L ' U L TI M A   N O T T E   D E L   B O I A


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       Il sibilo della lama che cala spietata, il rumore di quando inesorabile squarcia la carne irrigidita del collo e il tonfo sordo della testa che finalmente si stacca: sono queste le immagini e i suoni che mi tortureranno in eterno nel posto dove sto per andare.

       All'inferno.

       All'inferno insieme a tutti gli altri condannati ce ci ho mandato io. Quasi quattrocento, tra ladri, assassini, stupratori, pederasti, satiri e parricidi di questi ultimi trentanove anni. E' il 6 settembre 1904, è una notte che puzza di chiuso, e la vita è venuta a portarmi il conto: adesso tocca a me. Miserabile me, bloccato in questo letto senza nemmeno poter parlare. D'altronde, cosa potrei mai dire come mie ultime parole: scusate? Scusate se ho ucciso chi se lo meritava? O scusate se mi sono permesso di sostituirmi a Dio?

       E' che nemmeno io lo so: ho sempre svolto il lavoro che mi è stato chiesto con diligenza e umiltà, più come un dovere, un gesto meccanico, che come una scusa.

       Un semplice esecutore che non si è mai posto nessuna domanda su quello che stava facendo. Poi successe che quella mattina d'agosto del 1897, durante un'esecuzione, quelle domande, che negli anni avevo accumulato e diligentemente legato con un sottile spago nella mia testa vuota, sono uscite fuori tutte insieme, nel momento in cui un getto inaspettato di sangue caldo e vivo mi ha colpito sul viso e mi ha svegliato. In un istante quel liquido viscido ha sciolto lo spago e tutte le domande sono scivolate via: dapprima lente, insinuose, tendenziose, poi sempre più veloci come un fiume in piena, poi come una valanga, poi come un uragano: e a quel punto ho dovuto fermarmi, ascoltarle e dare le mie dimissioni.

       Mi chiamo Louis Antoine Stanislas Deibler e sono – o meglio ero – il boia ufficiale di Parigi e le mie mani trasudano sangue, un sangue che non scompare mai. I medici dicono che il sangue è nella mia mente, ma che colpa ho io se lo vedo per davvero, rosso scarlatto colarmi tra le dita? Che poi io stia anche morendo è solo un caso.

       Mi pesa tutto addosso in questa ultima notte di vita, il mio lavoro, come una triste condanna, passata da mio nonno a mio padre, da mio padre a me e, con mio rammarico, da me a mio figlio Anatole. Chissà se lui ha accettato il suo destino di boia con rassegnazione o se trova in questo meschino mestiere una sorta di appagamento, di soddisfazione. Ancora ricordo la sua faccina di bambino, bianca e fissa, quando assistette per la prima volta a una mia esecuzione. Chi ghigliottinavo, quel giorno? Nemmeno me lo ricordo. In fin dei conti ero troppo preso dal viso di Anatole, per cercare di decifrarne fugaci frammenti di emozioni. E le mie di emozioni, in quel momento di trionfale, prima esibizione dinanzi al mio giovane successore? Orgoglio e vergogna? Forse Anatole avrà decifrato il mio di viso quel giorno e chissà, magari prima che io muoia, stanotte, me lo dirà.

       Mi ricordo invece limpidamente dell'esecuzione dell'abate Bruneu, il 30 agosto 1894: che strano personaggio. Il suo caso suscitò clamore in tutta la Francia. Nonostante le pesantissime accuse di omicidio, rapina e incendio doloso, si è sempre proclamato innocente, sempre, fino alla fine: mai visto un uomo recarsi così dignitosamente alla ghigliottina. Calmo, a testa alta, sicuro di sé, direi addirittura fiero: quasi fosse lui il boia e noi i condannati. Una folla incredibile si era radunata in piazza del palazzo di giustizia, fin dalla sera prima. E' come se le vedessi adesso, le circa duemila persone accampate per assistere allo spettacolo, arrivate già da mezzanotte, che la mattina alle cinque, orario dell'esecuzione, erano diventate circa ottomila. Sì, la vedo: una folla inferocita, urlante e puzzolente, che inneggia alla ghigliottina: uomini, donne, vecchi e bambini in attesa di godere del gran spettacolo della morte, tenuti a bada a stento dai gendarmi. E io, piccolo e lento lassù ad aspettare, invece, già grondante di sudore di primo mattino, gli aiutanti, per assaporare i miei fugaci cinque minuti di "gloria". E mi sembra di sentire anche l'aria magica del mattino presto e i galli che cantano lontani dalle aie e una folata leggera di vento a sfiorare gli occhi azzurri di Bruneau, l'abate assassino, che incrociano furtivi i miei: e inaspettatamente scopro che sono occhi incredibilmente puliti. E per un attimo, uno solo, la mia mano che vacilla, nell'atroce dubbio di stare per assassinare un innocente. Un dubbio sommesso, che scompare rapito, ingoiato dallo spazio immenso della mia diligenza e la lama che scende fulminea, a fare anch'essa il suo dovere, risolve ogni mio conflitto etico. La testa giù nel cesto et voilà, tutta la folla contenta e felice che se ne torna a casa. E io pure, nella mia giacca nera di panno, amica affezionata, che mi ha accompagnato tutta la vita come una divisa: adesso eccola là, la famosa giacca nera del boia, appesa a un gancio, che giace moscia e lisa. Riesco a vederla chiaramente qui dal letto e devo dire che sembra ormai più un vecchio straccio. E in fondo lo è diventata: un vecchio straccio come il suo padrone. Addio anche a te, mia fedele compagna, purtroppo non posso portarti con me dove sto per andare… e tanto nemmeno ti piacerebbe. Stai meglio penzolante lì, a farti mangiare dalle pulci e poi dai topi. Vedi? Morirai anche tu alla fine.

       Come è certo che morì l'assassino di… non ricordo il nome, ma sicuramente non ho dimenticato il piacere voluttuoso che ho provato nell'ucciderlo. Reo confesso dello stupro e dell'uccisione di tre bambine tra i sette e i nove anni, ne aveva fatto poi a pezzi i cadaveri e li aveva nascosti sotto le assi del pavimento della cucina. Povere anime. E' venuto farneticando di tutti gli orrori che aveva inflitto alle sue piccole vittime. Mi ricordo di donne che svennero in piazza, di lanci di feci, di sputi e di inenarrabili e meritati insulti: a un certo punto si creò un pandemonio tale che i gendarmi non riuscirono a calmare gli uomini impazziti che volevano linciarlo con le loro mani e i loro bastoni. L'esecuzione fu ritardata a causa dei disordini e quel depravato visse mezz'ora in più. Non si meritava nemmeno quella. I suoi di occhi sì che erano cattivi: quelli, ecco quelli erano i peggiori occhi che mai ti può capitare di incontrare nella vita: spaventarono anche me, che di occhi brutti, nei miei anni ne ho visti veramente tanti.

       Padre mio, eccoci giunti alla conclusione: per quanto io mi sforzi di convincermi che morirò, ineluttabile epilogo di questo mio tumore alla gola, la mia mente si rifiuta di credere che i miei giorni su questa terra siano finiti. Non riesco a credere di come il tempo non mi abbia aspettato, di come sia volato via troppo in fretta. Non voglio lasciare Anatole, Margherita, i miei affetti, la mia casa, il mio cane. Non sono pronto.

       Ma si è mai pronti per morire?

       Io almeno un po' di tempo per prepararmi ce l'ho. Sto scrivendo queste mie parole che lascerò ad Anatole, ma mi è inevitabile chiedermi: chissà cosa passava per la testa delle migliaia di persone che ho ucciso. Cosa passava per la testa a tutti loro proprio in quel preciso attimo in cui la morte si rivela ormai inevitabile e ineluttabile, in cui nessuna speranza può fermare la lama che scende, nessun appello,nessun rimando, solo tu, Dio e quell'ultimo secondo cosciente della tua vita? (Cosa percepirò a breve io?)

       Immagino volti senza nome, ripescati dalla mia memoria di boia: volti sul patibolo, chi piangeva, chi rideva, chi pregava, chi urlava, chi rimaneva attonito in silenzio. E io impassibile, giudice impietoso delle loro vite, artefice cella conclusione del loro triste destino. Sì, ma chi sono io? Verrò accolto al paradiso o all'inferno? Che ne sarà di me nel mio istante cosciente, che certo non tarderà a venire?

       Non voglio morire.

       Perdonatemi tutti.

       Pietà di me.

       Io eseguivo solo il mio lavoro. Anatole, figlio mio, spero che i fantasmi del passato non inseguano anche te al termine della tua – spero – lunga vita. Mi auguro che riuscirai a svegliarti tutte le mattine sereno, che non arriverai a ottantun anni a vederti il sangue sulle mani. Queste mani, così squamate dal troppo lavare. Eccolo di nuovo, il sangue che mi si riversa tra le dita. Mi devo convincere che, no, non c'è: ma riesco a sentirne perfino l'odore ferroso, la consistenza viscida e setosa… io lo vedo… che male c'è? Tanto la pazzia non cambierà ormai il mio destino. Quanto tempo è passato,quanto tempo è volato dal mio primo ricordo di bambino e il mondo andrà avanti anche senza di me. Il mondo sempre più crudele che io non sono riuscito a migliorare. Che nessuno riuscirò a migliorare, dovessero cadere altre diecimila teste di assassini. A cosa servirà, a cosa è mai servito tutto questo sangue versato? Forse solo a placare le avide voglie perverse di cittadini affamati di vendetta. Ho lavorato tanti anni inutilmente, ecco come mi sento. Una vita inutile. Chissà cosa penserà Dio di me. Sarò patetico al cospetto dei suoi occhi di giudice: un piccolo, basso, lento uomo, sempre vestito di nero, che ha tagliato le teste a comando per tutta la vita, senza chiedere né replicare né tantomeno porsi domande… Anatole! Figlio mio! Ormai anche tu per tutti rimarrai per sempre ANATOLE il boia. ANATOLE l'assassino, ANATOLE il cupo. Ecco, sangue mio, ti affido questi scritti miserabili come me, come te, come tutti noi, alla fine.

       "Sei arrivato, dunque…"

       "Sì".

       "Ti avevo riconosciuto".

       "Da cosa?"

       "Dagli occhi".

       "Non li hai mai dimenticati".

       "No, non potrei mai… Sei diverso, Bruneau".

       "Anche tu lo sarai".

       "Dove andiamo?"

       "Via di qui".

       "La tua venuta mi impone di farti una domanda, per sapere dove siamo diretti. Dimmi infine abate: eri colpevole?"

       "Nessuno lo è in fondo… Alzati".

       "E' questo il mio ultimo secondo?"

       "Sì"