ordine sociale tradizionale. Freud, con la psicoanalisi e
l’inconscio, ha dissolto i concetti di anima e di persona, perno
dell’antropologia cristiana. Einstein, con la teoria della relatività, ha
distrutto per sempre l’immagine antropocentrica dell’universo.
Ma il teorico più temibile dell’ebraismo è Benjamin
Disraeli, di cui non a caso Schmitt teneva appeso il ritratto sopra il proprio
scrittoio nella casa di Dahlem, a Berlino. Secondo Disraeli – che affida questa
sua tesi al romanzo Tancredi o la nuova crociata (Tancred, or The New
Crusade, 1847) con cui conclude la Young England Trilogy – la storia
è un conflitto fra razze e v’è un popolo, quello di Israele, superiore agli
altri e destinato ad affermarsi su tutti. Nella frase-chiave del romanzo si
dice: «Il cristianesimo è ebraismo per il popolo». Si tratta per Schmitt di
un’affermazione inaudita, che capovolge duemila anni di storia. Se fosse vera,
l’eone cristiano equivarrebbe a un errore. Di più: il cristianesimo sarebbe
semplicemente la strategia escogitata dagli ebrei per avere la meglio sugli
altri popoli. Ma Schmitt è convinto che la storia stia dando ragione
all’ebraismo e proprio per questo è colpito dalla tesi di Disraeli.
L’escatologia cristiana, basata sul peccato originale e sulla redenzione
dell’uomo nell’aldilà, si sta rivelando come l’interpretazione perdente della
storia universale. Vincente è il messianismo ebraico: l’umanità è in cammino
progressivo verso il «regno di pace» futuro, verso la «Nuova Gerusalemme»,
lontano nel tempo ma situata nell’aldiqua. Per Schmitt è chiaro che con la
secolarizzazione moderna, al più tardi dalla Rivoluzione francese in poi, i
popoli europei hanno interpretato la storia nel senso dell’ebraismo, e che
l’idea ebraica di un principio universale che abbraccia tutta l’umanità ha
trovato la sua incipiente realizzazione nell’era globale in cui il mondo
moderno è effettivamente entrato. Dal punto di vista del teologo politico che
considera il cattolicesimo romano come il katéchon, la forza che frena
l’avvento dell’Anticristo, ciò equivale alla vittoria dell’élite ebraica che
vuole la dissoluzione. In base a ciò si capisce l’affermazione riportata in Ex
captivitate salus che Schmitt soleva ripetere: «Il nemico è la
personificazione del nostro proprio problema» (Schmitt, 1987: 92).
Poco importa, ai fini di una analisi storica e teorica
del nichilismo, che Schmitt – come testimoniano i diari stesi negli anni di
crisi dopo la guerra, Ex captivitate salus e Glossarium – azzardi
la crudezza di queste tesi inscrivendole nel quadro di una interpretazione
teologico-escatologica della storia, e che rispetto a essa egli assuma
l’attitudine di un «Epimeteo cristiano». Poco importa, cioè, che egli si
presenti semplicemente come colui il quale mostra i mali contenuti nel vaso di
Pandora, ma al tempo stesso condanna sprezzantemente, nello spirito del
cattolicesimo, il soggettivismo egologico e il nichilismo del pensiero moderno
e contemporaneo. Poco importa che dietro a quest’ultimo egli veda all’opera le
forze del Male, cui può opporsi solo la «forza che trattiene», il katéchon
rappresentato dalla Chiesa romana. Poco importano i veleni che nel Glossarium
Schmitt versa contro la modernità, dichiarando, per esempio, che il preteso fundamentum
inconcussum del cogito cartesiano è una sfida a Dio di una arroganza
senza pari; o che Spinoza, con la sua equiparazione di Dio e Natura, abbia
portato al Divino la più spudorata offesa mai proferita; o che Nietzsche, con
la sua filosofia della volontà di potenza, rappresenti «il culmine della più
miserabile mancanza di gusto e stupidità esistenziale». Ciò che importa è che
questo Epimeteo del nostro tempo non ha paventato quella analisi radicale che
lo ha condotto a scoperchiare il vaso del nichilismo.
Nichilismo, "posthistoire",
fine della storia: Kojève, Gehlen
Nel corso
della secolarizzazione – di cui l’opera di Carl Schmitt mette a nudo la
dinamica – la neutralizzazione nichilistica dei valori attacca anche la
comprensione della storia intesa come orizzonte dell’agire umano che s’inarca
tra passato e futuro abbracciando lo sviluppo progressivo degli eventi.
Nelle
moderne filosofie della storia – nate dalla secolarizzazione di motivi della
storia sacra in Bossuet (Discours sur l’histoire universelle, 1681),
Voltaire (Essai sur l’histoire générale et sur les moeurs et l’esprit des
nations, 1756), Condorcet (Esquisse d’un tableau historique des progrès
de l’esprit humain, 1795) – una polarità di fondo determina la tensione che
caratterizza il corso delle res gestae: la polarità fra storia e utopia,
fra tradizione e rivoluzione. Ma con l’avvento della mentalità
storicista, ossia di quel positivismo della storia che considera quest’ultima
non come «maestra di vita», bensì come oggetto di osservazione scientifica,
viene riassorbita la tensione che tradizionalmente la storia trasmetteva
all’agire. Nella seconda delle Considerazioni inattuali (Unzeitgemäße
Betrachtungen, 1873-76), dal celebre titolo Sull’utilità e il danno
della storia per la vita (Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das
Leben, 1874), Nietzsche ha previsto l’esito a cui approda la moderna
comprensione scientifica della storia. Prigioniero della mentalità storicista,
l’uomo si aggira come un turista ozioso nel giardino della storia rendendo
visita a tutte le bellezze e le curiosità di cui esso fa mostra, ma diventa
egli stesso incapace di azione storica: si comporta da osservatore distaccato,
indifferente alla tradizione e all’utopia, in conformità con quel tout
comprendre che è al tempo stesso un tout pardonner e che lo priva
della forza di decidere, cioè di agire. Nel compiersi della modernità – anziché
fungere, mediante l’assimilazione critica della tradizione, come orizzonte
e serbatoio dal quale attingere contenuti e motivi per progettare l’avvenire –
il peso della comprensione storiografica della storia finisce per soffocare e
paralizzare l’agire. Relativismo e scetticismo, pessimismo e nichilismo sono
momenti del cammino che porta verso l’esaurimento della storia intesa come
decorso lineare delle magnifiche sorti e progressive.
A
confermare questo processo fanno la loro comparsa riflessioni e convinzioni
crepuscolari che incrementano la sensazione che si sia giunti a uno stadio
finale irreversibile. Viene teorizzata espressamente l’idea di una «fine della
storia» e di una «posthistoire». La «fine di tutte le cose», che l’illuminista
Kant prospettava come senso finale della storia a cui mettesse capo il costante
progresso dell’umanità verso il meglio, nell’odierno dibattito sulla
«posthistoire» e sulla fine della storia è diventata una mera «agonia della
fine», il soffocante riconoscimento dell’irreversibilità dello stato raggiunto.
Ma che cosa
si intende per «posthistoire»? Il senso dell’espressione, evidentemente,
dipende dall’idea di storia che si pretende di essersi lasciati alle spalle.
Nel dibattito attuale essa è stata introdotta e usata in funzione di una
diagnosi critica del presente: si vorrebbe indicare l’uscita dalla storia
intesa come progresso lineare e l’entrata in una dimensione dove ciò che era
storia – evoluzione, sviluppo, progresso secondo il corso inarrestabile e
irreversibile del tempo – è stato messo fuori gioco dalla stagnazione a cui gli
eventi storici hanno portato. Intellettuali di destra e di sinistra hanno usato
il concetto di «posthistoire» riempiendolo di contenuti rispettivamente
diversi. Vale la pena, qui, menzionare soprattutto due pensatori che,
indipendentemente l’uno dall’altro, hanno entrambi fatto uso di tale concetto:
Alexandre Kojève e Arnold Gehlen.
Kojève,
nato a Mosca, si era occupato in gioventù del messianismo russo. La sua vasta
tesi di dottorato, presentata a Heidelberg con Jaspers nel 1926, verteva sulla
filosofia della religione di Solov’ëv. A Parigi, dove era emigrato, aveva avuto
contatti con Berdiaev. Questi, specialmente in Le sens de l’histoire
(1923) e nell’Essai de métaphysique eschatologique (1941), aveva già
sviluppato contro l’ottimismo del progresso e la «divinizzazione del futuro» il
motivo della «fine della storia», inserendolo nella cornice di una escatologia
millenarista. Kojève, nei già ricordati seminari sulla Fenomenologia dello
spirito, è anch’egli affascinato dalla tesi della «fine della storia», ma
la elabora – partendo dalla propria lettura della dialettica hegeliana di servo
e signore e da una singolare interpretazione della figura di Napoleone – in una
prospettiva marxista del tutto originale.
La tesi, in
breve, è questa: la storia finisce, in linea di principio, con la
vittoria di Napoleone a Jena. Tale evento – di cui Hegel coglie immediatamente
l’importanza scrivendo il 13 ottobre 1806 a Niethammer di avere provato una
«meravigliosa sensazione» nell’ammirare nel vincitore di Jena «l’anima del
mondo concentrata in un solo punto» – rappresenta per Kojève l’affermazione su
scala mondiale dei principi della libertà e dell’uguaglianza, rivendicati dalla
Rivoluzione francese e realizzati nell’impero fondato da Napoleone, l’État
universel et homogène, con cui la storia giunge a compimento e finisce. La Fenomenologia
dello spirito descrive il processo attraverso il quale l’uomo si afferma
come soggetto autocosciente e libero, e diventa cittadino dello Stato
universale e omogeneo. In tal senso essa è una sorta di «antropologia
filosofica» ovvero di ricostruzione razionale del percorso attraverso il quale
l’uomo, in virtù della sua costituzione temporale che lo rende capace di
prassi, cioè di proiettarsi nel futuro e di agire, si stacca dalla naturalità
dell’animale e produce storia, realizzando se stesso come possibilità
nell’esistenza temporale concreta.
Il processo
della formazione dell’uomo non è tuttavia un percorso lineare e pacifico, ma è
essenzialmente segnato dalla lotta che l’individuo conduce al fine di farsi
riconoscere dall’altro come soggetto libero, anche al rischio della morte, cioè
della negatività, della possibilità del non-essere. È la celebre dialettica di
servo e signore, mirabilmente colta da Hegel e valorizzata da Kojève, la quale
possiede un carattere «antropogeno» nel senso che «solo in e mediante questa
Lotta l’uomo può crearsi a partire dall’animale» (Kojève, 1996: 710).
È il
desiderio del riconoscimento e della libertà – dunque non un elemento
razionale, ma l’appetitività, che è negatività – a mettere in moto la storia
come processo di formazione dell’umanità. Quando l’uomo, attraversati tutti i
passaggi e le tappe descritte da Hegel, giunge a farsi riconoscere come libero
ed uguale, cioè trova soddisfazione e realizzazione, allora «la storia è
finita» perché ha esaurito le possibilità che la lotta per il riconoscimento
implicava. Nell’impero universale e omogeneo fondato da Napoleone, la
contrapposizione mortale tra servo e signore perviene alla sua conclusione, i
conflitti e le contraddizioni precedenti trovano conciliazione nella libertà e
nell’uguaglianza. Insomma, il processo della formazione dell’uomo è compiuto e
con ciò le possibilità della storia, in quanto regno dell’agire, sono giunte a
saturazione:
Non ci sarà
mai più niente di nuovo sulla terra (Kojève, 1996: 552).
Come
intendere questa tesi spettacolare in relazione alle convulsioni e alle novità
storiche del Novecento? È concepibile sostenere che la storia sia finita
proprio nel momento in cui essa subisce tante terribili accelerazioni?
L’applicazione all’oggi della tesi hegeliana è un punto capitale sul quale
Kojève ha sempre adoperato molta circospezione, una sottile ironia e a volte
reticenza, ma sul quale ha dato, in un modo o nell’altro, indicazioni di grande
lungimiranza. Se inizialmente la fine della storia poteva sembrare una sorta di
suo esperimento mentale, una possibilità teorica di là da venire, in
seguito egli si è convinto che essa è ormai diventata realtà effettiva.
E che se la fine della storia significa «la morte dell’uomo in senso proprio»
ovvero «la cessazione dell’azione nel senso forte del termine», allora l’uomo
che vive nei prolungamenti «post-istorici» del tempo non è più propriamente
umano: dominata la natura e pacificata la società, egli non è più capace di azione,
cioè di quella negatività distruttrice e creatrice che fonda la storia. A
questo punto le masse regrediscono a una forma di vita «animale», resa non
tanto «felice», come Kojève ipotizzava originariamente, bensì «contenta», come
si corregge in una nota aggiunta nel 1968 (Kojève, 1996: 543-44), nel senso che
si «accontenta» dall’edonismo «naturale» del gioco e dell’amore che regna
sovrano nelle moderne società consumistiche. È l’American way of life
«il genere di vita proprio del periodo post-istorico, dal momento che l’attuale
presenza degli Stati Uniti nel Mondo prefigura il futuro “eterno presente”
dell’umanità tutt’intera» (Kojève, 1996: 543). A ciò egli guarda con
disincantato realismo, da una prospettiva pragmatica e materialista, come a un
dato di fatto da assumere nella sua positività, senza la «negatività ideale»
generata dall’immagine elitaria dell’uomo libero ed emancipato.
La
scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è una catastrofe cosmica: il
Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una
catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale che è in accordo
con la Natura o con l’Essere-dato. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente
detto, cioè l’Azione negatrice del dato e l’Errore, o in generale il Soggetto opposto
all’Oggetto (Kojève, 1996: 541).
Per l’élite
intellettuale rimane tuttavia un’altra strada, diametralmente opposta a quella
del ritorno all’animalità. Kojève ne intravede una prefigurazione nello
«snobismo allo stato puro», completamente disinteressato, della civiltà
giapponese, che ha creato «delle discipline negatrici del dato “naturale” o
“animale” [come la cerimonia del tè] che superano, per efficacia, di gran lunga
quelle che nascevano dall’Azione “storica”» (Kojève, 1996: 543). Si apre qui la
possibilità di sublimarsi nella forma di vita del saggio:
Una volta
istituito l’Impero universale e omogeneo, non ci sono più guerre, né
rivoluzioni. In esso l’uomo può ormai vivere senza rischiare la propria vita.
Ma l’esistenza veramente umana è allora quella del Saggio, che si limita a comprendere
tutto, senza mai negare o modificare nulla (se non
trasferendo le «essenze» dal reale nel discorso) (Kojève, 1996: 700).
Eppure, a
rigore, nemmeno la Saggezza è una forma di vita umana. Essa infatti «non è né libera,
né storica nel senso proprio di questi termini, nel senso attribuito
loro da Hegel quando parla dell’Uomo prima della fine della Storia» (Kojève,
1996: 700).
L’uomo in
senso proprio è per Kojève – secondo una celebre espressione di Hegel – «questa
notte, questo Nulla, che tutto contiene nella sua semplicità-indivisa». Ciò
vuol dire «che il fondamento della sorgente della realtà oggettiva (Wirklichkeit)
e dell’esistenza empirica (Dasein) umane sono il Nulla che si manifesta
o si rivela come Azione negatrice o creatrice, libera e cosciente di se
stessa», e che la storia è «il movimento dialettico del potere che mantiene
nell’Essere il Nulla che è l’Uomo» (Kojève, 1996: 716). Kojève conclude:
Questo
potere stesso si realizza e si manifesta come Azione negatrice o creatrice:
Azione negatrice del dato che è l’Uomo stesso, o azione della Lotta che
crea l’Uomo storico; e Azione negatrice del dato che è il Mondo naturale in cui
vive l’animale, o azione del Lavoro che crea il Mondo culturale, al di
fuori del quale l’Uomo non è che il Nulla puro, e nel quale egli differisce dal
Nulla solo per un certo tempo (Kojève, 1996: 716-17).
Assai
diversa è la prospettiva di Arnold Gehlen. In saggi pubblicati negli anni
Cinquanta e Sessanta, egli ha introdotto il concetto di «posthistoire» e di
«fine della storia» nell’area culturale tedesca, elaborandolo in chiave
essenzialmente sociologica e in una colorazione politica che – a differenza di
quella marxista di Kojève – si dichiara conservatrice. Gehlen si basa in verità
sulle indicazioni storico-terminologiche fornite nel libro Massificazione e
decadenza culturale (Vermassung und Kulturverfall, 1951) da Hendrik
de Man, altra singolare figura di «conservatore rivoluzionario», il quale già
aveva osservato che apparentemente «noi siamo entrati in un’epoca che non fa
più parte della storia» (de Man, 1951: 135). E aggiungeva che il primo a
formulare questa idea era stato Bertrand de Jouvenel, e che prima ancora di lui
il matematico ed economista francese Anton-Augustin Cournot (1801-1877) aveva
usato il concetto di «post-histoire», sia pure in un senso diverso, insieme a
quelli di «stabilizzazione morfologica» e «archetipo». Applicando al presente
la concezione di Cournot, de Man afferma che «la nostra civiltà ha saturato il
proprio senso “archetipico” ed è quindi entrata in una fase di insensatezza;
l’alternativa sarebbe allora, dal punto di vista biologico, o la morte o la
mutilazione» (de Man, 1951: 135). Riprendendo de Man, a sua volta Gehlen
asserisce che Cournot ipotizza «uno stato finale in cui la storia per così dire
entrerà in una stasi, giacché, rispetto al funzionamento regolare delle ruote
dell’amministrazione e dell’industria, essa non avrà ormai che disfunzioni. Il
futuro stato sociale che subentrerà, retto da una amministrazione universale
che verrà a capo da sé delle proprie disfunzioni, in linea di principio non
sarà condannato alla morte, ma è possibile immaginarselo in lassi di tempo che
si estendono a piacere» (Gehlen, 1975: 126).
Per Gehlen
questa dimensione «post-istorica» connota già parzialmente il nostro presente e
determinerà completamente la civiltà del futuro: la dinamica dello sviluppo
tecnologico-industriale, quantunque alterni accelerazioni e rallentamenti,
progressi e regressi, ha condotto a uno «stato di motilità perpetua» che si
riproduce e si ripete senza fine. Si ha allora una «stasi della storia» in cui
la società e la cultura si «cristallizzano». È questa la situazione che Gehlen
chiama «posthistoire» o – come dice esplicitamente in uno dei suoi ultimi saggi
– «fine della storia»:
Dal 1954 in
poi, rifacendoci a Cournot, abbiamo definito lo stato così raggiungibile
«posthistoire». Subentrerà un risucchio nel futuro in cui motivi ideali passano
in secondo piano, mentre invenzioni che invecchiano rapidamente vengono
sostituite da nuove, e tutto ciò nel quadro da lungo tempo abituale di una
continua crescita dell’umanità con un crescente standard di vita. «Il
sentimento futuro dell’umanità», diceva Gottfried Benn, «non sarà quello dello
sviluppo, ma quello del movimento incessante» (Gehlen, 1975: 65).
Gehlen
ribadisce la tesi della «posthistoire» a più riprese – specialmente nei saggi La
secolarizzazione del progresso (Die Säkularisierung des Fortschritts,
1967) e Fine della storia? (Ende der Geschichte?, 1974) – e la
integra con considerazioni sulla stasi della politica mondiale. Come fattori
decisivi per l’emergere di questo fenomeno egli indica l’instaurarsi
dell’equilibrio tra le due superpotenze e soprattutto l’affermarsi dell’impero
planetario della civiltà tecnologica: la mobilitazione totale delle risorse
tecnico-lavorative elevata a stato permanente. Ciò vuol dire soprattutto il
venire meno della possibilità del nuovo e del diverso, il fatto che la civiltà
tecnologico-industriale ha ormai raggiunto un punto di non ritorno e ha assunto
il carattere dell’irreversibilità. Non v’è più forza – non il sapere, non la
filosofia, né la religione né l’arte – in grado di produrre una nuova immagine
del mondo. La civiltà della scienza e della tecnica è giunta a quella che – in
un omonimo saggio del 1961 – Gehlen chiama la cristallizzazione culturale.
Con
l’estinguersi dell’ossigeno della storia e della tradizione, si spegne anche il
fuoco dell’utopia. La tensione tra l’essere e il dover essere – che nelle forme
della secolarizzazione moderna era stata il motivo trainante dell’agire umano
nella storia, che Kant aveva assunto come fondamento della speranza che
l’umanità fosse in costante progresso verso il meglio, e che ancora Hegel, pur
domandola nell’identità di realtà e razionalità, teneva accesa nel movimento
della vita dello spirito – oggi si scarica e viene meno. Spenti i vulcani del
marxismo, smantellate le ultime roccaforti del pensiero utopico, prende piede
la convinzione che i contenuti della vita felice non possano più essere
anticipati, nemmeno in una descrizione controfattuale. È svanita la volontà di
immaginare un lieto fine della storia e non si azzardano più filosofie della
storia, se non sul piano del sapere esoterico. Il nichilismo della cultura contemporanea
non è soltanto crisi dei valori e assenza di trascendenze condivise: è anche il
fatto che l’agire dell’uomo non si infiamma più tra i due poli opposti della
tradizione e della rivoluzione, ma si avvita nella ristretta prospettiva del
«qui e ora». Non la storia né l’avvenire, ma la puntiformità dell’attimo
presente è l’orizzonte per l’agire dell’uomo contemporaneo. La soggettività,
principio regale del pensiero moderno, è oggi indebolita, decostruita, ed è
incapace di reggere il peso dell’arco che si tende tra storia e utopia. La sua
progettualità si appiattisce tutta nella fruizione e nel godimento del
presente: noi vogliamo la realizzazione più libera e più completa possibile
dell’individuo e la vogliamo ora; noi vogliamo la felicità più grande possibile
e la vogliamo oggi; noi vogliamo la soluzione di tutti i problemi sociali, ma
non un giorno futuro, nell’avvenire, bensì oggi stesso o al più tardi domani o
dopodomani.
Così, alla
«fine della storia» o nell’età «post-istorica», tra le ceneri spente
dell’utopia l’intelligenza appare oggi incapace di produrre esperienze
simboliche suscettibili di consenso e rischia di ridursi a una intelligenza
cinica, che per cancellare il disagio della perdita di centri di gravità si
compiace e si inebria del qui e dell’ora, del presente nella sua più puntiforme
ed effimera attualità, del senso nella sua più immediata consumazione. Anche
questo è nichilismo.
Tecnica e Nichilismo: Per una filosofia
della tecnica
Tra i
principali fattori di accelerazione del nichilismo, ovvero tra le cause che
maggiormente hanno contribuito alla consunzione dei valori e degli ordinamenti
tradizionali, non pochi analisti pongono oggi la tecnica. Congiuntamente alla
diffusa consapevolezza che essa sia diventata uno degli elementi dominanti
della nostra epoca, il fattore trainante della globalizzazione, è emersa anche
la preoccupazione circa la sua vera natura, il suo sviluppo e la possibilità di
controllarne la dinamica. In ambito filosofico si è formato intorno a essa un
campo di riflessioni ben definito: la filosofia della tecnica.
A giudicare
da quanto è accaduto nelle aree culturali in cui questo tipo di indagine si è
organizzato con le sue corporazioni, le sue riviste, i suoi congressi, e ha già
ottenuto il riconoscimento di disciplina scientifica, si nota un rischio:
quello che si produca una ennesima filosofia al genitivo. Voglio dire: una
riflessione che sicuramente richiama una meritoria attenzione sul fenomeno di
cui si occupa, ma che sostanzialmente svolge una funzione soltanto ancillare e
subalterna, scarsamente orientativa.
Ora, è vero
che la filosofia si è sempre sviluppata sotto vari protettorati: agli inizi
quello della religione e della teologia, in seguito quello della politica,
della storia e delle scienze umane, oggi soprattutto quello dell’epistemologia.
Dunque nulla di male se oggi anche la tecnica ospita il suo domandare. Ma il
rischio che si corre in questa nuova disciplinarizzazione – e in generale il
rischio delle numerose filosofie al genitivo che sorgono in quantità: filosofia
della medicina, filosofia dello sport, filosofia della moda, filosofia del
design, filosofia di questo e di quello – è di ridurre la riflessione
filosofica a una nobile anabasi, a una ritirata strategica dalle grandi
questioni per rifugiarsi in problemi di dettaglio.
Da sempre,
invece, la filosofia si è contraddistinta come forma eccelsa di pensiero
trasversale, capace di inventarsi ragioni per dubitare dell’evidente, di andare
alle radici e di mirare all’intero. Vien fatto allora di chiedersi: è possibile
una filosofia della tecnica al nominativo? Si può fare della tecnica un
problema filosofico fondamentale invitando a riflettere su ciò che essa, con le
trasformazioni che ha provocato, significa per l’uomo e per la sua
autorappresentazione culturale?
Tutti
abbiamo dimestichezza con la variopinta vegetazione di oggetti e strumenti di
cui la tecnica quotidianamente ci circonda. Tutti conosciamo il frastuono del
progresso che soverchia l’uomo moderno, e il senso di smarrimento che si avverte
la domenica quando la macchina riposa. Tutti vediamo quanto l’uomo d’oggi sia
abile nell’innalzare capannoni industriali, ma incapace di edificare un tempio
o una chiesa. Dall’età dell’oro siamo approdati alla civiltà della plastica. Ci
chiediamo: è possibile abbracciare la trasformazione tecnica del mondo entro
un’esperienza simbolica? Oppure la tecnica è un sistema asimbolico che sfugge
alla sovranità delle nostre immagini, una «macchinazione» che non dominiamo più
e che invece ci domina?
Se si
volesse ricostruire la storia della moderna filosofia della tecnica – come in
genere si fa per nobilitare le discipline scientifiche appena nate con una
galleria di antenati – si potrebbe considerare come suo atto di nascita il
celebre Discours sur cette question: le rétablissement des sciences et des
arts a-t-il contribué à épurer les moeurs? che Rousseau presentò nel 1750
in risposta al quesito messo a concorso dall’Accademia di Digione. È un esempio
eccelso di filosofia della tecnica al nominativo. Ma, anche senza risalire
tanto indietro, basta guardare alle maggiori espressioni della filosofia della
tecnica del Novecento: anch’esse hanno avuto questo carattere fondamentale.
Si pensi
alle considerazioni di Werner Sombart su Tecnica e cultura (Technik
und Kultur, 1911) o ai Pensieri sulla tecnica (Gedanken über
Technik) che Romano Guardini concepì in forma di Lettere dal Lago di
Como (Briefe vom Comer See, 1927). Oppure al Lavoratore (Der
Arbeiter, 1932) di Ernst Jünger e alla Perfezione della tecnica (Die
Perfektion der Technik, 1949) del fratello Friedrich Georg, alla Meditazione
sulla tecnica (Meditación de la técnica, 1939) di Ortega y Gasset e
a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Das
Kunstwerk im Zeitalter ihrer technischen Reproduzierbarkeit, 1936) di
Walter Benjamin. O, ancora, dopo la guerra, alla critica della razionalità
tecnologica di Adorno, Horkheimer e Marcuse, e a quella opposta, ma
complementare, dell’ultimo Heidegger. E poi L’anima nell’età della tecnica
(Die Seele im technischen Zeitalter, 1949 e 1957) di Arnold Gehlen, La
tecnica, rischio del secolo (La technique ou l’enjeu du siècle,
1954) di Jacques Ellul, L’uomo è antiquato (Die Antiquiertheit des
Menschen, 1956-80) di Günther Anders o ancora Il principio responsabilità
(Das Prinzip Verantwortung, 1979) di Hans Jonas. Fino a Techne. Le
radici della violenza (1979) di Emanuele Severino. Con la loro incisività e
radicalità, tutte queste analisi hanno segnalato l’emergere del problema.
Tecnica e nichilismo: Il conflitto tra
tecnica e umanesimo
In verità,
per molti aspetti le conseguenze che la trasformazione scientifico-tecnologica
del mondo avrebbe provocato si erano già annunciate con la prima e la seconda
rivoluzione industriale. Tuttavia, anziché un atteggiamento vigile, prevalse
allora l’ottimismo del progresso, una filosofia fiduciosa che assegnava
senz’altro alla scienza e alla tecnica una funzione trainante nello sviluppo
dell’uomo, insieme alla convinzione che grazie a esse si sarebbero potuti risolvere
i suoi problemi presenti e futuri. La scienza e la tecnica furono salutate come
fattore di progresso, di emancipazione e di disincanto, come un elemento
omogeneo e funzionale all’umanesimo. Le prime riflessioni filosofiche sulla
scienza moderna – per esempio in Comte – ne fanno il principio supremo
nell’ultimo stadio di sviluppo dell’uomo, addirittura una sorta di nuova
religione dell’umanità.
Anche nel
Novecento, nonostante l’allarme lanciato nelle opere citate, le cose non sono
molto cambiate. Si può dire che la filosofia si sia trovata sostanzialmente
impreparata dinanzi al fenomeno della scienza e della tecnica, e che dunque
essa non abbia prestato una considerazione particolarmente attenta al problema
del loro straordinario ma incontrollato sviluppo. In un primo momento essa non
ha affatto alzato la guardia. Al contrario, ha ingenuamente continuato a
considerare la razionalità scientifico-tecnologica come una componente, tra le
altre, dell’umanesimo progressista (Hottois, 1984; 1996).
Questa
prospettiva ottimistica derivava dal convincimento che la scienza e la tecnica
appartenessero a due ordini di attività diversi: teorico e pratico. La prima
consisterebbe nell’ideazione e nell’accumulazione di teorie, cioè in un sapere
puro. La seconda invece nell’invenzione e nella realizzazione di applicazioni
pratiche. La scienza sarebbe un bene in sé, e la tecnica, a sua volta, uno
strumento neutro il cui valore dipende unicamente dall’impiego che noi ne
facciamo. Insomma, essa pone solo il problema del suo uso corretto. Di questa
differenza è rimasta traccia perfino nel linguaggio comune che distingue tra le
«scoperte» della scienza e le «invenzioni» della tecnica, tra l’individuazione
di ciò che esiste già in natura secondo una sua legge, e ciò che è artefatto,
prodotto dall’uomo.
In tal modo
la scienza e la tecnica sono state da sempre intese come una componente
essenziale della cultura umana, come strumenti indispensabili di cui essa si
serve nella lotta contro l’oscurantismo e l’alienazione, per il progresso e
l’emancipazione. Esse assicurano all’uomo il vivere bene o, quanto meno, una
qualità di vita superiore. Sono dunque intese come «valori» che vanno
salvaguardati in un duplice senso: debbono poter essere praticate e sviluppate
senza vincoli secondo il principio fondamentale della libertà della ricerca, e
tutti debbono poter beneficiare dei progressi scientifici e tecnologici.
Se le cose
stanno così, allora, daccapo, non c’è bisogno di una particolare vigilanza nei
confronti della crescita e dello sviluppo di quella che, a un certo momento, si
è cominciata a chiamare semplicemente «tecno-scienza». Anche là dove si è
prospettata una critica radicale dell’universo tecnologico – come nella Dialettica
dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer o in Eros e civiltà di
Marcuse – più che la tecnica come tale si è criticata la sua organizzazione
politica di tipo capitalistico.
Da tempo,
tuttavia, le cose non stanno più in questi termini. Poco a poco, specialmente
nel corso degli ultimi decenni, la posizione e l’immagine della scienza e della
tecnica nel nostro mondo e nella sua autorappresentazione culturale hanno
cominciato a cambiare. Raggiunta ormai una dimensione planetaria, ed essendo
anzi diventate il primo e più importante fattore di globalizzazione, la scienza
e la tecnica si presentano sempre meno come una tra le molte componenti della
nostra realtà, e si sono invece trasformate nella potenza predominante ed
esclusiva, alla quale si accompagna una straordinaria crescita del potere di
intervento sulla natura.
Questa
evoluzione è stata perseguita in nome del progresso, a fin di bene, e ha
effettivamente portato a conquiste impensabili fino a poco tempo fa,
potenziando sempre più la nostra capacità di sopperire al carattere difettoso
dell’uomo naturale. Come già Herder faceva notare nel contesto della sua
filosofia della storia, e come Arnold Gehlen ha ribadito nel quadro della sua
fondazione antropo-biologica delle istituzioni, l’uomo è un «animale
incompleto» (Mangelwesen) nel senso che è sprovvisto di un istinto sicuro
che guidi il suo comportamento e le sue azioni. La conseguenza è che egli
esperisce le situazioni della vita come problema, e in tale esperienza si trova
esposto alla libertà di dover inventare il mondo delle sue possibilità, che si
apre tra due estremi ugualmente insidiosi: la spaventosa naturalezza delle sue
pulsioni e la sconfinatezza del suo ragionare.
La tecnica
sopperisce dunque al carattere difettoso dell’uomo naturale, risolvendo i
problemi che egli deve affrontare per orientarsi con successo nella vita. Lo
sottolineava Ortega y Gasset quando, contro la Physis vagheggiata da
Heidegger quale sede ospitale dell’abitare umano, affermava l’ostilità della
Natura e la necessità che l’uomo la contrasti con la tecnica (Ortega y Gasset,
1982: 127-33). Essa produce tuttavia una sempre più potente capacità di
manipolazione, che si applica a ogni cosa, compresa la realtà umana.
L’universale «uomo», l’entità metafisica un tempo oggetto di astratte
speculazioni e definizioni filosofiche, oggi è stata trasformata in una entità
concreta, disponibile in laboratorio nella forma del genoma e suscettibile di
essere trattata e modificata. Insomma, la scienza e la tecnica non riconoscono
altri limiti se non ciò che è tecnicamente possibile e fattibile, e in questa
loro perenne tentazione del possibile sono doppiamente protette: di diritto
in virtù del principio della libertà di ricerca, di fatto perché
aumentano la nostra libertà individuale e collettiva in una misura impensabile
fino a non troppo tempo fa.
Tecnica e nichilismo: La tecno-scienza
come pericolo
A questo
punto, però, il loro sviluppo comincia a erodere il quadro simbolico
tradizionale entro il quale erano cresciute e ad entrare in conflitto con
l’umanesimo progressista sotto l’egida del quale erano state accolte. Esse si
scontrano in particolare con l’idea di «persona» e di «natura umana»,
fortemente connotata da una semantica religiosa e morale.
L’associazione
tra la scienza e il progresso umano non è più così evidente e immediata come
prima. Si percepisce che la tecno-scienza nasconde alcune insidie giacché sta
diventando sempre più manipolatrice e va a toccare l’essenzialismo e il
sostanzialismo della tradizionale visione umanistico-cristiana dell’uomo.
D’altro canto essa non è in grado, in quanto asimbolica, di fornire elementi
per una antropologia alternativa, all’altezza dei rivolgimenti che provoca e
dei problemi che pone. Anche le formule fino a qualche tempo fa sbandierate,
come quella di un’alleanza tra le due culture, di una felice armonia tra il
pensiero umanistico, letterario e filosofico, e quello scientifico e tecnico,
si rivelano vuote. La purezza e la neutralità cognitiva della tecno-scienza non
sono più né ovvie né scontate: il pericolo potenziale è avvertito non solo sul
piano delle applicazioni, ma già a livello della ricerca di base. Al punto che
si solleva la questione se non sia opportuno introdurre moratorie o addirittura
vietare determinate ricerche e sperimentazioni, limitando così una delle
conquiste fondamentali e imprescindibili della modernità, il principio della
libertà di ricerca.
Insomma, se
durante il XIX secolo e all’inizio del XX la scienza e la tecnica furono
considerate – con le menzionate eccezioni – come direttamente funzionali e
favorevoli al progresso umano, oggi nascono dubbi a proposito di una tale
identificazione immediata tra il progresso scientifico-tecnologico e la
realizzazione culturale e spirituale dell’uomo. L’«epistemofilia» e la
«tecnofilia» ingenue hanno lasciato il posto a un atteggiamento ispirato alla
cautela e alla vigilanza. Nessuno mette in dubbio che la crescita dell’impero
tecnologico presenti una infinità di aspetti positivi e affascinanti, e apra
molte nuove potenzialità. Nello stesso tempo è difficile tacitare le
inquietudini e le preoccupazioni circa la minacciosa eventualità che, anziché
promuovere la realizzazione dell’uomo, la tecno-scienza finisca per sradicarlo
dal suo mondo naturale e culturale, depauperandone le risorse simboliche.
Non occorre
essere heideggeriani per condividere l’allarmata constatazione del maestro
teutonico:
Ciò che è
veramente inquietante non è il fatto che il mondo diventi un mondo
completamente tecnico. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non sia
affatto preparato a questa trasformazione del mondo (Heidegger, 1959: 20; 1983:
36).
Affermazione
che va letta insieme a quest’altra:
Il
movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui grandezza,
storicamente determinante, non può essere affatto sopravvalutata. È per me oggi
un problema decisivo come si possa assegnare un sistema politico – e quale –
all’età della tecnica (Heidegger, 1988: 96; 1987: 131).
Indipendentemente
dalla prospettiva da cui Heidegger esamina e critica la tecnica, ciò che è
decisivo è il problema da lui qui sollevato: l’essenza della tecnica e la sua
governabilità da parte dell’uomo. E va riconosciuto quanto meno che il mondo
contemporaneo si trova al riguardo in una situazione paradossale.
Il processo
planetario della razionalizzazione scientifico-tecnica ha portato alla
soluzione di intere serie di problemi. Eppure, a fronte dei loro successi, la
scienza e la tecnica sono incapaci di produrre esperienze simboliche di senso
in cui inscrivere il nostro essere nel mondo e nella storia. Anzi, le
trasformazioni che esse hanno prodotto accelerano il disincanto e la crisi dei
fondamenti, cioè l’erosione e la dissoluzione dei quadri di riferimento
tradizionali.
Si è così
aperta una frattura sempre più profonda fra l’homo faber e l’homo
sapiens, tra ciò che l’uomo sa e può fare e la sua capacità di valutare ciò
che è ragionevole fare. Scienza e tecnica ci insegnano a fare un’infinità di
cose, ma non ci dicono quali è bene fare e quali invece lasciar stare.
Pertanto, in una situazione in cui la nostra potenza di agire, in forza della
scienza e della tecnica, cresce sia nella macrodimensione che nella
microdimensione, cioè di fronte a una situazione che richiederebbe in linea di
principio un orientamento maggiormente vincolante di quello passato, noi oggi
non disponiamo nemmeno più dei punti di riferimento sui quali poteva orientarsi
l’umanità d’un tempo.
La tendenza
che si vede farsi strada un po’ ovunque per fronteggiare tale situazione è
quella di fare ricorso a compensazioni che vengono ricercate in forme di sapere
alternative a quelle della scienza e che sono prevalentemente l’arte, il mito,
la religione o il sacro, a volte anche l’esoterico e l’occulto.
Quanto al
pensiero filosofico, esso è lacerato tra due alternative: da un lato
l’epistemofilia e la tecnofilia summenzionate, ovvero una attitudine di
semplice accompagnamento con la conseguente sottomissione ancillare alla
scienza e alla tecnica; dall’altro un sapere di tipo arcadico ma esangue, con
funzioni compensatorie di cui approfittare come di uno svago e di un’evasione.
L’orizzonte
dell’autorappresentazione culturale e filosofica dell’età contemporanea – che
la si etichetti come «dopo Nietzsche», «dopo Weber» o «dopo Heidegger» – è un
orizzonte segnato dalla convinzione che sia venuta meno ogni capacità di
sintesi e che sia ormai vano sperare di dare un nome all’intero. In ogni caso
non è la filosofia bensì la tecno-scienza a inventare il futuro.
Nel
cristallizzarsi di questa condizione di rinuncia non sono mancate neofondazioni
e riabilitazioni. Ma anch’esse possono ben poco contro l’orizzonte
storico-culturale del politeismo dei valori, anzi, nemmeno più dei valori, ma
delle opzioni e delle decisioni di fondo. Oggi la tirannia dei valori d’un
tempo si è trasformata nell’isostenia e quindi nell’anarchia dei valori. Il
formale ha prevaricato sul materiale, il convenzionale ha attaccato
l’essenziale, Max Weber ha avuto la meglio su Max Scheler.
Anche chi
non si rassegna a questa condizione riconosce che è ormai difficile la
costituzione di senso capace di catalizzare una identità comune e di trovare
disponibilità all’ascolto. La dottrina del sospetto e il disincanto del mondo,
la fine insomma della ragione ingenua e sentimentale, hanno radicalmente eroso
la possibilità di credere in quadri fondativi di tipo teologico, metafisico e
perfino antropologico.
Tecnica e nichilismo: Per
un'antropologia a misura della tecnica
Disponiamo
quindi di elementi più che sufficienti per renderci conto che la tecno-scienza
sfonda ormai di continuo le barriere e il quadro culturale entro cui la visione
del mondo umanistica vorrebbe contenerla. Nella situazione di evidente
spaesamento verificatasi ci si chiede: l’umanesimo fornisce ancora una
antropologia sufficiente per rispondere sul piano culturale e simbolico alle
sollecitazioni della tecno-scienza? L’idea di umanità a essa sottesa è ancora valida
e condivisa? E quali «valori» vi sono inclusi?
Come è
noto, le radici fondamentali dalle quali l’Occidente ha tratto la sua
concezione dell’uomo sono due: quella greca e quella biblica. Dalla prima
deriva la concezione dell’uomo come «animale politico, dotato di ragione e
linguaggio» (zôon politikòn lógon échon), formulata da Aristotele nella Politica
(A 1, 1253 a 2-3). Dall’altra l’idea che egli sia «persona» dotata di pensiero
e volontà, cioè capace di intendere e di volere, in quanto creato a immagine e
somiglianza di Dio (faciamus hominem ad imaginem nostram et similitudinem,
Gn 1, 26).
In verità,
già nella letteratura umanistica sulla dignitas hominis – Pico della
Mirandola, Giannozzo Manetti, Bartolomeo Facio – la celebrazione dell’uomo
contro la tradizione medievale del contemptus mundi non è associata a
una determinazione fissa della sua natura, bensì, al contrario, alla
constatazione che l’uomo è un animale indefinito. «Magnum miraculum est homo»,
esordisce Pico della Mirandola nel suo celebre discorso Sulla dignità
dell’uomo (De hominis dignitate, 1486), perché non ha «nihil
proprium», ed è dunque «indiscretae opus imaginis»: «un’opera dalla forma
indeterminata». Mentre ogni altro essere è ingabbiato entro un’essenza
predefinita, l’uomo è «sui ipsius plastes et fictor», e deve darsela da sé:
«L’uomo è animale di natura varia, multiforme e cangiante» (homo variae ac
multiformis et desultoriae naturae animal), è un camaleonte che può
trasformarsi in un bruto o in un essere divino (Pico della Mirandola, 1987:
2-9).
Viene poi
Kant a denunciare l’insufficienza della definizione greca dell’uomo come
animale razionale. Egli si chiede – nella Religione entro i limiti della
sola ragione (Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft,
1793) – che cosa costituisca la humanitas dell’uomo, e risponde che non
bastano a ciò né ovviamente l’animalitas, ma nemmeno la rationalitas.
Ci vuole soprattutto quella che egli chiama la spiritualitas o personalitas,
e che esplicita in termini filosofici come il fatto che l’uomo è fine in sé e
mai mezzo, dignità e mai cosa o strumento. Un’idea, questa, ancora ricavata –
anche se ormai indirettamente – dalla radice biblico-cristiana.
È appena il
caso di ricordare che anche questa diga eretta da Kant è stata nel frattempo
erosa, e che l’uomo – come afferma Nietzsche in un frammento della primavera
1884 (25 [428]) – è «l’animale non ancora definito» (das noch nicht
festgestellte Tier). L’ente – dirà Sartre – in cui l’esistenza precede e
determina l’essenza (Sartre, 1964: 25-29).
Ebbene,
oggi la tecno-scienza sfonda sempre più massicciamente l’orizzonte
dell’antropologia tradizionale. Essa accresce il nostro sapere e il nostro
potere sull’entità «uomo» in un modo che confligge con i simboli e
l’immaginario della tradizione umanistico-cristiana. Ci troviamo oggi in una
sorta di «crisi antropologica» in cui difetta un’idea condivisa di umanità,
adeguata ai problemi posti dalla tecno-scienza.
Ovviamente,
la straordinaria crescita dell’impero tecnologico non ha solo aspetti preoccupanti.
Essa apre anche prospettive affascinanti che arricchiscono costantemente il
nostro patrimonio culturale. Vero è, però, che essa non sembra soggetta a
regole e norme sufficientemente resistenti e vincolanti per guidare il nostro
comportamento e il nostro agire, dotato ormai di un immenso potere. La
tecno-scienza manipola già le origini della vita, presto sarà in grado di
controllare il codice genetico dell’uomo, correggere la sua programmazione
biologica, migliorare il suo patrimonio naturale. La tecno-scienza sta
profondamente trasformando l’uomo, in assenza di una guida responsabile ed
efficace. L’uomo è più che mai un animale precario.
Ma se la
sua precarietà e la sua unicità reclamano una speciale vigilanza, volta a
preservarlo, vien fatto di chiedersi: a che cosa può ancora attenersi lo
spirito oggi in affanno e disorientato? Sussistono risorse di senso o energie
simboliche ancora intatte per mantenere l’equilibrio nel vortice del nichilismo
che la tecnica induce?
Ancora una
volta: non occorre essere heideggeriani per ammettere con il maestro teutonico
che è assai difficile, se non impossibile, ridare oggi un senso alla parola
«umanismo». Non tanto, come egli asserisce nella Lettera sull’«umanismo»,
perché quest’ultimo rappresenterebbe un’esperienza dell’uomo non originaria,
nata dalla traduzione della philanthropía ellenistica entro l’orizzonte
epocale della romanitas. Bensì perché l’umanismo – e a maggior ragione
l’«antropologia della Lichtung» prospettata da Heidegger, in cui l’uomo
è semplicemente dichiarato un problema senza soluzione umana – non garantisce
nulla.
Nella
generale impossibilità di ricette condivisibili, è forse possibile rifugiarsi
in un’indicazione fragile, ma praticabile: quella di un atteggiamento senza
illusioni che si prefigga di conservare l’uomo senza farne il centro
dell’universo, la pratica – diciamo così – di un «umanesimo» non
antropocentrico che si apra alla crescita tecnico-scientifica senza nostalgie
per l’Immemorabile perduto, ma che non si sottoponga nemmeno docilmente
all’imperativo della tecnica all’infuori di ogni regola. Un atteggiamento che
pratichi un linguaggio di verità, senza catastrofismi né infondati ottimismi, e
si metta alla ricerca di risorse simboliche per risignificare l’abitare
dell’uomo sulla terra, radicandolo nella natura e nella storia. Insomma, un
umanesimo che, di fronte al carattere asimbolico della tecnica, si sforzi di
attivare il senso di responsabilità di cui l’umanità è in linea di principio
capace.
Una cosa è
certa. Se la tecnica è la magica danza che l’epoca contemporanea esegue, allora
l’undicesima Tesi su Feuerbach di Marx non basta più. Non basta più
cambiare il mondo, perché esso cambia anche senza il nostro intervento. Si
tratta piuttosto di interpretare questo cambiamento, affinché esso non porti a
un mondo senza di noi, a un regnum hominis privo del suo sovrano.
Guidare tale interpretazione è uno dei compiti più urgenti di una filosofia
della tecnica al nominativo.
Per una
serie di ragioni che non è qui possibile esaminare, la cultura filosofica
italiana è stata particolarmente sensibile nel captare le manifestazioni del
nichilismo e nel tentarne una elaborazione teorica. Va ricordata, per
cominciare, una circostanza trascurata nelle storie del nichilismo, cioè che
nella lingua italiana sono attestate occorrenze assai antiche del termine (cfr.
Battaglia, 1981: 423-24).
Esso è
impiegato incidentalmente da Pasquale Galluppi nelle Considerazioni
filosofiche sull’idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto
pubblicate un anno prima della morte, nel 1845. Galluppi accenna alla posizione
di Zenone di Elea, che nega per confutazione il movimento, e la definisce
«nihilismo» (Galluppi, 1845: 204). Egli impiega dunque il concetto di
un’accezione tecnica per designare una posizione filosofica che «annienta»,
ossia riduce a nulla, la realtà del divenire.
Più o meno
negli stessi anni il termine si trova in Carlo Cattaneo, che ne fa anch’egli un
uso sporadico, ma più generico e in senso spregiativo. Basta una occorrenza, a
titolo di esempio, per rendersi conto di come qui «nichilismo» equivalga a un
insulto. Scrive Cattaneo nel suo tipico stile polemico:
Fatta la
filosofia sollazzo d’imbelli e arte di scetticismo e nichilismo non si vede
come la conoscenza del mondo potesse fiorire (Cattaneo, 1960: I, 335)
.
Ma è
soprattutto Francesco De Sanctis a impiegare il concetto di nichilismo, e
precisamente per qualificare la posizione filosofica di Leopardi e la sua
tematizzazione del nulla. Al fine di mettere in rilievo la contraddizione tra
il radicamento del poeta nel razionalismo illuministico, da un lato, e il suo
struggimento poetico nel nulla, dall’altro, De Sanctis afferma:
La sua
volontà debole e scissa non lo lascia venire a conclusione stabile, a coerenza
filosofica, sospeso e scisso tra un nichilismo assoluto e disperato e
velleità individuali e umanitarie (De Sanctis, 1960: 286).
Al di là di
queste occorrenze storico-terminologiche, è sul piano teorico che la cultura
italiana ha offerto contributi importanti all’analisi del nichilismo. Negli
anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si è registrata una vera e propria
efflorescenza di letteratura nichilistica, sbocciata in concomitanza con la
fortuna del pensiero di Nietzsche e di Heidegger. Ne è nato un ampio dibattito
nel quale si è affermata l’esigenza di una critica filosofica dell’attualità e
nel quale sono intervenuti pensatori di diversa impostazione come Pareyson,
Caracciolo, Severino, Sini, Vitiello, Ruggenini, Vattimo, Givone, Cacciari, per
non citare che alcuni nomi.
Il merito
di portare l’attenzione sul nichilismo quale orizzonte per una diagnosi critica
del presente, e di fornirne una prima elaborazione filosofica, è stato di
pensatori come Alberto Caracciolo e Luigi Pareyson e delle loro rispettive scuole.
Nelle opere di entrambi, sia pure da prospettive teoriche e con argomentazioni
diverse, l’analisi del nichilismo occupa una posizione centrale. Il nichilismo
è accolto da entrambi come un’esperienza decisiva del Novecento. Essa va dunque
pensata fino in fondo, in tutte le sue manifestazioni e le sue conseguenze,
nella convinzione però che l’assimilazione teorica del fenomeno apra il cammino
al suo superamento. Quest’ultima esigenza spiega la costante connessione – sia
in Pareyson, sia in Caracciolo – con la problematica del sacro e del religioso,
in cui è intravista una via di uscita dagli esiti nichilistici della modernità.
Dalla
scuola di Pareyson è venuta però anche un’interpretazione di segno opposto del
nichilismo, che ha finito per dare il tono al dibattito: quella di Gianni
Vattimo. Questi non ha ricusato il nichilismo come un malessere della nostra
cultura, ma ha sostenuto, al contrario, che il disagio che esso provoca nella
coscienza contemporanea nasce dal fatto che quest’ultima non è ancora sufficientemente
nichilistica, non ha ancora rinunciato alla volontà di imporre un senso alle
cose, non sa ancora accettarle nel loro nudo e crudo divenire. Vattimo ha
pertanto eletto la consapevolezza nichilistica, così intesa, a orizzonte del
suo pensiero e non si è peritato di professarsi apologeta del nichilismo.
Egli ha
pertanto dichiarato la propria «vocazione nichilistica» e ha salutato con
coerenza i fenomeni nichilistici della cultura contemporanea come eventi
positivi. Intervenendo in tal senso nel dibattito filosofico – su temi come la
crisi del pensiero dialettico (Le avventure della differenza, 1980), la
morte del soggetto (Al di là del soggetto, 1981), il postmoderno (La
fine della modernità, 1985) – ha messo progressivamente a fuoco una prospettiva
filosofica definita come «pensiero debole» (Il pensiero debole, 1983).
In tale programma, recependo a suo modo la critica e il superamento della
metafisica teorizzata da Nietzsche e Heidegger, egli ha affermato l’esigenza di
rinunciare alle categorie forti della tradizione filosofica occidentale e ha
sbozzato una «ontologia debole» che intende riconoscere e accettare il divenire
nella sua fatticità, senza accollargli un senso che lo trascenda e senza
imporgli forme, categorie o schemi interpretativi forti che finirebbero
inevitabilmente per inibirne il fluire. Proprio questo irrigidimento è secondo
Vattimo ciò che caratterizza la metafisica tradizionale, la quale, con la sua
ricerca di una spiegazione «trascendente» di tutto ciò che è, rappresenta una reazione
di difesa eccessiva: è l’indice di un pensiero che mal sopporta il carattere
imprevedibile del divenire. Contro di essa Vattimo propugna un atteggiamento
filosofico che non rimuova né tenti maldestramente di ricondurre a unità la
frammentazione del reale, l’irriducibile diversità dei giochi linguistici e
delle forme del sapere, e nemmeno subisca tutto ciò come una circostanza
inevitabile, ma lo accetti come caratteristica essenziale e positiva del mondo
contemporaneo.
Per questo
suo tratto peculiare il «pensiero debole» è certamente in sintonia con le
intenzioni programmatiche della cultura postmoderna. In esso l’analisi della
dissoluzione delle categorie tradizionali non si accompagna – come nelle
filosofie della crisi primonovecentesche – al sentimento di nostalgia per
l’unità e l’intero perduti, ma saluta la diversificazione e la frantumazione,
quindi la pluralità e l’instabilità, come aspetti intrinseci del reale da
riconoscere nel loro carattere positivo, senza pretendere di ricondurli a unità
e a gerarchie forti costruite dall’alto o dall’esterno. Di conseguenza Vattimo
ha dichiarato la necessità di far valere un paradigma di razionalità debole,
paralogico, non subordinante e gerarchizzante ma paratattico, non verticale ma
trasversale, tale cioè da essere intrinsecamente differenziato e quindi
tagliato e adeguato ai rispettivi campi oggettuali di applicazione. Sulla
falsariga del modello wittgensteiniano della pluralità dei giochi linguistici,
ha constatato e dichiarato il carattere positivo della pluralità delle forme
del sapere, delle possibilità dell’agire, dei sensi dei mondi vitali,
sottolineando a partire da tale pluralità non la possibilità della
compattazione e dell’uniformazione, ma il potenziale della frammentazione,
della conflittualità e persino dell’incommensurabilità. Di qui è venuta la
teorizzazione di operazioni, atteggiamenti e pratiche culturali di rottura,
quali la «frammentazione» e la «regionalizzazione» dei saperi, la
«decanonizzazione», ossia l’abbandono dei «canoni» tradizionali, e
l’«ibridamento» ovvero la contaminazione dei generi (cfr. Welsch, 1987).
Tutto ciò è
stato affermato rivendicando una predisposizione nichilistica. Se, come vuole
il pensiero debole, si accetta il divenire delle cose con remissività, senza
sovrainterpretarlo né trascenderlo, si dissolve allora il nichilismo tetro e
nostalgico – che subentra quando si coltivano ancora la memoria e la nostalgia
dei valori perduti – e si apre, con Nietzsche, la possibilità di un nichilismo
«gaio» che intende essere vicino alla finitudine umana, alle sue gioie e alle
sue sofferenze, più di quanto non fosse la metafisica tradizionale. Una
posizione, questa, che con la sua ricusa del pessimismo culturale si discosta
nettamente dalle altre interpretazioni del nichilismo, compresa quella di
Pareyson e quella di Sergio Givone, nelle quali si appalesa uno stretto legame
tra nichilismo e problema del male (cfr. Pareyson, 1993, 1995; Givone, 1984,
1988).
Ma
l’interpretazione del nichilismo che spicca nel panorama della filosofia italiana
per originalità e sistematicità è quella di Emanuele Severino. Formatosi
nell’Università Cattolica di Milano con Gustavo Bontadini – che rifiutava
l’etichetta di «neoscolastico» per rivendicare quella di «metafisico classico»
– Severino si confronta fin dalle sue prime opere con il problema metafisico:
come va compreso e spiegato l’essere di ciò che diviene? La presenza di questo
problema, riproposto da Bontadini, si fa sentire nei primi scritti di Severino:
Heidegger e il problema della metafisica (1950), che contiene un’analisi
della critica heideggeriana alla metafisica così come è esposta nel libro su
Kant e nei saggi del 1929, e le Note sul problematicismo italiano
(1950), in cui sono raccolti studi critici su Ugo Spirito, Nicola Abbagnano e
Antonio Banfi. In rapporto alla ripresa della metafisica classica a opera di
Bontadini è possibile afferrare meglio sia il punto nevralgico del pensiero
severiniano, sia l’originalità della sua posizione.
Va
precisato anzitutto che la ripresa del problema metafisico da parte di
Bontadini non era un’opera di restaurazione. Al di là del riferimento al
paradigma greco essa mirava a definire la struttura logico-ontologica della
metafisica per rivendicarne la necessità contro il predominio moderno della
gnoseologia. Interessante, nel nostro contesto, è il cammino che Bontadini
seguì per arrivare a questo. Egli prese le mosse da un’interpretazione della
filosofia moderna come «gnoseologismo», vale a dire come impostazione
speculativa in cui, essendo naturalisticamente presupposta la trascendenza
dell’essere rispetto al pensiero, l’essere non risulta immediatamente manifesto
e si prende dunque come punto di partenza alternativo il conoscere di cui si
teorizza il primato nella «gnoseologia». Date l’eterogeneità e l’eccedenza
dell’essere rispetto al conoscere, le filosofie a impostazione gnoseologistica
non possono fondare l’esperienza, ossia il manifestarsi dell’essere all’atto
del conoscere, ma devono presupporla come data. In genere esse finiscono per
interpretarla surrettiziamente come ricettività o come costruzione: ricettività
rispetto a un essere che le si dà dall’esterno, costruzione in base a un
principio interno. Nell’idealismo lo gnoseologismo moderno giunge alla sua
formulazione estrema, ma anche alla sua risoluzione. Infatti il ripensamento
del concetto di esperienza che esso impone riapre la possibilità della
metafisica, la quale, nella sua struttura classica, cioè nella sua
essenzialità, altro non è che la spiegazione filosofica coerente dell’essere di
ciò che diviene. Tre sono le componenti e al tempo stesso i passi
dell’argomentare metafisico: l’esperienza, il principio di non contraddizione e
l’idea di ciò che è «altro» o «ulteriore» rispetto all’esperienza.
Ora, la
prima definizione della struttura della metafisica è data dal pensiero greco,
in particolare da Parmenide, che per primo formula il principio di non
contraddizione nella sua valenza ontologica. Dicendo che l’essere è ed è
impossibile che non sia, e che il non essere non è ed è impossibile che sia,
egli stabilisce il principio – che Bontadini fa proprio in tutta la sua portata
ontologica – secondo il quale l’essere non può né potrà mai essere contaminato
dal non essere. Se ci si attiene rigorosamente a siffatto principio, la realtà
del divenire che l’esperienza immediata ci attesta, e in cui le cose, cioè gli
enti, in parte sono e in parte non sono, appare contraddittoria: il divenire si
presenta come quell’essere la cui realtà è mescolata al non essere. Ma poiché
la contraddizione non può essere ammessa, si deve allora pensare che l’essere
del divenire, che appare limitato dal non essere, non esaurisca la totalità
dell’essere. Attraverso una «inferenza metempirica» si deve pensare alla realtà
incontraddittoria di un essere assoluto che non sia limitato dal divenire: tale
è la realtà dell’essere divino.
Nelle sue
prime opere speculative, specialmente nella Struttura originaria (1958),
Severino riprende e radicalizza questa impostazione attraverso l’analisi
rigorosa della struttura logico-ontologica dell’essere assoluto e
incontraddittorio nonché del pensiero incontrovertibile, epistéme, che
le corrisponde. Ora, secondo Severino tale pensiero è struttura, ossia
relazione originaria dell’«immediatezza logica» e dell’«immediatezza
fenomenologica», e tale relazione è l’apparire dell’«eternità» dell’ente in
quanto ente, cioè di ogni ente. L’eternità, vale a dire l’impossibilità di non
essere, non è però semplicemente una proprietà del puro essere, come in
Parmenide, o di un principio metafisico-teologico, ma è il predicato essenziale
della totalità delle differenze dell’essere. Nella Struttura originaria,
attraverso un discorso analitico assai articolato, Severino intende mostrare
che la struttura dell’origine è ciò a cui compete autenticamente la proprietà che
Aristotele attribuisce al principio di non contraddizione: di essere
l’incontrovertibile, ciò che non può non essere perché anche la sua negazione
lo presuppone.
Prendendo
le mosse dall’insegnamento bontadiniano Severino giunge in tal modo a
conclusioni inattese e scomode, venute alla luce soprattutto nel saggio Ritornare
a Parmenide, pubblicato originariamente nella «Rivista di filosofia
neoscolastica» (56, 1964, pp. 137-75, con un Poscritto, ivi, 57, 1965,
pp. 559-618) e poi incluso in Essenza del nichilismo (1972). Mentre
dalla contraddittorietà del divenire Bontadini inferiva in forza del principio
di non contraddizione l’esistenza di un essere trascendente che non diviene,
Severino ricava dallo stesso punto di partenza una conclusione opposta: se il divenire
è contraddittorio bisogna negarne la realtà, ma non per postulare un principio
trascendente incontraddittorio assolutamente diverso dal divenire stesso, bensì
per riconoscere che tutto ciò che è, non potendo essere ammesso come
diveniente, pena la contraddizione, deve essere allora pensato come eterno e
necessario.
Sviluppata
con coerenza e rigore, questa posizione si venne sempre meglio delineando per
quello che era, vale a dire come una ontologia «neoparmenidea», la quale, per
il pulpito dal quale era professata e per la personalità di chi la professava,
non poté non suscitare prima stupore, poi scandalo, quindi l’anatema. Essa fu
ufficialmente condannata dalla Congregazione per la dottrina della fede come
speculazione atea, inconciliabile con i contenuti della rivelazione e con
l’insegnamento della Chiesa Cattolica. Severino replicò alla condanna con la
sua Risposta alla Chiesa (cfr. Severino, 1982: 317-87, e 2001a), ma
lasciò l’Università Cattolica e si trasferì, seguito dai propri allievi, nell’Università
di Venezia.
Successivamente
a questa importante cesura Severino ha continuato a dipanare in maniera sempre
più rigorosa e radicale le premesse dalle quali era partito, dando forma via
via più compiuta al proprio «neoparmenideismo». Non solo. Sul fondamento di
questa sua originale concezione egli ha pure sviluppato una diagnosi della
civiltà occidentale usando in questo contesto la categoria di «nichilismo»,
diventata per lui centrale. In particolare, il suo insistere sul nichilismo e
sulla tecnica quali contrassegni dell’attuale epoca del mondo hanno indotto ad
associare la sua analisi alla celebre tesi heideggeriana circa il compimento
della metafisica nel nichilismo e nell’essenza della tecnica moderna. Tuttavia
non vi sarebbe nulla di più fuorviante dell’intendere il pensiero severiniano
come una sorta di heideggerismo all’italiana. Severino argomenta in termini
completamente diversi da Heidegger e giunge a una conclusione opposta: mentre
Heidegger teorizza la declinazione storico-epocale dell’essere, Severino
sostiene che l’essere non può essere contaminato dal tempo. Quello di Heidegger
è un pensiero finitista, quello di Severino assolutista. Oltre a Essenza del
nichilismo, i testi nei quali vengono sviluppati questi motivi sono: Gli
abitatori del tempo, interessante soprattutto per l’analisi del
cristianesimo, del marxismo e della tecnica quali forme fondamentali del
nichilismo occidentale; Techne. Le radici della violenza (1979),
dedicato all’esame delle diverse manifestazioni della sradicatezza dell’epoca
contemporanea. Segue la sua produzione adelphiana: Legge e caso (1979), Il
parricidio mancato (1985), La tendenza fondamentale del nostro tempo
(1988), Oltre il linguaggio (1992) e soprattutto Destino della
necessità (Milano 1980), Il giogo (1989), Tautótes (1995) e La
Gloria (2001), in cui è ripreso il vasto disegno speculativo delle prime
opere sistematiche nell’intento di esporre in maniera ancora più rigorosa, in
alternativa all’alienazione nichilistica dell’Occidente, la struttura della verità
dell’essere dal puro punto di vista della necessità di tale verità. E per
quanto concerne il problema del nichilismo e della tecnica è importante anche
l’interpretazione di Leopardi a cui Severino ha dedicato ben due libri: Il
nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi (1990) e Cosa
arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi (1997).
Ora, benché
in alcuni testi, specialmente nella lunga Introduzione alla nuova
edizione (1981) della Struttura originaria e in Tautótes, si
alluda a una certa sua evoluzione, il pensiero di Severino si presta a essere
considerato come un blocco monolitico e unitario. Si possono qui illustrare,
almeno sinteticamente, le due componenti che lo costituiscono nel suo nocciolo
essenziale: l’esame della struttura fondamentale dell’Occidente in quanto
storia del nichilismo dimentico dell’essere, e l’analisi teoretica della
struttura necessaria e incontrovertibile dell’essere nella sua radicale e
assoluta differenza dal niente.
Per
Severino il pensare e l’agire dell’umanità occidentale hanno la loro
motivazione metafisica più profonda in una struttura inconscia. Essa viene
situata a un livello ontologico più radicale rispetto alle strutture
dell’accadere storico individuate da Hegel, Marx, Nietzsche e dalla psicoanalisi.
Tale struttura inconscia è riconducibile, nella sua essenza, alla volontà che
l’ente sia niente. E questo volere nichilistico è attribuito a tutte le forme e
le fasi del pensiero occidentale, nella misura in cui ciò che tutte le accomuna
è la credenza nel divenire, ossia la convinzione che tutte le cose stiano e
scorrano nel tempo. La credenza che «tutto scorre e nulla permane» (pánta
rheî kaì oudèn choreî) non è solo di Eraclito, ma di tutto l’Occidente. E
perché mai questa credenza dovrebbe equivalere alla volontà che le cose siano
niente? Semplicemente per questo: perché pensare che le cose siano nel tempo,
che nascano e muoiano, che escano dal niente e ritornino nel niente, significa
pensare che esse, pur essendo enti, siano state niente nel passato e saranno di
nuovo niente nel futuro. Ma credere ciò significa ritenere possibile che (in un
certo tempo, nel passato o nel futuro) l’ente sia niente. Quando noi pensiamo e
diciamo che le cose sono nel tempo, che le cose passate non sono (più) e quelle
future non sono (ancora), noi pensiamo e diciamo che l’ente è niente, e siamo
quindi, secondo Severino, nichilisti in un senso essenziale. Ma dire che l’ente
è niente è contraddittorio. Dunque l’uomo occidentale, nel suo nichilismo,
poggia sull’inconsistente fondamento di una contraddizione. Ciò nonostante non
c’è verso di smuoverlo dalla sua credenza nella realtà del divenire, dal
pensare e dall’agire come se l’ente provenisse dal niente e vi ritornasse, come
se l’ente fosse niente. Calando l’ente nel tempo – tempo che è interpretato
come l’elemento che separa (in base alla riconduzione etimologica di tempus
al greco témnein e di chrónos a krínein) – l’uomo
occidentale lo separa dall’essere e lo pensa come non ente, come niente,
dimenticando l’ammonimento di Parmenide che dice: «Tu non separerai l’essere
dall’essere» (fr. 4).
È questa la
contraddizione di fondo nella quale l’Occidente inconsciamente permane nella
misura in cui crede nell’esistenza del divenire. Ma ascoltiamo l’argomentazione
di Severino come lui stesso la formula:
Per la
metafisica, le cose «sono». Il loro «essere» è il loro non essere un niente. In
quanto sono, si dicono «enti» o «esseri». Ma l’ente, come tale, è ciò
che può non essere: sia nel senso che sarebbe potuto o potrebbe non essere, sia
nel senso che incomincia e finisce (non era e non è più). La metafisica è il
consentimento al non essere dell’ente. Affermando che l’ente non è –
consentendo all’inesistenza dell’ente –, afferma che il non-niente è niente. Il
pensiero fondamentale della metafisica è che l’ente, come tale, è niente
(Severino, 1982: 195).
E altrove:
Noi
diciamo: «le cose passate e le cose future sono niente». Che cosa c’è di più
indiscutibile? Ma in questa nostra convinzione indiscutibile intendiamo
qualcosa di diverso dall’affermazione: «il niente è niente»; cioè non è del
niente che intendiamo dire che sia un niente, ma è delle cose passate,
o delle cose future, ossia di ciò il cui significato non è identico al
significato «niente». Ma ciò il cui significato non è identico al significato
«niente» non è un niente. Della città di Hiroshima noi diciamo che è diventata
niente. Ma Hiroshima non significa «niente», e cioè non è un niente. Hiroshima,
di cui diciamo che ora è un «niente», non è un niente. Noi dunque pensiamo che ciò
che non è un niente è un niente. Il passato e il futuro sono il tempo in
cui le cose, ossia ciò che non è un niente, sono niente. Se ci dicessero che il
passato e il futuro sono il tempo in cui il circolo è quadrato, noi saremo ben
pronti a ribattere che non può esserci alcun tempo in cui si realizzi questa
assurda identificazione del circolo e del quadrato. Ma questa sensibilità
all’assurdo (...) non ci impedisce di pensare invece un tempo in cui la cosa,
ossia ciò che non è un niente, sia niente e non ci impedisce di vivere e agire
conformemente a questo pensiero. Noi pensiamo e viviamo le cose come se fossero
un niente. Per la civiltà europea le cose sono niente: il senso della cosa, che
guida la storia dell’Occidente, è la nientità delle cose. L’essenza della
civiltà europea è il nichilismo, poiché il senso fondamentale del nichilismo è
il rendere niente le cose, la persuasione che l’ente sia un niente, ed è
l’agire guidato e stabilito da questa persuasione (Severino, 1978: 20).
Da
Parmenide in poi, l’Occidente rimane per Severino entro l’orizzonte di tale
nichilismo. Anzi, nichilistiche sarebbero tutte le civiltà, tutti i popoli e le
religioni, le istituzioni sociali, le masse e gli individui che rimangono
legati alla credenza nel divenire. Nella civiltà occidentale, con la tecnica,
tale credenza perverrebbe alla sua forma più alta e alla sua diffusione più
profonda e inestirpabile. Infatti, là dove non solo il pensiero, ma anche
l’agire dell’uomo è guidato dalla convinzione nichilistica che le cose siano
niente nel senso che possono essere ricavate dal niente e riportate nel niente,
ossia fabbricate e distrutte, il nichilismo perviene al suo massimo grado di
realtà. Ma la tecnica è proprio questo, giacché essa presuppone che le cose
possano essere prodotte (dal niente) e distrutte (nel niente) secondo il
proprio piacimento. E mentre un tempo il compito di creare e distruggere le
cose era affidato a Dio, nell’era contemporanea la tecnica arroga a sé tale
prerogativa divina: se la teologia è la prima forma di tecnica, la tecnica è
l’ultima forma di teologia. La conclusione coerente è:
Dio e la
tecnica moderna sono le due fondamentali espressioni del nichilismo metafisico
(Severino, 1982: 197).
In base a
questa determinazione del nichilismo Severino costruisce la sua diagnosi
critica del mondo contemporaneo e dei valori da esso prodotti. L’abitare il
tempo, credendo nel divenire e quindi nella libertà delle cose di andare e
venire dal niente, implica la consumazione e il tramonto di tutti quelli che
Severino chiama gli «immutabili» dell’Occidente. Sono tali le figure, le forme,
gli ideali e i valori mediante i quali il pensiero occidentale tenta di
catturare e di stabilizzare il divenire nella sua imprevedibile complessità. Il
tempo implica insomma la caduta di tutti gli dèi e gli idoli prodotti dalla
storia: il Dio del cristianesimo al pari degli dèi delle altre religioni,
l’organizzazione capitalistica del lavoro come il marxismo, le varie forme del
pensiero filosofico da Platone a Husserl. E il tramonto degli immutabili non è
solo un processo di tipo sociologico-culturale, ma ha la sua causa nella scelta
metafisico-nichilistica per il divenire.
A tale
proposito, tenendo fermo il senso preciso in cui Severino sostiene che la
civiltà occidentale è nichilistica e i termini in cui egli ne critica le
manifestazioni, bisogna dire che buona parte dell’attenzione che le sue opere
hanno suscitato si basa su un equivoco. Esso consiste nel credere che egli
parli di nichilismo nell’accezione filosofica comune del termine, quindi come
di un fenomeno culturale che per qualcuno è interessante da studiare, per altri
preoccupante, per altri ancora indifferente. Ma il senso in cui il nichilismo è
per gli uni preoccupante e per gli altri interessante o indifferente è del
tutto diverso da quello che Severino intende con tale concetto.
In base
all’individuazione della struttura inconscia dell’Occidente Severino prospetta
l’alternativa alla via della notte finora seguita. Essa è rappresentata dalla
via del giorno di cui parla Parmenide, e che consiste nel riconoscere la
necessità che l’essere è e non può non essere, e che il niente non è e non può
essere. Severino non vuole però un semplice ritorno a Parmenide, come si
potrebbe pensare e come si è effettivamente ritenuto. È invece necessario
ripetere il «parricidio» con il quale Platone crede di liberarsi di Parmenide e
si illude di salvare il mondo dei fenomeni. Nella ripetizione del «parricidio»
le differenze sono finalmente ricondotte nell’essere: se non vengono più
isolate da esso – come avviene in Parmenide, in Platone, nell’intera storia
dell’Occidente – esse appaiono nella loro eternità. Muta quindi radicalmente
anche il senso del loro divenire, che non è più da intendere come l’uscire dal
niente e il ritornarvi, ma come l’apparire e lo scomparire dell’eterno. Se noi
lasciamo che questa struttura necessaria e incontrovertibile venga alla luce
nel nostro pensare e nel nostro dire, allora la credenza nichilistica nel
divenire degli enti, cioè la pervicacia del volere abitare nel tempo, cioè
fuori della necessità, e di volere separare l’ente dal suo essere, apparirà –
questa la tesi severiniana – come l’alienazione più profonda, come il male più
radicale e più tenace di qualsiasi peccato originale, di qualsiasi errore
economico o psicologico. Ecco come Severino stesso riassume questa sua proposta
in un significativo passo di Essenza del nichilismo:
Per
ridestare la verità dell’essere, che sin dal giorno della sua nascita giace
addormentata nel pensiero occidentale, si dovrà pur sempre penetrare il senso
di questo semplice e grande pensiero: che l’essere è e non gli è consentito di
non essere. Il suo risveglio costituisce certo il maggior pericolo per il lungo
inverno della ragione, che vede sconvolte le più antiche abitudini e si sente proporre
un compito nuovo, ed il più essenziale. Se si è capaci, bisogna soffocare
questo pensiero prima che giunga a fiorire, perché altrimenti è destinato, lui
solo, ad avere diritto alla fioritura. Spinge infatti lungo una via dalla quale
non è più possibile tornare indietro: se dell’essere (di ogni e di tutto
l’essere) non si può pensare che non sia, allora dell’essere (di ogni, di tutto
l’essere) non si può pensare che divenga, perché, divenendo, non sarebbe – non
sarebbe cioè prima del suo nascimento e dopo la sua corruzione. Sicché tutto
l’essere è immutabile. Non esce dal nulla e non ritorna nel nulla. È eterno
(Severino, 1982: 69).
In Destino
della necessità il nichilismo occidentale è analizzato nel suo sedimentarsi
nella struttura delle lingue indoeuropee e nella maniera occidentale di
comprendere l’agire a partire da Aristotele. Anche in questo caso Severino
riconduce le molteplici manifestazioni del nichilismo a un’unica radice, la
credenza nel divenire, cioè la convinzione contraddittoria che l’ente sia un
niente, e spiega ancora una volta come la decisione occidentale di separare
l’ente dall’essere, ovvero dal destino della necessità, per sottometterlo
all’arbitrio umano abbia determinato in profondità il corso della storia
occidentale fino a noi. E di nuovo Severino intende mostrare che l’Occidente
non rappresenta che uno dei due corsieri che trascinano l’accadere della terra
in due direzioni opposte: è il corsiero visibile, quello guidato dalla volontà
di potenza; l’altro corsiero, invisibile nell’orizzonte delle apparenze
mortali, si lascia invece guidare dalla «volontà del destino», e precisamente
dalla volontà di quel destino della necessità di cui il pensiero severiniano
intende essere testimonianza.
Va da sé
che questa posizione rappresenta una provocazione senza pari non solo per il
senso comune, ma anche per il pensiero contemporaneo. Ovunque si registra oggi
un atteggiamento difensivo da parte della filosofia, preoccupata di
salvaguardare la propria legittimità e la propria consistenza disciplinare su
un duplice fronte, cioè sia rispetto alla razionalità della scienza e della
tecnica, sia rispetto al mito e alla religione. Tale atteggiamento difensivo ha
portato ad abbandonare le pretese di assolutezza e a ricercare paradigmi di
razionalità filosofica parziali, limitati a campi di riferimento e di
applicazione determinati, come nel caso della cosiddetta razionalità pratica,
oppure più deboli, cioè dalle pretese di validità circoscritte o persino
azzerate come quando lo statuto del discorso filosofico è considerato
semplicemente letterario e narrativo. Ebbene, contro queste tendenze
predominanti, Severino non solo rivendica un ruolo conoscitivo forte al
discorso filosofico, ma sostiene addirittura che esso debba avere il carattere
dell’incontrovertibilità. Deve essere il luogo logico del manifestarsi
della struttura ontologica della necessità dell’essere, il quale è ciò che è e
non può non essere, nella sua radicale differenza dal niente come ciò che non è
e non potrà mai essere.
Non c’è da
stupirsi, pertanto, che i suoi scritti siano stati attaccati un po’ da tutte le
parti, anche se la veemenza degli attacchi nulla toglie al generale
riconoscimento della coerenza con la quale egli ha saputo sviluppare il suo
discorso filosofico. Naturalmente le critiche che hanno preoccupato Severino
non sono state quelle che si sono limitate a polemizzare con lui, bensì quelle
che, entrando nel cuore delle sue argomentazioni, hanno mirato a scardinare
dall’interno l’edificio neoparmenideo. È stato soprattutto il caso delle
critiche mosse a Severino dal suo maestro Gustavo Bontadini, da Cornelio Fabro
e da Enrico Berti – quest’ultimo da un punto di vista aristotelico, dunque
facendo valere le ragioni di quella concezione plurivoca dell’essere che
rappresenta l’antitesi più potente e pericolosa per la concezione univocistica
a cui Severino si richiama. Severino ha dedicato molta attenzione anche alle
obiezioni di Lucio Colletti, soprattutto in relazione al problema della
contraddizione (Severino, 1978).
In luogo di
un esame di queste diverse critiche, sia qui consentito soltanto un breve
rilievo per comprendere il pensiero di Severino soprattutto in considerazione
degli sviluppi contenuti in Destino della necessità, nel Giogo e
in Tautótes, in cui la posizione sviluppata nella Struttura
originaria e in Essenza del nichilismo è radicalizzata assumendo in
maniera ancora più rigorosa il punto di vista della necessità. Appare chiaro
che per Severino le verità di ragione e i princìpi fondamentali che le reggono,
il principio di identità e il principio di non contraddizione, non solo hanno
valore ontologico ma rappresentano la struttura dell’Assoluto. Insomma il
pensiero, nella sua struttura logica, riflette la struttura immutabile
dell’essere nella sua incontrovertibile necessità. Pertanto il pensiero, nella
sua attuazione perfetta, consente all’uomo di oltrepassare l’orizzonte
fenomenologico del conoscere finito e di elevarsi fino al punto di vista
dell’Assoluto. Tenendo presente ciò, si può capire il senso della negazione
severiniana del divenire: nell’orizzonte dell’Assoluto, cioè sub specie
aeternitatis, il divenire si risolve nella «sequenza» immobile già data ed
eterna di tutti i suoi infiniti momenti; solo dal punto di vista di una mente
finita, cioè sub specie temporis, questi infiniti momenti, non
riconosciuti nella loro connessione eterna, appaiono di volta in volta nel loro
fluire e nel loro scorrere, generando l’apparenza del divenire. Per questo la
negazione del tempo e del divenire ha assunto, da Destino della necessità
in poi, una connotazione per così dire «spinozistica» – anche se ovviamente la
determinazione severiniana dell’essere non ha nulla a che vedere con l’idea
metafisica di sostanza presupposta da Spinoza. In tal senso l’operazione
speculativa che Severino compie consiste in fondo in questo: nel riportare il
conoscere filosofico, attraverso il riconoscimento della necessità
logico-ontologica che viene alla luce nella struttura razionale che anche una
mente finita può riconoscere, a quel «punto di vista» partendo dal quale il
conoscere stesso non si presenta più come il punto di vista della finitezza, ma
come la manifestazione della necessità logico-ontologica dell’Assoluto, di Dio
stesso. Severino vuole elevare l’esistenza umana a quel «punto di vista» che
gli permette di guardare, al di là del cerchio dell’apparire, verso la
Necessità stessa e oltrepassare così il nichilismo.
Rimangono
naturalmente aperti molti problemi, specialmente, per nominare quello col quale
mi pare si cimentino le pagine decisive di Destino della necessità e di Tautótes,
la difficoltà di mediare tra il tutto dell’essere e i contenuti dell’apparire,
tra l’essere e gli enti, tra la coscienza infinita e quella finita, tra il
pensiero e l’esperienza, tra la logica e la fenomenologia. È questo un
interrogativo fondamentale con il quale tutte le forme di pensiero
dell’Assoluto hanno da sempre dovuto fare i conti, ma che in Severino si
presenta in termini particolarmente evidenti, dal momento che il «punto di
vista» dell’Assoluto è in lui riconosciuto e definito unicamente in forza del
principio di non contraddizione assunto nella sua valenza ontologica. Ciò
rappresenta un problema perché – come Aristotele ha mostrato – proprio
l’assunzione del principio di non contraddizione nella sua portata ontologica
impone di riconoscere le determinazioni molteplici e diverse dell’essere (che
in effetti Severino ammette come eterne). Ci si chiede allora: come è possibile
dire il diverso senza negare, cioè senza dire «questo non è quello» o
«quello non è questo»? Ovvero senza dire che un «quello», che è ente, non è un
«questo», che è anch’esso ente? Quindi senza dire che qualcosa che è non è,
ovvero che l’ente è non ente, cioè niente?
È chiaro a
questo punto che la resa dei conti deve essere fatta con Aristotele, che per
primo ha mostrato come l’assunzione del principio di non contraddizione
implichi il riconoscimento della pluralità dei significati dell’essere e quindi
il rifiuto della concezione univocistica dell’essere di cui quella parmenidea è
la prima rigorosa formulazione. Viceversa, accettando quest’ultima, si è
costretti non solo a negare il divenire, come effettivamente fa Severino, ma
anche a togliere le differenze, cosa che Severino invece non ammette. Ora,
mentre nella sua ripresa di Parmenide Severino ha avuto buon gioco nel negare
il divenire e il tempo dichiarandoli mere forme dell’apparire, rimane invece
ancora aperto il problema di spiegare e dire le differenze e le determinazioni senza
contraddizione; in quanto per farlo – nell’orizzonte di una concezione
univocistica dell’essere, entro la quale la copula «è» viene impiegata sempre e
soltanto nel significato di «è identico», anzi, di «è eternamente identico»,
quindi nel senso della predicazione essenziale di identità – bisogna dire le differenze
senza usare la negazione. È ciò che Severino cerca di fare in Tautótes.
Dal momento
che ha avuto sulla nostra epoca una presa tanto tenace, è lecito supporre che
il nichilismo rappresenti qualcosa di più che una semplice corrente del
pensiero contemporaneo o una cupa avventura delle sue avanguardie intellettuali.
Non occorre essere nietzscheani per riconoscere che il suo fantasma si aggira
un po’ ovunque nella cultura del nostro tempo. Né si deve arrivare a pensare,
con Heidegger, che il nichilismo sia l’accadere stesso della storia
occidentale, per riconoscere che «chi non ha sperimentato su di sé l’enorme
potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra
epoca» (Jünger-Heidegger, 1989: 104).
Il
nichilismo – una parola riservata fino a qualche tempo fa a poche élites
– è oggi espressione di un profondo malessere della nostra cultura: che si
accavalla, sul piano storico-sociale, ai processi di secolarizzazione e di
razionalizzazione, quindi di disincanto e di frantumazione della nostra
immagine del mondo, e che ha provocato sul piano filosofico, in merito alle
visioni del mondo e ai valori ultimi, la corrosione delle fedi e il diffondersi
del relativismo e dello scetticismo. E quale che sia l’atteggiamento che si
assume nei suoi confronti, di accettazione o di rifiuto, di tolleranza o di
reazione, chiunque può vedere quanto la storia abbia riempito il nichilismo «di
sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori» (Jünger-Heidegger, 1989: 49).
Avendo
toccato in tal senso un punto nevralgico della coscienza critica e
dell’autorappresentazione culturale del nostro tempo, il nichilismo ha
provocato reazioni e tentativi di superamento altrettanto determinati.
Specialmente sul piano della morale e dell’etica pullulano ormai gli sforzi che
mirano a oltrepassare la nostra condizione nichilistica e i mali che ne
derivano (cfr. Reale, 1995; Scalfari, 1995; Zecchi, 1993).
Eppure
proprio sul piano morale ed etico vale, oggi più che mai, la constatazione
fatta dal sociologo Niklas Luhmann: Paradigm lost. Abbiamo perduto i
tradizionali paradigmi per orientarci. E questa variazione del celebre titolo
di John Milton vale in un duplice senso: sia sul piano della fondazione che su
quello dell’applicazione, sia nella dimensione teorica che in quella
pratico-applicativa (cfr. Luhmann, 1990).
Certo, è innegabile
oggi l’esigenza di superare il nichilismo, testimoniata soprattutto dalla
presenza di una diffusa domanda di etica. La cosa non deve sorprendere più di
tanto. Con uno sguardo storico sulla modernità – a cui Luhmann ci invita – si
può constatare che dall’invenzione della stampa in poi, negli ultimi decenni di
ogni secolo dell’età nuova, le richieste di etica ritornano con una regolarità
quasi astronomica.
1) Verso la
fine del XVI secolo, con Giusto Lipsio, si ha la grande diffusione del
neostoicismo.
2) Più o
meno cent’anni dopo, tra il 1670 e il 1690, dominano la scena le etiche
parenetiche dei grandi moralisti: Baltasar Gracián, Pascal, La Rochefoucauld.
3) Un
secolo più tardi, in Germania, v’è Kant con la critica della ragione pratica e,
in Inghilterra, Bentham con i suoi calcoli utilitaristici. In Francia la
tematizzazione più vistosa della virtù e del vizio, nella loro contrapposizione
speculare e nei loro effetti, è affidata alla penna dissoluta del marchese de
Sade.
4) L’ondata
successiva arriva regolarmente intorno al 1880, quando con Simmel e il
neokantismo si ha il rigoglio delle filosofie dei valori.
E il
Novecento? Noi abbiamo addirittura anticipato questo ritorno periodico. Dagli
anni Sessanta in poi assistiamo alla ripresa della domanda di etica e a una
corrispondente efflorescenza di teorie che si propongono di soddisfarla.
Come
interpretare questo fenomeno? Forse come la manifestazione di un ritmo storico
nella vita della cultura moderna? O come l’espressione di una consapevolezza
critica e di una salute filosofica? O forse come segno di una reazione alla
crisi e di una volontà di superarla?
Lasciamo
volentieri agli astrologi l’interpretazione di questi ritorni periodici e
constatiamo semplicemente che il panorama delle teorie etiche contemporanee
offre uno spettacolo babelico. La confusione regna sovrana sia nella tradizione
del pensiero continentale, dove si può andare dal «neoaristotelismo» di Gadamer
all’«etica dell’argomentazione» di Habermas e Apel fino all’«etica della
responsabilità» di Hans Jonas, sia nel campo della discussione anglo-americana,
dove si passa dall’utilitarismo alla metaetica, dal neocontrattualismo
all’etica pubblica, dal liberalismo al comunitarismo, dalla bioetica all’etica
dell’ambiente. Il catalogo delle idee è svariato e il turista curioso potrebbe
passeggiare all’infinito nel giardino-mercato delle etiche.
La realtà è
che si sta ripetendo oggi, in misura aggravata in ragione del quadro
nichilistico e del carattere planetario e complesso della vita moderna, la
crisi che ha solcato altre epoche storiche e che è caratterizzata dal conflitto
tra visioni del mondo e sistemi di norme differenti, dalla difficoltà di
inquadrare nei paradigmi etici tradizionali azioni e fatti morali di nuovo
tipo, dalla concorrenza tra le diverse teorie etiche che genera logomachie
senza vincitori né vinti e dà come risultato l’indifferenza, il relativismo e
lo scetticismo.
Le cose non
vanno meglio sul piano pratico. Sono svanite la forza vincolante delle norme
morali e la possibilità che esse trovino disponibilità ad essere accettate e
applicate. Anche qui bisogna constatare: Paradigm lost. I riferimenti
tradizionali – i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori – sono stati erosi
dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto
l’indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato
è il politeismo dei valori e l’isostenia delle decisioni, la stessa stupidità
delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato
dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a
quella di freni di bicicletta montati su un jumbo jet (Beck, 1988: 194). Sotto
la calotta d’acciaio del nichilismo non v’è più virtù o morale possibile.
Il fatto è
che il paradigma perduto è stato sostituito da uno nuovo che impone i propri
imperativi a ogni condotta e comportamento umano. È il paradigma
tecnico-scientifico. La scienza e la tecnica – che raccorciano lo spazio e
velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che
mobilitano e sfruttano le risorse del pianeta – forniscono una guida assai più
efficace e coercitiva dell’agire di quanto non possa fare la morale. Impongono
obbligazioni che vincolano più di tutte le morali scritte nella storia dell’umanità,
rendendo superfluo, d’ora in avanti, ogni altro imperativo. La scienza e la
tecnica organizzano la vita sul pianeta con l’ineluttabilità di uno spostamento
geologico. Al loro cospetto l’etica e la morale hanno ormai la bellezza di
fossili rari.
L’uomo
contemporaneo non ha alternative: qualsiasi cosa pensi o faccia, è già comunque
sottomesso alla coercizione della «tecno-scienza». Ciò nonostante egli si culla
ancora nell’attitudine edificante dell’umanesimo tradizionale e dei suoi
ideali, che appaiono però impotenti rispetto alla realtà della tecno-scienza e
che producono, tutt’al più, un’evasione e una compensazione. C’è chi pensa –
come Heidegger – che inquietante oggi non sia il fatto che il mondo diventi
completamente tecnico, ma che l’uomo si trovi impreparato a questa
trasformazione del mondo. Chi si attarda a pensare in termini di morale e di
etica, non è ancora all’altezza della sfida della tecno-scienza. A chi gli
domandava perché dopo Essere e tempo non avesse ancora scritto un’etica,
Heidegger rispondeva che un’etica adeguata ai problemi del mondo moderno è già
implicita nella comprensione dell’essenza della tecnica. Qualsiasi altra etica
– pensata a misura del singolo – sarebbe inadeguata alla macroazione planetaria
dell’umanità, rimarrebbe qualcosa di «penultimo» rispetto alle realtà ultime
prodotte dalla tecno-scienza. Nell’età dominata dal nichilismo le etiche
rimangono sul piano dell’omiletica.
La domanda
che a questo punto si impone è se il nichilismo sia davvero – come riteneva
Heidegger – un approdo inevitabile del razionalismo occidentale, una sorta di
inveramento essenziale del potere distruttivo della razionalità nata con i
Greci, o se esso non sia piuttosto – come pensava Husserl – un tradimento
dell’originaria idea di ragione, un imbarbarimento e un impoverimento di quel logos,
che con Socrate, Platone e Aristotele aveva saputo imporsi sul nichilismo di un
Gorgia. Questo dilemma ha tormentato il pensiero contemporaneo – lo testimonia
la polemica in merito alla «critica totale della ragione» intercorsa tra due
suoi esponenti di spicco, Apel e Derrida – e, se mai si potrà dirimerlo, appare
indispensabile per farlo una distanza storica che ancora non abbiamo maturato.
Ancora non
sono troppo lontani i tempi in cui Talleyrand diceva che per stabilire qualcosa
di durevole bisogna agire secondo un principio: con un principio noi siamo
forti e non incontriamo resistenza. Ma noi sappiamo – grazie a questo
diplomatico capace di servire tanti sovrani e di arrivare prima o poi a
tradirli tutti, grazie a questo principe camaleontico capace di indossare gli
abiti dell’Ancien Régime sulla pelle dell’individuo moderno e di
conciliare virtù cristiane e laicità, princìpi morali e realismo politico – che
questa dichiarazione nasconde il suo esatto contrario e che le dichiarazioni di
princìpi mascherano oggi l’assenza di princìpi. Principes, c’est bien! Cela
n’engage point. Perciò quando oggi ci si richiama ai princìpi, si ha
l’impressione che qualcuno stia mentendo. La figura di Talleyrand, con la sua
fedeltà alla massima larvatus prodeo, segnala quanto il nichilismo sia
diventato realtà (cfr. Calasso, 1983).
Ma – ci si
chiede – se è vero che il nichilismo comincia là dove cessa la volontà di
autoingannarci, possiamo allora trasformare l’esperienza che ne abbiamo fatto
in un insegnamento, ovvero in un vigoroso invito alla lucidità del pensiero e
alla radicalità del domandare – in un’epoca in cui gli altari abbandonati
vengono abitati da demoni?
Jean
Dubuffet ha scritto che «soltanto il nichilismo è costruttivo» perché è
«l’unico cammino che porta l’uomo a stabilirsi nella chimera» (Dubuffet, 1969:
80). La provocazione di questo artista e teorico dell’avanguardia, anche senza
essere condivisa, aiuta a vedere che il nichilismo ci ha trasmesso effettivamente
un insegnamento corrosivo e inquietante, ma al tempo stesso profondo e
coerente.
Ci ha
insegnato che noi non abbiamo più una prospettiva privilegiata – non la
religione né il mito, non l’arte né la metafisica, non la politica né la morale
e nemmeno la scienza – in grado di parlare per tutte le altre, che non
disponiamo più di un punto archimedeo facendo leva sul quale potremmo di nuovo
dare un nome all’intero. È questo il senso più profondo della terminologia
negativa – «perdita del centro», «svalutazione dei valori», «crisi di senso» –
che il nichilismo ha fatto fiorire e che evidentemente esprime la crisi
d’autodescrizione del nostro tempo. Il nichilismo ci ha dato la
consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista
negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto
non v’è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni
pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare.
Il
nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto
i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole
prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente,
che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della
precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura
all’altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro. Dopo la
caduta delle trascendenze e l’entrata nel mondo moderno della tecnica e delle
masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello
della convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni
senza credervi troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una
sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è
una filosofia di Penelope che disfa (analýei) incessantemente la sua
tela perché non sa se Ulisse ritornerà.
Ancora non
sappiamo infatti quando potremmo dire di noi stessi quello che Nietzsche osava
pensare di sé allorché affermava di essere «il primo perfetto nichilista
d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso –
che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé» (VIII, ii, 393).