LA CASA EVITATA

Howard Phillips Lovecraft

 

 

 

1.

 

A volte l’ironia è presente persino nei più terribili orrori. Può inserirsi direttamente negli avvenimenti, oppure essere dovuta al caso che ha collegato questi alle persone ed ai posti. Questo secondo genere di ironia trova uno stupendo esempio in un fatto accaduto nell’antica cittadina di Providence.

Quarant’anni fa, a Providence si recava spesso Edgar Allan Poe, per corteggiare senza successo Sarah Helen Whitman, la bellissima poetessa di cui si era invaghito. Lo scrittore soggiornava quasi sempre alla pensione Manson in Benefit Street – che anticamente, ai tempi in cui ospitava uomini come Washington, Jefferson e Lafayette, si chiamava «La Locanda della Palla d’Oro» – e faceva le sue passeggiate preferite in direzione nord, prendendo la medesima strada in cui abitava la signora Whitman. Lungo il versante della collina, si vedeva il cimitero di St. John che, con tutta una serie nascosta di lapidi del Settecento, esercitava su di lui un fascino particolare.

L’ironia sta in questo. Nel corso delle sue solite passeggiate, il più grande genio mondiale dell’Orrido e del Bizzarro era costretto puntualmente a passare davanti ad una casa molto singolare che si trovava sul lato est della strada. Era una costruzione desolata e tutta diroccata, abbarbicata sul fianco più ripido della collina, con un ampio giardino abbandonato tipico dei tempi in cui quella zona era ancora in massima parte aperta campagna.

Per quel che ne sappiamo Poe non ne ha mai scritto né parlato, e nulla ci dice che l’avesse almeno notata. Ma per due persone che sono a parte di alcune informazioni, quella casa è paragonabile – se non superiore nei suoi aspetti orrifici – alla fantasia più perversa del maestro del Terrore che vi passava davanti, ignaro, tutte le volte, ed assurge a simbolo beffardo di tutto ciò che è repellente e mostruoso.

Quella casa era – e continua ad essere – di quel genere che attira l’attenzione dei curiosi. In origine era una fattoria, o semplicemente un casale, nel classico stile architettonico coloniale della seconda metà dell’Ottocento che si vede nel New England, con il suo tipico tetto aguzzo, l’entrata georgiana, e l’interno rivestito in legno, secondo il gusto dell’epoca.

Era rivolta a sud, e le finestre del piano di sotto sul versante est della collina erano a filo del terreno; la facciata posteriore, invece, dava sulla strada. Era stata costruita, più di un secolo e mezzo fa, dopo il livellamento e lo spianamento della strada, in quanto inizialmente Benefit Street – prima chiamata Back Street – era un ripido viottolo che serpeggiava intorno al cimitero dei primi coloni, e fu allargato soltanto quando divenne necessario spianare una strada che passasse senza commettere sacrilegio attraverso le singole proprietà per trasferire le salme dei defunti nel cimitero di North Burial Ground.

Inizialmente la parete ad ovest si ergeva su un terreno distante circa sette metri dal livello stradale, ma l’allargamento di Benefit Street, avvenuto all’epoca della Rivoluzione, rubò alla casa quasi tutto il cortile, tanto che, davanti alla cantina, non rimase che un quadratino di spazio. Le fondamenta furono messe a nudo e, per proteggerle, si dovette erigere un muro di mattoni. La porta e le finestre dell’abitazione si ritrovarono perciò a livello stradale, molto vicine alla nuova linea di trasporti.

Quando venne edificato il marciapiede, circa un secolo fa, venne inghiottito anche il poco spazio rimasto, e probabilmente Poe, durante le sue passeggiate, poteva vedere solamente un viottolo di piastrelle grigie che costeggiava il marciapiede, al termine del quale, ad una distanza di circa tre metri dalla strada, si ergeva il nucleo originario della casa.

I campi coltivati, raggiungendo la collina, si estendevano quasi fino a Whalton Street. Lo spazio rimanente a sud dell’edificio, confinante con Benefit Street, era in dislivello con il marciapiede, e veniva a costituire in tal modo un perimetro rialzato che era protetto da un alto muro di cinta incrostato di muschio.

Nel muro c’era una scaletta che portava all’interno della recinzione, in un prato dissestato dagli improvvisi affossamenti, tra muriccioli grondanti umidità e giardinetti abbandonati, le cui urne di cemento ormai crollate ed i cui vasi di ferro arrugginito giacevano tristemente ai piedi di una porta battuta dal vento, con una lanterna rotta, quattro colonne ioniche traballanti ed un frontone triangolare vacillante.

Da bambino avevo sentito dire che il numero di gente morta in quella casa era davvero sconcertante. Per questo, mi spiegarono, i proprietari l’avevano abbandonata vent’anni dopo averla edificata. Era un luogo insalubre, probabilmente per via del muschio e delle muffe cresciuti in cantina, o forse per il suo odore di putredine, o anche per i corridoi gelidi, oppure a causa dell’acqua del pozzo. Ognuno mi dava una spiegazione diversa.

Fu solo attraverso il diario di mio zio, il dottor Elihu Whipple, appassionato di storia locale, che venni in seguito a conoscenza delle ipotesi più truculente e spaventose congetturate dall’antica servitù e dal popolino superstizioso. Delle ipotesi che però non trovarono conferma, e che nessuno ricordava più quando la popolazione di Providence cominciò a crescere ed il paese divenne una cittadina.

Il motivo è che non si pensava che quella casa fosse «infestata dagli spettri»; non era nata alcuna leggenda di catene cigolanti, misteriosi soffi d’aria gelida, luci smorzate o facce incollate alle finestre. I più superstiziosi sostenevano a volte che era «sfortunata», ma questo era il commento più azzardato.

Il fatto inquietante che stava all’origine dell’avversione della gente per quella casa era il numero esorbitante di persone che morivano lì, o meglio, che «erano morte» lì, visto che l’abitazione, dopo certi fatti accaduti più di sessant’anni prima, era stata abbandonata per mancanza di affittuari.

Le vittime non erano morte all’improvviso o per una stessa causa, ad esempio una malattia fulminante: la loro salute, invece, diventava inspiegabilmente precaria poco prima della morte. Quelli che non morivano diventavano sofferenti, in diversa misura, di una sorta di anemia o deperimento, oppure perdevano la ragione. Tutta una serie di circostanze che non deponevano di certo a favore della salubrità della casa. E c’è da dire, inoltre, che le abitazioni confinanti non presentavano una simile malsanità.

Questo era tutto quello che ero riuscito a sapere, prima di convincere mio zio, con la mia pressante insistenza, a mostrarmi quel suo diario che alla fine ci indusse ad addentrarci in un’orribile ricerca.

Quando io ero piccolo, la casa abbandonata era rimasta vuota, con i suoi alberi grotteschi, il suo prato dissestato e sbiadito, e la sua sterpaglia dalle forme d’incubo che aveva soffocato tutta la terrazza, sulla quale non si vedeva mai neppure un uccello.

Noi ragazzi giocavamo spesso là intorno, e ricordo ancora la paura infantile che mi incuteva non solo la stranezza inquietante della vegetazione grottesca, ma anche, e specialmente, l’odore e l’atmosfera lugubre che aleggiavano sull’edificio in rovina, nella cui porta principale, che era rimasta aperta, ci intrufolavamo spesso in cerca del brivido.

Le finestre a pannello si erano rotte quasi completamente, e su tutto l’interno incombeva un’aria di decadenza: sulle imposte scardinate, sulla carta da parati lacera, sull’intonaco cadente, sulle scale pencolanti e sui pochi pezzi di mobilio smangiucchiato che stavano ancora in piedi.

Polvere e ragnatele davano un ultimo tocco a quel quadro orrendo, ed era ritenuto davvero coraggioso quel ragazzo che fosse salito volontariamente in soffitta, una grande stanza dall’alto architrave illuminata unicamente dalla luce che filtrava dalle finestre dell’abbaino, ingombra di un incredibile ammasso di sedie, casse sfondate e filatoi, deformati, da tutti quegli anni di abbandono, in sagome spaventose e sinistre.

Ciononostante, la soffitta, in fondo, non era la zona più paurosa della casa. Era la cantina, invece, tutta umida e muffita, ad incuterci più spavento, anche se si trovava sul livello stradale, separata dalla confusione del marciapiede da una porta leggera e da un muro di mattoni costruito davanti alla finestra.

Non riuscivamo a deciderci tra l’andare lì dentro a giocare ai fantasmi, o lo scappare via di corsa per tutelare lo spirito e la ragione: sia perché il putridume laggiù era più fetido, sia perché ci spaventavano le escrescenze fungose che d’estate, quando pioveva, spuntavano biancastre sul pavimento di terra.

Quelle muffe, dalle forme fantastiche come la vegetazione del prato, erano davvero ripugnanti; somigliavano a grottesche imitazioni di funghi velenosi e di pipe indiane, e si vedevano solo lì. Marcivano in fretta e, quando arrivavano ad una fase precisa di decomposizione, assumevano una leggera fosforescenza. Era a causa loro che chi passava da quelle parti di notte mormorava che, dietro i vetri rotti di quelle finestre, brillavano i fuochi fatui delle streghe.

Noi ragazzi non entravamo mai nella cantina di notte, neanche se avevamo una voglia matta di giocare ad Halloween; di giorno, però, riuscivamo spesso a vedere la fosforescenza delle muffe, soprattutto durante le giornate cupe ed umide.

E poi ci affascinava una certa cosa, una cosa parecchio curiosa e, nonostante la sua stranezza, decisamente emozionante. Mi riferisco ad una chiazza biancastra che si imprimeva sulla terra del pavimento, un piccolo deposito viscido di muffa o di salnitro, che spesso credevamo di individuare tra le fungosità che si sviluppavano nella cucina intorno all’enorme camino. Una volta ci parve disegnasse i contorni di una figura umana piegata in due. Ma la chiazza non si formava regolarmente; certe volte non la si vedeva affatto.

Un pomeriggio – pioveva, e l’illusione sembrava innaturalmente reale – mi era sembrato di scorgere una specie di vapore giallognolo, molto gassoso ed evanescente, sollevarsi dal deposito di salnitro ed infilarsi nella bocca spalancata del camino. Così mi era venuto in mente di raccontarlo a mio zio.

A sentire quest’idea assurda, mio zio aveva sorriso, ma io notai che sul suo viso passava un’ombra. Successivamente venni a sapere che in alcune superstizioni popolari c’erano allusioni del genere: si parlava di forme ferine e demoniache che venivano risucchiate dal grande camino, e delle radici di certi alberi che camminavano fino alla cantina allungandosi per le fondamenta vuote.

 

 

 

2.

 

Mio zio mi permise di leggere tutti gli appunti e le notizie riguardanti la casa abbandonata presi da lui solamente quando divenni grande.

Il dottor Whipple era un uomo di vecchio stampo, molto metodico e sensato; la sua curiosità verso quella casa non era dovuta a convinzioni superstiziose. La sua ipotesi si basava, infatti, sulle condizioni ambientali particolarmente malsane del posto, e non aveva alcuna relazione con il Soprannaturale. Egli sapeva, però, che quegli stessi aspetti bizzarri della faccenda che avevano destato vivamente il suo interesse, potevano creare nella mente di un ragazzo fantasie morbose.

Il dottore, che non si era mai sposato, era un gentiluomo all’antica dai capelli bianchi e la barba perfettamente curata, ma i cui commenti sul folklore locale indignavano spesso gli irriducibili custodi della tradizione come Sidney S. Rider o Thomas W. Bicknell. Abitava con un unico domestico in una villetta georgiana abbarbicata, sfidando la legge dell’equilibrio, sulla ripidissima stradina di North Court Street, che sorgeva vicino alla casa coloniale dove suo nonno – cugino del famigerato pirata Capitan Whipple, autore della messa a fuoco del Gaspee, la goletta dell’Armata Navale di Sua Maestà, nel 1772 – aveva votato, il 4 maggio 1776, in favore dell’indipendenza della colonia del Rhode Island.

Nella sua umida biblioteca dagli scaffali bianchi e tarlati e dal soffitto basso, raccolta intorno al caminetto scolpito e con i vetri coperti dall’edera, serpeggiavano i ricordi e fermentavano i suoi pensieri sulla casa di Benefit Street. Quell’insalubre dimora era piuttosto vicina al dottore, in quanto Benefit Street partiva proprio dal colle di fronte a casa sua, quel colle scosceso che aveva attirato i primi coloni.

Quando divenni uomo, e gli chiesi nuovamente con insistenza di raccontarmi tutte le superstizioni popolari sorte intorno alla casa abbandonata, mio zio mi mostrò una curiosa cronaca. Era molto lunga, zeppa di cifre e dati genealogici, e vi si trovavano continui riferimenti a fatti inesplicabili ricorrenti, ed allusioni ad una malvagità soprannaturale che mi sconcertavano più di quanto impressionassero mio zio.

Eventi che all’apparenza non avevano alcun nesso, trovavano un’improvvisa correlazione, e particolari a prima vista insignificanti aprivano invece possibilità incredibili. Il mio interesse divenne quasi morboso, se paragonato alla mia ingenua curiosità infantile.

La rivelazione che avevo tanto atteso mi catapultò in una ricerca febbrile, ed alla fine mi portò ad una fissazione vera e propria per il Brivido, la quale condusse sia me che mio zio ad un epilogo rovinoso. Perché lui insistette ad accompagnarmi, ed al termine di quella notte non fece più ritorno.

Adesso, privato della guida di quell’animo nobile, che aveva dedicato tutta la vita al bene, alla comprensione, alla sensibilità ed al sapere, mi sento solo. In suo ricordo ho fatto edificare un’urna di marmo nel cimitero di St. John – il posto tanto caro a Poe – quel piccolo bosco di ombrosi salici dove lapidi e tombe giacciono serenamente tra la chiesetta grigia e le abitazioni di Benefit Street.

 

Iniziando con un numero incredibile di date, la storia della casa abbandonata seguitava oltre senza rivelare nulla di strano né riguardo alla sua edificazione, né riguardo alla famiglia operosa e benestante che l’aveva fatta costruire. Fin dall’inizio, però, incombeva su di essa un senso di minaccia che poi si verificò molto presto.

Le dettagliate notizie di mio zio cominciavano con il racconto della sua costruzione, avvenuta nel 1763, la quale veniva descritta in minuziosi particolari.

Sembrava che nella casa avessero abitato, da principio, William Harris, la moglie Rhoby Dexter con i figli: Elkanah, nato nel 1755, Abigail, nata nel 1759, e Ruth, nata nel 1761. Harris faceva il marinaio, e si era arricchito avviando un florido commercio con l’India, in particolare con una società le cui azioni appartenevano alla Compagnia di Obadiah Brown e Nipoti. Nel 1761, alla morte di Brown, la nuova Compagnia di Nicholas Brown & Co. lo nominò comandante, del Prudence, un brigantino di 120 tonnellate costruito a Providence, permettendogli così di costruirsi la casa che aveva sempre sognato da quando aveva messo su famiglia.

La zona scelta da Harris – il nuovo quartiere residenziale di Back Street, sorto dopo il recente spianamento di un fianco della collina a ridosso dell’allegra Cheapside – era il massimo consentitogli dai suoi mezzi, e la casa corrispondeva perfettamente al sito. Le limitate finanze non gli consentivano altro, perciò Harris si trasferì velocemente nella sua nuova dimora prima che nascesse il quinto bambino.

Il piccolo nacque in dicembre ma, purtroppo, già morto. Per più di un secolo e mezzo, quella casa non avrebbe mai assistito alla nascita di un bimbo vivo.

Nell’aprile successivo tutti i suoi figli si ammalarono, ed Abigail e Ruth morirono entro la fine del mese. Il dottor Job Ives stabilì che la causa era stata una febbre infantile, nonostante altri medici attribuissero il decesso ad un deperimento organico. Qualunque fosse, comunque, quella malattia doveva essere contagiosa, visto che Hannah Bower, la domestica, si ammalò e ne morì il giugno seguente. Inoltre l’altro servitore, Eli Liddeason, si lamentò di una persistente debolezza tanto che, se non si fosse improvvisamente innamorato della nuova cameriera, Mehitabel Pierce, sarebbe partito subito per la casa paterna a Rehoboth.

L’uomo morì l’anno dopo. E quella fu davvero un’annata disgraziata, visto che segnò anche la morte di William Harris, fiaccato, poveretto, da lunghi e ripetuti soggiorni al clima della Martinica, dove aveva fatto la spola per dieci anni per via dei suoi commerci.

La vedova, Rhoby Harris, non si riprese più dal dolore, e l’ulteriore trauma della morte del primogenito Elkanah, verificatasi due anni dopo, fu il colpo di grazia per il suo cervello già turbato. Nel 1768, infatti, la leggera forma di pazzia di cui fu preda costrinse i familiari a confinarla al piano di sopra.

La signorina Mercy Dexter, sorella maggiore della povera donna, si era trasferita nella casa per occuparsi degli altri. Era una donna pratica e molto energica ma, immediatamente dopo il suo arrivo, cominciò a mancarle la salute. Mercy voleva molto bene alla sua sventurata sorella, ed in particolare era affezionata all’unico nipote rimastole, William, il quale, nonostante fosse sempre stato un bimbo sano e forte, adesso che era cresciuto era diventato gracile e malaticcio.

In quello stesso anno morì la cameriera, Mehitabel, e l’altra domestica, Preserved Smith, lasciò l’occupazione senza nessuna spiegazione, o meglio, a causa di certe dicerie, mettendo la scusa che l’odore di quella casa non le piaceva.

Mercy ebbe difficoltà a trovare nuovi domestici per diverso tempo, poiché i sette decessi, insieme all’ultimo caso di pazzia, si erano verificati nel breve giro di cinque anni, e la gente aveva cominciato a fare delle chiacchiere, chiacchiere che in breve si erano trasformate in credenze superstiziose. Fortunatamente, alla fine riuscì ad assumere due domestici di fuori città: Ann White, una donna scontrosa di North Kingstone, nella contea di Exeter, ed un valido cameriere di Boston, Zenas Low.

Ann White fu la prima persona a dare una forma precisa alle dicerie del popolino. Mercy avrebbe dovuto riflettere bene, prima di prendere a servizio una contadina di Nooseneck Hill, perché in quella zona, com’è risaputo, circolavano e circolano le peggiori superstizioni. Nel non lontano 1892, una congregazione di Exeter ha riesumato un cadavere e lo ha trafitto al cuore per mettere fine a certe presunte «visite» nocive alla tranquillità e alla salute dei cittadini. È facile immaginare, quindi, quale fosse il clima in quella contea nel 17861 .

Ann aveva la lingua troppo lunga, cosicché Mercy, dopo pochi mesi soltanto, si vide costretta a licenziarla, e al suo posto assunse una ragazza dolce ed affezionata che veniva da Newport, una certa Maria Robbins.

La povera Rhoby Harris, frattanto, nei suoi attacchi di follia, farneticava di sogni e fantasie raccapriccianti. In certi momenti, i suoi urli erano veramente insopportabili e, quando la prese poi la continua ossessione di orrori segreti, il figlio dovette trasferirsi per un po’ dal cugino, Peleg Harris, il quale abitava in Presbiterian Lane, vicino alla nuova scuola.

Adesso che il ragazzo era lontano da casa, la sua salute sembrava migliorata e, se Mercy avesse avuto del buon senso, lo avrebbe lasciato da Peleg. La cronaca non specifica bene quello che diceva la signora Harris durante le crisi isteriche, o almeno riporta delle frasi talmente assurde da non essere minimamente attendibili. Certo, è inspiegabile che una persona che conosceva appena il francese gridasse spesso per ore in quella lingua parole volgari e disgustose, o che quella stessa donna, sorvegliata in continuazione e mai sola, urlasse che c’era un essere dagli occhi spiritati che la fissava e la mordeva continuamente.

Nel 1772 morì il cameriere Zenas, e la signora Harris, quando venne a conoscenza del fatto, cominciò a ridere in maniera talmente scomposta da non sembrare più la stessa persona. L’anno seguente spirò anche lei, e venne seppellita nel cimitero di North Burial Ground accanto al marito.

Quando scoppiò la guerra con la Gran Bretagna nel 1775, sebbene avesse solo sedici anni e non godesse di buona salute, William Harris si arruolò nel Corpo Segnalatori sotto il generale Greene, e da quel momento in poi fu perfettamente sano e si coprì di medaglie. Nel 1780, quando era già diventato capitano del battaglione del Rhode Island, al comando del colonello Angell, si innamorò di una certa Phoebe Hetfield di Elizabethtown, la sposò e l’anno seguente, dopo essersi congedato, la condusse a Providence.

Furono tutti molto felici del ritorno del giovane soldato, ma ci furono anche delle ombre. La sua casa era ancora la stessa, e Back Street era stata allargata e aveva cambiato nome in Benefit Street. Ma l’energica Mercy Dexter era diventata una povera vecchia dalla voce roca e dal colorito esangue... esattamente la stessa trasformazione dell’unica cameriera superstite, Maria.

Nell’autunno del 1782, a Phoebe Harris nacque una bambina già morta, ed il 15 maggio Mercy Dexter si accomiatò da una vita virtuosa, onesta e dedita al dovere.

William Harris, che ormai era certo dell’insalubrità della casa, prese la risoluzione di andarsene e chiuderla per sempre. Dopo aver preso temporaneamente una camera per sé e la moglie alla «Locanda della Palla d’Oro», riaperta da poco, fece costruire una casa più salutare in Westminster Street, dall’altra parte del Great Bridge, in una zona sorta da poco.

Fu lì che venne alla luce suo figlio Dutee, e la famiglia vi restò finché l’espansione commerciale non la costrinse a tornare sulla collina dall’altra parte del fiume, dove sorgeva Angell Street, nel recentissimo quartiere residenziale di East Side. Ed in quello stesso quartiere l’ultimo degli Harris, tale Archer, costruì una lussuosa abitazione, pur se di pessimo gusto, con il tetto alla francese.

William e Phoebe morirono nello stesso anno, vittime dell’epidemia di febbre gialla del ’97, e Dutee venne allevato dal cugino Rathbone, il figlio di Peleg Harris. Rathbone, essendo un tipo molto pratico, nonostante William avesse manifestato chiaramente il desiderio che rimanesse abbandonata, affittò la casa di Benefit Street. Egli sentiva come un obbligo verso il proprio figlioccio investire i suoi beni, pertanto non si curava minimamente dei decessi e delle malattie che si verificavano di continuo nella casa, obbligandolo a trovare nuovi affittuari, né tantomeno della ripugnanza che l’abitazione cominciava ad ispirare nella gente.

Probabilmente non ebbe alcun problema quando il Consiglio Comunale, nel 1804, gli ingiunse di disinfettare la casa con canfora, zolfo e catrame in seguito alla misteriosa morte di quattro persone, che sembrava fosse dovuta a febbri epidemiche nonostante in quell’epoca fossero già scomparse. Si pensava che nella casa aleggiasse il fetore caratteristico di tali febbri.

Anche Dutee non si occupò molto della proprietà, dal momento che era stato cresciuto come un marinaio ed aveva servito con onore il capitano Cahoone, a bordo del Vigilant, nella guerra del ’12. Una volta tornato a casa, nel 1814 prese moglie, ed ella gli diede un figlio in quella storica notte del 23 settembre 1815, in cui un terribile uragano sommerse più di mezza città, sollevando onde talmente alte su Westminster Street, da inondare tutte le finestre della casa degli Harris, in una specie di battesimo del mare per il neonato Welcome, figlio d’un marinaio.

Welcome non sopravvisse al padre, ma morì con onore nella battaglia di Fredericksburgh del 1862. Sia lui che il figlio Archer, riguardo alla proprietà di famiglia abbandonata, sapevano soltanto che non si trovavano affittuari... forse per via dell’umidità e dell’aria stagnante dovute a tutti quegli anni di abbandono.

Ed infatti, dopo i decessi avvenuti al suo interno nel 1861, e passati inosservati per il fermento della guerra, la casa non ebbe più inquilini. Carrington, l’ultimo degli Harris, era a conoscenza del fatto che era deserta, e che intorno vi erano state costruite diverse leggende ma, finché io non gli raccontai la mia esperienza, non sapeva altro. Era stata sua intenzione demolirla e costruirvi vicino una nuova palazzina: dopo aver sentito la mia storia, però, decise di lasciarla in piedi, cambiare le tubature, ed affittarla.

In quegli anni gli orrori erano stati dimenticati, e non ha mai avuto difficoltà a trovare inquilini.

 

 

 

3.

 

Non ci vuole molto ad intuire quanto rimanessi impressionato dalle vicende degli Harris. Sembrava che dietro quegli avvenimenti si celasse una forza malefica soprannaturale; una malvagità, ovviamente, intrinseca alla casa, e non ricollegabile alla famiglia.

Questa mia sensazione veniva confermata dalle vaghe notizie raccolte da mio zio nel corso degli anni tramite chiacchiere di domestici, ritagli di giornale e le copie di alcuni certificati di morte ottenuti da altri suoi colleghi: tutte queste informazioni risultavano in qualche modo collegate.

Non pretendo che suddetto materiale sia ritenuto una prova attendibile solo perché mio zio amava il passato ed aveva sempre messo la casa al centro del suo interesse; tuttavia posso mettere in rilievo dei particolari frequentemente ricorrenti in numerose e disparate testimonianze.

I domestici, ad esempio, ponevano al centro delle loro chiacchiere gli influssi malefici, le muffe e la fetida cantina della casa. Alcuni servitori – specie Ann White – si erano rifiutati di utilizzare la cucina nel seminterrato, e c’erano per lo meno tre leggende molto particolareggiate che parlavano delle forme demoniache e semiumane assunte dalle radici degli alberi, e delle strane fungosità biancastre che si sviluppavano intorno alla cantina.

Questi ultimi particolari mi interessavano in special modo, dal momento che si riallacciavano a quello che avevo visto da bambino, ma ero certo che il vero significato dell’intera vicenda era stato deformato dalle superstizioni locali, le quali si basavano essenzialmente su leggende di fantasmi.

Ann White, con la sua tradizione folkloristica di Exeter, aveva messo in circolazione la storia più bizzarra ed al tempo stesso più affascinante, sostenendo che sotto la casa era stato sepolto con ogni probabilità un vampiro – uno di quei morti che mantengono intatto il proprio corpo succhiando il sangue e il respiro dei vivi – e che quello, di notte, vagava con la sua ombra ed il suo spirito rapace.

L’unico modo per distruggere un vampiro era, a detta delle nonne, riesumarlo dalla tomba e bruciargli il cuore, o almeno trapassargli il petto con un paletto. L’insistenza continua di Ann perché si facessero ricerche sotto la cantina, era stato il motivo principale del suo licenziamento.

Ma i racconti della donna fecero presa su molta gente, poiché offrivano una spiegazione più plausibile rispetto alle altre storie, visto che la casa era stata costruita su un antico cimitero.

Non era tale circostanza, invece, a suscitare il mio interesse: era il modo perfetto in cui essa combaciava con altri fatti. Con le lamentele della cameriera precedente, ad esempio, Preserved Smith, che non aveva mai potuto conoscere Ann: secondo lei, qualcosa, di notte, veniva a «succhiarle il fiato»; con l’inspiegabile anemia che aveva causato il decesso delle quattro vittime delle febbri del 1804, anemia certificata dal dottor Chad Hopkins; e con le misteriose parole, infine, della povera Rhoby Harris, che farneticava nel delirio di un essere seminvisibile dalle zanne affilate e dagli occhi spiritati.

Nonostante non creda alle superstizioni che non abbiano un fondamento di verità scientifica, la conoscenza di questi particolari mi mise addosso una sensazione sgradevole, che poi divenne più acuta quando lessi due ritagli di giornale, molto lontani nel tempo, che parlavano dei decessi avvenuti nella casa abbandonata. Uno era del Providence Gazette and Country-Journal del giorno 12 aprile 1815, e l’altro del giornale Daily Transcript and Chronicle, del giorno 27 ottobre 1845: in entrambi veniva enfatizzato l’inesplicabile ripetersi di una circostanza orrifica e molto macabra.

Nei due casi di morte che i giornali riportavano, sembrava che entrambe le persone, poco prima di morire – nel 1815 un’anziana e mite signorina di nome Stratford, e nel 1845 un’insegnante di mezz’età di nome Eleazar Durfee – avessero fatto una cosa ripugnante: con gli occhi sbarrati tutte e due, avevano cercato di mordere al collo il medico.

Fatto ancor più inspiegabile, però, erano diverse morti per anemia, tutte precedute da un’improvvisa follia, nel raptus della quale i malati avevano morso i familiari sul collo o ai polsi. Morti in seguito alle quali nessuno aveva voluto più affittare quella casa.

Sto parlando degli anni 1860-61, quando mio zio iniziava la professione medica. Prima di partire per la guerra, egli aveva sentito alcuni colleghi più anziani che discutevano della cosa. Il particolare decisamente inspiegabile, era che le povere vittime – persone ignoranti, visto che solo a quelle si riusciva ad affittare la casa – avevano pronunciato delle bestemmie in francese, cosa assurda per chi non l’aveva studiato. E lo stesso era accaduto con la sventurata Rhoby Harris, cent’anni prima.

A mio zio era venuta la mania di raccogliere tutte quelle informazioni una volta tornato dal fronte, quando il dottor Chase ed il dottor Whitmarsh gli avevano parlato direttamente del caso.

Compresi che aveva ripensato continuamente alla vicenda, e notai che un analogo interesse dimostrato da parte mia gli faceva piacere; che anzi, il vedermi così ben disposto e incuriosito, lo invitava ad espormi le sue opinioni come con altri non avrebbe mai osato fare. Non era andato avanti con l’immaginazione quanto me, ma anche lui era sicuro che in quella casa ci fosse qualcosa di decisamente anormale, o per meglio dire di molto afferente al macabro e al grottesco.

Per conto mio, ero determinato ad andare in fondo alla faccenda, e cominciai subito a darmi da fare, non solo ricontrollando tutte le prove acquisite, ma anche raccogliendone delle altre. Ebbi diversi colloqui con il vecchio Archer Harris, proprietario della casa, prima che morisse nel 1916, e da questo e dalla sorella nubile superstite, Alice, ottenni un’autentica miniera di particolari.

Ma quando chiesi loro che relazione potesse sussistere tra la Francia, o il francese, e la casa abbandonata, mi risposero che ne sapevano quanto me. Archer, anzi, non ne sapeva proprio niente, e la signorina Harris poteva dirmi soltanto che, forse, suo nonno, Dutee Harris, poteva essere a conoscenza di qualcosa.

Il vecchio marinaio, sopravvissuto al figlio Welcome morto in guerra da due anni, non conosceva direttamente la storia, però ricordava che Maria Robbins, la sua prima balia, credeva che nei deliri in francese di Rhoby Harris – alla quale era rimasta accanto soprattutto negli ultimi giorni – si nascondesse un significato soprannaturale.

Maria aveva lavorato nella casa dal 1769 al 1783, anno in cui la famiglia aveva cambiato abitazione, ed era presente quand’era morta Mercy Dexter. Una volta gli aveva parlato di una cosa strana relativa agli ultimi istanti di vita di Mercy, ma lui non ricordava più niente, oltre il fatto che era accaduto qualcosa di strano. Anche sua nipote ricordava vagamente la circostanza, ma lei ed il fratello avevano scarso interesse per la casa; chi se ne occupava era Carrington, figlio di Archer e attuale proprietario. Con Carrington andai a parlare dopo la mia esperienza.

Dopo aver ottenuto tutte le informazioni possibili dagli Harris, andai a spulciare nei registri cittadini con una meticolosità anche più zelante di quella dimostrata da mio zio. Volevo conoscere la storia di quella casa fin dal primo insediamento di coloni nella regione, nel 1636; se era necessario, e se il loro folklore poteva tornare in qualche modo utile, ero anche disposto a risalire ai tempi degli indiani di Narragansett.

Dapprincipio scoprii che il terreno faceva parte del lungo e stretto appezzamento di John Throckmorton, che come altre simili concessioni si snodava, a striscia, da Town Street lungo il fiume ed arrivava fino ad una linea di demarcazione corrispondente all’incirca all’odierna Hope Street. La terra appartenente a Throckmorton, successivamente era stata suddivisa in diversi lotti, ed io mi recai diverse volte a controllare i confini precisi del terreno dove sarebbe passata la futura Benefit Street.

Alcune leggende dicevano che i Throckmorton seppellivano i loro estinti in quel terreno; dopo aver esaminato meglio le registrazioni catastali, però, seppi che le salme in seguito erano state trasferite nel cimitero di North Burial Ground, che si trova sulla Pawtucket West Road.

Ma all’improvviso trovai qualcosa che mi mise in grande eccitazione; qualcosa che scovai per pura fortuna, dal momento che poteva facilmente sfuggire visto che stava insieme ad altri documenti. Era la registrazione del lascito di un piccolo terreno donato nel 1677 ad Etienne Roulet e consorte. Alla fine l’elemento francese era spuntato fuori... ma accompagnato dall’oscuro presagio di un nuovo orrore risvegliato da quel nome nella mia memoria satura di eterogenee letture fantastiche.

Cominciai a studiare febbrilmente l’assetto del terreno tra il 1747 ed il 1759, prima, cioè, che venisse spianata Back Street, e che la strada venisse raddrizzata. E scoprii quello che presentivo: che i Roulet, cioè, avevano seppellito i propri defunti proprio nella zona in cui era stata costruita in seguito la casa, e che in nessun documento si parlava di un trasferimento postumo delle salme. La registrazione da me trovata, anzi, terminava in modo poco chiaro, e dovetti prendere d’assalto sia l’Associazione Storica del Rhode Island, sia la biblioteca Shepley, prima di trovare finalmente la porta che era stata aperta dal nome di Etienne Roulet.

Al termine delle mie ricerche, scovai certe informazioni piuttosto vaghe – ed orribili – che andai immediatamente a verificare recandomi ad esaminare la cantina della casa abbandonata con rinnovata minuziosità.

A quanto sembrava, i Roulet erano arrivati da East Greenwich nel 1696, seguendo la costa ovest di Narragansett’s Bay. Erano degli ugonotti di Caude, e il consiglio degli abitanti di Providence aveva fatto una feroce opposizione prima di consentire loro di stabilirsi in città. Dopo la revoca dell’Editto di Nantes, erano stati costretti a trasferirsi ad East Greenwich, ma già lì avevano incontrato una certa impopolarità, e le superstizioni locali dicevano che le vere ragioni di tale impopolarità non erano da ricercarsi nei pregiudizi razziali e nazionalistici, e neanche nelle lotte tra coloni francesi ed insediati inglesi – lotte che neppure il governatore Andros era riuscito ad appianare.

Alla fine, però, il loro acceso protestantesimo – troppo acceso, a detta di alcuni – e le difficili condizioni in cui vivevano dopo essere stati allontanati dal paese ed essere stati costretti a discendere la baia, avevano commosso il Consiglio di Providence, che aveva concesso loro asilo. E il cupo Etienne Roulet, che se la cavava decisamente meglio a leggere strani libri e a disegnare diagrammi incomprensibili che con la zappa, dovette accettare un lavoro nel magazzino del molo gestito da Pardon Tillinghast, in Town Street, una zona della città molto a sud.

Diverso tempo dopo, tuttavia – all’incirca quarant’anni dalla morte di Etienne – era scoppiata una specie di sommossa popolare, al termine della quale non si sentì più parlare dei Roulet. Dopo un secolo, la gente si ricordava ancora benissimo di loro, e raccontava le vicende dei Roulet come qualcosa di molto importante che aveva sconvolto la vita tranquilla di quella cittadina portuale del New England.

Paul, il figlio di Etienne, era il soggetto preferito delle chiacchiere; era un tizio scorbutico ed eccentrico, e probabilmente era stato il suo strano comportamento a far scoppiare la sommossa durante la quale la sua famiglia era stata cacciata dalla città. Ed anche se a Providence non si era mai creato quel clima di caccia alle streghe che caratterizzava i vicini centri puritani, le vecchie più pettegole avevano stabilito che le sue preghiere non erano né dette al momento giusto, né indirizzate alla persona giusta.

Probabilmente era questo il palinsesto sul quale era stata ricamata la leggenda conosciuta dall’anziana Maria Robbins. Solo uno slancio di fantasia, o una rivelazione successiva, avrebbero potuto spiegarmi che cosa c’entravano i Roulet con i vaneggiamenti in francese di Rhoby Harris e delle altre vittime della casa abbandonata.

Mi domandai quante persone, tra coloro che conoscevano la leggenda, avessero notato l’ulteriore collegamento che c’era tra questa ed i fatti spaventosi rivelatimi dalle mie ricerche inquietanti, e più esattamente dalla lettura della raccapricciante storia, registrata negli annali cittadini, di «Jacques Roulet, di Caude», la cui vicenda rappresentava uno dei punti più oscuri negli annali dell’orrore. Costui era stato condannato al rogo nel 1598 come servitore del demonio, ma salvato successivamente dal Parlamento di Parigi e confinato in manicomio.

Lo avevano trovato nel bosco, completamente coperto di sangue e di brandelli di carne umana, dopo la morte di un ragazzo che era stato assalito e poi smembrato da due lupi. Una delle due bestie era stata vista andarsene via tranquilla2 .

Quella sì che era una storia sensazionale, corredata addirittura di precisi riferimenti al nome ed al posto, ma ero certo che le pettegole di Providence ne fossero all’oscuro. Se ne fossero venute a conoscenza, la coincidenza del nome «Jacques Roulet» con quello di «Etienne Roulet», sarebbe bastata a scatenare il panico e la violenza. Non erano state le loro maldicenze a far precipitare gli eventi e a provocare quella sommossa culminante nella cacciata dei Roulet dalla città. Tuttavia, non era possibile che una debole eco di quelle lontane vicende fosse arrivata all’orecchio dei miei concittadini, contribuendo a determinare l’episodio di violenza?

A quel punto cominciai a far visite sempre più frequenti alla casa abbandonata, scrutando meticolosamente tutti i muri, osservando attentamente la grottesca vegetazione del prato, ed esaminando ogni più piccolo millimetro del pavimento di terra della cantina.

Alla fine, con il permesso di Carrington Harris, rimediai una chiave per aprire la porta cigolante della cantina che dava direttamente su Benefit Street, visto che mi premeva di avere una rapida via di uscita, anziché essere costretto a percorrere tutte le scale buie ed il salotto a pianterreno, prima di infilare la porta principale.

Ed in cantina, dove gli influssi malefici erano maggiori, passai interi pomeriggi a rovistare in ogni angolo, mentre vedevo il sole che trapelava dalle finestre coperte di ragnatele che davano sulla strada. Sapere che a pochi passi da me, solo una porta aperta mi separava dal mondo esterno, mi dava un senso di sicurezza. Tuttavia i miei sforzi non vennero premiati da nessuna scoperta: non trovai che noiosa umidità, qualche leggera esalazione dannosa, e leggere tracce di salnitro sul pavimento. Mi venne in mente che molti passanti dovevano avermi visto trafficare lì dentro dalle persiane rotte.

Alla fine, accettando un suggerimento di mio zio, decisi di introdurmi nella casa di sera, e così, in una notte da lupi, entrai nella cantina per osservare con una torcia elettrica le fungosità fosforescenti, ripugnanti e grottesche, sviluppatesi per terra.

Quella notte trovavo la casa più lugubre che mai, e non fu del tutto una sorpresa quando scorsi – o credetti di scorgere – tra i depositi albini di muffe, la stessa «figura», una sagoma umana rannicchiata, che avevo visto diverse volte da bambino. Ma non era mai stata così definita come quella sera e, mentre la osservavo, mi parve di vedere di nuovo il medesimo vapore giallastro che mi aveva tanto atterrito quel pomeriggio piovoso di tanti anni prima.

Era proprio accanto al camino, sopra la chiazza antropomorfa, che si sollevò quella cosa: un’esalazione leggera, miasmatica, leggermente luccicante che, mentre tremolava nell’aria umida, pareva disegnare forme imprecise ed inquietanti che evaporavano progressivamente in una sorta di nebulosità, e si infilavano poi su per la cappa del camino lasciando un lezzo tremendo.

Era uno spettacolo davvero orrendo, specie per me che sapevo della chiazza. Eppure mi feci coraggio e restai là, a guardare come un ebete il vapore che svaniva nel camino. E, mentre guardavo, ebbi l’impressione che quella cosa si girasse e mi fissasse, con occhi più immaginari che reali.

Quando mio zio seppe dell’accaduto, si allarmò e, dopo averci pensato su per più di un’ora, prese una risoluzione. Valutando l’importanza di quel fenomeno e che significato aveva per il nostro lavoro, decise che era necessario andare insieme in quella casa per scoprire – e si augurava anche distruggere – l’orrore che vi si nascondeva. Mi propose dunque di fare una notte, o più, di continua vigilanza in quella cantina putrida e muffita.

 

 

 

4.

 

Giovedì 25 giugno 1919, dopo aver messo a parte della nostra decisione Carrington Harris – al quale nascondemmo, però, i nostri veri sospetti – io e mio zio portammo nella casa due sedie, una branda da campeggio, e certe apparecchiature scientifiche piuttosto pesanti e complicate. Lasciammo tutto in cantina, quindi coprimmo le finestre con dei lenzuoli e ci accordammo che saremmo tornati quella notte stessa a fare la nostra prima veglia.

La porta che conduceva al pianterreno l’avevamo chiusa accuratamente e, una volta accertato di avere con noi la chiave della cantina, eravamo disposti a lasciare lì le nostre costose apparecchiature – ottenute in segreto e ad una cifra da capogiro – ignorando per quanto tempo avrebbero dovuto rimanervi. Intendevamo restare alzati fino a tardi, e quindi fare dei turni di riposo di due ore, prima mio zio e dopo io; per dormire avremmo usato la branda.

La rapidità con la quale mio zio ottenne dalla Brown University e dall’armeria di Cranston Street tutto l’occorrente, e la naturalezza con la quale diresse la nostra azione, testimoniano quante energie avesse quell’incredibile e vitalissimo vecchio di ottantun anni.

Elihu Whipple si era attenuto per tutta la vita alle norme generali che raccomandava ai suoi pazienti come medico e, se non fosse stato per via di quello che successe, oggi sarebbe ancora vivo ed in perfetta salute. Le uniche persone che sospettino la verità sull’accaduto siamo soltanto io e Carrington Harris.

Fui costretto a raccontarglielo, perché Harris, come proprietario della casa, aveva diritto di sapere da che cosa l’avevamo liberata. Era già al corrente della nostra ricerca, ed io ero più che certo che, dopo la morte di mio zio, sarebbe stato d’accordo con me che alla gente era meglio dare poche spiegazioni. Carrington sbiancò mentre raccontavo, ma mi dette ragione, e decise che la cosa migliore da fare era affittare la proprietà, ora che poteva farlo senza preoccupazioni.

Sostenere che in quella notte burrascosa non avessimo paura, sarebbe mentire spudoratamente. Ho già avuto occasione di dire che non credevamo a sciocche superstizioni, ma l’esercizio della scienza e l’abitudine alla riflessione ci avevano insegnato che il normale universo tridimensionale costituisce soltanto una piccolissima frazione della vita e dell’energia cosmiche. Nel nostro caso, prove palesi scaturite da registrazioni autentiche facevano supporre l’esistenza di alcune forze molto resistenti e, dal punto di vista umano, molto maligne.

Dire che dessimo la caccia a vampiri o licantropi sarebbe tutt’altro che esatto. Diciamo, invece, che non avevamo l’assoluta certezza di poter negare la possibilità che esistessero in natura dei tipi di energia e di sostanza differenti, i quali vengono registrati molto raramente nello spazio tridimensionale per via della separazione tra questo ed altre regioni cosmiche, le quali tuttavia sono sufficientemente vicine alla nostra sfera di realtà da manifestarsi sporadicamente in fenomeni che noi, a causa della nostra ignoranza, non potremo comprendere.

In sintesi, io e mio zio pensavamo che una serie di fatti inoppugnabili dimostrassero l’esistenza di una forza che si esercitava sulla casa, un’influenza costante nel tempo, riconducibile ad uno dei primi coloni francesi arrivati due secoli prima, e probabilmente ancora attiva per via di leggi a noi ignote del movimento atomico ed elettronico.

La storia della famiglia Roulet, stando almeno alle registrazioni, sembrava indicare che i suoi componenti avessero una sorta di anormale familiarità con le emanazioni esterne di quella forza: emanazioni oscure che in tutta l’altra gente, invece, ispiravano solamente repulsione e paura. Era dunque tanto assurdo – ci chiedevamo – ipotizzare che i tafferugli del 1730 avessero messo in moto misteriosi poteri cinetici nella mente perversa di uno o più di loro – del tenebroso Paul, forse – che erano poi sopravvissuti al linciaggio della folla e alla morte dei loro corpi, fermandosi in uno spazio pluridimensionale in forma di energie, guidate sempre e comunque dall’odio assoluto verso tutta la comunità?

Alla luce delle più recenti teorie sulla relatività e sulle interazioni atomiche non era inconcepibile dimostrarlo. Bastava immaginare un nucleo sconosciuto di energia o di materia aliena, più o meno incorporea, alimentata da invisibili sottrazioni minime all’energia vitale (il corpo) ed al fluido psichico delle persone nelle quali penetrava, in alcuni casi impossessandosene definitivamente. Quell’emanazione, o poteva essere pericolosamente nemica, oppure era spinta semplicemente dall’istinto di autoconservazione. In entrambi i casi, una tale mostruosità – altro non poteva essere in base ai nostri parametri mentali – andava considerata un’intrusa o una bizzarria contro natura, ed in quanto tale doveva essere distrutta come obiettivo prioritario da chiunque avesse cara la vita, la salute e la sanità mentale.

La cosa che ci preoccupava di più era il fatto che non avessimo la minima idea quanto all’aspetto col quale l’entità ci sarebbe potuta apparire. Non si era manifestata mai a nessuno sano di mente, ed erano stati in pochi a percepirne chiaramente la presenza. Poteva trattarsi di pura energia – una sorta di etere invisibile, estraneo al regno materiale – o di una sostanza in parte corporea, ma anche di una composizione cellulare sconosciuta ed ostile, in grado di trasformarsi a suo capriccio in evanescenti agglomerati solidi, liquidi e gassosi, o in qualcosa di ancora diverso.

La chiazza antropomorfa che si imprimeva sul pavimento, l’esalazione giallastra, ed il grottesco rigonfiamento delle radici degli alberi cui accennavano talune leggende, lasciavano supporre che si trattasse di una forma umanoide, ma non si poteva dire con certezza se quella vaga somiglianza con l’uomo fosse reale ed immutevole.

Avevamo architettato due strumenti offensivi per distruggerla. Il primo, era un Tubo di Crookes3 riadattato ed azionato da un grosso accumulatore di elettricità, al quale avevamo aggiunto degli schermi riflettenti speciali nel caso l’entità fosse incorporea, e ci volesse la potenza devastante delle radiazioni per colpirla; il secondo, consisteva in due lanciafiamme del medesimo tipo impiegato nell’ultima guerra, nel caso fosse in parte corporea e suscettibile di distruzione fisica. Avevamo portato i lanciafiamme poiché, proprio come i superstiziosi contadini di Exeter, eravamo prontissimi a bruciare il cuore di quella creatura, se un cuore l’aveva.

Sistemammo in posizione strategica le apparecchiature: vicino alla branda e alle sedie, e vicino alla chiazza dalla strana forma le cui grottesche esalazioni andavano a finire nella cappa del camino. Quando collocammo gli strumenti, comunque, quel deposito si vedeva appena e così, la notte seguente, quando tornammo per la nostra sorveglianza. Avevo dubitato di averla vista davvero, ma poi mi erano tornate in mente tutte le dicerie.

Cominciammo la nostra veglia alle dieci della sera e, per lo meno all’inizio, non successe niente. La cantina era fiocamente rischiarata da qualche raggio di luce proveniente da un lampione stradale esposto alla pioggia. La debole fosforescenza delle grottesche fungosità, di cui avremmo fatto volentieri a meno, illuminava le pareti ormai prive di intonaco, il miasmatico terreno con le sue muffe, pezzi di vecchie sedie e tavoli e rottami di altro mobilio, le larghe assi e le travi pesanti del soffitto, la porta sgangherata che dava sui ripostigli e conduceva all’altra ala dell’abitazione, le scale di pietra in rovina ed il loro corrimano di legno gonfiato dall’umidità, il fosco e sinistro camino dove erano rimaste ferraglie arrugginite di uncini, alari, spiedi, carrucole e il portello del forno per il pane; e poi la nostra branda, le nostre sedie da campeggio, e la nostra apparecchiatura.

Come tutte le altre volte, avevamo lasciato aperta la porta che dava sulla strada, per crearci una veloce via di fuga in caso la situazione ci sfuggisse di mano. Pensavamo che la nostra sorveglianza notturna avrebbe fatto uscire allo scoperto qualsiasi entità malvagia si nascondesse in cantina; inoltre, grazie alle nostre apparecchiature, ritenevamo di poter fronteggiare e distruggere l’entità subito dopo averla sufficientemente osservata.

Il tempo che ci sarebbe voluto non era prevedibile, e sapevamo anche che ci eravamo cacciati in una rischiosissima avventura, dal momento che non avevamo idea delle sembianze della creatura. La posta, però, valeva il rischio, e quindi affrontammo da soli, con la massima determinazione, questo azzardo, consapevoli che chiedere aiuto ad altri ci avrebbe coperti di ridicolo, facendo fallire, inoltre, con buona probabilità il nostro piano.

Restammo alzati fino a tardi a discutere della cosa, ma poi il sopore di mio zio mi indusse a ricordargli che era venuto il suo turno di riposo di due ore.

Una volta ritrovatomi lì dentro da solo, a notte alta, mi prese una specie di tremenda paura: dico «da solo» perché se la persona che è con te dorme, e tu non puoi contare su di lei, ti ritrovi più solo di quanto immagini.

Il respiro di mio zio era profondo; lo accompagnava la pioggia che, filtrando in cantina con uno sgocciolio snervante, scandiva il ritmo delle sue inspirazioni ed espirazioni. Se quella casa era già umida col sole, quando pioveva sembrava di stare addirittura in un acquitrino.

In una simile situazione, mi misi ad osservare l’intonaco cadente delle pareti alla debole luce delle muffe e di quei pochi raggi di luce filtrati dai lampioni della strada attraverso le finestre schermate. Ad un certo momento, oppresso dalla lugubre atmosfera di quel posto, spalancai la porta e guardai fuori, risollevandomi alla vista familiare della strada ed aspirando a piene boccate l’aria pulita della notte. Niente di nuovo; avevo ormai la sensazione che la mia veglia fosse inutile. Feci diversi sbadigli, ed intanto lo sforzo di restare desto accresceva il mio nervosismo.

Poi venni attratto dai movimenti di mio zio. Nella prima mezz’ora di sonno aveva smaniato diverse volte, ora, però, anche il suo respiro non era tranquillo, e a tratti si sentiva una specie di sospiro più forte di un semplice gemito soffocato. Lo illuminai con la torcia, e vidi che aveva la faccia talmente incollata all’altra sponda della branda, da spingermi ad osservarlo meglio nel caso stesse soffrendo.

Probabilmente mi ero allarmato inutilmente, come uno stupido. Forse l’atmosfera del posto e lo scopo della nostra spedizione mi avevano suggestionato, dal momento che la posizione che aveva assunto mio zio nel sonno non aveva niente di innaturale o di sospetto. Eppure la sua faccia tradiva una curiosa agitazione, di certo provocata da qualche incubo che stava facendo, che non era da lui. L’espressione del suo viso, che era sempre sereno, adesso sembrava tormentata da emozioni contrastanti.

È probabile che fu proprio quell’espressione a mettermi in allarme.

Adesso che lo vedevo respirare affannato e così agitato, gli occhi leggermente aperti, mio zio non mi sembrava più un uomo solo, ma un insieme di uomini, e mi dava persino la sensazione di essersi estraniato dal proprio corpo. Ad un certo punto cominciò a bisbigliare qualcosa; l’atteggiamento delle sue labbra e il luccichio dei suoi denti divennero strani e paurosi.

All’inizio non capivo che cosa mormorasse, ma poi – con un sussulto di terrore – riconobbi certe parole che mi paralizzarono, per la lingua in cui erano pronunziate. In quel momento ripensai, però, ad alcune traduzioni laboriose da lui eseguite per scrivere certi articoli di antropologia e di storia antica per la Revue des deux Mondes. Perché l’anziano dottor Elihu Whipple stava parlando in francese, e le poche parole che riuscivo ad afferrare, dovevano riferirsi certamente alle più fosche leggende mai pubblicate da quel celebre giornale parigino.

Inaspettatamente, con la fronte madida di sudore, il dormiente si alzò di colpo in piedi, non perfettamente sveglio. I suoi bisbigli in francese salirono ad un urlo in inglese e mio zio, con la voce roca, cominciò a gridare freneticamente:

«Il mio respiro! Il mio respiro!».

Dopo tornò completamente in sé, la sua faccia cominciò a rilassarsi, e mi afferrò la mano iniziando a raccontarmi un sogno, del quale compresi il recondito significato tremando di terrore.

Mi disse che, dopo aver visto una serie di scenari banalissimi, era stato catapultato in una scena talmente bizzarra, da non somigliare neanche ad una sola cosa di tutto ciò che conosceva o di cui aveva letto. Era di questo mondo ma, al tempo stesso, non lo era: si vedeva un guazzabuglio indistinto di geometrie che avevano, sì, qualcosa di familiare, ma anche quei pochi tratti familiari formavano insiemi completamente sconosciuti e sconvolgenti.

Immagini disordinate e indefinibili si sovrapponevano l’un l’altra, alterando i princìpi basilari del tempo e dello spazio nel fondersi in combinazioni del tutto illogiche. Durante quelle visioni caleidoscopiche, comparivano delle istantanee – se il termine è ammissibile – di una chiarezza fantastica, ma di una eterogeneità pazzesca.

In un momento credeva di trovarsi in un pozzo senza fondo, insieme ad una folla di volti truci incorniciati da lunghi boccoli che avevano in testa cappelli a tre punte abbassati aggressivamente su di lui. In un altro pensava di essere tornato all’interno di una casa antichissima, il cui mobilio ed i cui occupanti mutavano in continuazione, cosicché non riconosceva mai con certezza le facce, il mobilio o la stanza stessa: per non parlare delle porte e delle finestre, che ondeggiavano e cambiavano più degli oggetti presumibilmente mobili.

Quello che stava per rivelarmi sugli abitanti di quella casa era molto sconcertante, ma al tempo stesso lo imbarazzava. Titubando, come se temesse di non essere creduto, mi disse che quelle enigmatiche facce avevano indiscutibilmente i tratti somatici degli Harris. E poi aggiunse che aveva provato una sorta di soffocamento, come se il suo corpo fosse stato invaso da una presenza tentacolare che cercava di impossessarsi dei suoi organi vitali.

Mi venne un brivido al pensiero di quei vecchi organi vitali, affaticati da ottantun anni di funzionamento, costretti a combattere un’entità ignota che sarebbe stata temibile persino per un fisico molto più giovane del suo. Ma poi mi convinsi che si trattava soltanto di un sogno, e che le orrende visioni di mio zio erano sicuramente dovute alla tensione delle ricerche e delle attese dei giorni prima. Parlare con lui mi aiutò ulteriormente a sopire la mia agitazione, e così iniziai a cedere al sonno.

Mio zio, che sembrava ormai perfettamente sveglio, volle fare di buon grado il suo turno di sentinella, nonostante avesse dormito male durante l’incubo.

Non appena mi addormentai, e la cosa fu istantanea, venni assalito da sogni orrendi. In quelle visioni, mi sentivo tremendamente solo, di una solitudine cosmica e sconfinata, ed ero ingabbiato in una sorta di prigione entro la quale filtravano forze maligne. Avevo l’impressione di essere legato ed imbavagliato, mentre udivo il rombo di una folla ululante che aveva sete del mio sangue.

In quel momento mi apparve il volto di mio zio, che veniva nella mia direzione; ma io ero straziato da un’angoscia impotente, perché non riuscivo né a liberarmi né ad urlare.

Quel sogno era talmente brutto, che fui quasi felice di essere svegliato da un urlo che mi fece uscire dallo stato onirico, dandomi una lucidità impressionante in virtù della quale ogni oggetto reale che avevo davanti acquistò una concretezza ed una vivezza soprannaturali.

 

 

 

5.

 

Mi ero addormentato con la faccia rivolta dalla parte opposta rispetto alla sedia di mio zio, perciò, quando mi ridestai improvvisamente, vidi solo la porta che dava sulla strada, la finestra di fondo, la parete, il pavimento, ed il soffitto dalla parte nord della stanza; il tutto messo a fuoco dal mio cervello in un lampo di brutale consapevolezza, rapido come la luce di un flash, e più forte della fosforescenza delle muffe o del chiarore che veniva dalla strada.

Non si trattava peraltro di una luce potente, – di certo non sarebbe stata abbastanza per leggere – ma era sufficiente a proiettare la mia ombra e quella della branda dal pavimento, con un chiarore giallognolo ed intenso che dava risalto agli oggetti più della stessa luce del sole.

Ne fui cosciente con una consapevolezza quasi dolorosa, mentre anche i sensi dell’udito e dell’olfatto venivano aggrediti violentemente. Nelle orecchie, infatti, mi rimbombava l’eco di quegli urli lancinanti, mentre mi si rivoltava lo stomaco al lezzo percepito dalle mie narici.

Con una lucidità acuta come adesso lo erano i sensi, avvertii istantaneamente un pericolo; come un automa, mi alzai dalla branda e afferrai meccanicamente una delle armi che avevamo deposto accanto alla chiazza giallastra. Tremavo al pensiero di quello che avrei visto, perché era stato mio zio a lanciare quell’urlo, e non avevo idea della minaccia contro la quale avrei dovuto difendere sia lui che me.

Quello che vidi, purtroppo, era anche peggio di quello che temevo. Esistono orrori che travalicano ogni orrore, e quello che avevo di fronte era uno di quei grumi d’incubo supremo che l’universo assegna ad una minoranza di sfortunati.

Dal pavimento disseminato di muffe, si stava innalzando un vapore di una fosforescenza spettrale, giallastra e malata, che aumentava di volume gorgogliando e ribollendo sino ad arrivare ad un’altezza tremenda. Assumeva forme umanoidi ed obbrobriose, ma non modificava il proprio stato gassoso, consentendomi in tal modo di vedere il camino e la cappa dietro le sue cangianti volute.

Era formata da una miriade di occhi, ferini e beffardi; e la sua testa, dura e grinzosa come quella di un insetto, si dissolveva sulla sommità in un ricciolo di vapore, che poi vorticava nell’aria e quindi si infilava su per la cappa del camino.

Ho detto di averla vista, ma solo con uno sforzo successivamente riuscii a ricordare la fisionomia dell’entità, ricostruendo il suo abominevole tentativo di darsi una forma. In quel momento, vedevo soltanto un vapore fosforescente esalato dalle muffe, repellente, gorgogliante e ribollente, che aveva incapsulato e liquefatto in una disgustosa massa gelatinosa l’unica cosa che mi premeva: mio zio. Sì, il venerabile Elihu Whipple che, con la pelle nera e disfatta, mi inseguiva farneticando, cercando di ghermirmi con mani adunche, forsennato come la stessa bestia che aveva liberato quella furia.

Se non impazzii, fu solo perché psicologicamente mi ero preparato a fronteggiare qualsiasi orrore, allenandomi a seguire una precisa routine di gesti.

Intuendo che la sostanza di quell’abominazione gorgogliante non era attaccabile con la chimica organica, ed ignorando quindi il lanciafiamme alla mia sinistra, diedi corrente al tubo di Crookes, e lo puntai contro quell’oscenità blasfema, scaricandole addosso le radiazioni più potenti a disposizione della scienza umana.

Ci fu un chiarore elettrico seguito da un crepitio, e poi la fosforescenza giallognola svanì. Ma purtroppo mi resi presto conto che quello era solo un effetto illusorio, e che le radiazioni emesse dal mio apparecchio erano impotenti.

E poi, mentre assistevo a quello spettacolo infernale, mi si palesò un nuovo orrore, alla cui vista urlai come un forsennato, ed annaspai vacillando verso la porta che dava all’esterno, senza riflettere su quali terrori alieni scatenavo sulla terra, o a quello che avrebbero detto di me gli uomini.

In quella nebbia di gas azzurrastri e giallognoli, la figura di mio zio aveva cominciato a sciogliersi in una massa ripugnante e, mentre si liquefaceva, sulla sua faccia in fluidificazione si susseguiva una serie di cambiamenti di identità concepibili soltanto da un folle.

Contemporaneamente, era un demone ed una schiera di demoni; uno scheletro ed un corteo di scheletri, un cadavere e un trionfo cimiteriale. Al fioco chiarore della luce presente nella stanza, la sua faccia molliccia si trasformò prima in una ventina, e poi in un centinaio di persone differenti; e, mentre si liquefaceva sul corpo che si stava sciogliendo come una candela, sghignazzava come folli caricature che, in fondo, non mi sembravano troppo aliene.

Infatti riconobbi i tratti degli Harris. Uomini o donne, bambini o adulti, volgari o fini, familiari o non familiari. Per un istante vidi anche un ritratto della sventurata Rhoby Harris che era esposto nel museo dell’Istituto d’Arte, e, per altri brevi momenti, apparve anche la faccia smunta di Mercy Dexter, tale e quale a come l’avevo vista in un quadro in casa di Carrington Harris. E verso la fine, quando una folla di volti di domestici e di bambini sfilò scoppiettando verso le muffe, per poi esplodere in una polla di grasso verdastro che si allargava sul pavimento, ebbi l’impressione che le facce lottassero tra di loro, come se i lineamenti del nobile viso di mio zio volessero assumere la supremazia, in una sorta di estremo saluto.

Voglio credere che in quell’istante fosse tornato a dirmi addio. E, mentre correvo in strada, con la gola arsa e tremando dai singhiozzi, anch’io dissi addio a lui. Strisciando sotto la porta, una scia di materia putrescente mi inseguì fino al marciapiede bersagliato dalla pioggia.

Il seguito della storia è macabro e ributtante.

Per la strada, dove pioveva a dirotto, non passava un’anima; ma in ogni caso non avrei raccontato la mia esperienza a nessuno al mondo. Girovagai senza meta verso sud: oltrepassai College Hill e l’Athenaeum, quindi scesi giù per Hopkins Street ed attraversai il ponte, raggiungendo la zona commerciale, dove gli alti palazzi parevano osservarmi increduli come fanno sempre gli edifici moderni. Poi, ad est, nacque un mattino grigio, diffondendo la sua luce sulla vecchia collina e sulle antiche guglie di Providence, e chiamandomi al mio triste compito, verso la casa dove avevo lasciato incompiuta la mia missione.

Così mi decisi – bagnato fradicio, senza cappello, gli occhi abbacinati dalla luce mattutina – e rientrai in quella funesta porta di Benefit Street che avevo lasciato socchiusa e che continuava a sbattere minacciosamente davanti alle facce dei primi passanti, ai quali non osavo dire nulla.

La porosità del pavimento aveva assorbito completamente il liquame, e la chiazza salnitrica antropomorfa sotto al camino era scomparsa. Lanciai un’occhiata alla branda, alle sedie, all’apparecchiatura, al mio cappello e a quello con la fascia gialla che era appartenuto a mio zio. Ero stravolto: distinguevo a malapena il sogno dalla realtà. Ma poi mi tornò tutto in mente, ed allora mi resi conto di aver assistito agli eventi più orrendi che si possano immaginare, un’esperienza peggiore di qualsiasi incubo.

Sedendomi, cercai di riflettere sull’intera faccenda con il massimo della lucidità rimasta alla mia mente sconvolta, pensando ad un modo per distruggere quell’orrore, sempre che quell’oscenità fosse reale.

Perché quell’entità non sembrava fatta di materia, né di etere, né di alcun’altra sostanza conosciuta. Che si trattasse di un’emanazione aliena, o di un vapore succhiatore di sangue simile a quello che i contadini di Exeter affermano di aver visto talvolta librarsi sopra certi cimiteri? Avvertivo che era quella la chiave del mistero, e tornai a guardare il terreno dove le muffe ed il deposito salnitrico avevano assunto quelle forme grottesche.

Dopo una riflessione di dieci minuti, ne fui sicuro; afferrai il cappello e tornai a casa, dove feci un bagno caldo, mangiai qualcosa ed ordinai per telefono di consegnarmi un piccone, una vanga, una maschera antigas di tipo militare e sei contenitori di acido solforico entro l’indomani mattina di fronte alla porta della cantina della casa abbandonata di Benefit Street. Poi cercai di dormire ma, dal momento che non mi riusciva, mi misi a leggere e a scrivere versi sciocchi per circa due ore, nel tentativo di scaricare la tensione.

Alle undici esatte della mattina, iniziai a scavare. Fortunatamente era uscito il sole. Ero tornato sul posto da solo perché, pur avendo una maledetta paura di fronteggiare quell’entità aliena, l’imbarazzo di dover raccontare quella storia ad altri era anche maggiore.

Successivamente dissi ad Harris solo lo stretto necessario, fidando nel fatto che, avendo sentito dai vecchi le loro storie paurose, era in qualche modo disposto alla credulità.

Mentre scavavo sotto il camino, la punta della vanga causò la fuoruscita dai funghi recisi di un liquido giallastro. L’uomo non dovrebbe mai portare alla luce certi segreti nascosti nella terra, e questo era uno di quelli.

Vedevo che mi tremavano le mani, ma continuai ugualmente a scavare, e così mi ritrovai ben presto dentro la profonda buca che avevo scavato. Andando maggiormente in profondità, l’allargai di ulteriori settanta centimetri, ed il fetore divenne sempre più forte.

A quel punto mi aspettavo da un momento all’altro un contatto con l’entità infernale che aveva infestato la casa con le sue emanazioni per quasi due secoli. Mi domandavo che aspetto avrebbe avuto, di cosa fosse mai fatta, e quanto fosse cresciuta nel corso di quei duecento anni passati a suggere la vita altrui.

Uscii quindi dalla fossa, rimossi la terra sporca che si era accumulata, e sistemai i grossi contenitori di acido da ambo le parti della buca, in modo da poterli svuotare velocemente una volta arrivato il momento. Dopodiché continuai a scavare sui due lati, muovendo la pala con cautela ed infilandomi la maschera antigas per via del fetore che era aumentato.

L’idea di essere ormai ad un soffio da quella cosa indescrivibile faceva vibrare i miei nervi.

All’improvviso la vanga toccò qualcosa di morbido. Mi vennero i brividi, ed istintivamente feci per uscire dalla buca, nella quale ero sprofondato ormai fino al collo. Ma poi riacquistai il coraggio, e spalai altra terra alla luce della torcia che mi ero portato.

La superficie messa a nudo dalla pala era viscida come la pelle di un pesce: somigliava a gelatina ghiacciata in via di putrefazione, vagamente vitrea. Continuai a raschiare, e mi accorsi che aveva una forma. In un punto in cui la massa si era ripiegata, si vedeva una specie di fessura. La superficie portata alla luce era molto grande e leggermente cilindrica, simile, direi, ad un enorme tubo di stufa bianco e azzurro, piegato a gomito e con la parte più larga che misurava sessanta centimetri.

Grattai ancora con la pala e poi, come un fulmine, schizzai di corsa fuori dalla fossa, ed iniziai freneticamente a svuotare i contenitori l’uno dopo l’altro, riversando torrenti d’acido su quella fossa ripugnante e sull’inimmaginabile abominazione aliena della quale avevo intravisto solo un gomito colossale. Non appena l’acido raggiunse il fondo della buca, si sollevò una nuvola accecante di vapore giallo-verde, la cui vista rimarrà per sempre nella mia mente. Quelli che abitavano sulla collina ricordano ancora quel giorno come «il giorno giallo», perché dalle fabbriche lungo il Providence River si levarono al cielo orrende fumate a getto schizzate dalle ceneri di scarico: io solo so quanto si sbagliassero riguardo alla provenienza di quelle fumate. La gente racconta anche dell’improvviso fragore dovuto allo scoppio contemporaneo di certe tubature dell’acqua ridotte in cattivo stato o del condotto sotterraneo del gas... ed anche su questo punto avrei potuto smentirla pienamente, se solo ne avessi avuto il coraggio.

Una volta svuotato il quarto bidone d’acido, i vapori cominciarono a filtrare attraverso la maschera, e mi fecero svenire. Quando rinvenni, però, mi accorsi che dalla buca non uscivano più gas. Per sicurezza svuotai i due contenitori restanti, ma senza nuovi risultati, e ritenni più prudente ricoprire la fossa.

Quando ultimai il mio lavoro, vidi che si era fatta sera, ma ormai la paura aveva lasciato quella casa. L’umidità era meno fetida, e le grottesche fungosità avevano perso la loro fosforescenza, trasformandosi in un’innocua polverina grigia simile a cenere sparsa per terra.

Uno degli orrori più abissali della Terra, era stato debellato per sempre e, se esiste, l’inferno doveva aver ormai raccolto l’anima di un essere immondo.

Mentre spazzavo via le ultime tracce di muffa, mi cadde la prima delle copiose lacrime che avrei versato in affettuoso omaggio alla memoria del mio caro zio.

Quando venne la primavera, nel prato della casa abbandonata erano scomparse quelle strane erbacce e quell’erba esangue e, dopo un po’ di tempo, Carrington Harris riuscì ad affittare l’abitazione. L’aspetto di quella casa rimane sempre lugubre, ma quella sua singolarità esercita su di me un curioso fascino. Quando la demoliranno per costruire al suo posto un esercizio o delle case popolari, misto al sollievo, proverò anche una sorta di dispiacere.

I tristi alberi spogli di un tempo hanno cominciato a caricarsi di melette dolci, e con l’anno scorso gli uccellini sono tornati a fare il nido tra i loro rami nodosi.