MAHAJ IL COMPASSIONEVOLE


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«Grazie, maestro, per aver versato la tua kundalini nel mio vaso».

«Di niente», disse Mahaj il Compassionevole, il discepolo prediletto di Swami Praktikananda, il Dispensatore della sapienza di Krishna, ora un po' rosso e affaticato.

La giovane e avvenente discepola uscì ancheggiando e lisciandosi la minigonna. Mahaj si perse per qualche secondo nella contemplazione delle sue curve e pensò di richiamarla per un quarto d'ora di esercizi supplementari. Ma no, doveva razionare la sua kundalini. Ultimamente ci aveva dato troppo dentro.

Era in uno stato di pace interiore post-coitale, si sentiva in armonia con il cosmo, quando udì una voce.

«Posso entrare, maestro?»

Mahaj imprecò mentalmente. Si trattava dell'insegnante di Lanzo. Con lei aveva un serio problema didattico. Erano mesi che le lanciava velate metafore sessuali: la serpe e la caverna boscosa, la spada e la sua guaina, il lingam e la fessura umida tra le rocce, ma quella non aveva ancora afferrato. Mahaj era sbalordito da tanta ottusità.

In compenso, continuava a chiedergli massime ispirate. Era una fanatica delle frasi fatte. Non le bastavano mai. Lui non era mica Krishnamurti: era ricorso all'improvvisazione, poi ai bigliettini dei Baci Perugina, di cui era ghiotto, poi all'Almanacco di Frate Sole, e alla fine aveva chiesto ad Oona di trascrivergli le battute dei tronisti di Maria de Filippi, di cui lei non perdeva una puntata. Con quelle, fu definitivamente a posto.

Se dal lato kamasutra la discepola sembrava non sentirci, in compenso gli pagava una esagerazione in collanine e braccialetti contro la negatività dei colleghi. Mahaj le rifilava la paccottiglia dei nigeriani che vendevano sotto i portici di Via Nizza. Il ricarico era notevole; doveva stare solo attento, perché qualche collanina portava il logo made in PRC – Popular Republic of China.

Ma quel pomeriggio la Provvidenza di Krishna gli aveva riservato una gradita sorpresa. Proprio quando non sperava più di poter combinare qualcosa, lei gli aveva rivelato che stava provando scene di burlesque, ma non aveva ancora potuto esibirsi nella vasca di champagne, non avendone trovata una. Con un colpo di genio lui aveva proposto la sua Jacuzzi nuovissima con le luci colorate e le bollicine e si era offerto di provare il numero insieme. L'accolita aveva accettato riconoscente: «Grazie, maestro».

Era proprio vero. Quando meno te lo aspettavi le cose andavano per il verso giusto. La Provvidenza esisteva, mica scherzi. Non vedeva l'ora di avere la discepola nella Jacuzzi.

Appena fu andata via, si sentì sfinito. «È ora di una pausa, ho bisogno assoluto di tirarmi su». Disse a Oona: «Ho bisogno di stare solo per rigenerare la mia kundalini».

«Sì, maestro, vigilerò alla tua porta».

Rivla brontolò «Bisognerebbe prenderla a scarpate in testa, la sua kundalini».

«Altroché» disse Marica.

Oona trovava le altre ragazze sboccate e irrispettose, e glielo disse.

«Ringrazia il Buddha Misericordioso che sei racchia come il culo peloso di Hanuman, altrimenti avrebbe insegnato anche a te la posizione del vaso che accoglie la rugiada di Krishna» ringhiò Marva.

Oona pianse. Le ragazze si rabbonirono. «Oona, sei una brava figliola. Cerca solo di essere meno ingenua e di depilarti un po', se ci riesci». E se ne andarono al bar di sotto.

 

Rimasto solo, lo Swami mise un video porno e si apprestò a rigenerarsi con un buon sorso di grappa, in attesa dell'arrivo del pusher. Aveva messo su ciccia, ma l'avrebbe smaltita. Tutta l'attività che faceva lo manteneva snello. Controllò le compresse di Viagra che aveva ancora a disposizione. Le riponeva nel piedistallo della scultura che rappresentava la danza di Shiva. I soldi dell'incasso giornaliero erano invece contenuti nella pancia di Ganesha.

Quella sera aveva prenotato un tavolo al night club Trocadero e avrebbe assistito ad uno spettacolo di lap dance. In futuro ci avrebbe portato le sue ragazze perché imparassero. Era ora di modernizzare.

Aveva proprio bisogno del cicchetto. Si avvicinò all'altare col Buddha Maitreya. La pancia si apriva e esibiva la grappa stravecchia che apprezzava particolarmente. Il Buddha era accessoriato con un sifone del seltz che, premendo un bottone mimetizzato nell'ornamento in mezzo alla fronte, erogava dal sedere. Mahaj si rilassò dopo una dura giornata di lavoro. Bevve d'un sorso il liquore. Ci voleva proprio. Ma prima di concedersene un secondo aveva ancora una cosa da fare. Scaricò da internet il messaggio del mercoledì da Medjugorje. Lui cambiava il nome della Madonna sostituendolo con la Dea Parvati, e funzionava a meraviglia. Postava i messaggi sul suo sito e riceveva commenti entusiastici dalle discepole, che non si erano mai accorte di niente.

Aveva appena finito che Oona si affacciò alla porta. «È arrivato il tuo fornitore di incenso, o Swami». Gli diede il sacchetto che le aveva consegnato all'ingresso André il senegalese.

«Ottimo» fece lui. Era ora, aveva bisogno di qualcosa per tirarsi su. Doveva ricordarsi di telefonare al commercialista per dirgli di accreditare al pusher la solita somma. Sperava che la roba fosse migliore dell'ultima volta, altrimenti avrebbe cambiato fornitore.

«Fornitore di incenso un par di palle» disse Marva dalle scale, di ritorno dal bar. Aveva una vera passione per le frasi sconce e le imprecazioni in italiano che imparava dai clienti. Oona fece finta di non aver sentito. Certe mancanze di rispetto per il maestro la ferivano.

 

Mahaj si dedicò agli esercizi di respirazione alternata. Aspirò cocaina prima con una narice poi con l'altra, poi ripeté il procedimento. Il prana circolò violentemente per i due canali principali, le nadi Ida e Pingala, e gli scappò una scoreggia di sorpresa.

«Per le settuplici palle di Shiva, questa roba è potente». Diede un'altra aspirata. Stava andando in orbita.

 

In quello stesso momento il pusher senegalese era al telefono con un fantino infuriato. La polvere che lui aveva fornito per drogare Geroboamo, il cavallo che i boss del racket delle scommesse volevano vincesse la settima corsa, aveva fatto schifo. Il cavallo era arrivato ultimo. Il pusher non avrebbe mai capito il perché dei nomi idioti che venivano dati ai cavalli da corsa, ma tutto l'ambiente, compresi gli appassionati che scommettevano, non brillava per il quoziente di intelligenza. Moltissime corse erano truccate, anche un imbecille se ne sarebbe accorto.

Improvvisamente un pensiero gli attraversò la mente. «Di che colore era la busta che ti ho dato?»

«Era rossa, razza di deficiente» rispose l'altro.

Il pusher sbiancò e riattaccò il telefono. La busta per Geroboamo era bianca, quella per Mahaj era rossa.

«Merdamerdamerda!» Partì a razzo verso Via San Quintino. Aveva dato a Mahaj la dose destinata a dopare un equino di quattrocento chili.

 

Mahaj dichiarava nel suo sito e nei depliant del Centro di essere il discepolo di Swami Praktikananda, un guru che anni addietro aveva raggiunto una certa notorietà in Europa. In realtà era l'autista del guru, specializzato in fughe rapide dai creditori e dai genitori infuriati delle ragazzine, nonché elettricista degli spettacoli e fornitore di donne al Maestro.

In India, accolto in un hostel per orfani gestito da missionari cattolici, Mahaj aveva frequentato fino all'equivalente della seconda superiore, fingendo di voler prendere i voti e diventare sacerdote. Era stato cacciato quando l'avevano scoperto a gestire il racket dello sfruttamento delle ragazzine della camerata femminile. Aveva girovagato un po' a Calcutta fino a quando non era capitato nella comunità dello Swami, che ne aveva intuito i talenti e l'aveva nominato assistente personale.

Alla morte di Swami Praktikananda, deceduto di infarto alla veneranda età di 55 anni, raggiunta grazie alle pratiche di longevità che insegnava ai discepoli, lui aveva dato fuoco alla vedova, dicendo che si era suicidata ritualmente per unirsi al marito e che aveva lasciato a lui la missione di proseguirne l'attività.

Aveva un'ottima memoria, e aveva imparato tutte le espressioni e i gesti usati dallo Swami. Quattro o cinque libri gli avevano insegnato tutto quello che c'era da sapere sullo yoga, i chakra e la kundalini. In Italia si era dato ad insegnare il Krishna Lila Yoga, della cui esistenza aveva appreso quando gli erano capitate casualmente tra le mani le dispense dell'università della terza età di Andora, che qualcuno aveva lasciato sul treno Genova-Torino. Erano perfette, scritte in italiano, molto chiare e riscuotevano un grande successo.

Era stato in molti Paesi, diceva il suo sito, dove aveva fondato delle comunità di preghiera che erano vive e attive. In Inghilterra era stato espulso per corruzione di minorenne. In Germania denunciato dalla vicina impicciona per orge troppo rumorose condite da cocaina. In Francia era ricercato per sfruttamento della prostituzione ed evasione fiscale. In Italia si trovava benissimo ormai da quattro anni.

Per dirne una, la Chiesa cattolica, dopo il Concilio di Trento, aveva fatto un ottimo lavoro nel reprimere il libero esame dei testi sacri. Nei Paesi nordici i suoi discepoli leggevano troppo e lo molestavano con continue domande e interrogativi metafisici. Le italiane erano abituate a sottostare al magistero dell'autorità religiosa: ascoltavano e basta. Si bevevano tutto, ma proprio tutto, e non lo importunavano.

La prima parola di italiano che gli avevano insegnato era "tangente". Quando la polizia aveva fatto irruzione nel suo monolocale, aveva pensato che avrebbe dovuto rassegnarsi ad una nuova espulsione, e invece il maresciallo gli aveva spiegato il sistema delle tangenti. Mahaj ne era rimasto ammirato ed entusiasta. "Gli italiani sono un popolo geniale, di grande ed antica civiltà" aveva pensato.

Una istituzione così nobile e ben congegnata doveva sicuramente risalire alla più alta antichità. Probabilmente Muzio Scevola, con la mano buona, chiedeva già la tangente ai Sanniti e successivamente i Romani, dalle popolazioni confinanti, avevano esteso il costume ai popoli conquistati. Solo con quelli dell'ufficio imposte di Torino non si poteva ragionare. La civiltà della tangente purtroppo non era penetrata fin lì.

 

Gli affari andavano a gonfie vele, e aveva affittato un appartamento in Via San Quintino. Sul portone, sotto il nome del Krishna Lila Yoga Institute, Asilo dell'Amore Rigeneratore, era scritto: "Massaggio 50 euro, iva inclusa, DPR 29/09/1973". Alle pareti erano affisse immagini di Apsaras, le ninfe indiane, in pose voluttuose. Nell' atrio campeggiava una sua gigantografia, una di quelle terribili foto di inizio Novecento color seppia con i colori ritoccati.

«Sembra la foto che hanno messo sulla tomba di mio nonno» disse Rivla.

«Hai l'aria ebete» disse Marva.

«Altroché» fece Marica, «hai la stessa faccia di quando una delle discepole ti ha appena…»

Mahaj aveva urlato loro di stare zitte. Rivla gli aveva fatto una linguaccia e un gesto osceno.

«Cazzo, ben fatto» disse Marva.

«Altroché» concluse Marica.

Esistevano ingressi separati per uomini e donne. Per gli uomini metteva un annuncio sulla rivista Secondamano, nella sezione "Massaggi", dove veniva reclamizzato il massaggio tantrico a quattro mani e l'ingresso indipendente, che nel gergo dei centri voleva dire ingresso dal retro per clienti che temevano di essere riconosciuti.

Dei massaggi maschili si occupavano Mita, Ratna e Padma. Aveva ribattezzato così le tre zingare albanesi stanche dei papponi che aveva raccolto alla periferia di Rimini e convinto ad unirsi a lui.

La storia del maestro inviato dalla provvidenza non era durata a lungo e si erano rifiutate di scopare senza compenso, ma non volevano tornare dai loro uomini, e avevano negoziato una percentuale accettabile dei loro introiti da versare a Mahaj. Erano molto giovani e carine, attiravano parecchia clientela. Si chiamavano Rivla, Marva e Marica. Con un sari somigliavano passabilmente a indiane. Stentavano a ricordare i loro nomi finti, così Mahaj li scrisse su un cartellino da portare addosso. L'unico problema era che non c'era niente dove appuntarlo visto che, nonostante la pretesa di Mahaj che accogliessero i clienti in sari, ciabattavano per l'appartamento nude o in baby doll e perizoma. Non che ci fosse pericolo di fraintendimenti con i clienti. L'annuncio su Secondamano era abbastanza esplicito. Una sola volta Mahaj aveva dovuto scusarsi con un cliente e gli aveva detto che le tre discepole stavano studiando pratiche tantriche. Quello aveva mangiato la foglia e fortunatamente non era venuto più.

 

Aveva mandato Rivla, Marva e Marica ad imparare il massaggio in un centro Shiatsu, a proprie spese, ma con scarsi risultati. Tuttavia qualcosa riuscivano a fare.

Dei massaggi femminili e dei corsi personalizzati alle discepole si occupava personalmente. Quando la pressione della cura del gregge si faceva eccessiva chiamava il marocchino che occupava abusivamente, con altri cinque connazionali, la mansarda del suo stabile. L'aveva ribattezzato Kabir Bedi, gli aveva fornito una camicia bianca, pantaloni bianchi, sandali e turbante e lo presentava alle donne come suo promettente discepolo. Gli aveva insegnato quattro-cinque frasi in Hindi e lo pagava dieci euro a massaggio. Di più no, visto che Kabir Bedi si divertiva parecchio a massaggiare. Mahaj era certo che l'avrebbe fatto anche gratis, non fosse stato per l'etica levantina degli affari, che imponeva a Kabir di chiedere comunque un compenso.

 

Gli italiani sugli autobus, nei bar, per le strade, erano sempre più incazzati dalla crisi, dal governo e dalle tasse, ma a lui le cose stavano andando a gonfie vele. La sua clientela era costituita in parte notevole da insegnanti, che normalmente erano mogli di medici o professionisti danarosi  ritenuti lo standard minimo di marito, perché in un paese depresso come l'Italia, dove pochissime donne erano professioniste, scienziate o manager, le insegnanti si consideravano il vertice dell'evoluzione della specie femminile. Per loro nessun uomo era troppo. Quelle che frequentavano centri come il suo puntavano addirittura all'unione con la divinità. Da non credersi.

Si reputavano profonde intellettuali, e quindi si sentivano obbligate ad accogliere con la massima serietà qualsiasi panzana venisse loro propinata, fosse l'ideologia di sinistra o le belinate new age. Avevano un sacco di tempo libero e non sapevano cosa farne. Erano state attente a non scodellare più di un prezioso figlio al marito e avevano preteso immediatamente colf e baby-sitter perché, gli dicevano, l'espletamento dei loro doveri scolastici richiedeva sacrificio e dedizione incessante. In realtà, passavano il tempo affollando conferenze new age, centri massaggi, palestre yoga e saloni di ricostruzione unghie.

L'Italia era una vera pacchia, un Paese che non finiva di stupirlo. Mentre si documentava sul tipo di lavoro delle sue clienti, l'insegnamento e la scuola, gli era caduto l'occhio su un post di argomento didattico di un certo Giuseppe D'Anna, dirigente scolastico non si ricordava più di quale istituto. Quel dirigente si raccomandava solo della puntualità degli ingressi. Era rimasto allibito. Successo didattico garantito per tutti. Programmazione per livelli minimi. Attenzione ai Bisogni Educativi Speciali, con esenzione dalle prove normali per quelli che dichiaravano di avere difficoltà familiari o linguistiche.

Doveva proprio convincere sua sorella a mandare quel sottosviluppato di suo nipote in Italia: non avrebbe avuto speranza neanche col sistema scolastico somalo, ma qui, a quanto pareva, non doveva neanche parlare la lingua nazionale. Per allettare quel somaro avrebbe potuto utilizzare il richiamo sessuale: le scuole italiane, a quanto gli dicevano i suoi conoscenti indiani che mandavano i figli alla scuola pubblica, erano piene di piccole zoccole, che facevano il corso di apprendistato in vista delle performances adulte.

 

Oona era la figlia orfana di una lontana parente dello Swami, che lui aveva accolto con sé perché gli serviva un factotum. Non se ne era pentito: la ragazza era volenterosissima e lo adorava. L'unica complicazione era stata farle accettare Rivla, Marva e Marica.

Le aveva spiegato per un'ora le basi religiose della prostituzione sacra. Simbolo di ierogamia, le aveva sottolineato, si praticava nell'antichità, generalmente nel recinto di un tempio, allo scopo di assicurare la fecondità della terra e degli animali. Un rito di fertilità che rappresentava l'unione con la divinità e, talvolta, l'unità stessa dei viventi nella totalità dell'essere.

Oona dubitava che in Rivla, Marica e Marva albergasse un seppur minimo barlume di divinità, ma tenne per sé i suoi dubbi. Le scocciava solo pulire dopo le ierogamie tra i panciuti ed anziani clienti e le tre ragazze, che lasciavano un disastro, gettando preservatiti usati dappertutto.

 

Proprio mentre stava accingendosi ad uscire, dopo aver riposto quel che rimaneva di quella droga straordinaria sotto il candelabro a sette braccia, Mahaj si era visto arrivare una donna e due uomini che gli avevano chiesto di andare con loro a visitare un malato. La donna, Raduka, insisteva nel dire che lui era in grado di guarire imponendo le mani.

Alla fine Mahaj aveva capito di che faccenda si trattasse. Due settimane prima aveva caricato una ragazza a Stupinigi per una sveltina. Quella l'aveva portato nella casa dei dintorni dove viveva ed esercitava il mestiere insieme alle altre compagne. Le ragazze avevano trovato un bruttissimo ed enorme alano che vagava per la campagna e si erano intestardite ad adottarlo.

Quando lui era arrivato la bestia stava agonizzando e loro, disperate, gli avevano chiesto aiuto. Mahaj aveva lavorato per qualche tempo in un canile ed aveva un po' di esperienza di ciò che possono ingerire i cani, specie quelli di grosse dimensioni. Aveva ficcato senza tanti complimenti tre dita nel culo dell'animale, da cui aveva intravisto spuntare qualcosa, e aveva estratto per la coda il cadavere semidigerito di un chihuaua.

«Ecco il tappo che aveva nel culo – volevo dire la negatività che era in lui» aveva detto. La bestia si era subito ripresa e, offesa, aveva tentato di morderlo. Mahaj lo aveva calmato con un mattone in testa. Il cane aveva ripreso a dormire.

«Al risveglio cagherà – volevo dire espellerà – il resto della negatività e sarà come nuovo» disse alle tre ragazze in trepida attesa.

Quelle avevano strillato che lui era un chirurgo psichico, che operava a mani nude, come quelli filippini che compivano miracoli alla televisione. Lui ne aveva approfittato per avere una prestazione gratis e se ne era andato, scordandosi l'accaduto.

 

I tre visitatori gestivano la scuderia di ragazze a cui apparteneva quella che era andata con Mahaj, la quale li aveva informati della faccenda del cane. Si erano presentati come i tre fratelli Kravcec, Raduka, Tvrtko e Milos. Raduka intendeva portarlo dal padre malato, perché lo curasse.

«Sei sicura di quello che fai?» aveva chiesto dubbioso Milos dopo un po'. «Secondo me questo è strafatto».

«Altroché» confermò Tvrtko.

«State zitti» ingiunse Raduka. Si rivolse al guru: «Ti daremo cinquantamila euro se verrai a guarire nostro padre».

«Porca zozza» chiosò Marva, e aggiunse «Minchia santissima».

«Uau» disse Rivla.

«Altroché» fece Marica.

Cinquantamila. Il numero penetrò nella foschia del cervello del Maestro. «Non c'è tempo da perdere».

«Guarda che se vai con quelli non torni» lo mise in guardia Rivla.

«Quelli sono papponi, ma del tipo peggiore» disse Marva.

«Altroché» aggiunse Marica.

«Però per cinquantamila euro metterei anch'io il culo su quella macchina, altroché, porca troia» ammise Marva, sfoderando le sue espressioni preferite.

Oona non sapeva cosa pensare. «È prudente, maestro?»

«L'uomo devoto getta al vento la prudenza e va dove lo spirito gli dice di andare» declamò Mahaj, che in quel momento si sentiva particolarmente ispirato. Quella droga era formidabile.

«Già, i soldi lo ispirano» disse Rivla.

«Puoi scommetterci i coglioni, lo ispirano veramente, maremma maiala» cinguettò Marva.

«Altroché» concluse Marica.

 

Il patriarca dei Kravcec giaceva incosciente in un letto, intubato e collegato a svariate macchine.

«Come ha fatto a ridursi così?» chiese Mahaj.

«Colpa di uno sforzo eccessivo, ha avuto un ictus mentre strangolava un altro pappone» spiegò Raduka con gli occhi lucidi.

«Già, povero padre, alla sua età dovrebbe lasciare a noi certe faccende» disse Milos.

Mahaj guardò le mani enormi del patriarca, che spuntavano dalle coperte, e rabbrividì.

«Puoi estrargli il coagulo di sangue con una operazione di chirurgia psichica?» chiese Raduka speranzosa.

Eh?, pensò lo Swami. Doveva prendere tempo, si sentiva parecchio confuso. Pensava si trattasse di un vecchietto su cui imporre le mani e recitare dei mantra, ma qui il caso era ben più serio.

Ma all'improvviso ogni esitazione si dissipò. Si sentiva un Dio, capace di risolvere ogni problema. Veramente incredibile quella cocaina. Doveva prenotarne almeno cento grammi, prima che quella partita sparisse dal mercato. Si avvicinò al letto. Raduka e i fratelli trattennero il fiato. A Mahaj pareva di levitare a trenta centimetri da terra. Vide parecchi tubicini attaccati al malato.

«In questi tubi scorre l'energia vitale di quest'uomo» spiegò solennemente ai fratelli Kravcec.

«Ora li connetterò al mio prana e guarirò istantaneamente vostro padre».

Staccò i tubicini e vi soffiò dentro. L'embolo raggiunse immediatamente il cervello di Petr Kravcec. Dopo un minuto si sentì un suono acutissimo e l'elettrocardiogramma si appiattì. Arrivarono tre infermiere trafelate seguite dai medici, ma non c'era più niente da fare.

 

Medici e infermiere erano andati via. I Kravcec stettero tutti e tre in silenzio di fronte al letto per un lungo momento, sbalorditi. Raduka ritrovò per prima la parola.

«Beh, tanto sarebbe morto lo stesso».

«Già» disse Tvrtko.

«Vero» disse Milos.

«Però non mi piace essere fregata» disse Raduka.

«Proprio no» disse Tvrtko.

«Per niente» disse Milos.

Tutti e tre guardarono Mahaj. «Lo portiamo dove abbiamo portato l'ultimo» decise Raduka.

«Sono pienamente d'accordo» disse Milos.

«Ok» disse Tvrtko, le cui abilità comunicative erano limitate alle interazioni violente con le ragazze o gli altri papponi, che riusciva sempre a convincere del punto di vista dei Kravcec.

«Dove sono i miei cinquantamila euro?» chiese Mahaj ancora in preda ai fumi della cocaina.

«Vieni con noi, che te li diamo» lo rassicurò Raduka.

Lo presero e lo misero in auto.

 

Arrivati a destinazione, Raduka gli disse: «Hai mai visto il funzionamento di un tritacarne industriale?»

«No» disse Mahaj. «Avrei dovuto? È divertente?» Era fatto come una pigna.

«Divertentissimo, ti facciamo vedere».

Nel capannone che il clan Kravcec aveva affittato a Nichelino come deposito dei furti negli appartamenti e nei cantieri c'era un enorme tritacarne ancora funzionante, che era stato utilizzato per produrre mangimi per bovini dalle carcasse di pecore prima che subentrassero i regolamenti restrittivi a seguito dell'encefalite BSE. Era in grado di triturare in una decina di secondi una pecora intera, compresi denti e zoccoli, facendone macinato fino di carne.

«Spogliati» gli disse Raduka, «è più igienico».

«Facciamo sesso?» le chiese lui speranzoso. Aveva sbirciato Raduka, era un grandissimo pezzo di gnocca. Si sbarazzò rapidamente dei vestiti.

Il tritacarne era in funzione.

«Cos'è che sta triturando in questo momento?»

«Un alano e la sua padrona, ma tra poco avrà finito». Lo presero per le ascelle e lo sollevarono.

 

La mattina dopo il maestro non si era visto in Via San Quintino. Il pomeriggio la povera Oona aveva avuto il suo daffare. Per cominciare, si erano presentate le due donne che avevano contattato il centro la settimana prima, indirizzate dalla discepola di Lanzo. Una era una insegnante, Carla Taschero, l'altra un'amica di nome Giulia. Erano venute per incontrare Mahaj, che avrebbe fatto loro visitare il Centro, ma il maestro non c'era e Oona aveva proposto un massaggio di prova a prezzo scontato. Quello era stato un grave errore.

Aveva chiamato Marica e Rivla e aveva dato loro istruzioni perché si comportassero bene. Macché: quelle arrivarono in T-shirt e shorts masticando chewing gum e fumando. Poi le sceme si erano messe a chiacchierare in albanese inframmezzato da espressioni sconce italiane. Oona si era messa le mani nei capelli. Le due clienti, molto educate, avevano mostrato segni sempre più evidenti di disagio.

Rivla aveva utilizzato per il massaggio la crema lubrificante anale anestetica di Marva. Le cose erano precipitate quando Marva era entrata seguita da un cliente nudo col membro inguainato con un preservativo rosso del tipo stimolante, irto di piccole protuberanze, a chiederla indietro, e aveva litigato con Rivla e Marica perché avevano sprecato il costoso tubetto.

Le due donne erano fuggite senza pagare. Carla Taschero piangeva come una fontana e continuava a ripetere: «Me l'aveva detto il collega… Chissà che malattie ho preso… Sono contagiata… Sono spacciata… Chissà che malattie ho preso…»

Poco dopo che le due erano uscite era arrivata un'altra insegnante, una certa Tiziana Comba, che pretendeva di vedere il Maestro senza appuntamento e già cominciava a lamentarsi dell'attesa e a sbuffare. L'aveva mandata via a fatica con la promessa di richiamarla al più presto e con tante scuse, prima che si incontrasse per errore con Rivla e le altre.

Neanche mezz'ora dopo aveva telefonato una certa Anna Balestra, una tipa terribile, che aveva minacciato di chiamare, nell'ordine: la Digos, la Buoncostume, la Asl, l'Ufficiale sanitario, l'Ufficio licenze commerciali del Comune, l'antiterrorismo, l'Interpol, il Gruppo Abele, l'Ufficio permessi per stranieri della Questura, la Finanza, la Direzione delle imposte dirette, la Procura della Repubblica, gli assistenti sociali.

Oona sapeva che Mahaj tremava al solo sentir nominare l'Ufficio delle imposte dirette, così tentò di rabbonirla offrendole un massaggio a quattro mani di Kabir Bedi e del cugino Rashid. Le urla all'altro capo del filo superarono la barriera dei 500 decibel.

La povera Oona non sapeva più che pesci pigliare. Quel pomeriggio capitavano tutte insieme, e i guai non erano finiti. Era arrivato un furgone refrigerato che pretendeva di consegnare 200 chili di carne tritata per alimentazione animale, e lei aveva un bel dire che c'era un errore, non disponevano di una cella frigorifera e non avevano adottato nessuna tigre del Bengala. L'autotrasportatore cominciava ad incazzarsi e minacciava di scaricare nella sala d'aspetto.

 

Era passato un mese. Del guru nessuna traccia. Oona aveva dovuto rimandare tutti gli appuntamenti a tempo indefinito e cancellare tutte le iniziative culturali. Passò un altro mese. Un pomeriggio le tre ragazze trascinarono Oona in un centro estetico a fare la manicure e la ceretta, e poi dal parrucchiere.

Alla fine, rimirarono il risultato.

«Però» disse Rivla.

«Sti cazzi» disse Marva.

«Altroché» disse Marica.

Depilata, truccata e acconciata, Oona le batteva tutte e tre.

Le proposero una società e cambiarono il nome del centro in Centro Ayurvedico del Massaggio delle Quattro Gnocche. Ebbero un successo travolgente.