La
finestra |
Sono
morto nel sonno.
Non
fu una gran morte. Quasi non me ne accorsi.
Sognai
che percorrevo un lungo corridoio, con tante porte a breve distanza l'una
dall'altra da entrambe le parti. La fine del corridoio non si vedeva, e non
c'era nessun altro tranne me. Sulla parete, a fianco di ogni porta, era appeso
un grande ritratto incorniciato, illuminato da una lampada collocata sopra di
esso.
Osservai
i volti, mentre li oltrepassavo: che cos'altro potevo fare? Solo i ritratti
rovinavano l'infinita uniformità del corridoio. Da quanto riuscii a valutare,
il numero di volti femminili e maschili era quasi pari. Per lo più si trattava
di gente in età avanzata, a volte davvero molto anziana, ma qua e là si
scorgevano anche persone più giovani, perfino bambini, anche se molto di rado.
I volti sembravano solenni, come succede nei ritratti - ben acconciati, un po'
rigidi, consapevoli della propria importanza. La maggior parte sorrideva, però
c'erano anche volti ai quali un sorriso semplicemente non si addiceva, e quindi
esibivano un' espressione di severa serietà.
Non
fui tanto sorpreso quando, accanto a una porta, vidi finalmente anche il mio
ritratto. Di certo non me lo aspettavo, ma nemmeno mi sembrò strano. Alla fin
fine, se così tante altre persone potevano avere un loro ritratto, perché a me
avrebbe dovuto essere negato? Del resto, dove si può sperare di avere una
posizione privilegiata, anche se di poco, se non nel proprio sogno? Per un
istante restai confuso dal fatto che non ricordavo quando il ritratto fosse
stato dipinto. Dovevo averne fatto da modello. O forse non era stato necessario.
Difficile dirlo. Non m'intendo molto del lavoro di pittore.
A
prescindere da come il ritratto era stato creato, a me sembrava ben riuscito.
Ero io, in una versione abbastanza veritiera. Nonostante mi avesse
rappresentato nell' attuale periodo della mia vita, il pittore aveva abilmente
stemperato alcuni spiacevoli segni della vecchiaia: mi aveva appianato un po'
le rughe sulla fronte e intorno agli occhi, mi aveva teso il doppio mento,
rimosso il giallore e le macchie dalle guance, scurito delle ciocche bianche.
Non era un ringiovanimento. Gli anni erano ancora lì, sul quadro, ma li portavo
in modo molto più vigoroso. E più importante di tutto: non si notava alcun
segno della malattia che mi aveva ormai notevolmente consumato. Un fotografo
non avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto, per quanto avesse tentato.
Rimasi
a lungo davanti al mio ritratto, osservandolo con soddisfazione. Ogni cosa,
tuttavia, ha la sua misura, anche il narcisismo. Non potevo rimanere lì in
eterno. Alla fine, sarebbe potuto arrivare qualcuno e mi avrebbe trovato in
quella posizione sconveniente, il che di sicuro sarebbe stato spiacevole.
Quindi: dove dovevo andare? Continuare lungo il corridoio? Non mi sembrava
promettente. Si protendeva all'infinito davanti a me, in quella direzione non
sarei arrivato da nessuna parte.
Tornare
indietro? Questa possibilità non mi era venuta in mente prima. Mi girai e capii
subito che non si poteva contare su di un ritorno. Solo pochi passi dietro di
me il corridoio spariva, immergendosi nel buio fitto, come se le lampade sopra
i quadri si fossero spente appena dopo il mio passaggio. Forse, se mi fossi
avviato in quella direzione, la luce si sarebbe riaccesa, ma non avevo voglia
di verificarlo.
Mi
girai - ed ebbi una nuova sorpresa. Alla parte del corridoio davanti a me era
successo come a quella dietro di me. Non era altro che un buio tunnel che
iniziava al margine del piccolo fascio di luce conico che si allargava sopra il
mio ritratto. Era l'unica fonte luminosa rimasta che comprendeva il quadro, la
porta accanto a esso e me: una minuscola isola d'esistenza circoscritta dal
denso, nero mare del nulla.
Non
avevo più il privilegio della scelta. Davanti a me c'era solo una strada. Nel
momento in cui abbassai la maniglia, ebbi il presentimento che qualcosa di
significativo fosse imminente, ma non riuscii subito a capire cosa. Solo quando
aprii la porta ed entrai nella stanza, compresi di essere morto. Mi accadde nel
tempo trascorso tra l'alzare e l'abbassare il piede, mentre entravo. Ero vivo
mentre iniziavo il passo all'esterno, e già morto quando lo finivo all'interno.
Avevo appena percepito il passaggio stesso. Fui attraversato da un flusso, un'
onda simile a un leggero tremolio o un dolce brivido durato quanto un battito
di palpebre, che poi passò, senza lasciare alcun segno, tranne la certezza
della morte.
Non
mi spaventai. La paura della morte ha senso prima di morire, non dopo. Fui solo
preso dalla confusione. Di quello stato, naturalmente, non avevo esperienza.
Del resto, come avrei potuto? Nemmeno me l'ero immaginato. Prima mi sembrava
insensato farlo, e a mano a mano che la malattia progrediva, pensarci mi
riempiva sempre più di avversione, e quindi per lo più avevo evitato di farlo.
Mi
chiesi per prima cosa se stessi ancora dormendo. Si dice che i defunti dormano
di un sonno eterno, ma forse non bisogna prendere questa cosa alla lettera. Si
tratta, dopotutto, di una metafora. A ogni modo, la scena che vidi non
assomigliava affatto a quelle che principalmente vedevo nei sogni. Non c'era
nulla di irreale o miracoloso. Anzi. La stanza nella quale mi trovai era uno
studio, arredato in modo signorile, certo, ma per nulla insolito. Non c'era
nessuno. Con qualche disagio mi misi a esaminarla, senza allontanarmi dalla
porta che avevo chiuso dietro di me.
Alla
mia destra c'era una massiccia scrivania nera. Una lampada con uno stelo
arcuato e un paralume verde illuminava una serie di oggetti sistemati sopra in
modo ordinato: una larga base in cuoio per la scrittura, un decorativo calamaio
in ottone con un ingombrante tampone assorbente, un supporto di legno a forma
di cubo perforato per le penne e le matite, un contenitore basso per i fogli di
carta, la lente d'ingrandimento con il manico in avorio, un candeliere a due
bracci senza candele, tre identiche scatolette ricoperte di velluto scuro, il
cui scopo non riuscivo a capire, un vaso da fiori bianco con una pianta senza
fiori ma con lunghe, sottili foglie, un supporto intagliato con tre pipe di
forme diverse.
Di
fronte alla scrivania, alla mia sinistra, erano sistemate due grosse poltrone
di cuoio marrone, con in mezzo un basso tavolino tondo. Sul tavolino c'era una
lampada con un paralume giallo bordato di frange, un libro e anche un vassoio
ovale con una caraffa coperta e due bicchieri capovolti sulle salviettine
rotonde. Dietro le poltrone si alzava una libreria che copriva la parete
intera. I libri che conteneva erano della stessa altezza e spessore, e i loro
dorsi apparivano di poche sfumature scure. Lungo il bordo della libreria si
elevava una scala a pioli le cui estremità erano fissate ai binari sul
pavimento e sul soffitto.
La parte centrale della parete di fronte alla
porta era occupata da un grande quadro, dentro una semplice cornice
rettangolare, con il lato più corto come base, fortemente illuminato dal basso.
Rappresentava lo scorcio di un cielo limpido, visto attraverso una finestra a
due battenti. Ebbi dapprima l'impressione che, in verità, non fosse nemmeno un
quadro, ma una finestra vera - tanto fedelmente restituiva l'azzurro profondo
del cielo.
I
battenti erano chiusi, ma nella tranquilla scena c'era una certa tensione che
presagiva che da un momento all' altro potessero aprirsi, forse sotto l'effetto
di una corrente d'aria, o perché raggiunti da una persona ancora non visibile,
ma la cui presenza si intuiva appena fuori della cornice, per via di un' ombra
palpitante. L'armonia delle linee dritte e dei colori uniformi era turbata da
una farfalla variopinta che ormai faticava nello sforzo di volare fuori,
ovviamente non in grado di concepire l'esistenza di un ostacolo del tutto
invisibile, ma lo stesso impenetrabile, come è un vetro.
Sulla
destra del quadro, nella semioscurità, c'era un orologio a pendolo dentro un'
alta cassa di mogano. Il vetro dell' antina era decorato negli angoli con
figure geometriche, e dalla serratura sporgeva una chiave esageratamente piccola.
Al primo momento mi parve di vedere una sola lancetta che indicasse il numero
più in alto, ma dopo aver guardato meglio ne vidi anche una seconda, più
piccola, nascosta da quella grande. Rimasi per un po' a guardarle, ma dato che
non cambiavano posizione abbassai sospettoso lo sguardo sul pendolo, e solo
allora mi resi conto che riposava in posizione verticale.
Alla
sinistra del quadro, giusto a fianco della libreria, c'era un' altra porta. Era
dello stesso colore della parete, e quindi si poteva scorgere solo grazie ai
bordi che si delineavano di un colore appena più scuro. Anch' essa si
distingueva per un aspetto insolito, che a un primo sguardo non avevo notato.
C'era la serratura, ma non la maniglia. Se questa porta si poteva aprire, lo si
poteva fare solo dall' altra parte.
E,
mentre la guardavo, accadde proprio questo.
Non
sentii alcun rumore. Semplicemente, una parte della parete si spostò in avanti,
in senso obliquo, e nell' apertura retro stante apparve una figura. La fissai
senza battere ciglio. Se non fossi stato già morto, direi che il mio cuore
avrebbe saltato un battito, e sentii correre un brivido lungo la schiena, fino
alla base del collo.
L'uomo
che si trovava di fronte a me non aveva un aspetto appariscente, ma quasi da
impiegato: di età avanzata, di bassa statura, stempiato, con brevi, folti baffi
che coprivano giusto il tratto sotto il naso, piccoli occhiali tondi di
metallo, abito scuro di taglio classico che non riusciva del tutto a nascondere
un certo eccesso di peso. Il sorriso che gli apparve sul volto rotondo e roseo
non sembrava forzato.
Mi
venne incontro deciso, allungando la mano.
Non
potei fare altro che stringerla. «Benvenuto! Benvenuto!»
Non
sapevo cosa rispondere, quindi sorrisi anch'io, anche se in modo un po' teso.
Rimanemmo così per qualche attimo, stringendoci la mano l'un 1'altro ed
esaminandoci a vicenda con curiosità, come degli amici che si incontrano dopo.
una lunga separazione.
Fu
lui a interrompere il silenzio. «La prego. Si sieda », disse, indicando una delle
poltrone davanti alla libreria. Attese che mi sedessi, si accomodò sull'altra
tirando leggermente su le gambe dei pantaloni. Continuava a sorridere.
«L'aspettavo
prima. Si è un po' trattenuto. » Sembrava che nella sua voce ci fosse una punta
di rimprovero, ma forse era solo una mia impressione. Mi osservò senza dire
nulla per qualche istante, magari aspettando che io dicessi qualcosa, ma, dato
che rimanevo in silenzio, fece un gesto con la mano.
«Comunque
va bene, non importa. Alcuni ritardano, altri sono in anticipo. Pochissimi
vengono puntuali. Tutti, però, arrivano, prima o poi. Come si sente?»
Feci
un colpo di tosse prima di rispondere incerto: «Bene, credo ».
Annuì
soddisfatto. «Le dà fastidio qualcosa? Ha qualche disturbo?»
Riflettei
un attimo. «No, va tutto bene. »
Il
sorriso dell'uomo si allargò. «Mi fa piacere. È solo un po' confuso, vero?»
«Sì»,
ammisi dopo una certa esitazione. «Un po'. »
«Non
deve farsene una colpa. Lei non è un' eccezione. Tutti sono confusi all'
arrivo. È perfettamente naturale. Gradisce un bicchiere d'acqua?» chiese,
indicando la caraffa con il coperchio sul tavolino tra noi.
«No,
grazie», risposi. Mi venne una spettrale sensazione di avere la gola secca, ma
mi sembrò inopportuno bere acqua in quel nuovo stato. Magari più tardi, quando
mi fossi abituato.
«A
dire il vero, la gente è piena di domande», continuò l'uomo. «La curiosità la
opprime. Sono convinto che anche per lei sia così. »
Non
avevo motivo per fingere. «Spero che pure questo sia naturale»
«Certo,
certo. Indubbiamente le interessa sapere dove si trova, che cosa l'aspetta qui,
e chi sono io, del resto. »
«Indubbiamente
», concordai, timido.
«Qui,
però, c'è un problema. Posso rispondere a queste domande, si capisce. E anche a
molte altre che forse vorrebbe fare. Ma, se lo faccio, la priverò della
possibilità del ritorno. »
«Ritorno?
»
«Sì.
Può tornare indietro. In vita. »
Fissai
lo sconosciuto seduto sulla poltrona a fianco. Gli occhi piccoli, benevolmente,
mi restituivano lo sguardo attraverso le lenti tonde degli occhiali. «Ma io
sono morto», dissi infine, con un tono semi-interrogativo.
«Lo
è, certo. Altrimenti non sarebbe qui.» «Allora, come ...»
«Non
posso spiegarglielo. A meno che non decida di rimanere.»
Adesso
la gola mi sembrava non solo secca, ma come se si fosse chiusa. Tentai di
inghiottire la saliva, ma non ci riuscii. Mentre versavo l'acqua dalla caraffa
nel bicchiere più vicino, la mano mi tremò leggermente. Sperai che questa
goffaggine non fosse troppo evidente. L'acqua era fredda, e aveva un gusto
leggermente stantio.
«Sta
dicendo che sono io a deciderlo: se tornare o rimanere?»
«Lei,
certo. Chi altri?»
«Voglio
dire, questo non dipende dal mio comportamento nella ... vita precedente?
Potrei essere stato, ad esempio, una persona cattivissima. » L'uomo rise
brevemente. «Potrebbe, sì, Ma fa lo stesso. Qui non ci sono punizioni o premi.
Questo non è il giudizio universale. »
«Quindi
basta che decida di tornare. Ho capito bene?»
«Ha
capito bene. È anche nella posizione di scegliere in che forma tornare.»
Appoggiai
il bicchiere sulla salviettina tonda.
Sulla
superficie argentea del vassoio si rifletteva una piccola pozza versata dalla
caraffa. Alcune gocce erano perfino arrivate sul libro che si trovava vicino.
Se non fosse successo, probabilmente non avrei notato l'illustrazione sulla sua
copertina. Era la riproduzione del quadro della finestra sulla parete accanto,
sopra la quale era scritto il titolo in lettere gialle e allungate: Incontri
impossibili. Non conoscevo il nome dello scrittore.
«Non
cambierei la forma», dissi. «Mi sono abituato a questa.»
Dalle
labbra dell'uomo sparì il sorriso. «Temo che sia l'unica cosa impossibile. La
sua vecchia forma è stata consumata, è inutilizzabile. Non ci può tornare. La
malattia l'ha completamente rovinata, vero? Può scegliere qualcosa del tutto
nuovo. La scelta è quasi illimitata.»
«
Essere qualcun altro? »
«Non
sarebbe nessun altro, perché non ricorderebbe affatto la vita precedente.
Sarebbe un nuovo inizio per lei.»
«Nascerei
di nuovo?»
«Certo.
Tornerebbe al mondo come neonato, come del resto si deve. Per vivere una nuova
vita. Con le caratteristiche che vuole. »
«Vuole
dire, potrei scegliere il mio aspetto, diciamo, o quanto sarò alto?»
«E
molto altro. Potrebbe cambiare il colore della pelle, il sesso ...»
«
Il sesso? »
L'espressione
di stupore sul mio volto costrinse lo sconosciuto a sorridere di nuovo. «È uno
dei cambiamenti più comuni. Va in entrambe le direzioni. Si tratta, credo, non
tanto di insoddisfazione per il sesso originale quanto di curiosità di provare
l'opposto. »
Scossi
la testa. «Questa curiosità non mi tormenta.»
«Capisco.
Magari non le interessa affatto tornare nella forma umana? Anche questo è
possibile.»
Socchiusi
gli occhi per l'incredulità. «In che senso?»
«Esistono
anche altre forme di vita, non solo umane. Sono innumerevoli, a dire il vero.
Le ha tutte a disposizione.»
«Quali,
ad esempio?»
«Oh,
qualsiasi cosa. Tutto naturalmente dipende dalle inclinazioni di chi torna. Di
solito si sceglie qualche animale.»
Feci
una breve pausa prima di rispondere. «Perché uno vorrebbe essere un animale, e
non una persona, nella nuova vita?»
«
Non è necessariamente una brutta cosa, come a lei può sembrare. La vita di un
gatto di razza o di un cavallo purosangue, diciamo, può essere molto più comoda
e spensierata di molte vite umane. E se dà la precedenza all'eccitazione, poche
esperienze umane si possono misurare con quelle che un leone, un' aquila o uno
squalo vivono quotidianamente.»
Ci
pensai un attimo. «Comunque non vorrei essere un anìmale.»
«Come
vuole. Ci sono anche altre possibilità. Potrebbe essere una pianta.»
«Una
pianta?»
«
Sì, non è una scelta rara.»
«Ma
le piante non hanno nemmeno... la coscienza.»
«Giusto, però compensano questa mancanza con
altri vantaggi. La longevità, ad esempio. La vita di quasi ogni tipo di albero
è notevolmente più lunga di quella umana. Da questo punto di vista le sequoie
sono particolarmente richieste. Inoltre sono protette, il che le rende ancora
più attraenti. Ma anche le piante di vita breve hanno i loro ammiratori. A
volte la gente decide di tornare come orchidea o rosa, anche se sa che vivrà
una sola breve stagione.»
«Questo
non ha senso. A vere l'occasione di una nuova vita e sprecarla inutilmente come
un fiore...»
«A
loro non sembra così. Loro preferiscono la bellezza a tutto il resto. Bisogna
comprendere. Comunque ci sono delle decisioni difficili da capire. Anche per
me. Che ne dice del ritorno sotto forma di salamandra, salvia, verme, ortica o
ragno?»
«Ragno?»
ripetei. Il mio volto si contorse in una smorfia di disgusto:
«Sì,
davvero sgradevole, non trova?»
«Non
mi cambierei proprio», dissi in fretta, facendo un cenno con la testa. «Vorrei
continuare ad assomigliare il più possibile al me stesso della vita precedente.
Se è possibile.»
«Certo
che lo è. La stragrande maggioranza sceglie proprio questo. Quindi intende dire
che ha deciso di tornare?»
Non
risposi subito. Una quantità di domande confuse mi sciamava nella testa.
Infine, una ebbe la meglio sulle altre: «Se dovessi tornare, vivrei di nuovo la
mia vita, vero?»
«Sì.
»
«Alla
fine morirei di nuovo? » «È inevitabile, purtroppo.»
«
Dopodiché mi troverei di nuovo ... in questo posto?»
«No,
qui si arriva una sola volta. Dopo la seconda vita rimane solo la morte. Non
c'è più la possibilità di scegliere.»
Lo
disse con una voce piatta, come se stesse pronunciando una banalità. L'osservai
in silenzio per qualche istante.
«Ma
in cosa consiste questa scelta? Da una parte c'è una nuova vita. Questo lo
capisco. Cosa c'è, invece, dall'altra parte? Tra quali cose devo scegliere?»
Lo
sconosciuto si tolse gli occhiali, dalla tasca interna della giacca tirò fuori
un grande fazzoletto bianco e cominciò a pulirli. Lo fece con pazienza e
scrupolo, orientandoli infine verso la lampada da tavolo per controllarli.
Senza di essi, il suo volto sembrava come spoglio. Lentamente li rimise,
premendoli contro la cima del naso.
«Raramente
si arriva a questa domanda», disse infine. «Quasi tutti scelgono subito il
ritorno. Il resto non li interessa per niente.»
«E
lei cosa risponde?»
«Nulla
di preciso. Il massimo che riesco a offrire loro è un accenno. Qualsiasi cosa
che vada oltre metterebbe in pericolo il loro ritorno, se poi dovessero
sceglierlo..
«Un
accenno?»
«Sì»,
rispose l'uomo. «Prego,venga.»
Si
alzò, attese che io facessi lo stesso, poi mi prese amichevolmente sotto
braccio e mi condusse. Pensai subito che andassimo verso la porta dalla quale
era entrato, invece ci fermammo davanti al grande quadro al centro della
parete.
La
sua voce si abbassò quasi al limite del sussurro. «Osservi bene.»
La
vista della volta azzurra d'altra parte della finestra chiusa mi riempì gli
occhi. Gli attimi cominciarono piano a scorrere. Non succedeva nulla. Quando il
cambiamento finalmente ebbe luogo, il suo primo effetto fu udibile e non
visibile. Da qualche parte, come da tanto lontano, cominciò ad arrivare un
regolare, costante battito. Non lo riconobbi subito. Solo quando diventò più
forte nel silenzio circostante, capii che era il sordo rumore dell' orologio. Non
fu necessario girare lo sguardo verso l'alta cassa di mogano nell' angolo
destro per sapere che il pendolo non era più immobile.
Come
per rispondere a questo suono risvegliato, anche il quadro prese vita. La
farfalla vibrò pigramente, senza speranza di aprirsi un varco all' esterno, poi
scivolò un po' più in basso. L'ombra si mosse perché l'aveva fatto anche la
mano fuori della cornice. Era entrata dentro, verso il centro della finestra.
Tentò di essere più veloce dalla propria ombra, ma entrambe arrivarono
contemporaneamente alla maniglia che bisognava girare.
Nell'attimo
in cui i battenti della finestra si scostarono, rimasi quasi stordito da
un'ondata di vertigine. La stretta della mano dell'uomo fu per me un prezioso
appiglio, senza il quale avrei perso l'equilibrio e sarei caduto. Ma non ci fu
nessuno ad aiutare la farfalla. L'impatto della corrente la tolse facilmente
dalla superficie liscia del vetro e la lanciò nell' abisso azzurro.
Nello
stesso momento tutto il resto sparì: la cornice del quadro, la parete, lo
sconosciuto, tutto lo studio. Mi trovai nel nulla e cominciai a sprofondare.
Sapevo che dovevo muovere le ali, che dovevo volare, e non solo precipitare, ma
all'improvviso era come se non sapessi più farlo. Passarono molti attimi di
eternità colmi di gelido orrore prima che riuscissi di nuovo a padroneggiare
questa semplice, istintiva abilità. La caduta prima rallentò, poi si fermò, e
quando alla fine iniziai a risalire sul flusso d'aria ascendente, nemmeno
dovetti muovere le ali. Soltanto le tenni aperte, come due enormi vele gemelle
variopinte in mezzo all'infinito orizzonte che mi attorniava.
La
paura si trasformò nell' ebbrezza che sempre accompagna il volo libero. Sarei
potuto rimanere così in eterno, abbandonato a questa onda di gioia. Ma poi, a
un'imprecisa distanza davanti a me, notai un'increspatura sull'uniforme tessuto
azzurro. Qualcosa cominciò a diluirlo, emergendo dal basso. Qualcosa di
luminoso, ardente, invitante. Battei con vigore le ali, strappandomi dalla
corrente. Il richiamo che mi attirava verso lo splendore che arrivava dall'
altra parte della volta era irresistibile: la piccola fiamma della candela che
al buio attira la farfalla.
Non
mi fu permesso, però, di raggiungere la luce. La corrente d'aria all'improvviso
cambiò direzione. Tentai con ansia di resisterle, intuendo disperato che mi
stava allontanando dal luogo verso il quale bramavo andare, ma la forza delle
mie povere ali era nulla contro quel potente flusso. Tornavo indietro sempre
più veloce, colmo della dolorosa sensazione di impotenza e inutilità. La
finestra si chiuse sbattendo dietro di me quando finalmente l'attraversai in
volo, e in quell'istante fui inghiottito dal buio.
La
tenebra non era del tutto vuota. Il battito di un grande cuore la riempiva.
Sembrava regolare, uniforme, ma in qualche modo sapevo comunque che presto
sarebbe cessato. Successe all'improvviso, senza un rallentamento. Scendendo
fino al punto più basso, il pendolo non andò oltre, ma si arrestò, non avendo
più nulla da misurare. Nel silenzio che aveva lasciato dietro di sé, lentamente
tornò la mia vista.
Ero
ancora davanti al quadro, lo fissavo, anche se niente su di esso si muoveva
più. La farfalla di nuovo riposava esausta in un angolo, mentre l'ombra
attendeva con pazienza il movimento della mano assente. Un' altra mano aumentò
leggermente la sua stretta attorno al mio braccio.
«Venga.
Starà più comodo se si siede di nuovo.» Volevo dire allo sconosciuto che stavo
bene, ma vacillai già al primo passo, e quindi gli fui grato per l'appoggio che
mi offriva. Sistemati sulle poltrone, mi versò nel bicchiere altra acqua dalla
caraffa. Non avevo sete, ma un sorso lo presi comunque.
L'uomo
non parlò subito. Mi osservava, con il solito sorriso. Mi diede tempo di
calmarmi un po'. Anche di questo gli fui grato.
«Quadro
eccezionale, vero?» disse infine.
«Sì»,
concordai dopo una breve esitazione, con la voce leggermente rauca.
«Eccezionale.»
Di nuovo rimanemmo in silenzio. In quell'
atti- . mo mi venne in mente una cosa del tutto inadeguata al momento della
decisione che si stava avvicinando. L'altro bicchiere era ancora capovolto sul
vassoio, inutilizzato. Mi chiesi se fosse lì così, come la moltitudine di altri
oggetti nella stanza, o se forse anche lo sconosciuto a volte bevesse un po'
d'acqua.
«
Allora? Ha scelto?» Non c'era né impazienza né fretta nella sua voce. Con lo
stesso tono avrebbe potuto chiedermi anche qualcosa del tutto secondario.
«
Farfalla», risposi piano. «Vorrei essere una farfalla, naturalmente.»
Mi
osservò per qualche istante senza dire nulla, e poi annuì rapido.
«Naturalmente.» Il suo sorriso diventò più largo. Con la mano indicò verso la
porta vicino al quadro. «Prego.»
Mi
alzai, un po' insicuro, e mi avviai in quella direzione, ma dopo qualche passo
mi fermai, confuso. La porta non aveva una maniglia da questa parte. Come
potevo aprirla? Pensai di voltarmi e chiedere all'uomo. Ma in quell'esatto
istante capii che non ce n'era bisogno. Lì, in verità, non c'era alcuna porta.