La meditazione buddhista |
❍ 1. Introduzione
❍ 2. Buddha Dhamma,
l’insegnamento del Buddha
❍ 3. Le due ramificazioni della meditazione buddhista: Samatha e Vipassana (quiete e visione penetrativa)
❍ 4. Concentrazione, la base della meditazione
❍ 5. Samatha. Lo sviluppo
della quiete
❍ 6. Vipassana. Lo sviluppo
della visione penetrativa
❍ 7. Il definitivo: Nibbana
❍ 8. Benevolenza ed equanimità
❍ 1. Introduzione
Le tecniche di meditazione esposte sono state
tramandate nelle piú antiche tradizioni del suo insegnamento. Esiste anche la
viva trasmissione della pratica meditativa all'interno della tradizione
buddhista theravada (Ceylon, Birmania, Thailandia).
Tutte le tecniche dei vari sistemi Mahayana sono
in relazione con l'uno o l'altro dei due principali rami della meditazione
buddhista originaria.
Nella scuola zen Soto c'é la pratica dello
"star solo seduti" (shikan taza),
un tipo puro di meditazione percettiva che é la piú vicina alla meditazione
vipassana originale.
I due principali rami della meditazione
buddhista sono samatha,
"meditazione di quiete" e vipassana,
"meditazione di visione penetrativa".
Essere buddhista vuol dire, praticare il Buddha
sasana e il Buddha Dhamma, la dottrina e l'insegnamento dell'illuminato, il cui
cuore é, precisamente la pratica della meditazione. La meditazione ha lo scopo
di chiarire e riorganizzare i processi mentali e raggiungere cosí l'esperienza
piena ed esatta della vera natura delle cose, cioé di quello che i filosofi
amano chiamare "realtá".
Non é necessario accettare certe credenze
ciecamente per iniziare la meditazione buddhista
Non c'é salvezza attraverso la grazia, né
salvezza nella fede; Non ci sono intercessioni di alcun tipo. Gli ammonimenti
del Buddha sono perfettamente chiari: "Siate un'isola, un rifugio per voi
stessi, non cercate un rifugio esterno avendo l'insegnamento come vostra isola,
l'insegnamento come vostro rifugio, non cercando altro rifugio" (Digha
Nikaya, 16)
Le ultime, famosissime, parole del Buddha
furono: "Monaci, vi esorto, vedete che transitori sono tutti gli elementi
dell'essere. Perseverate con ardore!"
(Digha Nikaya, 16)
"Vedete questi alberi, vedete questi luoghi
solitari. Meditate e non siate negligenti, in modo da non avere piú tardi
motivo di rimpianto. Questo é il mio avvertimento per voi" (Majjhima
Nikaya, 152).
❍ 2. Buddha Dhamma,
l’insegnamento del Buddha
❖ 1.
❖ 3. Le quattro nobili veritá
❖ 3.1. La sofferenza (dukkha)
❖ 3.2. L'origine della sofferenza (dukkha samudaya)
❖ 3.3. La cessazione della sofferenza (dukkha nirodha)
❖ 3.4. La via che conduce alla cessazione della sofferenza (dukkha
nirodha gamini patipada)
❖ 1.
Il cuore dell'insegnamento del Buddha é la
pratica della meditazione. In altre parole, é un insegnamento pratico su ció che si puó fare in
termini concreti per progredire; non é un esercitarsi in speculazioni
metafisiche o costruzioni teologiche. Il Buddha lo puntualizzó con forza nella
famosa parabola della freccia avvelenata:
Immaginate
che qualcuno venga e dica: "Non condurró la vita di purezza insegnata dal
Beato a meno che non mi dica prima se il mondo é eterno o no, se é finito o
infinito; se corpo e anima sono una sola identica cosa o due cose diverse; se
dopo la morte il Perfetto perdurerá o non perdurerá". Un simile individuo
certamente morirá molto prima che il Perfetto gli possa spiegare tutto questo.
[...] "Il mondo é eterno, il mondo non é eterno..." tutti questi sono
solo punti di vista e opinioni, ma ció che é certo é che ci sono nascita,
vecchiaia e morte, che ci sono tristezza, dolore fisico, sofferenza mentale e
angoscia, e quello che io vi insegno é come eliminare tutto ció proprio in
questa vita
Per collocare nel loro contesto le tecniche
meditative discusse piú avanti, é necessario avere presente un chiaro schema
dell'insegnamento del Buddha, il buddha
dhamma come fu compendiato nel suo primo discorso sulle 4 nobili veritá
pronunciato a Isipatana due mesi dopo la sua
illuminazione definitiva.
❖ 3. Le quattro nobili veritá
Le quattro veritá sono:
La veritá della sofferenza
La veritá dell'origine della sofferenza
La veritá della cessazione della sofferenza
La veritá della via che conduce alla cessazione
della sofferenza
❖ 3.1. La sofferenza (dukkha)
La nascita
é sofferenza, la vecchiaia é sofferenza, la morte ,e sofferfenza; tristezza,
lamenti, dolore fisico e mentale, angoscia sono sofferenza; la separazione da
ció che piace é sofferenza; non poter avere ció che si desidera é sofferenza.
E' importante avere presente che il termine pali
dukkha, abitualmente tradotto con
"sofferenza" ha in origine una gamma molto piú ampia di significati.
Include non solo stati acuti e manifesti di sofferenza fisica e mentale, ma
anche qualsiasi stato di disagio, insoddisfazione, ansia e malessere. Si puó
notare a questo riguardo che nel sul Buddhist
Dictionary, il venerabile Nyanatiloka specifica che dukkha "si
riferisce alla natura insoddisfacente e alla generale incertezza di tutti i
fenomeni" e suggerisce che, se non fosse per ragioni stilistiche, "
'insoddisfazione' o 'tendenza alla sofferenza' sarebbero traduzioni piú
adeguate".
Questa prima veritá non nega l'esistenza di
espereinze piacevoli, ma semplicemente attira l'attenzione sul fatto che, anche
nel colmo del piacere e dela felicitá, non siamo mai completamente liberi da
disagio e malessere. I piaceri sono fluttuanti, la felicitá é effimera (come
non solo il Buddha, ma tutti i maestri religiosi o i filosofi ci ricordano
sempre) e il loro godimento é offuscato da questa cognizione. Inoltre,
riflettendo con maggior attenzione, quante volte possiamo dire, nel corso della
nostra ordinaria esistenza quotidiana, che stiamo godendo di un attimo di
felicitá merfetta, pura, o di benessere? Quante volte possiamo dire di essere
completamente liberi da tutto ció che non ci piace, che abbiamo tutto ció che
ci piace, che i nostri desideri, costantemente complessi e fluttuanti, si sono
del tutto acquietati? E quanto spesso
accade (per fare degli esempi banali, ma non per questo meno significativi) che
pizzichi il naso, o formicoli un piede, o il sole batte negli occhi, o che ci
si ricordi della bolletta dell'elettricitá non pagata proprio nel bel mezzo di
un'espereinza esaltante?
Il malessere, nel senso pieno del termine, é
universale; non siamo mai costantemente a nostro agio nel mondo cosí come lo
sperimentiamo; non siamo a nostro agio con noi stessi. E' quindi vero che,
considerando la cosa senza illusioni, vivere é soffrire. Tutte le filosofie e
le religioni condividono questa convinzione. Le divergenze iniziano quando si
comincia ad analizzare le cause di questo malessere e a cercarne dei rimedi. Su
questo punto la risposta del Buddha é straordinaria nella sua semplicitá e
franchezza: soffrire é volere, cioé
avere bisogni e quindi desiderare qualcosa che non si ha
❖ 3.2. L'origine della sofferenza (dukkha samudaya)
L'origine di tutta la sofferenza, del disagio e
del malessere é infatti "il desiderio, che porta alla rinascita, ed é
accompagnato da piacere e bramosia, poiché rende piacere a questo e a
quello".
L'importanza di questa affermazione, che
dapprima puó sembrare molto semplice, diviene chiara appena si pensa che
perseguire il piacere é di fatto un'attivitá molto vasta. Essa é motivata non
solo dal desiderio per ció che piace, ma anche dall'avversione per ció chbe non
piace, dal momento che l'avversione [ solo un "desiderio di evitare"
qualcosa che é percepito come spiacevole o indesiderabile. Se ci riflettiamo un
momento, vedremo quanto tempo e quanta energia occupiamo durante la nostra vita
per cercare ció che ci pare desiderabile e per evitare ció che consideriamo
indesiderabhile.
Il Buddha lo dice in questo modo:
Si vede un
oggetto visibile, se é piacevole se ne é attratti, se é spiacevole se ne é
respinti. La stessa cosa avviene con suoni, odori, sapori, cotatti corporei e
oggetti mentali [cioé pensieri, atti di volontá, emozioni etc.]; se sono
piacevoli se ne é attratti, se sono spiacevoli se ne é respinti... Chi vive in
questo modo, influenzato da ció che piace e da ció che non piace, ogni volta
che sperimenta una sensazione - piacevoleç spiacevole o neutra - reagisce
apprezzando il piacere, ne gioisce e vi si attacca... e cosí il desiderio del
godimento sorge in lui. E il desiderio di godere causa attaccamento
Ma come notato precedentemente, la natura effimera
di ogni cosa attorno a noi é fin troppo evidente. Ed é egualmente evidente che
legarsi a quqalcosa che é irrimediabilmentge transitorio, e persistere
nelvolerlo conservare é semplicemente crearsi una causa di sofferenza
Il Buddha, lavorando sempre sulla base
dell'esperienza personale, e non sulla teoria o sulla tradizione,l insegnó che
la sola cosa di cui si possa di fatto affermare l'esistenza é il flusso degoli
innumerevoli processi che si condizionano reciprocamente.
Ció che chiamiamo mondo, oggetti materiali,
anima, la vita stessa, é una complessa rete di fenomeni transitori in continuo
cambiamento, completamente privi di qualsiasi essenza durevole o di una
identitá permanente.Ecco perché il Buddha disse che le tre caratteristiche di
base dell'esistenza sono l'impermanenza (anicca), il non-sé o assenza di
un'entitá o sé permanente (anatta), e la sofferenza (dukkha). L'ultima é il
corollario delle altre due; finché, nella nostra ignoranza (avijja) della
natura effimera delle cose, persistiamo nell'attaccarci a esse, la frustrazione
sará inevitabile. E' come versare dell'acqua in un setaccio e aspettarsi che ci
rimanga. La percezione non corretta, che considera permenente ció che é
transitorio, é la radice dell'attaccamento; ci attacchiamo perché lo vogliamo.
Ció che vogliamo é immateriale; sia che vogliamo ottenere o mentenere qualcosa
che ci piace, sia che vogliamo evitare qualcosa che temiamo, o rifiutre
qualcosa che non ci piace; é sempre un volere. Letteralmente, soffriamo perché
vogliamo.
❖ 3.3. La cessazione della sofferenza (dukkha nirodha)
Ora, se soffriamo perché lo vogliamo, é ovvio
che se non vogliamo non soffriamo. Certo é momto piú facile dirlo che farlo. Il
proporsi semplicemente: "Non voglio soffrire" peggiora la situazione.
INfatti, tale proposito non é che un esempio evidente di quel desiderio e di
quell'attaccamento che si dovrebbe cercare di eliminare, poiché é semplicemente
un'espressone del desiderio di non soffrire e dell'attaccamento al benessere e
alla felicitá.
Ecco perché il buddha disse: "Il completo
cessare e svanire del desiderio, l'abbandonarlo, il rinunciarvi, la liberazione
e il distacco da esso: questa é chiamata la nobile veritá della cessazione
della sofferenza". Dicendo questo egli sottolineava la necessitá di
eliminare completamente alle radici la bramosiae il desiderio per essere sicuri
che entrambi cessino e svaniscano. Ma ció comporta un completo cambiamento
delle nostre attitudini mentali. Il problema é: come si puó attuare un tale
cambiamento? E la risposta é, ancora, molto semplice, sebbene, ancora una
volta, lontana dall'essere di facile applicazione. Bisogna dedicarsi
all'osservazione attenta e non reattiva dei processi fisici e nentali cosí da
sviluppare una senpre maggiore consapevolezza (non distorta dai soliti
desideri, paure opinioni ecc.) della loro vera natura: transitoria, priva di
sé, e perció stesso fonte di sofferenza da parte nostra, fintanto che non
impariamo a lasciar andare. E' per mezzo dell'osservazione attenta di ció che
esiste realmente che viene gradualmente dissipata l'illusione che ci fa
percepire ció che é effimero e transitorio come permanente e durevole. La
liberazione consiste bello sperimenare e nel vedere ched non c'é,
letteralmente, nulla di cui
preoccuparsi.
Questa osservazione consapevole é la
meditazione. Ma di certo, non significa sedersi da qualche parte e dirsi
di punto in bianco: "Ora mi metto a
meditare" senza un training preparatorio. Per prima cosa, la meditazione
richiede una certa destrezza nell'usare le nostre facoltá mentali in modo
specifico e, come tutte le altre abilitá deve essere imparata. In secondo
luogo, cosa ancor piú importante, la meditazione é parte integrante di tutto un
modo di vita e, a meno che non venga sviluppata come parte di tale modo di
vita, non condurrá all'esperienza dell'illuminazione e della liberazione, ma,
nel migliore dei casi, rimarrá un mero gioco o una forma di evasione, mentre
nel peggiore puó diventare un pericoloso travismento dei poteri della mente. Da
qui la quarta veritá, con cui il Buddha mostró l'appropriata condotta di vita.
❖ 3.4. La via che conduce alla cessazione della sofferenza (dukkha
nirodha gamini patipada)
L'analisi del problema e di quale ne sia la
causa é seguita, in questa quarta e ultima veritá, dal rimedio: un modo di vita
purificato da una ragionevole disciplina morale (sila) e dedicato al
raggiungimento della sapienza (panna) mediante il metodico esercizio della
concentrazione mentale (samadhi) applicata all'osservazione attenta, ossia alla
pratica della meditazione.
Non si insiste mai a sufficienza sul fatto che
tutte le tre componenti sono ugualmente essenziali. Se non c'é disciplina
morale, cioé se non ci si sforza di mantenere puri il comportamento, le parole
e i pensieri, non ci potrá essere alcun progresso nel coltivare la mente. E
senza questa cultura mentale, ovvero senza la pratica della meditazione, non si
puó raggiungere la saggezza vivente che permea e trasforma l'esperienza e il
comportamento, ma solo, al massimo, una comprensione puramente intellettuale che
- sebbene possa essere abbastanza sottile e penetrante - non puó trasformare i
livelli piú profondi della psiche umana, che é proprio ció che deve essere
fatto.
Riguardo alla necedssitá di una disciplina
morale, le indicazioni del Buddha esemplificano la sobrietá del suo
approccio,che é una sua peculiare caratteristica. La via del Buddha é la Via di
mezzo, che evita eccessi ed esagerazioni, e richiede buonsenso e moderazione in
ogni cosa. Certamente ci devono essere disciplina e autocontrollo, ma non ascetismo
eccessivo o automortificazione.
Indulgere
nei piaceri dei sensi é cosa bassa, indegna, volgare, ignobile e non
conveniente; indulgere nell'automortificazione é doloroso, ignobile e non
conveniente. Entrrambi questi estremi sono evitati nella via di mezzo,
pienamente realizzata dal Perfetto, la
via che rende possibile vedere e cmprendere cióche conduce alla pace,
alla saggezza, all'illuminazione, al nibbana.
La via di mezzo del buddha é la via
dell'equilibrio e della moderazione. A fini pratici é esposta nella famo0sa
formula del nobile ottuplice sentiero, cosí detto perché suddiviso in otto
fattori:
1. Retta visione - formarsi una giusta opinione
sulle cose e acquisire una comprensione corretta;
2. Retto proposito - spesso definito "retto
pensiero" o retto tipo di intenzione, basato su una corretta comprensione
della situazione.
Questi due costituiscono la saggezza
3. Retto discorso - astenersi dalla menzogna,
dai pettegolezzi maliziosi, dalle ingiurie ecc
4. Retta azione - astenersi dal fare cose che sono
dannose per gli altri o per sé
5. Retto modo di vita - non procurarsi da vivere
con mezzi immorali o illegali
Queste tre formano la virtú o moralitá
6. Retto sforzo - perseveranza ed energia nel
coltivare la presenza mentale e la concentrazione
7. Retta presenza mentale - L'osservazione
attenta e imparziale di tutti i fenomeni per percepirli e sparimenta rli come sono in realtá, senza distorsioni
emotive o intellettuali
8. Retta concentrazione - la concentrazione
mentale essenziale per calmare la mente e affinare la percezione.
Questa tre costituiscono la concentrazione
meditativa
Si deve comprendere chiaramente che, sebbene gli
otto fattori del sentiero siano enumerati uno dopo l'altro per fini
esplicativi, l'idea non é che davono essere praticati in successione (il primo
cioé deve essere perfezionato prima di passare al secondo eocosí via). Come
abbiamo fatto notare, le tre grandi sezioni del sentiero - moralitá,
concentrazione e saggezza - sono legate insieme indissolubilmente e operano
simultaneamente. La saggezza non si pu; raggiungere senza meditazione, ma la
meditazione é inefficace (o talvolta decisamente nociva) se non va di pari
passo con la disciplina morale. Infatti, questi sono semplicemente tre aspetti
della stessa cosa: per un illuminato, azione, meditazione e saggezza sono
un'unica cosa, modi diversi di una coscienza integrata e libera da conflitti.
Nello stesso tempo tuttavia si deve pur iniziare
da qualche parte, e per questo l[ordine con cui sono presentati gli otto
fattori riflette il processo che normalmente viene seguito da chi intraprende
questo compito arduo e supremamente rimunerativo. Si comincia con il
raggiungere una comprensione i ntellettuale della vera natura della condizione
umana (questo é il primo passo della retta comprensione o retta visione, il
primo fattore della via). Poi si decide di fare qualcosa per essa (retto
proposito o retto pensiero) questo é l'inizio della saggezza (comprensione).
Quindi si continua mettendo in pratica questa nuova, e ancora molto
rudimentale, comprensione, e il relativo proposito nel proprio comportamento e
nel proprio modo di vita e contemporaneamente si dedicano tempo e sforzi per
svilupparre la concentraziione mentale necessaria a un'osservazione attenta,
che é la pratica della meditazione.
Il progresso si realizza per la reciproca
interazione di tutti i fattori: la meditazione, praticata in modo corretto,
migliora la comprensione o saggezza - si diventa sempre piú consci della natura
impermanente e impersonale di ogni cosa. Questa maggiore consapevolezza ha, del
tutto naturalmente, effetti benefici sul comportamento. A sua volta, la maggior
purezza di comportamento in qualsiasi cosa si faccia, si dica o si pensi, offre
un miglior fondamento alla meditazione. Si stabilisce cosí una spirale ascendente
in cui moralitá, meditazione e saggezza diventano sempre piú complete e meglio
integrate, fino al raggiungimento della totale integrazione dell'illuminazione
Dal momento che il presente studio é nato con
l'intento di concentrare l'attenzione sull'aspetto meditativo, non diremo molto
di piú, nelle pagine seguenti, sulle due altre sezioni del sentiero, ma per
evitare fraintedimenti [ importantissio non perdere mai di vista ció che
abbiamo appena detto: la meditazione non é qualcosa che avviene, o che uno fa
in compartimenti stagni, per brevi periodi appositamente adibiti a tale scopo,
ma é parte integrante di un modo di vita globale e perde di significato se
viene disgiunta dal contesto che le é proprio.
❍ 3. Le due ramificazioni della meditazione buddhista: Samatha e Vipassana (quiete e visione penetrativa)
❖ 1.
❖ 2.
❖ 3.
❖ 4.
❖ 5.
❖ 1.
Nell'insegnamento del Buddha la meditazione é
presentata in termini sobri e pragmatici, evitando ogni retorica altisonante.
La meditazione é trattata semplicemente come bhavana, che significa "coltivazione" o
"sviluppo", in termini che - allo stesso tempo - riescono a definire
accuratamente il suo scopo: coltivare e sviluppare il vasto potenziale della
mente per superare la natura insoddisfacente delle condizioni interne ed
esterne in cui ci troviamo. In questo contesto, si deve comprendere con
chiarezza che il ptermine pali citta,
tradotto con "mente", indica non solo l'area completa della
consapevolezza cosciente, ma abbraccia anche quella che, nella terminologia
della moderna psicologia occidentale, designberebbe i livelli inconsci e
subconsci della psiche umana.
Come abbiamo indicato in precedenza,
l'insoddisfazione che caratterizza l'esistenza é la conseguenza di aspettati e
irrealistiche, basate su una percezione non corretta della vera natura delle
cose. L'educazione e lo sviluppo della mente sono i mezzi attraverso cui questa
percezione erronea viene corretta, e questa pratica comprende due tipi distinti
di tecniche, conosciuti rispettivamente come samatha e vipassana.
❖ 2.
Samatha significa "quiete",
"calma, o "serenitá". La meditazione samatha, o meditazione di
quiete, mira al raggiungimento di stati di coscienza caratterizzati da livelli
sempre piú alti di quiete e tranquillitá mentale. Essa comprende due elementi:
il raggiungimento del piú alto grado possibile di concentrazione mentale e il
concomitante progressivo acquietarsi di tutti i processi mentali. Questo si
realizza mediante una concentrazione progressiva dell'attenzione in cui la
mente esclude via via tutti gli stimoli fisici e mentali. Si possono cosí
raggiungere stati sommamente rarefatti di coscienza pura, non distratta, che
sono contemporaneamente esperienze di natura supremamente serena.
Si procede inizialente concentrando la mente su
alcuni oggetti specifici che possono essere fisici o mentali (come si vedránel
prossimo capitolo), passando sistematicamente attraverso una serie di stati di
assorbimento mentala (jhana), che saranno descritti nel capitolo V. Si
interrompono progressivamente gli impulsi sensoriali, si sospende via
l'attivitá discorsiva e razinoale della menta. Con questo processo il meditante
raggiunge, per tutta la durata degli esercizi, stati molto alti di integrazione
della coscienza.
Questo genere di meditazion ebuddista che pu'
essere convenientemente descritto come meditazione
di tipo astrattivo, perché agisce abbandonando progressivamente ghli
stimoli sensoriali e mentali, é, come si vedrá, facilmente paragonabile alle
tecniche meditative usate in altre tradizioni. Permette l'accesso a stati di
coscieenza caratterizzati da esperienze di natura unitiva, che certamente hanno
giá di per sé un grande valore. Queste esperienze sono tuttavia, come tutte le
cose, soggette alla legge dell'ipermanenza, e la loro validitá é essenzialmente
limitata alla durata dello stato di assorbimento raggiunto. Questo non
significa che la meditazione samatha sia un'attivitá che s compie in un
circuito completamente chiuso, senza alcuna relazine reale e significativa con la vita quotidiana
del meditante. Al contrario, é evidente che un'esperienza di questo tipo, in
cui si raggiungono stati estremamente pregnanti di pac`e e di quiete, pieni di
significato, non puó non avere un'influenza generalmente positiva sul
meditante, con corrispondenti effetti benefici sul suo comportamento
quotidiano, sulle sue disposizioni d'animo e suioi stati mentali.
Ci9ó che gli stati di assorbimento della
meditazione samatbha tuttavia non possono produrre é quella trascendenza
permanente dei modelli radicati nella psiche umana, che é la sola condizione
che puó propriamente essere definita illuminazione (bodhi) - il raggiungimento
della libertá del nibbana. Qujestga
fu l'intuizione centrale del Buddha, che venne spesso resa in modo confuso nei
tempi che seguirono, malgrado la precisione con cui egli la formuló.
Adottando la terminologia dei moderni psicologi
occidentali, che stanno attualmente studiando questi aspetti dell'esperienza
umana, si pu; dire che la meditazione samatha produce "stati atlerati di
coscienza", che variano in intensitá e durata, ma che non modificano il
carattere fondamentale - le qualitá e le caratteristiche distintive - della
coscienza. GLi stati di assorbimento non producono ció che uno dei ricercatori
occidentali di punta in questo campo, Daniel Goleman, ha definito un "tipo
di trasmutazione dell'appercezione [=percezione accompagnata dall'attenzione
cosciente][che] costituisce un'alterazione della coscienza, un cambiamento
durevole che trasforma ogni momentgo della vita del meditante". Per ottenere
questo "cambiamento durevole", che corrisponde precisamente a ció che
é riconosciuto dalla tradizione come illuminazione o liberazione, é necessario
rivolgersi alla vipassana, il tipo di meditazione propriamenge buddista.
❖ 3.
Vipassana significa letteralmente "chiara
visione" (dal verbo vipassati,
"vedere chiaramente"), vedere le cose proprio come sono in realtá. Il
termine "visione penetrativa" ci dá una traduzione abbastanza fedele
dell'idea, e infatti "meditazione di visinone penetrativa" é
diventato, negli anni recenti, il termine usato convenzionalmente per questo
tipo di meditazione.
Anche la vipassana, o meditazione di visione
penetrativa, inizia con esercizi di concentrazione, proprio come samatha,
utilizzando gli appropriati supporti. La differenza sta nel fatto che nella
vipassana non si sale a livelli di concentrzazione e assorbimento cosí elevati
come in samatha
Infatti, una volta raggiunta una concentrazione
sufficiente ad assicurare il mantenimento di un'attenzione recettiva (il grado
di concentrazione conosciuto come "concentrazione d'accesso", upacara samadhi, o "concentrazione
momentanea", khanika samadhi),
il meditante passa a esaminare con attenzione continua e meticolosa, nei minimi
dettagli, tutti quei processi sensoriali e mentali che sono messi da parte
nelle meditazioni astgrattive, inclusi quelli che normalmente si svolgono a
livello inconscio e subconscio. Lo scopo é di raggiungere una visione completa,
diretta e immediata di tutti i fenomeni, che riveli in essi l'impermanenza di
base *anicca( e la mancanza di un sé (anatta), ossia l'assenza di ogni essenza
duratura o entitá -sé. Si tratta, alla fine, di realizzare una percezione piena
e chiara della radicale impermanenza di tuti i fenomeni esistenti, incluso
anche quello che normalmente chiamiamo lo "sperimentatore",
riconoscendolo come impermanente e impersonale, similmente all'oggetto
sperimentato o al processo esperienziale stesso. questo riconoscimento
accettato non solo come un postulato intellettuale, ma visuto di fatto nella
vita pratica della meditazione, costituisce la visione penetrativa della
vipassana
❖ 4.
Queste sono - delineate brevemente a titolo
introduttivo - le due ramificazioni
della meditazione buddista. Nella tradizione antica, i meditanti le praticavano
normalmente entrambe: samatha per sviluppare un alto grado di concentrazione e
quiete; vipassana per raggiungere la liberazione attraverso la visione
penetrativa. Questo approccio combinato offre chiari vantaggi, poiché é evidente
che quanto maggiore é l'abilitá di un meditante a concentrarsi, quanto piú
calmo e bilanciato é il suo stato mentale, tanto piú facilmente e rapidamente
sará capace di sviluppare una visione penetrativa.
Tuttavia, é molto importante tenere presente che
la meditazione di quiete (samatha) come giá detto, non puó produrre da sola
l;'illuminazione, che puó essere raggiunta solo con lo sviluppo della visione
penetraativa (vipassana, praticata adaguatamente basandosi su un livello minimo
ragionevole di concentrazione (concentrazione d'accesso o momenta nea), senza il bisogno di passare attraverso i
vari livelli di assorbimento (jhana).
E' anche utile notare che gli assorbimenti
possono somportare un rischio nel fatto che - proprio a causa del
raggiungimento di stati alterati di coscienza temporanei ma assai remunerativi
- il meditante puó arrivare a considerare gli assorbimenti come fini a se
stessi, nel qual caso essi saranno un ostacolo piuttosto che un aiuto al
progresso della visione penetrativa.
Per questo motivo, secondo il carattere e le
circostanze, giáanticamente certi
meditanti iniziavano subito praticando la pura visione penetrativa (sukkha
vipassana), cioé perseguendo lo sviluppo della visione penetrativa senza il
parallelo sviluppo di stati avanzati di quiete. In tempi recenti un crescente
numero di meditanti si sono rivolti alla pratica della pura visione
penetrativa. Questo non deve stupire, viste le ansie e le tensioni della vita
moderna, che rendono peró piú difficile che in passato trovare il tempo e il
luogo appropriato per praticare la meditazione di quiete, che generalmente
richiede piú isolamento e tempo a disposizione. Ció é vero specialmente nel
caso dik meditanti che non sono né monaci né anacoreti, ma che, come molta
gente oggi, sia in occidente che in oriente, cercano di combinare la pratica
della meditazione con le molteplici esigenze personali, sociali e professionali
della vita laica.
❖ 5.
Il fatto che entrambi i tipi di meditazione - di
quiete e di visione penetrativa - inizino con lo stesso genere di esercizi di
concentraziione, cosí come la somiglianza tra la meditazione di quiete nel
buddhismo e le pratiche meditative di altre tradizioni. me stata causa di molta
confusione e di fraintendimenti (anche fra studiosi che si suppongono conoscitori
dell'argomento) sulla reale natura della meditazione buddista e sulle sue
caratteristiche distintive. Ecco perché non é superfluo, anche a costo di
ripeterci, ricapitolare le caratteristiche essenziali delle due ramificazioni
della meditazione buddista - di quiete e di visione penetrativa - prima di
spiegare nel dettaglio le due tecniche nei capitoli seguenti.
Ció che i due tip di meditazione hanno in comune
] che sono ntrambi metodi per coltivare l'attenzione. La differenza
fondamentale tra le due risiede nei loro scopi e, dopo un certo punto, nei loro
metodi. Samatha (meditaziione astrattiva di quiete) ha come scopo il
raggiungimento della massima concentrazione mentale, la quale,
progressivamente, allontana tutti gli stimoli sensoriali e mentgali, che
normalmente occupano la mente, per concentrarsi esclusivamente sulla sola
percezione, immagine o idea, scelta come supporto di meditazione. E' quasi come
concentrare i raggi di luce di una fonte luminosa su un unico, intenso, punto
risplendente. Gli alti livelli di concentrazione e assorbimento cosí raggiunti
rappresentano stati alterati di coscienza, che hanno caratteristiche proprie
ben definite,come la sospensione delle percezioni sensoriali, l'interruzione
delle attivitá discorsive e razionali della mente, e il sorgere di sentimenti
di beatitudine, felicit,a, serenitá e intuizione ineffabile. Questi stati di
coscienza sono chiaramente distinti dai tre principali e ordinari stati di
coscienza definiti in psicologia: veglia, sonno senza sogni e attivitáonirica,
e sono incompatibili con essi. Quando siete in uno degli stati di assorbimento
non siete né svegli né addormentati, né state sognando; state vivendo in un
modo differente...
Nella vipassana, al contrario, la concentrazione
mentale é coltivata solo sino al grado in ci sia sufficiente assicurare
un'attenzione costante e senza distrazioni. Lo stato mentale vigile e
recettivo, che ne risulta, é poi usato per sviluppare un'ininterrotta e
sottilmente percettiva consapevolezza di tutto ció che sorge di fronte alla
coscienza (sia da donti esterne che interne), con un esercizio continuo,
completo e totalmente conscio, di tutte le facoltá mentali. Utilizzando i
termini della similitudine usata precedentemente, potremmo dire che qui i raggi
di luce della fonte luminosa non sono concentrati su un punto infinitesimale,
bensí in modo da avere un campo di luce potente e assai concentrato, anche se
piú ampio, che segue e illumina tutto ció che accade a ogni momento. Questo
esercizio praticato con assiduitá e perfezionato, diventa un'esperienza sempre
piú intensa e peculiare; non é uno stato di coscienza intrinsecamente diverso
dagli stati ordinari, ma é una modificazione che apre a nuove dimensioni. Si
opera, non al di fuori degli stati ordinari di coscienza, ma dentro di essi in
un nikdo nuovo. La loro funziione normale rimane pienamente utilizzabile
(fuinzionano infatti con maggiore efficienza) e in aggiujnta, emergono alcune
nuove funzioni di vaore positivo,che non sono altrimenti presenti in esse.
Questo processo si puó meglio descrivere come una completa riorganizzazione
della psiche umana. La persona che sperimenta la visione penetrativa della
vipassana vive in modo diverso sia da sveglio, che sognando o perfino dormendo.
Il nuovo modo é distinto, fra le altre cose, da un senso di distacco, di
equilibrio psicologico e menale, di apertura e disponibili8tá verso gli altri e
da un'eccezionale funzionalitá del pensiero e dell'azione. Questo é ció che il
piú autorevole esponente della scuoladi psicologia transpersonale ha definito
uno stato di coscienza elevato. #E' una trasformazione reale che produc`e nuoe
e indelebili caratteristiche nella coscienza. Questa trasformazione é ció che
tradizionalmente si definisce illuminazione o liberazione e, nel suo piú alto
grado, nibbana.
Un'avvertenza: non aspettatevi un'illuminaziione
istantanea; questa trasformazione non é qualcosa che avviene in toto e subito,
ma, piuttosto, a livelli progressivi (anche se il passaggio da un livello
all'altro é, in se stesso, l'improvviso culmine di un processo preparatorio).
E' una graduale ristrutturazione della psiche umana che richiede molto tempo e
perseveranza, cosa che non puó sorprendere, considerando quanto la maggior
parte di noi debba migliorare e cambiare
❍ 4. Concentrazione, la base della meditazione
❖ 1. I tre livelli di concentrazione
❖ 1.1. La concentrazione preparatoria (parikamma samadhi)
❖ 1.2. La concentrazione di accesso (upacara samadhi)
❖ 1.3. La concentrazione fissata o piena concentrazione (appana
samadhi)
❖ 1.4. Esercizi di concentrazione: percettivi e discorsivi
❖ 2.1
❖ 2.2
❖ 3. I tre segni della concentrazione
❖ 3.1 Il segno premiminale (parikamma nimitta)
❖ 3.2. Il riflesso interno o impronta appresa (uggaha nimitta)
❖ 3.3. L'impronta dell'equivalente (patibhaga nimitta)
❖ 4. I supporti meditativi
❖ 4.1. I dieci kasina
❖ 4.2. I dieci tipi di decomposizione del corpo
❖ 4.3. Le dieci comtemplazioni
❖ 4.3.2 Il Buddha
❖ 4.3.2. Il dhamma
❖ 4.3.3. Il sangha
❖ 4.3.4. Le virtú
❖ 4.3.5. La generositá
❖ 4.3.6. La contemplazione delle divinitá
❖ 4.3.7. La consapevolezza della morte
❖ 4.3.7.1. La morte come assassina
❖ 4.3.7.2. La morte come rovina del successo
❖ 4.3.7.3. Paragonare se stessi agli altri
❖ 4.3.7.4. La contemplazione della diversa composizione del corpo
❖ 4.3.7.5. La fragilitá della vita
❖ 4.3.7.6. L'imprevedibilitá della morte
❖ 4.3.7.7. La brevitá della vita
❖ 4.3.7.8. La fugacitá del momento
❖ 4.3.8. La contemplazione della pace
❖ 4.3.9. La consapevolezza del corpo (kayagatasati)
❖ 4.3.9.1. La consapevolezza delle posizioni del corpo
❖ 4.3.9.2. I quattro tipi della piena consapevolezza (o chiara
comprensione)
❖ 4.3.9.3. Il corpo in quanto composto dei quattro elementi primari
❖ 4.3.9.4. Le parti del corpo
❖ 4.3.9.5. La contemplazione del cimitero
❖ 4.3.9.6. La consapevolezza del respiro
❖ 4.3.9.7.
❖ 4.3.10. La consapevolezza del respiro (anapanasati)
❖ 4.4. La percezione della ripugnanza del nutrimento
❖ 4.5. Analisi dei quattro elementi
❖ 4.6. I quattro stati sublimi
❖ 4.6.1. La benevolenza (metta)
❖ 4.6.2. La compassione (karuna) e la gioia altruistica (mudita)
❖ 4.6.3. L'equanimitá (upekkha)
❖ 4.7. I quattro stati immateriali
❖ 4.8.
❖ 1. I tre livelli di concentrazione
Prima di esaminare separatamente la meditazione
di quiee e quella di visione penetrativa é necessario considerare l'elemento
base che hanno in comune, la concentrazione mentale, e come questa venga
sviluppata. Agli effetti della pratica meditativa si possono distinguere tre
diversi livelli o gradi di intensitá della concentrazione
❖ 1.1. La concentrazione preparatoria (parikamma samadhi)
E' semplicemente lo sforzo iniziale che si fa
per concentrarsi, all'inizio dell'esercizio mentale. E' il tipo di
concentrazione che utilizziamo normalmente nella vitga quotidiana, quando
prestiamo attenzione cosciente a un oggetto determinato. Naturalmente il grado
di attenzione v aria a seconda della naturale - non esercitata - abilitá che ognuno ha di concentrarsi, e in
questo ci sono differenze notevoli. Molte persone si concentrano con relativa facilitá
e con forza, mentre altre hanno difficoltá nel fissare la mente su un solo
oggetto per un certo periodo di tempo. Tuttavia, anche nel caso di chi si
concentra facilmente sena aver avuto un addestramento speciale, questa
concentrazione preparatoria non é sufficiente per praticare la meditazione.; E'
quindi necessaio stabilizzarla e rafforzarla, e ció si puó fare concentrndosi
su un appropriato "supporto di meditazione" fino ad ottenere la
concentrazione d'accesso.
❖ 1.2. La concentrazione di accesso (upacara samadhi)
E' cosí definita perché di accesso alle pratiche
sia della quiete sia della visione penetrativa. quando vienen usata pert la
meditazione di visione penetrativa é tradizionalmente den0minatga
"concentrazione momenanea" (khanika samadhi). La caratteristica
distintiva di questo livello é una stabile e intensa concentrazione
dell'attenzione mentale sul supporto meditativo, consderato, sia nella sua
forma originale (9n certe cateogrie di esercisi), sia nella forma della
cosiddetta "impronta dell'equivalente" - come vedremo in seguito. A
questo livello non ci sono inib8izioni nella recezione degli stimoli sensoriali
e mentali. Il meditante é pienamente consapevole di ció che accade dentro e
fuori di lui, ma non viene distratto. La sua attenzione rimane concentrata sul
supporto meditativo.
A partire da questo punto i due tipi di
meditazione proseguono su due vie separate. Nella meditazione di
visionepenetrativa questo livello di concentrazione d'accesso (o momentanea) é
sufficiente a praticare l'osservazine attenta di tutti i fenomeni ei di tutti i
processi pert sviluppare una sempre piú sottile, completa e diretta
consapevolezza della loro natura transitoria e instabile. Per la meditazione di
quieta (samatha), invece, é necessario continuare, rafforzando e affinando la
concentrazione della mente, per raggiungere una concentrazione fissata.
❖ 1.3. La concentrazione fissata o piena concentrazione (appana
samadhi)
In questo caso la mente viene completamente
assorfbita dal supporto di meditazione ( o dall'impronta dell'equivalente)
escludendo tutti gli altri pensieri e le percezioni. Questa é la concentrazione fissata, conosciuta anche
come piena concentrazione, perché attraverso di essa si ottengono i vari
livelli di assorbimento meditativo (jhana). Approfondendo e perfezionando
questo stato mentale (passando attraverso i successivi stati di assorbimento),
il meditante vive esperienze di carattere rpogressivamentte unitivo e globale.
GLi elementi di molteplicitá e diversitá sono gradualmente rimpiazzati da un
flusso di "pura coscienza", in cui ogni distinzione tra
l'osservatore, ció che é osservato e il processo dell'osservazine svanisce
cmpletamente.
❖ 1.4. Esercizi di concentrazione: percettivi e discorsivi
Fondamentalmente ci sono due modi di praticare
la concentrazione mentale, che possono essere distinti in percettivo e
discorsivo, a secondca delle funzioni mentali coinvolt3e.
❖ 2.1
Nel caso di esercizi percettivi l'attenzione é
diretta interamente alla pura percezione dell'oggetto o del processo prescelto
come supporto meditativo, proprio come si trova in quel dato momento, senza
riflettere, ragionare o immaginare nulla su di esso. La percezione immediata,
diretta, momento per momento, del supporto meditativo, escludendo tutte le
distrazioni - sia sensoriali (altre percezioni), che intellettuali (segujire
una successione di pensieri sull'oggetto o cominciati da esso), che emotive
(permanere su qualche connotazione emotiva) - fissa la mente su ogni specifico
momento della percezione nell'attimo in cui viene a essere. Questo fissare la
mente sugli infinitesimali qui-e-ora é ció che gli antichi testi chiamano
"l'unificazione della mente".
Per questo tipo di pratica si puó scegliere
qualsiasi genere di stimolo sensoriale (es. oggetti visibili, suoni, sensazioni
tattili, perfino odori o sapori). Tuttavia, dal momento che éovviamente
desiderabile lavorare con uno stimolo sensoriale che sia il piú possibile
stabile e continuo, la meditazione buddista tradizionale preferisce i sensi
della vista (percezioni di colori, forme etc) e del tatto (le sensazioni
corporee dello stesso meditante). In certi esercizi si fa anche uso di quella
che potrebbe essere chiamata una percezione visiva indiretta o derivata. Questa
consiste nella visualizzazione mentale dedttagliata di oggetti che non sono
disponibili a un esame visuale diretto, o perché non sono normalmente visibili
(es. gli organi interni nell'esercizio che consiste nella contemplazione delle
parti del corpo), o perché non sono accessibili al momento dell'esercizio (come
la contemplazine degli stati rpogressivi del corpo dopo la morte). Queste
visualizzazioni sono basate su descrizioni circostanziate memorizzate in
precedenza e, dove é possibile, su una precedente visione dgli oggetti quando
sono disponibili (es. corpi visti in un ossario).
❖ 2.2
Gli esercizi discorsivi, invece, lasciano da
parte la percezione sensoriale utilizzando solo materiali mentali come supporto
della meditazione. Negli esercizi tipici, il meditante inizia riflettendo sulla
natura e sul significatodi certe entitá (come il buddha, il dhamma ecc.) o
veritá fondamentali (impermanenza, morte(. La prolungata applicazione della
mente, con l'esclusione deliberata di stimoli fuorvianti (come quelli
sensoriali,o l acostante cofusione di attivitá mentali estranee che
generalmente circondanoil nostro pensiero "normale"), causa una crescente
concentrazikone mentale.
❖ 3. I tre segni della concentrazione
Nel caso di esercizi percettivi, i primi dued
livelli di concentrazione - ossia concentrazione preparatoria e concentrazione
d'accesso (o momentanea) - sono correlati da tre "segni" (mimitta):
esperienze percettive particolari che segnalano il progresso della
concentrazione mentale.
❖ 3.1 Il segno premiminale (parikamma nimitta)
E' semplicemente la iniziale e normale
percezione sensoriale del supporto meditativo quando si inizia a concentrare
l'attenzione coscientemente ed esclusivamente su di esso.
❖ 3.2. Il riflesso interno o impronta appresa (uggaha nimitta)
Via via che il centro dell'attenzione diventa
piú fermo e intenso, il meditante sviluppa una percezione continua e
dettagliata del supporto, che rimane chiara anche negli intervalli in cui non
c'é un'osservazione diretta (per esempio quando si chiudono gli occhi per
qualche momento durante la contemplazione di un oggetto visibile). Questa
continuitá dell'immagine a livello mentale é ció che viene chiamato
"riflesso interno", o anche, talvolta, per ovvie ragioni,
"impronta appresa". E' un'indicazione del fatto che la mente sta
iniziando a captare la percezione del supporto in modo sicuro e non distratto.
E' bene citare la descrizione di questa condizione.
A tale scopo la fonte migliore é il Visuddhi
Magga ("Il cammino della purificazione"), un classico della
letteratura budddista, composto a Sri Lanka dal monaco Buddhagosa, nel V secolo
d.C. E' un manuale completo e minuziosamente dettaghliato della meditazione
buddista, basato sui Discorsi del uddha e i primi commenti, che é servito nei
secoli di inestimabile guida per i praticanti. Secondo questo manuale, quando
ci si concentra su un oggetto:
Occorre
prestarvi attenzione, ora con gli occhi aperti, ora con lcchi chiusi. E [il
meditante] deve perseverare in questo modo per centinaia di volte, per migliaia
di volte e ance di piú, finché non nasce il riflesso interno. COntinuando
sempre cosí, quando [l'immagine] é a fuoco con gli occhi chiusi altrettanto
chiaramente che con gli occhi aperti, allroa si dice che é stato conseguito il
riflesso interno.
❖ 3.3. L'impronta dell'equivalente (patibhaga nimitta)
Mentre il meditante continua nella pratica
avendo per base il riflesso interno, gli puó capitare di raggiungere un piú
alto grado di concentrazione - concentrazione d'accesso, indicato
dall'apparizione dell'impronta dell'equivalente. Questa non é piú l'immagine
diretta del soggetto iniziale, bensí una percezione con proprie caratteristiche
- che variano, come vedremo, a seconda della natura dell'oggetto originale - ma
che non é una sua rappresentazione. L'impronta dell'equivalente e un'esperienza
in se stessa e rappresenta, essenzialemnte,la presa di coscienza dell\atto
percettivo - la percesioine conscia della percezione. Viene descritta come
segue nel VIsuddhi Magga>
La
differenza tra il precedente riflesso interno e l'impronta dell'equivalente é
questa: nel riflesso interno é evidente ogni imperfezione dei kasina [cioé ogni
irregolaritá dell'oggetto visivo preso come supportod di meditazione;
l'impronta appresa che uno "vede" con gli occhi chiusi, essendo una
rpappresentazione esatta mostra naturalmente la stessa configurazione
caratteristica dell'oggetto materiale originario]. L'impronta dell'equivalednte
appare invece come se fosse scarturita dal riflesso interno, cento, mille, vole
piú pura, simile a uno specchio appena levato dalla sua custodia, come un
piatto dimadreperla ben lavato, coma il disco lunare che spunta da una nuvola.
Ma non ha né colore né forma perché, se l'avesse, sarebbe riconoscibile alla
vista, grossolano, suscettibile di comprensione e con l'impronta delle tre
caratteristiche [sarebbe cioé una cosa materiale che potrebbe essere
riconosciuta come tale]. Ma non é cosí. Perché é nata dalla percezione di colui
che ha ottenuto la concentrazione.
Vi renderete conto che, a questo punto, ci
stiamo muovendo in un'area esperienziale che é difficile descrivere
adeguatamente senza essere fuorvianti. Questa é una delle ragioni per cui i
maestri dimeditazione normalmente rifuggono dallo spiegare o dal descrivere in
precedenza ai loro allievi i tipi di esperienze che possono risultare. L'altra,
e piú importante ragione,di tale cautela, é che una descrizione preventiva,
generando delle aspettative, serve piú probablmennte a ritardare il progresso
piuttosto che ad aiutarlo. Infatti, se l'allievo spera e desidera una certa
sensazione o un'esperienza che gli é stata raccontata come segno di progresso,
corre un doppio rischio. Per prima cosa il pensiero di "ottenere
l'impronta" potrebbe interferire con la concentrazione, che é il solomodo
con cui di fattosisviluppa l'impronta. In secondo luog, e piú pericolosamente,
l'allievo potrebbe iniziarfe a immaginare l'impronta secondo la descrizione che
gli é stata fornita e potrebbe, attraverso un processo di
autosuggestione,convin`ersi che la sta percependo, mentre non sta facendo altro
che indulgere in volontarie costruzioni dell'immaginazione - che sono proprio
l'opposto della vera concentrazione.
Per fare dei progressi il meditante deve tener
presente un'unica cosa: l'assoluta necessitá di mantenere l'atgtenzione
saldamente sul rapporto meditativgo. Il riflesso interno e l'impronta
dell''equivalente, quando sopravvengono, lo fanno spontaneamente, come
correlati del grado di concenrazione raggiunto. Inoltre, si deve tener conto
che questa correlazione non é una corrispondenzamatematica con rapproti ben
definiti tra grado di concentrazione e chiarezza o intensitá dell'impronta.
Come accade sempre come aveve a che fare con realtá viventi piuttosto che con
astrazioni teoric`he, cé un margine molto ampio di variazioni individuali.
Dipendendo dalla persona, dalle sue capacitá e dalle circostanze del caso, lo
sviluppo del riflesso e dell'impronta puó essere facile o difficile, rapido o
lento, intenso o debole, e ci sono anche individui che raggiungono la
concentrazione d'accesso con segni appena percettibili.
❖ 4. I supporti meditativi
Parlando in geneale, la maggior parte dei dati
fisici e mentali puó essere usata come oggetto su cui concentrare la propria
attenzione. Tuttavia, l'esperienza ha mostrato che certi oggetti, per le
caratteristiche loro inerenti,sono piú favorevoli di altri per iniziare e
successivamente sviluppare la concentrazione mentale. Prendiamo, per esempio,
deglioggetti visibili. Si comprende chiaramente che é meglio siano semplici e
omogenei all'apparenza,per offrire alla mente - che ama la diversitá - meno
opportunitá di avviare ogni sorta di processi (paragoni, riflessioni,
associazioni, ecc.) che sono gli ostacolii principali alla concentrazione.
ALcuni esercizi dimeditazione discorsiva d'altra parte, in cui il meditante é
invitato a riflettere, seguendo certi specifici modelli - pe esempio sulla natura del Buddha, sul
dhamma o su qualitá come la benevolenza, la compassione o l'equanimitá - , sono
basati su un'attivitá intellettuale abbastanza complessa, ma possono essere di
gran beneficio dando origine ad una forte motivazione.Nello scegliere il
supporto meditativo per un alievo, il maestro di meditazione é guidato da due
considerazioni di base: il carattere e la mentalitá dell'allievo e il tipo di
meditazione che sta per praticare (di quiete o di visiione penetrativa).
Nell'antica tradizione meditativa buddista, sono
raccomandati quarante specifici supporti meditativi. Essi sono> i dieci
kasina, le dieci decomposizioni del corpo, le dieci contemplazioni, una
percezione, un]analisi, i quattro stati sublimi (o dimore divine) e i quattro
stati immateriali. Per la pratica di sessioni formali dimeditazione qon
qualcuno di questi supporti si raccomanda di scegliere un luogo quieto, libero
da distrazioni esterne, e di sedere in una posizione comoda. La posizione
tradizionale é, di certo, quella con le gambe incrociate (nella posizione del
loto, semiloto o semplicemente a gambe
incrociate), ma ció non é essenziale. L'importane é assumere una posizione che puó
essere mantenuta comodamente, senza muoversi, il piú a lungo possibile.
Un'eccezione é il cosiddetto esercizio della "meditazione camminata"
(cankamana) che come indicato dal nome, consiste nel concentrare l'attenzione
sui movimenti coinvolti nell'azione del camminare. Questa é una variazione
della contemplazione del corpo
❖ 4.1. I dieci kasina
Sono terra, acqua, fuoco, aria (i quattro
elementi), blu, giallo, rosso, bianco ( quattro colori di base), luce e spazio
limitato.
I supporti meditativi "terra",
"acqua" e "fuoco", come anche i quattro colori, possono
essere cotemplati direttamente, allo stato naturale, dal meditante esperto che
guarda,per esempio,un campo recentemente arato, un lago o uno stagno, le fiamme
di un fuoco e i colori che appaiono in natura (fiori, cespugli ecc.).
"Luce" e "spazio limitato" possono anche essere considerati
come appaiono nella cornice di una porta, o0 di una finestra, aperte.
Un principiante, peró, avrá bisogno di
costruirsi un kasina - un semplice espediente da usare quale aiuto nella
meditazione. Questo deve consistere in una superficie circolare (una misura
adatta é a circa 30 centimetri di diametro), fatta interamente del materiale e
del colore richiesto. E' essenziale che la superficia visibile sia il piçu
uniforme possibile. Nel caso di colori, un disco di qualsiasi materiale idoneo
puó essere ricoperto con la tinta adatta, oppure si puó riempire un vassoio con
oggetti del colore appropriato (fiori o stoffe, per esempio). Se si utilizzano
i fiori, ci si dovrebbe assicurare che siano visibili solo i petali colorati,
senza steli, foglie o rami,che potrebbero distrarre l'attenzione dal colore.
Per fare i kasina terra e acqua, una certa quantitá di ciascuna di questa
materie puó essere posta in contenitori circolari (vassoi, un piatto piano
ecc.). Nel caso di colori e "terra" si cercherá di assicurarsi che la
superficie risultante sia la piú liscia possibile e il colore uniforme nella
stesura. Per quanto riguarda il "fuoro" questo puó essere osservato
attraverso un furo, ritagliato in uno schermo di stoffa o di altro materiale,
posto tra il meditante e le fiamme. Il kasina "luce" puó essere
ottenuto proiettando un fascio di luce sul muro o su un'altra superficied
liscia, e lo "spazio limitato" ritagliando un'apertura circolare in
un muro, in un tramezzo o in un'altra superficie verticale adatta. Per quanto
concerne la contemplazione dell'"aria", non c'é differenza di metodo
tra principianti e praticanti avanzati.Non ci sono espedienti o manufatti;
bisogna contemplarla sia notando i movimenti di piante, alberi e cespugli che
oscillano con il venticello, che concentrandosi sul tocco dell'aria sulla
pelle. Eccetto che in quest'ultimo caso, in tutti gli altri kasina il
principiante, dopo aver messo il supporto in un luogo conveinente, si deve
sedere su uno sgabello o una sedia bassa, a circa un metro di distanza, e
concentrare su di esso la sua attenzione. Le istruzioni del Visuddhi Magga
sotto questo aspetto, sono pittoresche e prratiche. Il principiante
Deve
sedersi su una sedia, con le gambe alte una spanna e quattro dita, a una
distanza di due cubiti e mezzo [due volte e mezzo la distanza dal gomito alla
punta delle dita] dal disco del kasina. Piú lontano di cosí il madina non si
vede bene: se si siede piú vicino ne vede i difetti, se si siede piú in alto
deve guardarlo con il collocurvo e se si siede piú in basso gli fanno male le
ginocchia.
Questi sono tutti esercizi puramente percettivi
e la mente deve essere concentrata esclusivamente sulla percezione dell'oggetto
selezionato senza avviare o seguire il corso del pensiero e delle associazioni
mentali ad essi correlati. Inoltre, la stessa percezione deve concentrarsi
sempre piú sugli aspetti essenziali del supporto, lasciando da parte ogni
elemento accidentale o sussidiario. Per esempio, contemplando il colore
"blu" si inizia con il kasina cosí com'é, notando ogni irregolaritá
che sia presente nel colore o nella trama (ovvero la non uniforme distribuzione
del colore suj un disco colorato, grinze o pieghe in una stoffa, resti di
foglie o di gambi se si utilizzanodei fiori). Le irregolaritá devono poi essere
ignorate e la mente concentrata con maggior forza possibile sul puro colore
blu. All'inizio é spesso utile ripetere mentalmente, nello stesso tempo,
laparola "blu", "blu" finché non venga stabilita una buona
percezione. O, nel caso del kasina "terra", il colore della terra va
ignorato cosí come ogni irregolaritá della superficie e ci deve essere solo il
pensiero e la percezione "terra", "terra".
Questi dieci esercizi kasina, essendo di tipo
percettivo, hanno i corrispondenti riflessi interni e impronte
dell'equivalente. In breve, secondo il Visuddhi Magga, essi sono i seguenti:
I quattro
colori
Il riflesso interno e l'impronta dell'equialente
sono gli stessi per tutti i quattro colori - blu, giallo, rosso e bianco. Nel
riflesso interno, "ogni imperfezione dei kasina é evidente... gli stami, i
gambi [se si sono usati fiori] e gli spazi vuoti tra i petali ecc. sono
apparenti. L'impronta dell'equivalente appare come un ventaglio di cristallo
nello spazio, libero dal disco del kasina
Terra
Anche qui "nel riflesso interno ogni
imperfezione del kasina é apparente" (ogni irregolaritá del colore o della
consistenza della terra con cui il contenitore é stato riempito), mentre
l'impronta dell'equivalente ha le caratteristiche che abbiamo citato come
esempio discutendo del riflesso interno in generale (alla precedente sezione
3.3) e che sono formulate in termini di lumkinositá, chiarezza e purezza
(specchio, madreperla, luna ecc.).
Acqua
Il riflesso interno ha l'apparenza del
movimento. Se l'acqua produce bolle di schiuma, il riflesso ha lo stesso
aspetto e appare come un'imperfezione del kasina. L'impronta dell'equivalente,
invece, appare inattiva, come un ventaglio di cristallo nello spazio, come uno
specchio di cristallo
Fuoco
Qui il riflesso interno é simile a un
indebolimento come quando la fiamma comincia a diminuire. Sed si osserva un
kasina non costruito, appaiono delle imperfezioni [nel riflesso interno] come
tizzoni, macchia di brace, ceneri o fumo. L'impronta dell'equivalente appare
senza movimento come un pezzo di stoffa rossa nello spazio, un ventaglio d'oro,
una colonna d'oro.
Aria
Qui il riflesso interno pare che si muova come
il tremore dell'aria calda sopra un piatto appena tirato fuori dal forno.
L'impronta dell'equivalente é quieta e immobile
Luce
Il riflesso interno assomiglia a un cerchio [di
luce] proiettato su un nuro o sul terreno; l'impronta dell'equivalente appare
come un ammasso luminoso e compatto di luce.
Spazio
limitato
Qui il riflesso interno assomiglia all'apertura
insieme al muro ecc., che la circonda... L'impronta dell'equivlente appare come
uno spazio circolare.
❖ 4.2. I dieci tipi di decomposizione del corpo
Questi sono anche eserciti percettivi
(corrispondono alle "contemplazioni del cimitero" le quali sono una
delle forme di "contemplazione del corpo" come si vedrá nella sezione 4.3.9). Il meditante
contempla corpi morti a differenti livelli di decomposizione -gonfi, lividi,
suppurati, smembrati, ossa sparse ecc. GLi esercizi iniziano conn l'ispezione
diretta di un cadavere e continuano con una dettagliata visualizzazione
mentale, che deve mantenersi vivida, presente alla mente, con tutti i dettagli
della condizione di decadimento che é stata percepita fisicamente all'inizio.
Il prerequisito
per questi esercizi é pertanto a disponibilitá di un corpo Questo non
era affatto difficile nell'india antica (dove i morti non venivano né sepolti
né bruciati, ma posti in ossari fuori dei villaggi, dove si decomponevano o
erano divorati dagli animali), ma é di certo meno facile oggi, specialmente nei
paesi occidentali. Inoltre, la stretta supervisione di un maestro qualificato é
in questi esercizi ancora piú essenziale che in altri, a causa delle immediate
ripercussioni psicologiche ed emotive che si possono avere. Nonostante quesa
categoria di supporti meditativi sia molto utile nel correggere l'eccessivo
attaccamento all'apparenza e al benessere del proprio corpo e ai piaceri in
generale, ci asterremo dall'entrare nei dettagli in un libro come il nsotro.
❖ 4.3. Le dieci comtemplazioni
Con due importanti eccezioni, queste sono
meditazioni di tipo discorsivo e differiscono sotto questo aspetto da quelle
che abbiamo visto finora. In questi esercizi discorsivi, talvolta anche
definiti di contemplazione, l'inizio é, in ogni caso, una formula tradizionale
che riassume i punti essenziali o le caratteristiche del supporto meditativo,
che deve essere rivisto nel corso dell'esercizio di ricapitolazione. Il
meditante inizia recitando mentalmente la formula appropriata e poi concentra
l'attenzione successivamente su ognuno degli elementi di cui é composta,
riflettendo attentamente su di essa. Si inizia generalente considerando
l'aspetto semantico - il significato e le connotazioni delle parole - spostandosi in seguito sul loro significato
piú profondo come espressine, manifestazione o segno delle veritá spiegate e
dimostrate dal buddha. Tale concentrazione discorsiva accentua la
consapevolezza di queste veritá liberanti, mentre il progressivo rafforzarsi e
centgrarsi della consapevolezza, a sua volta, rafforza la concentrazione.
Consideriamo brevemente l otto meditazioni discorsive, con le loro formule
tradizionali. Prima di tutto ci sono i cosiddetti "tre gioielli"
(ti-ratana) che sono allo stesso tempo i "tre rifugi" (ti-sarana) del
buddista: il Buddha, il dhamma (l'insegnamento) e il sangha (la comunitá)
❖ 4.3.2 Il Buddha
Formula
Cosí, in veritá, é il Beato, perfettamente e
pienamente sveglikato provvisto della conoscenza e della virtú, il ben andato,
conoscitore di mondi, incomparabile guida degli uomini che hanno bisogno di
essere corretti, maestro degli déi e degli uomini, illuminato e beato
Meditazione
Il meditante considera ogni elemento della
formula - "beato", "perfetto", "pienamente
svegliato" ecc. - e riflette su di esso nel modo che abbiamo indicato. Il
Visuddhi Magga offre istruzioni dettagliate circa il modo in cui riflettere su
ognuno dei termini della formula, con una grande varietá di alternative. DI
certo non si puó entrare in dettaglio, la a titolo illustrativo, ecco alcuni
modi per riflettere sul primo termine della contemplazione del Buddha. SI puó
iniziare considerando che "Beato" é un termine che mostra il rispetto
e la venerazione accordati al buddha come al piú grande di tutti gli esseri e
distinto da speciali qualitá. Si puó poi proseguire riflettendo in vari modi su
queste quelitá; per esempio, il Buddha é "beato" per quello che
consegue, per quello che sopprime, per quello che possiede e per quello che
comprende; ovvero egli raggiunge il supremo conseguimento della virtú,
dell'amore universale, della compassione, dell'equanimitá ecc. e la suprema
beatitudine del nibbana; sopprime completamente l'aviditá, l'odio,
l'offuscamento, cosí come l'imperfezione e i difetti dell'attenzione e della
consapevolezza, l'ira, la malevolenza, la vanitá ecc.; possiede il pieno
controllo della mente, la piena comprensione della veritá della perfezione e
del frutto del puro sforzo ecc.; comprende e insegna le quattro nobili veritá:
la sofferenza, la sua origine nell'attaccamento dovuto all'ignoranza, la sua
cessazone mediante l'eliminazione dell'ignoranza, il sentiero che conduce alla
cessazione della sofferenza. In questo e in casi simili, il meditante riflette
profondamente e ripetutamente su ognuno dei termini che compongono la formula.
❖ 4.3.2. Il dhamma
Formula
L'insegnamento (dhamma) é bhen proclamato dal
Beato, visibile qui-e-ora, con frutti immediati; invita alla ricerca, guida in
avanti ed é direttamente sperimentabile dal saggio
Meditazione
"Ben proclamato" perché annuncia e
descrive il modo di vita che conduce all'illuminazione e perché é buono
all'inizio, nel mezzo e alla fine. E' buono all'inizio perché parte promovendo
la virtú e, con essa, il benessere fisico e mentale; é buono nel mezzo (cioé
nel modo in cui si prosegue nella pratica dell'insegnamento) in quanto produce
quiete (samatha) e visione penetrativa (vipassana); é buono alla fine, con la
realizzazione del nibbana. "Visibile qui-e-ora"; l'insegnamento é
visibile "qui-e-ora" perché chiunque lo pratichi propriamente elimina
desiderio, attaccamento ecc. e subito percepisce benefici in se stesso e da se
stesso senza dover credere ciecamente in ció che qualcun altro dice. E cosí
via, con ognuno degli altri termini.
❖ 4.3.3. Il sangha
Formula
La comunitá (sangha) dei discepoli del beato é
quella di chi é entrato sulla buona via, sulla retta via, sulla vera via, sulla
via appropriata, cioé le quattro coppie di persone e le otto classi di
individuji; questa comunitá dei discepoli del beato é degna di dono, degna di
ospitalitá, degna di offerte, degna di reverenza, incomparabile terreno di
merito per il mondo
Meditazione
"La comunitá dei discepoli del Beato":
i discepoli sono quelli che ascoltano attentamente l'insegnamento del Beato e
sono guidati da esso. TUtti insieme formano una comunitá perché hanno in comune
la retta visione delle cose e il retto proposito nell'occuparsene (i primi due
fattori del nobile sentiero), cosí come la pratica della virtú (fattori tre,
quattro e cinque del nobile sentiero, cioé retto discorso, retta aziione e
retto modo di vita); inoltre, praticando la meditazione mettono in pratica il
sesto, il settimo e l'ottavo fattore del sentiero (retto sforzo, retta presenza
mentale, retta concentrazione), cosicché praticano il nobile ottuplice sentiero
in tutta la sua interezza. Ecco perché si dice che sono "entrati sulla
buona via" - la via regolata dall'insegnamento -, la "retta via"
che conduce direttamente alla liberazione, che é "vera" e
"appropriata", perché comporta la corretta ricerca della veritá del
nibbana ecc.
Le tre seguenti contemplazioni della lista
tradizionale concernono vari aspetti della virtú. La prima si riferisce alla
pratica generale della vita virtuosa, ovvero la disciplina morale del pensiero,
della parola e dell'azione che rappresenta la virtú o moralitá, come una delle
tre principali suddivisioni del sentiero.
❖ 4.3.4. Le virtú
Formula
La contemplazione si deve concentrare sui vari
tipi di virtú da praticare, che sono "complete, senza rottura né macchia
né impurezza, libneranti,lodate dai saggi, che non sono motivo di attaccamento
e contribuiscono alla concentrazione".
Meditgazione
Si tratta di sviluppare il piú pienamente
possibile la consapevolezza dell'importanza di condurre una vita
scrupolosamente virtuosa, senza equivoci o compromessi,e di promuovere il senso
di integritá, inerente a tale vivere, come un potente mezzo per sviluppare la
concentrazione mentale. COme nei precedenti esercizi di questo gruppo, la
"contemplazione" procede riflettendo dettagliatamente sul significato
e le connotazioni di ognuno dei termini. Per esempio, le virtú sono
"complete, senza rottura" quando si fa in modo di mantenere una
continuitá ininterrotta e stabile di pensieri e volizioni puri e virtuosi,
senza interromperli con parole,pensieri o azioni immorali e improprie. Qui si
contemp[la l'integritá ininterrotta delle virtú. "Senza macchia
néimpurezza", senza alcun indebolimento nell'intensitá e nella purezza,
ovvero contemplare il piú alto grado dello stato di virtú. Allo stesso modo
avviene c con gli altri termini. Il riferimento "non sono motivo
d'attaccamento" é importante; qui il meditante deve concentrarsi sulla
necessitá di non attaccarsi alla propria virtú, di evitare ogni forma di
autocompiacimento o eccessiva considerazinoe di sé, che sono delle serie
contaminazioni della virtú
❖ 4.3.5. La generositá
La seconda contemplazione della virt,u si
concentra sulla generositá, che deve andare di pari passo con la pratica reale
"di dare e condividere... secondo i mezzi e le abilitá di ognuno"
(come il Visuddhi magga non manca di sottolineare). La contemplazione - che
procede termine per termine, nel modo usuale - é basata sulla seguente formula:
E' un
vantaggio per me, un gran vantaggio per me che in una generazione ossessionata
dalla macchia dell'avarizia io viva con il cuore libero dalla macchia
dell'avarizia e sia generoso e liberale; che mi compiaccia nell'offrire
aspettando di avere richieste e gioisca nel dare e nel condividere
❖ 4.3.6. La contemplazione delle divinitá
La terza contemplazione delle virtú é attuata
considerando le proprie qualitá di fede,b bontá e cosí via, sviluppate per
mezzo del nobile sentiero,l e considerando le figure di divinitá come esempi,
paragoni e testimonianze di queste virtú. Qui, la formula tradizionale rievoca
l'intera schiera delle divinitá che formano il pantheon del buddismo popolare
in asia, ripreso dall'induismo. Questo rivolgersi alle divinitá puó sembrare
inaspettato alla luce dell'insistenza del Buddha sull'inutilitá delle
speculazioni metafisiche e teologiche, tanto che il buddismo é stato talvolta
definito, abbastanza propriamente, "una religione senza dio". La
contraddizione tuttavia é piú apparente che reale. IL punto principale da
tenere in mente é che Buddha non manca di riconoscere la realtá degli ordini di
esseri fuori e oltre la sfera materiale con cui siamo in contatto ogni giorno.
Secondo la tradizione il buddha ebbe, infatti, una conoscenza diretta di tali
altri modi di esistenza, gra zie allo
straordinario sviluppo delle sue facoltá, che lo aprirono a una piú vasta e
sottile gamma di percezioni e conoscenze rispeto a quella "normale".
Era, quindi, conscio dell'esistenza di esseri che operano in spazi al di fuori
della consapevolezza umana e che sono provisti di poteri e facoltá diverse, e
talvolta piú alte, da quelle degli esseri
umani. Piú o meno oscuramente consapevole dell'esistenza di tali esseri
in tempi diversi, l'umanitá li ha definiti variamente, secondo le epoche, come
dei, angeli, demoni, geni, spiriti ecc. Per il Buddha quindi non era difficile
accettare le credenze popolari di coloro a cui era rivolto il suo insegnamento
e persino i nomi e i racconti mitologici
ad essi collegati, dal momento che sapeva bene come queste credenze
riflettessero una percezione - sebbene confusa e distorta - di qualcosa realmente esistente. Tuttavia il
Buddha sottolineó sempre - e questo é il punto essenziale - che tutti questi
esseri e poteri non son né piú reali né piú permanenti di noi e, sebbene
talvolta siano piú duraturi se misurati in termini umani, non sono in alcun
senso eterni. Come tutto ció che esiste, anche gli dei sono soggetti alla legge
del kamma, alla complessa ininterrotta interazione di cause ed effetti. Cosí il
buddha insegnó che le "divinitá", come tutti gli altri ordini di
esseri, sono ugualmente soggette alle conseguenze delle loro azioni e che la
loro esistenza (sebbene possa apparire immensamente piú privilegiata, felice e
duratura della nostgra) é egualmente soggetta piú volte al cambiamento, alla
dissoluzione e alla rinascit, fino a che, e a meno che, non venga raggiunto il
nibbana, che é l'unica liberazione definitiva. Nel buddhismo gli dei sono
fratelli degli uomini, come gli uomini lo sono degli animali. Siamo tutti nello
stesso continuum, sebbene a livelli diversi. CIó aiuta in breve a spiegare il
carfattere di questa contemplazione, che, dapprima, appare differente dalle
altre.
La caratteristica dell'esercizio, in
deffinitiva, non é inviare preghiere a qualche divinitáochiederne l'assistenza,
ma prenderla come esempio di altri livellidi esisenza e consapevolezza (ancora
soggetti al cambiamento e alla transitorietá anche se su tempi diversi) e
specialmente come testimone degli sforzi di perfezionare le nostre qualitá
positive.
In questo caso non diamo la formula tradizionale
per esteso poiché le divinitá in essa menzionate non sono familiari ai lettori
occidentali.Chiunque desideri praticare questa contemplazione, puó
semplicemente riferirsi alle manifestazioni divine e epirituali che gli sono
piú note, in relazione al proprio bagaglio religioso, culturale ed etnico. Lo
schema della formula, che ognuno puó completare, sará simile a questo>
Ci sono [e
qui pensate a divinitá importanti]... e quelle divinitá possiedono fede...
virtú,..., sapere, generositá..., conoscenza... cosicché quando morirono qui,
rinacquero lá. E tali fede, virtú, sapere, generositá, conoscenza sono presenti
anche in me
Meditazione
Il Visuddhi Magga spiega che, nel comtemplare
queste qualitá, prima nella divinitá scelte come esempio di altre realizzazioni
e poi in se stesso, il meditante prende le divinitá come testimoni: "Egli
deve andare in un luogo solitario e contemplare le proprie speciali qualitá di
fede..., avendo le diinitácome testimoni"
❖ 4.3.7. La consapevolezza della morte
Per questa contemplazione, la formula piú
universalmente appropriata e, per chi
possiede una mente impreparata, forse la piú straziante, e la piú corta,
consiste nel considerare che "la Morte é inevitabile, le facoltá vitali
saranno interrotte", o, piú semplicemente, "Morte, morte!".
TUttavia, per coloro che non trovano sufficienti queste semplici
considedrazioni, il Visuddhi Magga suggerisce otto modi diversi di contemplae
la morte. Sarebbe troppo lungo qui riprodrre completamente la formula o le
formule di ciascuna di esse. In ogni caso, non sará difficile per nessuno
sviluppare le contemplazioni appropriate su questi otto modi, per cui sará
sufficiente elencarli brevemente.
❖ 4.3.7.1. La morte come assassina
Ci ricerca come un assassino fa con la sua
vittima - inizia a muoversi verso di noi appena nasciamo, e quando ci
raggiunge, ci uccide
❖ 4.3.7.2. La morte come rovina del successo
Nessun possesso é eterno; ogni grandezza e
successo, prima o poi, finiscono in rovina. La salute finisce in malattia, la
giovinezza in vecchiaia, la vita nella morte.
❖ 4.3.7.3. Paragonare se stessi agli altri
Sin dall'inizio dei tempi tutti gli uomini sono
stati soggetti alla morte, anche il piú potente, il piú forte, il piú saggio,
il piú santo. Nessujno é stato risparmiato. Neanche lo stesso Buddha -
"che era uguale a quelli senza uguale, senza doppio, compiuto, completo e
completamete illuminato - anche egli venne estinto improvvisamente dalla
pioggia della morte, come quando un grande fuoco é spengo da una pioggia
torrenziale d'acqua". La morte verrá da me proprio come ha fatto con tutti
gli esseri.
E' questo il tema familiare della danza della
morte, rappresentato sia nella pittura che nella poesia medievale europea come
il sinistro mietitore che miete imparzialmente re e mendicanti, guerrieri e
monaci, ricchi e poveri, giovani e vecchi.
❖ 4.3.7.4. La contemplazione della diversa composizione del corpo
Si deve comprendere con chiarezza che il corpo é
una comunitá composta da innumerevoli cellule viventi che costantemente muoiono
e vengono reintegrate e che é uno spazio condiviso dai diversi batteri, microbi
e altri microrganismi che vivono e nuoiono dentro di esso; l'organismo é anche
costantemente esposto ad attacchi interni ed esterni come malattie, incidenti
ecc. e questa comunitá comunque alla fine si disgregherá.
❖ 4.3.7.5. La fragilitá della vita
Considerate che non solo il benessere, ma anche
la reale esistenza del nostro organismo dipende solo da pochi fattori: l'aria
per respirare, il cibo, la temperatura ambientale, il delicato equilibrio degli
elementi che compongono l'organismo. Quando uno di questi é disturbato o manca
(in alcuni casi, come per l'aria, per brevissimo tempo) sopravviene la morte
❖ 4.3.7.6. L'imprevedibilitá della morte
Ricordate che non é prevedibile nulla per quanto
concerne la morte. Non si sa quando o come avverrá né dove il proprio corpo
giacerá, né dove si rinascerá in una futura esistenza. L'unica cosa certa al di
lá di ogni dubbio é che la morte avverrá.
❖ 4.3.7.7. La brevitá della vita
Chi vive molto puó vivere cento anni, ma si puó morire
prima di finire di leggere questa pagina. La morte é proprio dietro l'angolo.
Quindi si deve vivere ogni momento come se fosse l'ultimo, con piena
consapevolezza.
❖ 4.3.7.8. La fugacitá del momento
Se ci pensate attentamente, comprenderete che,
propriamente parlando, l'espeienza reale del vero vivere pertiene soloal
momento presente, all'"ora". Ogni altra cosa é giá passata (anche se
c'era solo un momento fa) e appartiene cosí al regno della memoria, o deve
ancora avvenire e appartiene al regno futuro dell'spettativa,
dell'anticipazione, della speranza o della paura ecc. Ma la successione degli
"ora" é infinitamente rapida: il tempo durante il quale avete letto
la parola "ora" é giá passato - e cosí il "voi" che lo legge.
Il futuro "ora" é un altro momento, con un altro lettore. IL momento
presente é un lampo, un istante infinitesimo. Il Visuddhi Magga dice:
Proprio
come la ruota di un carro, quando gira, gira su un punto del suo cerchio
[ovvero in ogni momento tocca il terreno solo con unpunto della sua
circonferenza] e, quando é ferma, é ferma solo su un punto, cosí anche la vita
degli esseri viventi dura solo un singolo attimo conscio
Ció che chiamiamo "vita" é la
successione rapida e ininterrotta di tali momenti, ognuno dei uali ha il suo
carattere distintivo e (anche se solo in modo infinitesimale) diverso dal
precedente e dal seguente. Ogni momento della "vita" é una rinascita
che segue la morte del momento precedente.
❖ 4.3.8. La contemplazione della pace
L'ultima delle meditazioni p[uramente disorsive
e contemplative concerne le qualitá del nibbana; in altre parole, il quietarsi
di tutte le sofferenze
Formula
Per quanto
ci siano dhamma [fenomeni] condizionati o non condizionati, diciamo che il
migliore di essi é lo svanire, ossia la disillusione della vanitá,
l'eliminazione della bramosia,
l'abolizione della dipendenza, il terminedel ciclo, la distruzione del
desiderio, lo svanire, il cessare, il nibbana.
La contemplazione é praticata, come negli altri
esercizi di questo gruppo, cosiderando ciascuno dei termini singolarmente.
Passiamo ora ai due soli esercizi di questo
gruppo delle cosiddette contemplazioni che sono basati non su una riflessione
mentale, ma sulla percezione diretta. Sono estremamente importanti perché - per
il fatto che costituiscono esercizi per chiarire la percezione - sono
particolarmente adatti a sviluppare la visione penetrativa (vipassana) e sono,
infatti, i due esercizi piú comunemente usati a questo scopo. Essi sono: la
"consapevolezza del corpo" e la "consapevolezza del respiro"
(il secondo é di fatto un caso speciale del primo poiché il respiro é uno dei
piú fondamentali processi corporei). Nel capitolo VI, che é interamente
dedicato alla vipassana, vedremo come la consapevolezza del corpo nelle sue
varie applicazioni costituisca unodei "quattro dondamenti della presenza
mentale" per lo sviluppodella visione penetrativa. A questo punto ci
limitiamo a idetificare revemente le varianti della consapevolezza del corpo
che possono essere usate per praticare la concentrazione.
❖ 4.3.9. La consapevolezza del corpo (kayagatasati)
Di tutti i supporti di meditazione, la
percezione del proprio corpo é uno dei piú importanti per la pratica della
meditazione buddista. Infatti il Visuddhi Magga dice che é il tipo di
meditazione caratteristico del buddismo, affermando che "viene promulgato
solo dopo la nascita di un Illuminato" e
non é proprio di nessuna [altra] setta"
La consapevolezza del corpo puó essere praticata
in modi diversi, concentrandosi su aspetti diversi. Gli esercizi tradizionali
sono i seguenti:
❖ 4.3.9.1. La consapevolezza delle posizioni del corpo
Camminare, stare in piedi, sedere e giacere.
❖ 4.3.9.2. I quattro tipi della piena consapevolezza (o chiara
comprensione)
Consiste nel compiere ogni azione - mangiare,
bere, muoversi, parlare, rimanere in silenzio, alzare e portare oggetti - con
piena consapevolezza di ció che viene fatto e di come viene fatto; con una
chiara comprensione (a) dello scopo, (b) della convenienza dei mezzi impiegati,
(c) dell'appropriata sfera di azione, (d) della reale natura della situazione
❖ 4.3.9.3. Il corpo in quanto composto dei quattro elementi primari
Il corpo é considerato come il risultato
composito dei quattro stati primari o condizioni della materia: solido,
liquido, gassoso o radiante, che corrispondono a gradi crescenti di movimento
molecolare e sono tradizionalmente riferiti ai quattro elementi primordiali:
terra, acqual aria e fuoco
❖ 4.3.9.4. Le parti del corpo
❖ 4.3.9.5. La contemplazione del cimitero
❖ 4.3.9.6. La consapevolezza del respiro
❖ 4.3.9.7.
I primi due di questi diversi modi di
contemplare il corpo (4.3.9.1 e 4.3.9.2) sono adatti specialmente alla pratica
della vipassana e mi riservo di parlarne nel capitolo VI. Degli altri quattro,
due sono semplicemente varianti dei due rincipali supporti di meditazione che sono
considerati separatamente: le contemplazioni del cimitero corrisondono ai dieci
tipi di decomposizione del corpo (vedi sez. 4.2), e la contemplazione degli
elementi all'analisi dei quattro elementi (vedi sez. 4.5 seguente). La
consapevolezza del respiro, a causa della sua considerevole importanza come
esercizio di visione penetrativa, é considerata un supporto separato di
meditazione con una sua propria disciplina e le sue caratteristiche, come
vedremo nella sezione 4.3.10.
Consideriamo ora l'esercizio sulle parti del
corpo.
In questo esercizio il meditante concentra la
sua attenzione successivamente (seguento un ordine specifico) sulle trentadue
dirrerenti parti del corpo, definite a questo scopo nella formula secondo la
quale egli:
Contempla
il corpo, dalla pianta dei piedi alla punta dei capelli, racchiuso nella pelle,
pieno di molti generi di impuritá, e pensa: "In questo corpo ci sono i
capelli, i peli del corpo, le unghie, i denti, la pelle, la carne, i tendini,
le ossa, il midollo, il cervello, i reni, il cuore, il fegato, la pleura, la
milza, i polmoni, le budella, il mesentere, la gola, le feci, la bile, il pus,
il sangue, il sudore, il grasso solido, le lacrime, il grasso liquido, la
saliva, il muco, il liquido sinoviale, le urine..."
Ci sono descrizioni dettagliate della
composizione, localizzazione e morfologia di ogni parte.
L'esercizio inizia con il recitare la lista
delle trentadue parti, prima ad alta voce poi mentalmente. In seguito
l'attenzione viene concentrata su ogni parte con maggior considerazione
(seguendo il corrispondente modello di descrizione) per il suo colore, la orma,
la posizione, la relazione con gli organi vicini. E' un esercizio che combina
le visualizzazioni con la percezione diretta delle sensazioni corporee. Il suo
scopo é di sviluppare la consapevolezza della natura composta e impersonale
dell'organismo, e della natura deperibile, e spesso repellente, delle sostanze
di cui é composto.
❖ 4.3.10. La consapevolezza del respiro (anapanasati)
La consapevolezza applicata al corpo é, come é
stato appena sottolineato, uno dei terreni piú fecondi della pratica
meditativa. La consapevolezza del respiro é generalmente considerata come il
piú importante esercizio di consapevolezza del corpo, particolarmente adatto
come supporto meditativo, sia per lo sviluppo della quiete (samatha), che della
visione penetrativa (vipassana).
La ragione sta nel fatto che il processo
respiratorio ,e semplice, facilmente percepibile e costantemente disponibile, e
ció lo rende un ideale supporto meditativo. IL respiro, oltre a fornire - come
altre sensazioni fisiche - uno stimolo sensibile immediatamente disponibile, ha
l'ovvio vantaggio di essere percepito facilmente (il tocco dell'aria sulle narici nell'inspirare ed espirare) e di
essere disponibile sempre e in ogni situazione. Inoltre, la percezione
attraverso la sensazione fisica del tatto é piú diretta e immediata di quella
ottenuta con l'osservazione visiva (come nei kasina e nelle contemplazioni
della decomposizione del corpo) e, di certo, lo é molto piú delle percezioni
puramente mentali degli esercizi discorsivi, che consistono nell'osservare
costruzioni mentali.
Non é quindi un caso che proprio questo
esercizio fosse usato dallo stesso Buddha per raggiungere la concentrazione
nella notte in cui coronó i suoi sforzi per ottenere l'illuminazione, e ció
spiega perché lo raccomandasse ripetutamente come assai adatto per tutti i tipi
di persone in tutte le circostanze possibili.
La
concentrazione per mezzo della consapevolezza del respiro, sviluppata e praticata
assiduamente, é sia ricca di pace che sublime; é un vivere felice e senza
macchia: allontana subito e calma i pensieri cattivi e inutili appena sorgono.
L'esercizio consiste nel concentrare
l'attenzione nella zona compresa tra la punta del naso e il labbro superiore,
immediatamente al disotto delle narici, facendo attenzione alla sensazione
tattile dell'aria che entra ed esce. Non ci deve essere alcun tentativo di
controllare il respiro. Non é un esercizio di respirazione yhogica, ma un
esercizio di concentrazione dell'attenzione. Si deve permettere al respiro di
andare e venire spontaneamente. La sola cosa che bisogna fare é osservare con
l'attenzione piú accurata possibile l'esatta sensazione prodotta dall'aria che va dentro e fuori attraverso le
narici, seguendo con attenzione costante l'intero processo di ogni inspirazione
ed espirazione. E' molto importante assicurarsi che la propria attenzione
rimanga concentrata solo sul naso. Non si deve cercare di seguire il movimento
dell'aria dentro il corpo (gola, polmoni ecc.). Il riflesso interno (vedi
sezione 3) consiste nella coscienza chiara e stabile del punto in cui c'é il
contatto con l'aria:
Queste
inspirazioni ed espirazioni avvengono sentendo il contatto sulla punta del naso
- in un uomo con il naso lungo - o sul labbro superiore - in un uomo con il naso corto. Si deve issare
il riflesso cosí: "Questo é il punto in cui c'é il contatto"
[L'impronta dell'equivalente, d'altra parte] non é la stessa per tutti; alcuni
dicono che appare rpesehtandosi come un tocco lieve, come cotone o seta o come
una corrente d'aria. Ma, secondo gli antichi commenti, a certuni si presenta
come una stella o un mucchio di pietre preziose o di perle; ad altri come un
contatto rude simile a quello con dei semi di cotone o con un piolo di legno
duro; ad altri ancora come una lunga corda intrecciata o una ghirlanda di
fiori, o come una boccata di fumo; ad altri infine come una ragnatela tesa,
oppure una nube leggera, un fiore di loto, una ruota di un carro, il disco
lunare o il disco solare.
❖ 4.4. La percezione della ripugnanza del nutrimento
Puó essere considerata complementare alle
contemplazioni dei dieci tipi di decomposizione del corpo o delle parti del
corpo. Come queste, ha lo scopo di correggere la cieca soddisfazione per le
cose materiali e l'attaccamento al soddisfacimento dei bisogni e dei desideri
fisici.
Quando un
monaco si dedica alla percezione della ripugnanza del nutrimento, la sua mente
si isola, si ritrae e si apparta dal desiderio dei sapori. Si nutre con gli
alimenti, senza vanitá.
Questo esercizio combina il modo percettivo e
quello discorsivo per concentrare l'attenzione sugli aspetti sgradevoli e
repellenti del cibo. Implica la chiara percezione, seguita dalla riflessione
appropriata, delle fatiche e degli sforzi necessari e talvolta anche delle
vessazioni e degli insulti che comporta l'andare a cercare il cibo (come nel
caso di un bhikkhu, un monaco buddista, che nel suo giro di elemosine puó
essere ricevuto con aspre parole come: "vattene, testa calva"), di
come il cibo facilmente si deteriori e divenga ripugnante, e di come per la
nostra mente siano repellenti, appena iniziamo a pensarci dettagliatamente, i
processi di masticazione, deglutizione, digestione, evacuazione ecc.
Appena
vede la ripugnanza di questo modo, gli diventa evidente l'aspetto repellente
del nutrimento fisico. Coltiva quest'impronta continuamente, la sviluppa, la
pratica ripetutamente. Facendo cosí, gli ostacoli vengono soppressi e la sua
mente ottiene la concentrazione d'accesso.
❖ 4.5. Analisi dei quattro elementi
Questo esercizio, noto come "riflessione
sugli elementi materiali" o, come dice il Visuddhi Magga,
"definizione dei quattro elementi", é volto a considerare i quattro
eleementi primordiali (giá citati brevemente nella sezione 4.3.9) come una
delle varianti sulla consapevolezza del corpo): terra, acqua, fuoro e aria. QUi
gli elementi non sono esaminati singolarmente nelle loro forme caratteristiche
(come é fatto nei kasina corrispondenti), ma, piuttosto, contemplando le varie
parti del corpo e sviluppando la consapevolezza del fatto che sono composte di
elementi primordiali in svariate proporzioni. Ricordiamo che nelle filosofie
antiche,sia occidentali che orientali, "Terra", "Acqua",
"Fuoco" e "Aria" non denotavano solamente la terra,
l'acqua, il fuoro e l'aria come sono percepiti nella vita quotidiana, ma che
questi termini stavano a significare i modi fondamentali in cui si manifesta la
materia, cioé soliditá, fluiditá, radiazioni e vibrazioni. Secondo la fisica
molecolare, questi quattro stati della materia sono semplicemente quattro punto
di una scala continua, che va dal piú alto grado di coesione molecolare - lo
stato solido (terra) - al grado minimo -
radiazione (fuoco). E' questo un tipo di esercizio discorsivo, o comtemplazione,
che mira a raggiungere l'esperienza mentale della materia a livello molecolare.
Tra parentesi, si puó notare che alcuni degli
altri esercizi sulla contemplazione del corpo che abbiamo menzionato - in
particolare la consapevolezza del corpo e quella del respiro (che sono di
importanza fondamentale per lo sviluppo della visione penetrativa) - vanno
ancora oltre perché il loro scopo é di sviluppare la percezione diretta dei
processi materiali (e dei processi mentali che li accompagnano), non solo a
livello molecolare, ma fino agli eventi atomici e subatomici, mobilissimi e
altamente carichi di energia. E' cosí che avviene una graduale rivelazione di
anicca, cioé della natura impermanente, in costante cambiamento, di tutto ció
che appare solido e duraturo a una mente non allenata.
Ritornando peró all'analisi dei quattro
elementi: le istruzioni di base sono prese dal famoso Discorso sui quattro dondamenti della presenza mentale (il testo
base per la pratica della vipassana, considerato dettagliatamente nel capitolo
VI) e spiegano che il meditante:
Riflette
sul suo stesso corpo, comunque sia collocato o disposto, con riguardo ai suoi
quattro elementi primari: "Vi sono in questo corpo l'elemento terra,
l'elemento acqua, l'elemento fuoco e l'alemento aria". Come se un esperto
macellaio o il suo apprendista, dopo aver macellato una vacca e avendola divisa
in parti, fossero seduti alla congiunzinoe di quattro strade maestre, cosí
appunto un monaco riflette sul suo stesso corpo, comunque esso sia collocato o
disposto, riguardo ai suoi elementi primari: "Vi sono in questo corpo
l'elemento terra, l'elemento acqua, l'elemento aria e l'elemento fuoco".
Il Visuddhi Magga spiega il paragone con il
macellaio come segue:
Proprio
come un macellaio, mentre nutre la mucca, la porta al mattatoio, la tiene
legata dopo averla portata lí, la macella e, vedendola macellata e morta, non
perde la percezione "mucca" finché non l'ha squartata e divisa in
pezzi; ma quando l'ha divisa e sta lí seduto per denderla, perde la percezione
"mucca" e sorge in lui la percezione "carne" e non pensa:
"Sto vendendo una mucca" o "Stiamo portando via la mucca",
ma bensí: "Sto vendendo carne" e "Stanno portando via la
mucca", ma bensí: "Sto vendendo carne" e "Stanno portando
via della carne". Cosí anche il monaco, mentre é ancora un individuo
comune e ignorante, non perde la percezione "essere vivente" o
"uomo" o "persona" finché, riducendo ció che écompatto in
elementi, considera questo corpo, in qualsiasi posizione esso si trovi, formato
di elementi. Ma, quando lo considera formato di elementi, perde la percezione "essere vivente" e la
sua mente si stabilisce sugli elementi.
L'approccio metodico a questo esercizio
(raccomandato - come dice Visuddhi Magga - specialmente per "chi non é di troppo veloce
comprensione") consiste nel considerare le varie parti e i processi
organici del corpo dal punto di vista dell'elemento che é predominante in essi,
per esempio l'elemento terra (soliditá) - unghie, denti, ossa, tendini ecc. -;
l'elemento acqua (f;uiditá) - sangue, bile, saliva, urina ecc. -; l'elemento
fuoco (radiazione) - "qualsiasi cosa, internamente, in se stessi, di
infuocato, infiammato, attaccato, per mezzo di cui cioé ci si scaldi, si
invecchi e ci si consumi, e ció che é mangiato, bevuto, masticato o assaggiato
diventi completamente digerito..."; l'elemento aria (vibrazioni) - l'aria
nei polmoni, il vento nello stomaco e nei visceri etc. Inoltre, c'é un'intera
serie di varianti nelle quali, mentre si parte sempre dal fatto concreto delle
parti del corpo e dei processi che vi hanno luogo, la meditazione discorsiva
viene rivolta piú particolarmente allle condizioni caratteristiche, alle
funzioni e manifestazioni degli elementi, o stati, in quanto eventi
impersonali. Praticando questa contemplazione con attento discernimento, il
meditante scopre che "gli elementi gli diventano evidenti sotto l'aspetto
impersonale. A mano a mano che egli si volge ad essi e vi presta continuamente
attenzione, sorge la concentrazione d'accesso e il meditante che si dedica a
definire i quattro elementi, si immerge nel vuoto ed elimina la percezione
'essere vivente' ".
❖ 4.6. I quattro stati sublimi
Questi quattro "stati sublimi" della
mente (letteralmente "dimore divine", brahmavihara) sono delle
contemplazioni che, come tutti gli altri esercizi, possono essere utilmente
praticate per ottenere la concentrazione. Il loro significato principale,
tuttavia, sta nello sviluppo delle qualitá morali e spirituali del meditante,
poiché esse consistono nel coltivare quelle che potrebbero venir chiamate le
quattro virtú cardinali del buddhismo: benevolenza (o amore universale),
compassione, gioia altruistica ed equanimitá. Naturalmente, anche gli altri
esercizi meditativi, praticati rettamente, non possono non avere effetti positivi
sulla mentalitá e sul carattere del meditante e, quindi, si puó dire che tutte
le meditazioni aiutino a sviluppare queste virtú. La differenza sta nel fatto
che, in questi esercizi particolari, sono le stesse specifiche virtú a
costituire l'oggetto della contemplazione discorsiva. Queste contemplazioni
sono quindi particolarmente utili nel mantenere e perfezionare la disciplina
morale (sila) che, come é stato ripetutamenet sottolineato, é indispensabile
per lapratica della meditazione di quiete che con quella di visione
penetrativa, per migliorare l'equilibrio del meditante (internamente e nelle
sue interazioni con gli altri) e come essi siano cosí un elemento molto
importante di progresso.
Ci sono poi esercizi essenzialmente discorsivi,
basati sulla contemplazione delle qualitá positive e dei vantaggi inerenti alle
virtú, e dei pericoli e dei danni, per se stessi e gli altri, che derivano
dalla loro assenza. Caratteristica di questi esercizi é che la riflessione sia
accompagnata dalla volizione, cioé da uno sforzo sostenuto dalla volontá, per sviluppare nel
meditante disposizioni e stati d'animo caratterizzati dalla virtú, oggetto
della meditazione.
I primi tre esercizi sono molto simili. La cosa
non deve sorpredere se si tiene conto che rappresentano in realtá tre aspetti o
modalitá della stessa mentalitá, la cui essenza ,e una disposizione cordiale
verso gli altri, senza distinzione tra "tuo" e "mio". Metta
(centrale nel buddismo sia come concetto che come esperienza) é il termine che
usualmente viene tradotto con "benevolenza": si tratta della
"caritá" nel senso proprio della parola, cioé di un amore
disinteressato che ci spinge a procurare la felicitá e il bene nel prossimo
senza desiderare nulla per noi stessi; la compassione (karuna) e la gioia
altruistica (mudita) sono manifestazioni evidenti e reciprocamente
complementari della benevolenza: la disponibilitá, sempre presente, a
condividere le gioie e le sofferenze altrui.
❖ 4.6.1. La benevolenza (metta)
Questa meditazione inizia con una considerazinoe
intesa a rafforzare la propria motivazione. SI comincia con il considerare la
nocivitá dell'odio e i benefici della tolleranza e della compassione. Dopo
questa considerazione preliminare l'esercizio vero e proprio consiste nel
coltivare la benevolenza verso tutti gli esseri, seguendo un ordine specifico,
basato su salde considerazioni psicologiche.
Prima di tutto, ci sono quattro categorie di
persone che, per cominciare, non dovrebbero essere considerate come supporti
per gli esercizi di benevolenza e questo per ovvie ragioni psicologiche. Le
categorie da evitare sono> una persona antipatica (a causa della difficoltá,
per un principiante, di superare l'istintiva avversione), un amico molto amato
(a causa dell'eccessivo coinvolgimento emotivo che implica la relazione),
qualcuno verso cui proviamo totale indiffernza (a causa della difficoltá nello
sviluppare un interesse sufficiente) e qualcuno con cui siamo in rapporti
decisamente ostili (a causa dell'eccessivo coinvolgimeto emotivo negativo). Si
dovrebbe anche evitare di sviluppare la
benevolenza verso il sesso opposto (per evitare il desiderio e l'attaccamento
propri del coinvolgimento sessuale) e nei confronti di un morto (dal momento
che non si puó sviluppare alcuna relazione veramente vaida con qualcuno che non
c'é piú).
A questo punto peró ci si potrebbe domandare:
che cosa rimane una volta esclusi tutti quelli che ti piacciono, tutti quelli
che non ti piacciono e tutti quelli di cui non ti curi in nessun modo? La
risposta é, ovviamente, se stessi. Ed é proprio questo, infatti, il punto da
cui si inizia.
Prima di
tutto, la benevolenza deve essere sviluppata solo verso se stessi, pensando
ripetutamente: "Possa io essere felice e libero dalla sofferenza" o
"possa mentenermi libero dall'inimicizia, dall'afflizione o dall'ansia e
vivere felicemente!"
O formule
simili. A prima vista, questo modo di iniziare con se stessi puó sembrare uno
strano modo di fare per sviluppare l'amore verso gli altri. Va notato,
tuttavia, che il Visuddhi Magga non manca di specificare che in questo
esercizio iniziale il meditante deve aver chiaro che considera se stesso come
un esempio ivente di essere senziente. Rappresenta ogni essere e tutti gli esseri.
Se il
meditante sviluppa il pensiero in questo modo: "Io sono felice. Proprio
come io voglio essere felice e temo il dolore, voglio vivere e non morire, cosí
fanno anche gli altri esseri"; e se prende se stesso a esempio, allora
sorgerá in lui il desiderio per il benessere e la feliitá degli alri esseri.
Questo metodo é indicato dal Beato quando dice:
Ho
visitato tutti i luoghi con la mia mente
e non ho
trovato nessuno piú caro di me stesso;
il proprio
sé é ugualmente caro a ognuno;
chi ama se
stesso, non fará mai male a un altro
Se ci riflettiamo un attimo, vedremo che questo
modo di iniziare l'esercizio é basato su due eccellenti principi psicologici.
Il primo é che la felicitça o l'infelicitá
é uno stato della mente, cioé qualcosa che dipende essenzialmente da se
stessi. Si deve notare attentamente che la formula usata per l'esercizio non
dice di lasciare qualcosa o di liberarsi
di qualcosa per essere felici, ma di mantenersi liberi, internamente,
dall'inimicizia, dall'afflizione e dall'ansia (che, deve essere ben chiaro, non
sono cose al di fuori di noi, come parte di ció che ci circonda) e cosí essere
felici perché si é in pace con se stessi in qualsiasi circostanza. In secondo
luogo, e cosa egualmente evidente, per essere in pace con gli atlri si deve
esere in pace con se stessi e in se stessi. E' un principio riconosciuto e
molto usato nella moderna psicoterapia. "Siater amici di voi stessi".
Se si é sopraffatti da sentimenti di collera, odio, ansia, non si é certamente
in grado di mostrare una genuina benevolenza verso gli altri. Il v ero amore
non é un comportamento esterno bevolene (mentre si tengono sotto controllo le
tendenze negative interne, con maggior o minor successo), ma é il flusso
spontaneo di una mente tranquilla. E' quindi ovvio che dovete iniziare con voi
stessi prima di poter amare gli altri.
"Chi ama se stesso, non fará mai male
all'altro" - é un concetto cruciale. A un lettore occidentale verrá subito
in mente la famosa ingiunzione dell'altro grande maestro, Gesú Cristo:
"Ama il prossimo tuo come te stesso". La differenza nella
formulazione é peró significativa. Nella tradizione occidentale, si pone un
obbligo dall'esterno, con l'imperativo: "Ama"; nell'insegnamento del
Buddha veniamo avvisati che un dato corso di azioni produrrá un dato stato di
cose. Non c'é alcun dovere.
Bisogna comprendere chiaramente che la
benevolenza non ha nulla a che fare con una facile indulgenza o con slanci
emotivi. E' un'accettazione conscia, non ignorante, un'accettazione che é una
manifestazione esteriore di uno stato interno di pace e equanimitá, e che non é
motivata da desiderio, egoismo, attaccamento o illusione.
Una volta raggiunta la concentrazione mentale
attraverso la benevolenza diretta allo stesso meditante, tale benevolenza,
dovrebbe essere volta a permeare altri oggetti. Il passo successivo, per
proseguire facilmente, dice il Visuddhi Magga, deve essere diretto a:
Quei doni,
e dolci parole, che ispirano amore e affetto: quella virtú e sapere, che
ispirano rispetto e reverenza, cosí come si vedono in un maestro o nel suo
equivalente, in un precettore o nel suo equivalente, sviluppando benevolenza
nei suoi confronti, cominciando col dire: "Possa questo bravo uomo essere
felice e libero dalla sofferenza"'
In seguito si puó procedere con oggetti piú difficili
(quelli che sono da evitare all'inizio) nell'ordine seguente: un amico molto
caro, una persona neutra, una persona antipatica e ostila (non é necessario che
siano ogni volta le stesse persone: nelle diverse occasioni, possono essere
scelti differenti individui all'interno di ogni categoria).
Praticando assiduamente in questo modo e
seguendo la sequenza indicata, si puó ottenere, prima o poi, quello stato
mentale conosciuto come la "rottura delle barriere". Questo é uno
stato di totale, equilibrata apertura, in cui il meditante realizza "una
imparzialitámentale verso quattro persone, cioé se stesso, la persona cara,
quella neutra, quella ostile".
La rottura delle barriere é l'equivalente
dell'impronta dell'equivalente nell'esercizio percettivo, e denota il
raggiungimento della concentrazione d'accesso. Nel capitolo VIII vedremo come
la benevolenza, sviluppata nei confonti di individui concreti, si possa
estendere fino a diventare un'effusione universale diretta a tutti gli esseri
❖ 4.6.2. La compassione (karuna) e la gioia altruistica (mudita)
Dal momento che queste due virtú sono, in effetti, aspetti specifici della
benevolenza, gli esercizi relativi hanno una natura simile e le sole differenza
nascono dal carattere specifico della virtú oggetto di considerazione. Una
differenza importante é che si inizia subito con qualcun altro, non con se
stessi - abbastanza naturalmente, dal momento che la compassione e la simpatia,
essendo aspetti parziali della benevolenza, possono facilmente diventare autocompassione
e autogratificazione.
Nella pratica della compassione si deve iniziare
con alcuni casi di sofferenza e di sfortuna (avendo cura che non riguardino un
amico vicino - cosa che potrebbe
sconvolgerci troppo - o qualcuno che non
ci piace per niente - nel qual caso
potrebbe essere difficile una compassione genuina). La disposizione d'animo da
sviluppare é: "Questo essere é stato realmente ridotto in miseria; se solo
potesse essere libero da questa sofferenza!"' Se non si trova una tale
persona, si puó anche prendere il caso di qualcuno che sembra essere felice e
benestante, ma il cui carattere e comportamento sono manifestamente
indesiderabili; la compassione allora deve sorgere per il fatto che, sebbene
apparentemente felice e nel pieno del successo, quella persona é in realtá un
poveretto perché, evitando di compiere buone azioni con il corpo, la parola e
la mente, si sta preparando un'indicibile miseria per il futuro. Fatta sorgere
cosí la compassione per il primo oggetto, si deve poi proseguire - come
nell'esercizio della benevolenza- rivolgendosi successivamente a una persona
cara, a una neutra e a una ostile.
La pratica della gioia altruistica deve iniziare
con qualcuno che si conosce e ci piace, ma cui cui non si é coinvolti troppo da
vicino. La cosa importante é che la persona abbia una disposizione d'animo
felice e allegra e la sua manifesta contentezza e buonumore possano essere piú
facilmente condividi. Poi, come negli altri casi, l'esercizio continua con le
persone care, neutre e ostili.
Bisogna perseverare nella pratica di questi due
esercizi finché non si raggiunge la concentrazione d'accesso con la
"rottura delle barriere", dopo di che la diffusione di queste virtú
puó essere estesa a tutti gli esseri.
❖ 4.6.3. L'equanimitá (upekkha)
La procedura é simile a quella dei due
precedenti esercizi, ma iniziando con una persona neutra e passando poi
successivamente a una persona cara, e a una ostile. C'é comunque una differenza
importante che distingue questo esercizio non solo da quelli dei tre precedenti
stati sublimi ma anche da tuttik quelli che abbiamo visto in questo capitolo.
La differenza sta nel fatto che é un esercizio di concentrazione molto
avanzato, il quale presuppone il precedente raggiungimento - per mezzo di uno
deglialtri tre stati sublimi usati come supporti di meditazione - del livello
di concentrazione e di quiete conosciuto come terzo assorbiento (terzo jhana),
ma che non puó essere usato per ottenere nessuno dei primi tre assorbimenti. In
altre parole puó venir utilizzato solo per raggiungere il quarto assorbimento,
come si vedrá nel capitolo V. Sia l'equanimitá che la benevolenza, tuttavia,
sono di particolare rilevanza per il progresso della visione penetrativa,
essendo sia mezzo per la liberazione, che sue manifestazioni ultime. Saranno
perció considerati in modo piú ampio sotto questo aspetto nel capitolo VIII.
❖ 4.7. I quattro stati immateriali
Sono gli stati esperienziali di spazio
illimitato, coscienza illimitata, nulla e né-percezione-né-non-percezione.
Richiedono i piú elevati livelli di concentrazione e appartengono
escludivamente alla pratica della meditazione di quiete, rappresentando il
raggiungimento del piú alto grado possibile di assorbimento mentale o di ció
che é conosciuto come "assorbimenti senza forma" (arupa jhana),
chiamati anche talvolta "assorbimenti immateriali". Verranno quindi
trattati nel capitolo Samatha, mentre
qui sono menzionati solo per completare il quadro dei tradizionali supporti di
meditazione.
Prima di tentare questi esercizi é necessario
aver raggiunto i quattro gradi di base di assorbimento mentale samatha, cioé
gli assorbimenti a llivelli materiali (rupa jhana, conosciuti anche come
"assorbimenti di forme sottili"), usando a questo scopo uno dei kasina, ad eccesione dello "spazio
limitato". DOpo che il quarto assorbimento di base é stato raggiunto con
un kasina, il meditante prosegue affinando e intensificando ulteriormente la
concentrazione, lasciando da parte il kadina, il riflesso interno e l'impronta
dell'equivalente, e concentrandosi solo sullo spazio che era occupato dal
kasina. In questo modo si stabilisce la
concentrazione d'accesso con lo spazio (che é, in se stesso, illimitato) come
impronta dell\equivalente, ció che rappresenta un piú alto grado di astrazione
rispetto a quello del quarto assorbimento.
La procedura é simile per ognuno degli altri tre
assorbimenti "senza forma" o "immateriali", ognuno dei
quali inizia avendo come base il precedente. Cosí, dopo aver raggiunto la
contemplazione dello spazio illimitato, si procede lasciandolo da parte e
concentrando l'attenzione sulla coscienza dello spazio, sviluppando un uesto
modo la cotemplazione della coscienza illimitata. Avanzando verso uno stadio
ancor piú rarefatto, la coscienza stessa puó essere tralasciata e la base per
la contemplazione diventa allora la non-esistenza della coscienza precedente.
Questa é la contemplazione del nulla.
Non appena la coscienza del nulla (che suona paradossale, ma é un fatto
sperimentabile) é stata raggiunta, il grado di allontanamento dalla percezione
e di astrazione mentale diventa tale che lo stato risultante non si puó piú
dire che coinvolga qualche percezione o coscienza nel senso
ordinariodeltermine. Nel contempo, peró, la condizione mentalenon é quella di
una semplice incoscienza. E' quello stato descritto come né-perceziione-né-non-percezione, cioé il quarto stato immateriale
(corrispondente al quarto assorbimento immateriale).
❖ 4.8.
Abbiamo cosí concluso questa breve rassegna dei
quaranta supporti meditativi usati per sviluppare la concentrazione mentale
secondo la tradizione buddista. Fra questi, un maestro esperto sceglierá per
ogni caso il supporto migliore, adatto al carattere, all'abilitá e alle
condizioni di un dato studente e alla finalitá concreta che sipersegue in un
determinato moment, a seconda che lo scopo sia di sviluppare la quiete
(samatha), la visione penetrativa (vipassana), o una combinazione di tntrambe.
❍ 5. Samatha. Lo sviluppo
della quiete
❖ 1.
❖ 2. Gli assorbimenti (jhana)
❖ 2.1
❖ 2.2. Gli assorbimenti formali o di "materia
sottile"(rupa jhana)
❖ 2.2.1. Il primo assorbimento
❖ 2.2.2. L'estenzione dell'impronta
❖ 2.2.3. La revisione
❖ 2.2.4. Il secondo assorbimento
❖ 2.2.5. Il terzo assorbimento
❖ 2.2.6. Il quarto stato sublime (equanimitá) in quanto atto a
conseguire il guarto assorbimento
❖ 2.2.7. Il quarto assorbimento
❖ 2.3. Gli assorbimenti immateriali (arupa jhana)
❖ 2.3.1. Il quinto assorbimento: la prima base immateriale (spazio
illimitato)
❖ 2.3.2. Il sesto assorbimento: la seconda base immateriale
(coscienza illimitata)
❖ 2.3.3. Il settimo assorbimento: la terza base immateriale (il
nulla)
❖ 2.3.4. L'ottavo assorbimento: la quarta base immateriale (né
percezione né non percezione)
❖ 2.4. Nota sulla realizzazione della cessazione (nirodha samapatti)
❖ 3. Conclusione
❖ 1.
Come é stato spiegato nel capitolo III, lo scopo
della meditazione samatha é di realizzare stati alterati di coscienza
caratterizzati da un alto grado di quiete e di pace mentale, Nello stesso
capitolo si é anche spiegato che questo fine puó essere conseguito sviluppando
progressivamente maggiori livelli di concentrazione mentale, e scartando
gradualmente tutti gli stimoli sensoriali e i processo razionali. Questo é il
motivo per cui tale meditazione viene definita di tipo astrattivo; essa,
sistematicamente, attraversa stadi successivi di assorbimento mentale, che sono
man mano sempce piú vuoti di percezioni sensoriali e di processi mentali.
Per avere successo la pratica degli esercizi
samatha richiede (anche piú della vipassana, che sará considerata nel capitolo
seguente) la regolare e personale supervisione di un maestro qualificato, se si
vogliono evitare frustrazioni, errori e confusioni. Quindi, non si puó dire
molto sulla pratica samatha in una introduzione scritta, eccetto dare un'idea
generale, e puramente teorica, di ció di cui si tratta e di come i vari stadi
si incastrino l'uno nell'altro. Questo é ció che le seguenti pagine tentano
di fare: disegnare una mappa
approssimativa di un terreno molto complesso
❖ 2. Gli assorbimenti (jhana)
❖ 2.1
La meditazione samatha, la meditazione buddista
di quiete, comprende tradizionalmente otto stati progressivi di astrazione
mentale o assorbimenti, conosciuti come jhana (in pali jhana significa
letteralmente "meditazione" o "contemplazione")
Come abbiamo giá visto alla fine del capitolo
precedente riferendoci agli stati immateriali, questi otto assorbimenti sono
divisi in due gruppi principali: quattro gradi di base di assorbimento mentale,
spesso tradotti come "assorbimenti di materia sottile", ma che sono
meglio resi con il termine "assorbimenti formali"
("rupajhana") e quattro gradi successivi, conosciuti come
assorbimenti immateriali o "senza forma" (arupa jhana).
Il punto di partenza per un assorbimento
immateriale é il raggiungimento della concentrazione d'accesso conseguita sulla
base di un dato supporto meditativo, e successivamente sviluppata finché non
viene raggiunta la piena concentrazione (o concentrazione fissa). Si deve
ricordare che in quest'ultima l'attenzione diviene pienamente assorbita
dall'impronta dell'equivalente, sviluppata sulla base del supporto iniziale. A
questo punto inizia il conseguimento dei quattro stati di assorbimento
fondamentali (assorbimenti formali. I gradi successivi vengono sviluppati in
modo simile, attraversando ugualmente gli stati di concenr=trazione d'accesso e
concentrazione piena, ma il loo punto di partenza (giá menzionato nella sez.
4.7) é il quarto assorbimento di base, ottenuto per mezzo di un kasina come
supporto meditativo. A questo riguardo si deve ricordare che non tutti i
quaranta supporti meditativi sono utilizzabili per tutti gli scopi, bensí
alcuni di essi possono essere usati sia per la concentrazione d'accesso che per
quella piena, mentre altri possono arrivare solo al livello d'accesso.
Quelli che conducono solo al livello di accesso
sono dieci - gli otto esercizi delle contemplazioni riflessive, piú la
percezione della ripugnanza del nutrimento e l'analisi dei quattro elementi
(vedi sezz. 4.3 e 4.5). Questi possono essere usati semplicemente come benefici
esercizi mentali (poiché la concentrazione d'accesso é giá, in se stessa,
un'esperienza molto positiva di coscienza elevata) o, certo, per la pratica
della visione penetrativa.
Gli altri trenta supporti meditativi sono tutti
adatti a stabilire la concentrazione piena o fissa e, pertanto, possono venire
usati per la pratica, sia della visione penetrativa (vipassana) che della
quiete (samatha). Notiamo tra l\altro che due di essi, la consapevolezza del
respiro e quella del corpo sono particolarmente utili, al livello di accesso,
per la pratica della visione penetrativa (vedi capitolo VI).
In questo momento, tuttavia, ci stiamo occupando
dello sviluppo della quiete e dobbiamo notare che non tutti questi supporti
possono condurre alle realizzazioni di tutti i livelli di assorbimento ora
menzionati. I dieci tipi di decomposizione del corpo, cosí come la
consapevolezza del corpo, conducono solo al primo assorbimento. I primi tre dei
quattro stati sublimi (benevolenza, compassione e gioia altruisica) possono
essere utilizzati per raggiungere al massimo il terzo livello di assorbimento.
I dieci kasina e la consapevolezza del respiro producono tutti i quattro
assorbimenti fondamentali. Il quarto stato sublime é adatto solo per il quarto
assorbimento e, come si ricorderá (sez. 4.6.3), non puó essere usato per
stabilire la cocentrazioine d'accesso, che deve essere precedentemente ottenuta
per mezzo di uno degli altri stati sublimi. I quattro stati immateriali,
infine, partendo dal quarto assorbimento (raggiunto per mezzo di uno qualsiasi
dei dieci kasina, con l'ecczione dello "spazio limitato"), conducono
al conseguimento successivo del quinto, sesto, settimo e ottavo assorbimento
(cioé le quattro basi senza forma o materia).
Delineeró ora brevemente ognuno degli otto
assorbimenti per dare un'idea sommaria del tipo di stati che implicano e di
come si agisca per consaguirli. A questo scopo utilizzeró le definizioni
standard che si trovano in molti passi dei discorsi del buddha e i commenti su
di essi, con l'aiuto di riferimenti e delucidazioni dal Visuddhi Magga.
❖ 2.2. Gli assorbimenti formali o di "materia sottile"(rupa
jhana)
La procedura meditativa iniziale é sempre la
stessa; dapprima l'attenzione deve essere concentrata su un supporto meditativo
(concentrazione preparatoria), poi deve essere rinforzata e intensificata
(passando attraverso livelli successivi di [a] attenzione conscia e escludiva
al supporto, che é il "segno preliminare"; [b] il riflesso interno;
[c] l'impronta dell'equivalente (sezz. 3.1 e 3.3), finché viene raggiunta la
concentrazione d'accesso. In seguito, per lo sviluppo di samatha, il meditante
prosegue rafforzando e affinando la concentrazione menttale sulla base
dell'impronta dell'equivalente che é stata stabilita, fino a raggiungere la
"concentrazione fissa" o "concentrazione piena".
❖ 2.2.1. Il primo assorbimento
Lavorando in questo modo, il meditante,
"isolato dai desideri dei sensi, isolato dalle cose dannose, entra e
permane nel primo assorbimento, che é accompagnato da ideazione e riflessione
con la felicitá e la beatitudina nate dall'isolamento"
La definizione specifica che il meditante
"é isolato dai desideri dei sensi" perché la mente é concentrata
esclusivamente sull'impronta dell'equivalente, ottenuta sulla base del supporto
meditativo iniziale. "Isolato dalle cose dannose" significa che il
meditante in quel momento é libero da ció che, nella tradizionie buddista, é
noto come i cinque ostacoli che, quando sono presenti, confondono la mente e
impediscono il progresso. Essi sono: i desideri dei sensi, la malevolenza,
l'indolenza e il torpore, l'irrequietezza e l'ansia, il dubbio. Non ci potrá
essere progresso fintantoché il meditante non sará libero da questi ostacoli.
Ecco perché si afferma che il primo assorbimento é "nato dall'isolamento". Nella
misura in cui c'e un soddisfacente progresso nel processo di concentrazione,
dal livello preliminare fino a quello d'accesso, la mente é naturalmente libera
da questi ostacoli (se si é realmente concentrati sul supporto meditativo, non
c'é nel contempo spazio per sentimenti di desiderio, lalevolenza, indolenza o
torpore, irrequietezza, ansia ecc.). Viceversa, quanto piú spesso e
completamente la mente é ripulita dagli ostacoli, tanto meglio e con maggior
efficacia si concentra.E' un processo con un continuo feedback positivo.
Le caratteristiche distintive del primo
assorbimento (che sono le medesime, sia nel primo conseguimento da parte del
principiante, che in stati piú duraturi ottenuti da un meditante esperto) sono
"felicitá" e "beatitudine" e il fatto che la condizione sia
accompagnata da riflessione e ideazione. Quest'ultima precisazione chiarisce
che il primo livello di assorbimento comprende ancora elementi di riflessione e
di attivitá mentale: i pensieri sorgono (ideazione) e vengono seguiti
(riflessione). Queste attivitá riflessive, peró, sono strettamente integrate
con il processo meditativo e servono a rafforzarlo. L'ideazione consiste
nell'applicare o concentrare le capacitá di pensiero della mente esclusivamente
sul supporto meditativo (e sull'impronta dell'equivalente, quando sorge),
mentre la riflessione significa mantenedre l'attivitá riflessiva ferma sujl
supporto, senza distrazioni. Il Visuddhi Magga illustra questa operazione
paragonandola a una campana, un uccello, e un'ape. L'ideazione é come il primo
rintocco della campana, la riflessione é "come il continuo risuonare della
campana", l'ideazione é "come un uccello che dispiega le ali quando
sta per spiccare il volo" e "come un'ape che si slancia verso un
fiore di loto attratta dal suo profumo"; mentre la riflessione é "simile
a un uccello che, alzatosi in volo, plana con le ali aperte" o
"un'ape che ronza sopra il loto dopo essersi lanciata verso di esso".
Il riferimento alla "felicitá e
beatitudine" é di particolare importanza perché caratterizza la natura
positiva dello stato di coscienza ottenuto in questo primo assorbimento (cosí
come in quello seguente, come vedremo tra breve).
Anche questi termini sono usati in un senso
tecnico molto specifico nella meditazione buddista: la felicitá é "la
contentezza di conseguire un oggetto desiderabile"; la beatitudine é
"l'esperienza concreta di questo oggetto una volta conseguito". Per
chiarire ció il Visuddha Magga spiega che "se, in un desertol un uomo
esusto vedesse o sapesse dell'esistenza di un'oasi sarebbe felice; una volta arrivato
all'oasi, e dopo averne ujsato l'acqua, sarebbe peró beato!".
La felicitá gioca una parte mlto importante giá
negli stati preliminari, mentre ci si avvicina al livello d'accesso verso
l'assorbimento, e poi lo si raggiunge. Infatti, quando il meditante é intento a
sviluppare la concentrazione, la felicitá é sia il frutto concreto dei suoi
primi sforzi disciplinati e coscienti, sia uno stimolo a ulteriori sforzi e
progressi. Le manifestazioni di questa felicitá variano in genere, intensitá e
durata. La terminologia tradizionale distingue tra "felicitá minore"ç
che é come un brivido "che solleva i peli del corpo"; "felicitá
momentanea", che é "come lampi fulminei in momenti diversi";
"felicitá iterata", che "inonda tutto il corpo ripetutamente,
come le onde sulla spieaggia; "felicitá elevata", che si manifesta
non solo con l'elevazione mentale, ma anche con una sensazione fisica di
estrema leggerenzza, come se si stesse fluttuando nell'aria, infine
"felicitá onnipervadente" (o estatica), quando "l'intero corpo é
completamente permeato come una vescica piena o una caverna invasa da una
tremenda inondazione".
A questo punto vale la pena di citare per esteso
un passo del Visuddhi Magga,che descrive in breve la sequenza di condizioni
psicosomatiche inerenti al progresso della coccentrazione, dall'iniziale
supporto meditativo fino al conseguimento dell'assorbimento.
Ora,
queste cinque varietá di felicitá, nel loro sorgere e maturare, perfezionano la
suplice quiete, quella fisica e quella menale. La quiete, nel suo sorgere e
maturare, perfeziona la triplice concentrazione, cioé la concentrazione
momentanea, la concentrazione d'accesso e la piena concentrazione. Tra questa,
la radice della concentrazione piena é la felicitá onnipervadente che, quando
cresce, é associata alla concentrazione.
Le caratteristiche del primo assorbimento
possono meglio essere riassunte con le parole del Buddha:
Il primo
assorbimento é libero da cinque cose e possiede cinque cose. In veritá, monaci,
in chi ha conseguito il primo assorbimento non c'é né desiderio sensuale, né
malevolenza, né indolenza e torpore, né irrequietezza e ansia, né dubbio.
Costui vive concentrato, felice e beato, esercitando le facoltá dell'ideazione
e della riflessione.
Volgiamoci ora a quella frase della formula, la
quale specifica che il meditante "entra e permane nel primo
assorbimento". Qui si deve notare che, quando si raggiunge questo stato
per la prima volta, un meditante generalmente non riesce a rimanere in esso per
piú di pochi istanti (questo é il conseguimento momentaneo) e ritorna quasi
subito al livello di accesso. COn la pratica, peró, si sviluppa una crescente
facilitá a entrare nel pieno assorbimento e a permanervi o stabilizzarvisi per
periodi piú lunghi. Si raggiunge cosí infine il pieno controllo, che consiste
nella cpacitá di entrare ogni volta nel primo livello e rimanervi per tutto il
tempo desiderato (questo é il conseguimento stabile). E' quasi come imparare ad
andare in bicicletta. Aoll'inizio si cade a ogni momento, ma, con la pratica, mane=tenersi
in equilibrio su due ruote diventa quasi una seconda natura. Questo processo di
apprendimento é lo stesso per tutti gli assorbimenti; all'inizio cioé si
ottengono momentaneamente e poi, gradualmente, si perfezionano fino a raggiungerne la piena padronanza.
❖ 2.2.2. L'estenzione dell'impronta
Il processo di stabilizzazione e
intensificazione della concentrazione astrattiva puó venir molto favorito da un
esercizio noto come "estensione dell'impronta". E' utile sia per il
primo livello di assorbimento che stiamo considerando, che per gli altri tre
assorbimenti, e una variante ne é - come si
vedrá in seguito - essenziale per ottenere il quinto assorbimento (cioé
l'assorbimento della prima base immateriale).
Questo esercizio si pratica basandosi su uno dei
kasina (con l'eccesione dello "spazio limitato") e consiste
nell'estendere mentalmente, per tappe successive, l'impronta dell'equivalente
che é stata originariamente sviluppata, cosí da espanderla mentalmente per
comprendere aree sempre piú vaste. Ecco come il Visuddhi Magga illustra
l'esercizio di estensiione basandosi sul kasina terra (la cui impronta
dell'equivalente, si ricorderá, é caratterizzata da immagini di brillantezza e
purezza ' come uno specchio... come un disco di madreperla..., come il disco
lunare"). Secondo il manuale, il meditante deve procedere come segue:
Per prima
cosa egli deve delimitare con la mente le dimensioni successive dell'impronta
dell'equivalente, che ha giá conseguito; e cioé un dito, due dita, tre dita,
quattro dita, e poi estendere per tutto lo spazio delimitato, come un contadino
delimita l'area da lavorare con l'aratro e ara all'interno dell'area
delimitata... Non deve estenderla senza aver delimitato l'area da coprire. DOpo
aver fatto questo, puó estenderla ulteriormente con delimitazioni successive,
per esempio un palmo, due palmi, la veranda, il cortile, il monastero,
ilconfini del villaggio, della cittá, del distretto, del regno e dell'oceano,
arrivando fino agli estremi confini del mondo o anche oltre
❖ 2.2.3. La revisione
Nella pratica samatha il passaggio da un
assorbimento a un altro non é un processo continuo. Ci sono intervalli tra ogni
assorbimento. Quando un meditante é entrato nel primo assorbimento, prima di
proseguire per il secondo, ha bisogno di emergere, rivedere mentalmente e
valutare l'esperienza appena vissuta. Lo stesso vale per la transizione dal
secondo al terzo assorbimento, dal terzo al quarto e cosí via. Questa é,
secondo i termini tradizionali, la "revisione", poiché ció che il meditante
deve fare é rivedere con cura scrupolosa, riflettendoci sopra, le
carattristiche distintive del livello di assorbimento appena sperimentato, cosí
da stabilirne le precise qualitá Questa revisione rivela ció che é ancora
suscettibile di miglioramento a ogni livello e rafforza la motivazione a
lavorare per qello seguente.
Nel caso del primo assorbimento il VIsuddhi
Magga dice che, una volta che il meditante lo padroneggia>
Emergendo
dal primo assorbimento, ora familiare, puó guardarne le pecche in questo
modo> "Questa realizzazione risente di ostacoli ancora vicini, e i suoi
fattori sono indeboliti dalla grossolanitá dell'ideazione e della
riflessione". Puó allora pensare al secondo assorbimento in quanto piú
quieto, e cosí il suo attaccamento al primo assorbimento ha fine, ed egli
inizia a fare ció che é necessario per conseguire il secondo. Una volta emerso
dal primo, l'ideazione e la riflessione gli appaiono grossolate, nel momento in
cui rivede i fattori di assorbimento con attenzione e piena consapevolezza,
mentre la felicitá, la beatitudine e l'unificazione della mente [cioé la
concentrazione] appaiono serene.
In seguito, il meditante concentra la mente
ancora una volta, usando lo stesso supporto meditativo del primo assorbimento o
un altro supporto adatto e, passando attraverso le tappe usuali del riflesso
interno, dell'impronta dell'equivalente, della concentrazione d'accesso e della
concentrazione piena (un processo che puó avvenire molto rapidamente una volta
acquisitane la capacitá), entra nel secondo assorbimento. La tecnica per
raggiungere la concentrazione é, di certo, simile alla precedente, la
differenza peró sta nella motivazione del meditante, che ora é diversa perché é
basata sull'esperienza reale del primo assorbimento, sulle possibilitá che esso
ha rivelato, sull'analisi dell'esperienza compiuta nella successiva revisione,
e sulla risultante motivazone di avanzare al secondo assorbimento. Il Visuddhi
Magga prosegue dicendo>
Allora,
richiamando alla mente quella stessa impronta..., ripetutamente, con il
proposito di abbandonare i fattori grossolani [cioé ideazione e riflessione] e
di ottenere i fattori di pace [che sono felicitá, beatitudine e unificazione
della mente], egli sa: "Ora sorgerá il secondo assorbimento".
❖ 2.2.4. Il secondo assorbimento
Con il
calmarsi dell'ideazione e della riflessione, egli entra e permane nel secondo
assorbimento, in cui ci sono felicitá e beatitudine che nascono dalla
concentrazione, libero dall'ideazione e dalla riflessione, accompagnato
dall'unificazione della mente e dalla serenitá interiore.
Di questo assorbimento si dice che
"abbandona due fattori e ne possiede tre". I due fattori abbandonati
sono, naturalmente, le funzioni discorsive dell'ideazione e della riflessione.
I tre fattori presenti sono felicitá, beatitudine e unificazione della mente,
cioé la concentrazione. La serenitá interiore non é considerata altro che un
fattore aggiuntivo poiché é semplicemente conseguenza degli altri tre. Una
differenza da notare tra il primo e il secondo assorbimento é che si considera
quest'ultimo come "nato dall'isolamento". Ció significa che, come é
giá stato detto con il primo assorbimento, il processo di concentrazione della
mente deve iniziare rimuo0vendonegli stati negativi consciuti come ostacoli;
questo ,e ilsignificato dell'"isolamento". Ció ignfica che, come é
giá stato detto con il primo assorbimento, il processo di concentrazione della
mente deve iniziare rimuovendone gli stati negativi conosciuti come ostacoli;
questo é il significato dell'"isolamento". Ció significa che, come
égiá stato detto con il primo assorbimento il processo di concentrazione della
mente deve iniziare rimuovendone glistati negativi conosciuti come ostacoli;
questo é il significato dell'"isolamento": la mente cio,e é isolata
dagli ostacoli. Quando si lavora per il secondo assor bimento, invece, il
meditante giá gode dei vantaggi risultanti dal grado di concentraziione
ottenuto nel primo. Ecco perché si dice che il secondo assorbimento é
"nato dalla concentrazione".
Una volta che si padroneggia a sufficienza il
secondo assorbimento, la procedura per riemenrgere ed entrare nel terzo é, come
giá indicato, simile a uella che é stata descritta epr la transizione delprimo
al secondo. Il fattore successivo di cui disfarsi é la "felicitá".
Emergendo
dal secondo assorbimento, ora familiare, egli puó guardarne le pecche in questo
modo: "Questa realizzazione risente della vicinanza dell'ideazione e della
riflessione; qualsiasi felicitá, eccitazione mentale ci siano in esso ne esprimono
la grosolaintá; i suoi fattori inoltre sono indeboliti dalla grosolanitá cosí
espressa". Egli puó allora pensare al terzo assorbimento, in quanto piú
quieto, e cosí il suo attaccamento al secondo assorbimento ha fine, e inizia a
fare ció che é necessario per ottenere il terzo. Una volta emerso dal secondo
assorbimento, la felicitá gli appare grossolana, nel momento in cui rivede i
fattori di assorbimento con attenzione e piena consapevolezza, mentre la
beatitudine e l'unificazione dela mente appaiono serene.
Il meditante poi prosegue concentrando la mente
ancora una volta "con il proposito di abbandonare i fattori grossolani
[felicitá] e di ottenere i fattori di pace [beatitudine e unificazione della
mente] e persevera nell'azione finché non raggiunge il terzo
assorbimento".
❖ 2.2.5. Il terzo assorbimento
Con il
venir meno della felicitá, egli rimane equanime, attento e pienamente
consapevole, sperimentando la beatitudine corporea e mentale, ed entra e
permane nel terzo assorbimento, e suo suo conto i saggi dichiarano:
"Permane nella beatitudine colui che possiede l'equanimitá ed é presente
mentalmente"
Questo assorbimento "abbandona un fattore e
ne possiede due". Il fattore abbandonato él come abbiamo appena visto, la
felicitá, perché, sebbene piacevole, é qualcosa che causa eccitazione mentale e
ha cosí un effetto disturbatore. I due fattori che rimangono e caratterizzano
questo livello di assorbimento sono la beatitudine e l'unificazione della
mente. A prima vista la fraseologia della formula tradizionale puó sembrare
includere anche altri elementi, ma un esame piú attento rivela che non é coí.
Infatti, nella formula si fa riferimento non solo alla beatitudine, ma anche
all'equanimitá, all'attenzione e alla piena consapevolezza. RIguardo alle
ultime due, tuttavia, si puó facilmente comprendere che i termini
"attento" e "pienamente consapevole" (come la frase "é
attento" in seguito) sono semplicemente modi di descrivere la
concentrazione.
La concentrazione, o l'unificaziione della
mente, é precisamente questo: prestare attenzione (in successione: al supporto,
al riflesso interno e all'impronta dell'equivalente) con piena consapevolezza e
comprensiione di ció che si fa. Il Visuddhi Magga, per sottolinearlo dice che:
La
sottigliezza di questo assorbimento, che é dovuta all'abbandono dei fattori
grossolani, richiede che il procedere della mente includa sempre le funzioni
dell'attenzione e della piena consapevolezza, come quelle presenti in un uomo
che cammina sul filo del rasoio
Per quanto riguarda l'equanimitá, che emerge a
questo livello di assorbimento, si tratta di un inizio di equanimitá, ed é
considerato parte integrante dell'espeienza di beatitudine. E' ovvio che
l'equanimitá, come stato di equilibrio emotivo e mentale, é un'esperienza di
tipo beatificante. Un'equanimitá ben sviluppata, caratterizzata da una
disposizione mentale costantemente serena, é in effetti una forma superiore di
beatitudine. Come vedremo tra vreve, quando nel quarto assorbimento si
raggiunge un livello altamente sviluppado di equanimitá, l'esperienza non é piú
descrivibile in termini di beatitudine e di piacere, e per questo motivo si
dice che tale fattore viene lí abbandonato.
Nel terzo assorbimento, comunque, la
beatitudine, insieme alla concentrazione, é ancora di importanza fondamentale e
la sua presenza a livell omentale é accompagnata da un'assai piacevole
sensazione di benessere a livello fisico. Ecco perché si dice che nel terzo
assorbimento il meditante "sperimenta la beatitudine corporea".
Nella dialettica dell'esistenza, ogni medaglia
ha peró due facce: beatitudine e sofferenza, piacere e dolore sono
contropartite inevitabili. Per cui uno stato beato, non importa quanto
intensamente piacevole o prolungato, non trascende la dualitá ed é ancora molto
lontano dallo stato di perfezione. Nella terminologia tradizionale é ancora
"grossolano". Cosí, il meditante:
Emergendo
dal terzo assorbimento, ora familiare, puó guardare le pecche in questo modo:
"Questa realizzazione risente della vicinanza della felicitá; qualsiasi
contenuto mentale di beatitudine ci sia in esso ne esprime la grossolanitá, e i
suoi fattori sono indeboliti dalla grossolanitá della beatitudine cosí
espressa". Puó allora pensare al quarto assorbimento in quanto piú quieto,
e cosí il suo attaccamento al terzo assorbimento ha fine ed egli inizia a fare
ció che é necessario per ottenere il quarto. Allorché é emerso dal terzo
assorbimento, la beatitudine o, in altre parole, la gioia mentale, gli appare
grossolana, nel momento in cui rivede i fattori di assorbimento con attenzione
e piena consapevolezza, mentre l'equanimitá, in quanto sentimento, e
l'unificazione mentale gli appaiono serene.
Su questa base il meditante inizia a lavorare
per il quarto assorbimento "con il proposito di abbandonare i fattori
grossolani {specificamente la beatitudine come gioia mentale e anche tutte le
sensazioni corporee piacevoli ad essa associate] e di ottenere i fattori di
pace [equanimitá e unificazione mentale]".
❖ 2.2.6. Il quarto stato sublime (equanimitá) in quanto atto a
conseguire il guarto assorbimento
Come per i precedenti passaggi (dal primo al
secondo e dal secondo al terzo assorbimento), la concentrazione pó essere
ancora sviluppata, o con lo stesso supporto meditativo usato in precedenza o
con un altro supporto adatto, tenendo sempre conto del fatto che non ogni
supporto é adatto per il conseguimento di tutti i livelli di assorbimento (vedi
se. 2.1 di questo capitolo).
Nel caso particolare dell'adoperarsi per
raggiungere il quarto assorbimento, peró, c'é un supporto meditativo che, per
sua propria natura, é particolarmente adatto, in vistga del fatto che
l'equanimitá é uno dei due fattori essenziali di questo assorbimento. Il
supporto é, naturalmente, il quarto stato sublime, che é appunto l'equanimitá.
Si ricorderá anche che (come indicato nel capitolo IV sezione 4.6.3., e nella
sezione 2.1 di questo capitolo) questo supporto meditativo puó essere usato
solo per conseguire il quarto assorbimento, e non per i precedenti. I vantaggi
di usare come supporto meditativo uno dei due fattori propri dello stato che si
desidera ottenere sono ovvi. Si deve ricordare, tuttavia, che per utilizzare
l'equanimitá per realizzare il quarto assorbimento, bisogna usare uno degli
altri tre stati sublimi (piuttosto che, per esempio un kasina) per raggiungere
i tre livelli precedenti.
Infatti, per poter entrare nel quarto
assobrimento usando l'equanimitá stessa come supporto meditativo, é necessario
che il terzo assorbimento sia stato ottenuto basandosi sulla benevolenza, sulla
compassione o sulla gioia altruistica come supporti meditativi. In questo caso
le cosiderazioni sulle insufficienze del terzo assorbimento vedono "il
pericolo nei precedenti tre stati sublimi perché implicano l'attenzione rivolta
agli esseri", cominciando cosí: "Che tutti possano essere felici,
perché risentono della vicinanza dei sentimenti di simpatia e antipatia e
perché la loro associazione con la gioia é grossolana". (l'equanimitáin
quanto supporto meditativo utilizzato per entrare nel quarto assorbimento, si
sviluppa secondo le indicazioni contenuta nel capitolo IV, alla sezione 4.6.3)
❖ 2.2.7. Il quarto assorbimento
Abbandonando
piacere e dolore e con la precedente sparizione di gioia e sofferenza, egli
entra e permane nel quarto assorbimento, che non ha né dolore né piacere e che
ha la purezza della presenza mentale dovuta all'equanimitá
L'ultimo fattore che ci si é lasciato alle
spalle per entrare nel quarto assorbimento é stato, come abbiamo visto, la
beatitudinje. Tuttavia, non deve sorprendere che il suo "abbandono"
si debba ora esprimere in termini di dolore e piacere, gioia e sofferenza. Il
fatto é che lo stato in cui ora si é entrati é quello in cui l'equanimitá é ben
stabilizzata, per cui si é liberi da ogni valutazione positiva o negativa di
ogni dato fisico o mentale. COme spiega il Visuddhi Magga, "piacere e
dolore" significano "piacere fisico e dolore fisico" mentre
"gioia e sofferenza" significano "piacere mentale e sofferenza
mentale". Cosí l'intera gamma delle sensazioni é coperta. Riguardo alle
ultime due, il manuale spiega che si dice che sono "precedentemente"
sparite perché, di fatto, spariscono giá prima del momento in cui si entra nel
quarto assorbimento. La sparizione di questi fattori mentali precede lo
stabilizzarsi della concentrazione per ottenere il quarto assorbimento. I
fattori fisici, invece, vengono abbandonati non appena si entra
nell'assorbimento, che si dice non abbia "né dolore né piacere"
(mentale e fisico) e comprenda solo la pura presenza mentale dovuta
all'equanimitá. Il Visuddhi Magga specifica che questa importante qualitá,
sebbene emerga pienamente solo ora, nel quarto assorbimento, é una parte
essenziale dell'intero processo di svilu[po della quiete. "L'equanimitá
esiste anche nei tre assorbimenti inferiori", dice.
Come la luna é difficilmente visibile durante il
giorno, anche quando é alta nel cielo, perché é eclissata dal maggior spledore
del sole, cosí anche l'equanimitá, presente nei tre assorbimenti inferiori, é
"eclissata dalla luce abbagiante dei fattori grossolani"; é presente
in un certo modo, ma non é abbastanza potente da non venir oscurata.
Si ricorderá che i fattori grossolani sono
l'ideazione e la riflessione per il primo assorbimento, la felicitá per il
secondo, la beatitudine per il terzo. A ogni livello superiore il fattore
"grossolano" lo é, in corrispondenza, sempre di meno (la felicitá
tende a occupare la mente meno delle attivitá mentali dell'ideazione e della
riflessione, e la beatitudine provoca minor eccitazione della felicitá).
Proseguendo con l'immagine del Visuddhi Magga si puó dire che il terzo
assorbimento é come il momento del tramonto, in cui il lieve splendore della
luna comincia ad essere visibile. Ecco perché l'equanimitá é menzionata qui per
la prima volta ("permane nella beatitudine chi possiede l'equanimitá ed é
mentalmente presente"), anche se non é ancora un fattore principale.
Con il quarto assorbimento é venuta la notte;
scomparsi i fattori oscuranti, la luna dell'equanimitá brilla in tutta la sua
purezza, che é la purezza della presenza mentale. "Ecco perché si
dice" conclude il Visuddhi Magga "che solo questo assorbimento
possiede la purezza della presenza mentale dovuta all'equanimitá".
Questo quarto assorbimento, l'ultimo di quelli
formali o di "materia sottile", é contraddistinto da un alto grado di
concentrazione e di quiete. Costituisce il punto di partenza per i quattro
assorbimenti immateriali, che rappresentano stati alttamente rarefatti di
coscienza, molto lontani da quelli a cui siamo abituati nell'esperienza
quotidiana.
❖ 2.3. Gli assorbimenti immateriali (arupa jhana)
La pratica dei quattro assorbimenti
"fondamentali", anche se fa progressi nell'eliminare le percezioni
sensoriali e gli stimoli mentali, presuppone ancora alcuni elementi materiali e
formali dovuti, in parte all anatura materiale dei supporti usati per gli
esercizi (come i kasina, il corpo, i suoi organi e gli elementi che lo
compongono, il respiro ecc.(, in parte alla natura essenzialmene concretadegli
esercizi riflessivi (come la contemplaziojne delle qualitá del buddha, del
dhamma e del sangha, o la natura e gli effetti di certe virtú o la generazinoe
mentale degli stati sublimi, compassione, benevolenza, ecc. i quali hanno
individui concreti come loro oggetto) e dovuti, comunque, alle attivitá mentali
e agli stati della mente e del corpo propri di quei livelli (attivitámentali di
ideazione e riflessione, i vari tipi di felicitá, la beatitudine,fisica e
mentale ecc.(. Ecco perche, essi sono chiamati assorbiemeti "formali"
o "di materia sottile".
I quattro ulteriori livelli di assorbimento,
invece, muovono verso stati di coscienza estremamente sottili, lasciandosi
dietro tutti gli elementi mentali e fisici, interni ed esterni, che compongono
il nostro ambiente abituale. Ecco perché vengono chiamati assorbimenti
immateriali o "senza forma".
La premessa per il loro sviluppo é, come é giá
stato sottolineato, il preedente conseguimento degli assorbimenti fondamentalio
formalifino al quarto, usando come supporto meditativo qualcuno dei nove
possibili kasina. Né il decimo kasina (spazio limitato) né alcuno degli altri
trenta supporti meditativi é adatto peró a fare da base per proseguire fino
agli assorbimenti immateriali. La ragione sta nel fatto che, dal momento che lo
scopo é di trascendere anche i piú sottili aspetti del mondo materiale, é
necessario iniziare proprio con un supporto materiale, utile per la meditazione
percettiva, e poi eliminare progressivamente tutti gli elementi materiali, come
si é visto parlando dei quattro stati immateriali (cap. IV, se. 4.7), ognuno
dei quali, infatti, é correlato con uno degli assorbimenti immateriali ed é la
sola base utilizzabile per entrarvi.
In parole semplici, solo i nove kasina (escluso
lo spazio limitato) possono essere usati per sviluppare gli stati immateriali e
solo questi stati danno accesso agli assorbimenti immateriali. Torniamo ancora
una volta al Visuddhi Magga per una spiegazione.
❖ 2.3.1. Il quinto assorbimento: la prima base immateriale (spazio
illimitato)
Il meditante che vuole sviluppare questo
assorbimento considera la natura precaria e insoddisfacente della materia
fisica in tutte le sue forme e delle relative percezioni e, per trascendere
questa condizione:
ENtra nel
quarto assorbimento con qualcuno dei nove kasina, escludendo i kasina dello
spazio limitato. Ora, sebbene egli abbia giá superato la grossolana materia
fisica per mezzo del quarto assorbimento della sfera formale, nondimeno vuole
ancora superare l'aspetto materiale dei kasina, che é la controparte [della
sfera materiale]. Come puó farlo?... Emergendo dal quarto assorbimento, ora
familiare,... ne vede il pericolo in questo modo: "Questa realizzaziione
ha come oggetto la materialitá, che é divenuta per me insoddisfacente";
"la gioia é un nemico ad essa vicino"; "E' piú grossolana delle
liberazioni serene [un altro nome per gli stati immateriali]"... Quando ha
visto il pericolo nel quarto assorbimento in questo modo e il suo attaccamento
per esso ha fine, egli presta attenzione allo spazio illimitato, in quanto
sereno.
A questo punto il meditante inizia a operare su
un qualsiasi kasina che ha scelto e procede all'estensiione del kasina nello
stesso modo descritto precedentemente e utilizzato per estendere l'impronta
dell'equivalente in connessione con gli assorbimenti formali (si veda la
sezione 2.2.2 di questo capitolo), eccetto per il fatto che, in questo caso,
l'esercizio di estensione é applicato direttamente al kasina iniziale, ciioé
all'oggertto stesso. L'estensione del kasina é seguita dalla sua eliminazione.
Quando ha
esteso il kasina fino ai limiti del mondo o fin dove desidera, rimuove il
kasina [materialitá] facendo attenzione allo spazio da esso occupato, come
"spazio" o "spazio illimitato".
La spiegazione aggiunge:
Rimuovere
il kasina... significa semplicemente che il meditante non gli rivolge né presta
attenzione, né lo riesamina, che presta attenzione invece esclujsivamente allo
spazio da esso occupato, come "spazio, spazio" e cosí si dice che
egli "rimuove il kasina".
Poi il meditante procede a sviluppare la
concentrazione, usando come segno lo spazio che rimane dopo la rimozione del
kasina, finché ottiene prima la concentrazione d'accesso e poi la piena concentrazione
dello "spazio illimitato". Cosí entra nella prima base immateriale
(che é la quinta nella serie completa degli assorbimenti).
Con il
completo superamento della percezione della metaria, con la sparizione delle
percezioni delle reazioni sensoriali e non prestando attenzione alle percezioni
della diversitá [consapevole dello] "spazio illimitato", entra e
permane nello stato che ha come base lo spazio illimitato.
❖ 2.3.2. Il sesto assorbimento: la seconda base immateriale (coscienza
illimitata)
Una volta sviluppata la prima base immateriale,
il meditante, emergendone, la riguarda nel solito modo e considera le sue
insufficienze nel senso che essa risente della prossimitá dell'assorbimento
precedente (cioé il quarto assorbimento formale) e non é serena come il
seguente, piú alto, assorbimento, che ha come fondamento la "coscienza
illimitata". Poi, lasciando la contemplazione dello spazio (spazio
illimitato), prosegue contemplando lo stesso stato di coscienza che é sorto
sulla base dello spazio. Questo é un processo in cui si diventa consapevoli
dalla consapevolezza; in cui il meditante prende come supporto meditativo la
"coscienza sorta contemplando quello spazio [cioé quella della prima base
immateriale] e rivolge ad essa un'attenzione continua in quanto 'coscienza,
coscienza' ". Perseverando in questo modo, il meditante raggiunge in
seguito la concentrazione d'accesso e la piena concentrazione della "coscienza
illimitata": "Superando completamente la base consistente nello
spazio illimitato [consapevole della] 'coscienza illimitata', entra e permane
nello stato che ha la coscienza illimitata come base".
❖ 2.3.3. Il settimo assorbimento: la terza base immateriale (il nulla)
Il progressivo abbandono dei fattori raggiunge
qui un grado molto elevato di astrazione. L'oggetto materiale (il kasina) é
stato lasciato per contemplare lo spazio da esso occupato (coscienza dello
spazio); lo spazio é stato abbandonato per concentrarsi esclusivamente sullo
stato di consapevolezza basato su di esso, cioé per contemplare l'atto di
consapevolezza in se stesso (coscienza della coscienza); ed ora anche la
coscienza é lasciata alle spalle per contemplare ció che rimane una volta che
tutto é stato rimosso: il nulla (coscienza del nulla).
Certo, si tratta di una cosa piú facile a dirsi
che a farsi o anche solo a immaginare. Infatti, abbiamo una certa dimestichezza
nel considerare intellettualmente i concetti matematici e filosofici di
"zero" e "nulla". In campo pratico, peró non sappiamo cosa
sia "l'esperienza del nulla". Né possiamo venirne a conoscenza se non
praticando questo settimo assorbimento (o esercizi simili che danno accesso
alla stessa esperrienza in altre tradizioni meditative). Il Visuddhi Magga fa
del suo meglio per darne un'idea con una delle sue immagini tipiche e
pittoresche:
Supponete
che un uomo veda una comunitá dimonaci riunita in una sala di riunioe o un un altro
luogo, e che poi se ne vada via. I monaci, dopo aver raggiunto le conclusioni
in merito al problema per cui erao conveuti, se ne vanno via. L'uomo rittorna
e, rimanendo in piedi sulla porta e guardando di nuovo quelluogo, lo vede solo
come vuoto, lo vedo solo come abbandonato e non pensa: "Molti monaci [di
quelli che erano originariamente presenti] sono morti, tanti hanno lasciato il
distretto", ma piuttosto vede solo la loro non-esistenza in questo modo:
"Questo luogo é vuoto, deserto"; anche perché egli ha visto in
precedenza - con l'occhio proprio dell'assorbimento che ha per base la
coscienza illimitata - la coscienza che nasce dallo spazio come supporto, ora
che questa coscienza é scomparsa grazie all'attenzione prestatavi...
Cominciando cosí: "non c'é nulla, non c'é nulla", egli permane
vedendo solo la sua non-esistenza, in altre parole, la sua sparizione.
La procedura per passare al livello seguente é
sempre la stessa: emergendo dal sesto assorbimento, il meditante considera le
sue insufficienze e vede che risente della vicinanza del quinto assorbimento
("spazio illimitato") che é meno sottile e meno sereno del settimo,
basato sul nulla. ALlora il meditante: "deve prestare attenzione alla
non-esistenza, al vuoto, all'isolamento", risultanti dalla cessazione
della coscienza dello spazio (che era essa stessa il supporto della
contemplazione della "coscienza della coscienza", il sesto
assorbimento). Avendo come supporto meditativo il vuoto e la non-esistenza, il
meditante vi rivolge continuamente l'attenzione in questo modo: "Non c'é
nulla, non c'é nulla", o "Vuoto, vuoto", oppure "Isolato,
isolato". Perseverando in questo modo, raggiunge la concentrazione
d'accesso e poi la piena concentrazione del nulla, e con essa il settimo
assotbimento (terza base immateriale):
Avendo
superato completamente lo stato che ha la coscienza illimitata come base,
[conscio che] "Non c'é nulla", entra e permane nello stato che ha il
nulla come base
❖ 2.3.4. L'ottavo assorbimento: la quarta base immateriale (né
percezione né non percezione)
Se il settimo assorbimento é giádifficile da
immaginare, tanto piú lo sará l'ultimo, che rappresenta uno stato alterato di
coscienza che non puó essere afferrato, comunque ci si provi, con un discorso
logico. Seguendo una logica stretta, come si puó comprendere uno stato che
implica, simultaneamente, l'assenza sia della percezione che della
non-percezione? A questo livello tutto ció che si puó dire é che bisogna sperimentarlo
di persona, che é richiesta una grande perseveranza, e che é essenziale la
guida di un maestro esperto.
Comunque, per completare quest'esame degli
assorbimenti, vediamo la corrisp[ondente sezione del Visuddha Magga sulla
procedura da seguire, che é simile a quella dei livelli precedenti.. Anche qui
il primo passo consiste nell'abbandonare lo stato giá conseguito e nel passare
a uno ancor piú astratto.
Egli deve
vedere il rischio presente nella contemplazione che ha per base il nulla e i
vantaggi di quella superiore, in questo modo: "Questa realizzazione
risente della vicinanza dello stato che ha come fondamento la coscienza
illimitata, e non é serena come lo stato che ha per base né percezione né
non-percezione", oppure in questo altro modo: "La percezione é una
malattia, la percezione é un ascesso, é una spina... Ció che é sereno, che é
sublime, é lo stato di né percezione né non-percezione". Cosí, essendo
finito l'attaccamento per lo stato che ha come fondamento il nulla, egli deve
prestare attenzione allo stato che ha come fondamento né percezione né
non-percezione, in quanto sereno. Egli rivolge continuamente l'attenzione alla
realizzazione dello stato basato sul nulla, che ha conseguito in precedenza,
avendo come supporto meditativo la non-esistenza, pensandolo come "Sereno,
sereno...". Allorché rivolge cosí la mente piú volte su quell'impronta,
gli ostacoli vengono eliminati, la presenza mentale stabilita; la sua mente
possiede la concentrazione d'accesso e coltiva quest'impronta continuamente, la
sviluppa e la pratica ripetutamente. Facendo cosí, la coscienza propria dello
stato basato su né percezione né non-percezione sorge nell'assorbimento.
In questo modo il meditante consegue l'ottavo
assorbimento (quarto stato immateriale), che viene definito come segue: Avendo
superato completamente lo stato che ha per base il nulla, entra e permane nello
stato che ha per base né percezione né non-percezione".
❖ 2.4. Nota sulla realizzazione della cessazione (nirodha samapatti)
Nella pratica della meditazione di pura quiete,
gli otto assorbimenti sono il piú alto livello di realizzazione. C'é, oltre ad
essi, uno stato non molto comune che puó essere conseguito solo da un meditante
che padroneggia completamente non solo tutti i livelli di quiete, ma anche la
pratica della visione penetrativa (che sará oggetto del prossimo capitolo). E'
uno stato di supremo assorbimento in cui le funzioni fisiologiche sono quasi
completamente soppresse, e che é noto come la "cessazione della percezione
e della sensazione (sanna vadayita nirodha) o la "realizzazione della
cessazione" (nirodha samapatti). Per conseguire questo stato é essenziale
sia aver la padronanza di tutti gli otto assorbimenti della meditazione di
quiete, che aver raggiunto uno degli ultimi due livelli di visione penetrativa
(cioé il "non-ritorno" o la "santitá" - vedi capitolo VI,
sez. 2.6.1). Ovviamente la piena padronanza di entrambe le discipline (quiete e
visione penetrativa) é estremamente rara. Inoltre, la pratica degli assorbimenti
mentali, anche se ai livelli piú avanzati, non interessa molto chi, attraverso
la visione penetrativa, ha ottenuto o é vicino a ottenere la pienezza del
nibbana. Un simile individuo ha giá abbandonato, come se fossero giochi da
bambino, tutti i rapporti con stati particolari di coscienza o esperienza di
beatitudine - non importa quanto soddisfacenti - a meno che non ci sia per essi una
giustificazione funzionale in circostanze specifiche. (Il Buddha, per esempio,
ricorreva agli stati di assorbimento per controllare la malattia e il dolore
fisico durante gli ultimi mesi di vita, al fine di poter completare il viaggio
finale che aveva intrapreso). Nondimeno, questa presentazione, non sarebbe
completa senza un breve accenno alla realizzazione della cessazione e, a tale
scopo, torniamo ancora una volta al Visuddhi Magga.
Come cosa preliminare, il meditante deve passare
tutti i livelli di assorbimento fino al settimo ed esercitare in ogni caso i
"due poteri", ovvero il "potere della quiete" per entrare e
stabilirsi in ogni assorbimento, e il "potere della visione
penetrativa" per revisionare ognuno di essi, per vedre e sperimentare
pienamente l'impermanenza, la mancanza di essenza (il non-sé) e la conseguente
insoddisfazione anche per tali sottili e serene esperienze.
Emergendo dal settimo assorbimento, il meditante
che intende raggiungere la realizzazinoe della cessazione si prepara
mentalmente in determinati modi, che includono, tra l'altro, il decidere in
anticipo quanto tempo rimarrá nello stato dicessazione (qualcosa come "puntare
la sveglia"). Egli entra allora nell'ottavo assorbimento e va direttamente
da qui alla cessazione. Mentre é nello stato di cessazione (che non puó durare
piú disette giorni al massimo), la sospensione delle funzioni vitali é cosí
completa che il meditante sembra morto. Come si dice in un discorso canonico,
in cui Sariputta, uno dei principali discepoli del buddha, istruisce un altro
monaco, la differenza é che:
Quando un
monaco é morto, ha completato il suo tempo; le sue funzioni fisiche, mentali e
verbali sono cessate e sono ferme; la sua vita é compiuta, il suo calore
estinto e le sue facoltá distrutte. Quando un monaco, invece, é entrato nella
cessazione della percesione e della sensazione, le sue strutture fisiche,
verbali e mentali sono sí cessate e sono ferme, ma la sua vita non é compiuta,
il suo calore non é estinto, e le sue facoltá sono integre.
❖ 3. Conclusione
Nel concludere questa breve esposizione della
meditazione buddista di quiete, vale la pena ricordare ció che si é detto
all'inizio del capitolo III: questa é un tipo di meditazione astrattiva che non
é differente, nelle linee essenziali, dalle tecniche usate in altre tradizioni
meditative (specialmente nell'induismo, ma anche in altre culture; la kabbalah
e le meditazioni dei sufi sono di questo tipo).
Queste erano le tecniche (eccetto la
realizzazione della cessazione) a cui si era dedicato il principa Gotama dopo
aver abbandonato il palazzo reale. Le provó e non le trovó in grado di produrre
l'illuminazione definitiva che cercava. In termini moderni potremmo dire che
trovó che esse producevano stati alterati di coscienza, ma non davano come
risultato una definitiva trasformazione della coscienza e dei suoi tratti
caratteristici. Ecco perché lasció i due grandi maestri di yoga con cui aveva
praticato e sperimentó per proprio conto. IL risultato di questa
sperimentazione fu la vipassana, la meditazione di visione penetrativa, che,
come é stato giá detto (cap. III), é la meditazione buddhista per eccellenza. I
prossimi due capitoli sono dedicati alla sua pratica e ai suoi risultati
definitivi.
❍ 6. Vipassana. Lo sviluppo
della visione penetrativa
❖ 1.
❖ 2. I fondamenti della presenza mentale (satipatthana)
❖ 2.1
❖ 2.2. La contemplazione del corpo (kayanupassana)
❖ 2.2.1. La consapevolezza del respiro
❖ 2.2.1.1. Istruzioni generali
❖ 2.2.1.2. La consapevolezza del respiro
❖ 2.2.1.3. La consapevolezza del corpo mentre respira
❖ 2.2.1.4. Calmare i processi corporei mentre si respira
❖ 2.2.1.5. Compendio della pratica
❖ 2.2.2. La consapevolezza delle posizioni dei movimenti del corpo
❖ 2.2.2.1. L'esercizio principale
❖ 2.2.2.2. La meditazione cammiknata (cankamana)
❖ 2.2.2.3. Un esercizio ausiliario
❖ 2.2.3. La chiara comprensione di ogni azione
❖ 2.2.4. La repulsione del corpo - I quattro elementi - Le
contemplazioni del cimitero
❖ 2.3. La contemplazione delle sensazioni (vedananupassana)
❖ 2.4. La contemplazione della mente (cittanupassana)
❖ 2.5. La contemplaziione degli oggetti o contenuti mentali
(dhammanupassana)
❖ 2.5.1. Stati mentali negativi e positivi: ostacoli, legami e
fattori dell'illuminazione
❖ 2.5.1.1. I cinquje ostacoli (nivarana)
❖ 2.5.1.2. Le sei basi sensoriali (salayatana) e i legami
(samyojana) che sorgono di conseguenza.
❖ 2.5.1.3. I sette fattori dell'illuminazione
❖ 2.5.2. Analisi della realtá
❖ 2.5.2.1. I cinque aggregati dell'attaccamento (upadana-khandha)
❖ 2.5.2.2. Le quattro nobili veritá (ariyasacca)
❖ 2.6. Conclusione del discorso sui fondamenti della presenza
mentale
❖ 2.6.1. Il processo di purificazione
❖ 2.6.1.1. Entrare nella corrente
❖ 2.6.1.2. La ruota delle rinascite
❖ 2.6.1.3. Il ritornare una volta sola
❖ 2.6.1.4. Il non-ritorno
❖ 2.6.1.5. Lo stato di arahant
❖ 2.6.1.6. Per riassumere
❖ 1.
Tutte le pratiche meditative, come abbiamo
ripetuto piú volte, iniziano con la concentrazione mentale. Per sviluppare la
visione penetrativa - la meditazione vipassana - si ricorderá che é sufficiente
raggiungere la concentrazione d'accesso o momentanea, senza cercare
unlivellopiú alto di concentrazione, fissa o piena. Quest'ultima é essenziale
per lo sviluppo della quiete. La natura astratta degli statik di assorbimento,
realizzati con la pratica della quiete, non si presta allo sviluppo della
visione penetrativa. Infatti ció che é necessario per raggiungere la visione
penetrativa, come si é giá detto, é precisamente l'opposto dell'astrazione; non
é un sempre piú radicale allontanamento dagli stimoli sensoriali e mentali, ma,
piuttosto, la consapevolezza ininterrotta e presente - all'interno dell'area
scelta per l'attenzione - di tutti gli stimoli, quando sorgono, per compenderne
la vera natura, attraverso un'esperienza diretta, libera da distorsioni o
illusioni. La scelta del supporto meditativo é, pertanto, particolarmente
importante; ci si deve assicurare che sia bene adatto alla pratica
dell'attenzione, libera da costruzioni mentali.
Piú della metá dei quaranta supporti meditativi
fondamentali (ventisei per la precisione) non sono indicati per la pratica
della vipassana, perché sono di tipo discorsivo - come otto delle dieci
contemplazioni e i quattro stati sublimi -, oppure perché presuppongono un
approccio astratto, che (escludento tutti i fenomeni ed eventualmente anche il
supporto iniziale stesso) non rende possibile l'apertura recettiva, essenziale
per la vipassana. Questo é il caso dei dieci kasina e, ancor di piú, dei quattro
stati immateriali.
Dei quattordici supporti rimanenti, due sono
stati menzionati come particolarmente adatti alla pratica della vipassana: la
consapevolezza del corpo ella consapevolezza del respiro. A questi due si puó
aggiungere l'analisi dei quattro elementi, le dieci decomposizioni del corpo e
la percezione della ripugnanza del nutrimento.
Nonostante il tradizionaleraggruppamento in
diversi capitoli, é immediatamente evidente che questi vari esercizi
appartengono tutti in qualche modo alla contemplazone del corpo da varie
angolazioni; per esempio, il funzionamento del corpo (respiro, postura,
movimenti, attivitá), le sue parti, le sostanze e i processi di nutrizione, gli
elementi fondamentali di cui é composto, e il corpo morto nei vari stadi di decomposizione.
Questo concentrarsi sul corpo é ben lontano
dall'essere casuale. Non si ribadirá mai a sufficienza il fatto che la pratica
della vipassana consiste nell'osservazione diligente del mondo fenomenico, cioé
nell'osservare con attenzione precisa e penetrante qualsiasi cosa stia
accadendo nel momento in cui sta accadendo -
e quale migliore campo di osservazione di questo nostro organismo sempre
presente, che é, ad un tempo e contemporaneamente, oggetto e soggetto del
processo di percezione, sperimentatore ed esperimento, osservatore e osservato?
In ultima analisi, l'unica sorgente di
informazioni, il solo strumento di lavoro per venire in contatto con l'universo
é precisamente il nostro organismo nel suo complesso - il corpo con i cinque
sensi e la mente che opera in esso, attraverso di esso. Ecco perché il Buddha
disse: "E' proprio in questo corpo, di appena due braccia di lunghezza,
con le sue percezioni e la sua mente, che vi faccio conoscere il mondo, il
sorgere del mondo, l'estinzione del mondo e il sentiero che conduce
all'estinzione del mondo".
Per questo motivo, secondo l'insegnamento del
Buddha, gli esercizi della meditazione di visinoe penetrativa sono centrati sul
corpo: iniziando con le piú ovvie percezioni fisiche e continuando attraverso l'osservazione
attenta degli aspetti fisici e mentali dell'organismo nel suo complesso, fino a
raggiungere la visione liberante, che penetra la natura radicalmente
impermanente e impersonale del processo, che costituisce ció che riteniamo
comunemente il nostro "sé" e il mondo dei nostri desideri.
❖ 2. I fondamenti della presenza mentale (satipatthana)
❖ 2.1
Le istruzioni sistematiche che il buddha impartí
ai suoi discepoli per la pratica della vipassana si trovano nel Discorso sui fondamenti della presenza
mentale (Satipatthanasutta) che
ci é pervenuto in due redazioni praticamente identiche: il decimo discorso
della Raccolta dei discorsi di media lunghezza (Majjhima Nikaha) e il
ventiduesimo della Raccolta dei discorsi lunghi (Digha Nikaya). Il secondo
testo riproduce esattamente il primo, ma con l]aggiunta di una sezione
contenente un'esposizione dettagliata delle quattro nobili veritá. Esistono
eccellenti traduzioni in italiano di entrambi i discorsi, se il lettore volesse
leggerli per esteso. Qui utilizzeró alcuni estratti dalla Raccolta dei discorsi
di media lunghezza (Majjhima Nikaya, 10), necessari per l'analisi e la
discussione, ma senza riprodurre il discorso per intero.
Il Discorso
sui fondamenti della presenza mentale é uno dei piú famosi discorsi del
buddha dal momento che costituisce la fonte principale della pratica della
meditazione di visione penetrativa, cosí come fu insegnata dal buddha in
persona. La misurata solennitá delle parole di apertura mostra chiaramente
l'importanza che egli attribuisce alle istruzioni in esso impartite:
Questo,
monaci, é l'unico cammino per purificare gli esseri, per superare pena e
lamenti, per eliminare dolore e sofferenza, per raggiungere il giusto sentiero,
per realizzare il nibbana, ovvero i quattro fondamenti della presenza mentale.
In questo discorso il maestro espone gli
esercizi della presenza mentale in relazine a quattro aree di attenzione, che
tutte insieme comprendono l'intera gamma dei processi che formano l'organismo
nel suo complesso (corpo e mente). La visione penetrativa si sviluppa e si perfeziona
per mezzo dell'osservazione attenta, non reattiva, dei processi fisici e
mentali e degli eventi mentre accadono (la retta presenza mentale come fattore
del nobile ottuplice sentiero).
Immediatamente dopo le parole di apertura appena
citate, il Buddha definisce i quattro fondamenti della presenza mentale come
segue:
COntemplazione del corpo
COntemplazione delle sensazioni
COntemplazione della mente (stati mentali)
Contemplazione degli oggetti mentali (contenuti
mentali)
La pratica della presenza mentale su questi
quattro fondamenti é poi descritta in sezioni distinte, una per esercizio, ma
pri,a il buddha vuola definire con precisione come deve essere praticata la
presenza mentale per raggiungere la visione penetrativa:
Per
questo, monaci, un monaco vive praticando la contemplazione del corpo sul
corpo, pieno di fervore, comprendendo chiaramente e con attenzione, avendo
superato la cupidigia e la sofferenza proprie del mondo; vive praticado la
contemplazione delle sensazioni sulle sensazioni,... della mente sulla
mente,... degli oggetti mentali sugli oggetti mentali, pieno di fervore,
comprendendo chiaramente e attento; avendo superato la cupidigia e la
sofferenza proprie del mondo.
Il ripetuto riferimento a praticare la
contemplazione del corpo sul corpo..., delle sensazioni sulle sensazioni...
ecc. puó sembrare dapprima eccessivo, ma la chiara comprensione di questa
affermazione é essenziale per una pratica corretta. L'essenza di questa
particolare frase é, infatti, di sottolineare che ció che deve essere praticato
é una presenza mentale pura, non reattiva, cioé una consapevolezza chiara e il
piú possibile piena di qualsiasi csa sia presente ora nell'area scelta per
l'osservazione, senza partire immediatamente per la tangente, come la mente non
concentrata tende a fare, con altre piú o meno importanti associazioini mentali
(pensieri, sensazioni, giudizi di valore, immaginazioni). Due citazioni da
altri discorsi del Buddha chiariscono molto bene questo punto:
Procedete
praticando la contemplazione del corpo sul corpo, ma non dedicatevi a una serie
di pensieri connessi con il corpo;andate praticando la contemplazioine delle
sensazioni sulle sensazioni... della mente sulla mente... degli oggetti mentali
sugli oggetti mentali, ma non dedicatevi ad alcuna serie di pensieri connessi
con le sensazioni... la mente... gli oggetti mentali.
Cosí
dovete esercitarvi: "Nel visto ci sará solo ció che é visto, nell'udito
solo l'udito, nel sentito solo il sentito, nel conosciuto solo il
conosciuto". Ecco come dovete allenarvi.
La ragione é abbastanza ovvia: nel momento in
cui iniziate a indulgere in pensieri, sensazioni ecc. sull'osservazione, non state piú osservando. Ció che questo
esercizio ,e destinato a correggere é proprio il costante distogliersi da ció
che di fatto c'é
RItorniamo ora al nostro discorso e consideriamo
separatamente i quattro fondamenti della presenza mentale nell\ordine in cui
appaiono.
❖ 2.2. La contemplazione del corpo (kayanupassana)
Come abbiamo giá visto nel capitolo IV sulla
concentrazione, ci sono diversi tipi di esercizi sulla contemplazione del corpo
che possono essere adatti in tempi diversi e per scopi diversi, a seconda delle
circostanze, del carattere e della disposizione del meditante. Uno di essi,
comunque, é di importanza fondamentale e di applicazione universale, adatto in
tutti i momenti e per tutti. E' la consapevolezza del respiro, che il buddha
raccomanda sempre in particolare per la pratica della vipassana e che, si
ricorderá, fu il metodo da lui stesso usato in occasione della sua definitiva
illuminazione.
La consapevolezza del respiro non é solo un
mezzo eccellente per concentrare la mente per procedere alla pratica vipaana o
samatha, ma é anche un esercizio completo in se stesso che"svilupparo e
ripetutamente praticato" - come il Buddha sottolineó - conduce ai piú alti
risultati. Non deve sorprendere, quindi, il fatto che la trattazione della
contemplazione del corpo come uno dei fondamenti della presenza mentale inizi
con la consapevolezza del respiro.
❖ 2.2.1. La consapevolezza del respiro
❖ 2.2.1.1. Istruzioni generali
Per prima cosa la preparazione fisica e mentale:
Monaci,
come pratica un monaco la contemplazione del corpo nel corpo? Qui, monaci, un
monaco, recatosi nella foresta, ai piedi di un albero o in un luogo deserto,
siede con le gambe incrociate, mantiene il corpo eretto e concentra
l'attenzione intorno alla bocca
La posizione a gambe incrociate (del loto o del
semi-loto), con il corpo eretto e le mani poste in grembo con le palme una
sopra l'altra - come ritratto in innumerevoli immagini - é certo una postura
tradizionale per la meditazione. Ci sono eccellenti ragioni per adottarla,
poiché é una posizione molto stabile che (posto che la spina dorsale sia
mantenuta diritta, ma non in tensione e ben bilanciata sulla pelvi) puó essere
mantenuta comodamente epr periodi molto lunghi, e inoltre perché la posizione
tranquilla e raccolta del corpo favorisce unostato della mente calmo e
raccolto. Tuttavia, se si hanno delle difficoltá, si puó adottare qualsiasi
posizione comoda, da seduti. La cosa importante é riuscire a mantenere
l'immobilitá, attenti, non tesi, per il maggior tempo possibile.
L'istruzione che dice di fisare l'attenzione
"intorno alla bocca" é stata tradotta letteralmente, esattamente come
si trova nel discorso originale in pali. Questa frase ha spesso causato
difficoltá agli studiosi e ai traduttori che - non avendo esperienza pratica
dell'esercizio - non afferravano il contenuto letterale della frase, e
pensavano si dovesse tradurre come lo stabilirsi o il sorgere
dell'"attenzione di fronte [a sé]" e l'interpretavano come una
metafora per "fissare l\attenzione sul respiro, che é di fronte", o,
piú brevemente, sul come mantenere la propria "attenzione vigile".
Per qualcuno che ha un'esperienza pratica dell'esercizio, peró, la frase
letterale é perfettamente chiara. Come spiega il famoso maestro contemporaneo
di vipassana S.N. Goenka, "intorno alla bocca" indica che l'area del
respiro include non solo la punta del naso (che é il luogo piú ovvio), ma anche
il labbro superiore, appena sotto le narici, su cui si puó percepire piú
facilmente la sensazione tattile del respiro che entra ed esce dalle narici.
Unavolta sistematosi comodamente, il meditante
inizia l'attenta contemplazione del respiro:
Attento
inspira e attento espira. Inspirando con un lungo respiro egli sa: "Io
inspiro con un lungo respiro", espirando con un lungo respiro, egli sa:
"Espiro con un lungo respiro". Inspirando con un corto respiro, egli
sa: "inspiro con un corto respiro", espirando con un corto respiro,
egli sa: "Espiro con un corto respiro". "Cosciente di tutto il
corpo, espireró - cosí si esercita. "Cosciente di tutto il corpo,
espireró" - cosí si esercita.. "Calmando i processi corporei,
inspireró" - cosí si esercita. "Calmando i processi corporei,
espireró" - Cosí si esercita.
Avrete notato che l'esercizio é diviso in tre
parti, ognuna delle quali comprende un ciclo completo di
inspirazione-espirazione:
1. Essere
consapevoli dell'atto di respirare come tale, comprendente l'inspirazione e
l'espirazione, sia lunga che breve;
2. Essere
consapevoli del corpo mentre respira: "Cosciente di tutto il corpo,
inspireró ed espireró"...;
3. Calmare i processi corporei mentre si
respira: "Calmando i processi corpori, inspireró ed espireró..."
Consideriamoli uno per uno
❖ 2.2.1.2. La consapevolezza del respiro
Si sviluppa concentrando la propia attenzione
sull'area appena menzionaa, cioé sulle narici e il labbro superiore, appena
sotto di esse. E' essenziale non tentare alcun tipo di controllo delrespiro
(contrariamete a certi esercizi yoga), ma lasciare semplicemente che il respiro
avvenga in modo naturale, qualche volta piú lento e piú profondo (lunghe
inspirazioni ed espirazioni), qualche volta piú leggero e piú veloce (brevi inspirazioni
ed espirazioni).
Il meditante non deve fare altro che fissare
l'attenzione il piú possibile sul contatto del flusso d'aria che entra ed esce
con il punto o i punti dell'area di osservazione, mantenendo su di essa la
massima concentrazione e disinteressandsi di ogni altra parte del corpo
connessa con l'azione del respirare (come gola, torace e diaframma). E' anche
molto importaente seguire ogni inspirazione ed espirazione ininterrottamente
dall'inizio alla fine, con piea consapevolezza della sua durata, intensitá,
localizzazione e delle caratteristiche della sensazione tattile che genea.
❖ 2.2.1.3. La consapevolezza del corpo mentre respira
In questa istruzione, ed anche nelle seguenti,
la parola "corpo" puó essere considerata sotto due aspetti. Secondo
gli antichi commeti, "corpo"in questo contesto significa
"l'intero corpo di aria impegnato in un'inspirazione e un'espirazine
completa". Il Visuddhi Magga, per esempio, seguando i commenti, dice:
Egli si
esercita in questo modo: "Inspireró... espireró redendo noto, rendendo
chiaro l'inizio, il centro e la fine dell'intero corpo dell'inspirazione... e
dell'intero corpo dell'espirazione". Rendendoli noti, rendendoli chiari,
in questo modo inspira ed espira con la coscienza associata alla conoscenza.
Ecco perché si dice: "Si esercita cosí: "Inspireró... espireró cosciente in tutto il corpo".
Pertanto, secondo questa tradizione di
interpretazione testuale (seguita anche da certi autori moderni), l'espressione
"cosciente di tutto il corpo" si riferisce all'esperienza attenta e
deliberata di ogni respirazione, quindi questa seconda istruzione rafforza
semplicemente la prima, sottolineando l'importanza di seguire attentamente il
corso completo di ogni respirazione.
Questa é un'interpretazione assolutamente
ineccepibile, ma, alla luce dell'esperienza pratica, non rende giustizia al
pieno significato delle istruzioni. Secondo la tradizione empirica,
specialmente quella manjtenutasi in Birmania (un paese che, insieme a Sri Lanka
e Thailandia, é depositario delle piú antiche tradizioni dell'inseggnamento del
Buddha), il precetto di esercitarsi "coscienti di tutto il corpo"
deve essere preso letteralmente e si riferisce a ció che, di fatto, é uno
stadio ulteriore della pratica. La presenza mentale, sviluppata rivolgendo
un'attenzione concentrata sull'ispirazione e l'espirazione, é ora applicata
alla contemplazione degli altri processi e fenomeni che avvengono costantemente
nel proprio corpo o, piuttosto, all'osservazione dell'insieme dei diversi
fenomeni che, a livello fisico, costituiscono ció che chiamiamo
"corpo" nel linguaggio corrente. Questo é il tipico esercizio di
vipassana, la pratica concreta per lo sviluppo della visinoe penetrativa.
Ulteriori dettagli sulla pratica attuale di questo esercizio si troveranno nelc
capitolo IX.
❖ 2.2.1.4. Calmare i processi corporei mentre si respira
Anche ibn questo caso cis sono due
interpretazioni. Secondo la tradizione testuale "calmanre i processi
corporei" significa "calmare la funzione corporea (del
respiro)". Cosí é stato tradotto nell'autorevole manuale moderno Il cuore della meditazione buddista, con
la spiegazione che "implicito in quella osservazione ci sarebbe il
desiderio e lo sforzo di calmare ancora di pú i processi mentali e respiratori
coinvolti". Visto in questo modo, si tratta essenzialmente di un esercizio
samatha, che conduce allo sviluppo della quiete.
Secondo la tradizione empirica, invece, si
tratta di calmare non solo il processo respiratorio (e i correlati mentali), ma
i processi corporei in generale. INoltre, ció é il risultato del desiderio e
dello sforzo non di raggiu nngere la calma in quanto tale, ma di sviluppare la
presenza mentale.
Calmare i processi corporei é qualcosa che
avviene naturalmente quando questi sono soggetti a una contemplazione attenta e
non-reattiva. Infatti, l'investigazione attenta e ravvicinata di questi
processi affina la consapevolezza del meditante, ed egli diviene sempre piú
conscio dei processi ed eventi che sono normalmente subliminari, cioé al di lá
della soglia della perceziione conscia di una mente non concentrata. E' un
fatto sperimentato che la comprnsione conscia dei processi anche piú sottili ha
un effetto calmente sulla mente (che
osserva il processo) e sul corpo (processo osservato). In quest'ottica,
pertanto, si tratta di un ulteriiore stadio di vipassana, in cui la visione
penetrativa é sviluppata e approfondita per mezzo della contemplazione ditetta
e stabile del corpo, e la calma ne é il prodotto conseguente.
❖ 2.2.1.5. Compendio della pratica
La prima sezione della contemplazione del corpo
finisce con un passo (che é anche ripetuto alla fine di tutte le altre sezioni)
che bisogna esaminae molto attentamente, perché riassume l'essenza degli
esercizi e della disposizione mentale necessaria per praticarli con successo:
Egli si
dedica alla contemplazione del corpo sul corpo, internamente o esternamente,
oppure sia internamente che esternamente. Continua contemplado il sorgere dei
fenomeni del corpo o contemplando lo svanire dei fenomeni nel corpo, o il
sorgere e lo svanire dei fnomeni nel corpo. Ovvero la coscienza che "c'é
un corpo" si stabilisce in lui nella misura necessaria per la conoscenza e
la presenza mentale. Egli resta indipendente, senza essere attaccato a nulla
nel mondo. Cosí, in veritá, monaci, un monaco si dedica alla contemplazione del
corpo sul corpo.
L'indicazione a contemplare il corpo
"internamente ed esternamente" o "internamente ed esternamente
insieme" é stata soggetta a varie interpretazioni. IL testo dice,
letteralmente, "internamente" ed "esternamente". Nella
tradizione empirica la si considera una spiegazione del metodo specifico usato
per sviluppare la presenza emntale, avendo tutto il corpo come oggettodi
meditazione. INfatti, nella pratica vipassana il meditante esamina il corpo
metodicamente, con attenzione concentrata, senza tralasciarne alcuna parte,
pertr diventare conscio di qualsiasi sensazione ci sia momento per momento.
Questo esame inizia con la superficie del corpo (per osservare le sensazioni di
superficie) e prosegue in profonditá (cioé dentro la massa corporea, per
osservare le sensazioni interne). Entrambe le varianti vengono poi praticate di
volta in volta alternando all'esame di
superficie ("esternamente", perché al di fuori del corpo) l'esame in
profonditá ("internamente"). Quando l'abilitá del meditante si é
sviluppata, mentre aumentano la chiarezza e la finezza delle percezioni, puó
venir praticato l'esercizio della consapevolezza dell'intero corpo, che comporta
la percezione simultanea delle sensazioni di superficie e di quelle profonde
("sia internamente che esternamente").
La tradizione testuale, invece, seguendo gli
antichi commenti, ritiene che "internamente" si riferisca alla
contemplazione del proprio respiro ed "esternamente" alla
contemplazione del respiro di qualcun altro: "Secondo la prima parte delle
'istruzioni', ogni singolo esercizio deve essere applicato per prima cosa su se
stessi, poi sugli altri (in generale oppure su una determinata persona appena
osservata), e finalmente su entrambi".
Di fatto, non bisogna considerare le due
interpretazioni come contraddittorie, ma piuttosto come complementari nel senso
che sono entrambe praticabili e utili per lo sviluppo della visiione
penetrativa. L'esercizio fondamentale, certo, é quello condotto sul proprio
organismo: sviluppare la chiara, attenta comprensiione del fenomeno in se
stesso, in sujperficie e in profonditá. E' un fatto, comunque, c`he quando é
stata sufficientemente sviluppata la finezza della percezione, il praticante é
capace di percepire il sorgerte e lo svanire dei fenomeni, non solo in se
stesso, ma anche negli alltri. Puó, per cosí dire, sintonizzarsi con ció che
sta loro accadendo.
Una interpretazione supplementare é stata
recentemente proposta dall'orientalista Ramiro Calle, secondo cui i termini
"internamente" ed "esternamente" denotano i diversi livelli
esperienziali della pratica meditativa. Quando contempla
"internamente", il meditante é ancora vicino alla disposiione
soggettiva tipica delle esperienze quotidiane. Percepisce: "Sto
contemplando il corpo" (o, in seguito, se sensazioni, la mente ecc.). Man
mano che il processo di "dis-identificazione" da questa concezione
illusoria dell'"io" progredisce, si raggiunge la contemplazione
ogogettiva. Ovvero non si identifica piú l'atto percettivo con un
"io" osservante, ma se ne ha esperienza "esternamente",
come un processo che osserva e chbe ha per oggetto un processo osservato
(corpo, sensazioni ecc.). Infine, anche questa dualitá atto percettivo/oggetto
percepito sparisce: "sia internamente che esternamente" denota allora
gli aspetti simultanei di una singola esperienza meditativa che non comporta
piú una distinzione tra soggetto e
oggetto.
Per tornare al passo che stiamo esaminando>
dopo averci detto come contemplare,
le sitruzioni specificano cosa é, di
fatto, contemplato, e qujesto é molto importate. E' il nascere e lo svanire dei
fenomeni. Lo scopo che ci si prefigge é, quindi, di sviluppare la
consapevolezza piú piena e piú chiaia possibile dell'incessante fluttuare deii
fenomeni osservati, che rivela la loro natura instabile e impermanente:
"Transitori sono tutti gli elementi dell'essere". Ogni momento di
quella che consideriamo come la "nostra" esistenza, la "nostra"
vita, é una corrente di eventi istantanei che nascono e svaniscono
continuamente. A livello fisico, che é quello che ora ci concerne, é cosa ben
nota che milioni di callule, costituenti i tessuti viventi del nostro corpo, si
decompongonno o vengono distrutte ogni giorno e sono sostituite da altre,
egualmente transitorie, cosicché, a ogni istante, ci sono letteralmente milioni
di "morti" e "nascite" che avvengono nei nostri corpi e
nessuno dei componenti cellulari della presente struttura c'era pochi anni fa o
ci sará tra pochi anni (o, in qualche caso, tra pochi momenti). Questo avviene
a livello fisico. Ma anche a livello mentale, quanti pensieri formulati piú o
meno chiaramente ci balenano in mente a ogni momento? Quante volte al giorno la
nostra attenzione e le nostre aspettative, gli stati mentali, fluttuano e
cambiano, spesso con una rapdiitá sconcertante?
Il meditante, attraverso un'osservazione
ravvicinata del corpo, sperimenta il nascere e lo svanire dei fenomeni e
acquista la consapevolezza che "c'é un corpo" nella misura necessaria
per la conoscenza e la presenza mentale. Ora, qual é il precisoo significato di
quest'ultima frase? Semplicemente che l'esperienza conscia di quei molteplici
processi che chiamiamo "Corpo" viene sviluppata avendo come scopo
esclusivo la contemplaziione attenta, senza farsi tentare da riflessioni,
speculazioni, immagini, desideri, specanze, paure o da qualche altra
costruzione mentale o impulso emotivo in relazione con questo
"corpo", la sua identitá, la sua durata, passata e futura, le sue
ipotetiche relazioni con un'anima, un sé o una personalitá ecc. Questo é ció
`he si vuole significare con "praticare la contemplazione del corpo sul
corpo" E la conoscenza cosí ottenuta é la comprensione, attraverso
l'esperienza diretta, della natura instabile e impermanente dei fenomeni di cui
esso é composto. Come dice il venerabile Nyanaponika:
"Il corpo esiste", "la sensazione
esiste" ecc., ma non un sé separato, non un'anima o una personalitá
durature. Queste parole del testo indicano i risultati nei termini della
visione penetrativa, cioé della visione realistica delle cose cosí come sono
Mi sono soffermato su questo passo per la sua
grande importanza come compendio dello scopo e del significato della pratica
dei fondamenti della presenza mentale. questo é chiarito molto bene all'interno
dello stesso discorso dal fatto che il compendio é ripetuto per intero, non
solo alla fine di ognuno degli esercizi di contemplazione del corpo,ma anche
nelle sezioni sugli altri tre fondamenti della presenza emntale (solo con i cambiamenti
necessari per introdurre i riferimenti appropriati a "sensazioni",
"mente" e "oggetti mentali"). E' cosa abbastanza naturale,
visto che é proprio della natura di tutti i fenomeni - sia fisici che mentali -
l'essere transitori, e ció che si ricerca é precisamente la piena comprensione
di questo fatto.
Procediamo con l'analisi del discorso. Come é
stato ripetutamente sottolineato, l'esercizio della consapevolezza del respiro
é essenziale e il piú usato per conseguire la visione penetrativa. Ecco perché
viene per primo nel discorso e perché vi ho dedicato piú tempo rispetto a
quello che riserveró ai rimanenti esercizi sulla cotenplazione del corpo, che
ora tratteró. Tuttavia va sottolineato che anche questi altri esercizi sono
molto efficaci o benefici, sia usati con l'attenzione al respiro che come
alternativi a essa, a seconda della persona e delle circostanze.
❖ 2.2.2. La consapevolezza delle posizioni dei movimenti del corpo
E ancora,
monaci, un nonaco quando cammina riconosce: "Sto camminando"; quando
sta in piedi riconosce: "Sto in piedi"; quando sta seduto riconosce:
"Sto seduto"; quando giace riconosce: "Sto giacendo".
Qualsiasi posizione assuma il corpo, egli la riconosce.
Lo scopo qui, come negli altri esercizi, é
raggiungere la piena consapevolezza di ogni azione o esperienza nel momento in
cui avviene e non facendo le cose piú o meno automaticamente, come avviene
nella maggior parte dei casi, mentre si pensa a qualcos'altro. Nulla dovrebbe
accadere "automaticamente", nulla dovrebbe passare inosservato. Si
deve mantenere una presenza mentale non fluttuante. In questo esercizio la
presenza mentale é diretta alle posizioni fondamentali del corpo e all'azione
del camminare, che sono sicuramente, fra le attivitápiú comuni e automatiche
svolte nella nostra vita quotidiana.
❖ 2.2.2.1. L'esercizio principale
L'esercizio principale consiste nell'osservare
con scrupolosa attenzione il cambiamento delle posizioni del corpo, i suoi
movimenti e le sensazioni che li accompagnano (dalle piú ovvie alle piú
sottili) e c`he continuamente nascono e svaniscono nell'organismo. La procedura
é simile a quella dell'esercizio precedente di essere "cosciente di tutto
il corpo" mentre si respira, con la differenzaa peró che, in questo caso,
non si parte dal respiro, ma si procede direttamente all'osservazione del
corpo.
❖ 2.2.2.2. La meditazione cammiknata (cankamana)
Il camminare attento é usato frequentemente come
esercizio fomdamentale nella meditazione vipassana (e molto spesso anche in
alternanza con periodi di meditazione seduta - si veda la sez. 2.2.2.3
seguente). Nei monasteri buddisti o nei centri di meditaziine, specialmene nel
sudest asiatico, si trovano spesso "passeggiate per la meditazione" o
"verande di meditazione", luoghi creati appositamente per la
meditazione camminata (cankamana). Queste passeggiate sono diritte, con il
terreno livellato e uniforme, affinché il meditante non sia distratto dai
cambiamenti di direzione o da irregolaritá della superficie quando va avanti e
indietro,l concentrandosi sui movimenti del camminare. La meditazione camminata
non dovrebbe essere troppo corta (non meno di venti passi), perché anche
cambiare troppo frequentemente direzione puó distrarre; ma non dovrebbe essere
troppo lunga, specie per un principiante, perché é difficile mantenersi attenti
per un percorso troppo esteso. La lunghezza normale é di circa trenta, quaranta
passi, sebbene qualche camminata possa eccezionalmente arrivare a sessanta.
Ci sono diverse scuole di pensiero circa il modo
di camminare. ALcuni maestri insegnano una camminata molto lenta, dividendo
ogni passo in sei movimenti (alzare il piede - muoverlo in avanti - muoverlo
piú avanti- abbassarlo - toccare il pavimento - caricare il peso); altri
raccomandano tre suddivisioni (alzare e avanzare - abbassare e posare a terra).
Infine, ci sono maestri che raccomandano di muoversi a una velocitá misurata,
che é piú o meno quella di una normale passeggiata fatta senza affrettarsi,
sottolineando che in questo modo é piú facile imparare ad applicare la presenza
mentale mentre si cammina nella vita di ogni giorno, ossia al di fuori dei
periodi di meditazione formale. Questi stessi maestri accordano anche maggior
libertá nella scelta delle fasi del movimento da prendere in considerazione,
lasciando allo studente la scoperta degli aspetti verso cui la sua attenzione si
rivolge piú naturalmente.
Alcuni
noteranno il contatto del piede con la terra, altri i movimenti delle gambe e
cosí via. All'inizio é bene stare attenti in generale all'intero processo del
camminare, in seguito la mente isolerá qualcosa di interessante che deve essere
investigato
Quali che siano i dettagli dei metodi usati, la
procedura fondamentalec consiste sempre nel camminare avanti e indietro lungo
l'intera lunghezza del percorso,fermandosi un momento alla fine diogni lato per
controllare la concentrazione della mente prima di girarsi. Le mano sono
normalmente incrociate davanti al corpo e gli occhi, abbassati, guardano il
suolo a una distanza di non piú di un metro o un metro e mezzo. Lo scopo
dell'esercizio é sempre lo stesso: l'osservazione attenta dei processi corporei
e dei fenomeni, cosí da percepire le loro continue fluttuazioni con crescente
chiarezza a livelli sempre piú sottili
❖ 2.2.2.3. Un esercizio ausiliario
La meditazione camminata é talvolta usata come
esercizio ausiliario nei corsi intensivi di meditazione (in cui i praticanti
trascorrono dalle quindici alle venti ore al giorno in meditazione),
alternandola con sessioni di meditazione sedua, dedicate alla consapevolezza
del respiro o del corpo in generale.Ció rende possibile introdurre alcune
varianti e permette di fare del movimento senza interrompere la continuitá
della presenza mentale.
L'attenzione alle differenti posizioni del corpo
(in piedi, seduti, distesi), puó anche essere usata come un esercizio
ausiliario, alternandolo con qualsiasi esercizio fondamentale sia stato scelto
(piú comunemente, la consapevolezza del respiro o anche uno degoli altri
esercizi sulla contemplazione del corpo), sempre con lo scopo di permettersi
alcune variazioni senza interrompere la continuitá della presenza menale.
La presenza mentale non é peró qualcosache va
esercitato solo durante il corso della meditazione formale. Dovrebbe, al
contrario, permeare sempre di piú l'intera esistenza del meditante. Si
raccomanda quindi di essere sempre, nella vita quotidiana, ilpiú attenti
possibile alle posizioni delcorpo e ai movimenti, compatibilmente col grado di
concentrazione specifica richiesta da ció che si sta facendo. Quando si ,e
impegnati in qualche attivitá di tipo intellettuale (matematica, logico-verbale
ecc.), l'attenziione alle attivitá del corpo passerá ovviamente al secondo
posto. Anche allora, comunque, si puó imparare a mantenere la consapevolezza,
per esempio, della sensazione delle naiche sulla sedia, dei piedi sul pavimento
o della penna tra le dita, mentre si lavora su una fornula matematica o si
scrive un saggio. Il mantenimento di un livello generalizzato di presenza
mentale durante le attivitáquotidiane, a parte gli immediati benefici poiché
rende vigili, facilita l'immersione, quando viene il momento, nella pratica
formale, quando viene il momento, e ne migliora la qualitá.
❖ 2.2.3. La chiara comprensione di ogni azione
Questo esercizio é un'espansione di ció che é
stato appena detto:
E ancora,
monaci, un monaco, nel camminare avanti e indietro, esercita la chiara
comprensione, nel guaredare innanzi o altrove..., nel chinarsi e
distendersi..., nel vestirsi e nel portare la ciotola delle elemosine..., nel
mangiare, bere, masticare e gustare..., nel defecare e orinare..., nello stare
in piedi e seduto, nel dormire, svegliarsi, parlare o stare zitto esercita la
chiara comprensione.
Come si vede, in questo esercizio non si presta
attenzione solo alle disposizioni del corpo e ai movimenti, ma anche agli atti
abitudinari del vivere quotidiano come mangiare, bere, evacuare, uscire per
procurarsi il cibo (che questo sia fatto prendendo la ciotola delle elemosine o
prendendo una borsa per la spesa per andare nei negozi, é, da questo punto di
vista, irrilevante); andare a dormire la notte, svegliarsi la mattina e tutte
le altre innumerevoli cose che facciamo ogni giorno, senza osservarle attentamente.
Oltre ad ampliare la sfera di azione della presenza mentale, questo esercizio
introduce un ulteriore elemento, descritto come "chiara
comprensione". questa é complementare, a livello intellettuale,
dell'osservazione diretta a livello percettivo. Quando la meditazione é
praticata come unica occupazione in posizione di immobilitá, sia seduti che in
piedi o supini, é infatti possibile esercitare la pura presenza mentale
percettiva. Ció é anche possibile - agli effetti pratici - durante un periodo
di meditazione formale camminata. Ma non é piú cosí quando si tratta di
attivitá piú complesse che implicano non solo una varietá di atti percettivi e
motori, ma anche elementi come l'intenzione, il giudizio, il prendere decisioni
ecc. Pensate, per esempio, a tutto ció che comporta ilsemplice atto di mettersi
un pezzo di cibo in bocca: prendere coltello e forchetta, tagliare il pezzo,
portarlo alla bocca, aprire la bocca, introdurre il pezzo ecc. La realizzazione
del piú semplice compito coinvolge necessariamente la volontá e l'intelletto
(bisogna identificare l'attivitá, scegliere i mezzi opportuni per svolgerla, e
poi si realizzano i vari stadi dell'attivitá verificando se i risultati
desiderati sono stati raggiunti e cosí via). Dedicando a questi componenti
mentali lo stesso tipo di deliberata attenzione prestata ai semplici dati
sensibili nell'esercizio appena descritto,l si sviluppa una chiara comprensione
dello scopo di ogni azione,del miglior modo di raggiungere quello scopo - sia
riguardo ai mezzi9 che alla loro applicazione - e dell'esatta natura di ogni
atto. Si puó ora comprendere meglio perché le istruzioni iniziali concernenti
la pratica (sez. 2.1 di questo capitolo) specifichino che il meditante permane
"pieno di fervore" (cioé praticando con tutto il necessarioentusiasmo
e applicazione), "comprendendo chiaramente con attenzione".
❖ 2.2.4. La repulsione del corpo - I quattro elementi - Le
contemplazioni del cimitero
Il discorso prosegue con tre varianti sulla
conemplaziione del corpo che sono giá state enzionate nel capitolo IV sulla
concentrazione. Alla luce di ció ch e é stato detto, non é necessario
discuterle ulteiormente tranne per ricordare che, a parte essere utili come
supporti per la concentrazione, questi esercizi sono particolarmente adatti a
controi=bilanciare l'eccessivo attaccamento all'apparenza fisica e al godimento
sensuale, poiché focalizzano l'attenzione sugli aspetti piú impressionanti del
carattere precario e spesso persino ripugnante dei processi e delle funzioni
corporee, e sulla natura profondamente impersonale degli elementi che
compongono l'organismo.COme nelle sensazioni precedenti, ognuno di questi tre
esercizi che completano la gamma delle contemplazioni del corpo descritte nei
discorsi, finisce con un compendio della pratica e ricorda sempre che il
meditante:
Si dedica
alla contemplazione del corpo sul corpo, internamente o esternamente, o sia
internamente che esternamente. Si dedica a contemplae il sorgere..., lo
svanire... sia il sorgere che lo svanire dei fenomeni del corpo.Ovvero
laconsapevolezza che "C'é un corpo" si stabilisce in lui nella misura
necesaria per la conoscenza e la presenza mentale.
❖ 2.3. La contemplazione delle sensazioni (vedananupassana)
E in che
modo, monaci, un monaco si dedica alla contemplazione delle sensazioni sulle
sensazioni? In questo: quando prova una sensazione piacevole, il monaco sa:
"Sperimento una sensazione piacevole". Quando prova una sensazione
dolorosa, sa: "Sperimento una sensazione solorosa"; Quando sperimenta
una sensazione né piacevole né dolorosa, cioé neutra, sa:
""Sperimento una sensazione neutra". Quando sperimenta una
sensazione che si riferisce alle esperienze di una vita ordinaria piacevole...
dolorosa... o neutra, sa: "Sperimento una sensazione mondana piacevole...
dolorosa o neutra"; quando sperimenta una sensazione piacevole...
dolorosa... o neutra che si riferise a cose spirituali, sa: "Sperimento
una sensazione piacevole... spiacevole... o neutra che si riferisce a cose
spirituali".
Si deve chiaramente comprendere che la
psicologia buddista tradizionale identifica sei sensi nell'essere umano, i
cinque sensi corporei piú la mente. La mente, infatti, oltre a essere una
facoltá che riceve e identifica i dati forniti dai sensi corporei, puó essere
consderata un senso in piú, con i suoi dati specifici: percepisce e osserva
direttamente (cioé senza la mediazione dei sensi corporei) tutto ció che accade
a livello strettamente mentale e affettivo - idee, volizioni, emozioni ecc.
Quindi, poiché la mente é cosiderata un senso in piú, nella tradizione
buddista, le "sensazioni" includono l'intera gamma delle impressioni
tanto di origine fisica (percepite dai cinque sensi corporei) che di origine
mentale (percepite direttamente dalla mente) e che sono identificate e valutate
dalla funziione discriminante della mente stessa.
La contemplazione del corpo é giá in realtá una
comtemplazione delle sensazioni corporee poiché, come abbiamo appena visto, la
contemplazionedel corpo consiste nell'osservazione attenta delle sensazioni che
sorgono. La differenza sta nel fatto che, nella contemplazione del corpo pura e
semplice, l'attenzione é concentrata strettamente sul riconoscimento o
l'identificazioine dei dati senza alcun giudizio di valore. Nell'esercizio
specifico della contemplazione delle sensazioni, invece, l'area di osservazione
é ampliata fino a includere le "sensazioni mentali" (appena
definite), e l'oggetto di osservazione é, precisamente, l'attivitá valutatrice
della mente.
Il processo di valutazione, la classificazione
mentale di una sensazione corporea odi un pensiero (sensazione mentale) come
"piacevole", dolorosa, "neutra",é qualcosa che facciamo
conteinuamente automaticamente e con reazione immediata, in ogni mometo della
nostra vita da svegli (e anche nei sogni). Noi agiamo o, piuttosto, reagiamo di
conseguenza, in un modo ugualmente automatico -
specialmente a livello fisico -
per evitare qualsiasi cosa dolorosa o spiacevole, pe liberarcene o per ottenere e mantenere ció
che é piacevole, mentre tendiamo a considerare con indifferenza i dati neutri.
Lo scopo della meditazione (vipassana), qui come negli altri esercizi, é
rendere non automatiche le reazioni e sviluppare la presenza mentale. Il
meditante focalizza l'attenzione sui processi di vautazione cosí da diventare
pienamente consapevole della qualitá delle sensazioni percepite (piacevoli,
dolorose o neutre), coié del preciso giudizio di valore che ha formulato, senza
reagire. La reazione é sempre dovuta al desiderio (volere ció che sembra - cioé
é percepito e valutato come - buono e
non volere ció che sembra cattivo), all'attaccamento che nasce da una errata
comprensione della vera natura dell'esperienza. Citiamo ancora dall'autorevole
manuale del venerabile Nyanaponika:
Se, nel
ricevere un'impressione sensoriale, si é capaci di fare una pausa e di fermarsi
alla fase della sensazione e di rendela, proprio nel suo primo statio di
manifestazione, oggetto della pura attenziione, la sensazione non sará piú in
grado di dare origine alla brama o ad altre passioni. Essa si fermerá ai
semplici giudizi di "gradevole", "sgradevole" o
"neutro", dando alla chiara cmprensione il tempo di entrare in azione
e di decidere sull'atteggiamento o sull'azione da adottare. Inoltre, se si
osserva, dimorando nella pura attenzione, la produzione condizionata della
sensazione, il suo graduale dileguarsi e il suo dar luogo a un'altra sensazione
[cioé il sorgere e lo svanire dei fenomeni], si constaterá con la propria
esperienza che non c'é assolutamente alcuna necessitá di essere trascinati da
una reazione passionale, che dará inizio a una nuova concatenaziione di dolore.
Ecco come il meditante pratica la contemplazione
delle sensazioni sulle sensazioni, allo stesso modo in cui pratica la
contemplazione del corpo sul corpo, senza aggiungere nulla, senza elaborazioni,
attenendosi sempre all'esperienza del momento e ottenendo cosí una sempre piú
chiara e piena comprensione della natura impermanente e impersonale di tutti i
fenomeni.
Il riferimento a sensazioni mondane e spirituali
richiede qualche delucidazione. Lesensazioni mondane sono quelle che sorgono in
connessione con tutti gli avvenimenti e le esperienzed della vita ordinaria -
le soddisfazioni e i piaceri, le noie e i dolori,l o gni stati mentalie fisici
indifferenti che sperimentiamo ogni giorn o. Le sensazioni spirituali sono
quelle che sorgono in relazione agli sforzi, alle soddisfazioni e
insoddisfazioni proprie di chi persegue l'autorealizzazione attraverso lo
sviluppo della meditazione; per esempio, la felicitá e la beatitudine che
sorgono nel primo assorbimento, le fasi di inerzia, scoraggiamento e ansietá, o
lo slancio e l'entusiasmo che possono talvolta presentarsi ecc.
La sezione sulla contemplazione delle sensazioni
si chiude con l'importante compendio della pratica, che é giá stato trattato
dettagliatamente rispetto alla consapevolezza del respiro (sez. 2.2.1.5. di
questo capitolo).
❖ 2.4. La contemplazione della mente (cittanupassana)
E in che
modo, monaci, un monaco si dedica alla contemplazione della mente nella mente?
Cosí: un monaco riconosce lamente dotata di brama comem dotata di brama;
riconosce la mente priva di brama come priva di brama; la mente offuscata
dall'odio come offuscata dall'odio; la mente priva di odio come priva di odio;
la mente distorta dall'illusione come distorta dall'illusione, la mente priva
di illusione come priva di lllusione; la mente trattenuta come trattenuta; la
mente turbata come turbata; la mente sviluppata come sviluppata; lo stato
mentale non evoluto come non evoluto; la mente superabile come superabile; la
mente insuperabile come insuperabile; la mente concentrata come concentrata; la
mente non concentrata come non concentrata; la mente liberata come liberata; la
mente non liberata come non liberata.
In questa contemplazione, l'attenzione é rivolta
agli stati mentali. Proprio come nella contemplazione delcorpo i processi
corporei sono soggetti a un'osservazione attenta e non reattiva per sviluppare
una crescente percezione che penetri negli eventi molto sottili e normalmente
non pecrcepibili, cosí lo stesso tipo di
osservazione é ora applicato agli stati mentali. Lo scopo é di vedere
chiartamente, momento per momento, lo stato esatto e le condizioni in cui si
trova la mente in quel determinato istante.
Questo puó essere l'esercizio principale per lo
sviluppo della visione penetrativa, ma é anche molto utile come aiuto nella
pratica della contemplazione del corpo e delle sensazioni. Infatti é essenziale
nei primi livelli di queste pratiche, in quanto é un mezzo per evitare rotture
nella continuitá dell'attenzione cosciente. In effetti, praticando la
contemplazione del corpo e delle sensazioni, ogni volta che la mente si distrae
dalla stretta concentrazione sul corpo o sulle sensazioni (quando sorgono
pensieri, associazioni di idee, emozioni), il meditante dovrebbe rivolgere
immediatamente e temporaneamente, la propria attenzione allo stato mentale che
sta nascendo, non per seguirlo ulteriormente, ma, al contrario, semplicemente
per notarlo consapevolmente, abbandonarlo e poi tornare immediatamente, con piena
coscienza, alla contemplazione del corpo. Questo "prendere nota" é
una contemplazione momentanea della mente e il suo scopo é di prevenire la
rottura della continuitá dell'attenzione che altrimenti si verificherebbe se la
mente vagasse "inosservata" (come spesso accade nella vita
quotidiana, quando ci si accorge d'un tratto di aver per qualche tempo pensato,
sognato o avuto emozioni su qualcosa di piú o meno estraneo a ció che si stava
facendo). Facendo della mente vagante, cioé degli stati mentali che sorgono, un
oggetto momentaneo di consapevolezza attenta, si mantiene l'integritá della
presenza mentale, che consiste nell'essere sempre pienamente consapevoli di ció
che c'é ad ogni istante.
A parte la sua utilitá nella meditazione
formale, la contemplazione della mente o degli stati mentali ha anche dei
vantaggi evidenti come mezzo per sviluppare l'autoconoscenza attraverso
l'introspezione calma e spassionata. Inoltre, l'abitudine a "prender
nota" immediatamente dei pensieri ecc. che sorgono durante l'esercizio di
meditazione, una volta ben radicata, puó anche essere usata con considerevole
vantaggio in molte situazioni del vivere quotidiano, in cui troppo spesso
tendiamo a reagire senza riflettere. Per esempio l'usuale reazione indignata
contro un appunto spiacevole di qualcuno puó essere neutralizzata prendendo velocemente nota
della "mente indignata" appena la prima reazione divampa in noi.
Questo "prendere nota" attento e distaccato, prevendndo
un'identificazione irriflessiva con l'impulto emotivo, aiuta a mantenere
l'equilibrio mentale e rende cosí possibile rispondere a ció che
originariamente era stato percepito come aggressione in modo oggettivamente piú
adeguato, cosí da calmare la situazione, piuttosto che aggravarla.
Anche questa sezione si chiude col
"Compendio della pratica" e ció che si é detto su tale tema nella
precedente sezione 2.2.1.5. é ugualmente valldio qui, eccetto che l'oggetto
primario della pratica sono ora (sia in questo che nell'esercizio seguente) la
mente e le sue attivitá piuttosto che il corpo e le sue sensazioni. I due
oggetti sono, tuttavia, strettamente correlati. L'istruzione di contemplare
"internamente, esternamente o internamente ed esternamente" ha
implicazioni sia fisiche che mentali. AL livello fisico ci si riferisce alla
consapevolezza delle sensazioni che sorgono in connessione con gli stati
metnali, i pensieri ecc. (per esempio in presenza di un'eccitazione mentale, si
divrebbe essere chiaramente coscienti della simultanea acceleraziione del
battito cardiaco o dei cambiamenti della respirazione ec.). A livello
strettamente mentale si deve comprendere che gli stati mentali (o,
nell'esercizio seguente, i contenuti mentali) sono, da una parte, percepiti in
se stessi (9nternamente), negli altri (esternamente) o in ambedue
simultaneamente, e dall'altra, come esperienze a livello soggettivo, oggettivo
o unificato (che trascende cioé la distinzione soggetto/oggetto).
❖ 2.5. La contemplaziione degli oggetti o contenuti mentali
(dhammanupassana)
I contenuti mentali o oggetti dell'attivitá
mentale sono, certo, innumerevoli. Tutti glioggetti della conteplaziione che
abbiamo visto finora sono, nella misura in cui la mente se ne occupa, contenuti
mentali: la percezione dei processi materiali, le valutazioni positive,
negative o neutre delle sensazioni, gli stati mentali considerati come oggetti
dela consapevolezza attenta. A questi si aggiungono ora altre categorie che
sono di natura strettamente mentale, come i concetti che usiamo nel cercare di
costruire una coerente visione del mondo, i meccanismi logico-verbali con cui
analizziamo il flusso dei dati mentali in entrata, gli ideali di condotta e di
conoscenza che sviluppiamo intellettualmente sulla base della nostra percezione
di ció che costituisce la realtá e cosí via.
In questa grande varietá il Buddha - in base
allo scopo del discorso - scelse cinque gruppi che hanno particolare importanza
per lo sviluppo della visione penetrativa. Essi sono:
1. I cinque ostacoli
2. I cinque aggregati dell'attaccamento;
3. I sei sensi, con i loro rispettivi oggetti
(conosciuto tradizionalmente come le "sei basi sensoriali interne e le sei
basi sensoriali esterne") e i vincoli mentali che ne sorgono di
conseguenza;
4. I sette fattori dell'illuminazione
5. Le quattro nobili veritá
La prima e la quarta di questa categorie
appartengono in realtá alla conemplazione degli satati mentali, ma nondimeno
sono incluse in questa ultima sezione del discorso perché, come vedremo, qui
l'esercizio va oltre la pura osservazione attenta e coinvolge una cosciente
attivitá mentale per eliminare quei fattori che impediscono la visione
penetrativa e per promuovere quelli che sono favorevoli al suo sviluppo.
Il secondo e il quinto gruppo appartengono
interapente alla categoria propria degli oggetti mentali, rappresentando
aspetti diversi dell'analisi buddista della realtá, sempre con lo scopo
specifico di sviluppare e perfezionare la visione penetrativa. IL terzo gruppo
ha un duplice aspetto: da una aprte partecipa dell'approccio analitico poiché
tratta dei meccanismi della percezione sensibile (i sei sensi della psicologia
buddista, cioé i cinque sensi corporei piú la mente) attraverso cui riceviamo e
interpretiamo i dati di ció che definiamo "realtá"; Dall'altra
comporta sia l'osservazione che il rapporto con gli stati mentali in quanto si
riferisce alle conseguenze della percezione nella psiche umana (i
"legami", nei termini tradizionali) che nascono dall'azione dei
meccanismi percettivi.
Andiamo ora a esaminare questi distinti
elementi, non nell'ordine in cui appaiono nel discorso, ma piuttosto - per
maggiore facilitá di esposizione -
raggruppandoli in due categorie: gli stati mentali positivi e gli stati
mentali negativi - 1., 3. 3 4. - e l'analisi della realtá - 2. e .5. Le sei
basi sensorial e i conseguenti legamik -
3. - stanno nella prima piujttosto che nella seconda categoria perché, per lo
sviluppo della visione penetrativa, la cosa piú importante é l'impatto pratico
della percezione a livello mentale, cioé i legami della mente.
❖ 2.5.1. Stati mentali negativi e positivi: ostacoli, legami e fattori
dell'illuminazione
❖ 2.5.1.1. I cinquje ostacoli (nivarana)
Qui,
monaci, un monaco si dedica alla contemplazione degli oggetti mentali sugli
oggetti mentali dei cinque ostacoli. E in che modo pratica la contemplazione?
Cosí, monaci, quando il desiderio sensuale é presente in lui, il monaco sa:
"C'é desiderio sensuale in me"; o quando il desiderio é assente egli
sa: "Non c'é desiderio in me". Egli sa come avviene il sorgere del
desiderio sensuale non [ancora] sorto; egli sa come avviene il distacco dal
desiderio sensuale che é sorto e sa come avviene il non-sorgere, nel futuro,
del desiderio sensuale da cui si é distaccato. Quando l'avversione é presente
in lui... quando pigrizia e torpore... quando agitazione e ansia... sono
presenti in lui..., quando il dubbio é presente in lui, il monaco sa: "Ci
sono in me avversione..., pigrizia e torpore..., agitazione e ansia..., dubbio;
sa come avviene il distacco [da questi ostacoli quando sono sorti]; ed egli sa
come avverrá il non-sorgere, nel futuro, [degli ostacoli da cui si é
distaccato].
Gli ostacoli - desiderio sensuale, avversione,
pigrizia e torpore, agitazione e ansia, dubbio - si chiamano cosí perché sono
stati mentali che, confondendo la mente con desideri e odi, facendola divenire
indolente o sovreccitata, rendono impossibile vedere e comprendere le cose
chiaramente. In un altro discorso il Buddha illustró questa situazione
paragonandola a uno stagno: se l'acqua é inquinata dai diversi colori (desideri
sensuali); se é agitata (avversione); se é coperta di alghe ed erbe acquatiche
(pigrizia e torpore); se la sua superficie é increspata dal vento (agitazione e
ansia); o se é piena di fango (dubbio), nessuno, guardando nello stagno, sará in
grado di vedere riflessa la propria immagine nell'acqua. SImilmente, la mente
inquinata dagli ostacoli non sará capace di discernere ció che é vero e buono
per se stesso e per gli altri.
Il primo livello di questa pratica di
contemplazione consiste nell'osservazione attenta dei contenuti mentali, per
essere chiaramente consapevoli di quale specifico ostacolo stia sorgendo o sia
presente nella mente in un determinato momento (egli sa come avviene il sorgere
del desiderio sensuale ecc.). Il secondo livello (e in questo sta la differenza
tra questo quarto esercizio della presenza mentale e i tre precedenti) consiste
nel passare dalla pura osservazione e chiara comprensione del fine e dei mezzi
migliori per conseguirlo, ci si sforza ora di superare e dominare, per quanto
possibile, l'ostacolo che é stato identificato (egli sa come avviene il rifiuto
del desiderio sensuale ecc.). Dico "per quanto possibile" perché,
finché non si raggiunge un livello molto alto di visione penetrativa, ogni
rimozione o abbandono degli ostacoli é solo temporaneo ed essi riappaiono prima
o poi: abbastanza naturalmente dal momento che, come tutte le cose,
testimoniano del "sorgere" e dello "svanire" di tutti i
fenomeni. Ció non deve causare scoraggiamento, sempre che si tenga in mente che
ció che é essenziale per lo sviluppo della visione penetrativa, in questo come
in tutti gli atlri esercizi, é rimanere vigili ed equanimi coltivando
l'osservazione attenta e non reattiva di qualsiasi cosa accada. Questo, si deve
ricordare, é il nucleo delle istruzioni contenute nel "Compendio della
pratica", ripetute cosí tante volte nel discorso e ora di nuovo, e cosí
alla fine di ognuna delle sezioni della pratica della contemplazione della
mente:
Egli si
dedica a contemplare il sorgere dei fenomeni negli oggetti mentali o lo svanire
dei fenomeni negli oggetti mentali. Ovvero il sorgere e lo svanire dei fenomeni
negli oggetti mentali. Ovvero la consapevolezza che "ci sono oggetti
mentali" si stabilisce in lui nella misura necessaria alla conoscenza e alla
presenza mentale. Permane indipendente, senza essere attaccato a nulla nel
mondo. Cosí, in veritá, monaci, un monaco pratica la contemplazione degli
oggetti mentali sugli oggetti mentali [che sono] i cinque ostacoli.
Cosí, quando é presente nella mente il desiderio
sensuale (o qualsiasi altro ostacolo) si nota che "c'é il desiderio
sensuale" (o qualsiasi altro). Quando ci si sforza di abbandonare
l'ostacolo esistente o di scacciarlo, si nota che c'é uno "sforzo per
abbandonarlo". Quando si ha successo, si nota "l'assenza di desiderio
sensuale" ecc., facendo attenzione anche a qualsiasi senso di
soddisfazione che puó prodursi per la riuscita dello sforzo (cosa che é anche
una contempolazione di uno stato mentale). Quando, prima o poi, l'ostacolo
riappare, si prende ancora nota della sua presenza e si agisce di nuovo come
sopra.
Acquisendo esperienza, si nota che
l'osservazione imparziale é il mezzo migliore per liberarsi degli stati o
contenuti mentali indesiderabili. La repressione o l'inibizione dei pensieri
negativi e delle emozioni con un atto violento della volontá, anche quando
abbia momentaneamente successo, genera una reazione egualmente forte, ma di
segno opposto e, in definitiva, controproducente. Le conseguenze patologiche - fisiche e psicosomatiche - delle repressioni e delle inibizioni sono
state da tempo rionosciute dalla psicologia occidentale e sono una parte molto
familiare del nostro mondo moderno. Lo sforzo é, certo, necessario, ma deve
essere concentrato esclusivamente sullo sviluppo di una presenza mentale
stabile e non distratta. Questo é il compito a cui dedicare l'energia al
massimo grado possibile: essere totalmente consapevoli e liberi da reazioni
impulsive. In tal modo, il percepire con sempre maggior chiarezza la natura
transitoria e impersonale di tutti i fenomeni gradualmente indebolisce e
dissolve la radicata tendenza all'attaccamento (basata sull'illusione che
esista un "sé" duraturo i cui voleri devono essere soddisfatti), che
é la causa degli ostacoli stessi. L'esperienza di secoli ha mostrato che il
progresso si realizza in varie fasi, che saranno discusse in seguito (i quattro
"sentieri" e i loro rispettivi "frutti", nella terminologia
tradizionale) e i vari elementi negativi, che vengono eliminati uno dopo
l'altro (Sa come avviene il non sorgere nel futuro del desiderio sensuale,
ecc.).
❖ 2.5.1.2. Le sei basi sensoriali (salayatana) e i legami (samyojana)
che sorgono di conseguenza.
E ancora,
monaci, un monaco si dedica alla contemplazione degli oggetti mentali negli
oggetti mentali [che sono] le sei basi interne e le sei basi esterne dei sensi.
E in che modo pratica la contemplaziione? Qui, monaci, un monaco conosce
l'occhio, conosce le forme visibili e conosce il legale che sorge in dipendenza
da entrambe [l'occhio e le forme visibili]..., conosce l'orecchio e i suoni...,
il naso e gli odori..., la lingua e i sapori..., il corpo e gli oggetti
tattili..., la mente e gli oggetti mentali, e conosce il legame che sorge in
dipendenza da entrambi; egli sa come avviene il sorgere del legame non [ancora]
sorto non presente; sa come avviene il distacco dal legame sorto e sa come
avviene il non-sorgere nel futuro del legame da cui si é distaccato.
Cosí é brevemente formulato il meccansimo della
percezione. Perché questa avvenga ci devono essere un organo (occhio, orecchio,
ecc.) che é la "base interna", un oggetto (forma visibile, suono
ecc.) che é la "base esterna" e il contatto o connessione tra i due
(l'occhio guarda l'oggetto fisico, l'orecchio ode il suono ecc.). L'analisi del
Buddha, peró, non si ferma al meccanismo della percezione, ma prosegue a
esaminare le conseguenze, cioé i "legami" che risultano dall'atto
percettivo a causa della comprensione errata che considera ció che é
impermanente come duraturo, ció che é vuoto come sostanziale e ció che é
impersonale come se possedesse un sé.
Nella terminologia del Buddha, i
"legami" sono cosí chiamati perché sono attitudini e stati mentali
che ci legano all'insoddisfacente esistenza di una persona non illuminata,
dominata dall'attaccamento e dalla sofferenza. ANche qui (come nel caso degli
ostacoli), si tratta di conoscere a fondo questi fattori negativi e di lavorare
per la loro eliminazione ("egli sa come avviene il sorgere del legame non
ancora sorto, sa come avviene il distacco dal legame sorto e sa come avviene il
non-sorgere nel futuro del legame da cui si é distaccato"). I legami sono
classificati in dieci gruppi:
1. Il credere nella personalitá (l'illusione che
esista, in senso reale, qualcosa come un "sé");
2. Il dubbio (sulla correttezza
dell'insegnamento, l'efficacia della pratica, ecc.);
3. L'attaccamento alle regole e ai rituali
(nella convinzinoe errata che i rituali e l'osservanza esteriore possano in se
stessi favorire i progressi della visione penetrativa);
4. La concupiscenza o il desiderio di
soddisfazione sensuale (cioé per gli oggetti piacevoli percepiti dai cinque
sensi corporei);
5. L'avversione (per qualunque cosa, a livello
fisico e mentale, sia percepita come spiacevole o minacciosa);
6. Il desiderio di soddisfazione ai livelli di
pura forma (tradizionalemnte chiamati "stati immateriali");
8. La presunzione
9. L'agitazione;
10. L'ignoranza
Il sesto e il settimo legame sorgono in
connessione con gli stati di felcitá, beatitudine e tranquillitá che possono
essere raggiunti con la meditazione di quiete (samatha); gli stati materiali
sottili appartengono agli assorbimenti formali e gli stati immateriali agli
assorbimenti immateriali. L'attaccamento a quegli stati é piú difficile da
superare dell'attaccamento alle soddisfazioni materiali e sensuali, poiché
rappresentano, di per se stessi, esperienze qualitativamente molto sottili e intensamente soddisfacenti.
Ecco perché, come si vedrá in seguito, l'eliminazione definitiva di questi due
legami (come i tre seguenti) avviene solo nell'ultimo livello della visione
penetrativa, quando il meditante raggiunge la totale realizzazione
dell'illuminazione
❖ 2.3.1.3. I sette fattori dell'illuminazione
E ancora,
monaci, un monaco si dedica alla contemplazione degli oggetti mentali sugli
oggetti mentali [che sono] i sette fattori dell'illuminazione. E in che modo
pratica? Qui, monaci, un monaco quando il fattore di illuminazione della
presenza mentale é presente in lui, sa: "Il fattore di illuminazione della
presenza mentale é in me"; ovvero quando il fattore di illuminazione della
presenza mentale é assente egli sa: "Il fattore di illuminazione della
presenza mentale non é in me". Egli sa come avviene il sorgere del non
[ancora] sorto fattore di illuminazione della presenza mentale; e come avviene
la perfezione, nello sviluppo del fattore di llluminazioine della presenza
mentale.
Quando il
fattore di illuminazione dell'investigazione della realtá..., dell'energia...,
della felicitá (o estasi)..., della tranquillitá..., della concentrazione...,
dell'equanimitá é presente in lui, il monaco sa: "Il fattore di
illuminazione dell'investigazione della realtá..., energia..., felicitá...,
tranquillitá..., concentrazione..., equanimitá é presente in me"; o quando
il fattore d'illuminazione [dell'investigazione della realtá ecc.] é assente,
egli sa: "Il fattore di illuminazione [dell'investigazione della realtá
ecc.] non é in me". Ed egli sa in che modo avviene il sorgere del non
[ancora] sorto fattore di illuminazione...; egli sa in che modo avviene la
perfezione nello sviluppo del fattore di illuminazione...
Come nell'esercizio precedente, anche qui ci
sono due fasi: la prima in cui si ha la consapevolezza di ció che avviene
("Egli sa: Il fattore d'illuminazione della presenza mentale ecc, é
presente in me; o quando il fattore d'illuminazione é assente sa: Il fattore
d'illuminazione... non é in me"); la seconda in cui si interviene: nel
caso degli ostacoli, lo sforzo stava nel liberarsene, qui, poiché i fattori
sono positivi ai fini dell'illuminazione, si deve cercare di mantenerli e
migliorarli ("sa come avviene il sorgere del fattore di illuminazione... e
come avviene la perfezione nello sviluppo del fattore
d'illuminazione...").
L'ordine in cui sono enumerati i fattori
dell'illuminazione non é accidentale, ma riflette la loro intima relazione.
Infatti, nello sviluppo della visione penetrativa ognuno di essi é conseguenza del
precedente e origine dei seguenti. Questa sequenza é spiegata in termini molto
chiari e semplici in un altro dei discorsi del Buddha:
E come,
monaci, i quattro fondamenti della presenza mentale, sviluppati e praticati con
assiduitá, coducono alla perfezione dei sette fattori dell'illuminazione?
Ora,
quando un monaco si dedica alla contemplazione del corpo sul corpo..., delle
sensazioni sulle sensaziono..., della mente sulla mente..., degli oggetti
mentali sugli oggetti mentali, pieno di fervore, comprendendo chiaramente e con
attenzione, avendo superato la cupidigia e la sofferenza proprie del mondo,
allora si stabilisce in lui un'ininterrotta presenza mentale. E quando
un'ininterrotta presenza mentale si stabilisce in lui, allora sorge in lui il
fattore d'illuminazione della presenza mentale ed egli lo coltiva, e,
coltivandolo, esso si perfeziiona in lui.
Mantenendo
questa attenzione, egli indaga ed esamina la realtá con saggezza e ne
intraprende una verifica. Quando, continuando a essere cosí attento, un monaco
indaga ed esamina la realtá con saggezza e ne intraprende una verifica, allora
il fattore d'illuminazione della investigazione della realtá é sorto in lui,
egli lo coltiva e, coltivandolo, esso si perfeziona in lui.
In chi
indaga ed esamina la realtá con saggezza e ne intraprende una verifica, sorge
un'energia inesauribile. Quando un'energia inesauribile é sorta in un monaco
che indaga ed esamina la realtá con saggezza e ne intraprende una verifica,
allora il fattore d'illuminazione dell'energia é sorto in lui ed egli lo
coltiva e, coltivandolo, esso si perfeziona in lui.
In chi ha
fatto sorgere l'energia, sorge la felicitá spiriuale. Quando sorge la felicitá
spirituale in un monaco che ha fatto sorgere l'energia, allora il fattore
d'illuminazione della falicitá é sorto in lui ed egli lo coltiva e,
coltivandolo, esso si perfeziona in lui.
Il corpo e
la mente di colui la cui mente é felice divengono quieti. Quando il corpo e la
mente di un monaco, la cui mente é felice, divengono tranquilli, allora il
fattore d'illuminazione della tranquillitá é sorto in lui ed egli lo coltiva e,
coltivandolo, esso di perfeziona in lui.
La mente
di chi é tranquillo fisicamente e beato diviene concentrata. Quando la mente di
un monaco, che é tranquillo fisicamente e beato, diviene concentrata, allora il
fattore d'illuminazione della concentrazione é sorto in lui ed egli lo coltiva
e coltivandolo esso si perfeziona in lui.
Egli
diviene colui che contempla con completa equanimitá la mente cosí concentrata.
Quando un monaco diviene colui che contempla con completa equanimitá la mente
cosí concentrata, allora il fattore d'illuminazione dell'equanimitá é sorto in
lui ed egli lo coltiva e, coltivandolo, esso si perfeziona in lui.
Cosí
sviluppati, monaci, e praticati cosí assiduamente, i quattro fondamenti della
presenza mentale perfezionano i sette fattori dell'illuminazione.
Nello stesso discorso, il Buddha sottolinea
l'importanza capitale dei fattori dell'illuminazione, dicendo che "I sette
fattori dell'illuminazione, sviluppati e praticati con assiduitá, producono la
perfezione della conoscenza e della liberazione".
❖ 2.5.2. Analisi della realtá
❖ 2.5.2.1. I cinque aggregati dell'attaccamento (upadana-khandha)
E ancora,
monaci, un monaco si dedica alla contemplazione degli oggetti mentali sugli
oggetti mentali [che sono] i cinque aggregati dell'attaccamento. E in che modo
pratica? Qui, monaci, un monaco considera: "Tale é la forma materiale,
tale il sorgere della forma materiale, tale lo svanire della forma materiale; tale
la sensazione, tale il sorgere della sensazione, tale é lo svanire della
sensazione; tale é la percezione, tale é il sorgerte della percezione, tale é
lo svanire della percezione; tali sono le formazioni mentali, tale il sorgere
delle formazioni mentali, tale lo svanire delle formazioni mentali; tale é la
coscienza, tale il sorgere della coscienza, tale lo svanire della
coscienza".
Questi cinque "aggregati" o gruppi di
fenomeni (materia, sensazione, percezione, formazioni mentali o attivitá e
coscienza) comprendono, nell'insegnamento del Buddha, ogni cosa che compone
l'universo conoscibile.
Tutti i
fenomeni materiali, sia passati che presenti e futuri, propri o degli altri,
grossolani o sottili, bassi o elevati, lontani o vicini, appartengono
all'aggregato della forma materiale. TUtte le sensazioni... appartengono
all'aggregato sensazione. Tutte le percezioni... appartengono all'aggregato
formazioni mentali. TUtta la coscienza... appartiene all'aggregato coscienza.
I cinque aggregati dell'attaccamento includono,
quindi, per definizione, tutti quai fenomeni fisici e mentali che a una persona
inesperta paiono costituire il suo "sé" o la sua
"personalitá" e a cui egli si attacca nello sforzo di mantenere la
configurazione essenzialmente illusoria che si chiama "io". Ecco
perché sono chiamati gli aggregati dell'attaccamento.
Ora, come abbiamo visto, lo scopo della
meditazione vipassana é proprio quello di sviluppare la visiione penetrativa
della reale natura di questi fenomeni, vederli e comprenderli nella loro vera natura
transitoria e instabile, senza un'entitá permanente. In questo esercizio il
meditante mantiene un'attitudine mentale di attenta recettivitá, una vera
"mente aperta" e contempla qualsiasi cosa sorga nel campo della
percezione momento per momento, sforzandosi di essere chiaramente consapevole
della categoria o "aggregato" a cui appartiene il fenomeno. Quando
diviene cosciente di un fenomeno materiale, prende semplicemente nota
mentalmente della "materialitá" o "forma materiale"; quando
sorge una sensazione, nota se é "piacevole, spiacevole o neutra";
quando c'é una percezione (cioé c'é la consapevolezza del tipo di fenomeno), ne
nota sia le caratteristiche generali (cioé se é visivo, auditivo, olfattivo,
gustativo, tattile o mentale) che le specificitá (per esempio, un fiore, un
grido, un odore di cucina); quando contempla l'attivitá mentale ne nota la
fonte od origine e i caratteri (reazioni mentali o associazioni di idee che
sorgono in connessione con diversi oggetti mentali e materiali), e quando contempla
la coscienza stessa nota lo stato particolarte della coscienza proprio di quel
momento (cioé il tipo di esercizio che é stato descritto nella pratica della
contemplazione della mente o degli stati mentali, nella precedente sezione
2.4).
L'essenziale, come in tutti gli esercizi
vipassana, é procedere senza attaccamento, senza passione, senza desiderare né
rigettare, rimanendo sempre consapevoli del fatto che tutto ció che si osserva
sono configurazioni di fenomini in cambiamento, che sorgono e svaniscono
continuamente ("egli pensa: Tale é la forma materiale ecc., tale é il
sorgere..., tale é lo svanire della forma materiale ecc."). In questo modo
il meditante mette in pratica le esatte istruzioni del cosí spesso ripetuto
"Compendio della pratica"):
Egli
continua contemplando il sorgere dei fenomeni e lo svanire dei fenomeni...
oppure sia il sorgere che lo svanire dei fenomeni negli oggetti mentali. La
consapevolezza che "ci sono oggetti mentali" si stabilisce in lui
nella misura necessaria per la conoscenza e la presenza mentale... Cosi, in
veritá o monaci, un monaco si dedica alla contemplazione degli oggetti mentali
sugli oggetti mentali [che sono] i cinque aggregati dell'attaccamento.
Questo esercizio, combinando la pratica della
consapevolezza non reattiva con l'imparziale attivitá di classificazione
discriminatoria dei fenomeni, é particolarmente utile a sviluppare la profonda
comprensione della veritá fondamentale che:
La forma
materiale é transitoria, la sensazione é transitoria, la percezione é transitoria,
le forme mentali sono transitorie, la coscienza é transitoria. E ció che é
transitorio é soggetto alla sofferenza [fin quando persistiamo ad attaccarci
alle cose e a voler fermare il loro fluire incessante] e di ció che é
transitorio e soggetto alla sofferenza e al cambiamento, giustamente non si puó
dire: "Questo mi appartiene, io sono questo, questo é il mio io"
❖ 2.5.2.2. Le quattro nobili veritá (ariyasacca)
E ancora,
monaci, un monaco si dedica alla contemplazione degli oggetti mentali sugli
oggetti mentali [che sono] le quattro nobili veritá. E come pratica la
contemplazione? Qui, monaci, un monaco
riconosce, in conformitá con la realtá: "Questa é sofferenza";
riconosce in conformitá con la realtá: "Questa é l'origine della
sofferenza:; riconosce in conformitá con la realtá: "Questa é la
cessazione della sofferenza"; riconosce in conformitá con la realtá:
"Questo é il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza".
Queste sono le quattro nobili veritá che
riassumono l'essenza dell'insegnamento del Buddha e si ricorderá che sono state
trattate brevemente nel capitolo II. Il presente esercizio consiste nell'assumere come oggetto della
pratica contemplativa le costanti manifestazioni di queste quattro veritá che
si offrono nei processi e nei contenuti mentali. E' una pratica contemplativa
che puó essere effettuata a diversi livelli (a seconda della mentalitá e del
grado di preparazione del meditante) e produce una visione penetrativa
straordinariamente profonda e sottile, ma a questo punto non posso far altro
che limitarmi a illustrarla brevemente con un esempio molto semplice.
Qualsiasi fenomeno mentale spiacevole sorga nel
corso della meditazione (sia per un dolore fisico, o per la scomoditá o come
oggetto mentale diretti) é, ovviamente, sofferenza (la prima veritá) ed é
necessario identificarla subito come tale. Il meditante esperto, tuttavia,
riconosce che il fenomeno in se stesso, un input sensorio-mentale, non ha
qualitá proprie - é la parte della mente
che percepisce e valuta a etichettarlo come "spiacevole" reagendo in
un modo specifico (rigetto) nei confronti dell'oggetto percepito in qualche
modo come una minaccia o un'aggressione. Questo rigetto, questo "non
volere" (sofferenza, disagio ecc.) é l'origine della sofferenza (la seconda
veritá). Ora, quando il meditante diviene conscio di questa reazione (se la
presa di coscienza é realmente efficace e chiara), cessa di identificarsi con
essa. Non vive la sua esperienza reagendo irriflessivamente, ma piuttosto
osservando imparzialmente la reazione che emerge; non "vuole" piú
(fermare il dolore, il disagio o altro), ma osserva semplicemente e annota.
Fermare il "volere" significa fermare la reazione - questa é la
cessazione della sofferenza (la terza veritá). Un esempio finale (ma che é
particolarmente evidente perché é talmente ovvio e cosí facilmente
sperimentabile da chiunque) é il male alle articolazioni e ai muscoli che quasi
invariabilmente assale il meditante novizio, dopo che é stato seduto
perfettamente immobile per lunghi periodi di meditazione formale seduta. Con un
po' di pratica ognuno puó sperimentare che, se contemplati con scrupolosa
presenza mentale e senza emozione, questi ultimi cessano di essere percepiti
come "dolori" e si scopre in essi un'intera gamma di svariate sensazioni
fisiche (formicolio, pressione, tensione ecc.) che in se stesse non hanno
niente a che fare con il concetto di "dolore" e che, come tutte le
situazioni, sono in uno stato fluido - cambano, svaniscono e sono rimpiazzate
da altre. Alla fine il meditante giunge a comprendere che, praticando
correttamente con cura e dedizione, mette in pratica uno o piú degli otto
fattori che compongono la via che conduce alla cessazione della sofferenza (la
quarta veritá), non solo durante i periodi di meditazione (quando, con retta
visione e retto proposito, applica il retto sforzo, per sviluppare la retta
presenza emntale e la retta concenrazione), ma anche, durane un ritiro, negli
intervalli tra le sessioni (retta visione, retto proposito, retto sforzo, retto
discorso, retta azione, retta presenza mentale) e anche - nel tempo che intercorre tra un ritiro e
l'altro - nella vita quotidiana, fino a essere sempre piú guidato dai salutari
principi che ha imparato e praticato se si é guidati dalla retta visione delle
cose, si persegue un retto proposito, si pratica il retto discorso e la retta
azione in ogni occasione, ci si guadagna da vivere con la retta occupazione -
retto modo di vita - e si esercita il retto sforzo per mantenere questo tipo di
vita).
❖ 2.6. Conclusione del discorso sui fondamenti della presenza mentale
In veritá,
monaci, chi praticasse questi quattro fondamenti della presenza mentale in tal
modo per sette anni, potrebbe aspettarsi uno di questi due risultati: somma
conoscenza [lo stato di arahant] qui e ora, oppure, se vi fosse ancora un
residuo di attaccamento, lo stato di "non-ritorno".
Ma che
dico sette anni, monaci! Chi praticasse questi quattro fondamenti della
presenza mentale in tal modo per sei anni... cinque anni... quattro anni... tre
anni... due anni... un anno, potrebbe aspettarsi uno di questi due risultati:
somma conoscenza qui e ora oppure, se vi fosse ancora un residuo di
attaccamento, lo stato di "non-ritorno".
Ma che
dico un anno, monaci! Chi praticasse questi quattro fondamenti della presenza
mentale in tal modo per sette mesi... sei mesi... cinque mesi... quattro
mesi... tre mesi... due mesi... un mese... mezzo mese, per sette giorni,
potrebbe aspettarsi uno di questi due risultati: somma conoscenza, qui e ora
oppure, se vi fosse ancora un residuo di attaccamento, lo stato di
"non-ritorno".
Per questo
é stato detto: "Questo, monaci, é l'unico cammino per parificare gli
esseri, per superare pena e lamento, per eliminae dolore e sofferenza, per
raggiungere il giusto sentiero, per realizzare il nibbana, ovvero i quattro
fondamenti della presenza mentale". Cosí parló il beato. Lieti in cuore, i
monaci si rallegrarono alle sue parole.
Il discorso si conclude come é iniziato - ribadendo solennemente l'importanza capitale
della pratica che insegna a raggiungere la piena realizzazione del nirvana
(nibbana). Prima di dire quel poco che si puó dire su questa realizzazione
ultima che, come si é giá detto, é qualcosa di cui si puó avere esperienza ma
non si puó parlare, é necessario esaminare piú approfonditamente la citazione
appena fatta. Ogni cosa detta, qui come negli altri luoghi del discorso (e
dell'insegnamento di Buddha in generale), non é affatto una tirata di generica
ispirazione retorica, ma vuol trasmettere al lettore propriamente informato un
ben preciso significato pratico. Cosí l'apparentemente retorico riferimento ad
anni, mesi ecc. di pratica sottolinea un fatto vero e importante, cioé che il
ritmo del progresso che ci si puó aspettare varia considerevolmente da persona
a persona. Per raggiungere un certo livello, c'é chi impiega pochi giorni, chi
invece mesi o anni. Tutto dipede dalla mentalitá, dal carattere e dall'abilitá
di ognuno, cosí come dalle particolare situazioni della sua vita. Nei termini
buddisti tradizionali, in altre parole, dipende dal presente carico di
risultati karmici - benefici o nocivi,
favorevoli o sfavorevoli - accumulati dalle precedenti azioni mentali, verbali
e fisiche. In secondo luogo, ció sottolinea il fatto che la rfealizzazione non
viene raggiunta una volta per tutte, ma (come notato in precedenza) a livelli
successivi. Ecco perché nel passo si parla di due risultati, o frutti, che ci
si puó aspettare dalla pratica, quali la "somma conoscenza qui e ora"
o, se permane ancora qualche rimasuglio di attaccamento, lo stato di
"non-ritorno". Questa breve allusione era di certo perfettamente
comprensibile per i monaci, gli originai ascoltatori del discorso, che erano
pratici dei principi su cui si basava. Per il lettore moderno, non specializzato,
é peró necessaria qualche spiegazione.
❖ 2.6.1. Il processo di purificazione
Nell'insegnamento del Buddha il processo, che
noi con il nostro linguaggio tendiamo a descrivere in termini di
"realizzazione" o "integrazione", é conosciuto
tradizionalmente come purificazione
(da qui il titolo dell'antico manuale di meditazione da cui spesso ho attinto
citazione: Visuddhi Magga, che significa "Il sentiero della
purificazione"). Questo é un termine molto appropriato, poiché sottolinea
il fatto che, per conseguire la mutazione durevole della psiche umana, di cui
abbiamo parlato, ció che é necessario puó essere ottimamente descritto come un
processo di pulizia. I nostri processi affettivi e mentali devono essere
gradualmente liberati dall'abitudine, radicata in profonditá, di percepire e
reagire, che ci impedisce di vedere le cose e averne esperienza per quello che
sono (com'é illustrato, per esempio, nella similitudine dello stagno). Nel
descrivere la pratica della contemplazione degli oggetti mentali, abbiamo visto
i principali fattori negativi che ognuno di noi deve eliminare con i propri
sforzi: gli ostacoli mentali e i legami. E sono precisamente i lelgami mentali
che - secondo il metodo tradizionale - offrono il necessario punto di
riferimento, a seconda di quanto siano stati indeboliti o eliminati, su cui
misurare i progressi lungo il sentiero della purificazione.
❖ 2.6.1.1. Entrare nella corrente
Il primo passo importante é contraddistinto
dall'eliminazione dei primi tre legami: credere nell'esistenza dell'io
(attaccamento a un sé illusorio), dubbio (sull'efficacia dell'insegnamento e
della pratica) e attaccamento a regole e rituali (un comportamento a cui si
ricorre molto comunemante per sottrarsi all'arduo impegno di lavorare su se
stessi.). Chi, attraverso lo sviluppo della visione penetrativa, si é liberato
di questi tre legami, viene definito sotapanna - letteralmente "colui che
é entrato nella corrente" - perché
ha acquisito il primo livello di un processo che, fluendo ora in modo
irreversibile come una corrente, condurrá all'illuminazione definitiva, il
nibbana, entro sette nascite al massimo.
A questo punto, e per prevenire qualsiasi
confusione, fermiamoci un momento e consideriamo il significato preciso nel
buddismo di "rinascita" e di ruota delle rinascite
❖ 2.6.1.2. La ruota delle rinascite
Quando si parla di rinascite la gente é portata
comunemente a pensare a un'anima che alla morte di un corpo passa, come entitá
completa, in uno nuovo. Si tratta in questo caso della reincarnazione,
trasmigrazione o metempsicosi, che é credenza comune a molte religioni
orientali (specialmente all'interno della tradizione indú), cosí come alle
tradizioni esoteriche occidentali. Poiché, secondo l'insegnamento del Buddha,
non esiste un qualcosa di equivalente a un'entitá "io" permanente
(vedasi anche il cap. II) si capirá facilmente che é un errore grossolano
assimilalre la concezione buddista di rinascita a quella di
"trasmigrazione delle anime" (un errore in cui disgraziatamente sono
cduti abbastanza spesso autori che si supponeva bene informati e che non
riuscivano a fare questa distinzione essenziale sia a causa della loro reale
ignoranza che a causa di una tendenza partigiana che non vede nel buddhismo
nient'altro che una variante dell'induismo).
Infatti, il concetto di trasmigrazione o
reincarnazione presuppone necessariamente l'esistenza di un'anima in quanto
entitá duratura che passa da un corpo mortale a un altro, senza perdere la
propria essenza o entitá. Ma, come é stato visto, questa entitá duratura é
precisamente ció di cui il Buddha constató in modo definitivo la non-esistenza,
una visione formulata sul principio fondamentale dell'anatta.
Questo principio, cioé che non esiste da nessuna
parte una cosa come un'entitá "io" permanente, é valido non solo a
livello fisico (dove la transitorietá e il decadimento sono persino troppo
evidenti), ma anche a tuti gli altri livelli comunque siano descritti - fisico,
mentale, spirituale. Il Buddha, e questo é il nocciolo del suo insegnamento,
disse che assolutamente ogni cosa (incluso il nibbana, il non-condizionato) é
priva di una entitá o sostanza duratura, senza un sé, anatta. Da qui l'uso
della parola "rinascita" che, non esprimendo alcun giudizio sul
problema di che cosa effettivamente
rinasca, non é cosí carica della connotazione erronea di "anima",
come altri termini.
D'altra parte il Buddha negó con uguale energia
una visione puramente materialistica, cioé che la morte del corpo, la
dissoluzione degli elementi fisici rappresentino l'annullamento finale di tutti
gli elementi mentali, volitivi e affettivi, che pure fanno parte dell'organismo
morto. ecco perché insegnó che il primo legame, il credere nell'esistenza
dell'io, sorge in due forme ugualmente sbagliate e nocive: l'eternalismo
(l'illusione idealistica che esista un sé permanente o un'anima immortale) e il
nichilismo (l'illusione materialistica che la fine di un corpo particolare sia
la fine di ogni cosa). Secondo il Buddha ció che accade é che, al momento della
morte, la configuraziione della psiche (essa stessa prodotto condizionato dagli
atti fisici e mentali compiuti sia nell'esistenza che sta ora finendo, sia
nelle precedenti) costituisce la coscienza iniziale, come se fosse il punto di
partenza dell'esistenza successiva. In altre parole, si potrebbe dire molto approssimativamente
che ció che "rinasce" nella vita successiva é il sedimento, il
residuo psichico (del materiale mentale, volitivo e affettivo) della vita
corrente e delle precedenti, in quanto i loro residui non sono stati esauriti.
La coscienza del nuovo essere non é quindi la stessa del precedente, non é
identica a essa, ma neppure indipendente dal momento che é, di fatto, una sua
conseguenza.
Non c'é quindi l'idea di un'anima che cambia
corpo come un corpo cambia vestito. Non c'é trasmigrazione di un'entitá
permanente. Ecco perché termini come "reincarnazione" devono essere
evitati ed é preferibile usare la parola piú neutra "rinascita" che,
senza implicare necessariamente un'entitá, segnala che c'é una continuitá nella
diversitá. La raffigurazione classica di questo processo degli antichi testi
buddisti é quella della similitudine tra un albero e i suoi frutti: i semi
contenuti nei frutti danno origine a un altro albero dello stesso tipo
dell'origina,e. Il nuovo albero, ovviamente, é molto simile al suo genitore,
avendone ereditato le caratteristiche genetiche. QUeste, tuttavia, si
dischiudono e sviluppano in modi diversi secondo la qualitá del suolo, il tipo
di clima e le condizioni ambientali in generale. Il nuovo albero cosí continua
la specie del precedente, ma in un modo proprio e distinto. E' sempre un altro
albero. E' un discednente dell'albero genitore, ma non é la sua
"reincarnazione". Ecco perché nella tradizione buddista si dice che
esseri sono "eredi del loro kamma" (le azioni del corpo, del discorso
e della mente). Avendo questo bene in mente, ritorniamo ora al processo di
purificazione.
❖ 2.6.1.3. Il ritornare una volta sola
Il quarto e quindi legame, desiderio di
soddisfazione dei sentimenti e avversione fisica e mentale, richiedono una gran
mole di lavoro per essere completamente eliminati. E' abbastanza naturale
perché costituiscono la base stessa della nostra "ignorante"
esistenza abituale.
Cosí, il secondo stadio del progresso consiste
sostanzialmente nel lasciare la presa su questi due legami, ma senza conseguire
ancora la loro completa rimozione. La persona che, praticando assiduamente
l'ottuplice sentiero in tutti i suoi aspetti -
di disciplina etica, pratica di meditazione e sviluppo della
comprensione - ha ridotto al minimo l'influenza del desiderio e dell'avversione
sulle sue motivazioni, i suoi pensieri e le sue azioni, é chiamata sakadagami,
che significa "colui che ritorna una volta". Rinascerá solo una volta
ancora nel mondo di mente e materia dell'umana esistenza e otterrá la
liberazione definitiva in quell'ultima vita
❖ 2.6.1.4. Il non-ritorno
Quando il desiderio sensuale e tutti i tipi di
avversione o malevolenza sono stati interamente eliminati, lo stato risultante
é conosciuto come quello dell'anagami o di "colui che non ritorna".
Significa che, essendo ora completamente libera dai primi cinque legami, la coscienza
non é piú dominata dall'attaccamento al mondo materiale. Se le capita di morire
prima di avere conseguito lo stadio finale seguente, cioé l'illuminazione
definitiva o nibbana, questa coscienza, avendo ottenuto un alto grado di
libertá, non nascerá piú in un ambiene fisico. Tuttavia, poiché é ancora
condizionata da effetti karmici che provengono dai cinque legami rimanenti,
nascerá in una certa classe di piú alti stati di esistenza, da cui passerá
direttamente al nibbana, dopo aver eliminato i cinque legami rimanenti.
La gamma completa degli stati piú alti comprende
i vari livelli di esistenza delle intelligenze disincarnate che sono
riconosciute in tutte le tradizioni religiose, anche se sotto nomi diversi:
angeli, spirito, geni ecc. COme é stato spiegato nel cap. IV, sez. 4.3.6,
comunque, la differenza essenziale tra l'insegnameto del Buddha e tutte le
altre dottrine é che nel primo non si afferma mai che tali stati - non importa
quanto sublimi, duraturi e beati possano essere in confronto alla condizione
umana ordinaria - siano da considerarsi definitivi o eterni. Come il Buddha
comprese e insegnó, assolutamente ogni cosa, stato o condizione concepibile,
con la sola eccezione del nibbana (che é indnescrivibile e inconcepibile), é
transitorio. Tutti i paradisi finiscono. Persino gli "angeli" devono
lasciare la loro alta sfera una volta che le conseguenze karmiche che li hanno
portati lá siano esaurite. Se essi erano anagami, allora, senza alcuna
ulteriore rinascita, conseguono il nibbana.
❖ 2.6.1.5. Lo stato di arahant
L'ultimo stadio nel processo é quello in cui
vengono estirpati i legami piú sottili e piú insidiosi: il desiderio di
sperimentare livelli di pura forma e senza forma (che puó palesarsi come
attaccamento alle soddisfazioni estremamente sottili e profonde degli stati
alterati di coscienza dei livelli materiali o immateriali della meditazione
samatha, o come desiderio di rinascita in un "paradiso", cioé in uno
di quegli stati immateriali variamente concepiti nelle cosmologie religiose);
la presunzione (che, nei due sensi della parola, é cosí profondamente radicata
nella natura umana: come vanitá di sé e come abitudine a concettualizzare
propria della mente umana); l'inquietudine (angoscia esistenziale) e
l'ignoranza (che, per definizione, in qualche modo rimane finché non si
raggiunge la piena visinoe penetrativa).
La persona che consegue questa liberazione
definitiva é chiamata "arahant", un termine talvolta tradotto come
"santo"; ma che letteralmente significa "meritevole",
"degno". L'arahant é degno di alti elogi e riconoscimenti (anche in
quanto modello che ispira l'emulazione) poiché ha conseguito l'ultimo grado di
libertá e perfezione, il nibbana. Durante il tempo che gli rimane da vivere,
l'arahant gode di ció che é conosciuto come "nibbana con elementi di
esistenza" (saupadisesa nibbana) e alla morte raggiunge il parinibbana o
"nibbana senza elementi di esistenza" (anupadisesa nibbana) e ció che
era conosciuto come l'arahant sparisce dalla ruota delle rinascite, cosí dice
l'antica similitudine: "come una fiamma che ha finito il suo
combustibile".
❖ 2.6.1.6. Per riassumere
Ora possiamo ritornare al discorso e comprendere
l'importanza della frase in cui si dice che praticando i quattro fondamenti
della presenza mentale ci si puó aspettare uno dei due risultati: "la
somma conoscenza qui e ora", cioé lo stato di arahant, "o, se c'é
ancora un residuo di attaccamento [cioé se gli ultimi cinque legami non sono
stati ancora eliminati], lo stato di 'non ritorno' ".
Da notare che il Buddha qui parla solo degli ultimi
due dei quattro livelli che formano il processo di purificazione. Ció puó
essere in parte dovuto al fatto che il discorso era in origine rivolto a monaci
esperti, discepoli diretti del Buddha stesso, la maggior parte dei quali aveva
probabilmente ottenuto i primi due livelli.
C'é tuttavia un'altra ragione che io credo sia
piú fondamentale. Ponendo come scopo allo studente direttamente "la piú
alta conoscenza" della realizzazione definitiva o, come alternativa, uno
stadio giá molto avanzato che viene immediatamente prima, il discorso
sottolinea qualcosa che Buddha ripeté in molte occasioni: cioé che il
conseguimento del nibbana non é qualcosa che appartiene a un futuro lontano e
vagheggiato dopo chissá quante rinascite, ma é qualcosa che puó essere ottenuto
- se si é disposti a lavorare sodo per esso -
"qui e ora" in questa stessa vita. Certo, é uno sforzo arduo
che puó richiedere piú di una o due vite, a seconda del carico, che ognuno ha,
di accumulazioni negative. Ma ció non deve essere una scusa per non mettere il
massimo entusiasmo e la massima perseveranza nel fare quanto si puó in questa
vita che é, dopo tutto, la sola cosa su cui possiamo lavorare nel presente. Il
nibbana é per oggi - non per domani.
Lavorare al momento presente con calma, senza ansia controproducente o fretta,
ma anche senza debolezza. Ed effettivamente, dice il Buddha, se ci comportiamo
come siamo stati istruiti nel discorso, praticando i fondamenti della presenza
mentale con assiduitá, conseguiremo lo scopo o ci andremo molto vicini. Un
altro punto che si dovrebbe considerare a questo riguardo é che i quattro
stadi, o livelli, che sono stati appena descritti, non si susseguono uno dopo
l'altro in una rigida sequenza temporale. In base alle capacitá, alla
disposizione, all'energia e all'entusiasmo di ogni praticante, il passaggio da
un livello al seguente puó richiedere un'intera vita, anni o mesi oppure puó
essere solo questione di minuti. E' cosa ben nota che i processi mentali
possono prodursi con rapiditá prodigiosa e cosí non sorprende trovare nei testi
antichi numerosi esempi di persone che, essendo giá, per esempio, entrate nella
corrente (sotapanna), diventavano arahant quasi istantaneamente in determinate
circostanze, attraversando fulmineamente gli stadi intermedi. Come in molti
casi, é il primo passo il piú faticoso, ovvero riuscire a districarsi dallo
stato di impulsi incontrollati e di confusione percettiva che caratterizza la
mentalitá iniziale della maggioranza di noi, ed "entrare nella
corrente". Anche in questo caso, comunque, non sono rari esempi di un
rapido progresso.
Un'ulteriore spiegazione sembra essere
necessaria laddove (come menzionato alla fine della sezione 2.5.1.1 di questo
capitolo) la tradizionale terminologia buddhista distingue, in connessione con
i quattro stadi del progresso, quattro "sentieri" (magga) e i loro
rispettivi "frutti" (phala). Sono termini che ricorrono molto di
frequente nei testi buddhisti ed é importante comprenderli con chiarezza.
Entrare nel dettaglio su questo argomento richiederebbe una discussione sull'Abhidhamma (la sezione del canone pali
originario che elabora gli aspetti filosofici, e, piú particolarmente,
psicologici dell'insegnamento del Buddha). Abbastanza semplicemente, tuttavia,
si puó dire che i "sentieri" e i loro "frutti" si
riferiscono al modo in cui emergono i piú alti stati di coscienza nel processo
di visione penetrativa. In ognuno dei quattro stadi descritti il conseguimento
dello stato di coscienza caratteristico é istantaneo - c'é un momento di
accesso e questo momento é chiamato il "sentiero". Immediatamente
dopo segue l'esperienza del nuovo stato e questo é il "frutto". Un
estratto della voce corrispondente del Buddhist
Dictionary, il fondamentale lavoro di riferimento del venerabile
Nyanatiloka, ci aiuterá a chiarirlo:
Secondo
l'Abhidhamma, il "sentiero ultra mondano" o semplicemente il
"sentiero" (magga) é una sesignazione del momento in cui si entra in
uno dei quattro stadi della santitá [ovvero i quattro stadi che ho
appenanumerato, partendo da "entrare nella corrente"] - il cui oggetto é il nibbana - stadi prodotti
dalla visione penetrativa (vipassana) dell'impermanenza, della miseria e
dell'impersonalitá dell'esistenza, visione che, rivelandosi fulmineamente, cambia
per sempre la vita e la natura di chi la sperimenta. "Frutti" (phala)
sono da intendersi quei momenti di coscienza che seguono immediatamente dopo,
come risultato del "sentiero", e che in determinate circostanze si
possono ripetere innumerevoli volte nel
corso della vita. (1) Attraverso il sentiero dell'entrata nella corrente
(sotapatti-magga) si "diviene" liberi (mentre nel realizzare il
frutto si "é" liberi) dai primi tre legami (samyojana) che vincolano
gli esseri all'esistenza nella sfera sensibile... e similmente per gli altri
stadi.
Un ultimo avvertimento. Talvolta si é pensato
che per praticare correttamente si dovrebbero svolgere, uno dopo l'altro, tutti
gli esercizi menzionati nel discorso, iniziando con la consapevolezza del
respiro e finendo con gli oggetti
mentali. Ma non é cosí. Alcuni esercizi sono piú adatti a tutti i tipi di
persone (come la consapevolezza del respiro, che é il piú universale di tutti),
mentre altri dovrebbero, piuttosto essere riservati a certi tipi di mentalitá.
Ma, purché si pratichi in modo corretto - ovvero si sia "pieni di fervore,
comprendendo chiaramente con attenzione, avendo superato cupidigia e sofferenza
proprie del mondo" come il discorso dice piú volte -, ogni esercizio é in
se stesso sufficiente a conseguire lo scopo. E' proprio per rendere questo concetto
piú chiaro che il "Compendio della pratica" ripete in ogni singola
sezione il discorso che il meditante "contempla il sorgere dei fenomeni...
lo svanire dei fenomeni... sia il sorgere che lo svanire dei fenomeni... e la
consapevolezza che 'c'é / ci sono corpo..., sensazioni..., mente..., oggetti
mentali' si stabilisce in lui nella misura
necessaria per la conoscenza e la presenza mentale". Il punto cruciale
é precisamente di sperimentare con completa e attenta consapevolezza il sorgere
e lo svanire di tutti i fenomeni; di vivere l'esperienza della totale
impermanenza, cosí da conseguire una conoscenza non mediata, ma sperimentata,
che é libertá.
Questo da una parte. Dall'altra, comunque, si
deve avere ben in mente che, mentre ogni esercizio é in se stesso sufficiente,
se usato come esercizio principale o fondamentale nell'istruzione formale, la
sua pratica coinvolge, in maggior o minor grado, anche quella degli altri.
Avviene cosí perché, come é giá stato spiegato, certi esercizi durante il corso
dell'istruzione sono talvolta deliberatamente usati come complementi del
principale (come, per esempio, la meditazione formale camminata alternata a
periodi di meditazione seduta) e anche perché ci si sforza di mantenere il piú
alto livello possibile di consapevolezza attenta anche durante le attivitá
ordinarie tra i periodi di meditazione (conservando una chiara comprensione di
tutte le azioni, i pensieri ecc.).
C'é peró una ragione piú importante. Molto
semplicemente, poiché tutti i processi vitali - sia fisici che mentali - sono intimamente connessi uno con l'altro,
non puó non esserci un'interaziione naturale e continua tra i quattro
fondamenti della presenza mentale (corpo, sensazione, mente e stati mentali),
un mutuo feedback che fluttua con il
fluttuare dei fenomeni, ma che é sempre presente in maggior o minor grado.
La connessione piú ovvia é la stretta relazione
tra la contemplazione del corpo e quella delle sensazioni (a cui abbiamo
accennato alla sezione 2.3). Ma anche gli stati e i contenuti mentali hanno i
loro corrispettivi fisici e, all'opposto, i processi corporei e gli avvenimenti
hanno effetto sulla mente e sulle emozioni (se si trema di paura, fare alcuni
respiri profondi aiuta a calmare i nervi ecc.). La pratica dell'osservaziione
attenta tiene conto di tutto questo, poiché ha lo scopo essenziale
dell'esercizio (qualsiasi fondamento della presenza mentale si pratichi) é
proprio di mantenere la piena consapevolezza di qualsiasi cosa come é presente
"qui e ora" e di osservarla con distacco. Parlando della
contemplazione della mente (sez. 2.4 di questo capitolo), abbiamo sottolineato
che la consapevolezza degli stati mentali deve essere mantenuta anche durante
la pratica della contemplazione del corpo per assicurare una presenza mentale
ininterrotta. Se sorge un senso improvviso di ansia o di eccitazione e non é
subito notato coscientemente, significa che il meditante non sta prestando
attenziione in modo adeguato.
Ecco perché in un altro discorso molto famoso,
l'Anapanasati sutta o Discorso sulla consapevolezza del respiro, il Buddha
dedicó un'intera esposizione a insegnare come la pratica esclusiva della
consapevolezza del respiro, usata come esercizio principale, perfezioni gli
altri fondamenti della presenza mentale e conduca (in un certo senso da sola,
ma, di fatto, con tutta la gamma dei supporti possibili) alla realizzazione
ultima.
Schematicamente, il discorso spiega che la
consapevolezza del respiro é, come sappiamo, una pratica di contemplazione del
corpo; l'osservare da vicino la qualitá delle sensazioni che sorgono durante la
respirazione é la contemplaziione delle sensazioni; l'osservare gli stati
mentali che l'accompagnano é la contemplazione della mente; l'osservare i
contenuti mentali e in particolare apprezzare l'impermanenza, il sorgere e lo
svanire dei fenomeni percepiti con consapevolezza attenta é la contemplazione
degli oggetti mentali. Cosí dice il Buddha:
La
consapevolezza del respiro, sviluppata e praticata con assiduitá, conduce al
perfezionamento dei quattro fondamenti della presenza mentale; i quattro
fondamenti della presenza mentale, sviluppati e praticati con assiduitá,
conducono al perfezionamento dei sette fattori dell'illuminazione; i sette
fattori dell'illuminazione, sviluppati e praticati con assiduitá, producono la
perfezione della conoscenza e della liberazione.
❍ 7. Il definitivo: Nibbana
Dopo aver tanto parlato delle vie e dei mezzi
per realizzare quel fine sommamente desiderabile che é il nibbana, ci si
potrebbe ben aspettare qualche informazione piú specifica su di esso. Il
problema che si pone é che, come giá sottolineato piú volte, la reale natura
del nibbana é tale da precludere una spiegazione analitica o descrittiva. La
realizzazione definitiva insegnata dal Buddha é "inesplicabile" nel
senso letterale della parola, perché non si trova nelle categorie
concettuali-verbali che necessariamente utilizziamo per comunicare
intellettualmente e comprenderci. Di conseguenza, ogni sforzo di spiegare il
nibbana all'interno di queste categorie, ogni tentativo di ridurlo a un
concetto, é, per definizione, inutile. Oltretutto, inevitabilmente, ci mette
sulla cattiva strada dal momento che, nel cercare di adattare l'inesplicabile a
un modello comprensibile intellettualmente - ovvero a una categoria
"concepibile" in senso letterale -, esso (é accaduto piú volte nella
storia del pensiero buddista) viene "spiegato" piegandolo a ogni
sorta di deformazioni filosofiche, religiose e linguistiche, tutte condizionate
dall'ambiente culturale o dalla tradizione da cui provengono.
A un livello piú superficiale troviamo cosí la
facile identificazione del "nirvana" con un paradiso (simile
essenzialmente a quelli dell'escatologia cristiana o musulmana); con una
mistica unione con la divinitá suprema; con la realizzazione dell'identitá
Atman/Brahman (come nell'induismo vedanta); o con un annientamento totale. Una
gamma di interpretazioni piú o meno sofisticate lungo tali linee é stata
proposta non solo da studiosi occidentali di buddismo, ma anche, nei secoli, da
coloro, tra gli stessi buddisti, piú inclini a speculare che non a praticare la
vipassana. Cosí il nibbana "con elementi di esistenza" (saupadisesa
nibbana) é stato variamente interpretato come un'esperienza metafisica,
un'esperienza mistica, uno stato ipnotico, un annullamento temporaneo, uno
stato di coscienza superiore (di un Tutto assoluto o di un Niente assoluto) e
il nibbana "senza elementi di esistenza" (anupadisesa nibbana), dopo
la dissoluzione del corpo, come uno stato di conscia beatitudine, un'eternitá
paradisiaca, un sonno eterno, un annullamento puro e semplice, un immergersi in
un fondamento assoluto, un'unione definitva con una coscienza suprema, un
annullamento del "sé" nella realizzazione del "Sé" e cosí
via.
Tutto questo é in sorprendente contrasto con il
modo di pensare del Buddha; egli si asteneva dalle teorizzazioni e dalle
speculazioni metafisiche e considerava quei grandi temi che hanno
tradizionalmente occupato le menti dei filosofi e dei pensatori religiosi come
problemi inutili, che é meglio lasciare insoluti e su cui la gente perde del
tempo prezioso che potrebbe dedicae con maggior profitto alla pratica della
vipassana (si ricordi la parabola della freccia avvelenata citata all'inizio
del capitolo II). I problemi se il mondo sia eterno o non eterno, finito o infinito;
se ci sia un'anima o un princiio vitale che si identifica o meno con il corpo;
oppure se chi ha conseguito il nibbana continui in qualche modo a esistere dopo
la morte del corpo o invece cessi di esistere -
tutti questi problemi, disse il Buddha, non sono che un ricercare e
attaccarsi a mere opinioni, "una selva di opinioni, un teatrino di
opinioni, una trappola di opinioni, una rete di ipinioni". Queste non ci
aiutano in alcun modo a raggiungere quella "definitiva liberazione della
mente" che, egli non si stancó mai di ripetere, "é l'oggetto della
vita santa, la sua essenza, il suo scopo".
Tuttavia, poiché per comunicare devono essere
usate le parole, anche il Buddha non poté non dire qualcosa sul nibbana (di
solito per confutare delle interpretazioni errate). Quando vi era costretto il
Buddha ricorreva solo ai termini piú semplici e sobri: il nibbana, e questo é
l'essenziale, é la fine della sofferenza. Non si puó fare nessun'altra
affermaziione positiva su di esso.
Al contrario, ci si puó dilungare un po' di piú
su ció che il nibbana non é, per cercare di scoraggiare il proliferare di
"interpretazioni" - che sono tutte, in un modo o in un altro,
riduttive - e di affermare chiaramente
il suo carattere unico e il fatto che non ha niente a che fare con tutto ció
che compone l'universo del concepibile:
C'é,
monaci, qualcosa che non é né terra, né acqua, né fuoco, né aria, né spazio
illimitato, né coscienza illimitata, né nulla, né stato di percezione, né
non-percezione, né questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. Quello,
monaci, io non lo chiamo né andare, né venire, né rimanere, né morire, né
nascere. E' senza sostegno, sviluppo o fondamento. E' la fine della sofferenza.
Come abbiamo avuto occasione di notare in
precedenza, il Buddha non indulgeva in forme retoriche, ma era sempre attento a
comunicare informazioni complete e specifiche. Anche questo passo, lungi
dall'essere (come troppo spesso é stato considerato) una di quelle solenni
dichiarazioni, in realtá ha un contenuto specifico. Diamogli un'occhiata piú da
vicino.
Il discorso inizia, abbastanza ovviamente, col
dissociare il nibbana dal campo dei fenomeni fisici, affermando che esso non é
in connessione con nessuno dei quattro elementi primordiali (terra, acqua,
fuoco e aria) di cui, secondo la tradizione antica, é composta la materia.
Viene poi escluso dal campo della metafisica, di ció che é al di lá della
materia; si dice che né lo spazio illimitato né la coscienza illimitata si
possono attribuire al nibbana, né si puó dire che non é nulla e neanche che é
uno stato in cui non c'é né percezione né non-percezione. La negazione di
qualsiasi connessione tra il nibbana e qualcosa che puó essere concepito si
ritrova, come si vede, a livelli sempre piú elevati. Si deve poi aver ben
chiaro che queste ultime quattro categorie hanno anche un significato
psicologico (non metafisico) perfettamente concreto all'interno
dell'insegnamento buddista. Si riferiscono ai livelli di esperienza ottenuti
nei quattro assorbimenti immateriali della meditazione samatha. Facendo
rilevare che non hanno relazione con il nibbana, il buddha sottolinea il fatto
che la pratica della meditazione di quiete non conduce alla visione definitiva
e all'illuminazione.
Seguono poi una serie di negazioni che hanno
come scopo di sottolineare senza compromessi che il nibbana appartiene a una
dimensione diversa da quella in cui opera l'apprendimento intellettuale delle
cose, che procede sempre per coppie di opposti - pensiamo in termini di sí/no,
vita/morte, qui/lá, tempo/eternitá ecc. Maz il nibbana non ha niente a che fare
né "con questo mondo né con un altro mondo", non ha niente a che fare
con "andare venire rimanere" (notate qui il collegamento delle due
coppie di opposizioni: venire/andare e andare o venire/rimanere), niente a che
fare con "morire o nascere". In altre parole, il meccanismo degli
opposti, di "né/né", non si applica a esso. Non si puó quindi
affermare che, poiché "é senza supporto, sviluppo e fondamento", é
semplicemente "nulla", dal momento che il concetto di "nulla"
é anch'esso parte della dimensione "né/né" (qualcosa/nulla). In ogni
caso, qualsiasi rapporto tra il concetto di "nulla" e il nibbana é
giá stato negato all'inizio della citazione. L'assimilazione del nibbana al
"nulla, cioé la visione nichilista dell'inseggnamento del Buddha, é stata
sempre, comunque, una tentazione per chi si avvicina al suo iinsegnamento
dall'esterno (ovvero cercando di comprenderlo intellettualmente, senza
praticarlo). Questa era, infatti, una delle obiezioni piú comunemente sollevate
contro l'insegnamento del Buddha da altri capi religiosi del suo tempo. Per
mostrare che tale obiezione era infondata in un'altra occasione il Buddha
dichiaró enfaticamente:
C'é,
monaci, qualcosa che non é nato, né originato, né fatto, né composto. Monaci,
se non ci fosse ció che non é nato, né originato, né fatto né composto, allora
non si conoscerebbe il modo per liberarsi da ció che é nato, originato, fatto,
composto. Ma, monaci, poiché esiste qualcosa che non é nato, né originato, né
fatto, né composto, allora si conosce un modo per liberarsi da ció che é nato,
originato, fatto e composto.
Il senso di queste parole deve essere indagato
attentamente. Il Buddha afferma categoricamente che "c'é qualcosa di non
nato ecc." e che quindi "c'é il modo di liberarsi da ció che é nato
ecc.", ovvero che esiste una cosa quale il nibbana che, come sappiamo, é
la fine della sofferenza propria di tutto ció che é nato ecc. Il nibbana non é
semplicemente il "nulla" (una categoria che, come abbiamo appena visto,
non é in nessun caso applicabile) e il Buddha spiega ancora una volta che é
qualcosa di diverso dal mondo dellamente e della materia con cui abbiamo
familiaritá. Questa volta egli formula la distinzione nei termini piú ampi e
compresivi possibili. Precedentemente aveva chiarito che il nibbana non era né
fisico né metafisico. Ora ci dice che non ha niente a che fare con nessun
aspetto di tutte le concatenazioni di mutue relazioni, di causa ed effetti,
mentali e materiali, che costituiscono l'universo che percepiamo abitualmente.
Tutto ció che esiste - dalle galassie ai
virus, dai concetti matematici agl istinti primordiali é, in un modo o in
altro, nato, originario o fatto, e certamente composto (costituito di
determinati elementi e di meccanismi operanti). In questo senso, il nibbana non
esiste. Ma, nondimeno, é qualcosa di reale e accessibile alla conoscenza che lo
sperimenta ("se non ci fosse ció che non é nato... allora non si
conoscerebbe il modo per liberarsi da ció che é nato... Ma poiché esiste
qualcosa che non é nato... allora si conosce un modo per liberarsi da ció che é
nato").
Nondimeno, come abbiamo appena rilevato, sia al
tempo del Buddha che in seguito, e in molte occasioni, tale affermaziione
categorica non impediva, alle persone che non potevano o non volevano accettare
la realtá di "qualcosa" di concettualmente indefinibile come il
nibbana, di etichettare l'insegnamento del Buddha come un puro e semplice
nichilismo. Costoro hanno visto nell'etimologia stessa della parola un avallo a
questa interpretazione poiché sia il sanscrito nirvana che il pali nibbana
derivano dalla combinazione del prefisso negativo nir con la radi`e va
(soffiare), cosicchçé nirvana o nibbana significherebbe "cessare di
soffiare" oppure estinguersi come una fiamma a cui manca l'ossigeno. La
risposta del Buddha era:
In un
certo senso si potrebbe giustamente dire di me: "Il monaco Gotama é un
nichilista, predica la dottrina dell'annullamento e la insegna ai suoi
discepoli". Io insegno l'annullamento del desiderio, dell'odio e dell'illusione,
insegno l'annullamento di molte cose cattive e nocive. In tal senso si puó
giustamente dire di me che: "il monaco Gotama é un nichilista e predica la
dottrina dell'annullamento e la insegna ai suoi discepoli"
E affermava solennemente il valore positivo del
nibbana in termini di pace e di suprema realizzazione:
Esso é la
pace, é il piú alto, cioé la fine di tutte le cose composte, l'abbandono di
ogni substrato dell'esistenza, l'estinzione del desiderio, lo svanire, la
cessazione, il nibbana.
Consideriamo quest'affermazione che, ancora una
volta, non é dovuta all'ispirazione poetica, ma informa in modo c0ncreto. Con
"tutte le formazioni" (sankhara) ci si riferisce a tutto ció che é
composto e condizionato, a ogni cosa inclusa nei cinque aggregati dell'attaccamento
che (come spiegato nella sez. 2.5.2.1 del capitolo VI) comprendono tutto ció
che puó essere percepito e conosciuto e per questo causa di sofferenza per
tutto il tempo in cui persistiamo nell'attaccamento. Questi aggregati, assieme
alla rete delle cause e degli effetti a cui danno origine, costituiscono i
"substrati dell'esistenza", che nell'insegnamento del Buddha sono
quattro:
1. Gli stessi cinque aggregati dell'attaccamento
2. Il desiderio sensuale, che comprende il gioco
di "volere" e "non volere", il quale é la causa prima della
sofferenza.
3. Le cosiddette dieci contaminazioni (un altro modo, come in tutte queste
classificazioni, di raggruppare - per spiegare e insegnare - i principali
ostacoli e le qualitá nocive che dobbiamo superare in noi stessi; si noterá che
alcune sono giá apparse in altri raggruppamenti). Esse sono: aviditá e odio e
illusione (le tre "radici dell'esistenza",l aviditá e odio sono due
aspetti dell'attaccamento - volere/non
volere - che nasce esso stesso dall'illusione, dall'incomprensione che ci fa
considerare il transitorio duraturo, e dal conseguente desiderio per esso);
presunzione (vista in precedenza come uno dei legami) e visionispeculative (che
sorgono in conseguenza del legame dell'ignoranza); dubbio (classificato anche
altrove come legame e ostacolo); pigrizia e agitazione (altri due ostacoli); e
infine due aspetti etici: impudicizia (descritto come "mancanza di v
ergogna morale", l'essere cioé senza scrupoli) e mancanza di timore morale
(non temere le conseguenze nefaste, per se stessi e per gli altri, di un
comportamento cattivo e pericoloso)
4. Kamma: é importante comprendere che kamma (o
karma, la forma sanscrita della parola invalsa nelle lingue occidentali)
significa atto. In modo specifico, il kamma é la volizione, un atto di volontá
con i suoi concomitanti fattori mentali e affattivi. L'atto puó non travalicare
la sfera mentale (desiderio, intenzione, disposizione ecc.) oppure manifestarsi
con parole e azioni, ma a tutti questi livelli (anche a quello puramente
mentale e non manifesto) é sempre un atto, sempre un kamma che comporta - per la legge di causa ed effetto - inevitabili conseguenze (kamma vipaka:
letteralmente "maturazione dell'atto") che condiziionano la nostra
esistenza seguente.
Il Buddha insiste su un punto essenziale: ció
che si deve raggiungere é "l'estinzione del desiderio" - il desiderio che, con il conseguente
attaccamento, é la radice e la fonte dei nostri problemi (ricordate ció che si
é detto a tale proposito nel capitolo II, alla sezione 3.2) - "lo svanire
e la cessazione". "Svanire" é la traduzione piú letterale
dell'importante termine viraga (letteralmente, "perdere colore") e
indica sia il fatto che tutti i fenomeni svaniscono o passano, sia lo svanire
del desiderio per questi fenomeni transitori e dell'attaccamento a essi, una
volta compresa gradualmente, con una comprensione sperimentata direttamente, la
loro natura impermanente. E' per via di quest'ultimo significato che il termine
pali é spesso tradotto anche con "distacco" o "imparzialitá".
Poiché cosí si lascia peró da parte una delle due connotazioni, sembra
preferibile essere piú letterali, anche se "svanire" puó suonare di
primo acchito un po' strano.
La
"cessazione" (nirodha), un sinonimo frequente di nibbana, é la cessazione
dell'illusione e dell'ignoranza attraverso la piena comprensione della natura
effimera di "tutte le formazioni". Appena si comprende ció cessa
l'attaccamento poiché si vede che, letteralmente, non esiste nulla a cui
attaccarsi. Con la cessazione dell'attaccamento non ci sono piú né ansia né
angoscia, né infelicitá. E' la fine della sofferenza. E' il nibbana.
Il fatto che non si possa dare nessuna
formulaziione concettualmente soddisfacente sull'essenza e la natura intrinseca
del nibbana non significa, comunque, che esso non informi l'intera esistenza di
chi lo esperisce. Come abbiamo detto nel capitolo III, la persona che consegue
la liberazione del nibbana, grazie all'esperienza della visione penetrativa,
vive in modo realmente diverso. Anche le attivitá piú comuni o gli eventi piú
ordinari vengono vissuti e affrontati in modo diverso da quello a noi comune,
condizionati come siamo da innumerevoli desideri, antipatie e illusioni. Ecco
perché nel corso di questo libro ho piú volte parlato della realizzazione della
visione penetrativa nei termini di una totale integrazione, di una
ristrutturazione della psiche umana e di un superamento permanente delle
abituali strutture psicomentali. Certo, tutti questi termini non sono che
approssimazioni, modi di dire, ma tentano di fare la sola coa che si puó
tentare di fare, dare cioé una idea della natura straordinariamente positiva
dello stato o dell'esperienza nibbanica, uno stato che (come spiegato alla fine
del capitolo III) puó essere descritto come uno stato di coscienza elevato,
contraddistinto dalla totale disponibilitá e aprrtura nei confronti degli
esseri, nella pienezza delle quattro virtú cardinali del buddismo>
compassione, gioia altruistica, benevolenza (o amore universale) e perfetta
equanimitá (che é il fondamento essenziale degli altri tre). Ritorneró su
queste virtú o stati sublimi, come sono stati chiamati tradizionalmente, nel
prossimo capitolo. Prima, tuttavia, vorrei concludere queste brevi note sul
nibbana citando tre fra i moderni studiosi di buddismo che meglio ne hanno
compreso e formulato il significato essenziale:
Per
l'esuberante ottimismo dei primi buddisti, il valore del nibbana nella sfera
dei sentimenti é di pace e riposo, perfetta mancanza di passione e, pertanto,
suprema felicitá [T. W. Rhys Davids]
Solo
concettualmente il nirvana é negativo; nel modo di sentirlo, al contrario, é il
positivo nella forma piú pronunciata [R. Otto]
[Nibbana]
é uno stato di piena realizzazione, in cui tutti i bisogni e le emozioni sono
svaniti, uno stato di serena contentezza e di completa penetrazione
intellettuale. E' uno stato di libertá interiore, in cui ogni dipendenza,
insicurezza e difesa sono scomparse. Il comportamento etico é diventato una
seconda natura e la disposizione verso gli altri é improntata all'amicizia,
all'accettazione e all'umiltá. [Rune Johansson]
❍ 8. Benevolenza ed equanimità
❖ 1.
❖ 2. L’equanimità (upekkha)
❖ 1.
Nel capitolo IV (sez. 4.6) abbiamo fornito una
breve descrizione dell'uso dei quattro stati sublimi come supporti di meditazione
per lo sviouppo della concentrazione. Nel capitolo V, parlando della
meditazione di quiete, abbiamo spiegato che tre di questi stati sublimi -
benevolenza, compassione e gioia altruistica -
possono essere usati per conseguire il terzo stato di assorbimento,
mentre l'equanimitá é particolarmente adatta quale base per il quqarto
assorbimento, distinto proprio dalla predominanza di questa qualitá. Abbiamo
cosí definito l'ambito di utilizzazione dei quattro stati sublimi come elementi
- che potremmo chiamare tecnici - per
sviluppare la concentrazione in modo da conseguire certi stati di sviluppo
della quiete. Ma, come giá abbiamo osservato, la qualitá veramente importante
di questi stati sublimi, che ben possono essere chiamati le quattro virtú cardinali
del buddismo, é la funzione fondamentale che essi hanno nello sviluppo morale e
spirituale del meditante, cosa importante non solo per lo sviluppo della
quiete, ma soprattutto per la progressiva realizzazione della visione
penetrativa.
E' ora il momento di dire qualcosa su
quest'aspetto e lo faró riferendomi in particolare a due dei quattro stati
sublimi: benevolenza ed equanimitá. Non c'é bisogno a questo punto, di
discutere separatamente gli altri due perché (come giá visto nel capitolo IV)
la benevolenza o metta, é la piú completa manifestazione dell'amore
disinteressato per il prossimo, e racchiude in se stessa sia la compassione che
la gioia altruistica (che sono le due manifestazioni specifiche in relazione
alle sofferenze e alle gioie altrui). Cosí, ció che si puó dire della prima
vale anche per la seconda. Riguardo a upekkha, l'equanimitá, un momento di
riflessione basterá a mostrarne l'importanza capitale: un animo equilibrato,
non turbato dall'attaccamento né dall'avversione, é l'unica base possibile di
un amore veramente disinteressato, di un reale altruismo. Consideriamolo quindi
per primo.
❖ 2. L’equanimità (upekkha)
Come indicato nel capitolo IV l’equanimità fa
parte sia dei mezzi che dei fini del processo di liberazione. La sua funzione
in quanto mezzo è già stata vista quando abbiamo parlato dell’utilizzazione
degli stati sublimi come supporti meditativi per sviluppare la concentrazione
mentale. Nel capitolo IV, dopo le considerazioni preliminari (che nel caso
dell’equanimità si riferiscono ai danni recati dalle emozioni e ai benefici di
una mente tranquilla e in pace), abbiamo spiegato come l’equanimità vada
coltivata in relazione a diverse categorie di persone con cui si hanno diversi
gradi di coinvolgimento affettivo. Si inizia con qualcuno verso cui nuriamo
solamene sentimenti neutri (il caso più facile per mantenere stabile l’equanimità),
si passa oi a una ersona cara e alla fine (è lo stadio più difficile) si
sviluppa l’equanimità nei confronti di qualcuno con cui siamo in termini
ostili. In questo caso lo sviluppo dell’equanimità persegue due scopi. In primo
luogo, a livello della meditzione di quiete (cioè la meditazione samatha)’ è un
mezzo perentrare e permanere nel quarto assorbimento caratterizzato dalla
presenza dell’equanimità e della purezza della presenza mentale. In secondo
luogo, ciò ha a un’evidente importanza nella vita quotidiana, poiché è ovvio
che l’esperienza intensa dell’equanimità durante lo stato di assorbimento
(anche se non produce l’irreversibile trasformazione della psiche che può
essere conseguita attraverso la visione penetrativa) non può non avere un
effetto benefico generale sull’equilibrio mentale ed emotivo del praticante,
anche dopo che questi è uscito dall’assorbimento ed è tornato al “normale”
stato di coscienza. Ciò avviene soprattutto se, sulla base dello stato di
assorbimento, il meditante ha praticato l’esercizio di “effusione, in cui
l’equanimità non viene coltivata solo verso individui specifici, bensì estesa a
tutti gli esseri viventi. La consapevolezza, dopo che è stata sviluppata, si
estende gradualmente in egual misura in tutte le direzioni dello spazio e in
relazione a tutti gli esseri in esso viventi. Daremo una descrizione più
dettagliata dell’esercizio di “effusione” (che è simile per tutti gli stati
sublimi) in connessione con la pratica della benevolenza. Nella sua forma meno
intensa (basata sulla concentrazione d’accesso piuttosto che sulla piena
concentrazione) la meditazione di metta o meditazione di benevolenza,
rappresentando sia lo sviluppo che la manifestazione di una disposizione
d’animo di amore disinteressato, è infatti una delle pratiche più frequenti e
popolari nei paesi buddisti.
Riguardo l’equanimità come fine, si deve
considerare che essa è un elemento imprescindibile dell’esperienza del nibbana,
dal momento che quel più alto stato di coscienza che è lo stato nibbanico