Sommario

Introduzione

L’affermazione della Chiesa della Controriforma

1. Il sacco di Roma e il problema della riforma della Chiesa

2. Il pontificato farnesiano: crisi religiosa e nuove prospettive politiche

3. Dal conflitto ai vertici della Chiesa alla «guerra spirituale» del cardinal Carafa

4. Chiesa, papato e Stati europei

I soggetti istituzionali

1. Il centralismo romano: papa, congregazioni cardinalizie e nunzi

2. Il concilio di Trento e il ruolo dell’episcopato nell’Italia postridentina

3. L’Inquisizione

4. Gli ordini regolari

Religione, cultura e controllo sociale

1. Conquista missionaria e acculturazione delle masse

2. Stregoneria, superstizioni e santità: il controllo di credenze e devozioni

3. Il controllo dei comportamenti

Conclusioni

Bibliografia

Opere generali

Introduzione

L’affermazione della Chiesa della Controriforma

I soggetti istituzionali

Religione, cultura e controllo sociale

Conclusioni

Cronologia

Introduzione

La Controriforma fu un processo di trasformazione vissuto tra Cinque e Seicento dalla Chiesa di Roma che, pur estendendo i suoi effetti in Europa, lasciò l’impronta più profonda e duratura sulla vita religiosa, la cultura e la società della penisola italiana. La congregazione romana del Sant’Uffizio, creata nel 1542, ebbe un ruolo centrale nell’indirizzare questo cambiamento. Dinanzi alla sfida luterana, alle esigenze di riforma istituzionale e morale della Chiesa provenienti da più parti e alle inquietudini spirituali diffuse in tutti gli strati della società cristiana, l’Inquisizione riuscì infatti a far prevalere un’intransigente politica di difesa e di affermazione dell’ortodossia, dell’autorità ecclesiastica e del primato papale. Nelle pagine che seguono l’accento è quindi posto sul mutamento: dalla reazione di fronte alla frattura protestante al rafforzamento del ruolo politico e spirituale del papato; dalla predisposizione dell’arsenale istituzionale e ideologico per la lotta contro l’eresia all’affermazione del modello di controllo clericale sulla società; dal suo consolidarsi e stabilizzarsi nella prima parte del Seicento sino al progressivo sfaldarsi verso la metà del secolo.

Nel quadro del nesso storicamente strutturale tra Controriforma e Inquisizione romana che venne allora stringendosi, si è cercato anche di mettere in evidenza i molteplici contrasti sorti via via tra i diversi soggetti ecclesiastici proprio intorno alla gestione del comune progetto controriformistico; il continuo trasformarsi di questo progetto nel difficile confronto con le resistenze e le esigenze della società; il suo complicarsi e stravolgersi nella trasmissione verso il basso alle migliaia di chierici incaricati d’intervenire concretamente nelle differenti realtà locali; il suo modificarsi nella ricezione da parte dei fedeli e nella formazione di nuovi costumi, pratiche e valori sociali.

Il concetto di Controriforma ha assunto oggi nuovo vigore sul piano storiografico proprio entro questa visione più articolata dell’apparato coercitivo e dei suoi canali di comunicazione, non sempre conflittuali, verso il basso. Le valenze repressive di un sistema finalizzato al controllo di opinioni, idee e comportamenti restano quindi indiscutibili, ma non esauriscono la realtà di un potere che produceva ideologia e cultura e che – proprio per la sua pervasività e volontà d’intervento nei più minuti aspetti della vita sociale – presupponeva ricerca del consenso oltre che coercizione.

Questa prospettiva si pone al di là dell’ormai logora distinzione tra una Controriforma intesa come mera reazione repressiva della Chiesa romana dinanzi alla frattura religiosa e una Riforma cattolica in cui si riassumevano gli sforzi di rinnovamento autonomi dalla rottura protestante che, nati alla fine del Medioevo, avrebbero trovato il più alto momento d’espressione e di coordinamento nel concilio di Trento e nell’azione dei vescovi. Il concetto di ‘Riforma cattolica’ si è, infatti, arenato in sede storiografica in una miriade di ricerche settoriali sul riformismo episcopale e sull’attività pastorale degli ordinari diocesani, ricerche sostanzialmente isolate dal quadro generale delle forze e delle prospettive allora operanti all’interno della Chiesa.

Il problema, oggi, non è più quello di definire la Controriforma, ma di storicizzarla. Come hanno mostrato i fondamentali contributi degli ultimi anni e come indica l’attuale vitalità di questo settore di studi, non si tratta di racchiudere entro l’ennesimo astratto concetto la storia della Chiesa e della vita religiosa tra Cinquecento e Seicento ma di comprenderne i complessi sviluppi, di articolarne le scansioni e di approfondire le questioni poste dalle nuove ricerche.

L’affermazione della Chiesa della Controriforma

1. Il sacco di Roma e il problema della riforma della Chiesa

Nel 1494 la discesa di Carlo VIII re di Francia fino a Napoli dava inizio alle «guerre d’Italia», un trentennio in cui la penisola doveva diventare il tragico teatro degli scontri tra le ambizioni di Francia e Spagna e delle devastazioni degli eserciti. Al mutevole gioco delle alleanze tra opposti schieramenti presero parte gli Stati regionali italiani con scelte di campo alterne. Il successo o il fallimento di queste scelte avevano ripercussioni fortissime all’interno di un singolo Stato. Pote­vano condurre a radicali trasformazioni istituzionali, come quelle avvenute a Firenze rispettivamente nel 1494 e nel 1527 con la cacciata dei Medici e l’instaurazione di un regime repubblicano (1494-1512; 1527-1530); a repentini mutamenti politici e sociali come nello Stato di Milano, nel corso dei convulsi passaggi dal governo ducale al dominio francese sino a quello di Carlo V; oppure costituire per una classe dirigente un trauma a partire dal quale ripensare il rapporto con i sudditi oltre che la politica estera, come era accaduto al patriziato veneziano dopo la sconfitta di Agnadello (1509) allorché la Terraferma era stata invasa dalle forze congiunte della Lega di Cambrai stipulata tra pontefice, Francia, Impero, Savoia, Este e Gonzaga.

Al centro degli eventi che mettevano in subbuglio la penisola, papa Giulio II della Rovere (1503-1513) stringeva e rompeva alleanze, conquistava città e territori, comandava gli eserciti. Nel 1511 egli passava dalla lega antiveneziana di Cambrai alla Lega santa contro la Francia. Re Luigi XII decise allora di riunire a Pisa un concilio per deporre il pontefice, un’assemblea scismatica che si sarebbe sciolta in seguito alla disfatta delle armi francesi e alla convocazione a Roma del V concilio Lateranense sotto il diretto controllo del pontefice (1512). Nello stesso periodo la critica di Erasmo da Rotterdam si levava contro questo «papa guerriero» attento più all’espansione del suo Stato che alle esigenze spirituali del suo gregge, contro una Chiesa imbevuta di interessi temporali, contro una religione affidata a frati corrotti e ignoranti, a un clero secolare avido e ambizioso, a teologi sottili e litigiosi. In scritti che contribuirono a creare in tutta l’Europa un sentire comune a dotti umanisti e al popolo, Erasmo accusava il clero di aver tradito il messaggio morale e religioso dei Vangeli, di aver ridotto la fede a un cumulo di pratiche superstiziose, cerimonie esteriori e preghiere oscure. In quegli stessi anni i monaci camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Querini, interpretando le speranze riposte nel concilio Lateranense da larga parte del mondo ecclesiastico, redigevano il Libellus ad Leonem X (1513) dove – dinanzi ai grandi compiti missionari che si profilavano all’orizzonte con la scoperta del Nuovo Mondo – tracciavano un vastissimo disegno di rinnovamento interno della Chiesa che restò inattuato.

Di fronte all’instabile situazione politica, alle guerre con il loro strascico di miseria e malattie, all’incapacità dell’istituzione ecclesiastica di rispondere alle esigenze e alle inquietudini della vita religiosa, nel primo trentennio del Cinquecento un turbine di fermenti profetici, tensioni apocalittiche e trepide speranze nell’arrivo di un’età di rigenerazione della cristianità percorse la penisola articolandosi secondo una molteplicità di esperienze nutrite, a tutti i livelli sociali, dalla diffusione della stampa. L’eredità profetica savonaroliana non si era spenta nel 1498 con il rogo del frate domenicano ma, largamente diffusa tra gli ordini religiosi, si era dispersa in mille rivoli in tutta Italia, alimentando attese in un rinnovamento radicale della società che, al di là del contesto cittadino fiorentino, si allargavano all’intera cristianità. Frati itineranti infiammavano i fedeli dai pulpiti, mentre nelle piazze e nei mercati cittadini eremiti di status non ben definito, vestiti di sacco e pelli come i profeti «Enoch ed Elia», si mescolavano a «ciarlatani, cavadenti, ripositori d’ernia» per predicare la penitenza. Fogli volanti e opuscoli circolavano in tutti gli strati sociali. «Ascoltate mortali/ li orribeli segnali/ che annuntiano gran mali»: predicazione e stampa davano voce a paure dilaganti, diffondevano notizie di eventi prodigiosi e di nascite mostruose da una città all’altra, annunciavano imminenti flagelli, l’invasione turca, l’avvento dell’Anticristo e la fine del mondo se gli uomini non si fossero redenti. Non erano fenomeni che riguardassero solo il popolo: dotti curiali e potenti cardinali forzavano i segreti della Sacra Scrittura e di antichi codici per leggervi l’annuncio del «papa angelico», colui sotto il cui governo, secondo i vaticini, doveva aprirsi la nuova era. Nel frattempo la propaganda politica utilizzava ai propri fini tali inquietudini identificando ora nel «re dei gigli» Francesco I ora nel suo nemico Carlo V l’imperatore che avrebbe pacificato, riformato e salvato la cristianità.

Nel 1517 a Wittenberg la rivolta contro Roma del frate agostiniano Martin Lutero aveva avviato un processo storico che di lì a qualche anno avrebbe infranto l’unità religiosa del mondo cristiano. A occupare in quel periodo il sacro soglio erano papi fiorentini della famiglia dei Medici, con la breve interruzione di Adriano VI (1522-1523), l’ex precettore di Carlo V. Nella splendida Roma di Leone X (1513-1521) prima, di Clemente VII (1523-1534) poi, il teologo di Utrecht fu considerato un «barbaro» per i suoi ideali di riforma e per l’indifferenza verso le arti e le lettere, verso il neopaganesimo e il raffinato estetismo della Roma medicea che nel 1528 Erasmo avrebbe condannato nel Ciceronianus, un violento pamphlet scritto all’indomani del sacco.

Nel 1527, infatti, in seguito alla stipulazione della Lega di Cognac tra il papa e il re di Francia, le truppe imperiali di Carlo V entravano nella penisola e marciavano senza ostacoli sino a Roma mettendola a sacco e tenendola in pugno per quasi un anno. I lanzi luterani al servizio dell’imperatore, che nel papa vedevano l’incarnazione dell’Anticristo e in Roma la nuova Babilonia, profanarono i simboli del centro del mondo cristiano, infierendo con violenze inaudite sugli abitanti. Al di qua e al di là delle Alpi, pur tra valutazioni politiche divergenti, il funesto evento fu interpretato come segno tangibile della «giusta ira di Dio».

Il sacco del 1527 non rappresentò solo un trauma individuale per quanti avevano goduto sino allora della munifica magnificenza della Roma rinascimentale di Clemente VII («Non mi par esser quel Bastiano che era avanti al sacco: non posso più tornare in cervello» scrisse il pittore Sebastiano del Piombo al suo ritorno nella capitale pontificia) né fu soltanto una tragedia per chi era rimasto in balìa degli orrori della lunga occupazione. Come avrebbe sostenuto Francesco Guicciardini nella Storia d’Italia, l’umiliazione della Roma cristiana aveva messo in ginocchio non solo una città, non solo il papato, ma la stessa fede nel primato culturale e politico dell’Italia rinascimentale fondato sulla continuità con l’eredità della Roma antica.

Alla fine degli anni Venti, alla corte di Clemente VII, la protesta di Lutero e del mondo tedesco, a dieci anni di distanza dall’affissione delle tesi, era ancora incredibilmente sottovalutata e non compresa nella sua portata e dimensioni. Negli anni successivi alla tragedia del sacco, dopo la pace di Bologna del 1530 tra il papa e Carlo V, la necessità di una riforma in capite (ossia ai vertici) cominciò a diventare problema politico e religioso anche per il papato. A poco a poco uomini di Chiesa e di cultura che erano fortunosamente fuggiti da una città devastata dalle scorribande dei lanzichenecchi luterani o successivamente allontanatisi da una corte stremata e moralmente screditata, iniziarono a guardare a Roma come al luogo in cui programmi di rinnovamento, linee di riforma e proposte avrebbero potuto trovare ascolto e coordinamento.

Nel 1534 Paolo III Farnese ascese al soglio pontificio. Le creazioni cardinalizie degli anni successivi mostrano come il nuovo papa fosse in grado di aggregare intorno a sé i principali rappresentanti dei circoli riformatori, in particolare quel gruppo eterogeneo di uomini di Chiesa che avevano animato l’ambiente veneto all’indomani del sacco. Gian Pietro Carafa, vescovo di Chieti (in latino Teate), membro di una famiglia della grande feudalità napoletana, dopo la fuga da Roma si era rifugiato a Venezia dove era stato nuovamente eletto preposito dell’ordine dei teatini da lui fondato nel 1524 insieme con il patrizio vicentino Gaetano Thiene. Reginald Pole, allontanato dalla corte inglese per essersi opposto al divorzio di Enrico VIII suo cugino, alla fine del 1532 era tornato a Padova di cui in passato aveva frequentato lo Studio (ossia l’Università). Gregorio Cortese era abate del monastero veneziano di San Giorgio Maggiore, in quel periodo luogo d’incontro di uomini di cultura e di esponenti delle classi dirigenti cittadine più sensibili ai problemi religiosi. Gasparo Contarini sarebbe approdato in curia dopo una brillante carriera politica e diplomatica spesa al servizio della Repubblica, portatovi dagli studi e da una complessa ricerca spirituale. Pietro Bembo, anch’egli patrizio veneziano, era uno dei letterati più famosi dell’epoca e aveva già dato compiuta forma teorica alla sua codificazione dello stile e della lingua volgare. A partire dalla metà degli anni Trenta questi uomini confluirono a Roma seguendo percorsi differenti. Il Contarini fu elevato alla porpora cardinalizia nel 1535, Carafa e Pole nel 1536, il Bembo nel 1539, il Cortese nel 1542.

Nel 1536 una commissione presieduta dal Contarini ricevette l’incarico di tracciare le linee di una riforma universale in vista della convocazione conciliare. Ne facevano parte oltre al Carafa, al Pole e al Cortese anche il grecista Girolamo Aleandro (cardinale nel 1538); Jacopo Sadoleto (cardinale nel 1536) compagno del Bembo come segretario ai brevi sotto Leone X; il domenicano Tommaso Badia (cardinale nel 1542) e il nobile genovese Federico Fregoso (cardinale nel 1539), entrambi molto legati al Contarini, nonché Gian Matteo Giberti, il potente datario apostolico di Clemente VII che, dopo il fallimento della politica papale filofrancese culminato nella tragedia del sacco, aveva abbandonato la curia per dedicarsi a un’intensa attività riformatrice nella sua diocesi veronese. L’anno successivo a Paolo III veniva consegnato il documento conosciuto come Consilium de emendanda Ecclesia, cioè Parere sulla riforma della Chiesa.

Il memoriale affrontava una vasta serie di problemi: dal controllo sui libri, sulla predicazione al popolo e sull’insegnamento universitario, agli abusi del clero regolare e secolare sino alla riforma degli uffici centrali romani. L’entità delle questioni esaminate condannava le riforme proposte a restare lettera morta, specie allorché si tentò di affrontare il risanamento dei grandi dicasteri curiali quali la Dataria (che aveva il compito di concedere dispense, di effettuare composizioni in deroga alle norme del diritto canonico e di conferire i benefici non concistoriali, ossia quelli la cui assegnazione non spettava al Collegio cardinalizio) e la Penitenziaria (tribunale incaricato di concedere grazie, dispense e assoluzioni per il foro interno, ossia per le questioni di coscienza), le due istituzioni-simbolo della corruzione romana in età rinascimentale, «fondaghi di mercantie» della «monarchia papesca» come le avrebbe definite un esule italiano oltralpe, contro le quali già si era indirizzata la feroce polemica di Lutero. Anche se il progetto di riforma ecclesiastica delineato nel Consilium fallì, il fatto essenziale è che per un breve momento tra gli esponenti dei vertici curiali si riuscì a raggiungere un accordo intorno a un comune programma di rinnovamento da presentare al pontefice.

All’interno di questo gruppo di uomini di cultura e di Chiesa che, nel volgere di pochi anni, sarebbero entrati a far parte (o già ne erano membri) del Collegio cardinalizio, non avrebbero tardato a emergere le divergenti concezioni religiose, le opposte visioni ecclesiali e i conflitti di carattere politico che nei due decenni successivi avrebbero lacerato i vertici della Chiesa. Dinanzi al problema della diffusione del dissenso religioso e delle dottrine riformate i fronti si sarebbero divisi: all’atteggiamento irenico e conciliatore verso il mondo protestante di quanti si raccoglievano intorno alla prestigiosa figura del Contarini si sarebbe contrapposta la posizione d’intransigente lotta antiereticale dei cardinali Gian Pietro Carafa e Girolamo Aleandro. All’inizio degli anni Quaranta il contrasto tra queste due diverse linee politico-religiose avviò tra i membri del Collegio cardinalizio una serie di aspre lotte che avrebbero condotto alla vittoria dello schieramento intransigente, al prevalere della volontà di scontro dottrinale con il mondo protestante e all’affermazione della Chiesa della Controriforma.

2. Il pontificato farnesiano: crisi religiosa e nuove prospettive politiche

Con la stabilizzazione del dominio imperiale sulla penisola dopo la pace di Bologna del 1530 tra il papa e Carlo V, i toni apocalittici si spensero a poco a poco, privi ormai degli spazi politici su cui proiettare le proprie ansie di rigenerazione. Parallelamente l’istituzione ecclesiastica stendeva un controllo crescente sui fenomeni profetici, mettendo a tacere quella folta schiera di figure – monache visionarie, frati che vivevano al di fuori dei loro conventi, laici che predicavano di religione – che ne erano stati i protagonisti. A partire dagli anni Trenta profetesse e predicatori di terribili flagelli cessarono di dominare la vita dei fedeli.

Con l’elezione di Paolo III, come si è detto, la Santa Sede cominciò finalmente ad affrontare il problema della rottura dell’unità religiosa europea e della propagazione dell’eresia nella penisola. Sin dagli anni Venti il dissenso religioso in Italia aveva trovato canali privilegiati di trasmissione nella circolazione di «libri avvelenati et pieni di mille heresie scritti in volgar lingua»; negli scambi di uomini e idee che avvenivano nei centri universitari; nell’insegnamento di «grammatici», umanisti e maestri di scuola, e soprattutto nei sermoni dei predicatori del «puro evangelio» che dai pulpiti cittadini divulgavano tra il popolo i temi della grazia, della giustificazione per fede, del sacrificio di Cristo.

La diffusione delle idee riformate in Italia ebbe una dimensione essenzialmente urbana, con caratteristiche specifiche da città a città. A Venezia la fiorentissima industria libraria produsse la prima Bibbia eterodossa in volgare (1530-1532) tradotta dall’esule fiorentino Antonio Brucioli, in seguito processato per eresia dall’Inquisizione, insieme con le precoci traduzioni delle opere di Erasmo e Lutero. In questo crocevia di mercanzie, uomini, libri e idee, dove le nuove dottrine avevano conquistato bottegai e artigiani, ma anche discendenti d’illustri famiglie patrizie, i testi eterodossi circolavano senza difficoltà sotto gli occhi allarmati del nunzio pontificio (cioè il rappresentante diplomatico del papa) che nel 1543 denunciava la «libertà grande della stampa».

Sino alla fine degli anni Quaranta la classe dirigente veneziana, sempre pronta a far valere l’autonomia dello Stato aristocratico e repubblicano contro Roma, si astenne dall’adozione di significative misure repressive. Grazie al clima di libertà che si respirava nella capitale della Repubblica, nel 1539 Filippo Melantone poteva inviare una lettera ai veneziani «studiosi del Vangelo» in cui esortava le autorità a raccogliere le diffuse istanze di rinnovamento religioso contro la tirannia papale. Nel 1541 il generale dei cappuccini Bernardino Ochino poteva illudersi che la Repubblica sarebbe diventata il punto di partenza e il centro propulsore per la propagazione della Riforma nella penisola: «Già Christo ha incominciato a penetrare in Italia, ma vorrei che v’intrasse glorioso, a la scoperta, e credo che Venetia sarà la porta». Ancora nel 1545 il vescovo di Capodistria Pietro Paolo Vergerio, ormai ricercato dall’Inquisizione, intravedeva quegli spiragli politici che gli consentivano di scrivere una veemente «esortazione alla riforma della Chiesa» in forma di lettera al neoeletto doge Francesco Donà. Sia l’Ochino sia il vescovo Vergerio sarebbero stati costretti alla fuga oltralpe per sfuggire al processo inquisitoriale, l’uno nel 1542, l’altro nel 1549.

In un’altra repubblica, quella di Lucca, l’eresia si radicò profondamente nelle file del patriziato cittadino dedito ai traffici mercantili con i paesi riformati, nei conventi (Pier Martire Vermigli, fuggito con alcuni compagni al di là delle Alpi nel 1542, era priore dei canonici lateranensi di San Frediano) e tra alcune eminenti figure di umanisti come Celio Secondo Curione e Aonio Paleario. Il Curione, professore all’Università di Pavia negli anni Trenta, si era rifugiato a Venezia e di qui a Ferrara alla corte di Renata di Francia, da dove si trasferì a Lucca come precettore di una famiglia patrizia cittadina, per poi fuggire in Svizzera nel 1542. Al Paleario, allontanatosi da Siena dove le sue dottrine nel 1542 gli avevano procurato una prima denuncia all’Inquisizione, nel 1546 fu addirittura assegnata dalle autorità lucchesi una cattedra pubblica d’insegnamento: dopo varie peregrinazioni, venne processato, decapitato e arso sul rogo per eresia a Roma nel 1570. La piccola repubblica fu a lungo luogo d’incontro di esponenti del ­dissenso religioso che qui potevano trovare la protezione di solide complicità e coperture sociali. Solo intorno alla metà degli anni Cinquanta il movimento ereticale lucchese fu spezzato e i processi aprirono un flusso di esuli verso Ginevra tra i quali comparivano i nomi più prestigiosi della classe dirigente cittadina.

Nei domini estensi, la corte ferrarese di Renata di Francia, convertita al calvinismo e ricca di rapporti con il mondo francese, rappresentò un punto di riferimento per i rappresentanti del dissenso religioso italiano sino al ritorno in patria della duchessa nel 1559 alla morte del marito Ercole II. Nell’altra città estense, Modena, l’eresia si radicò a tal punto da aggregare livelli sociali diversissimi e costituire una comunità eterodossa forte e compatta che per circa trent’anni dominò la vita religiosa cittadina. Nella «città infetta del contagio de diverse heresie come Praga», negli anni Trenta il filologo e letterato Ludovico Castelvetro traduceva in volgare le opere di Melantone e nel 1543 il vescovo Giovanni Morone scacciava il gesuita Alfonso Salmerón per invitarvi a predicare l’anno seguente il francescano Bartolomeo della Pergola, poi processato dall’Inquisizione.

A Firenze fermenti eterodossi si diffusero alla corte di Cosimo I de’ Medici coinvolgendo segretari, uomini d’affari e gli intellettuali legati all’Accademia del principe. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, con l’avallo del duca, il pittore Iacopo da Pontormo iniziava ad affrescare il coro della basilica di San Lorenzo – la parrocchia dei Medici e quindi un luogo denso di valori simbolici – traducendovi in immagini il Catechismo di Juan de Valdés, apparso a stampa nel 1545, che già teologi e inquisitori avevano stigmatizzato come eretico. Nella Repubblica senese, passata sotto il dominio mediceo nel 1557, solo la dura repressione inquisitoriale degli anni Sessanta riuscirà a stroncare un movimento clandestino che aveva amalgamato differenti livelli sociali e si era presto orientato verso il calvinismo. A Napoli negli anni Quaranta il dissenso religioso assunse connotazioni autonome, profondamente influenzato dal magistero spirituale dello spagnolo Juan de Valdés, sul quale si avrà modo di tornare, mentre una larga diffusione di dottrine ereticali è attestata dalle fonti dell’Inquisizione spagnola operante in Sicilia. In un altro dominio spagnolo, lo Stato di Milano, la comunità ereticale cremonese, una vera e propria Chiesa calvinista, mostra quale punto di organizzazione fosse in grado di raggiungere nel Nord Italia un dissenso che poteva avvalersi dei passi alpini come canali di comunicazione ed eventuali vie di fuga.

Il movimento filoriformato in Italia ebbe dunque una fisionomia non unitaria, entro la quale, però, per oltre un trentennio uomini e conventicole eterodosse poterono contare su sotterranee solidarietà, sulla mobilità degli adepti, su capillari forme di propaganda, su contatti d’amicizia con gli esuli d’oltralpe, su scambi epistolari con i maestri della Riforma e, soprattutto, sulle complicità sociali e politiche dei ceti dirigenti e dei governi della penisola. Stretti legami si crearono inoltre tra sparsi gruppi ereticali e uomini di Chiesa investiti di altissime responsabilità. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta il dissenso religioso nella realtà urbana italiana poté infatti assumere una dimensione istituzionale e godere di autorevoli legittimazioni ecclesiastiche da parte di uomini come Pietro Paolo Vergerio vescovo di Capodistria, Giovanni Morone vescovo di Modena, Vittore Soranzo vescovo di Bergamo, Pietro Antonio Di Capua arcivescovo d’Otranto, Giovanni Grimani vescovo di Ceneda e poi patriarca di Aquileia, tutti perseguitati dall’Inquisizione.

Un’altra importante caratteristica del dissenso religioso in Italia nel primo Cinquecento fu la larga articolazione sociale e il coinvolgimento dei ceti popolari nei dibattiti dottrinali finalmente sottratti al monopolio dei teologi. Gli analfabeti si facevano leggere dai compagni di fede il Nuovo Testamento e libri ereticali; famosi predicatori seminavano le «zizanie lutherane» con «modi pieni di colore, coperti et maligni»; molti religiosi condividevano l’opinione che, «se non avessemo pagura del fuoco, tutti viveressimo secondo Lutero», reputato alla pari di «un gran santo»; uomini e donne, «idioti mecanici semplici et altri» attaccavano voti e digiuni «perché queste cose non si ritrovan scritte nel Vangelio»: «Fino li gargioni di stalla» apparivano in grado di discutere «de le cose de Scrittura benissimo», mentre gli «errori de’ moderni heretici» conquistavano i «primi gentilhuomini», «li nobili et bone famiglie» delle città.

Le nuove dottrine incontravano situazioni cariche di emozioni e tensioni; inquietudini morali e politiche si rimodellavano dinanzi al messaggio religioso della Riforma; la tradizione profetica medievale, le prospettive apocalittiche riaccese dalla tragedia del sacco di Roma e la diffusa polemica antiecclesiastica trovavano un’inedita radicalità nella violenta denuncia luterana della Chiesa cattolica come «Ecclesia carnalis», «sinagoga diabuli», e nell’interpretazione della sua storia quale progressiva affermazione dell’Anticristo. Eppure il dissenso religioso che si sviluppò nella penisola non è interpretabile in chiave esclusivamente confessionale. Mentre negli anni Quaranta a Zurigo, a Wittenberg e a Ginevra le nuove ortodossie si andavano lentamente definendo e consolidando sul piano dogmatico e istituzionale sotto l’incalzare dei conflitti politici e sociali, la realtà italiana era frammentata in conventicole e gruppi ereticali privi di un centro organizzativo che fosse in grado di svolgere una funzione unificante sul piano dottrinale.

Per capire la specificità della crisi religiosa italiana occorre quindi rinunciare a un’analisi in chiave esclusivamente teologica del dissenso religioso, tenendone invece presente il carattere creativo e sperimentale. La lettura frequente e diretta della Sacra Scrittura senza la mediazione di preti e frati posta da Lutero come tratto essenziale dell’esperienza cristiana, diventava spesso per i fedeli – anche illetterati – il punto di partenza per ricerche autonome. Una volta che ci si fosse soffermati su un’idea, si cominciava a cercare conferme in altre letture, si interrogavano i testi dei riformatori, la fiorente produzione a stampa di trattati spirituali, volgarizzamenti biblici e operette ascetiche sulla riforma interiore, sino all’ascolto attento della predica dal pulpito. Lungo tali percorsi si formavano convinzioni in grado di orientare concretamente le scelte e l’esistenza di individui e di piccoli gruppi. La difesa della libertà evangelica del cristiano contro riti, devozioni superstiziose e prescrizioni della Chiesa ufficiale; la rivendicazione del ruolo dei laici nell’esperienza religiosa; la centralità della questione del rinnovamento interiore; il cristocentrismo nei suoi multiformi esiti e formulazioni diventavano i temi attraverso i quali i messaggi provenienti d’oltralpe erano condensati e rielaborati.

Sullo sfondo appena delineato vanno collocate le trasformazioni politiche e religiose in atto negli anni Quaranta ai vertici dell’istituzione ecclesiastica. Nel 1541, nel corso della dieta di Ratisbona tra l’imperatore Carlo V e i prìncipi tedeschi, si riaprivano i colloqui tra cattolici e protestanti affidati al legato papale Gasparo Contarini. Dinanzi alle intransigenze di Melantone, Martin Butzer, Giovanni Pistorio e alle dimensioni politiche e sociali ormai assunte in Germania dall’eresia, il cardinale veneziano dovette rendersi conto dell’impercorribilità della via della riconciliazione. Inizialmente, in materia di giustificazione, si poté pervenire a un compromesso dottrinale soddisfacente per i teologi protestanti e per il legato papale, intimamente convinto che «il fundamento dello edificio de’ luterani è verissimo», ma la frattura si rivelò insanabile sulle questioni riguardanti il carattere sacramentale della Chiesa e della sua costituzione gerarchica. Il tentativo di mediazione intrapreso dal Contarini fallì e l’operato del cardinale fu accolto in curia dalle aspre critiche di quanti ne osteggiavano la politica filoimperiale e le posizioni religiose riflesse nel discusso accordo sulla giustificazione. Nonostante ciò, il prestigio del porporato veneziano e i rapporti con il Farnese non furono scossi dalle accuse di eterodossia allora avanzate dai più inflessibili rappresentanti del Collegio cardinalizio.

L’anno successivo al fallimento dei colloqui di religione, lo scontro ai vertici della Chiesa si aggravò, mentre i margini di compromesso e di discussione si esaurivano progressivamente. Il 21 luglio 1542 con la bolla Licet ab initio Paolo III istituì il supremo tribunale del Sant’Uffizio romano con compiti di direzione e coordinamento delle inquisizioni locali e facoltà di procedere contro laici ed ecclesiastici senza tener conto di privilegi e immunità. Nelle mani del Carafa l’attività dell’Inquisizione doveva ben presto indirizzarsi verso la repressione del dissenso sul fronte interno ed esterno nella convinzione, già espressa dallo stesso Carafa dieci anni prima, che «li heretici si voleno trattar da heretici». Pochi mesi dopo fuggiva il generale dei cappuccini Bernardino Ochino, il più famoso predicatore italiano degli anni Trenta, amico del Pole e di Vittoria Colonna, del quale nel 1539 si era parlato come di un probabile cardinale, rifugiatosi nella Ginevra di Calvino per sottrarsi alla minacciosa chiamata presso la Santa Sede. Se fosse rimasto, come egli scrisse alla Colonna, non avrebbe potuto che «negar Christo o esser crucifisso». Lungo la stessa strada l’avrebbe seguito di lì a poco Pier Martire Vermigli, canonico regolare e priore del monastero lucchese di San Frediano, anch’egli legato ai gruppi valdesiani dei quali si parlerà tra breve, che dalle cattedre di Oxford, Strasburgo e Zurigo sarebbe diventato uno dei maestri del calvinismo europeo.

Nel maggio del 1542 veniva pubblicata la bolla di convocazione del concilio a Trento, presto sospeso a causa dell’aggravarsi della guerra tra Francia e Spagna. Nella svolta accentratrice romana di quell’anno (articolata sul doppio versante della convocazione conciliare e della riorganizzazione dell’Inquisizione) e nel fallimento del disegno politico e religioso del Contarini, che si spegneva mentre era legato a Bologna, la periodizzazione proposta in passato dallo storico Delio Cantimori ha indicato il momento cruciale del definitivo esaurimento del cosiddetto «evangelismo» italiano, di quello schieramento di potenti curiali e uomini di Chiesa legato al Contarini, disposto a un dialogo con il mondo riformato e ad aperture teologiche verso le nuove dottrine. Recenti studi hanno invece stabilito la vitalità degli ambienti riformatori italiani tra gli anni Quaranta e Cinquanta, mettendo in luce il favore e le protezioni di cui questi godevano presso la Santa Sede, nonché gli spazi ancora esistenti sotto il pontificato farnesiano per i fautori di prospettive politiche e religiose non riducibili agli indirizzi curiali più intransigenti. Proprio a Reginald Pole e a Giovanni Morone, nominato cardinale nel 1542, nell’ottobre dello stesso anno fu affidato il prestigioso incarico di presiedere l’assemblea conciliare che poi fallì. Indicativa è anche la composizione, in quel periodo, del Collegio cardinalizio dove sedevano il Bembo, il Sadoleto, il Cortese, giunti alla porpora coniugando impegno religioso e studi umanistici.

Lungi dal risultare sconfitto, il dissenso interno alla Chiesa nel 1542 si andava invece riaggregando e radicalizzando, sul piano dottrinale, intorno a nuove personalità, tendenze spirituali e linee politiche d’intervento. Figura ispiratrice era lo spagnolo Juan de Valdés. Il Valdés, di origine conversa e membro dell’hidalguìa della Nuova Castiglia, si era formato nella Spagna degli anni Venti dove i fermenti della spiritualità tardomedievale spagnola si erano incontrati con il misticismo degli alumbrados o illuminati, con l’erasmismo e con la diffusione delle dottrine luterane. All’inizio degli anni Trenta il cavaliere spagnolo si era rifugiato prima a Roma e poi a Napoli per sottrarsi all’Inquisizione del suo paese. Nella città partenopea si riunì intorno a lui un gruppo che dopo la sua morte (1541) si ricostituì a Viterbo alla corte del cardinal Pole, legato del patrimonio di San Pietro.

Il passaggio di uomini e libri tra Napoli e Viterbo, la fitta rete di contatti epistolari e personali, l’intrecciarsi di frequentazioni ed esperienze religiose intorno al cardinale inglese caratterizzarono la cosiddetta Ecclesia Viterbiensis. Ne fecero parte potenti uomini di Chiesa come il Morone e il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, già segretario di Clemente VII; membri della «familia» cardinalizia del Pole, vescovi, umanisti, illustri aristocratici e gentildonne come Giulia Gonzaga e Vittoria Colonna, che si trovarono così raccolti intorno al messaggio religioso valdesiano e ormai lontani dalle moderate posizioni di Contarini. La storiografia oggi li indica come il gruppo degli «spirituali», utilizzando l’espressione con la quale essi stessi si definirono e vennero designati dai loro nemici.

Quali erano i tratti fondamentali del messaggio del Valdés e quali elementi lo rendono così importante agli occhi degli storici rispetto ad altre dottrine che negli inquieti anni Trenta e Quaranta del Cinquecento furono in grado di indirizzare concretamente esperienze e scelte religiose? La fede che stava al centro della proposta valdesiana non si definiva attraverso un determinato nucleo di dogmi. La verità cristiana non consisteva in un insieme di contenuti dottrinali e di testi scritti, ma si conquistava attraverso una ricerca personale, sulla base di una trasformazione interiore sviluppata nel rapporto diretto con Dio. «Io non vi dò queste regole perché stiate legata ad esse, perché la ’ntentione mia è che non vi serviate di loro se non come d’uno alfabeto christiano per mezzo del quale possiate venire alla perfettione christiana», scriveva il Valdés nel 1536 nella dedica a Giulia Gonzaga dell’Alphabeto christiano, dove l’esule spagnolo non forniva ammaestramenti ma indicava direzioni e percorsi attraverso i quali costruire un’esperienza religiosa individuale.

Dall’irrilevanza dei contenuti teologici e della stessa Sacra Scrittura, da tale concezione «spiritualistica» dell’essere cristiano – ossia non dipendente da una verità religiosa oggettiva fissata dall’istituzione e trasmessa da una tradizione scritta, ma proveniente da un’illuminazione interiore e da un’esperienza soggettiva – derivavano l’assenza di ogni spunto polemico verso la gerarchia ecclesiastica, la possibilità di rimanere al suo interno senza operare rotture, ma anche la delegittimazione del significato del concetto di ortodossia e dell’esistenza stessa delle Chiese, fossero esse quella di Roma, di Wittenberg o di Ginevra. La mancanza dei toni violenti nell’invettiva antiromana e la rasserenante dolcezza del linguaggio del Valdés celavano l’esiguità degli spazi di mediazione accordati al clero entro una concezione che, dopo aver svalutato l’importanza delle opere ai fini della salvezza e aver fatto propria la dottrina della giustificazione per fede, metteva in risalto esclusivamente gli aspetti interiori dell’esperienza religiosa. «Che una persona può essere tanto piena de spirito che la non sia sottoposta alle leggi humane della Chiesa» era la convinzione, del tutto in linea con gli insegnamenti dell’esule spagnolo, attribuita al cardinal Morone da uno dei suoi accusatori.

La libertà del cristiano così delineata poteva condurre a esiti pericolosamente radicali, incompatibili con qualsiasi Chiesa, come dimostra la fortuna delle idee valdesiane tra gli antitrinitari dell’Europa orientale e tra i gruppi settari della rivoluzione inglese. Non a caso le dottrine del Valdés furono condannate anche al di là delle Alpi, nella Ginevra calvinista.

Tenendo conto di tali aspetti del pensiero dell’esule spagnolo si può comprendere in che senso l’adesione ad esso potesse accompagnarsi ad atteggiamenti nicodemitici, a comportamenti cioè che esteriormente si conformavano al culto ufficiale per professare nascostamente una fede diversa. Le aristocratiche cautele e la prudenza che ispirarono le scelte e le linee d’azione dei membri dei gruppi napoletani e viterbesi, i differenti livelli di comunicazione consapevolmente adottati a seconda dei destinatari del loro messaggio spirituale, l’uso di forme settarie di propaganda e di proselitismo, incompatibili con prospettive ecclesiologiche aperte all’intera società cristiana non erano dettati solo dall’opportunistica necessità di simulazione di fronte a pericoli esterni, ma si spiegano alla luce di un’esperienza religiosa quasi iniziatica che poteva essere capita solo se vissuta in prima persona. Il carattere settario e minoritario di quella proposta affondava le sue radici in tali premesse prima ancora che nella volontà di tutela dei propri privilegi da parte dei potenti ecclesiastici e degli aristocratici che, come si è visto, vi aderirono.

L’importanza del ruolo della spiritualità valdesiana rispetto ad altri orientamenti che animarono la vita religiosa italiana degli anni Trenta e Quaranta risiede nel fatto che essa coinvolse uomini che ricoprivano ruoli istituzionali di altissimo livello entro la struttura ecclesiastica. In particolare, l’attività degli spirituali si fece frenetica nel periodo compreso tra la prima fallita convocazione del concilio del 1542-1543 (cui il Morone e il Pole erano stati designati legati papali) e la sua apertura nel dicembre del 1545 sotto la presidenza, ancora una volta, del cardinale inglese. Gli spirituali pubblicarono in quel periodo i trattatelli del Valdés (sino allora confinati a una cauta diffusione manoscritta) e soprattutto un «dolce libricino» nato nell’ambiente valdesiano destinato a un’immensa circolazione: il Trattato utilissimo del beneficio di Christo, redatto a Napoli nel 1540 dal monaco benedettino Benedetto Fontanini da Mantova, amico dell’esule spagnolo, successivamente rielaborato nel 1542 a Viterbo da Marcantonio Flaminio, erede insieme con la Gonzaga del lascito spirituale affidato ai manoscritti inediti del Valdés. Attraverso il linguaggio tipico dei trattati di pietà e al di fuori di ogni controversia dottrinale, il libro condensava il rassicurante messaggio valdesiano di salvezza universale grazie al sacrificio di Cristo, arricchendolo con numerose citazioni calviniane sulla giustificazione per fede.

All’origine di questa attività di propaganda degli spirituali si trovava un progetto politico e religioso mirante a orientare i dibattiti conciliari e le importanti scelte dottrinali che la Chiesa stava per affrontare. Le dottrine valdesiane rappresentavano una proposta di mediazione volta a catturare il consenso delle élite ecclesiastiche e culturali, di cardinali e vescovi impegnati a Trento, intorno a un pensiero alieno da ogni polemica antiromana e, al tempo stesso, aperto alle dottrine del mondo riformato. Le aspettative di una prossima elezione al papato del Pole e il prestigioso incarico tridentino che gli era stato affidato davano consistenza alle «speranze conciliari» degli spirituali, che tuttavia ne uscirono in breve tempo sconfitti.

Nel gennaio del 1547 il concilio emanava il decreto sulla giustificazione secondo una rigida formulazione che chiudeva ogni possibilità di dialogo con la Riforma protestante, ma anche con le posizioni degli spirituali (il Pole si finse in quei giorni malato per evitare di apporre il suo sigillo a una decisione in contrasto con le proprie convinzioni religiose). Il Beneficio di Christo e i trattatelli valdesiani furono condannati dagli Indici di libri proibiti come opere eretiche. Nel 1549, alla morte di papa Farnese, durante il lunghissimo e tormentato conclave che ne seguì, le fervide aspettative riposte nell’elezione del cardinale d’Inghilterra al soglio pontificio non si realizzarono per un solo voto. Un ruolo determinante ebbero allora le accuse di eresia rivolte al Pole da Gian Pietro Carafa sulla base di una documentazione che era il frutto delle inchieste avviate contro il gruppo degli spirituali viterbesi già dal settembre 1542, all’indomani dell’istituzione dell’Inquisizione romana. Saldamente controllato dallo schieramento intransigente, il Sant’Uffizio era ormai in grado di condizionare l’elezione papale.

3. Dal conflitto ai vertici della Chiesa alla «guerra spirituale» del cardinal Carafa

La battaglia politica entro il Sacro Collegio combattuta durante la prima fase del tridentino non fu semplicemente un contrasto tra gli ambiziosi disegni di opposte fazioni cardinalizie, né il significato di quello scontro rimase confinato entro le aule curiali romane. Con le forze e gli orientamenti che ne uscirono vittoriosi dovettero fare i conti negli anni successivi la società e la vita religiosa della penisola. Da quel conflitto emersero i soggetti, le prassi istituzionali, i modelli ideologici e dottrinali che avrebbero dominato la Chiesa della Controriforma.

Momento cruciale fu il pontificato di Giulio III (Giovan Maria Ciocchi del Monte, 1550-1555). Durante il suo governo, l’Inquisizione andò accumulando una ricca documentazione a carico di cardinali e vescovi per mezzo di indagini e processi in cui erano imputati personaggi di secondo piano, raccolse testimonianze volte a portare alla luce complicità e solidarietà, alimentò un clima poco rassicurante di sospetto intorno ad alcuni dei più autorevoli esponenti del Sacro Collegio. Elemento trainante dell’Inquisizione romana era il cardinal Carafa. Già nel 1532, quando era solo un vescovo lontano da Roma e dalle prestigiose cariche curiali, egli aveva inviato a papa Clemente VII un memoriale sulla repressione dell’eresia luterana e la riforma della Chiesa nel quale – con una chiarezza d’idee stupefacente in quegli anni – proponeva di risolvere il problema del rinnovamento della Chiesa attraverso l’intransigente affermazione del primato papale e la «guerra spirituale» condotta «con ogni rigor et asprezza» contro l’eresia, al fine di «estirpar, annichilar et allontanar» questo «morbo dell’anima».

Gli imputati e i testimoni che nei primissimi anni Cinquanta erano costretti a presentarsi dinanzi agli inquisitori romani – a Gian Pietro Carafa, Marcello Cervini, Juan Alvarez de Toledo, Rodolfo Pio di Carpi e al commissario generale Michele Ghislieri – e che, nelle loro deposizioni, facevano i nomi dei cardinali Pole, Morone, Girolamo Seripando, Badia, non compromettevano modesti artigiani o frati sconosciuti, ma prelati circondati dal credito e dalla stima delle corti europee che, pur con sfumature e accenti diversi, nell’eredità del Valdés avevano trovato la possibilità di conciliare l’adesione a posizioni dottrinali vicine alla Riforma con il mantenimento di importanti ruoli all’interno della Chiesa.

Il Pole e il Morone furono salvati dall’intervento di Giulio III che nel 1553 impose al Carafa di interrompere le inchieste contro i due cardinali: il sotterraneo braccio di ferro tra pontefice e Inquisizione testimonia l’enorme potere politico detenuto dal Sant’Uffizio. La protezione papale non riuscì a evitare nel 1551 al vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, accusato d’eresia dai cardinali inquisitori, la clamorosa detenzione in Castel Sant’Angelo e la privazione del vescovado. Dal canto loro, l’arcivescovo d’Otranto Pietro Antonio Di Capua e il patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani, entrambi inquisiti, pur riuscendo a evitare il carcere dovettero rinunciare a quel cappello cardinalizio che il prestigio personale, il potere delle famiglie e rispettivamente il favore di Carlo V e della Repubblica di Venezia avrebbero potuto garantire loro.

Nonostante gli aspri contrasti tra il papa e il Sant’Uffizio riguardo alla repressione del dissenso ai vertici della Chiesa, sotto il pontificato di Giulio III la stretta inquisitoriale si fece comunque più incisiva nei confronti della società, volgendosi oltre che contro seguaci di Lutero e di Calvino, anche contro movimenti e orientamenti maturati «dal basso» nel corso della crisi cinquecentesca. Nel 1552 ancora una volta dinanzi al Carafa, al Toledo, al Carpi e al Ghislieri, con un procedimento formale che condusse alla carcerazione a Roma del padre maestro e dell’ex preposito, fu di fatto processato l’intero ordine dei barnabiti, di cui furono messi sotto accusa le dottrine ispiratrici, le visioni ecclesiologiche e i capi carismatici, tutti investiti da imputazioni d’eresia che rischiarono di mettere in discussione l’esistenza della congregazione di chierici regolari fondata a Milano circa vent’anni prima, sostanzialmente colpevole di aver perseguito la ricerca della santità al di fuori delle regole imposte da una Chiesa che andava sempre più identificandosi con i modelli dettati dal Sant’Uffizio.

Nei primi anni Cinquanta, dunque, il Sant’Uffizio riuscì gradualmente a diventare il principale strumento di repressione non solo dell’eresia, ma di ogni dissenso interno che fosse in contrasto con ideali, certezze e indirizzi dello schieramento cardinalizio intransigente, un centro di potere in grado di contrastare la politica papale e di condizionare la stessa elezione del pontefice. Le figure inquietanti di cardinali inquisitori che si aggiravano con «un fascio de processi contra tutti i soggetti papabili» sarebbero riapparse in molti conclavi della seconda metà del Cinquecento: il risultato fu nella maggior parte dei casi l’elezione di porporati che facevano o avevano fatto parte del Sant’Uffizio quali Marcello II Cervini (aprile 1555), Paolo IV Carafa (1555-1559), Pio V Ghislieri (1566-1572), Sisto V Peretti (1585-1590).

Alla morte di Giulio III nel 1555, con il nome di Marcello II veniva eletto papa il Cervini, più volte membro del Sant’Uffizio. In seguito alla sua prematura scomparsa ascendeva al soglio pontificio Gian Pietro Carafa, a capo del tribunale romano sin dalla sua creazione. Si ricomponeva così la frattura che, facendo del Sant’Uffizio un corpo autonomo, aveva drammaticamente diviso i vertici della Chiesa sotto Giulio III: la politica dell’Inquisizione diventava politica del papato. Nel disegno politico e religioso del nuovo papa le linee di rinnovamento ecclesiale non dovevano passare attraverso il concilio che, interrotto nel 1552, Paolo IV si guardò bene dal riconvocare. Il rafforzamento delle strutture ecclesiastiche fu perseguito sotto il suo governo per mezzo d’iniziative accentratrici e verticistiche rigorosamente tese a salvaguardare il primato pontificio quali la riforma dall’alto degli uffici curiali, l’istituzione di commissioni cardinalizie, la scelta dei porporati, l’attribuzione di importanti incarichi a quanti tra costoro erano membri del Sant’Uffizio.

Le nomine di Paolo IV mutarono la composizione del Sacro Collegio dove chierici regolari teatini – l’ordine fondato dallo stesso Carafa – e oscuri frati distintisi per lo zelo inquisitoriale si sostituirono ai prestigiosi intellettuali dell’epoca farnesiana. Le maggiori responsabilità di governo furono affidate a cardinali inquisitori quali Scipione Rebiba, Giovanni Reumano, il teatino Bernardino Scotti e il domenicano Michele Ghislieri. Frate piemontese di umili origini, quest’ultimo doveva la propria ascesa curiale all’intransigenza e alla determinazione con le quali si era distinto nella lotta contro l’eresia. Chiamato a Roma nel 1551 alla carica di commissario generale dell’Inquisizione su raccomandazione dello stesso Carafa, all’indomani dell’elezione di questi al soglio pontificio nominato vescovo di Nepi e Sutri, nel 1557 ricevette il cappello cardinalizio.

A poco più di un mese dall’elevazione alla tiara (1555) Paolo IV era in grado di aprire segretamente l’inchiesta formale del Sant’Uffizio a carico del cardinal Morone. Si trattò di un’iniziativa sollecita, resa possibile dal sotterraneo lavoro del Carafa inquisitore che aveva continuato ad accumulare in segreto prove e documenti contro gli spirituali. Il porporato milanese fu improvvisamente arrestato con l’accusa d’eresia il 31 maggio 1557: dal Vaticano dove si trovava fu subito portato nel carcere di Castel Sant’Angelo, mentre il suo palazzo romano veniva perquisito. Il repentino provvedimento fu accolto con costernazione dalle corti europee e dal Sacro Collegio che nel Morone aveva uno degli esponenti più prestigiosi. Il Pole, allora legato papale in Inghilterra sotto Maria Tudor, fu salvato da una sorte simile a quella del Morone solo dalla morte avvenuta nel 1558. Nel frattempo si aprivano nuovi processi contro autorevoli membri della gerarchia ecclesiastica e personaggi minori che erano stati coinvolti nell’esperienza religiosa degli spirituali: «Il papa attende a empiere le prigioni di cardinali e vescovi per conto dell’Inquisizione», scriveva uno di questi, Pietro Carnesecchi, nel 1557. La carcerazione del cardinale milanese che godeva del favore imperiale, d’altra parte, era coerente con gli orientamenti antiasburgici, in politica estera del pontefice che trattava da eretici Carlo V e il figlio Filippo II e si rifiutava di riconoscere il titolo imperiale di Ferdinando, fratello di Carlo V, alla morte di questi avvenuta nel 1558. La tensione tra papato e Asburgo giunse al culmine tra il 1556 e il 1557 durante la breve e disastrosa guerra ispano-pontificia, allorché le truppe spagnole del duca d’Alba provenienti da Napoli si avvicinarono minacciosamente alla capitale, rischiando di rinnovare la tragedia del sacco.

La svolta centralistica e repressiva dell’istituzione sotto Paolo IV si concretizzò nella promulgazione nel 1559 dell’Indice dei libri proibiti, il primo mai emanato per iniziativa pontificia, uno strumento potentissimo affidato dal papa al Sant’Uffizio, elaborato al di fuori dell’assemblea conciliare sospesa ormai da anni, per mezzo del quale il «furore» antiereticale del Carafa non si esercitò solo verso i libri «infetti» d’oltralpe ma portò la propria opera devastatrice nel cuore della cultura umanistico-letteraria e delle letture devote dei fedeli. Parallelamente fu ampliato il campo delle competenze dei tribunali inquisitoriali, estese a bestemmiatori, sodomiti, simoniaci, celebranti senza ordinazione; furono revocati i permessi di lettura dei libri proibiti; si stabilì la pena capitale per i colpevoli di eresie gravissime come l’antitrinitarismo; si esclusero dal diritto di voto in conclave i cardinali inquisiti o sospettati d’eresia. Un ulteriore strumento fu fornito dall’obbligo, fissato per i confessori, di rinviare ai tribunali inquisitoriali i penitenti che confessassero di possedere libri proibiti, rifiutando loro l’assoluzione.

La «guerra spirituale» sotto il Carafa non fu volta solo alla repressione del dissenso, ma s’indirizzò anche verso le minoranze religiose come gli ebrei. L’offensiva antiebraica era iniziata nel 1553 quando l’Inquisizione, capeggiata dal futuro Paolo IV, aveva diretto la confisca e i roghi del Talmud (testo che si pone a fondamento della tradizione e delle leggi ebraiche postbibliche) condannato come sacrilego e blasfemo, di cui venivano proibiti il possesso e l’uso. Divenuto papa, con la bolla Cum nimis absurdum del 1555 Paolo IV ordinò la segregazione nei ghetti di tutti gli ebrei che si trovavano nello Stato pontificio, impose la vendita dei beni immobili di proprietà ebraica, proibì loro l’esercizio dell’arte medica e il commercio di beni alimentari di prima necessità, li obbligò a indossare abiti con il segno giallo distintivo e soprattutto, capovolgendo gli orientamenti dei suoi predecessori in questa materia, decretò la validità e l’irreversibilità del battesimo per i «marrani», gli ebrei convertiti forzatamente in massa nel 1497 in Portogallo, e per i loro discendenti. Ciò significava aprire per il futuro un larghissimo e inedito spazio d’intervento all’Inquisizione nel procedere contro gli ebrei che potevano essere così portati dinanzi ai tribunali della fede come «giudaizzanti», ossia apostati dalla religione cattolica. È quanto accadde ad Ancona, porto pontificio, dove nel 1556 i marrani che erano tornati alla fede ebraica dovettero fuggire o rassegnarsi a essere massacrati dagli inquisitori papali.

Alla morte del Carafa nel 1559 la popolazione romana prese d’assalto il palazzo del Sant’Uffizio liberando i prigionieri e devastando l’archivio, mentre le pasquinate e la violenta satira anticarafesca divampavano, approfittando degli orientamenti del nuovo pontefice Pio IV della famiglia milanese dei Medici. L’altalena di condanne e riabilitazioni che, come si vedrà tra breve, durante i successivi pontificati di Pio IV (1559-1565) e di Pio V (1566-1572) avrebbero coinvolto i protagonisti della storia della Chiesa, è un indice significativo delle contraddizioni e delle resistenze attraverso le quali il processo d’insediamento degli indirizzi politici e religiosi della Controriforma ai vertici dell’istituzione giunse a compimento.

4. Chiesa, papato e Stati europei

All’indomani dell’elezione di Pio IV furono aperti i processi contro i nipoti del Carafa, conclusisi con la condanna a morte degli imputati che, avendo tenuto in mano le fila della segreteria di Stato e della diplomazia papale sotto Paolo IV, furono considerati responsabili della disastrosa politica antiasburgica e colpevoli di tradimento ai danni dello zio, un pontefice che gli incartamenti processuali delineavano pio e zelante, interamente dedito alla salvaguardia dell’ortodossia religiosa e sostanzialmente all’oscuro delle trame antiimperiali tessute dai nipoti. Si trattò in realtà di un processo alle scelte politiche del Carafa che, grazie alla risonanza accordatagli, consentì a Pio IV di colpire il fronte curiale dei familiari e degli uomini fedeli al suo predecessore. Tra i primi provvedimenti del nuovo pontefice di origine milanese vi furono la liberazione del cardinal Morone e la sua reintegrazione nel Sacro Collegio solennemente annunciata alle corti europee e italiane. Nel gennaio del 1562 il papa riapriva a Trento il concilio. L’incarico di presiederlo fu affidato proprio al Morone, prontamente richiamato ai vertici del potere curiale, che diresse a ritmo serrato i lavori dell’assemblea dal suo inizio sino alla conclusione nel dicembre del 1563.

Terminava così il concilio di Trento svoltosi – tra interruzioni e riconvocazioni – nell’arco di due decenni di storia europea densi di trasformazioni sul piano politico e religioso. La soluzione del problema protestante si era posta con urgenza al giovane Carlo V, divenuto imperatore nel 1519. Per oltre un ventennio, però, egli aveva dovuto lottare con le resistenze del papato che nella convocazione dell’assemblea ecumenica vedeva una minaccia per il primato pontificio e un pericolo di risveglio delle tendenze conciliariste (fautrici della superiorità dei concili sul papa), che nel secolo precedente avevano indebolito l’autorità della Santa Sede. A causa di questo ritardo l’imperatore, pur restando fedele al disegno universalistico di conservazione dell’unità religiosa europea sotto l’egida dell’aquila asburgica, era stato costretto a una politica di concessioni ai ceti imperiali che avevano aderito al luteranesimo, in cambio del loro aiuto contro turchi e re di Francia.

Dopo una prima convocazione nel 1542, come si è visto subito sospesa, il concilio era stato finalmente aperto da Paolo III Farnese il 13 dicembre 1545 a Trento, città dell’Impero ma in territorio italiano. Nel marzo del 1547 fu trasferito, con il pretesto di un’epidemia a Bologna, città pontificia, con una decisione che provocò la protesta ufficiale dell’imperatore e il ritiro dei vescovi spagnoli. Così sguarnita l’assemblea conciliare si prolungò stentatamente sino alla morte del pontefice (1549): riconvocata a Trento da Giulio III il primo maggio 1551, nuovamente sospesa il 28 aprile 1552 a causa della guerra tra Carlo V ed Enrico II di Francia alleatosi con i prìncipi tedeschi, non fu più ripresa dal Carafa impegnato in una rovinosa politica antiimperiale e antispagnola.

Quando, dopo un’interruzione di oltre dieci anni, il concilio fu riaperto nel 1562 a Trento da Pio IV, la geografia politica europea era completamente mutata. La divisione dell’eredità di Carlo V alla metà degli anni Cinquanta aveva ridisegnato gli assetti politici europei correndo lungo le linee di confine già tracciate dalle fratture dottrinali e confessionali. Con l’attribuzione nel 1556 al figlio Filippo II re di Spagna dello Stato di Milano e dei Regni di Napoli, Sicilia e Sardegna (oltre ai domini coloniali e al possesso dei Paesi Bassi) e al fratello Ferdinando del titolo imperiale e dei domini diretti degli Asburgo, la spartizione dinastica carolina aveva decretato in Italia la fine di quell’autorità imperiale ispirata a prospettive ireniche e conciliatrici con il mondo germanico che aveva condizionato le scelte politiche e religiose dei primi decenni del Cinquecento. Nel 1555 la dieta d’Augusta aveva riconosciuto, nella forma giuridica dello ius reformandi, la libertà religiosa per i prìncipi protestanti, sancendo così la pluralità confessionale della Germania sulla base del principio cuius regio eius religio (a colui che deteneva la sovranità sul territorio spettava di determinare la religione dei sudditi, fatto salvo il loro diritto di emigrare) e aprendo la via al consolidamento istituzionale della Riforma in molti dei territori dell’Impero. Da quel momento la corte spagnola e quella imperiale avrebbero svolto politiche autonome rispetto al mondo protestante.

La pace di Cateau-Cambrésis tra Francia e Spagna fu quindi stipulata nel 1559, in una cornice europea molto diversa da quella che aveva caratterizzato l’età di Carlo V. In quello stesso anno, la morte improvvisa di Enrico II di Valois durante un torneo inaugurava il tormentato periodo di debolezza della monarchia, gettando la Francia nelle guerre civili e religiose che l’avrebbero dilaniata per quasi quarant’anni. L’Inghilterra di Elisabetta I Tudor si preparava ad entrare definitivamente nell’orbita della Riforma. Nella Scozia percorsa dal furore iconoclasta, il parlamento si avviava ad adottare la confessione di fede calvinista di John Knox. Nell’Impero il calvinismo conquistava il principe del Palatinato elettorale. Dai Paesi Bassi alle sponde del Mediterraneo, in un’Europa minacciata dal diffondersi delle confessioni riformate e dall’incubo turco, la Spagna di Filippo II diventò la potenza-leader nella salvaguardia della fede cattolica. «Divisa la Francia, perduta l’Inghilterra, heretica la Germania, vicina a morte la Fiandra e nell’istesso stato la Polonia»: con queste tinte fosche nel 1567 il nunzio dipingeva la situazione in Europa al Senato della Repubblica veneziana, spronandolo all’adozione di una rigida politica antiereticale.

L’anno precedente (1566), dopo un conclave in cui erano nuovamente riapparse le accuse di eresia contro il Morone al fine di impedirne l’elezione, un altro inquisitore era asceso al soglio pontificio. Pio V Ghislieri, domenicano, aveva dietro di sé un passato di lotta senza quartiere all’eresia maturata durante un’esperienza pluridecennale al servizio del Sant’Uffizio come commissario generale e successivamente da cardinale. Tra i primi atti di governo di papa Ghislieri, del quale appariva evidente l’intenzione di «voler resuscitare casa Caraffa», vi fu la revisione dei processi ai nipoti del Carafa, la condanna a morte con motivazioni pretestuose del rappresentante dell’accusa (l’avvocato fiscale) che aveva condotti tali processi e la distruzione degli incartamenti processuali a carico dei parenti del papa napoletano onde cancellare una scomoda testimonianza che, per il futuro, rischiava di incrinare la ricostruzione agiografica della problematica eredità politica di Paolo IV.

Il Morone, incarcerato e processato per eresia sotto Paolo IV e riportato alle più alte responsabilità di governo della Chiesa da Pio IV, divenne nuovamente oggetto delle attenzioni del Sant’Uffizio durante il pontificato del Ghislieri che, negli anni successivi, avrebbe rinunciato a riaprire il processo contro il cardinale milanese solo per il rischio di delegittimare il concilio con un’accusa d’eresia rivolta contro colui che l’aveva portato a compimento, nonché per le gravi implicazioni che tale gesto avrebbe comportato nei confronti del papa suo predecessore il quale ne aveva decretato l’assoluzione.

Lo stesso giorno in cui il Ghislieri riabilitava i nipoti di Paolo IV, il primo ottobre 1567, veniva decapitato e arso sul rogo per eresia il protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi, per lungo tempo attivo protagonista entro i gruppi valdesiani e spirituali della penisola, amico del Pole e del Morone, già processato e condannato in contumacia dall’Inquisizione sotto Paolo IV per essere poi pienamente assolto sotto Pio IV, con cocente smacco dell’allora cardinale inquisitore Michele Ghislieri. Emerge in questo caso con evidenza la drastica volontà di papa Pio V di giungere a una resa dei conti finale con uomini ed eventi del recente passato della Chiesa, di stigmatizzare i protagonisti di un trentennio di storia dell’istituzione come il Contarini, il Pole, il Morone nel comune giudizio d’eresia legittimando così sul piano storico, morale e ideologico l’operato dell’Inquisizione. Questo processo di costruzione di una cristallina memoria storica e di una propria «reputazione» attuato dal Sant’Uffizio si rileva anche in negativo nelle parole dell’imputato Carnesecchi che, durante gli interrogatori, obiettò come quello fosse «un processo al passato più che al presente, ai morti oltre che ai vivi».

Tra il 1568 e il 1570 l’Inquisizione processò e infine condannò a morte Niccolò Franco, reo di aver redatto un feroce libello contro la memoria di Paolo IV – il Commento sopra la vita et costumi di Gio. Pietro Carafa – nell’effervescente clima politico e religioso che dopo la morte del Carafa aveva fatto da sfondo ai processi contro i nipoti. Anche il fronte di dissenso rappresentato dalla propaganda anticarafesca, che alla tradizionale invettiva anticlericale e antiromana del primo Cinquecento aveva mescolato la critica erasmiana e il modello della graffiante e irriverente scrittura dell’Aretino, fu preso di mira dal Sant’Uffizio.

Durante il governo del Ghislieri, l’Inquisizione vide confermati i privilegi e l’allargamento delle proprie competenze già fissati da Paolo IV. Il Sant’Uffizio fu riorganizzato e il numero dei suoi membri fu ridotto a quattro cardinali di comprovata affidabilità quali Gianfrancesco Gambara, Francisco Pacheco, Scipione Rebiba e il teatino Bernardino Scotti. Nel frattempo, a ricevere il cappello rosso erano uomini come il francescano e inquisitore Felice Peretti (poi Sisto V) e Giulio Antonio Santoro, accanito persecutore dell’eresia e intransigente guida del Sant’Uffizio nell’ultimo scorcio del secolo sino alla morte nel 1602. La regolarità e la frequenza delle riunioni della congregazione cardinalizia preposta all’Inquisizione, già stabilite dal pontefice napoletano, divennero normale procedura istituzionale sotto il papa domenicano che assicurò alla congregazione una sede stabile in Vaticano ed era solito presiederne con diligente attenzione le riunioni. «Vede ogni processo et legge tutte le scritture», osservava un cardinale nel 1567 a proposito di Pio V. Il disbrigo di quei processi e di quelle inchieste inquisitoriali che, attraverso colpi di scena e aspre lotte, il Carafa aveva condotto dapprima come inquisitore in modo sotterraneo e poi da papa in maniera clamorosa, sotto il Ghislieri si trasformarono in abituale prassi burocratica dell’istituzione.

«Quasi che fosse inverno/ brucia cristiani Pio siccome legna/ per avvezzarsi al caldo de l’inferno» denunciavano le pasquinate nel 1570 sullo sfondo dei processi e dei roghi avviati da Pio V nelle città italiane per stroncare gli epigoni dei movimenti eterodossi a Napoli, a Faenza, a Lucca, a Mantova, a Ferrara e a Modena; proprio in relazione ai roghi di Modena, nel 1568 un testimone scriveva come per l’«arrosto [degli eretici bruciati] nessuno poté uscire di casa per quel dì che non si amorbasse, tanto era il fetore». Queste sistematiche campagne repressive andarono ad aggiungersi alle vere e proprie stragi volute agli inizi degli anni Sessanta dal Ghislieri, allora membro del Sant’Uffizio, delle comunità valdesi in Puglia e in Calabria, che nel 1532 avevano aderito alla fede calvinista. Interi villaggi e popolazioni inermi furono devastati e massacrati dalle milizie spagnole, braccio esecutore dell’impresa organizzata da Roma.

La repressione degli anni 1568-1569 segnò la fine delle sopravvivenze ereticali nella penisola: una serie d’importanti mutamenti rese possibile l’attuazione di un’azione così massiccia e l’assunzione di un ruolo così forte da parte del papato. La trasformazione degli assetti politico-religiosi europei, l’affermarsi dell’egemonia spagnola e l’alleanza tra la maggiore potenza cattolica e Roma ebbero infatti profonde ripercussioni in Italia, dove il definirsi delle ortodossie a seguito degli esiti dottrinali del tridentino e il rafforzarsi delle strutture repressive condussero al consolidarsi dell’accordo tra autorità ecclesiastiche e secolari contro il dissenso religioso, avvertito ora come disobbedienza al principe oltre che alla Chiesa. Sotto la spinta di tali fattori si spezzava quella rete di coperture e di alte protezioni istituzionali che, nel corso di un trentennio, aveva consentito all’eresia di radicarsi in Italia a tutti i livelli del tessuto sociale, pur secondo caratteri diversi da città a città. L’immagine della Francia devastata dalle guerre tra cattolici e ugonotti (calvinisti) stava, d’altra parte, sotto gli occhi di tutti negli anni Sessanta, a riprova delle paurose conseguenze arrecate dalla diffusione delle eresie entro lo Stato e a ulteriore conferma della funzione svolta dalla Chiesa cattolica come baluardo dell’integrità politica dei governi e garanzia della disciplina dei sudditi.

Nel mutato clima politico e religioso, si creò dunque una sorta d’inevitabile accordo tra Chiesa della Controriforma e prìncipi nella comune lotta all’eresia. A ciò si aggiunga il fatto che, in seguito al rafforzamento della monarchia pontificia, la Santa Sede era diventata il centro di distribuzione di favori e di vendita di uffici curiali, il luogo di drenaggio e di riattribuzione di rendite nella forma di pensioni e benefici ecclesiastici. Le possibilità di arricchimento e ascesa sociale gestite da Roma rappresentavano quindi un potentissimo strumento di aggregazione dei patriziati cittadini e delle aristocrazie della penisola intorno agli interessi politici e religiosi dei papi della Controriforma.

Entro gli equilibri sanciti dalla pace di Cateau-Cambrésis, l’alleanza tra gli Stati italiani e la Chiesa della Controriforma costituiva il carattere essenziale di un rapporto pur segnato da continui negoziati e conflitti, al quale non sfuggirono neppure realtà gelose della propria autonomia e dotate di un’antica identità politica quali la Repubblica di Venezia, che già nel 1547 aveva istituito la magistratura laica dei tre Savi all’eresia. Indicativo è anche l’esempio fiorentino di Cosimo de’ Medici: fermenti eterodossi ne avevano attraversato la corte negli anni Quaranta sullo sfondo di un rapporto contrastato con Paolo III Farnese che, nel 1545, con un colpo di mano aveva costituito per il figlio Pier Luigi il ducato di Parma e Piacenza. Ebbene, negli anni Sessanta il rapporto tra Cosimo e Roma mutò sino al conferimento da parte della Santa Sede del titolo di granduca di Toscana (1569). Il prestigioso riconoscimento – che suscitò le proteste degli altri Stati italiani e permise nel contempo al papa di riaffermare la propria autorità come fonte di titoli e legittimazioni – fu preceduto, nel 1567, dalla consegna all’Inquisizione del già citato Pietro Carnesecchi (che negli anni precedenti Cosimo aveva invece energicamente protetto contro il Sant’Uffizio) e dalle misure antiebraiche adottate dal duca con un brusco (ma momentaneo) cambiamento di rotta della politica precedente, in consonanza con gli orientamenti in questo campo di Pio V; lo stesso Pio V nel 1569 espulse le comunità da Roma e dallo Stato pontificio, provocando la diaspora di migliaia di profughi. Questi esempi mostrano come il rafforzamento delle posizioni di governo, l’acquisizione di uno stabile consenso e del controllo sulla società civile passassero ormai inevitabilmente attraverso l’adozione del modello di principe della Controriforma.

Per quanto riguarda la politica estera, nello stesso anno in cui scomunicava la regina Elisabetta I d’Inghilterra (1570), Pio V stipulava con la Spagna e la Repubblica di Venezia una Santa lega contro i turchi, una nuova crociata che avrebbe portato alla battaglia di Lepanto (1571). La vittoria contro l’«infedele» fu celebrata nei paesi cattolici con una massiccia propaganda per mezzo della stampa. In tale clima politico e religioso, la strage della notte di san Bartolomeo tra il 23 e il 24 agosto 1572 nella quale furono massacrati gli ugonotti francesi (3000 vittime a Parigi, 10.000 in provincia) fu salutata a Roma con la celebrazione solenne del Te Deum.

Il ruolo che il papato sotto Pio V era ormai in grado di rivendicare nei confronti degli Stati, nonché la funzione universalistica ed egemone che la Chiesa della Controriforma pretendeva di esercitare in nome della superiorità del potere spirituale su quello temporale, trovarono una clamorosa affermazione nel 1568 nella promulgazione della medievale bolla In coena Domini. Nella sua tradizionale formulazione, la bolla regolava i rapporti tra autorità ecclesiastica e civile, minacciando la scomunica ai prìncipi laici che nei loro territori non avessero rispettato le libertà ecclesiastiche, ossia quei privilegi di cui godevano i membri del clero, le cose ecclesiastiche e i luoghi sacri (immunità personali, reali e locali) nei confronti della giurisdizione laica. Per riassumere e semplificare, in base a tali prerogative gli ecclesiastici non potevano essere giudicati da tribunali laici, i beni della Chiesa erano esenti dalla fiscalità statale, un reo non poteva essere perseguito dal braccio secolare nei luoghi di culto. Gli effetti della permanenza di queste vaste aree d’immunità nel cuore della società erano complessi e non potevano che essere guardati con preoccupazione dai sovrani.

Nell’ultima fase il concilio di Trento si era misurato proprio con questo problema, detto della «riforma dei prìncipi», ma i contrasti sorti con i rappresentanti di Francia, Spagna e dell’imperatore avevano indotto i legati papali ad accantonare la questione. Dopo che l’assemblea conciliare aveva fallito nel suo tentativo di trovare una soluzione – di portata generale e universalmente valida – al problema dei rapporti tra la Chiesa e gli Stati, i contrasti con i governanti furono affrontati negli anni successivi direttamente dal papato, nei modi e sulla base delle esigenze dell’assolutismo pontificio dell’età della Controriforma.

Un secolo e mezzo più tardi, nell’Istoria civile del Regno di Napoli (1723), Pietro Giannone sottolineava il carattere aggressivo del documento promulgato da Pio V rispetto ai precedenti. La bolla, osservava lo storico napoletano, «butta interamente a terra la potestà dei prìncipi, toglie loro la sovranità de’ loro Stati, e sottopone il lor governo alla censura e correggimento di Roma». L’intransigente volontà del pontefice di dare diffusione al documento preoccupandosi che fosse pubblicato e letto in volgare nelle chiese; la spregiudicata minaccia dell’arma della scomunica contro i governanti laici che non ne avessero rispettate le direttive; il carattere lesivo dei suoi contenuti verso prerogative (persino di carattere fiscale) costitutive della sovranità dei prìncipi aprirono una durissima battaglia con gli Stati cattolici, in particolare proprio con la Spagna.

Il nodo conflittuale rappresentato dalla questione delle libertà ecclesiastiche si sarebbe sciolto solo all’epoca delle riforme del secondo Settecento, le quali ridefinirono i rapporti tra Chiesa, Stato e società. Nell’età della Controriforma, la questione del rapporto giurisdizionale tra il papato e gli Stati rimase aperta, suscettibile quindi di soluzioni e compromessi sul piano politico, ma anche capace di scatenare crisi gravissime al variare degli equilibri internazionali, delle singole personalità coinvolte, degli interessi e dell’entità delle forze in gioco. La vicenda dell’Interdetto lanciato nel 1606 da Paolo V Borghese (1605-1621) contro la Repubblica di Venezia, come si vedrà, ne è l’esempio più clamoroso. La vasta e immediata risonanza dello scontro tra Roma e Venezia, sino all’intervento di mediazione del re di Francia, mostra come all’epoca il rapporto con la Chiesa della Controriforma potesse costituire un problema politico di portata europea.

I soggetti istituzionali

1. Il centralismo romano: papa, congregazioni cardinalizie e nunzi

Sul finire del Cinquecento, Roma era ormai in grado di proiettare un’immagine diversa da quella della screditata, umiliata e sconfitta capitale della fine degli anni Venti. Era la sede di un potere con un ruolo internazionale di primo piano, la fonte di legittimazione per l’autorità dei prìncipi cattolici, il centro di elaborazione delle certezze religiose e delle norme di comportamento che dovevano indirizzare la società. «Ella non è patria solamente di se medesima o della sola Italia, ma forma, per così dire, un mondo spirituale che la fa generalmente divenire patria commune di tutte le battezzate nazioni», affermerà il cardinale Guido Bentivoglio nelle Memorie scritte tra il 1640 e il 1644, ricordando la capitale della sua giovinezza. La corte di Roma era anche il «gran teatro del mondo» dove si costruivano carriere ecclesiastiche e fortune familiari, dove si aprivano le possibilità di accesso «alle prelature alle mitre alle porpore e alle supreme tiare».

In occasione delle solenni cerimonie e delle liturgie papali, l’oratoria sacra celebrava il rinnovato prestigio della monarchia pontificia e della capitale. Il cattolicesimo militante e trionfante ispirava la predicazione, la letteratura, l’arte, ed era l’ideologia dell’istituzione e dei suoi membri: delle potenti congregazioni cardinalizie, dei nunzi che come ambasciatori rappresentavano il papa nelle corti europee, dei recenti attivissimi ordini religiosi come i gesuiti, dei missionari che con la conquista spirituale e il martirio testimoniavano la fede cattolica in tutto il mondo conosciuto. Le incertezze, la ricerca creativa e le inquietudini originate in Italia dalla crisi spirituale e istituzionale del primo Cinquecento e dal confronto con la Riforma avevano lasciato il posto alla rigida organizzazione gerarchica, agli ordinati modelli disciplinari e ai dogmatici quadri dottrinali di fine secolo.

La curia romana era nuovamente in grado di attirare i migliori intellettuali dell’epoca, i quali si presentavano con una fisionomia radicalmente diversa rispetto al passato. Roberto Bellarmino e Cesare Baronio furono entrambi membri di ordini religiosi, entrambi cardinali, entrambi impegnati a Roma sia sul fronte della repressione (come membri delle congregazioni dell’Inquisizione e dell’Indice) sia su quello dell’elaborazione culturale, attraverso la redazione di catechismi, di martirologi e dei due monumenti ideologici della Controriforma, le Controversiae e gli Annales Ecclesiastici. Imponenti sforzi di sistemazione rispettivamente della teologia e della storia, arsenali dell’ortodossia sul piano dottrinale e su quello della memoria, le due opere – pubblicate nell’ultimo scorcio del Cinquecento – rappresentano il punto d’arrivo di una cultura egemone che aveva espunto il dissenso equiparandolo all’eresia, nella convinzione che stabilire quale fosse la verità in tutti i campi del sapere spettasse esclusivamente alla Chiesa. La condanna di Galileo Galilei non è certo un errore, se inserita in questo quadro. Nell’insieme si trattava di un progetto grandioso, radicato nella certezza che «libertas credendi nihil aliud est quam libertas errandi» (la libertà di fede non è altro che libertà d’errare), come scrisse Bellarmino nelle Controversiae; un progetto capace, nello stesso tempo, di proporre nuovi contenuti e di trasformare le idee della tradizione «in compatti sistemi di significato che le riqualifica[ssero]» (A. Biondi).

Sarebbe però un errore appiattire l’immagine della Chiesa della Controriforma su quella apologetica della Chiesa trionfante ignorando gli scontri, le oscillazioni e gli insuccessi che accompagnarono il processo di dispiegamento del controllo ecclesiastico sulla cultura, sulla vita religiosa e sulla società italiana. Ovviamente, accanite lotte per il potere s’intrecciavano alla corte romana, governata da una monarchia di carattere elettivo, particolarmente esposta, quindi, ai condizionamenti delle fazioni politiche e familiari, alle pressioni delle grandi potenze europee, alle precarie alleanze che si formavano in vista dei conclavi. Le reti di clientele e di patronage si disgregavano e si ricostituivano in una sorta di spoils-system che accompagnava il passaggio dall’uno all’altro pontificato, mentre nuovi orientamenti curiali in politica estera si coagulavano ogni volta intorno al neoeletto pontefice e al suo entourage, di cui massimo esponente era il cardinal nipote. I conflitti a cui però si intende fare riferimento, non riguardano interessi personali o di fazione, ma la gestione stessa del disegno di riforma dell’istituzione e di disciplinamento dei fedeli che qualifica la Chiesa della Controriforma: un problema nello stesso tempo politico e religioso sul quale si scontrarono i soggetti istituzionali ecclesiastici – e anche gli uomini – che di volta in volta si candidarono all’attuazione di tale progetto.

Per meglio chiarire questo quadro complesso occorre, in via preliminare, prendere in considerazione le trasformazioni che, all’interno del processo di rafforzamento dell’assolutismo pontificio, condussero dopo la metà del secolo alla creazione di nuovi centri istituzionali di potere: le congregazioni cardinalizie romane. I cardinali erano dopo il papa il livello più alto della gerarchia ecclesiastica. Il Sacro Collegio – o Concistoro, nelle riunioni celebrate in presenza del papa – era stato per secoli il massimo organo di governo della Chiesa a fianco di quel particolare sovrano che era il pontefice, al tempo stesso capo spirituale della cristianità e principe temporale dello Stato della Chiesa. Alla morte del papa i porporati si riunivano in conclave e non ne uscivano prima di aver scelto tra loro il successore.

In passato erano stati formulati vari progetti di riforma per porre fine allo sfarzo sfrenato dei «prìncipi della Chiesa»; alla crescita spropositata delle loro «famiglie», cioè delle corti cardinalizie i cui membri godevano di esenzioni e privilegi; allo scandaloso cumulo di benefici (in particolare quelli episcopali) nelle mani della stessa persona. Erano state persino avanzate proposte di perequazione delle rendite, ossia di fissazione di un’entrata uguale per tutti i porporati. Le trasformazioni di cui venne investito il Collegio cardinalizio nel corso del Cinquecento, però, non furono ispirate da esigenze di riforma di questo tipo, ma da ragioni politiche connesse al crescere dell’assolutismo della monarchia papale a scapito delle aspirazioni oligarchiche e dei poteri di condizionamento e di controllo che potevano formarsi entro il Sacro Collegio.

L’erosione del suo peso politico era stata avviata già nel Quattrocento con l’allargamento del numero dei cardinali che in questo modo, sul piano economico, si trovavano a dipendere in misura maggiore dal favore del papa. Dai diciotto porporati del pontificato di Eugenio IV (1431-1447) si giunse ai settantasei sotto Pio IV sino al tetto massimo di settanta stabilito nel 1586 da Sisto V. Nell’ultimo scorcio del secolo lo svuotamento dei poteri di quello che un tempo era considerato l’antico Senato del pontefice era un fatto compiuto. Le sue riunioni furono sempre più rade e convocate per consultazioni puramente formali, per cerimonie e allo scopo di attribuire i benefici concistoriali. L’ultima voce che cercò di rivendicare per il Sacro Collegio un ruolo di co-governo con il pontefice e l’autonomia politica contro le tendenze assolutistiche papali fu quella di un uomo legato alle grandi aspirazioni di riforma del passato e all’eredità tridentina, il cardinale e vescovo di Bologna Gabriele Paleotti, autore del De Sacri Consistorii consultationibus pubblicato nel 1592 tra le perplessità e le caute critiche di amici curiali.

A metà Cinquecento i centri del potere politico si trovavano in altri luoghi: nelle congregazioni cardinalizie nate nella prima metà del secolo come commissioni ristrette e temporanee, interne al Sacro Collegio, per l’esame di problemi specifici, poi divenute commissioni permanenti direttamente dipendenti dal papa, cui spettava la nomina e la rimozione dei loro membri. Tale linea di tendenza era stata avviata nel 1542 con la creazione della congregazione romana dell’Inquisizione. Sul modello di questa ne furono istituite altre: la congregazione del Concilio nel 1564, incaricata dell’applicazione (e in seguito, sotto Sisto V, anche dell’interpretazione) dei decreti disciplinari del tridentino; la congregazione della Stamperia Vaticana sorta lo stesso anno per la pubblicazione dei testi ufficiali di patristica, dei dottori della Chiesa e, nel 1566, del Catechismo romano; la congregazione dell’Indice istituita nel 1571, cui era affidato il controllo sulla produzione libraria; la congregazione dei Vescovi e dei Regolari, nel 1601, con competenze sulle questioni più disparate riguardanti sia il governo episcopale delle diocesi italiane sia gli ordini religiosi, risultato della fusione tra quella dei Vescovi funzionante dal 1573 sotto Gregorio XIII, e quella dei Regolari istituita nel 1586; la congregazione dei Riti cui erano affidati il controllo sulla liturgia, sul culto dei santi e le procedure di canonizzazione; la congregazione del Cerimoniale, istituita come la precedente nel 1588, che si occupava delle precedenze tra ecclesiastici, tra dignitari laici, nonché delle cerimonie solenni celebrate nella cappella papale; la congregazione De propaganda fide (ossia per la propagazione della fede) nel 1622 – ma il tentativo di istituire una commissione cardinalizia permanente su queste materie risaliva a Pio V – cui spettava di regolare le questioni riguardanti la fondazione di missioni, di collegi per la formazione dei missionari e la stampa di libri da diffondere tra le popolazioni da convertire.

Nel 1588 papa Sisto V Peretti (1585-1590), francescano ed ex inquisitore, con la bolla Immensa aeterni Dei aveva riorganizzato l’intero sistema in quindici congregazioni: sei erano deputate al governo temporale dello Stato pontificio (congregazione Navale, dell’Università Romana o Sapienza, dell’Annona o Abbondanza dello Stato, degli Sgravi, delle Acque e Strade, Supremo Tribunale della Consulta); le rimanenti nove erano deputate al governo spirituale della Chiesa, nonostante le due sfere non fossero nettamente distinte. Venivano così fissate le linee di fondo di un ordinamento delle strutture della curia che si sarebbe mantenuto per secoli. La preminenza su tutte era assicurata alla congregazione dell’Inquisizione, presieduta direttamente dal papa che solitamente partecipava alle riunioni del giovedì, in questo caso tenute coram sanctissimo (cioè davanti al santo padre).

Entro un quadro istituzionale talmente mutato, cambiò anche la figura del cardinale. Esperienza curiale, preparazione giuridica, affidabilità politica diventarono i criteri di reclutamento dei porporati che, da prìncipi della Chiesa rinascimentale, cominciarono a somigliare sempre di più ad altissimi funzionari della burocrazia papale, ai membri di un’aristocrazia cortigiana dipendente dal sovrano pontefice, per i quali l’accesso al cardinalato si poneva quale coronamento di una carriera solitamente spesa entro l’apparato ecclesiastico di governo. Come già si è avuto modo di osservare, a essere insigniti del cappello cardinalizio dai papi della Controriforma non furono più laici e prestigiosi letterati come il Bembo, ma uomini nuovi, talvolta di bassissima condizione, che alle spalle avevano un passato di fedeli collaboratori del pontefice: nella direzione dei dicasteri curiali, nella diplomazia, nel governo dello Stato pontificio e nell’intransigente lotta contro l’eresia. Tutto questo aveva anche ragioni finanziarie precise. La promozione al cardinalato di membri dell’alta burocrazia curiale e romana non solo consentiva al pontefice di circondarsi di uomini fidati, ma anche di recuperare l’ufficio che essi avevano acquistato (e al quale al momento della nomina cardinalizia dovevano rinunciare) per inserirlo nuovamente nel sistema delle venalità.

Un altro aspetto di questo processo di centralizzazione e riorganizzazione della monarchia pontificia fu l’italianizzazione del Sacro Collegio e degli ufficiali e dignitari curiali, fenomeno in cui si rifletteva la saldatura d’interessi tra la Santa Sede e i ceti dirigenti della penisola italiana, per i quali le carriere all’ombra della Chiesa e una vita di corte adeguata al modello nobiliare rappresentavano una soluzione soddisfacente alle scelte imposte dai processi d’aristocratizzazione dei patriziati cittadini, dall’incremento demografico, dal problema della sistemazione dei cadetti, dalla ricerca di clientele romane in grado di assicurare vantaggi all’intero clan familiare. Parallelamente cresceva la clericalizzazione dell’apparato di governo dello Stato pontificio i cui esponenti furono scelti sempre più spesso tra gli ecclesiastici: figure come quella di Francesco Guicciardini, governatore di Modena e Reggio, presidente della Romagna e vicelegato di Bologna, il quale rimase un funzionario laico, scomparvero nel secondo Cinquecento.

Altre istituzioni possono essere considerate espressione del centralismo romano. Durante il pontificato di Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585), le nunziature (rappresentanze diplomatiche presso le corti italiane e straniere) ricevettero stabile assetto e crebbero di numero. In Italia, nunziature apostoliche permanenti si trovavano a Venezia, Napoli, Torino e Firenze. A quelle già esistenti in Spagna, Portogallo, Francia, Polonia e alla corte imperiale di Praga, Gregorio XIII ne aggiunse altre: a Lucerna per la Svizzera, a Colonia per il Nord-Ovest tedesco, a Graz per l’Austria interna e a Bruxelles per la Fiandra. Il nunzio rappresentava un elemento di collegamento tra Roma e il principe presso cui era accreditato, tra Roma e i vescovi dello Stato in cui svolgeva le proprie funzioni. Era una figura istituzionale dotata di ampissimi poteri, direttamente in contatto non solo con il cardinal nipote (e in seguito con la segreteria di Stato), ma anche con le congregazioni cardinalizie; le sue facoltà potevano spaziare dal campo diplomatico ai problemi di governo pastorale, dai conflitti tra le autorità ecclesiastiche locali sino alla lotta contro l’eresia.

Nel corso della seconda metà del Cinquecento, l’affermazione del primato papale in polemica con le tesi riformate sul piano dottrinale e il consolidamento dell’autorità pontificia su quello politico, furono quindi accompagnati da importanti trasformazioni istituzionali – sistema delle congregazioni e rete delle nunziature – orientate verso una strutturazione gerarchica e centralistica della Chiesa. L’individuazione di tali fenomeni pone un problema che occorrerà affrontare tra breve: quale fu il rapporto tra questi processi e le linee d’intervento emerse dal concilio di Trento? Come si articolò il contrasto tra le tendenze centralizzatrici romane e la candidatura alla gestione del progetto di controllo politico e religioso avanzata dai vescovi, ossia dai massimi rappresentanti delle Chiese locali, all’indomani della chiusura del concilio, che proprio nella funzione episcopale aveva individuato il fulcro dell’opera di rinnovamento ecclesiastico? Quale fu, in altre parole, il ruolo del tridentino nella Chiesa della Controriforma?

L’assemblea conciliare rivestì un ruolo centrale come luogo di elaborazione delle linee di riforma disciplinare dell’istituzione, di fissazione di verità dottrinali, di formazione di un nuovo spirito. Al di là del mito del tridentino che la stessa cultura della Controriforma e la storiografia successiva hanno costruito, emergono, però, le difficoltà incontrate dall’opera di rinnovamento dei vescovi proprio a causa della politica romana e del progressivo svuotamento condotto dalla Santa Sede delle soluzioni e degli strumenti operativi emersi dai dibattiti conciliari.

Questo complesso di considerazioni ha condotto, sul piano storiografico, a una visione più articolata del problema dell’applicazione del tridentino nel contesto della penisola e parallelamente a un ridimensionamento del ruolo del clero secolare nell’Italia della Controriforma. Entro tale prospettiva, come si vedrà alla fine di questo capitolo, si colloca la maggior attenzione recentemente accordata alla funzione degli ordini regolari. Lungi dall’essere eclissati dal rilancio postridentino della funzione episcopale e della parrocchia, conventi e monasteri conservarono un’importanza centrale nella cura delle anime e nella vita religiosa. La trattazione del progetto ecclesiastico, politico e religioso della Chiesa della Controriforma e delle trasformazioni istituzionali che ne resero possibile l’articolazione deve quindi tener conto anche del ruolo degli ordini religiosi: della continuità della presenza di quelli di antica fondazione e dell’apporto delle nuove congregazioni di chierici regolari sorte in età tridentina.

2. Il concilio di Trento e il ruolo dell’episcopato nell’Italia postridentina

L’ultima fase conciliare – la più densa per quantità e qualità delle questioni affrontate – fu anche quella cui presero parte in numero maggiore i rappresentanti degli episcopati non italiani, in particolare francesi e spagnoli. Come nelle sessioni precedenti, parteciparono a pieno titolo i generali degli ordini mendicanti (francescani e domenicani dei rami conventuale e osservante, agostiniani, carmelitani e serviti) e, senza diritto di voto, i cosiddetti «periti», cioè consulenti teologi e canonisti. Gli ambasciatori e i rappresentanti delle potenze erano presenti in qualità di osservatori.

Sin dalla prima fase, il concilio si era rivelato un’assemblea strettamente controllata dal pontefice attraverso la figura dei legati papali incaricati di presiederla. Sul piano dottrinale, la rottura con il mondo riformato si era consumata ben presto. Contro la giustificazione sola fide dei protestanti, il decreto del 1547 ribadì il valore salvifico delle opere. Sulle fonti della Rivelazione, contro la sola Scriptura, si stabilì l’eguale importanza della tradizione ecclesiastica. Furono approvati i decreti sui sacramenti, confermati nel numero di sette (battesimo, cresima, eucaristia, penitenza, estrema unzione, ordine sacro e matrimonio) contro i due ammessi dalla dottrina luterana (battesimo ed eucaristia). Furono decretati il carattere di sacrificio della messa offerto per mezzo dei sacerdoti e la non convenienza dell’uso del volgare nella celebrazione del rito. Furono riaffermati l’esistenza del purgatorio, la validità delle indulgenze, il culto dei santi e della Vergine. Ma, soprattutto, l’autorità papale fu nel complesso rafforzata come mai in precedenza.

Dopo la conclusione ufficiale dei lavori e la solenne promulgazione dei decreti conciliari da parte della Santa Sede, la loro applicazione fu accettata dagli Stati regionali italiani, suscitando invece reazioni diverse tra i governi dei paesi cattolici europei. All’indomani della chiusura dell’assemblea e dell’emanazione nel 1564 della bolla papale di conferma (Benedictus Deus), solo i re di Spagna, Portogallo e Polonia acconsentirono a far applicare i decreti nei loro domini. In Francia, anche dopo la fine delle guerre di religione, la registrazione delle norme tridentine si scontrò con la radicata tradizione di autonomia e difesa delle «libertà gallicane» e con l’opposizione tenace dei parlamenti che interpretarono i decreti volti al disciplinamento ecclesiastico della società come pretese lesive delle proprie funzioni di «polizia» (intesa nell’ampio significato di controllo sociale che tale termine aveva in antico regime).

L’accettazione della normativa tridentina incontrò dunque in Francia il netto rifiuto delle più alte istituzioni civili del Regno, anche se ciò non impedì di fatto la diffusione tra il clero degli orientamenti di riforma ispirati al concilio, soprattutto attraverso la mediazione del modello pastorale di Carlo Borromeo e l’intensificazione dell’attività legislativa dei vescovi, sino alla ricezione ufficiale dei decreti da parte della Chiesa gallicana riunita nel 1615 nell’Assemblea del clero. Particolarmente eloquente l’esposizione del punto di vista dello Stato formulata dal giurista Charles Dumoulin (1500-1566) nel Conseil sur le faict du concile de Trente dove, riassumendo argomentazioni diffuse tra i rappresentanti dei parlamenti e nel consiglio privato del re, si affermava che l’applicazione del tridentino avrebbe significato «annullare non soltanto la potenza sovrana del re, ma anche l’autorità degli Stati di Francia, le libertà e i diritti del popolo e della Chiesa gallicana, per trasformare la Francia in un paese d’obbedienza papale».

Anche nella cattolicissima Spagna di Filippo II, la difesa delle prerogative e degli interessi della corona condusse a un’interpretazione delle norme conciliari che suscitò frequenti disaccordi con Roma, come avvenne allorché il re impose la presenza di suoi rappresentanti ai concili provinciali della Chiesa spagnola. Per questi motivi il problema del ruolo del rinnovamento postridentino nella Chiesa della Controriforma sarà sviluppato, nelle pagine che seguono, in una prospettiva italiana. Al di qua delle Alpi, infatti, la ricezione del concilio ebbe caratteri specifici derivanti dal diverso peso politico del papato nella penisola, oltre che dalla legittimazione istituzionale accordatagli dai prìncipi.

Durante l’assemblea conciliare i decreti di contenuto dottrinale si erano alternati ai provvedimenti relativi alla riforma delle strutture ecclesiastiche. Questi ultimi non riguardarono gli organi di governo romani, vertici mai neppure lambiti dai dibattiti tridentini, ma la riorganizzazione delle Chiese locali attraverso il potenziamento del ruolo dei vescovi. Fu resa obbligatoria la residenza degli ordinari nella loro diocesi per porre fine al diffuso fenomeno dell’assenteismo: in questa prospettiva fu vietato il cumulo di benefici maggiori nelle mani della stessa persona. Si ordinò l’erezione di seminari per risolvere il problema dell’ignoranza e dell’impreparazione del clero diocesano, ossia dei sacerdoti dipendenti dal vescovo, cui furono imposti, con nuova rigidità, il celibato ecclesiastico e l’abito talare. Si rinnovò l’obbligo per l’ordinario o i suoi collaboratori di effettuare le visite pastorali nelle diverse località della diocesi. Agli arcivescovi a capo di una provincia ecclesiastica (i metropoliti) si prescrisse la convocazione triennale dei concili provinciali cui dovevano partecipare i vescovi titolari delle diocesi che componevano la provincia. Il clero di ogni diocesi doveva invece riunirsi annualmente nei sinodi presieduti dal vescovo. Sinodi e concili erano il luogo di produzione delle leggi che regolavano la Chiesa locale, mentre le visite pastorali rappresentavano il momento della verifica e del controllo da parte del vescovo sulla vita ecclesiastica e religiosa, sul clero e, in generale, sulla società. I parroci ebbero l’incarico dell’insegnamento della dottrina cristiana ai laici in apposite scuole, della redazione dei registri parrocchiali dove annotare battesimi, matrimoni e sepolture, della compilazione degli status animarum (stati delle anime), in cui veniva annotato l’assolvimento dei precetti religiosi da parte dei parrocchiani, tenuti alla confessione e alla comunione annuali.

La riforma disciplinare delineata dai padri conciliari era concentrata sul potenziamento delle strutture di governo delle Chiese locali e individuava il suo esecutore principale nel vescovo. A questo scopo si tentò di conferirgli prerogative che lo mettessero in grado di governare la diocesi contro le tradizionali sacche di privilegi e autonomie di cui godevano laici ed ecclesiastici, ribadendone anche il ruolo di capo supremo della diocesi con il potere di consacrazione dei nuovi sacerdoti. Ma tali pretese si scontrarono con le linee di sviluppo operanti entro l’istituzione che, come si è visto, secondo un processo indipendente dal tridentino e dalle tendenze episcopaliste che vi avevano trovato espressione, si andava organizzando sempre di più come struttura verticistica e gerarchizzata.

Proprio nel momento in cui l’opera di riforma ispirata al concilio imponeva nuovi oneri agli ordinari diocesani o ne ribadiva con rinnovato vigore di antichi (obbligo della residenza, istituzione di seminari per la formazione del clero e delle scuole della Dottrina cristiana per il laicato; creazione sul territorio di una rete di visitatori – i vicari foranei – provenienti dal clero secolare; celebrazione dei sinodi diocesani e dei concili provinciali; potenziamento dei tribunali episcopali), essi si trovarono penalizzati economicamente e videro decurtate le loro entrate. Il divieto conciliare del cumulo di benefici incompatibili fu, infatti, aggirato da Roma con l’imposizione di pensioni a favore di terzi sulle rendite delle mense episcopali e dei benefici curati minori come quelli parrocchiali. Quando nel 1566 il cardinale Paleotti, nominato vescovo di Bologna, lasciò la capitale pontificia per adempiere all’obbligo della residenza, sulla rendita di settemila scudi della mensa episcopale bolognese gravavano seimila scudi di pensioni da pagarsi a cardinali e curiali. Al Paleotti che si dibatteva tra i debiti fu infine assegnata una pensione sulla rendita di altre chiese: una soluzione che, al di là del caso particolare del vescovo di Bologna, conferma le insormontabili difficoltà incontrate dal riformismo tridentino dinanzi alle tenaci persistenze di antichi abusi.

Le pensioni ecclesiastiche – cumulabili, assegnabili a laici, agevolmente trasmissibili – venivano gestite direttamente dal pontefice. Rappresentavano quindi un modo flessibile per soddisfare le esigenze dei papi della Controriforma: per far fronte alle spese di un apparato burocratico-amministrativo in espansione (talvolta persino per il mantenimento dei tribunali periferici del Sant’Uffizio), per alimentare il nepotismo papale e dei porporati, per mantenere alto lo splendore della corte pontificia e di quelle cardinalizie secondo l’immagine di fasto e di potere che la Chiesa della Controriforma intendeva dare di sé, immagine adeguatamente esemplificata nella risposta data da Paolo IV al maggiordomo che gli domandava come imbandire il banchetto per il giorno dell’inco­ronazione papale: «Da principe», disse semplicemente l’austero Carafa.

Negli «impedimenti» che soffocavano l’azione riformatrice e pastorale dei vescovi, dunque, oltre al perdurare degli abusi del passato si riflettevano anche i caratteri strutturali dell’evoluzione politica e finanziaria dell’istituzione. È di grande rilievo il fatto che proprio sulla gestione dell’eredità conciliare l’episcopato registrasse la più cocente sconfitta, tanto più sentita da quella prima generazione di vescovi che del tridentino erano stati i protagonisti. La ferma opposizione curiale, infatti, ne aveva bloccato la pubblicazione degli atti (che fu avviata solo alla fine dell’Ottocento) nonostante le fervide attese di gran parte del corpo ecclesiastico. Sotto Pio V l’interpretazione dei decreti conciliari fu avocata alla Santa Sede, più precisamente alla congregazione del Concilio, con un provvedimento che rispecchiava la volontà di gestire da Roma il programma di rinnovamento delineato a Trento. A questa stessa congregazione veniva anche affidato il compito di valutare la conformità ai decreti conciliari della normativa stabilita dai concili provinciali, che rappresentavano il momento più alto dell’azione legislativa dell’episcopato. Persino il potentissimo Carlo Borromeo, cardinale e arcivescovo di Milano, fu costretto a scontrarsi con i ritardi e gli ostacoli frapposti dalla congregazione del Concilio.

Nel 1573, con la creazione della congregazione dei Vescovi, Roma rafforzava il controllo sulle Chiese locali. Dinanzi alla congregazione romana venivano trattate le controversie degli ordinari con il clero regolare (i cui privilegi erano stati ampliati dopo il concilio dalla bolla di Pio V Etsi mendicantium ordines del 16 maggio 1567); le questioni riguardanti il governo dei monasteri femminili, tradizionalmente affidato agli ordini maschili; i frequenti conflitti con i capitoli delle cattedrali e delle chiese collegiate i cui membri, di prevalente estrazione aristocratica e quindi appartenenti ai gruppi dominanti locali, beneficiavano di larghe esenzioni dalla giurisdizione del vescovo. Talvolta questi non aveva neppure la possibilità di nominare e quindi di selezionare curati e parroci, impedito dai diritti di patronato detenuti da feudatari, privati, comunità o addirittura da altri ecclesiastici. Per misurare la gravità delle resistenze che l’azione dell’ordinario poteva trovare in una dimensione locale, basti ricordare come l’arcivescovo Borromeo fu scacciato a mano armata dai canonici della chiesa collegiata milanese di Santa Maria della Scala. Se i nobili canonici milanesi avevano osato tanto contro il Borromeo, si immagini quali potessero essere le difficoltà incontrate da vescovi meno influenti, sprovvisti degli eccezionali privilegi e dei potenti appoggi romani di cui godeva l’arcivescovo di Milano che, prima di abbandonare la curia per dedicarsi al governo della diocesi, era stato il cardinal nipote di Pio IV.

«Le cose qui della nostra Chiesa così materiale come spirituale stanno pur nei termini de prima, come se non fuse fatto concilio», scriveva nel 1568 Gabriele Paleotti vescovo di Bologna – arcivescovo dal 1582, quando la città fu elevata a sede metropolitana – commentando amaramente l’appoggio che i «luoghi pii» trovavano presso la Santa Sede nell’affermare la loro indipendenza. «Vescovo con la sola mitra senza il pastorale»: così nel 1581 egli descriveva la propria condizione all’amico Borromeo. «Ogni giorno ricorrono a Roma, né so che mi fare, perché mi trovo tronche le braccia». Anche il vescovo di Rimini Giovanni Battista Castelli nel 1578 si lamentava del modo di procedere della congregazione dei Vescovi che permetteva a chiunque, laico o ecclesiastico, di legare le mani all’ordinario diocesano mediante la semplice presentazione di un memoriale a Roma. Gli esempi citati riguardano vescovi dell’Italia centrosettentrionale. Ancor più drammatica era la situazione dell’episcopato nel Mezzogiorno, un’area frammentata in una miriade di diocesi gravate dalle pensioni attribuite ai curiali romani, soffocata dalla fiscalità pontificia, dove gli ordinari diocesani si trovavano senz’armi e senza mezzi dinanzi alle resistenze di una società riottosa e violenta.

Le accresciute interferenze romane nel governo ecclesiastico e pastorale delle diocesi postridentine trovano riscontro, durante il pontificato di Gregorio XIII, nello sviluppo dell’attività dei nunzi e nell’invio, anche al di fuori dello Stato pontificio, di visitatori apostolici con compiti d’ispezione e ampie facoltà d’intervento. Per gli ordinari titolari di diocesi che si trovavano nello Stato della Chiesa come nel caso di Paleotti, si aggiungevano altre questioni quali, ad esempio, quelle relative ai conflitti giurisdizionali con i governatori e i legati pontifici, specie con i loro tribunali. Altri elementi possono essere considerati espressione del controllo dall’alto e della subordinazione gerarchica cui furono assoggettati in misura crescente i vescovi postridentini. Nel 1585 Sisto V stabiliva l’obbligo della visitatio ad limina apostolorum (la visita alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo): i vescovi (con frequenza maggiore quelli italiani) dovevano recarsi periodicamente a Roma (di persona o rappresentati da un procuratore) per presentare una relazione sullo stato della diocesi alla congregazione del Concilio.

Per quanto riguarda il reclutamento dell’episcopato, a partire da Pio V cominciò a operare una commissione, poi eretta in congregazione cardinalizia (1592), con l’incarico di selezionare i candidati prendendone in considerazione origini familiari e modo di vita da una parte, cultura teologica e giuridica dall’altra. L’assegnazione della titolarità di un beneficio episcopale, specie se ricco e prestigioso, era in realtà in buona misura frutto di trattative e negoziati tra gli Stati regionali della penisola e il papato. I criteri di selezione non erano quindi mutati nella sostanza, e il «mercato della mitra» continuò a basarsi sull’affidabilità politica degli aspiranti, i rapporti di forza esistenti e le reciproche convenienze tra le due parti. Nell’Italia postridentina alcuni Stati possedevano un diritto di presentazione per determinati benefici episcopali. Fuori d’Italia, ben più larghe autonomie erano state concesse dal papato alle corone: la Spagna di Filippo II godeva del diritto di nomina dei propri vescovi, così come la Francia sulla base del concordato del 1516.

La conflittualità entro il corpo ecclesiastico in età postridentina appare intensificarsi allorché si prendono in considerazione i rapporti tra vescovi e inquisitori. I motivi di contrasto non traevano origine solo dal ruolo istituzionale della congregazione del Sant’Uffizio entro gli assetti della Chiesa della Controriforma. Ai cardinali inquisitori faceva anche capo un’organizzazione periferica «concorrenziale» rispetto a quella vescovile, una rete di tribunali articolata secondo una struttura piramidale fortemente gerarchizzata e saldamente controllata dal centro. I rapporti tra gli ordinari e la congregazione romana del Sant’Uffizio, tra i tribunali vescovili e i tribunali inquisitoriali locali avevano innumerevoli motivi di frizione. Le prerogative dell’Inquisizione progressivamente allargatesi, come si vedrà, dall’eresia al campo del controllo sociale, interferivano infatti direttamente con il progetto di governo pastorale che faceva capo all’autorità episcopale, e spesso i vescovi dovevano assistere quasi impotenti all’indebolimento della loro autorità e del loro prestigio a causa dell’influenza crescente degli inquisitori.

Uno dei più frequenti terreni di scontro era rappresentato dal controllo sui libri proibiti e sulle letture dei fedeli. Nel 1559 l’Indice universale di Paolo IV era stato emanato dal Sant’Uffizio, non dai vescovi né dai nunzi come era accaduto nel 1549 a Venezia con l’Indice di Giovanni Della Casa. Nel 1559 le «regole» aggiunte alle liste di titoli e autori spogliarono gli ordinari di tradizionali prerogative per affidare agli inquisitori la censura preventiva sulle opere da pubblicare, la concessione di licenze di lettura e la confisca dei libri. Paradossalmente il vescovo si trovava così nella condizione di non poter autorizzare i propri fedeli alla lettura della Bibbia in volgare che veniva vietata a donne e illetterati e concessa solo dietro esplicita licenza rilasciata dai cardinali inquisitori. Il successivo Indice tridentino del 1564 fu ispirato dalla volontà di papa Pio IV di riequilibrare e contenere i poteri del Sant’Uffizio. Fu quindi preparato dai vescovi a Trento – non dagli inquisitori – e riuscì a ristabilire il ruolo degli ordinari diocesani a fianco degli inquisitori locali. Nel 1571 Pio V, volendo ripristinare il rigore di quello paolino attraverso la promulgazione di un nuovo Indice, istituì la congregazione cardinalizia dell’Indice (la cui creazione fu formalizzata l’anno successivo sotto Gregorio XIII) centralizzando così il controllo sulla produzione libraria, di cui comunque continuò a occuparsi anche il Sant’Uffizio. Furono necessari trentadue anni perché finalmente, nel 1596, Clemente VIII Aldobrandini promulgasse il nuovo Indice: in quel trentennio le regole tridentine furono di fatto progressivamente svuotate dei loro contenuti dal Sant’Uffizio che continuò a trasmettere autonomamente ai suoi tribunali periferici liste aggiuntive di libri proibiti e interdizioni alla lettura dei volgarizzamenti biblici, centralizzando ogni decisione sull’argomento negli organi censori romani a scapito delle prerogative dei vescovi e delle esigenze locali dei fedeli di cui essi erano interpreti.

Anche sul piano culturale emerge con nettezza la volontà del centro romano, e soprattutto dell’Inquisizione, di vigilare su tutto ciò che potesse avere a che fare con la costruzione di un’identità e di una memoria storica autonome, legate alle istituzioni locali. In opere come la biografia di Carlo Borromeo scritta dal barnabita Carlo Bascapè (pubblicata nel 1592) e la biografia dello stesso Bascapè, vescovo di Novara, redatta dal confratello Innocenzo Chiesa (1550-1615), l’agiografia del vescovo-modello cominciò a svilupparsi e a fornire esempi di santità e virtù ufficialmente approvati dalla gerarchia cattolica da contrapporre finalmente ai martirologi della Riforma, elaborati dalla storiografia apologetica d’oltralpe. A tale temperie culturale e ideologica appartenevano, oltre alle biografie dei vescovi, anche le ricerche erudite sulle antiche tradizioni di governo episcopale delle chiese locali: gli studi storico-antiquari dell’umanista modenese Carlo Sigonio sulla sede bolognese promossi negli anni Sessanta dal vescovo Paleotti e quelli di Carlo Bascapè sulla Chiesa milanese e la diocesi novarese nonché le ricerche di storia ecclesiastica del vescovo di Piacenza Pietro Maria Campi (1569-1649). In alcuni casi, come quello di Innocenzo Chiesa che redigeva anche una biografia del barnabita Alessandro Sauli vescovo di Aleria in Corsica (1570) e poi di Pavia (1591), l’esaltazione del confratello vescovo s’intrecciava con la ricostruzione orgogliosa della memoria storica del proprio ordine religioso.

Eppure, molte di queste iniziative intraprese con grande cautela nel campo della storia ecclesiastica per la maggior parte da uomini di Chiesa, questi scritti imperniati sulla valorizzazione di una tradizione liturgica e agiografica locale e di esperienze episcopali di elevata esemplarità, incontrarono i sospetti e le censure delle congregazioni dell’Inquisizione e dell’Indice, pronte ad avocare a sé per sottoporlo a un severo controllo ogni progetto volto alla costruzione di autonome identità culturali e religiose, così come ogni proposta di santità che non fosse vagliata dall’alto, anche se per oggetto avevano la figura indiscussa del grande Borromeo (canonizzato nel 1610) e se a promuoverle erano vescovi cresciuti nell’imitazione del suo esempio. Anche in questo campo è evidente quindi il ruolo dominante dell’Inquisizione sia come fonte di legittimazione sia come luogo di produzione dell’ideologia religiosa: non a caso, quando la Chiesa romana cercò un papa da proclamare santo, lo trovò in un frate e inquisitore quale era stato il Ghislieri.

Sin qui si sono messe in luce le difficoltà frapposte dall’interno del corpo ecclesiastico alla realizzazione del progetto di riorganizzazione istituzionale e di governo della vita religiosa che il concilio aveva specificatamente affidato agli ordinari diocesani. L’azione dei vescovi dovette, però, scontrarsi con altre resistenze, quelle provenienti dalla sfera del potere civile, di cui occorre tenere conto per una valutazione complessiva dell’applicazione del tridentino e del suo reale peso nella Chiesa della Controriforma.

Tra gli eventi più clamorosi vi furono i contrasti tra le autorità spagnole e Carlo Borromeo che nel 1573 giunse a fulminare la scomunica contro il governatore dello Stato di Milano, Luis de Requesens, colpevole di aver emanato, per ordine di Madrid, due provvedimenti restrittivi della giurisdizione ecclesiastica. Il primo era volto a limitare la sfera d’intervento della «famiglia armata» (una sorta di polizia) del vescovo. Il secondo vietava alle confraternite di riunirsi, se non alla presenza di un rappresentante regio e, per motivi d’ordine pubblico, interdiva ai loro membri di partecipare alle processioni incappucciati con il volto coperto come era tradizione. Tali esempi danno un’idea dell’ampiezza del terreno di scontro tra l’autorità ecclesiastica e quella civile riguardo al controllo della società e alla salvaguardia delle rispettive prerogative. I conflitti tra il potente arcivescovo e il governo spagnolo si sarebbero rinnovati nel corso degli anni Settanta accendendosi su questioni di carattere più generale. In queste circostanze il papato intervenne curandosi soprattutto di evitare che le dimensioni dello scontro si allargassero sino a un aperto conflitto con il re di Spagna, anche se ciò significava mortificare la giurisdizione episcopale. Tra il Cinque e Seicento sotto Federico Borromeo, cugino di Carlo, le contese tra arcivescovo e poteri civili erano ancora aperte a Milano con nuove scomuniche fulminate dal Borromeo e irruzioni armate del braccio secolare nel palazzo arcivescovile.

Ma nella diocesi milanese la giurisdizione ecclesiastica era forte e in grado di farsi valere. Ben più grave era la situazione dei vescovi del Mezzogiorno, la cui azione riformatrice doveva scontrarsi con una feudalità potente, con i privilegi giurisdizionali della monarchia spagnola, con la presenza di comunità ecclesiali non cattoliche come quelle greche o di rito greco, con un mondo rurale dove la penetrazione del cattolicesimo non era quasi percepibile. A tutto ciò si aggiunga, nel Regno di Napoli, la diffusa presenza di chiese ricettizie, officiate da chierici nativi del luogo con beni gestiti in massa comune che costituivano quasi un corpo autonomo rispetto al governo dell’ordinario; la massiccia espansione cinquecentesca degli ordini regolari esenti dalla giurisdizione vescovile; la scarsità dei mezzi finanziari dovuta alle tenuità delle rendite delle mense episcopali, terreno di caccia di benefici e pensioni a vantaggio degli alti quadri della curia romana e dei membri del Collegio cardinalizio. Tale situazione non solo rendeva ardua l’azione dei vescovi nel Mezzogiorno, ma anche poco ambìto il titolo episcopale in quelle diocesi e del tutto improbabile l’adempimento dell’obbligo della residenza.

Ogni valutazione che abbia per oggetto l’incidenza del progetto di rinnovamento postridentino basato sul rilancio del ruolo del vescovo, deve tener conto di questa geografia differenziata, del divario esistente tra l’Italia centrosettentrionale e la metà meridionale della penisola, dove il peso degli ordini religiosi nella «cura d’anime» rimase preponderante; dove i seminari, anche nei casi in cui furono eretti, ebbero vita effimera; dove i tribunali vescovili incaricati della tutela giudiziaria dell’ortodossia, a eccezione di quello napoletano, funzionarono male e sporadicamente; dove in alcune zone, come in Sicilia, nessun concilio provinciale fu mai convocato.

Anche quello generazionale è un elemento di valutazione importante. L’immagine del vescovo postridentino è difatti indissolubilmente legata a figure quali Carlo Borromeo, Gabriele Paleotti, Domenico Bollani vescovo di Brescia, il teatino Paolo Burali d’Arezzo vescovo di Piacenza, appartenenti alla prima generazione dopo il concilio, la cui azione si raccordava idealmente all’esperimento veronese del vescovo Gian Matteo Giberti negli anni Trenta-Quaranta, ripetutamente proposto, sul piano storico e agiografico, come precursore e modello. Le pagine dei biografi hanno divulgato e tramandato l’immagine di Carlo Borromeo che, in occasione delle visite pastorali, raggiungeva «tutte le terre e ville, ben che alpestri e poste in luoghi selvaggi» della sua vasta diocesi, camminando per molte miglia, arrampicandosi per balze montagnose con «certi ferri sotto i piedi» e «con le mani et co’ i piedi in terra», e del gracile e biondo Alessandro Sauli che nel 1570 non esitò a partire alla volta della diocesi di Aleria nell’assolata Corsica, tra isolani «indomiti» e pirati, trovandovi la chiesa distrutta e il palazzo vescovile inabitabile. Negli anni successivi non molti vescovi furono in grado di ripetere le imprese dei due futuri santi, specie nel Mezzogiorno o nelle più impervie zone appenniniche, sfidando le ostilità del territorio, degli abitanti e dei poteri dominanti locali.

Sulla base di alcuni indicatori, già nel primo Seicento si può cogliere nell’intera penisola il progressivo esaurirsi dello slancio condensato in questi esempi, sia pure con accentuazioni diverse a seconda delle zone. Anzitutto, all’inizio del nuovo secolo si nota il diradarsi delle visite pastorali e della celebrazione di concili e sinodi, in alcune aree non più convocati. Poi, il mancato decollo dei seminari diocesani dovuto soprattutto a problemi di natura finanziaria che ne ostacolarono l’erezione o il mantenimento. Il termine «seminario», inoltre, poteva all’epoca essere utilizzato per definire realtà molto diverse, non tutte riconducibili al modello borromaico del grande collegio dotato di insegnanti qualificati dove i futuri sacerdoti vivevano in regime convittuale, già lontani dalla vita laicale. Spesso si trattava di modeste scuole dove pochi e mal pagati insegnanti fornivano qualche nozione basilare di canto, di grammatica e di liturgia a fanciulli poveri che continuavano a vivere presso le rispettive famiglie. Il processo attraverso il quale il clero secolare doveva raggiungere un livello di preparazione che lo avrebbe reso in grado di svolgere un nuovo ruolo nella società, fu quindi molto più lento e articolato di quanto apparisse in passato agli storici.

L’obbligo della residenza venne sempre più frequentemente disatteso, come attestano i ripetuti provvedimenti e decreti papali in questa materia. Spesso – si pensi ai cardinali che erano anche titolari di diocesi – i vescovi non residenti erano giustificati dal fatto di trovarsi impegnati alla corte romana, nello Stato pontificio o all’estero come nunzi e visitatori papali. Il problema fu messo a fuoco con lucidità dal gesuita e teologo Roberto Bellarmino (1542-1621), tra i rappresentanti più prestigiosi della cultura della Controriforma, consultore della congregazione dell’Indice e poi cardinale (1599), in un memoriale riservato presentato a Clemente VIII agli inizi del Seicento, in cui indicava proprio negli impegni diplomatici e curiali l’impedimento alla residenza dei vescovi. In quello scritto, il Bellarmino allargava le proprie valutazioni a un orizzonte più vasto, all’altezza del quale i papi della Controriforma non sarebbero stati disposti a seguirlo, auspicando addirittura la convocazione di un nuovo concilio.

Già verso la metà del secolo, rispetto alla generazione postridentina combattiva e piena di entusiasmi, l’episcopato italiano rifluì in un grigiore amministrativo sensibile al calcolo delle occasioni di promozione individuale più che ai compiti pastorali, teso a costruire la propria ascesa sociale e a salvaguardare gli interessi dei clan familiari, fortemente compattati dinanzi alle esigenze imposte dalla crisi economica seicentesca, attento a non perdere i contatti con la corte romana e a non interrompere una promettente carriera curiale confinandosi nel governo delle strutture ecclesiastiche locali. «Lodo che non inclini a seppellirsi in un vescovato», scriveva nel 1664 il cardinale veneziano Pietro Ottoboni, futuro papa Alessandro VIII, commentando le esitazioni di un altro curiale nell’accettare una cattedra episcopale. Si tratta di fenomeni non interpretabili in termini moralistici, che vanno valutati alla luce della realtà con cui l’episcopato postridentino dovette misurarsi: le trasformazioni istituzionali legate al rafforzamento del primato papale e all’affermazione del centralismo romano; i conflitti interni al corpo clericale; le tenaci solidarietà economiche tra Santa Sede e patriziati; i contrasti giurisdizionali con il potere politico; le resistenze provenienti dalla società. L’uso strumentale del tridentinismo ai fini dell’autorappresentazione della Chiesa della Controriforma, il suo diventare categoria ideologica e di maniera entro una realtà che invece aveva seguito altre direzioni furono lucidamente analizzati da Paolo Sarpi nell’Istoria del concilio tridentino (pubblicata a Londra nel 1619). Nell’opera il servita veneziano riconosceva la centralità storica del tridentino denunciandone al contempo la vera natura: non punto d’avvio della riforma della Chiesa, ma tappa fondamentale per il rafforzamento dell’assolutismo papale che da esso aveva tratto i maggiori vantaggi.

3. L’Inquisizione

La preminenza sul piano istituzionale della congregazione dell’Inquisizione sancita dalla riforma sistina del 1588 era, come si è visto, l’esito finale di un contrasto politico e religioso consumatosi a metà Cinquecento all’interno della Chiesa. Dotato nel 1542 di facoltà che gli consentivano di intervenire contro chiunque fosse sospetto di reati contro la fede, nel momento dell’emergenza dovuta al diffondersi del dissenso religioso il tribunale del Sant’Uffizio si era rivelato un formidabile strumento per imporre uomini e ideologie ai vertici dell’istituzione ecclesiastica prima, per reprimere l’eresia nella società poi.

La congregazione romana aveva lentamente creato una struttura stabile di tribunali inquisitoriali sparsi sul territorio della penisola e riorganizzato l’Inquisizione medievale, tradizionalmente affidata ai membri degli ordini mendicanti (domenicani e francescani), in precedenza nominati secondo le necessità dei tempi e delle situazioni. Nei conventi erano dislocati i tribunali da cui dipendevano i vicariati irregolarmente sparsi sul territorio, dove i compiti inquisitoriali erano affidati al personale ecclesiastico che era possibile trovare sul luogo ossia, in mancanza di conventi francescani e domenicani, talvolta anche a preti, chierici e cappellani appartenenti al clero secolare diocesano.

Si trattava di una rete fragile stesa sulla penisola, una rete a maglie larghe e sfilacciata, se comparata all’enormità del progetto di controllo che le era affidato e all’entità delle risorse umane e finanziarie necessarie. Ciononostante, Roma sottopose questa insufficiente struttura a un alto grado di centralizzazione e gerarchizzazione. Con sempre maggior frequenza i cardinali della congregazione si occuparono delle nomine degli inquisitori periferici progressivamente sottraendo tale facoltà ai superiori degli ordini e riducendo l’influenza delle mediazioni con i poteri laici locali. La corrispondenza tra i tribunali sparsi nella penisola e quello centrale romano testimonia l’esistenza di un’organizzazione verticale dell’informazione in base alla quale da Roma giungevano lettere, ordini sul modo di condurre i procedimenti più delicati, avocazioni dei processi, licenze di torturare gli imputati, liste di libri proibiti. Attraverso i medesimi canali, dalla periferia giungevano relazioni sui processi, copie di sentenze, liste di libri confiscati, richieste di consigli e chiarimenti.

Le lettere inviate dai cardinali inquisitori ai tribunali locali avevano valore di decreti, così come le decisioni prese durante le riunioni della congregazione romana, e rappresentano la fonte normativa della prassi inquisitoriale. Tra Cinque e Seicento una serie di manuali redatti da funzionari del Sant’Uffizio descrisse la «prattica» (ossia le procedure) degli inquisitori: alcuni di essi ebbero una circolazione manoscritta, altri furono pubblicati a stampa. Anche se si tratta di una fonte importante per gli storici, nessuno di questi scritti diventò mai esposizione «ufficiale» del diritto inquisitoriale.

Quella romana fu una delle tre Inquisizioni operanti in età moderna nei paesi cattolici, ed è l’unica tra queste a non essere completamente scomparsa. Nel 1965, nel clima di apertura instaurato dal concilio Vaticano II, la congregazione del Sant’Uffizio (cui nel 1917 erano passate le competenze proprie dell’abolita congregazione dell’Indice) ha modificato norme e procedure ed è diventata congregazione per la Dottrina della fede. Nell’archivio romano di quest’ultima è al momento conservato il materiale documentario che si è salvato degli archivi centrali dell’Inquisizione e dell’Indice, solo nel 1988 aperti dall’autorità ecclesiastica agli studiosi.

Pur condividendone il progetto controriformistico di controllo della società attraverso la religione, le altre due Inquisizioni, portoghese e spagnola, avevano origini e natura diverse da quella romana. Nate per iniziativa delle corone, si erano rivelate potenti strumenti nel processo di consolidamento delle monarchie iberiche, realizzato attraverso l’imposizione dell’uniformità religiosa contro le minoranze di ebrei e musulmani. L’Inquisizione portoghese, sorta nel 1547, era diretta, al pari di quella spagnola, da un organo legato alla monarchia, il Conselho Geral, e controllava altri quattro tribunali locali: quello di Lisbona (con giurisdizione in Brasile e nelle isole dell’Atlantico), di Coimbra, di Evora e di Goa nella penisola indiana (con competenze su tutte le colonie dell’Oriente). Anche il Consejo de la Suprema y General Inquisición di Madrid, da cui dipendevano i ventun tribunali sparsi nei domini spagnoli, dal Perù alla Sardegna, dalla Navarra alla Sicilia, era uno dei consigli della corona, quindi un’istituzione nelle mani del sovrano. Dopo l’unione tra Spagna e Portogallo (1580) seguita alla morte del re Sebastiano nella disastrosa crociata anti-musulmana in Marocco, le due Inquisizioni iberiche avevano continuato a funzionare in modo autonomo. Il rapporto con l’Inquisizione romana fu invece costruito di volta in volta sul piano politico nella relazione diretta tra la monarchia spagnola e il papato. L’Inquisizione spagnola, istituita nel 1478 dai re cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia in base alla bolla di papa Sisto IV (Exigit sincerae devotionis affectus), aveva rivestito un ruolo fondamentale entro il lungo e faticoso processo d’unificazione dello Stato che va sotto il nome di reconquista. Sul piano culturale e della mentalità, l’idea di crociata contro l’infedele, intrecciandosi con l’ideologia dell’onore e con il mito della limpieza de sangre (la comprovata discendenza da non-convertiti cioè da «cristiani vecchi») aveva contribuito in Spagna alla formazione di una forte identità collettiva «nazionale», rafforzata dalla creazione di rigidi meccanismi d’esclusione sociale nei confronti dei non-cristiani – moriscos e conversos accusati di essere tornati alla vecchia fede – che rappresentarono una percentuale altissima delle vittime dei tribunali spagnoli.

La situazione era completamente diversa in Italia. Qui il papa, sovrano temporale di uno Stato, aveva imposto l’esistenza di un tribunale sovrastatale agli altri prìncipi della penisola in nome della propria autorità di capo spirituale della Chiesa. Per i governanti laici ciò significava dover tollerare entro i propri domini tribunali dipendenti da un’autorità esterna che ignoravano ogni privilegio, che in totale segretezza giudicavano e punivano i loro sudditi, che potevano pretenderne la confisca dei beni e l’estradizione dinanzi ai cardinali romani. Nonostante l’alleanza creatasi nell’Italia della Controriforma tra autorità civili ed ecclesiastiche per la ­lotta contro l’eresia avvertita come disobbedienza insieme politica e religiosa, i poteri dei tribunali inquisitoriali erano troppo lesivi della sovranità degli Stati per non suscitare contrasti.

Per questi motivi l’Inquisizione si era organizzata nei vari Stati regionali italiani secondo forme differenti. Nei processi celebrati a Venezia, la Serenissima era riuscita a imporre la presenza di tre magistrati laici (i Savi all’eresia) membri dell’aristocrazia di governo. All’inizio degli anni Cinquanta, nuovi conflitti con Roma erano sorti perché la Repubblica volle introdurre rappresentanti dell’autorità civile anche nei tribunali inquisitoriali della Terraferma, allo scopo di soddisfare quell’esigenza d’informazione e di controllo sull’operato dei tribunali ecclesiastici che era preoccupazione comune a tutti i prìncipi dell’epoca. Anche Genova ottenne di poter affiancare rappresentanti laici agli inquisitori. Un’altra repubblica, quella di Lucca, che nel 1545 aveva istituito l’Offizio sopra la religione, una magistratura cittadina contro l’eresia, riuscì a opporsi ai reiterati tentativi romani d’introdurre il tribunale dell’Inquisizione. Il prezzo pagato fu comunque l’eliminazione del dissenso religioso che nella prima metà del secolo aveva ottenuto larghissima adesione all’interno del ceto dirigente locale. Nei domini italiani dipendenti dalla corona spagnola, la Suprema di Madrid era operante solo in Sicilia e in Sardegna. Nello Stato di Milano funzionava l’Inquisizione romana, mentre nel Regno di Napoli, dove nel 1547 il tentativo d’insediare l’Inquisizione spagnola aveva incontrato fortissime resistenze, la lotta all’eresia era affidata ai tribunali vescovili e a un commissario delegato papale dotato di ampi poteri, che di fatto dipendeva dal Sant’Uffizio. Nel complesso l’Inquisizione romana possedeva nell’area centrosettentrionale un’organizzazione periferica forte, mentre nel Mezzogiorno continentale i tribunali vescovili – eccetto quello napoletano – partecipavano della debolezza delle strutture episcopali meridionali cui più sopra si è avuto modo di accennare.

Le fonti processuali dell’Inquisizione centrale e di quelle locali hanno consentito di tracciare tempi, modi e geografia del dissenso religioso nella penisola. Dai processi inquisitoriali è possibile conoscere le idee dei prestigiosi rappresentanti di una cultura «alta» quali Giordano Bruno, Tommaso Campanella o Galileo Galilei, ma anche il modo di pensare delle migliaia di figure «minori» che, nella stretta repressiva degli anni Cinquanta-Settanta, comparirono dinanzi ai giudici ecclesiastici per difendersi dall’accusa d’eresia. Nel corso degli interrogatori gli inquisitori miravano a ottenere dall’imputato la confessione delle colpe per mezzo di domande condizionate dalla prassi giudiziaria e dalle loro categorie dottrinali. Le risposte degli imputati registrate nelle fonti inquisitoriali hanno quindi inevitabilmente subìto il filtro della mentalità e della cultura dei giudici che le sollecitavano. Oltre a questo, c’erano i condizionamenti derivanti, per il presunto reo, dal trovarsi in un’aula giudiziaria, dinanzi a un’autorità ecclesiastica temibile, posto nella necessità di difendersi da accuse che egli neppure conosceva, formulate nei suoi confronti da persone (coloro che lo avevano denunciato) di cui non gli veniva rivelata l’identità, costretto a parlare dinanzi a notai che formalizzavano ogni sua affermazione. «Sapete perché siete qui?» era la domanda con la quale i giudici erano soliti aprire gli interrogatori. Ciononostante, i verbali dei processi inquisitoriali possono aprire uno spiraglio stupefacente e prezioso sulle convinzioni, le credenze e le visioni del mondo di uomini e donne che difficilmente senza di essi avrebbero trovato un posto nella memoria storica.

Domenico Scandella, detto Menocchio, era un mugnaio friulano processato per eresia dall’inquisitore di Aquileia e Concordia nel 1584. A un certo punto dell’interrogatorio Menocchio, che era un uomo testardo e orgoglioso delle «opinioni... cavate dal suo cervello», decise di abbandonare ogni reticenza e cautela davanti agli inquisitori e di esporre il proprio modo di vedere le cose così come si era formato sulla base dei pochi libri in volgare che aveva letto, delle riflessioni maturate nel corso degli anni, delle discussioni con i compaesani e con qualche forestiero di passaggio. Dinanzi ai giudici lo Scandella espose la sua critica all’autorità della Chiesa («credo che la Scrittura sacra sia data da Iddio, ma poi è stata aggionta dalli homini; quatro sole parole bastariano in questa Scrittura sacra, ma è come li libri de bataia che sono cresciuti») e all’oppressione culturale dei dotti («io ho questa opinione, che il parlar latin sia un tradimento de’ poveri»). Denunciò l’uso dei sacramenti come strumenti di sfruttamento da parte del clero («credo che la legge et commandamenti della Chiesa siano tutte mercantie, et si viva sopra di questo») e la condotta di papi, cardinali e vescovi «tanto grandi et ricchi che tutto è de Chiesa et preti, et strussiano li poveri». Ma soprattutto, nel suo linguaggio denso di metafore concrete tratte dal mondo contadino in cui viveva, Menocchio espose dottrine materialistiche, opinioni ispirate alla tolleranza e al relativismo culturale e infine una cosmogonia e una teoria della creazione originali, spiegandole e argomentandole dinanzi all’inquisitore («io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto como si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli»).

Il mugnaio friulano non conosceva il latino ma sapeva leggere e scrivere. I suoi costituti (cioè la deposizione in difesa) hanno fatto discutere molto gli storici: alla luce della capacità di Menocchio di rielaborare in modo autonomo e personale le proprie letture, è stata posta la questione del rapporto esistente tra cultura popolare e cultura dotta e del ruolo non meramente passivo della prima. È stata avanzata l’ipotesi dell’esistenza di un patrimonio di antiche credenze legate al mondo contadino tramandate oralmente – e quindi ricostruibili solo in modo frammentario – che avrebbero condizionato i modi di appropriazione della pagina scritta da parte del mugnaio, credenze che gli inquisitori avrebbero a loro volta vagliato e deformato sulla base dei propri schemi culturali. Nel prossimo capitolo si avrà modo di tornare sul problema dell’incontro tra la cultura dei giudici ecclesiastici e quella degli imputati nei processi di stregoneria. In ogni caso, l’importanza e la complessità dei processi inquisitoriali come fonte sul piano culturale e antropologico appare un dato ormai acquisito.

Domenico Scandella fu condannato come eretico a una serie di pene tra cui l’abiura, un periodo di carcere, ­penitenze e digiuni. Nel 1599 fu di nuovo processato e questa volta condannato a morte come recidivo. La procedura giudiziaria dell’Inquisizione prevedeva infatti la pena capitale solo in due casi: per gli eretici «impenitenti», ossia non disposti a ritrattare le proprie opinioni, e per gli eretici relapsi o recidivi, per coloro cioè che avevano già subìto un processo conclusosi con la condanna all’abiura per eresia formale ed erano caduti nuovamente in peccati contro la fede (e questo fu il caso di Menocchio). Sulla base di due bolle pontificie promulgate da Paolo IV, i giudici del Sant’Uffizio erano anche autorizzati a mandare a morte quanti avessero negato verità fondamentali quali la verginità di Maria o la divinità di Cristo nonché i laici che avessero celebrato messa o ascoltato le confessioni.

L’abiura (secondo l’espressione spagnola auto de fe, cioè atto di fede) consisteva in una dichiarazione in cui l’imputato ritrattava le proprie precedenti convinzioni ed era solitamente redatta per iscritto dal giudice, sulla base delle testimonianze processuali. L’accusato abiurava come sospetto d’eresia de levi, de vehementi o perché riconosciuto «eretico formale»: nel primo caso l’abiura poteva essere letta in privato, ad esempio negli uffici dell’Inquisizione, negli altri due era pubblica, pronunciata sul sagrato o all’interno della chiesa oppure, se il colpevole era membro di un ordine regolare, dinanzi al capitolo del convento. La gravità della condanna per eresia formale era determinata dal fatto che, in caso di ricaduta, il reo veniva considerato recidivo e quindi condannato a morte: per il condannato era come se una spada di Damocle gli pesasse sulla testa per il resto della vita.

Le sentenze più miti prevedevano la condanna a «pene salutari» (confessione, digiuni, recita giornaliera di salmi, litanie e rosari). Altre pene andavano dall’obbligo d’indossare l’infamante abitello giallo sino all’imposizione di pubblici atti di penitenza come il presentarsi davanti alla chiesa nei giorni di festa con una candela in mano e una cinghia di cuoio al collo. Per i casi più gravi erano previsti il carcere «perpetuo» (tre anni di reclusione), il carcere «perpetuo irremissibile» (otto anni), l’immuratio (carcere a vita) o la tremenda condanna alla galera, cioè ai lavori forzati ai remi.

Le esecuzioni capitali erano eseguite dal braccio secolare, non da membri della gerarchia ecclesiastica i quali non potevano macchiarsi del sangue di un uomo: per gli eretici che avessero confessato il loro pentimento era prevista l’impiccagione, gli altri erano bruciati. Quello inquisitoriale era l’unico tribunale d’antico regime dinanzi al quale non valevano i privilegi della nascita e del sangue né le immunità connesse allo status ecclesiastico. È evidente quindi il rilievo politico e sociale che questi rituali pubblici potevano assumere qualora coinvolgessero i membri dei ceti dirigenti, anche se essi non raggiunsero mai gli eccessi dei foschi e scenografici autos de fe spagnoli. Gli stessi inquisitori, specie a livello locale, tennero talvolta conto del significato di rottura dell’ordine sociale che la pubblica umiliazione di un aristocratico poteva comportare e agirono con un certo riguardo e discrezione in materia d’abiura. L’esecuzione a Roma del nobile protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi fu sapientemente organizzata per volere di Pio V con un rituale dal valore esemplare, anche se l’aristocratico ex curiale non rinunciò a recarsi al supplizio «con la camicia bianca, con un par di guanti nuovi e una pezzuola bianca in mano». All’ex frate domenicano Giordano Bruno, il filosofo stimato dalle corti di mezza Europa che aveva fronteggiato arditamente i cardinali inquisitori durante il processo, prima di essere bruciato vivo fu posta la lingua «in giova» (mordacchia) per impedirgli di parlare, mentre dalla Chiesa della Minerva era scortato tra la folla verso Campo dei Fiori (1600). Per quanto riguarda le pene capitali, la più ferma nel rifiutarne la trasformazione rituale auspicata dall’autorità ecclesiastica fu la Repubblica di Venezia, dove le esecuzioni degli eretici avvenivano non pubblicamente sul rogo, ma di notte per annegamento nelle acque della laguna.

Il processo informativo, ossia la prima fase di raccolta delle notizie e delle prove a carico, veniva avviato dagli inquisitori su denuncia di testimoni la cui identità era tenuta nascosta all’accusato, oppure perché gli stessi inquisitori avevano avuto notizia di qualche reato. In altri casi era lo stesso colpevole che si autodenunciava al tribunale del Sant’Uffizio. Molte di queste «spontanee comparizioni» trovano spiegazione in una serie di importanti cambiamenti avvenuti a partire dal tardo Cinquecento nei rapporti tra l’autorità ecclesiastica e la società. In base a una disposizione papale di Paolo IV del gennaio del 1559, i confessori non potevano accordare l’assoluzione sacramentale (nel foro interno) ai penitenti, nel caso questi avessero ammesso di detenere libri proibiti o di essersi macchiati d’eresia. Essendo vincolati alla segretezza, i confessori dovevano convincere il penitente a presentarsi spontaneamente al tribunale dell’inquisitore per l’assoluzione giudiziale (nel foro esterno) e per la denuncia di eventuali complici. Nel corso del tempo l’obbligo per i confessori di rinviare i penitenti al tribunale inquisitoriale si allargò ad altri delitti previsti dagli editti di fede via via promulgati dal Sant’Uffizio.

Affinché questo sistema funzionasse, occorreva prima che la confessione nell’Italia postridentina diventasse effettivamente una pratica radicata e diffusa nella società, che l’obbligo della confessione annuale ribadito dai decreti conciliari non rimanesse solo una norma astratta. Tutto ciò avvenne lentamente, ma tra Cinque e Seicento, pur attraverso sovrapposizioni e conflitti tra gli uni e gli altri, l’azione di confessori e inquisitori – sostanzialmente convergente nello scopo – consentì all’autorità ecclesiastica di allargare enormemente il controllo sulle coscienze e i comportamenti dei fedeli. Delle potenzialità inerenti al sacramento della confessione fu consapevole papa Pio V, ex inquisitore, che nel 1566 impose ai medici il giuramento con cui si impegnavano a negare le cure ai malati che non si fossero prima confessati.

Trascorsa la fase della strenua caccia a conventicole e focolai eterodossi, delle inchieste, dei processi e delle massicce repressioni, cancellata ogni forma organizzata di dissenso religioso nella penisola, il modo di procedere degli inquisitori e la loro funzione mutarono profondamente. Una svolta analoga avvenne nei paesi d’Inquisizione spagnola. A partire dagli anni Ottanta circa, i fascicoli processuali degli archivi inquisitoriali si affollarono delle deposizioni di uomini e donne accusati di credenze magiche, pratiche superstiziose e stregoneria, di falsi santi, di bestemmiatori, di sodomiti, di confessori che avevano abusato delle penitenti. Davanti a questi problemi cambiò anche l’atteggiamento degli inquisitori: posti di fronte non più alla minaccia mortale per l’istituzione rappresentata dall’eresia, ma alla miriade di deviazioni, trasgressioni e disobbedienze, anche le più banali e diffuse, che provenivano dal corpo sociale, i giudici dovettero intervenire con maggiore duttilità e con mano più leggera. Nel prossimo capitolo si cercherà di delineare i caratteri e gli effetti del pervasivo controllo clericale steso sul mondo dei laici che, trascorsa la fase dell’emergenza ereticale, fu tratto caratteristico della Chiesa della Controriforma.

4. Gli ordini regolari

L’immagine dei regolari aveva ricevuto gravi colpi durante la prima metà del secolo. Erasmo e gli umanisti avevano criticato il dominio che monaci e frati esercitavano sulla religione dei «semplici» attraverso l’imposizione di riti esteriori, «digiuni» e «orazioncelle» lasciando nell’oblio il vero messaggio di Cristo e l’«esercizio della carità». La letteratura in volgare del primo Cinquecento ne aveva ferocemente deriso l’ignoranza e la corruzione. Lutero aveva denunciato l’infondatezza della pretesa di monaci e frati di costituire un corpo privilegiato entro la comunità dei fedeli con una critica radicale all’ideale di vita monastico. Come mostra il magistrale affresco della vita religiosa nello Stato di Milano della prima metà del secolo tracciato da Federico Chabod, il potere civile – spesso su pressioni della stessa popolazione – era più volte intervenuto con preoccupazione e severità, al posto delle alte gerarchie ecclesiastiche, contro le intemperanze del clero regolare. Da parte ecclesiastica il problema di una riforma degli ordini era stato affrontato in vari documenti destinati a restare inascoltati, dal Libellus ad Leonem X dei camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Querini (1513) redatto per il V concilio Lateranense sino al Consilium de emendanda Ecclesia steso dalla commissione di cardinali e vescovi istituita da Paolo III nel 1536.

Tra gli anni Venti e Quaranta i predicatori appartenenti agli ordini regolari, grazie alla loro mobilità, erano stati in Italia importanti canali di diffusione delle idee eterodosse. Queste avevano trovato fertile terreno di sviluppo in una cultura alimentata dalle ricche biblioteche benedettine, nelle tensioni apocalittiche particolarmente diffuse tra gli eremitani agostiniani che si identificavano nell’ordine della «terza età» profetizzato da Gioacchino da Fiore, nella religiosità mistica e cristocentrica coltivata tra i cappuccini, come dimostrò nel 1542 la fuga a Ginevra del loro generale Bernardino Ochino. Nel già citato memoriale del 1532 a Clemente VII, Gian Pietro Carafa aveva per primo posto il nesso tra apostasia (l’arbitrario abbandono dei conventi di religiosi che spesso continuavano a svolgere indebitamente funzioni clericali) ed eresia, tra la libertà di cui godevano monaci e frati che vivevano fuori dei loro chiostri e il diffondersi delle dottrine riformate. Spezzare questo nesso sarebbe stato compito dell’Inquisizione e del papato.

A Trento, invece, i vescovi avevano cercato di limitare il monopolio degli ordini religiosi sulla predicazione e i tradizionali privilegi ed esenzioni che li sottraevano al controllo degli ordinari diocesani. Nel 1474 il papa francescano Sisto IV, conferendo al clero regolare anche la facoltà di amministrare i sacramenti, ne aveva definitivamente sancito l’invasione nella sfera della cura d’anime (bolla Regimini universalis Ecclesiae detta Mare magnum per l’ampiezza delle concessioni). I decreti tridentini su questa materia non riuscirono a rafforzare il potere dei vescovi che fu ulteriormente indebolito, negli anni successivi, dai provvedimenti di Pio V e Sisto V, entrambi membri di ordini religiosi, i quali si mossero nella direzione della salvaguardia e conferma dei privilegi dei regolari a scapito della giurisdizione episcopale. La struttura gerarchica e centralizzata degli ordini, in effetti, meglio si prestava al disegno accentratore dei papi della Controriforma contro le tendenze autonomistiche dell’episcopato. In conformità al medesimo disegno accentratore, gli ordini furono a loro volta sottoposti, nel corso del secolo, a un maggiore controllo romano attraverso il potenziamento della figura del cardinale protettore e l’istituzione di apposite congregazioni cardinalizie.

Nell’Italia del Cinquecento i regolari non furono soltanto un elemento di resistenza all’autorità del vescovo nelle Chiese locali. Prima e dopo Trento, infatti, gli ordini svolsero una funzione insostituibile nella cura d’anime a fronte delle permanenti carenze e assenze del clero secolare. Nel quadro delineato da Chabod cui si è sopra accennato, i frati ne combinavano di tutti i colori, ma erano i loro conventi che animavano la vita religiosa cittadina al posto di un’autorità episcopale che nella sede milanese fu per decenni del tutto assente. I membri delle nuove congregazioni religiose, in particolare, fornirono un valido supporto ai vescovi nel loro disegno di disciplinamento ecclesiastico della società, come i barnabiti a Milano, tra le file dei quali Carlo Borromeo scelse i più fidati collaboratori. Negli ultimi decenni del secolo, inoltre, aumentò il numero dei membri di ordini antichi e recenti elevati all’episcopato.

La percentuale delle chiese parrocchiali che dipendevano da conventi era altissima: nel periodo in cui Gabriele Paleotti fu vescovo di Bologna (1566-1597), delle 64 parrocchie nella città di Bologna ben 21, cioè un terzo, erano tenute da ordini religiosi maschili e femminili. Confessori e predicatori provenivano in larga parte dalle file dei regolari. A loro, in qualità di direttori spirituali e confessori, era affidata la cura dei monasteri femminili. Negli studi e nelle biblioteche conventuali si formava il clero della Controriforma, compito per il quale i pochi seminari diocesani erano inadeguati e insufficienti. Nei loro conventi, monasteri e case religiose le famiglie inviavano le figlie e i figli destinati alla vita ecclesiastica. Lì si concentravano la pietà e i culti cittadini. Lì gli abitanti dei centri urbani volevano essere seppelliti. Lì confluivano le donazioni stabilite nei loro testamenti, fonte preziosa per lo studio della «religione cittadina». Nel testamento di un aristocratico, infatti, la scelta di abbandonare la tradizionale sepoltura di famiglia nella chiesa di un ordine di antica fondazione e di costituire un ingente lascito per l’erezione di un mausoleo nella chiesa di un ordine recente poteva indicare l’attrazione esercitata da nuovi direttori spirituali e da diversi messaggi religiosi, nonché la formazione, attraverso l’esercizio della carità, di legami sociali tra laici differenti dal passato. Da tutto ciò derivavano le frequenti ingerenze in campo ecclesiastico di prìncipi e di consigli municipali, volte alla salvaguardia di devozioni e interessi che li legavano a quei luoghi sacri e alle persone che li abitavano: pur appartenendo a una struttura sovraregionale, il clero regolare possedeva una fisionomia locale profondamente radicata nella vita religiosa e nella società cittadine.

All’espansione cinquecentesca dei vecchi ordini si era affiancata, a partire dagli anni Venti del Cinquecento, la creazione delle prime congregazioni di chierici regolari: i teatini furono ufficialmente riconosciuti nel 1524, i barnabiti o chierici regolari di san Paolo nel 1533, i gesuiti e i somaschi nel 1540. Erano gruppi di chierici che vivevano in comune secondo una regola professando i tre voti di castità, povertà e obbedienza; che non indossavano l’abito monastico, ma quello nero del clero secolare, e che cercavano di sottrarsi alla recita dell’ufficio corale e ad altre pratiche religiose collettive per dedicarsi interamente a un’intensa attività tra il laicato.

Questi ordini erano nati durante la crisi dei primi decenni del Cinquecento quando, con l’affievolirsi dei fermenti profetici dopo il sacco di Roma, nei centri urbani della penisola si era sviluppata una spiritualità dai caratteri mistici e ascetici, aliena da grandi prospettive escatologiche, concentrata sulla ricerca della riforma interiore, coltivata in piccoli gruppi sotto la guida di eccezionali maestri spirituali. Spesso le cronache registrarono la comparsa nelle strade cittadine di gruppi di uomini e donne che, con le loro vistose manifestazioni di penitenza, turbavano l’ordine urbano e scuotevano i valori di una società fondata sulla rigida divisione in ceti. Nei primi anni Trenta, un merciaio milanese raccontava come nelle vie della capitale lombarda fossero apparsi «certi preti gioveni» seguiti da «un’altra compagnia de giovenette [...] mal vestite, con un patelazzo di lino in testa, la testa bassa, serrate dinanzi fino sotto la gola, senza ornamento nessuno attorno. Et queste tal compagnie sì de preti sì de queste putte pare sia capo una contessa». Quelle fanciulle di buona famiglia che giravano a piccoli gruppi portando «una grossa fune al collo a sembianza di un capestro» tra «scorni e confusione», mentre «tutti gli strepitavano adietro come a tanti matti, battendo gli artefici i suoi instrumenti sopra li banchi», quei giovani che, pur appartenendo a casate nobili e ricche, «nelle piazze e mercati», «in abito vile», «come facchinelli si caricavano le gerle sulle spalle» suscitando l’ilarità delle popolane oppure, vestiti di sacco con una corda al collo, si appostavano sulla porta del duomo «supplicando che quelli che uscivano et entravano volessero pregar il Signor» per loro, inginocchiandosi «dinanzi a tutti quelli che [...] conoscevano, addimandandoli perdono», erano i primi gruppi di barnabiti e di angeliche, ramo femminile della congregazione. Similmente i gesuiti, alla fine degli anni Trenta, percorrevano le vie delle città venete predicando nelle strade, nelle piazze e nei mercati.

Le forme organizzative assunte da queste piccole comunità furono inizialmente fluide, non ancora controllate dall’alto. Gruppi di uomini e donne si erano staccati dalle famiglie e dalle loro professioni per raccogliersi in «case» e «residenze» scelte spesso nelle periferie dei centri urbani, in zone malfamate al di fuori delle mura medievali. Questi luoghi in cui si svolgeva una vita comunitaria priva di gerarchie, che solo più tardi le costituzioni avrebbero regolato, non si presentavano agli occhi degli abitanti delle città come conventi e monasteri tradizionali: gli scambi con la vita esterna erano frequenti e intensi, le loro mura aperte a un laicato devoto che lì stipulava contratti, condivideva esperienze caritative, partecipava a riunioni spirituali, maturava esperienze religiose e veniva ospitato per lunghi periodi, talvolta per anni.

Al loro interno il governo della comunità dipendeva da figure carismatiche la cui autorità derivava non dalla carica ricoperta, ma dall’eccezionalità della posizione conseguita nella ricerca della perfezione o dalle doti mistiche e visionarie. Le stratificazioni sociali non venivano riflesse in una vita comunitaria le cui regole erano interamente dettate da motivazioni spirituali e dal radicale apprendistato ascetico cui tutti i membri del gruppo si sottoponevano nella loro estrema, «crocifissa et perfetta imitatione» di Cristo. Solo in una fase più tarda, anche nelle case dei nuovi ordini regolari si rifletteranno quei processi di aristocratizzazione in corso nella società che, nel caso dei monasteri femminili, sono rilevabili nella crescita dell’ammontare delle doti monastiche. La congregazione delle angeliche, il ramo femminile dei barnabiti, ad esempio, respinse all’inizio l’usanza di condizionare l’accesso delle aspiranti al versamento della dote monastica, una scelta in cui era implicito il rifiuto di subordinare il reclutamento a motivazioni di carattere economico a scapito di quelle spirituali.

Il carattere non istituzionale, ma personale, dei legami su cui si fondavano i nuovi sodalizi, si riflette anche nelle soluzioni adottate sul piano economico per conciliare l’adesione ai princìpi della povertà evangelica, fissati dai fondatori, con la necessità di garantire il proprio sostentamento. L’esempio dei barnabiti è ancora una volta significativo. Allo scopo di rimanere coerenti con la scelta di povertà, infatti, i membri dell’ordine maschile milanese erano soliti nominare erede universale delle loro sostanze Ludovica Torelli, contessa di Guastalla e fondatrice delle angeliche: una donna quindi, e per di più laica, nonostante essa avesse pronunciato in segreto i voti nelle mani di un’altra donna, l’angelica Paola Antonia Negri. Costei, detta la «divina madre» per le sue doti mistiche e visionarie, diresse per un ventennio la vita spirituale di barnabiti e angeliche. Nelle sue mani (e solo quando era lei a deciderlo) anche i membri dell’ordine maschile pronunciavano i voti, lasciandole inoltre presiedere le loro riunioni (i capitoli), obbedendo ai suoi ordini e assoggettandosi alle terribili punizioni imposte dalla monaca in conformità all’ideale ascetico che la ispirava, in una totale subordinazione della componente maschile della congregazione a quella femminile, incarnata da questa figura carismatica.

Mistiche, «divine madri» e «sante vive» (ossia donne venerate ancora viventi per il loro rapporto privilegiato con Dio) rappresentano un’altra caratteristica della vita religiosa del primo Cinquecento. Attorno a queste figure si organizzarono molti dei sodalizi spirituali da cui sarebbero sorti i nuovi ordini regolari e numerose confraternite laicali, mentre altri si estinsero sul nascere a seguito dei sospetti e delle condanne dell’autorità ecclesiastica. Non il concilio ma, come si vedrà, i pontefici avrebbero spazzato via queste pericolose manifestazioni di santità.

Negli anni Sessanta papa Pio V, con una serie di provvedimenti ripresi nel 1572 da Gregorio XIII, impose l’obbligo della clausura a tutte le comunità religiose femminili. I decreti papali, nonostante le resistenze e le difficoltà incontrate nella loro applicazione, segnarono una cesura fondamentale nell’universo monastico femminile. La segregazione e il silenzio imposti alle religiose inflissero un duro colpo al fenomeno delle mistiche e visionarie così come si era sviluppato tra Quattro e Cinquecento. Vennero innalzate mura esterne, eliminati balconi e finestre, rese più fitte le grate nei parlatori, imposti pesanti tendaggi e inferriate nelle chiese. I modi in cui sino ad allora si era sviluppata l’esperienza religiosa comunitaria delle donne mutarono radicalmente. Si pose fine alle fluide forme di vita in comune di vedove, terziarie, ex prostitute, «monache in casa», «bizoche», «pinzochere»; alla mobilità delle monache e ai loro rapporti con l’esterno; alla variegata popolazione che era solita abitare nelle loro case religiose e sino ad allora le aveva rese strutture estremamente ricettive verso le esigenze spirituali della popolazione laica femminile. La repressione culturale esercitata verso le letture e le possibilità d’espressione delle monache fu maggiore di quella condotta verso qualsiasi altra componente della società. La cultura monastica femminile nell’età della Controriforma fu costretta a sopravvivere priva di buoni libri, circondata da interdizioni e sospetti, ripiegata su se stessa e spogliata di quei confronti con l’esterno che soli rendono vivi gli scambi culturali e la produzione creativa.

Nel determinare la condizione delle religiose nell’età della Controriforma, gli interessi della società aristocratica che doveva sistemare le figlie per salvaguardare l’unità dei patrimoni si incontrarono con la crescente volontà di controllo dell’autorità ecclesiastica. Il risultato fu quello che oggi appare un grave depauperamento e una grande colpa sociale verso le donne, specie se comparati al fiorire delle affascinanti esperienze religiose e culturali femminili del primo Cinquecento. La contessa di Guastalla abbandonò fuggendo il monastero milanese delle angeliche da lei stessa fondato allorché vi fu imposta la clausura. A tale obbligo riuscirono a sottrarsi (e non senza difficoltà) solo quelle congregazioni, come le orsoline o le dimesse, che rinunciarono alla professione dei voti solenni dedicandosi a compiti educativi.

I nuovi ordini religiosi erano all’inizio impegnati nella diffusione di messaggi spirituali pieni di fascino tra le élite urbane, presso i ceti aristocratici e mercantili e presso figure professionali colte come medici e notai, nel tentativo di coinvolgere i ceti superiori nella loro ricerca della perfezione. Con la progressiva affermazione della Controriforma, queste esperienze comunitarie dovettero acquisire una fisionomia organizzativa adeguata alle rigorose linee di confine tra chierici e laici fissate dalla Chiesa postridentina e assumere compiti funzionali alle esigenze dell’istituzione ecclesiastica. Tale processo fu particolarmente traumatico per i barnabiti: a metà del secolo l’Inquisizione romana condannò come eretiche le dottrine dei loro maestri e segregò la «divina madre». Solo nel 1579 l’ordine di origine milanese promulgò le costituzioni ufficiali e, sotto la severa tutela di Carlo Borromeo, portò a compimento quella trasformazione che gli permise di assumere un nuovo ruolo nella Chiesa della Controriforma, impegnandosi in campo scolastico e nella cura pastorale.

A sua volta, Ignazio di Loyola fu più volte sospettato e processato dalla Inquisizione spagnola e romana, per non parlare delle difficoltà incontrate dai gesuiti in Francia e delle condanne formulate contro di loro dai teologi della Sorbona. Il domenicano spagnolo Melchor Cano, insegnante di teologia all’Università di Salamanca, identificò nei gesuiti e nel testo degli Esercizi spirituali ignaziani una nuova manifestazione di alumbradismo fomentando, con l’appoggio del proprio ordine, accuse di eresia contro la Compagnia sin nel cuore degli anni Cinquanta. Ad aggravare quello che fu uno dei tanti scontri tra domenicani e gesuiti, c’era forse il ricordo personale dell’«atrox crimen» commesso nel 1553 al concilio di Trento dal gesuita Diego Laínez, futuro generale dell’ordine. Dopo una lunga e vana conversazione con il Cano, persa la pazienza, il Laínez aveva infatti qualificato le accuse del teologo con l’insultante (e, per un gesuita, inusuale) espressione: «Istas merdas». Negli stessi anni Juan Martínez Silíceo, arcivescovo di Toledo e primate di Spagna, organizzava una commissione per l’esame del testo degli Esercizi che, nonostante l’approvazione papale, vennero giudicati eterodossi in alcune loro parti. Ancora negli anni Sessanta, contro i gesuiti e con l’accordo di autorevoli curiali, veniva pubblicata a Roma una serie di libelli e opuscoli dove l’ordine era definito «diabolica setta».

Gli oratoriani non costituivano un ordine religioso, dal momento che non pronunciavano voti, ma erano sacerdoti che conducevano vita comune. Negli anni Cinquanta si radunavano a Roma nella chiesa di San Girolamo della Carità dove si dedicavano a intense pratiche ascetiche sotto la direzione dell’ex savonaroliano Filippo Neri (1515-1595). Nel 1575 fu eretta la congregazione e si costruì a Roma l’imponente chiesa di Santa Maria della Vallicella. Anche in questo caso le trasformazioni intervenute nel tardo Cinquecento segnarono una svolta rispetto al gruppo inizialmente raccolto intorno al Neri, una svolta che smussò il radicalismo spirituale filippino ed emarginò la scomoda figura del fondatore mentre era in vita, per poi santificarlo poco dopo la morte (1622) e ricostruirne un’immagine agiografica consona ai modelli culturali e religiosi controriformistici.

Sull’ordine dei cappuccini, divenuto autonomo dalle famiglie francescane dei conventuali e degli osservanti nel 1528, pesarono a lungo l’ombra della fuga in terra di eretici del loro generale Bernardino Ochino nel 1542, nonché l’amicizia e la protezione che negli anni Trenta e Quaranta li avevano legati agli ambienti degli spirituali italiani, in particolare a Vittoria Colonna, la gentildonna amica del Valdés, di Michelangelo e del Carnesecchi, che solo dalla morte fu sottratta ai tribunali inquisitoriali. Nell’ultimo quarto del secolo quello dei cappuccini sarebbe diventato uno degli ordini della Controriforma maggiormente impegnati nell’attività missionaria.

È difficile immaginare personalità più contrastanti di quelle dei due fondatori dei teatini: da una parte il denso misticismo di Gaetano Thiene con le sue fascinazioni per «divine madri» e sospetti maestri spirituali, dall’altra le lucide prospettive politiche e la furia antiereticale di Gian Pietro Carafa, primo superiore generale dell’ordine. Tale eredità bifronte si ricompose nel corso del Cinquecento, con la progressiva assunzione di funzioni di rigida vigilanza sull’ortodossia e l’elaborazione di adeguati modelli devozionali che resero la congregazione dei teatini un vero e proprio «seminario», cioè terreno di coltura, di vescovi della Controriforma. Dei due fondatori, fu il pio Gaetano a essere proclamato santo (1671), ma le linee di sviluppo dell’ordine seguirono l’impostazione carafiana. Nonostante le inclinazioni del Thiene per mistiche carismatiche, ad esempio, le regole che nel 1524 il Carafa impose alla congregazione appena fondata proibivano categoricamente i rapporti spirituali con le donne: una scelta inconsueta negli anni Venti del Cinquecento, anticipatrice dell’atteggiamento diffidente e repressivo della Controriforma verso la santità femminile. Il divieto si allentò solo alla fine del secolo, ma nel frattempo, come si vedrà, il rapporto tra il mondo ecclesiastico e quello femminile era radicalmente mutato.

La storia dei nuovi ordini è stata a lungo guidata da schemi apologetici e dall’esigenza di costruire identità forti e rassicuranti delineando processi di sviluppo privi di cesure tra la fluida fisionomia iniziale e la configurazione istituzionale assunta successivamente: essi invece avevano dovuto far fronte a difficili trasformazioni per riuscire a occupare un posto nella Chiesa della Controriforma, entro un contesto ben diverso da quello da cui avevano tratto origine. Altri contrasti interni avrebbero scosso gli ordini nel pieno della Controriforma, basti pensare ai conflitti politici e dottrinali che divisero la Compagnia di Gesù sotto il generalato trentennale dell’Acquaviva (1581-1615). Altri sospetti e accuse di eresia avrebbero coinvolto alcuni dei loro membri. Altri preoccupanti fenomeni di misticismo e scandalosi rapporti di direzione spirituale con figure femminili sarebbero emersi nel Seicento. Questi episodi, però, non erano più in grado di metterne in crisi l’identità e il ruolo nella compagine ecclesiastica. Vertici della Chiesa (dal papa al Sant’Uffizio) e superiori sarebbero allora intervenuti prontamente per redarguire, reprimere, uniformare, estirpare le deviazioni e appianare le singole situazioni.

Nel contesto della convulsa espansione cinquecentesca di ordini vecchi e nuovi, il tasso di conflittualità interno alla «cittadella controriformistica» fu aumentato dalle rivalità e dalle aspre lotte tra regolari, dalle accanite battaglie – come quelle tra gesuiti e domenicani cui si è accennato sopra – combattute persino con le armi della ricerca storica e dell’agiografia. A partire dalla seconda metà del Cinquecento, infatti, ogni ordine cominciò a redigere storie partigiane, a glorificare i fondatori e a celebrare i propri martiri, frantumando così il cielo della Controriforma in una grande rissa di «santi contro santi», accompagnata da polemiche erudite e accuse volte a far valere la superiorità del proprio ordine e a smascherare gli avversari, individuati non già negli storici protestanti, ma negli studiosi degli altri ordini.

In questo mondo variegato e affollato, il ruolo centrale svolto dai gesuiti nella Chiesa della Controriforma impone di considerarne più da vicino alcuni caratteri peculiari. Ignazio di Loyola impresse alla congregazione una struttura verticistica e gerarchizzata, ma al tempo stesso duttile ed elastica: già nel 1550 tre province (unità amministrativa di base della Compagnia di Gesù) erano operative (Portogallo, Spagna e India), mentre Ignazio governava direttamente le altre aree (Italia, Sicilia, Germania e Francia). Alla sua morte, nel 1556, le province erano dodici: Italia (esclusa Roma), Sicilia, Germania superiore, Germania inferiore, Francia, Aragona, Castiglia, Andalusia, Portogallo, Brasile, India ed Etiopia. Ogni casa fondata dai gesuiti aveva un superiore o rettore che rispondeva al provinciale, e questi a sua volta al generale.

Aboliti i capitoli, ossia le assemblee che gli ordini monastici e mendicanti erano soliti tenere a intervalli regolari per prendere decisioni riguardanti l’ordine ed eleggerne i vertici, Ignazio impose che i provinciali fossero nominati direttamente dal generale, e i superiori locali da questi o dai provinciali. Al contrario di quanto accadeva per gli altri ordini, il generale della congregazione era nominato a vita, come il papa. La corrispondenza epistolare, regolata da scadenze precise, era un fondamentale mezzo per la centralizzazione del governo dell’ordine, come testimonia l’imponente mole di lettere conservata nei fondi dell’archivio romano della Compagnia (solo quelle di Ignazio sono ottomila). Le lettere che, alla fine degli anni Quaranta, Ignazio di Loyola inviava ai confratelli, somigliano a quelle di un generale a un esercito ben organizzato: nel 1540 i gesuiti erano dieci, alla morte di Ignazio nel 1556 erano mille e nel 1616, un anno dopo la morte del generale Acquaviva, oltre tredicimila.

Sotto la guida di sant’Ignazio, dunque, si approntarono gli strumenti che avrebbero fatto della Compagnia l’ordine per eccellenza della Controriforma. Successivamente i gesuiti avrebbero dimostrato una grandissima abilità nel gestire sul piano politico e religioso la complessa eredità spirituale ignaziana nonché doti eccezionali nell’adattamento alle singole situazioni e nell’elaborazione creativa, personale e lungimirante dei mezzi di controllo ecclesiastico sulla società. Fondamentale fu la capacità di stabilire con il papato un rapporto privilegiato già prefigurato nel quarto voto di fedeltà al pontefice che era scelta peculiare della Compagnia. Le relazioni dell’ordine con la Santa Sede variarono nel corso del tempo – particolarmente difficili furono con Paolo IV –, ma in generale i gesuiti godettero di una posizione di preminenza rispetto agli altri ordini regolari, una preminenza efficacemente dimostrata dagli eccezionali privilegi accordati loro in materie cruciali, che facilitarono e condizionarono gli sviluppi della Compagnia in determinate direzioni. Furono infatti l’unico ordine ad avere la facoltà – che si vide attribuita intorno alla metà del secolo – di poter assolvere durante le confessioni i penitenti da peccati d’eresia e dal possesso di libri proibiti. Se, come emerge da studi recenti, la pratica della confessione sacramentale costituì uno degli strumenti più importanti e di lunga durata della Controriforma per l’estensione del controllo ecclesiastico sui fedeli, l’attività dei gesuiti come confessori fu determinante per il radicamento di tale pratica.

Nel 1559, proprio mentre veniva promulgato l’Indice di Paolo IV, essi ottennero la licenza di leggere e utilizzare nelle loro scuole, oltre a una lista di opere funzionali all’insegnamento, anche intere categorie di libri (opere di autori cattolici stampate oltralpe, opere anonime, opere commentate o curate da eretici, una volta espunti i loro nomi e interventi) che nel frattempo, tra lo sgomento di autorità civili, intellettuali e librai, venivano proibite al resto dei cattolici. Una concessione di grande rilievo, della quale il generale Laínez impose di non parlare pubblicamente, «por el peligro de perderla».

La fondazione di istituzioni scolastiche aperte ai laici non faceva parte dei progetti iniziali di sant’Ignazio. La prima fu creata a Messina nel 1548, ma da quel momento il reticolo delle scuole gesuitiche si stese rapidamente su tutta l’Europa. Nel 1561 Pio IV accordava ai collegi la facoltà di addottorare in filosofia e teologia. Era una macchina di dimensioni imponenti finalizzata sia alla formazione delle nuove leve dell’ordine, sia all’educazione delle classi dirigenti e delle élite aristocratiche. Nel 1599 la Ratio studiorum stabiliva un corso di studi valido per tutte le scuole gesuitiche. Fu un gesuita, Antonio Possevino, l’autore della Bibliotheca selecta (1593), impasto straordinario di erudizione bibliografica e d’ideologia militante che sanciva le letture e gli orientamenti culturali della Controriforma delineando la biblioteca ideale del buon cattolico. Nella capitale pontificia sorsero per iniziativa dei gesuiti prestigiose istituzioni della Controriforma tra cui il Collegio Romano (ora Pontificia Università Gregoriana) fondato nel 1551 per l’educazione di chierici e laici, il Collegio Germanico, dove si formarono i futuri protagonisti della restaurazione cattolica nei paesi infetti dal contagio ereticale come la Boemia, la Polonia, la Germania, e infine il Collegio Inglese, che alimentava il flusso sotterraneo di missionari inviati in Inghilterra. Tra le altre istituzioni gestite dai gesuiti nella capitale vi furono il Seminario per la preparazione del clero dell’arcidiocesi romana e la prima Casa dei catecumeni per la conversione degli ebrei.

Confessori, educatori e missionari: quando Ignazio e i suoi compagni si presentarono a Roma dinanzi al papa nel 1540 era loro intenzione intraprendere il viaggio in Terrasanta per la conversione degli infedeli. Sin dalla prima generazione, lo slancio missionario gesuitico prese la direzione di paesi lontani: la figura di Francesco Saverio è rimasta emblematica di questa penetrazione nell’Estremo Oriente, in India, in Cina e in Giappone. Solo negli anni Sessanta i gesuiti ottennero dal re di Spagna Filippo II il permesso di dirigersi verso il Nuovo Mondo, dove l’attività missionaria era stata monopolizzata, sin dagli anni Venti del Cinquecento, dagli ordini mendicanti iberici, domenicani e soprattutto francescani, approdati al seguito dei conquistadores. Rispetto a questa prima ondata missionaria, il problema della conversione degli indios d’America si pose in modo diverso intorno alla metà del secolo allorché ci si cominciò a interrogare sulla validità di quelle conversioni affrettate e spettacolari, celebrate nelle fonti francescane da bilanci trionfalistici. Le prospettive escatologiche che avevano ispirato i battesimi di massa, l’urgenza delle conversioni sotto l’incalzare della fine dei tempi scomparvero dall’orizzonte di pensiero dei missionari e, grazie ai gesuiti, si affermò un nuovo modello di conversione entro il quale la distanza tra culture del tutto differenti era colmata da strategie più graduali e raffinate.

L’esperienza missionaria sviluppata nell’incontro con le antiche civiltà della Cina e del Giappone o tra i «selvaggi» d’America fu di enorme importanza per l’attività dei gesuiti in Europa. La propaganda abilmente orchestrata dagli stessi vertici dell’ordine attraverso la diffusione e la stampa di lettere e relazioni provenienti dalle missioni extraeuropee finì per alimentare un entusiasmo che fu dirottato dai superiori della Compagnia verso terre più vicine: le campagne del Mezzogiorno, le isole di Corsica e Sardegna, le zone montagnose degli Appennini, le valli della Savoia. In queste aree che le fonti chiamavano otras Indias, le «Indie di qua», il compito della Chiesa alla fine del Cinquecento non si presentava più nella forma della lotta antiereticale come negli anni Sessanta, allorché i gesuiti (Cristoforo Rodriguez in Calabria, Niccolò Bobadilla in Valtellina, il Possevino in Savoia) avevano svolto azione di fiancheggiatori e collaboratori dell’Inquisizione nella repressione delle comunità valdesi e riformate. Il compito dei missionari si configurava ora come conquista spirituale del diverso, di culture e modi di vivere rimasti sino allora estranei alla penetrazione del cattolicesimo alla pari di quelli degli indios americani: in questo modo i gesuiti diedero un apporto fondamentale al grande progetto controriformistico di acculturazione e catechizzazione delle masse che avrebbe trovato il più alto momento di raccordo istituzionale nel 1622 con la fondazione della congregazione De propaganda fide, per mezzo della quale papa Gregorio XV centralizzava a Roma il controllo sull’attività dei missionari cattolici nel mondo.

Religione, cultura e controllo sociale

1. Conquista missionaria e acculturazione delle masse

Nella seconda metà del Cinquecento il controllo ecclesiastico sul laicato – controllo che, come si è visto, faceva capo a una pluralità di soggetti istituzionali e centri decisionali le cui linee d’intervento s’intrecciavano, si sovrapponevano, talvolta si scontravano – prese la forma di un vasto processo di acculturazione dei fedeli. In questo campo l’ordine dei gesuiti ebbe ruolo predominante per varietà dei metodi, diversificazione delle proposte, attenzione per i diversi livelli culturali e sociali dei destinatari dei messaggi.

In Cina e in Giappone i missionari avevano dovuto adattarsi a culture e riti elaborati da civiltà antiche e complesse: se in Giappone i gesuiti si fecero passare per bonzi buddisti, in Cina il gesuita Matteo Ricci, consapevole che qui i bonzi erano «in molto basso concetto», si presentò come letterato togliendosi la berretta da prete per indossarne una «assai stravagante, acuta come quella de’ vescovi per totalmente farmi China». La conquista delle élite giapponesi e cinesi si affiancava a quella dei ceti dominanti europei nei collegi e nelle università e a quella dei prìncipi di cui i gesuiti divennero confessori e direttori spirituali. A questi spazi d’intervento si aggiunsero i paesi dove si era diffusa la fede riformata: la Francia, la Germania, la Polonia e, più tardi, l’Austria, la Boemia, l’Ungheria e la Moravia. Negli anni Ottanta del Cinquecento l’ambizioso disegno diplomatico-religioso propugnato dal gesuita Antonio Possevino giungeva sino all’estremo Oriente europeo con il progetto di conversione della Moscovia.

Nei confronti dei rudes e dei semplici che popolavano il vasto mondo rurale delle «Indie di quaggiù», il compito dei gesuiti si presentò nelle forme sperimentate nelle missioni americane, cioè non come conquista spirituale di eretici, ma di «barbari» immersi in culture e credenze estranee al cattolicesimo. «Dubito che la maggior parte di quest’isola [...] non sia idolatra: perché ancora non ho incontrato sacerdote che sappia la forma non dico delli sette sacramenti della Chiesa, ma del sacramento dell’altare; non si conoscono dalli laici; tutto il giorno vanno alla foresta a zappar et guadagnar il vitto per li suoi figlioli et concubine. Non si possono dir l’offese che si fanno a Dio in quest’isola, per non havere chi l’insegna la via del Signore». Così scriveva il gesuita Silvestro Landini già nel 1553 in una lettera da Bastia in Corsica, fornendo l’immagine di un basso clero che a malapena si distingueva per costumi, ignoranza e povertà dal «popolo extraordinariamente rozzo» che non sapeva neppure «quanti dei ci fossero», ignaro oltre che delle norme morali e delle elementari verità della dottrina cristiana, persino dei gesti più familiari della devozione: «Interrogati del segno della croce, pochi lo facevano bene».

Estirpare l’idolatria, colmare l’ignoranza, cancellare le superstizioni, disciplinare i comportamenti: questo era il compito che si presentava di fronte a popolazioni in larga parte non alfabetizzate. Alla fine del Cinquecento i gesuiti non erano soli, ma ormai stabilmente affiancati dai cappuccini e dai membri degli antichi ordini regolari. Seguirono le congregazioni di sacerdoti tra cui i Pii Operai (1606) e la Congregazione dell’Assunta (1646), i lazzaristi di Vincenzo de’ Paoli e Giovanni Eudes, nati in Francia e diffusisi in Italia intorno alla metà del Seicento, sino ai passionisti e ai redentoristi di Alfonso Maria de’ Liguori nel primo Settecento. Ma sono soprattutto i gesuiti che tra Cinque e Seicento incarnano la figura del missionario, «un personaggio nuovo, carico di futuro, dalle molte facce – un intellettuale dalle molte abilità, esperto nell’arte della comunicazione (visiva, orale, a mezzo stampa), profeta, etnologo, cospiratore, spia, sovvertitore dell’ordine costituito, maestro dell’arte di impadronirsi delle coscienze e di dirigerle ai suoi fini – che non erano i fini di un egoistico trionfo personale, ma quelli del trionfo del regno di Dio» (A.Prosperi, Tribunali della coscienza).

C’erano diversi tipi di missioni e nel corso del tempo si sviluppò un dibattito tra i membri degli ordini su quale fosse il modello più appropriato. Di solito i padri «con pompa d’apparati e musica» richiamavano dai villaggi e dai borghi sparsi gli abitanti per radunarli all’aperto: venivano poi le confessioni, le prediche, l’insegnamento della dottrina cristiana, le processioni e le comunioni generali. Nel Seicento si perfezionò l’organizzazione teatrale e scenografica di questo lavoro di animazione. I fedeli erano gli spettatori che andavano commossi, intimoriti, affascinati e infine coinvolti sino a diventare gli attori di quelle manifestazioni collettive di fervore religioso di cui i gesuiti erano i sapienti registi, di quelle «scorrerie spirituali» durante le quali i padri della Compagnia «quasi cavalleggeri scorrendo qua e là attaccano il fuoco dello Spirito santo hora in questa parte, hora in quella».

Quando giungevano nei luoghi delle missioni, i gesuiti prendevano tra l’altro informazioni sui conflitti tra individui, famiglie, gruppi fazionari che dividevano la società locale. Il «componer pace» fu percepito dai membri della Compagnia come un aspetto importante del loro lavoro. Quella offerta dai gesuiti era una soluzione extragiudiziale (trovata cioè al di fuori delle aule dei tribunali) alle tensioni, alle vendette e alle faide che laceravano la società, consacrata da rituali di pacificazione che i missionari enfatizzavano con clamorose manifestazioni e cortei di riconciliazione e perdono. Nella società d’antico regime la composizione dei conflitti attraverso forme di giustizia «negoziata» era una pratica diffusa: sfruttando questo campo d’azione esistente al di fuori degli apparati giudiziari pubblici, i gesuiti seppero proporsi come figure arbitrali creando situazioni in cui alle ragioni della giustizia umana venivano a mescolarsi quelle della giustizia divina. Sul piano politico svolgevano così una funzione conservatrice dell’ordine sociale esistente; su quello antropologico, va sottolineata la loro capacità di creare spazi, momenti e linguaggi rituali attraverso i quali controllare e ricomporre le forze destabilizzanti operanti all’interno di una comunità.

Per risvegliare la devozione i gesuiti utilizzavano vari mezzi: manifesti propagandistici, immaginette e persino medaglie benedette, piccoli doni preziosi in un mondo materiale poverissimo, atti a convogliare una superstiziosa pietà oggettuale su un sacro «legittimo», volti a creare legami tangibili e duraturi tra una popolazione sino a quel momento semiabbandonata dalla Chiesa e quei religiosi apparsi per il breve spazio di tempo della missione. Per l’educazione del popolo, oltre alla predicazione, c’era l’insegnamento di orazioni e canzoni. Si diffondeva l’uso della corona del rosario cui era legato il radicamento delle devozioni mariane, cioè alla Vergine. L’opera d’indottrinamento si serviva anche di libri stampati come i catechismi che esponevano le verità cristiane fondamentali in forma di messaggi semplici e d’indiscutibili certezze. Nel 1587 usciva a Roma la Doctrina christiana nella quale si contengono li principali misteri della nostra fede rappresentati con figure per instruttione de gl’idioti et di quelli che non sanno leggere del gesuita Gian Battista Romano (o Eliano), il primo catechismo illustrato in volgare per analfabeti, dove il ruolo delle immagini era preponderante rispetto al testo. Nelle missioni in Piemonte il gesuita Antonio Possevino distribuiva a centinaia le copie del catechismo del confratello Pietro Canisio a sacerdoti e maestri di scuola perché a loro volta ne trasmettessero i contenuti ai fedeli. Più tardi, al Parvus catechismus del Canisio (1556) che fu tradotto in dodici lingue ed ebbe innumerevoli edizioni, si affiancarono il Catechismo romano (1566) voluto dal concilio di Trento e quello del gesuita Roberto Bellarmino (1597), diffuso soprattutto in Italia.

Le missioni sono solo un aspetto del progetto ecclesiastico di acculturazione di massa caratteristico della Controriforma: un aspetto senza dubbio importante, vista l’entità e la novità dei problemi posti dal mondo delle campagne che l’istituzione si trovò per la prima volta ad affrontare attraverso l’attività degli ordini religiosi. Un’azione, soprattutto, che si inserisce nel più vasto disegno di controllo e riorganizzazione condotto sul piano culturale, religioso e devozionale dalla Chiesa della Controriforma. I maestri di scuola come quelli del Monferrato cui il Possevino distribuiva il catechismo, dal 1564 erano obbligati a pronunciare una professione di fede nelle mani del vescovo che cancellasse ogni dubbio circa la loro ortodossia. Come ai contadini si insegnavano i fondamenti della fede attraverso orazioni e canzoncine che venivano poi recitate coralmente durante il lavoro nei campi, così nelle scuole della Dottrina cristiana diffusesi soprattutto nei centri urbani dopo la metà del secolo l’insegnamento a bambini e adulti avveniva attraverso filastrocche e «ariette». Recenti studi tendono a sottolineare come queste scuole fossero, più che luoghi di alfabetizzazione delle classi subalterne, occasioni di «un indottrinamento collettivo, ritualizzato e cantato», per mezzo del quale i testi erano «ascoltati e memorizzati, riconosciuti più che decifrati» (M.Roggero).

Ma l’elemento più importante è che l’apprendimento dei fondamenti della fede basato sulla memorizzazione di un corpo schematico di nozioni dottrinali e di preghiere trasmesso da mediatori specializzati e autorizzati finiva col sostituire, nell’età della Controriforma, qualcosa che ai fedeli digiuni di latino era stato tolto: l’accesso diretto alle fonti della Rivelazione attraverso la lettura della Bibbia in volgare, definitivamente proibita dall’Indice clementino del 1596. Un’interdizione che, oltre agli strati alfabetizzati, colpiva anche quella trasmissione orale (lettura ad alta voce, discussioni, predicazione) la cui forza di propagazione dei messaggi religiosi si era manifestata con tanta intensità nel primo Cinquecento. Il carattere sostitutivo dei manuali di dottrina cristiana, cioè dei catechismi, rispetto alla lettura della Bibbia emerge nelle osservazioni con cui nel 1596 il gesuita Antonio Possevino raccomandava a un parroco: «Procuri di havere un catechismo romano, di quei che hanno l’aggiunta del modo di applicare le materie di esso catechismo a gli Evangeli correnti, i quali in quel modo doverà il rettor tanto più dichiarare [cioè spiegare] in quanto l’haversi adesso dal Santo Officio dell’Inquisitione lievati gli Evangelii volgari (non senza giuste ragioni), si deve andare incontro al disgusto che molti n’hanno ricevuto con questa più sicura espositione».

Insieme con la Bibbia in volgare, l’Indice del 1596 aveva vietato una vastissima gamma di opere di argomento biblico: pericopi (ossia raccolte di brani della Scrittura inseriti nella liturgia della messa che servivano per seguirla e capirla), poesie, compendi, commenti e scritti di pietà ispirati ai Vangeli e alla vita di Cristo. La censura si era anche estesa a moltissimi testi devozionali o perché coinvolti nel divieto dei volgarizzamenti biblici o in quanto rientravano nelle regole e proibizioni generali aggiunte all’Indice, che nella loro genericità lasciavano ampi margini alla discrezionalità degli organi censori. Erano scritti guardati con sospetto per la pietà superstiziosa che potevano alimentare, come alcune litanie e orazioni di straordinaria diffusione che venivano recitate alla stregua di formule magiche, oppure erano manuali e trattatelli di argomento spirituale che ponevano l’accento sui valori interiori della religione, sull’importanza della «trasformazione di se stessi» e dell’imitazione dell’esempio di Cristo ai fini della salvezza.

Non si trattava di libri di autori eretici, importati clandestinamente dalle stamperie di Basilea, Amsterdam, Francoforte e Londra nascosti in «balle di mercantie» o arrotolati nei «fagotti» di «tele d’Olanda», ma di «libri catholici», come affermavano autori e promotori, e come ben sapevano i membri stessi del corpo ecclesiastico che si trovarono a difenderli dinanzi alle congregazioni dell’Indice e dell’Inquisizione in nome delle esigenze dei fedeli che li avevano utilizzati sino al giorno prima per loro «nutrimento spirituale». «L’essecutione di questo nuovo Indice a nessuno è stata più grave che alle monache et altre persone semplici, che restano private della maggior parte de libri volgari della Sacra Scrittura», scriveva il vescovo di Osimo e cardinale Tolomeo Galli a Roma dopo la promulgazione dell’Indice clementino.

L’aspetto più rilevante della censura esercitata nei confronti della letteratura devozionale e dei volgarizzamenti della Bibbia sta proprio in questo, nelle dimensioni e nel carattere «primario» delle esigenze culturali e religiose che colpì. Questa sottrazione di libri non riguardava élite colte o professionali, come era accaduto per le proibizioni concernenti le opere di magia «alta» o quelle teologiche, giuridiche, mediche, scientifiche; non deludeva solo l’amore e il gusto per la letteratura in volgare e per i grandi autori; non soffocava la riflessione politica di qualche intellettuale. Nel momento in cui la Bibbia veniva trattata da testo eterodosso e si privavano i «semplici» delle letture devote tradizionali, si chiudevano i canali attraverso i quali in passato avevano trovato soddisfazione la loro domanda di conoscenza, il bisogno di crescita spirituale e di costruzione di un rapporto con il sacro: occorreva quindi approntare altre risposte.

Queste furono i grandi apparati della pietà seicentesca e le pratiche devozionali esteriori e ritualizzate che essi proponevano; la riduzione della formazione del cattolico all’apprendimento di orazioni in latino e all’indottrinamento catechistico; la diffusione di una letteratura di argomento spirituale in volgare rigidamente controllata dall’autorità ecclesiastica. Risposte tassative provenivano d’altra parte dai centri decisionali romani. Al cardinale Giulio Antonio Santoro che lo aveva interpellato a nome dell’ordine religioso dei gesuati, i quali chiedevano se avessero potuto continuare a leggere le pericopi in volgare della Bibbia, papa Clemente VIII nel 1596, un mese dopo la promulgazione dell’Indice, pare rispondesse spazientito: «Dichino corone e rosari».

Nella prima metà del Cinquecento il problema della religione degli indotti era stato posto da intellettuali come Erasmo che aveva ridicolizzato le preghiere in latino ripetute pappagallescamente dai fedeli senza comprenderne il significato. Qualche tempo dopo il fiorentino Antonio Brucioli aveva presentato la sua traduzione in volgare del Nuovo Testamento ricordando come Cristo avesse parlato in un linguaggio facile e comprensibile: «Esclameranno forse alcuni essere cosa indegna che una donna o un calzolaio parli delle Sacre lettere e quelle intenda leggendo, quando [invece] è meglio intenderle in simplicità di cuore, che in elevazione di scienza umana». La Chiesa della Controriforma si pose il problema dell’educazione religiosa dei «semplici» e della lotta contro l’ignoranza e la superstizione sviluppando la propria azione su scala vastissima. Come è stato efficacemente notato, però, «altro era offrire al popolo degli illetterati la Bibbia in volgare» come aveva auspicato Erasmo e aveva fatto il Brucioli, «altro regalargli canzonette» (A.Prosperi, Tribunali della coscienza).

2. Stregoneria, superstizioni e santità: il controllo di credenze e devozioni

I fascicoli processuali dell’Inquisizione rappresentano la fonte principale a disposizione dello storico per ricostruire l’incontro/scontro tra due culture, nel senso antropologico del termine: quella ecclesiastica e quella dei fedeli. A partire dagli anni Ottanta del Cinquecento, come si è detto, la maggior parte dei reati perseguiti dai tribunali inquisitoriali riguardava non più eretici in senso stretto, ma uomini e soprattutto donne immersi in un mondo di credenze e comportamenti definiti «superstiziosi». I giudici passarono così a occuparsi di tutte quelle pratiche, culti, devozioni e costruzioni culturali per mezzo dei quali gli individui intrattenevano autonomamente relazioni con il soprannaturale influenzati da culture arcaiche che sfuggivano al tentativo di clericalizzazione del rapporto con il sacro messo in atto dalle autorità ecclesiastiche.

Questo allargamento delle competenze dell’Inquisizione fu sancito da due bolle dell’ex inquisitore Sisto V, la Coeli et terrae creator del 5 gennaio 1586 che condannava la magia e l’Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1587 che confermava la giurisdizione della congregazione del Sant’Uffizio su ogni reato contro la fede, in un’accezione del termine molto vasta nella quale rientravano, oltre all’eresia manifesta, l’apostasia (di cui erano imputabili le streghe che stringevano patti con il diavolo), la magia, i sortilegi, le divinazioni e gli abusi di sacramenti (cioè l’uso improprio e superstizioso di cose e riti sacri). Va comunque ricordato che anche i vescovi avevano competenza giurisdizionale in materia di malefici e superstizioni, e quindi ai processi inquisitoriali è possibile affiancare le serie di processi criminali celebrati dinanzi all’ordinario: tra le repressioni più dure nel secondo Cinquecento vi furono quelle contro le streghe di Lecco e della Valle Mesolcina, condotte da Carlo Borromeo arcivescovo di Milano.

La dottrina cristiana della stregoneria fondata sul patto con il diavolo si era formata, sul piano teologico e giuridico, attraverso una tradizione plurisecolare che risaliva ai padri della Chiesa e si richiamava al testo biblico. Allorché si trovarono dinanzi imputati che confessavano credenze e pratiche derivanti da culture arcaiche tramandate dalla tradizione folklorica, i giudici ecclesiastici si comportarono come cattivi antropologi, snaturando i racconti che ascoltavano in base alla propria cultura di uomini di Chiesa. È il caso dei «benandanti», nome attribuito in Friuli a coloro che erano nati «con la camicia», ovvero avvolti nella placenta. «Io sonno benandante perché vo con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè le quattro tempora, di notte, invisibilmente con lo spirito, et resta il corpo; et noi andiamo in favor di Christo, et li strigoni del diavolo, combattendo l’un contro l’altro, noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo», affermò uno di questi, Battista Moduco, detto «Gamba secura», dinanzi all’inquisitore sconcertato, spiegando il motivo di quei convegni notturni: «Nel combattere che facciamo, una volta combattiamo il formento con tutti li grasami, un’altra volta li minuti, alle volte li vini: et così in quattro volte si combatte tutti li frutti della terra, et quello che vien vinto da benandanti quell’anno è abbondanza». Tra Cinque e Seicento dinanzi al tribunale dell’Inquisizione di Udine furono celebrati molti processi al termine dei quali i giudici, superate le iniziali perplessità, condannarono i benandanti come stregoni, operando un’evidente riduzione di credenze e comportamenti «diversi», in questo caso un antico rito della fertilità, al paradigma interpretativo dei rappresentanti della cultura egemone che conducevano gli interrogatori.

La caccia alle streghe è un dato comune a molte società: nel Cinque e Seicento essa conobbe picchi altissimi in Europa e fu particolarmente feroce là dove il reato di stregoneria era di competenza non dei tribunali ecclesiastici, ma di quelli laici, come in Germania, in Francia, in Inghilterra e persino nelle colonie americane. Per individuare i criteri ispiratori delle autorità romane verso il fenomeno nell’età della Controriforma, gli storici si sono rivolti ai manuali degli inquisitori elaborati nell’ambiente del Sant’Uffizio e dai giudici locali, manuali nei quali trovava espressione una certa diffidenza verso la realtà di alcuni aspetti costitutivi della stregoneria come il volo delle streghe e la partecipazione al rito del sabba (la festa orgiastica notturna con il diavolo). Il medesimo atteggiamento era condiviso dall’Inquisizione spagnola.

Punto d’arrivo di tale orientamento fu l’Instructio pro formandis processibus in causis strigum et maleficiorum, redatta da un autorevole personaggio della curia romana, l’inquisitore domenicano, commissario del Sant’Uffizio e infine cardinale Desiderio Scaglia. L’opera cominciò a circolare nei vari tribunali manoscritta e anonima a partire dal 1624, fu inserita nella seconda edizione del famoso Sacro Arsenale dell’inquisitore Eliseo Masini (1625) e, successivamente, in altri manuali sino a essere pubblicata in forma autonoma nel 1657. Destinata ai vescovi e agli inquisitori, l’Instructio non elaborava definizioni teologiche della stregoneria, ma forniva indicazioni di carattere procedurale per la conduzione delle inchieste e dei processi, richiamando i giudici periferici all’osservanza di regole precise a fronte degli eccessi verificatisi nelle varie sedi locali: obbligo di consultare i medici per stabilire le eventuali cause naturali dei delitti (specie dei presunti omicidi attribuiti alle streghe), divieto di condanna senza prove sufficienti (il corpus delicti), divieto di estorcere confessioni con un uso improprio della tortura e degli interrogatori, di considerare valida la testimonianza di streghe contro altre streghe.

Occorre tuttavia ricordare che le posizioni riflesse nei manuali e nelle disposizioni emanate da Roma non rendono conto della varietà di atteggiamenti con cui il problema fu affrontato nei tribunali ecclesiastici periferici: molti giudici erano convinti di avere a che fare con forze demoniache e agirono di conseguenza. «Bisognerà che ella crepi o dica la verità», affermava un vicario dell’Inquisizione di Pisa prima di sottoporre a tortura una vedova cinquantenne di cui si raccontavano gli incantesimi e le metamorfosi in gatta.

La cautela del Sant’Uffizio verso i fenomeni di stregoneria che emerge dai manuali inquisitoriali e dai frequenti interventi romani volti a frenare gli eccessi di vescovi e inquisitori locali risulta spiegabile se si considera come la lotta alle streghe fosse un aspetto della più vasta opera di controllo sociale messa in atto dalla Chiesa. Le accuse di operare malefici erano spesso frutto di interpretazioni della realtà provenienti, ancor prima che dai giudici ecclesiastici, dalla stessa società e, quindi, andavano a loro volta sorvegliate e contenute. La linea di confine tra stregoneria e pratiche superstiziose non malefiche era infatti labile e sfocata: la donna che godeva della fiducia della comunità per le sue capacità terapeutiche e per l’abilità a manipolare qualche sostanza, poteva facilmente venire accusata da quella stessa comunità di essere una strega dotata di poteri diabolici e la responsabile di morti e malattie. Inoltre, grazie ai confessori e a un clero sempre più diffuso sul territorio, la capacità di ascolto delle autorità ecclesiastiche era enormemente cresciuta e i canali che, attraverso denunzie e autodenunzie, conducevano i fedeli davanti ai tribunali inquisitoriali, erano ormai costruiti e consolidati. La lotta al mondo delle superstizioni e a uno scorretto rapporto con il sacro, intrapresa per mezzo di un apparato di controllo abbastanza efficiente, rovesciò davanti ai giudici una massa di confessioni, accuse e racconti nei quali trovava espressione un disordine sociale che richiedeva di essere affrontato non con persecuzioni massicce, ma attraverso l’accertamento, l’isolamento e la rieducazione. Dinanzi alle deviazioni di tante «donnicciole e hominucci», i giudici finirono spesso col comminare pene lievi, rinviando gli imputati alle cure dei confessori, oppure preferirono evitare di formalizzare le inchieste in processi, sistemando le cose con il minor clamore possibile.

La consapevolezza degli alti livelli della gerarchia ecclesiastica di avere a che fare non con pericolose sette, ma con le innumerevoli trasgressioni di una società che ricorreva alle pratiche magiche per soddisfare esigenze molto umane e concrete, si rifletteva nelle osservazioni con cui nel 1581 il nunzio a Venezia Alberto Bolognetti commentava l’attività del tribunale inquisitoriale locale: «Adoratione di demoni, orationi et suffumigi di storace d’incenso, di zolfo, d’assa fetida et altri così buoni come tristi odori», secondo il nunzio, «non venivano da inclinatione che si havesse all’eresia», ma erano ispirati da «quei duoi fini, cioè d’amore e di guadagni, che tanto possono negl’huomini vani». La ricca documentazione dell’Inquisizione veneziana è, a questo proposito, significativa. Le tante donne che a partire dal tardo Cinquecento comparvero dinanzi ai giudici non andavano al sabba, frequentavano la messa pregando Dio, la Madonna e i santi, ma nello stesso tempo invocavano il diavolo «per ottenir dalli amanti ogni suo contento» facendo incetta di reliquie e oggetti benedetti che utilizzavano in riti superstiziosi. Incorrevano nel reato di abuso di sacramenti perché, ad esempio, trafugavano dalla chiesa l’«olio della Cresma benedetto» per spalmarselo sulle labbra e sotto gli occhi, essendo «bono da farsi voler bene dalli morosi».

Nel 1584 il tribunale dell’Inquisizione di Venezia interrogò la diciannovenne Giulia, figlia di un artigiano, da qualche tempo abbandonata da un mercante greco con il quale aveva convissuto. Quando era ancora «putta pizzenina», un giorno Giulia era stata fatta inginocchiare con una candela benedetta in mano e indotta a scrutare dentro una caraffa di vetro piena d’acqua santa sul cui fondo era stata posta «una vera benedetta d’oro di donna maridata» perché scoprisse dove si trovava un oggetto rubato. Aveva allora pronunciato anche la preghiera all’angelo («Angelo biancho, angelo santo, per la tua santità et la mia virginità fammi vedere il vero e la verità»): si trattava del rito dell’«anguistara» o «ingestara» (caraffa), in quegli anni puntualmente descritto e condannato nei manuali inquisitoriali, che richiedeva la presenza di una vergine, l’uso illecito di oggetti benedetti e la recita di preghiere proibite. Giulia confessò di conoscere a memoria la preghiera di sant’Elena che, insieme con quelle di san Daniele e di santa Marta, rientrava tra le orazioni condannate dal Sant’Uffizio. Aveva fatto lo scongiuro notturno delle «stelle et trezze» sciogliendosi i capelli alla luce delle stelle per togliere il sonno all’amante che l’aveva abbandonata; si era rivolta al diffusissimo scongiuro della catena con invocazione di diavoli e anime dannate cui si ricorreva per «dare martello alli morosi» («che vada al cuore del tale che per me el non possa né caminare né scrivere né raggionare [...] che vada al cuore del tale et tanto battilo forte, che per mi el chiama la morte, tanto battilo e frustalo, che per mi el pianga e frusta»).

Dove aveva imparato Giulia tutte queste «ricette, sconzuri, strigarie»? Le aveva a sua volta insegnate ad altre donne? A questa domanda, agli occhi degli inquisitori si spalancò un fragile universo sociale e psicologico di relazioni femminili, di legami di parentela, frequentazione e solidarietà tra giovani donne che cambiavano spesso indirizzo o vivevano insieme, di vedove, malmaritate, ricamatrici, prostitute, padrone e vicine di casa. A Minia, «recamadora e cortesana», dalla quale Giulia aveva imparato lo «sconzuro della cadena», questo era stato insegnato da una certa Lauretta che frequentava la sua casa per aiutarla a ricamare: «Et lei cucciva, et io lavorava cordelle, et venissimo in questo raggionamento di farsi voler bene, et io li disse: ‘Di gratia, insegnami’, et lei m’insegnò». L’inchiesta fu chiusa senza che si giungesse a una sentenza ufficiale di condanna.

La repressione delle pratiche magiche e superstiziose (che nei diversi rami del sistema inquisitoriale spagnolo non raggiunse mai l’impegno dimostrato in questo campo dall’Inqui­sizione romana) costituisce, quindi, un ulteriore aspetto del tentativo controriformistico di controllo delle devozioni fondato sulla netta separazione tra chierici e laici e sul rafforzamento del ruolo dei primi come unici tutori autorizzati nella gestione del rapporto con il sacro. Importanza crescente entro tale processo acquistarono gli esorcisti. Incarnata da rappresentanti del clero secolare o regolare, spesso coincidente con quella del confessore e del direttore spirituale, quella dell’esorcista era una figura complessa il cui potere si fondava sulla convinzione che le forze diaboliche fossero costantemente operanti nella società, nei corpi e nelle anime dei fedeli e, in particolare, delle donne, monache e laiche. Diversamente dai cardinali romani e dalle alte gerarchie ecclesiastiche, gli esorcisti erano immersi nella vita religiosa e nelle realtà sociali locali. Le loro conoscenze si trovavano all’incrocio tra vari saperi: magia, medicina e religione. Il loro ruolo nella società interferiva con quello del medico, della guaritrice, della fattucchiera. Le loro pratiche terapeutiche (quali erbe e suffumigi), i rituali magici e le formule di scongiuro non erano facilmente distinguibili da quelli giudicati illeciti. Erano a volte personaggi scomodi, la cui attività finiva con il rafforzare quelle stesse credenze magico-diaboliche che la lotta ecclesiastica alle superstizioni cercava di sradicare. Talvolta finirono anche loro dinanzi ai tribunali dell’Inquisizione.

La figura dell’esorcista è di grande interesse proprio perché emblematica delle difficoltà e dei complessi problemi che i superiori, a livello centrale e locale, dovettero affrontare oltre che nel controllo della società, persino nella gestione della rete di mediatori ecclesiastici che, dal basso e sul territorio, dovevano attuare quel controllo. Nel 1624, ad esempio, il teatino Geminiano Mazzoni presentò un memoriale all’inquisitore domenicano di Modena che diede l’avvio a un processo – seguito da Roma con grande attenzione – contro lo stesso Mazzoni, confessore ed esorcista, e contro un gruppo di donne, in parte orsoline, di cui egli era direttore spirituale. Le deposizioni rivelarono all’inquisitore allibito come ormai da un quindicennio a Modena, «piccola capitale della Controriforma», un gruppo di ecclesiastici si dedicasse alla liberazione delle possedute dal diavolo insediato nella loro «natura» e in altre parti del corpo, come gli spiriti venissero stanati attraverso pressioni delle mani e dei genitali degli uomini di Chiesa e «soffiamenti» negli orifizi delle indemoniate (G. Romeo, Esorcisti, confessori e sessualità femminile). Tutto ciò poteva addirittura svolgersi in chiesa all’interno del confessionale. Dagli interrogatori emerse anche un collegamento con la corte estense e la misteriosa infermità della duchessa di Modena. Nel 1615 Virginia de’ Medici, moglie di Cesare d’Este e sorellastra di Ferdinando I granduca di Toscana, era morta al termine di una lunga serie di disturbi che oggi si definirebbero come psico-fisiologici, per i quali si erano avvicendati al suo capezzale medici ed esorcisti. La «malattia di Stato», seguita con apprensione dalle corti e dalle diplomazie fiorentina e modenese, era stata a un certo punto, forse, curata con le stesse «delicate manipolazioni» sul corpo della duchessa cui nel frattempo venivano sottoposte le suddite modenesi dal loro confessore.

Quando Mazzoni si presentò spontaneamente davanti agli inquisitori (e questo è uno degli aspetti più interessanti del caso, che si concluse per il teatino con una severa condanna) era fermamente convinto della legittimità ­delle audaci tecniche antidiaboliche per mezzo delle quali era solito intervenire sui corpi delle possedute. Come lui, a partire dal tardo Cinquecento, «migliaia di uomini di Chiesa» legittimati dai manuali d’arte esorcistica e «protetti dal comodo paravento dell’influenza diabolica, si dedica[ro]no alla diagnosi e alla cura di un numero imprecisabile di disturbi» (G. Romeo) emergenti soprattutto dall’universo femminile. Il caso di Geminiano Mazzoni è un esempio di come, nel momento in cui la Chiesa screditava credenze, pratiche, conoscenze (e le figure che precedentemente le gestivano quali medici e guaritrici), l’uniformità di questo grande tentativo di controllo rischiasse costantemente di frantumarsi e di essere stravolta nelle situazioni locali a contatto con le dinamiche complesse della vita religiosa, con i conflitti e le resistenze del sociale, con le inquietudini provenienti dal mondo femminile.

A partire dal tardo Cinquecento, parallelamente a quello delle superstizioni, i poteri ecclesiastici affrontarono il problema della santità, un altro campo d’esperienza di cruciale importanza per la definizione del rapporto tra la società e il sacro. Non si trattò solo di dare una risposta da parte cattolica alla Riforma e al suo attacco al culto dei santi, ma soprattutto di organizzare nel lungo periodo il disciplinamento di un aspetto fondamentale della vita religiosa, attraverso un duplice processo di repressione delle deviazioni e di definizione di modelli approvati di santità, che fu contemporaneamente gestito dal papato e dall’Inquisizione.

Nell’ultimo quarto del Cinquecento, la santità «simulata» o «affettata» di quanti aspiravano ad un rapporto individuale ed eccezionale con il soprannaturale diventò materia trattata dai tribunali dell’Inquisizione: negli anni Trenta del Seicento, la finzione di santità era argomento consolidato nei manuali inquisitoriali. Nel frattempo, la Chiesa portava a compimento il processo di definizione della santità legittima e tracciava i modi e le procedure attraverso cui consolidò il proprio monopolio sulla «fabbrica dei santi». Gli interventi normativi di Urbano VIII nel 1625 e nel 1634 delinearono rigorosamente le «vie legali alla santità», fissando i criteri e le regole del processo di beatificazione e di quello di canonizzazione, proibendo il culto pubblico di uomini e donne morti in odore di santità prima della formale approvazione della Santa Sede e vietando di tributare forme pubbliche di venerazione a personaggi viventi.

Sul piano istituzionale, la competenza su questa materia era stata attribuita da Sisto V nel 1588 alla congregazione dei Riti ma, almeno sino agli anni Trenta del Seicento, fu il Sant’Uffizio a occuparsi – oltre che della persecuzione dei falsi santi – dell’approvazione degli altri. Anche in seguito i cardinali inquisitori mantennero su tale questione importanti raccordi istituzionali con la congregazione dei Riti. Entrambi i processi (di beatificazione, che autorizzava il culto, e di canonizzazione, che sanciva il riconoscimento ufficiale della santità da parte della Chiesa) avevano carattere inquisitorio, ed erano volti all’indagine sulla vita e all’accertamento dei miracoli del candidato, di cui veniva valutata anche l’ortodossia degli scritti. Figura centrale nei processi di canonizzazione era quella dell’accusatore o «avvocato del diavolo»: prendeva così forma, attraverso una procedura di carattere giudiziario che ricorda le forme del processo criminale, un modello di santità imposto dall’alto.

Per cogliere l’importanza di queste trasformazioni occorre ricordare come la promozione di un santo fosse – oltre che una manifestazione della sensibilità religiosa – anche il risultato di pressioni e interessi locali. Il riconoscimento della santità di uno dei suoi membri poteva aumentare il prestigio sociale di una famiglia. L’istituzione di un santo patrono era in grado di rafforzare l’identità di una città, di un ordine religioso, di un gruppo professionale o di una fazione politica. Nelle corti padane del primo Cinquecento i prìncipi si contendevano le «sante vive» e «pie consigliere» con doti profetiche (G. Zarri, Le sante vive), utili alla fondazione di culti dinastici che legittimavano il loro potere. L’accentramento romano delle procedure di canonizzazione condusse a una severa sorveglianza su tutti questi culti particolari, sancendo tra l’altro, anche in tale materia, la subordinazione della Chiesa locale, ossia del vescovo, al controllo romano.

Grande attenzione fu prestata ai canali di diffusione di culti e devozioni quali immaginette, libri a stampa (specie biografie), reliquie e altri «pericolosi» veicoli di un’idea del sacro non approvata da Roma. Vittime di questo vasto processo di controllo sulle aspirazioni alla santità furono soprattutto le donne, in particolare quelle monache delle quali nel suo manuale il cardinale inquisitore Desiderio Scaglia, erede di tutta una tradizione di misoginia ecclesiastica che riprese vigore in quel periodo, scriveva come «per levità di cervello o per finzione causata da vanagloria d’essere stimate sante... e talvolta per illusione [diabolica] dicono d’haver rivelazioni da Dio». Ilusas era l’appellativo che le designava in Spagna, dove, tra Cinque e Seicento, fiorì il fenomeno delle beatas, donne aspiranti alla santità e votate a Dio ma non legate da vincoli monastici, che furono perseguitate dai tribunali della Suprema. Sospese tra «illusioni diaboliche e divine rivelationi», circondate dal sospetto di muoversi per «concupiscenza e carnalità ... sotto pretesto di rivelazioni», confinate dietro le solide grate della clausura, costrette a filtrare i loro messaggi religiosi attraverso la mediazione dei direttori spirituali che ne scrivevano le biografie e le visioni, pericolosamente in bilico tra il riconoscimento della santità e la condanna per eresia, stregoneria e finzione, piegate a un modello clericale di santità allorché riuscivano a raggiungere gli onori degli altari: queste erano nell’età della Controriforma le condizioni in cui è dato d’incontrare le eredi di una rigogliosa tradizione di santità femminile. Nonostante gran parte di queste esperienze spirituali venissero prontamente isolate, soffocate e addomesticate, la vita religiosa seicentesca continuò a essere affollata di eccezionali esperienze femminili e di vicende di direzione spirituale tra confessore e penitente sulle quali Inquisizione e superiori ecclesiastici dovettero intervenire drasticamente per ridurre all’obbedienza.

3. Il controllo dei comportamenti

Nella vita in società, i «riti di passaggio» accompagnano i cambiamenti di stato fondamentali per l’uomo quali nascita, matrimonio e morte. Nei modi in cui una data cultura costruisce sistemi di significato intorno a questi momenti cruciali si riflettono le forme della rappresentazione e autorappresentazione dell’individuo, la distribuzione di ruoli e responsabilità della comunità nei suoi confronti, la concezione che essa ha della vita e della morte. Il concilio di Trento aveva fissato i sacramenti nel numero di sette, ne aveva ribadito il significato di «segni efficaci della grazia», cioè il valore salvifico per il fedele, aveva stabilito regole per la loro celebrazione e il ruolo indispensabile del sacerdote che li amministrava. I decreti tridentini non si limitarono a prendere posizione contro la dottrina di Lutero (che ammetteva solo battesimo ed eucaristia), ma posero le basi normative per l’intervento della Chiesa nei riti di passaggio in direzione della loro clericalizzazione.

Non fu un’operazione pacifica né facile e spesso l’imposizione di forme rituali rigidamente definite e controllate dal mondo ecclesiastico entrò in conflitto con pratiche sociali consolidate. I festeggiamenti per celebrare, con il battesimo, l’ingresso del nuovo individuo nella società dei viventi erano per il clan familiare un’occasione per suggellare alleanze strette attraverso l’istituto del comparatico, cioè la scelta dei padrini. Per valutare il peso della «nuova parentela» così fondata, basti ricordare che secondo il diritto canonico il rapporto di padrinato costituiva un impedimento al matrimonio tra coloro che ne erano legati. L’autorità ecclesiastica intervenne limitando il numero dei padrini, fissando requisiti per la loro ammissione (età e istruzione religiosa), riducendo il lungo periodo solitamente intercorrente tra nascita biologica e nascita spirituale.

Analogamente la Chiesa intervenne per modificare le regole sociali del lutto e i riti funebri, trasformando in modo sostanziale e duraturo il legame tra i vivi e i morti, ossia le forme entro cui la società dei vivi e quella dei morti erano in contatto tra loro. I missionari gesuiti inviati nel 1627 in una valle del Canton Ticino descrivevano i seguenti riti funebri: «Quando portano il morto fuori di casa, accendono un puoco di paglia e gridano per le strade: ‘Dove va il corpo, vada anche lo spirito’ [...]. Vanno al luogo del defonto, gionti pigliano la testa in mano e cominciano a piangere dirottamente, con tanti gridi che è cosa da ridere. Tengono tutti i morti esposti in cataste e le teste in certe cassette, e ben spesso vanno le donne, le pigliano, le lavano e poi si mettono a gridare che paiono pazze». I missionari gesuiti dirottarono questa antica espressione del rapporto tra vivi e morti verso la pratica del suffragio, cioè la recita di preghiere e messe per l’anima dei defunti.

Effetti straordinari in ordine al controllo dei comportamenti sociali e morali furono quelli seguiti al decreto conciliare Tametsi sulla riforma del matrimonio emanato dopo accese discussioni nel 1563. Il rilievo sociale del matrimonio era enorme: a esso erano legati l’assegnazione dei beni dotali, la trasmissione dell’eredità familiare, «la buona collocazione delle proprie risorse riproduttive, produttive e simboliche» (L.Ferrante). Il matrimonio pretridentino era soprattutto frutto di scelte e strategie familiari. Sino al concilio, per considerare un matrimonio giuridicamente valido (in grado di garantire legittimazione dei figli e trasmissione dei beni) era sufficiente che i due contraenti con l’accordo delle famiglie si scambiassero ad alta voce il consenso. In altri casi, specie se si trattava di coppie giovanissime, le parole scambiate avevano valore di promesse vincolanti per il futuro (sponsali): iniziava così un lungo periodo di fidanzamento durante il quale i due giovani potevano frequentarsi e avere rapporti sessuali sotto il tetto dei genitori. Costitutivi del rito nuziale erano considerati gesti simbolici come il bacio, il tocco della mano (tramandato in molte figurazioni medievali e rinascimentali dello sposalizio della Vergine), lo scambio di anelli o di piccoli doni. Molte vicende processuali mostrano come ancora nel Seicento, nelle aree rurali, questi gesti fossero percepiti come istitutivi del vincolo matrimoniale. Su queste pratiche sociali calarono le norme tridentine.

Insieme con il carattere sacro del matrimonio, il concilio stabilì, infatti, regole precise per la validità del vincolo: la cerimonia doveva avvenire dinanzi al parroco degli sposi, in presenza di due o tre testimoni, dopo che il parroco per tre giorni di festa consecutivi ne aveva fatto pubblico annuncio durante la messa solenne. Il parroco aveva anche il compito di conservare la memoria di quell’evento in appositi registri. «Fu sustituito che senza la presenza del prete, ogni matrimonio fosse nullo, cosa di somma esaltazione dell’ordine ecclesiastico poiché un’azione tanto principale nell’amministrazione politica ed economica che sino a quel tempo era stata in sola mano di chi toccava, veniva tutta sottoposta al clero»: Paolo Sarpi, storico del concilio e difensore delle prerogative statali in polemica con il papato, si rese perfettamente conto delle implicazioni politiche e sociali del controllo ecclesiastico in materia di matrimoni seguito ai provvedimenti tridentini. Secondo il servita veneziano, coloro cui in precedenza «toccava» quell’«azione» erano gli sposi e le famiglie, dal momento che sino al concilio i matrimoni erano contratti senza intervento del sacerdote: come è stato finemente notato, a Trento «si era perduta quella che potremmo chiamare la ‘laicità’ della tradizione nuziale italiana» (G. Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini).

Le situazioni di disordine sociale che la Chiesa dovette affrontare in questo campo erano multiformi e intricate: matrimoni clandestini cioè contratti in assenza di testimoni, semplicemente pronunciando parole di reciproco consenso, che permettevano alla coppia di sottrarsi al controllo delle parentele; diffuse situazioni di concubinato punite ora con la scomunica; matrimoni tra persone senza fissa dimora per celebrare i quali fu imposto ai parroci l’obbligo di raccogliere informazioni sui contraenti e di richiedere l’autorizzazione del vescovo. Queste situazioni davano luogo a infinite controversie: i matrimoni clandestini in particolare, difficilmente dimostrabili, erano facile strumento di seduzioni, inganni e abbandoni, rendevano possibile la bigamia, conducevano a mésalliances sgradite alle famiglie, causavano incertezze sulla prole nata da quell’unione.

Era un’area di rapporti difficili e ingarbugliati quella su cui l’autorità ecclesiastica nei paesi cattolici intervenne, arrogandosi ogni competenza a scapito delle autorità secolari: solo con la rivoluzione francese fu sancito il principio che lo stato civile degli uomini debba essere indipendente dalle loro opinioni religiose e dalla confessione cui aderiscono. Le controversie matrimoniali spettavano ai vescovi e ai loro tribunali, il reato di bigamia era giudicato dall’Inquisizione. Sono quindi le fonti diocesane che forniscono agli storici gran parte del materiale su questo argomento: oltre ai processi, la legislazione sinodale, i registri parrocchiali e le visite pastorali in occasione delle quali il vescovo o il suo vicario s’informavano sulla presenza di concubini tra i fedeli della parrocchia. I provvedimenti tridentini sul matrimonio assicurarono all’autorità ecclesiastica un altro strumento per disciplinare la vita coniugale grazie al controllo degli impedimenti per consanguineità, ossia nel caso di legami di parentela tra gli sposi nei gradi proibiti dalla Chiesa. Le dispense in questa materia erano concesse da due grandi uffici romani, la Penitenziaria e, più tardi, la Dataria.

L’intervento dell’autorità ecclesiastica sui comportamenti sociali connessi al matrimonio condusse all’estensione del controllo clericale alla sfera dei «disordini» legati alla sessualità: meretricio, concubinato, rapporti prematrimoniali tra fidanzati. Questo allargamento del controllo in materia di comportamenti sessuali non è riducibile all’applicazione dei provvedimenti tridentini né fu realizzato esclusivamente sul piano giudiziario. Nessuna norma ecclesiastica, ad esempio, proibiva alla coppia di avere rapporti sessuali prima del matrimonio solenne, pratica diffusa e socialmente legittimata, tra l’altro, dall’istituto degli sponsali. Ciononostante, tra ostacoli e resistenze tenaci, la Chiesa riuscì a modificare i comportamenti e a radicare nella società nuovi modelli. I fedeli cominciarono a vedere «difetti e peccati individuali» là dove «si trovavano riti e costumi profondamente radicati nella vita sociale», a «invocare una causa ‘naturale’ – in genere, la concupiscenza dell’uomo, oppure la debolezza della donna o altro ancora – per spiegare dei comportamenti che invece obbedivano a un preciso codice sociale», a leggere come «disordine» ciò che in realtà era «un ordine antico» (A. Prosperi, Tribunali della coscienza). Cominciarono a sentirsi colpevoli verso ciò che prima era accettato, legittimo o tollerato.

La predicazione, l’attività missionaria, la diffusione di una trattatistica di carattere pedagogico sulla famiglia e sulla donna, ma soprattutto la pratica della confessione contribuirono a questa trasformazione. Tra Cinque e Seicento, «l’inasprimento repressivo che si accompagna al riordinamento delle esperienze sessuali e matrimoniali va di pari passo con l’intensificazione dei controlli sulla sessualità femminile da parte dei confessori» (G. Romeo, Esorcisti, confessori e sessualità femminile), condotti per mezzo di domande puntuali e minuziose rivolte a penitenti di qualsiasi condizione, anche regolarmente maritate. L’accresciuto controllo della Chiesa su tali aspetti del sociale si complicò, anche in questo caso, nell’esigenza di controllo degli stessi mediatori ecclesiastici. Di qui la definizione di un nuovo reato la cui competenza fu attribuita ai tribunali inquisitoriali: la sollicitatio ad turpia, cioè l’adescamento dei penitenti da parte del sacerdote durante la confessione. Le severe pene previste contro gli ecclesiastici, la rilevante quantità dei casi giudicati dai tribunali inquisitoriali romani e spagnoli, il fatto che gran parte di questi casi riguardasse proposte sessuali fatte alle donne, indicano la volontà di tutela di una pratica sacramentale che aveva gettato radici profonde in questa componente della società. A partire dalla fine del Cinquecento l’ingresso del mondo femminile e dei suoi problemi nello spazio d’ascolto e di controllo clericale costituito dalla confessione condusse a una sorta di «femminilizzazione» della vita religiosa: la nascita e la diffusione nelle chiese del confessionale, il mobile che separa confessore e penitente, avvennero all’interno di tale evoluzione.

Il controllo sulla sessualità perseguito dagli ecclesiastici nell’intimità del confessionale appare coerente con l’attività degli inquisitori che punivano i riti d’amore superstiziosi e individuavano pulsioni erotiche dietro le esperienze di santità femminile, dei vescovi che disciplinavano la vita matrimoniale, degli apparati censori che misero all’Indice come «oscene» gran parte delle opere letterarie in volgare e auspicarono la promulgazione di un Indice delle immagini proibite, avendo di mira soprattutto le raffigurazioni «lascive». Ormai non si trattava più di combattere l’eresia dottrinale: questo grande sforzo repressivo riflette semmai l’immagine di una gerarchia ecclesiastica impegnata, attraverso una molteplicità di soggetti istituzionali, all’elaborazione di linee d’intervento e sistemi di controllo indirizzati a ridurre i comportamenti «inordinati» della società a comportamenti «disciplinati» in base a una morale religiosa essenzialmente fondata sul concetto di obbedienza.

Conclusioni

Nel 1593 il calvinista Enrico di Borbone, erede legittimo al trono di Francia, si convertiva al cattolicesimo: cessate le guerre di religione, iniziava la grande opera di ricostruzione di re Enrico IV (1594). Nel 1595 Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605) concedeva l’assoluzione e riconosceva ufficialmente il sovrano che dieci anni prima (1585) Sisto V aveva dichiarato eretico. Nella questione del riconoscimento del Borbone il papato rivestì un ruolo di primaria grandezza sulla scena europea. Tre anni più tardi lo Stato pontificio s’ingrandiva con la cessione di Ferrara per diritto di devoluzione in seguito alla morte di Alfonso II d’Este senza eredi legittimi, cui nel 1631 si sarebbe aggiunto, per estinzione della famiglia della Rovere, il recupero di un altro vasto feudo papale, il ducato di Urbino.

Nel 1605 si apriva la contesa dell’Interdetto tra Paolo V e Venezia. La Repubblica aveva arrestato due preti macchiatisi di reati comuni: il papa ne pretese la consegna ai tribunali ecclesiastici, insieme con l’abrogazione di due leggi recenti della Serenissima che vietavano la costruzione di chiese e «luoghi pii» e l’alienazione di beni immobili a ecclesiastici senza previa autorizzazione del Senato. All’avvio del conflitto con Roma emerse la divisione interna al patriziato veneziano che negli ultimi anni si era polarizzata negli opposti schieramenti dei «vecchi» e dei «giovani»: i primi, legati alla Santa Sede da solidarietà d’interessi, fautori di una politica di neutralità e artefici dell’accentramento oligarchico entro le istituzioni repubblicane; i secondi, favorevoli a un rilancio di Venezia sulla scena internazionale basato sulla tenace difesa delle prerogative giurisdizionali dello Stato contro la Santa Sede, sull’opposizione alla supremazia spagnola nella penisola, sull’apertura verso la Francia di Enrico IV e i paesi riformati nemici della Spagna come le Province Unite d’Olanda, l’Inghilterra, gli Stati protestanti tedeschi. Al rifiuto veneziano di consegnare gli imputati, il 17 aprile 1606 il papa fulminò la scomunica contro il governo e l’Interdetto che proibiva ogni funzione religiosa nel territorio della Repubblica. Mentre teatini, gesuiti e cappuccini abbandonavano il Dominio per obbedire al papa, il doge Leonardo Donà rispose alle ritorsioni spirituali del pontefice con una protesta ufficiale redatta dal consultore in iure (ossia teologo-canonista al servizio dello Stato) Paolo Sarpi. Il braccio di ferro tra Paolo V e la Repubblica durò quasi un anno: non fu una mera schermaglia diplomatica, poiché la guerra delle «scritture» tra i contendenti diede all’evento risonanza in tutta Europa e mobilitò contro i teologi veneziani i massimi esponenti della cultura ecclesiastica della Controriforma, tra cui i cardinali Baronio e Bellarmino. Sotto la penna del Sarpi, nel frattempo, la contesa si allargava dal problema delle libertà ecclesiastiche alla denuncia della tirannia del «totato», termine con il quale il consultore qualificava il papato. Solo nel 1607, con la mediazione di re Enrico IV, si giunse a un accordo: i due sacerdoti incriminati furono consegnati alla Francia e da questa al papa, ma la Repubblica non abrogò le sue leggi né rinunciò a esercitare la propria giurisdizione sul clero. Negli anni successivi furono frustrate le speranze che il Sarpi aveva riposto nella riforma religiosa della società e nella creazione di una Chiesa nazionale – secondo una concezione che aveva profonde radici nella tradizione politico-culturale veneziana – e fallirono i suoi tentativi di spezzare l’egemonia romana e spagnola coinvolgendo le potenze europee.

Un conflitto politico-religioso di dimensione europea sarebbe comunque divampato di lì a poco. Nel 1618 a seguito della ribellione boema iniziava la guerra dei Trent’anni che già nel 1620, alla Montagna Bianca, vedeva la disfatta del calvinista Federico V del Palatinato, «re d’inverno» della Boemia, e la vittoria delle armate asburgiche e cattoliche finanziate largamente da Roma. Mentre la ricattolicizzazione delle città ungheresi, boeme e germaniche avanzava al seguito delle truppe imperiali grazie all’opera dei gesuiti, Gregorio XV Ludovisi (1621-1623) creava la congregazione De propaganda fide interpretando sul piano istituzionale il rafforzamento dell’ideale espansionistico romano e le rinvigorite speranze della Santa Sede nel recupero di ciò che aveva perso in Germania. Il dono al pontefice della splendida Biblioteca Palatina di Heidelberg, capitale del Palatinato sconfitto, rappresentò allora un evento di grande valore simbolico. Contemporaneamente si celebravano le canonizzazioni che proclamarono santi i recenti protagonisti della storia della Chiesa della Controriforma: Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Teresa d’Avila, Francesco Saverio e Pietro d’Alcantara (1622).

Nel 1623 con il nome di Urbano VIII ascendeva al sacro soglio Maffeo Barberini, destinato a governare per oltre un ventennio. Utopie e speranze ireniche cominciarono a convergere intorno al nuovo papa e ai suoi orientamenti filofrancesi. Al di fuori delle grandi istituzioni controriformistiche controllate dai gesuiti, sotto la protezione di cardinali e autorevoli curiali fiorirono le accademie romane come quella dei Lincei patrocinata dal principe Federico Cesi, preclusa per statuto ai membri degli ordini regolari, con la sua biblioteca, l’attività editoriale e gli interessi nel campo della filosofia naturale, che nel 1623 dedicava a Urbano VIII Il saggiatore del «nostro» Galilei. Nella Roma barberiniana degli anni Venti artisti e letterati francesi, scozzesi, tedeschi e italiani, arditi mecenati, filosofi «novatori», critici verso il primato dei teologi e dell’aristotelismo, si incrociarono sotto l’indulgente protezione della curia, mentre gli orizzonti politici, religiosi e culturali della Controriforma si complicavano aprendosi a influenze di respiro europeo. Ma tali orizzonti furono anche pronti a richiudersi per intervento del Sant’Uffizio, non appena dalle nuove tendenze intellettuali venisse messo in discussione il fondamento autoritario su cui si basavano l’edificio ecclesiastico e il primato papale. Nel 1624, in piazza della Minerva, con una macabra e solenne cerimonia si concluse il processo a Marco Antonio De Dominis, morto tre mesi prima: dopo la sentenza la salma, i libri e la sua effigie furono portati in corteo in Campo dei Fiori per il rogo. La condanna per eresia dell’ex arcivescovo di Spalato – protagonista di una tortuosa vicenda esistenziale scandita da abiure e conversioni tra paesi riformati, corte inglese e curia romana – ne colpiva questa volta la visione ecclesiologica e la proposta irenica di riduzione dei dogmi a pochi articoli fondamentali comuni a cattolici e protestanti, il che avrebbe significato ammettere la possibilità della salvezza del cristiano anche al di fuori della Chiesa cattolica e dell’obbedienza all’autorità ecclesiastica romana.

Neanche dieci anni più tardi il Sant’Uffizio processava Galileo Galilei: lo scienziato settantenne, minacciato di tortura, pronunciò l’abiura in ginocchio davanti ai cardinali inquisitori come eretico de vehementi. Fu costretto al silenzio e confinato ad Arcetri. Con la condanna di Galilei, in difesa della «ragion di Chiesa», della supremazia dei teologi e del sistema aristotelico, Roma negava la libertà di ricerca rivendicata dalla nuova scienza e riaffermava al contempo l’esclusiva competenza ecclesiastica nell’interpretazione della Sacra Scrittura. La condanna dello scienziato nel 1633 rappresentò un momento di fortissima affermazione del grande modello culturale della Chiesa romana e dell’intransigenza contro qualsiasi incrinatura che potesse intaccare la tradizione e l’autorità ecclesiastica. In realtà, quel monolitico modello nato per combattere l’eresia, che aveva avuto la sua centrale ideologica nel Sant’Uffizio, si andava lentamente sfaldando nelle divergenti posizioni delle massime istituzioni censorie, nelle divaricazioni ideologiche tra i loro membri, negli ambigui intrecci e convivenze tra rigido conformismo e simpatie per il nuovo, nelle contraddizioni e nelle smagliature di un’ambiziosa e mastodontica impresa di controllo culturale che finiva per non esser più chiara a se stessa e giunse quasi a mettere all’Indice l’opera di uno dei suoi massimi esponenti – le Controversiae del teologo Bellarmino – e a condannare i componimenti poetici di un papa (i Poemata di Urbano VIII). A metà del Seicento questo modello dovette confrontarsi con un’Europa percorsa da inquietudini e idee innovatrici diffuse dalla stampa, dai viaggiatori, dai canali politici e diplomatici: con l’idea della tolleranza religiosa, con il rifiuto della coercizione nelle questioni di fede e con la distinzione tra sfera pubblica e sfera della coscienza, maturati in Inghilterra nel clima di eccezionale libertà e di fervore intellettuale della rivoluzione; con scienziati, atomisti, libertini, miscredenti, deisti e razionalisti che da fronti diversi minavano il fondamento autoritario della teologia e delle religioni rivelate, ossia le basi stesse della Riforma e della Controriforma; con fermenti e atteggiamenti critici che andavano preparando la grande trasformazione intellettuale definita «crisi della coscienza europea» (P.Hazard).

La pace di Westfalia (1648) che pose fine alla devastante guerra nell’Impero ammise come religione legittima il calvinismo, diede soluzione ai contrasti riguardanti l’alienazione e la secolarizzazione di beni e diritti della Chiesa cattolica nel territorio germanico sancendo la frammentazione dell’Impero in tanti Stati, ognuno con la propria politica estera e la propria identità religiosa. La riconquista cattolica si fermava. Nel 1648 i prìncipi dell’Impero, «fossero essi cattolici o protestanti, ecclesiastici o secolari [...] conquist[arono] una quasi totale sovranità che permetterà loro di introdurre o di perfezionare, all’interno dei loro Stati, moderne strutture di governo, mentre l’imperatore potrà sviluppare l’assolutismo monarchico solo nei suoi Stati ereditari, ma non nel complesso dell’Impero» (G. Lutz). Nelle estenuanti trattative tra decine di delegazioni condotte in Westfalia nelle città di Münster e Osnabrück che avrebbero portato alla pace (ma non alla cessazione del conflitto tra Francia e Spagna conclusosi solo nel 1659 con la pace dei Pirenei), la diplomazia pontificia ebbe un ruolo di secondo piano. Nel 1650 papa Innocenzo X (1644-1655) pubblicò addirittura un breve solenne di protesta contro l’«infame pace di Münster»: i disegni universalistici della monarchia pontificia e la visione dell’eresia come male da estirpare e combattere a oltranza escludevano ormai Roma dalle logiche politiche che avrebbero dominato lo scenario europeo degli Stati assoluti, mentre il declino dell’egemonia spagnola in Europa privava la Santa Sede del suo più valido sostegno.

Nel corso del secondo Seicento, il papato si ripiegò sui problemi interni intraprendendo iniziative di riforma delle strutture curiali e oscillanti tentativi di ridistribuzione dei ruoli tra le differenti componenti istituzionali della Chiesa: le soppressioni dei conventi e degli ordini regolari maschili di minore consistenza attuate da Innocenzo X Pamphili (1644-1655) nei primi anni Cinquanta, cui si aggiunsero, sotto i pontefici successivi, le restrizioni giuridiche imposte alla nascita di nuovi ordini, volte ad arginare la proliferazione del clero regolare dopo la smisurata espansione nell’età della Controriforma; il lento rilancio della figura del vescovo e della centralità della sua funzione pastorale, avviato sotto Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689); i tentativi, solo parzialmente riusciti, di moralizzazione della curia che contrassegnarono la cosiddetta «svolta innocenziana» dell’Odescalchi. A questi orientamenti si contrapposero la ripresa del nepotismo e il rinnovato protagonismo del Sant’Uffizio durante il pontificato di Alessandro VIII Ottoboni (1689-1691), intransigente fautore, da inquisitore e da papa, della lotta contro il quietismo, il giansenismo e l’ateismo dilagante, allo scopo di «riportare in primo piano la centralità della Chiesa di Roma, intesa in senso integralistico come un organismo teologico-giuridico immutabile, saldamente impiantato su un corpo di dottrine e di diritti da difendere senza il benché minimo cedimento» (C. Donati). Da una parte, dunque, la riproposta di miti ecclesiastici ispirati al tridentino, i richiami alle riforme inattuate, i modelli d’impegno pastorale rispolverati, i tentativi di assegnare una diversa e più consapevole centralità alla funzione episcopale rispetto a quei modelli; dall’altra, la perentoria ripresa del centralismo romano, del ruolo dell’Inquisizione, delle rigide posizioni dottrinali: ma si trattava di opposte linee e direzioni perseguite da un’istituzione ecclesiastica che, nel quadro del diverso rapporto con gli Stati, del perduto peso politico internazionale del papato e delle trasformazioni culturali in corso in Italia e in Europa, aveva ormai smarrito la proiezione universalistica, la forza espansiva e il carattere militante che erano stati propri della Controriforma.

Bibliografia

Opere generali

Tra le opere di sintesi si vedano: O. Niccoli, La vita religiosa nell’Italia moderna secoli XV-XVIII, Carocci, Roma 1998; G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1999 (con taglio prevalentemente istituzionale). Sottolinea gli aspetti culturali il saggio di S. Peyronel Rambaldi, La Controriforma, in G. Cherubini e altri (a cura di), Storia della società italiana, vol. XI, parte IV: La Controriforma e il Seicento, Teti editore, Milano 1989, pp. 53-109. Nella ricca produzione in lingua inglese di opere a carattere sintetico e divulgativo, si veda R. Po-chia Hsia, The World of Catholic Renewal. 1540-1770, Cambridge University Press, Cambridge 1998 [trad. it. La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), il Mulino, Bologna 2001], che inserisce il processo di «rinnovamento cattolico» (promosso secondo la prospettiva dell’autore soprattutto dal riformismo tridentino e dall’attività missionaria degli ordini regolari) in un quadro europeo di lungo periodo. Ancora utile per le linee generali G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, vol. II, Einaudi, Torino 1974, pp. 429-1079. Il monumentale lavoro di L. von Pastor, Geschichte der Papste seit dem Ausgang des Mittelalters [trad. it., Storia dei papi dalla fine del Medioevo, 17 voll., Desclée & C., Roma 1942 e sgg.] edito a partire dal 1886 costituisce ancora un repertorio fondamentale per la ricchezza dell’apparato documentario su cui è costruito. Sui papi dell’età moderna cfr. Enciclopedia dei papi, vol. III, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 2000.

Introduzione

Il concetto di Riforma cattolica ha conosciuto una grande fortuna in sede storiografica a partire dall’interpretazione di H. Jedin: Katholische Reformation oder Gegenreformation?, Josef Stocker, Luzern 1946 [trad. it., Riforma cattolica o Controriforma?, Morcelliana, Brescia 1957]. Per la discussione di queste categorie storiografiche e quella connessa di «disciplinamento sociale»: A. Prosperi, Riforma cattolica, Controriforma, disciplinamento sociale, in G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez (a cura di), Storia dell’Italia religiosa, vol. II: L’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 3-48, M. Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell’Italia del Ciquecento, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 511-17.

L’affermazione della Chiesa della Controriforma

Sul sacco di Roma: A. Chastel, The Sack of Rome, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1983 [trad. it., Il sacco di Roma. 1527, Einaudi, Torino 1983]; M. Firpo, Il sacco di Roma del 1527 tra profezia, propaganda, politica e riforma religiosa, Cuec, Cagliari 1990 (ora in M. Firpo, Dal sacco di Roma all’Inquisizione. Studi su Juan de Valdés e la Riforma italiana, Edizioni dell’Orso, Torino 1998, pp. 7-60). Sul profetismo del primo Cinquecento in Italia: O. Niccoli, Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1987. Sulla Riforma in Italia: S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino 1992; M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 1993, cui si rimanda per una bibliografia approfondita sul dissenso religioso nelle singole città, sui suoi esponenti e la circolazione dei testi dei riformatori in Italia. Fondamentale strumento di ricerca è la bibliografia curata da John Tedeschi The Italian Reformation of the Sixteenth Century and the Diffusion of Renaissance Culture: A Bibliography of the Secondary Literature (Ca. 1750-1997), Panini, Modena 2000. Una comparazione tra situazione italiana e francese in La Réforme en France et en Italie. Contacts, comparaisons et contrastes, par P. Benedict, S. Seidel Menchi et A. Tallon, Ècole Française de Rome, Rome 2007. Su questi argomenti sono ancora fondamentali gli studi di D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Laterza, Bari 1939; Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Laterza, Bari 1960 ora riediti (insieme con il saggio del 1967 Le idee religiose del Cinquecento. La storiografia) nel volume a cura di A. Prosperi, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, Einaudi, Torino 1992. Magistrali affreschi della vita religiosa cittadina nell’Italia del primo Cinquecento restano i lavori di F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V (1939), Einaudi, Torino 1971 e M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento (1965), Einaudi, Torino 19993 (in particolare il cap. VI). Intorno al dibattito sull’«evangelismo» italiano faceva il punto la rassegna di S. Peyronel Rambaldi, Ancora sull’evangelismo italiano: categoria o invenzione storiografica?, in «Società e storia», V (1982), pp. 935-67. Sugli anni Quaranta del Cinquecento: G. Fragnito, Evangelismo e intransigenti nei difficili equilibri del pontificato farnesiano, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XXV (1989), pp. 20-47; della stessa si veda anche: Gli «spirituali» e la fuga di Bernardino Ochino, in «Rivista storica italiana», LXXXIV (1972), pp. 777-813 (ora in Ead., Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Olschki, Firenze 1988, pp. 251-306). Sul Valdés e il valdesianesimo: M. Firpo, Tra alumbrados e «spirituali». Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa dell’Italia del ’500, Olschki, Firenze 1991 e a cura dello stesso l’edizione di scritti valdesiani: J. de Valdés, Alfabeto cristiano, Einaudi, Torino 1994. Sul Beneficio di Cristo e le speranze conciliari degli spirituali, si veda M. Firpo, Il «Beneficio di Cristo» e il concilio di Trento (1542-1546), in C. Mozzarelli e D. Zardin (a cura di), I tempi del concilio. Religione, cultura e società nell’Europa tridentina, Bulzoni, Roma 1997, pp. 225-52. Sul Contarini: G. Fragnito, Gasparo Contarini, cit., e inoltre E.G. Gleason, Gasparo Contarini. Venice, Rome and Reform, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1993. Sul Morone: M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone e il suo processo d’eresia, il Mulino, Bologna 1992 (ed. ampliata: Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d’eresia, Morcelliana, Brescia 2005) , e l’edizione critica a cura di di M. Firpo e D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, 6 voll., Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1981-1995. Su Reginald Pole e gli «spirituali»: P. Simoncelli, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1977. Su un vescovo appartenente agli «spirituali» che governò la sua diocesi in base alle dottrine della Riforma cfr. M. Firpo, Vittore Soranzo, cit. Sul Carafa: A. Aubert, Alle origini della Controriforma. Studi e problemi su Paolo IV, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XII (1986), pp. 305-55, del quale cfr. anche: Paolo IV Carafa nel giudizio della età della Controriforma, Stamperia Tiferno grafica, Città di Castello 1990. Sul Ghislieri: Pio V nella società e nella politica del suo tempo, a cura di M. Guasco e A.Torre, il Mulino, Bologna 2005. Sulla repressione antiereticale nella seconda metà del Cinquecento, oltre agli studi sulla Riforma in Italia già menzionati, si vedano: S. Pagano, Il processo di Endimio Calandra e l’Inquisizione a Mantova nel 1567-1568, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1991; l’edizione critica a cura di M. Firpo e D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567), 2 voll. in 4 tomi, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 1998-2000 e l’edizione critica a cura di M. Firpo e S. Pagano, I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558), 2 voll., Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2004; M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Einaudi, Torino 1997; M. Firpo, Eresia e Inquisizione in Italia (1542-1572), in Id., «Disputar di cose pertinenti alla fede». Studi sulla vita religiosa del Cinquecento italiano, Edizioni Unicopli, Milano 2003, pp. 202-8. Su ebrei e Chiesa della Controriforma: R. Segre, La Controriforma: espulsioni, conversioni, isolamento, in Storia d’Italia. Annali 11: Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, vol. II: Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, Einaudi, Torino 1996, pp. 709-78; M. Caffiero, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Viella, Roma 20052. Sulle persecuzioni dei valdesi nel Mezzogiorno: P. Scaramella, L’Inquisizione romana e i valdesi di Calabria: 1554-1704, Editoriale Scientifica, Napoli 1999.

Sul concilio di Trento: H. Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, 4 voll., Herder, Freiburg 1949-75, [trad. it., Storia del concilio di Trento, 4 voll., Morcelliana, Brescia 1973-812]; la sintesi di A. Prosperi, Il concilio di Trento: una introduzione storica, Einaudi, Torino 2001; gli atti dei convegni: Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, il Mulino, Bologna 1996; C. Mozzarelli e D. Zardin (a cura di), I tempi del concilio, cit. Sui rapporti tra Chiesa e Stati europei: H. Jedin e P. Prodi (a cura di), Il concilio di Trento come crocevia della politica europea, il Mulino, Bologna 1979 (in particolare: G. Alberigo, La riforma dei principi, pp. 161-77); A. Tallon, La France et le concile de Trente (1518-1563), École française de Rome, Rome 1997; M. C. Giannini, Tra politica, fiscalità e religione: Filippo II di Spagna e la pubblicazione della bolla «In Coena Domini» (1567-1570), in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XXIII (1997), pp. 83-152. Spunti ancora utili sul problema politico-religioso a Venezia in G. Benzoni, Venezia nell’età della Controriforma, Mursia, Milano 1973. Sui rapporti tra Chiesa e Stato dopo la metà del Cinquecento cfr. inoltre le osservazioni di G. Fragnito, Istituzioni ecclesiastiche e costruzione dello Stato. Riflessioni e spunti, in G. Chittolini, A. Molho e P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, il Mulino, Bologna 1993, pp. 531-50.

I soggetti istituzionali

Sul processo d’affermazione del centralismo papale e delle congregazioni cardinalizie: P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, il Mulino, Bologna 1982. Sulla lotta politico-religiosa ai vertici della Chiesa negli anni centrali del Cinquecento: M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma, cit. Sui conflitti tra congregazioni dell’Indice e dell’Inquisizione: G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), il Mulino, Bologna 1997. Sull’evoluzione della figura del cardinale nel Cinquecento: M. Firpo, Il cardinale, in E. Garin (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 75-131. Sulle nunziature cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., pp. 297-323; da tempo sono avviate importanti edizioni di fonti relative alle nunziature da parte di diversi istituti di ricerca italiani e stranieri, soprattutto per il periodo cinquecentesco. Sulla Roma dei papi analizzata da molteplici angolature cfr. i contributi raccolti in Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyla, a cura di L. Fiorani e A. Prosperi, in Storia d’Italia. Annali 16, Einaudi, Torino 2000. Sulla corte romana cfr. la rassegna di M.A. Visceglia, Burocrazia, mobilità sociale e patronage alla corte di Roma tra Cinque e Seicento. Alcuni aspetti del recente dibattito storiografico e prospettive di ricerca, in «Storia moderna e contemporanea», III (1995), pp. 11-55, e inoltre: Cérémonial et rituel à Rome (XVIe – XIXe siècle), études réunies par M.A. Visceglia e C. Brice, École française de Rome, Rome 1997; G. Signorotto e M.A. Visceglia (a cura di), La corte di Roma tra Cinque e Seicento «teatro» della politica europea, Bulzoni, Roma 1998. Sulle corti cardinalizie: G. Fragnito, Le corti cardinalizie nella Roma del Cinquecento, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», CVI (1994), pp. 5-41. Sull’intreccio tra nobiltà e carriera all’ombra della Chiesa attraverso l’analisi biografico-culturale di due casi specifici: M. Rosa, Nobiltà e carriera nelle «memorie» di due cardinali della Controriforma: Scipione Gonzaga e Guido Bentivoglio, in M.A. Visceglia (a cura di), Signori, patrizi e cavalieri nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 231-55. Nel quadro della politica centralistica romana, per il problema delle rendite ecclesiastiche si veda M. Rosa, Curia romana e pensioni ecclesiastiche, secoli XVI-XVIII, in «Quaderni storici», XLII (1979) pp. 1015-1055, del quale cfr. anche La «scarsella di Nostro Signore»: aspetti della fiscalità spirituale pontificia nell’età moderna, in «Società e storia», X (1987), pp. 817-45. Sulla fiscalità pontificia entro un ampio quadro politico cfr. M.C. Giannini, L’oro e la tiara. La costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa Sede (1560-1620), il Mulino, Bologna 2003.

Sui vescovi prima del concilio di Trento: A. Prosperi, La figura del vescovo fra Quattro e Cinquecento: persistenze, disagi e novità, in Storia d’Italia. Annali 9: La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Einaudi, Torino 1986, pp. 217-62, del quale si veda anche: «Dominus beneficorum»: il conferimento dei benefici ecclesiastici tra prassi curiale e ragioni politiche negli stati italiani tra ’400 e ’500, in P. Prodi e P. Johanek (a cura di), Strutture ecclesiastiche in Italia e in Germania prima della Riforma, il Mulino, Bologna 1984, pp. 51-86. Per un quadro generale delle istituzioni episcopali nella penisola con articolata bibliografia anche sulle singole diocesi: G. Greco, La Chiesa in Italia, cit. (in particolare pp. 3-91), del quale si veda anche Fra disciplina e sacerdozio: il clero secolare nella società italiana dal Cinquecento al Settecento, in M. Rosa (a cura di), Clero e società nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 45-113. Per le linee generali di una storia dell’episcopato italiano dal Cinquecento al Settecento: C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’Antico Regime, ivi, pp. 320-89. Sui vescovi dopo il concilio: G. Fragnito, Vescovi e ordini religiosi in Italia all’indomani del concilio, in C. Mozzarelli e D. Zardin (a cura di), I tempi del concilio, cit., pp. 9-25; A. Borromeo, I vescovi italiani e l’applicazione del concilio di Trento, ivi, pp. 27-105 (ricco di riferimenti bibliografici). Sulle strutture ecclesiastiche nel Mezzogiorno: M. Rosa, La Chiesa meridionale nell’età della Controriforma, in Storia d’Italia. Annali 9, cit., pp. 293-345. Sulle visite pastorali in generale: U. Mazzone e A. Turchini (a cura di), Le visite pastorali: analisi di una fonte, il Mulino, Bologna 1985; C. Nubola e A. Turchini (a cura di), Visite pastorali ed elaborazione dei dati. Esperienze e metodi, il Mulino, Bologna 1993. Un recente e innovativo uso delle visite pastorali come fonte in M. Firpo, Vittore Soranzo, cit. Sulle figure più importanti di vescovi: P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), 2 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1959-1969; A. Prosperi, Tra evangelismo e Controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1969; San Carlo e il suo tempo, 2 voll., Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte, Milano, 21-26 maggio 1984, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1986; A. Prosperi, Chierici e laici nell’opera di Carlo Borromeo, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XIV (1988), pp. 241-72; W. De Boer, The Conquest of the Soul: Confession, Discipline, and Public Order in Counter-Reformation Milan, Brill, Leiden 2001 (trad. it. La conquista dell’anima. Fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Einaudi, Torino 2004). Sui conflitti tra Carlo Borromeo e le autorità spagnole: A. Borromeo, Le controversie giurisdizionali tra potere laico e potere ecclesiastico nella Milano spagnola sul finire del Cinquecento, in «Atti dell’Accademia di San Carlo», VI (1981), pp. 43-89. Sui contrasti tra il Borromeo e i canonici milanesi: G. De Luca, «Havendo perduta la vergogna verso Dio». Un’indagine su alcuni gruppi di opposizione a Carlo Borromeo, in «Studi storici», LIX (1993), pp. 35-69. Sui rapporti tra vescovi e Inquisizione cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, Einaudi, Torino 1996; E. Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, il Mulino, Bologna 2000; E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Laterza, Roma-Bari 2007. Sui conflitti intorno alle rispettive competenze in materia di censura: G. Fragnito, La Bibbia al rogo, cit., e, della stessa, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, il Mulino, Bologna 2005.

Su procedure inquisitoriali, manuali e personale addetto: J. Tedeschi, The Prosecution of Heresy. Collected Studies on the Inquisition in Early Modern Italy, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, Binghamton (N.Y.) 1991 [trad. it., Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Vita e Pensiero, Milano 1997]. Dopo l’apertura agli studiosi dell’Archivio del Sant’Uffizio a Roma, i primi bilanci negli atti dei convegni L’apertura degli archivi del Sant’Uffizio romano, Roma, 22 gennaio 1998, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1998; L’Inquisizione e gli storici. Un cantiere aperto, Roma 24-25 giugno 1999, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2000; Le Inquisizioni Cristiane e gli Ebrei, Roma 20-21 dicembre 2001, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2003; L’inquisizione, Città del Vaticano 29-31 ottobre 1998, a cura di A. Borromeo, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2003.La vicenda di Menocchio è l’oggetto di un celebre libro di C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Einaudi, Torino 1976. Cfr. anche l’edizione del processo: A. Del Col (a cura di), Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione 1583-1599, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1997. Ampio utilizzo dei processi inquisitoriali contro il dissenso religioso alimentato dai testi erasmiani in S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Bollati Boringhieri, Torino 1987. Su un filone ereticale irriducibile alle dottrine della Riforma cfr. A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Feltrinelli, Milano 2000. Sui rapporti tra inquisitori e confessori cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., e G. Romeo, Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, La Città del Sole, Napoli 1997, che ne propone una periodizzazione e un’articolazione differenti. Sull’evoluzione del concetto di peccato durante la Controriforma cfr. P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino, Bologna 2000; R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, il Mulino, Bologna 2002; V. Lavenia, L’infamia e il perdono. Tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, il Mulino, Bologna 2004. Sui rapporti tra Inquisizione e devozioni cfr. M. Gotor, I beati del papa. Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna, Olschki, Firenze 2002. Su Inquisizione ed ebrei: M. Luzzati (a cura di), L’inquisizione e gli ebrei in Italia, Laterza, Roma-Bari 1994 (con riferimenti anche alle Inquisizioni iberiche); Le Inquisizioni Cristiane e gli Ebrei, cit. Per un’informazione generale sull’Inquisizione spagnola: B. Benassar (a cura di), L’Inquisition espagnole, XVe- XIXe siècle, Hachette, Paris 1979 [trad. it., Storia dell’Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, Rizzoli, Milano 1994] e il lavoro comparativo di F. Bethencourt, L’Inquisition à l’époque modern. Espagne, Portugal, Italie, Fayard, Paris 1995 (con bibliografia della vasta produzione su questo argomento). Sul rapporto tra Suprema e vescovi cfr. S. Pastore, Il vangelo e la spada. L’Inquisizione di Castiglia e i suoi critici (1460-1598), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003. Saggi sulle tre inquisizioni in Inquisition & Pouvoir (Colloque International Inquisition & Pouvoir, Aix-en-Provence, 24-26 octobre 2002), sous la direction de G. Audisio, Publications de l’Université de Provence, Aix-en-Provence 2004.

Sugli ordini regolari maschili: G. Fragnito, Gli ordini religiosi tra Riforma e Controriforma, in Clero e società, cit., pp.115-205; R. Rusconi, Gli ordini religiosi maschili dalla Controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni, ivi, pp. 207-74. Tra gli studi sui nuovi ordini regolari, si vedano: C. Cargnoni (a cura di), I Frati Cappuccini. Documenti e testimonianze del primo secolo, 6 voll. in 5 tomi, Efi, Perugia 1988-93 (è soprattutto una ricchissima edizione di fonti); J.W. O’Malley, The First Jesuits, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1993 [trad. it., I primi gesuiti, Vita e Pensiero, Milano 1999]; W.V. Hudon, Theatine Spirituality. Selected Writings. Translated, edited and with an introduction and notes, Paulist Press, New York-Mahwah (N.J.) 1996; E. Bonora, I conflitti della Controriforma: tra santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi barnabiti, Le Lettere, Firenze 1998; S. Pavone, I gesuiti. Dalle origini alla soppressione 1540-1773, Laterza, Roma-Bari 2004; I gesuiti ai tempi di Claudio Acquaviva. Strategie politiche, religiose e culturali tra Cinque e Seicento, a cura di P. Broggio, F. Cantù, P. A. Fabre, A. Romano, Morcelliana, Brescia 2007. Sui monasteri femminili: G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in Storia d’Italia. Annali 9, cit., pp. 359-429 (ora in G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, il Mulino, Bologna 2000, pp. 43-143); G. Greco, La Chiesa in Italia, cit., pp. 121-53 (con relativa bibliografia). Gli studi sulla condizione monastica femminile di taglio istituzionale e sociale si sono incrociati negli ultimi anni con le ricerche sulla storia delle donne: cfr. L. Scaraffia e G. Zarri (a cura di), Donne e fede, Laterza, Roma-Bari 1994 e la rassegna di G. Zarri, F. Medioli, P. Vismara Chiappa, «De monialibus» (secoli XVI-XVII-XVIII), in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XXXIII (1997), pp. 642-93. Sulla promozione della «religione civica» connessa al culto delle «sante vive»: G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’500, Rosenberg & Sellier, Torino 1990. Sul rapporto tra le donne e il libro, nonché sui modelli comportamentali proposti dalla trattatistica controriformistica per le donne cfr. G. Zarri (a cura di), Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1996. Su censura e lettrici cfr. G. Fragnito, Proibito capire, cit., pp. 261-310.

Religione, cultura e controllo sociale

Sulle missioni cfr. R. Rusconi, Gli ordini religiosi maschili, cit. (in particolare pp. 224-74, ricco di riferimenti bibliografici); A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., pp. 551-684; P. Broggio, Evangelizzare il mondo. Le missioni della Compagnia di Gesù tra Europa e America (sec. XVI-XVII), Carocci, Roma 2004. Su una particolare funzione svolta dai missionari gesuiti: O. Niccoli, Rinuncia, pace, perdono. Rituali di pacificazione della prima età moderna, in «Studi storici», XL (1999), pp. 219-61 e, della stessa, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Laterza, Roma-Bari 2007.

Sulla predicazione: R. Rusconi, Predicatori e predicazione, in Storia d’Italia. Annali 4: Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1981, pp. 951-1053. Su alfabetizzazione, catechismi e scuole della Dottrina cristiana: M. Turrini, «Riformare il mondo a vera vita christiana»: le scuole di catechismo nell’Italia del Cinquecento, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», VIII (1982), pp. 407-89; P. Grendler, Schooling in Renaissance Italy, The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1989 [trad. it., La scuola nel Rinascimento italiano, Laterza, Roma-Bari 1991]; A. Turchini, Sotto l’occhio del padre. Società confessionale e istruzione primaria nello Stato di Milano, il Mulino, Bologna 1996; Michela Catto, Un panopticon catechistico: l’arciconfraternita della dottrina cristiana a Roma in età moderna, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2003, e inoltre cfr. le dense pagine iniziali di M. Roggero, L’alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette e Ottocento, il Mulino, Bologna 1999. Sui catechismi illustrati: G. Palumbo, Speculum peccatorum. Frammenti di storia nello specchio delle immagini tra Cinque e Seicento, Liguori, Napoli 1990. Sul progetto controriformistico di egemonia culturale e i suoi maggiori interpreti: A. Biondi, Aspetti della cultura cattolica post-tridentina. Religione e controllo sociale in Storia d’Italia. Annali 4, pp. 253-302, del quale cfr. anche La ‘Bibliotheca selecta’ di Antonio Possevino. Un progetto di egemonia culturale, in G.P. Brizzi (a cura di), La «Ratio studiorum». Modelli e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma 1981, pp. 43-75; F. Motta, Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana, Brescia 2005. Sulla censura libraria si veda in questa stessa collana la sintesi di M. Infelise, I libri proibiti, Laterza, Roma-Bari 1999, con relativa bibliografia, e le raccolte: La censura libraria nell’Europa del secolo XVI, a cura di U. Rozzo, Convegno Internazionale di Studi Cividale del Friuli (9/10 Novembre 1995), Forum, Udine 1997; Church, censorship and culture in Early Modern Italy, ed. by G. Fragnito, Cambridge University Press, Cambridge 2001; Censura ecclesiastica e cultura politica in Italia tra Cinquecento e Seicento, a cura di C. Stango, (Atti del Convegno 5 marzo 1999 - Torino, VI giornata Lugi Firpo), Olschki, Firenze 2001. Sulla proibizione della Bibbia e dei volgarizzamenti biblici: G. Fragnito, La Bibbia al rogo, cit. Su Chiesa e volgare cfr. G. Fragnito, Proibito capire, cit. Su censura e letteratura devozionale cfr. G. Caravale, L’orazione proibita. Censura ecclesiastica e letteratura devozionale nella prima età moderna, Olschki, Firenze, 2003. Sulla celebrazione dei valori ideologici della Controriforma nell’oratoria sacra alla corte romana: F.J. McGinnes, Right Thinking and Sacred Oratory in Counter-Reformation Rome, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1995. Sulle tradizioni liturgiche locali e la loro importanza culturale e religiosa: S. Ditchfield, Liturgy, Sanctity and History in Tridentine Italy. Pietro Maria Campi and the Preservation of the Particular, Cambridge University Press, Cambridge 1995. Sulla storiografia dei regolari in età postridentina si vedano i saggi raccolti in «Nunc alia tempora, alii mores». Storici e storia in età postridentina (Torino, 24-27 settembre 2003), a cura di M. Firpo, Olschki, Torino 2005. Sulla lotta di «santi contro santi» nella storiografia dei regolari cfr. S. Bertelli, Ribelli, libertini e ortodossi nella storiografia barocca, La Nuova Italia, Firenze 1973.

Sulla stregoneria in Europa: B.P. Levack, The Witch-hunt in Early Modern Europe, Longman, London-New York 1987 [trad. it., La caccia alle streghe in Europa agli inizi dell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 19982]. Sulla stregoneria in Italia: G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990, del quale cfr. in breve: I processi di stregoneria, in G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez (a cura di), Storia dell’Italia religiosa, cit., pp. 189-209. Sui benandanti: C. Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966. Sui processi veneziani: M. Milani (a cura di), Streghe e diavoli nei processi del S.Uffizio. Venezia 1554-1587, Ghedina e Tassotti, Bassano del Grappa 1994. Sugli esorcisti, la sollicitatio ad turpia e la «femminilizzazione» della religione attraverso la confessione: G. Romeo, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della Controriforma, Le Lettere, Firenze 1998. Sulla storia della santità in età moderna cfr., in questa stessa collana, la sintesi di M. Gotor Chiesa e santità in età moderna, cit. Su santità e Inquisizione cfr. M. Gotor, I beati del papa. Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna, Olschki, Firenze 2002. Sulla «santità simulata» cfr. gli atti del convegno: Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Zarri, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; A. Malena, L’eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento italiano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003. Sulla figura della religiosa tra Cinque e Settecento: M. Rosa, La religiosa, in R. Villari (a cura di), L’uomo barocco, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 219-67.

Sul «disciplinamento» delle pratiche sociali da parte della Chiesa si vedano gli atti del convegno: Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, il Mulino, Bologna 1994. Sulla pratica sacramentale e i «riti di passaggio» cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., pp. 650-79 del quale si vedano anche Scienza e immaginazione teologica nel Seicento: il battesimo e le origini dell’individuo, in «Quaderni storici», C (1999), pp. 173-98 e Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, Torino 2005; J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Einaudi, Torino 1998, che raccoglie una serie di saggi dello studioso inglese apparsi negli anni Settanta. Sul matrimonio ancora utili spunti in G. Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini (metà secolo XVI-metà secolo XVIII), in «La cultura», XIV (1976), pp. 169-213; O. Niccoli, Baci rubati. Gesti e riti nuziali prima e dopo il Concilio di Trento, in S. Bertelli e M. Centanni (a cura di), Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, Ponte alle Grazie, Firenze 1995, pp. 224-47; G. Zarri, Il matrimonio tridentino, in Il concilio di Trento e il moderno, cit., pp. 437-83 (ora in G. Zarri, Recinti, cit., pp. 203-50); D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal concilio di Trento alle riforme settecentesche, in M. De Giorgio e C. Klapisch Zuber (a cura di), Storia del matrimonio, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 215-50. Si vedano inoltre a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni (il Mulino, Bologna) i volumi: Coniugi nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, 2000; Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, 2001; Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, 2004; I tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), 2006.

Conclusioni

Sulla crisi dell’Interdetto: G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, in Id., Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Einaudi, Torino 1979, pp. 235-81; F. De Vivo, Information and Communication in Venice. Rethinking Early Modern Politics, Oxford University Press, Oxford 2007. Su politica papale e guerra dei Trent’anni: G. Lutz, Roma e il mondo germanico nel periodo della guerra dei Trent’anni, in G. Signorotto e M.A. Visceglia (a cura di), La corte di Roma tra Cinque e Seicento, cit., pp. 425-60. Sulle speranze ireniche diffuse in Europa nel primo Seicento: E. De Mas, L’attesa del secolo aureo (1603-1625). Saggio di storia delle idee del secolo XVII, Olschki, Firenze 1982; E. Belligni, Auctoritas e potestas. Marcantonio De Dominis fra l’inquisizione e Giacomo I, Franco Angeli, Milano 2003. Su Giordano Bruno: S. Ricci, Giordano Bruno nell’Europa del Cinquecento, Salerno, Roma 2000. Sul clima culturale e religioso del primo Seicento in Italia, linee generali in M. Rosa, La Chiesa e gli stati regionali nell’età dell’assolutismo, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. I: Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 257-389 (in particolare le pp. 303-59); ancora ricco di spunti il saggio del 1967 di D. Cantimori, Galileo e la crisi della Controriforma, in Id., Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, Einaudi, Torino 1971, pp. 657-74. Sugli oppositori italiani della Controriforma, ancora importante G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano (1950), La Nuova Italia, Firenze 1950-19832. Sulla crisi della coscienza europea: P. Hazard, La crise de la conscience européenne 1680-1715, Fayard, Paris 1935 [trad. it., La crisi della coscienza europea, Einaudi, Torino 1946]. Sulle linee di tendenza politico-religiose del papato nel secondo Seicento: C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in Storia d’Italia. Annali 9, cit., pp. 717-66.

Cronologia

1517

 

Pubblicazione delle 95 tesi di Lutero a Wittenberg.

1519

 

Carlo V d’Asburgo è eletto imperatore.

1520

 

Bolla papale di scomunica delle tesi luterane.

1527

 

Sacco di Roma.

1530

 

Carlo V è incoronato imperatore dal papa a Bologna.

1531

 

Battaglia di Kappel: morte di Zwingli.

1534

 

Enrico VIII Tudor emana l’Atto di supremazia.

1535

 

Lo Stato di Milano passa sotto il dominio di Carlo V.

1540

 

Paolo III approva l’ordine dei gesuiti.

1541

 

Dieta di Ratisbona. Ordinanze di Calvino per la Chiesa di Ginevra.

1542

 

Istituzione dell’Inquisizione romana.

1545

 

Apertura del concilio di Trento.

1546

 

Morte di Lutero.

1547

 

Battaglia di Mühlberg: Carlo V batte la Lega di Smalcalda.

1549

 

Il missionario gesuita Francesco Saverio arriva in Giappone.

1554

 

Maria I Tudor ripristina il cattolicesimo in Inghilterra.

1555

 

Pace di Augusta.

1556

 

Abdicazione di Carlo V: Filippo II è re di Spagna; Ferdinando I è imperatore.

1558

 

Elisabetta I diventa regina d’Inghilterra.

1559

 

Pace di Cateau-Cambrésis tra Francia, Spagna e Inghilterra. Paolo IV promulga il primo Indice romano dei libri proibiti.

1560

 

Il calvinismo diventa religione ufficiale in Scozia.

1562

 

Iniziano le guerre di religione tra cattolici e ugonotti in Francia.

1563

 

Si chiude il concilio di Trento.

1564

 

Promulgazione dell’Indice tridentino dei libri proibiti.

1566

 

Rivolta dei Paesi Bassi contro il dominio spagnolo.

1570

 

Pio V scomunica Elisabetta d’Inghilterra.

1571

 

Battaglia di Lepanto: la Santa lega sconfigge la flotta ottomana. Istituzione della Congregazione dell’Indice a Roma.

1572

 

Strage degli ugonotti nella notte di san Bartolomeo.

1579

 

Formazione della Repubblica delle Province Unite.

1580

 

Annessione del Portogallo e dei suoi possedimenti coloniali alla corona spagnola. Montaigne pubblica i Saggi, il Tasso la Gerusalemme liberata.

1588

 

La flotta inglese sbaraglia l’Invencibile Armada.

1593-94

 

Fine delle guerre di religione in Francia: conversione e incoronazione di Enrico IV di Borbone.

1596

 

Promulgazione dell’Indice clementino dei libri proibiti.

1598

 

Enrico IV emana l’Editto di Nantes. Morte di Filippo II di Spagna. Ferrara annessa allo Stato della Chiesa.

1600

 

Rogo di Giordano Bruno. Shakespeare scrive l’Amleto.

1603

 

Giacomo I Stuart succede a Elisabetta I sul trono inglese.

1605

 

Cervantes pubblica il Don Chisciotte.

1606

 

Interdetto di papa Paolo V contro Venezia.

1608

 

Il principe calvinista Filippo V del Palatinato promuove l’Unione evangelica dei principi protestanti.

1609

 

I principi cattolici tedeschi formano una lega sotto Massimiliano di Baviera. Espulsione dei moriscos dalla Spagna.

1610

 

Assassinio di Enrico IV di Francia. I missionari gesuiti fondano le prime reducciones in Paraguay.

1614

 

Convocazione degli Stati generali in Francia.

1616

 

La Chiesa condanna le teorie copernicane.

1618

 

Defenestrazione di Praga e rivolta boema. Inizia la guerra dei Trent’anni.

1620

 

Sconfitta dei boemo-palatini alla Montagna Bianca.

1622

 

Canonizzazione di Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Filippo Neri e Teresa d’Avila.

1622

 

Istituzione della Congregazione De propaganda fide.

1624

 

Il cardinale Richelieu è alla testa della politica francese.

1628

 

Presa della fortezza ugonotta di La Rochelle.

1631

 

Devoluzione del ducato d’Urbino allo Stato della Chiesa

1632-33

 

Processo contro Galileo.

1637

 

Cartesio pubblica il Discorso sul metodo.

1640

 

Inizio della Rivoluzione inglese. Indipendenza del Portogallo.

1642

 

Muore Richelieu, il cardinale Mazzarino primo ministro di Francia. Inizio della guerra civile in Inghilterra.

1643

 

Grande vittoria francese sugli spagnoli a Rocroi.

1648

 

Pace di Westfalia.

1649

 

Condanna a morte di re Carlo I d’Inghilterra.

1653

 

Cromwell diventa Lord protettore.

1653

 

Bolla papale di condanna del giansenismo.

1654

 

Luigi XIV è re di Francia.

1656-57

 

Pascal scrive Le provinciali.

1660

 

Restaurazione della dinastia Stuart in Inghilterra.

1670

 

B. Spinoza pubblica anonimo il Tractatus theologico- politicus.

1672

 

L’esercito di Luigi XIV invade l’Olanda.

1685

 

Revoca dell’editto di Nantes.

1687

 

I. Newton pubblica i Principia mathematica philosophiae naturalis.

1688

 

Gloriosa rivoluzione in Inghilterra.

1689

 

J. Locke pubblica l’Epistola de tolerantia.

1696-97

 

Esce in Olanda il Dizionario storico-critico di P. Bayle.