LA TIRANNA DI POLICORO |
Il camino era proveniente dal palazzo d'Urbino, da quell'armonioso edifizio che il
buon duca Federico di Montefeltro e l'architetto
dalmata Luciano da Laurana composero, come narra Bernardino Baldi nelle sue
prose dotte, a similitudine dei monumenti dell'antica Roma.
Una danza di fanciulli si svolgeva su la fronte, a guisa d'un
fregio su la sommità di un tempio pagano, scolpita in bassorilievo dallo
scultore milanese Ambrogio Baroccio, artefice elegantissimo d'ornamenti marmorei.
Su la sporgenza superiore era posato un dittico di Piero della Francesca, il Trionfo della Castità, che portava su le
tavolette laterali a punto la figura del glorioso discepolo di Vittorino da Feltre e quella di Battista Sforza moglie sua, ambedue pallide
e brutte, ma d'una bruttezza nobile e dolce. A destra e a sinistra, su li
angoli della sporgenza, due putti di marmo reggevano due candelabri, in
attitudine eguale, simmetricamente. Ma i ceri non erano accesi. Soltanto il
legno di ginepro, nell'ardere, spandeva un chiaror volubile e vermiglio. E lo
splendore or più debole or più vivo illustrava nella parete avversa una
tappezzeria fiamminga di Jacopo Dourdin, raffigurante
l'Istoria di Carlomagno che reca soccorsi al buon re
Giordano, intessuta d'oro di Cipro e di filo d'Arras; la quale un tempo
appartenne a un duca di Borgogna. Tutte le altre cose erano immerse nell'ombra;
e qua e là d'improvviso scintillavano ad ogni maggior guizzo del fuoco.
- O amica - disse il conte di San Sostene, con tenera voce,
piegando quasi un ginocchio a terra - voi siete triste?
- E' vero - rispose la marchesa di Monasterace,
tendendo i mirabili piedini verso la fiamma ed abbandonando il busto
all'abbraccio dei cuscini, con un'attitudine di languor doloroso.
- Quale può esser mai, Ebe, il vostro tormento? - chiese il
conte, prendendole una mano e guardandola nel profondo delli
occhi. - Voi…
- Paolo, in verità io vi dispenso dal proseguire - interruppe
la nobile donna. - So già quel che volete dirmi. Io sono bella: la mia bellezza
è pura e perfettissima; nondimeno è anche un poco
strana. Io posseggo tesori, castelli imperiali, immensi dominii
attraversati da fiumi navigabili, un intero arcipelago nell'oceano Atlantico, e
tre miniere di diamanti in una regione degli Urali. Ho al mio cenno una
moltitudine di amici devoti. Se si trattasse di regolar la pace e la guerra, o
di cogliere le stelle del firmamento come da una siepe fiori, sarei obbedita
senza indugio. Ma, ohimè!, la causa della mia tristezza non è un capriccio così
lieve. Io soffro del più acuto, del più profondo, del più crudele tormento che
mai possa affliggere un'anima feminina: soffro d'una
curiosità inappagata.
- Oh! - esclamò Paolo attonito. - Quale mistero, e quale
enigma può mai resistere al voler vostro? Parlate; e sorgeranno mille Edipi in un'ora. Domani, prima del tramonto, voi sarete
paga.
La marchesa di Monasterace si mise a
ridere. L'ironia faceva amara la sua bocca.
- Mio Dio! Che mai vi accade questa sera, Paolo? Siete giunto
alla terza citazione mitologica; ed avete giudicata la mia curiosità con un
irriverente leggerezza. Credete voi ch'io possa occuparmi d'un mistero così
facilmente penetrabile? Ben altro io voglio.
Il signore tacque, chinando il capo. E nel silenzio s'udivano
le voci della fiamma. Dopo un intervallo non breve, la marchesa ordinò:
- Voglio sapere il segreto della principessa di Policoro
- La principessa di Policoro ha
dunque un segreto?
- Conte - disse l'inclita Ebe, alzandosi d'improvviso, con un
atto d'impazienza vivissimo - per questa sera io vi do il commiato.
Stupefatto da quella severità terribile, il conte chiese con
voce umile: - Di grazia, qual è ora il mio fallo?
- Voi parlate come n personaggio di comedia,
che ripete sempre le ultime parole delle frasi dette dal suo interlocutore. Sì,
dunque, sappiatelo: la principessa di Policoro ha un segreto; ed è un segreto così oscuro e
impenetrabile che io in verità da qualche tempo passo le mie notti insonni
nella meditazione. E m'affatico invano.
- Oh divine ore perdute! - sospirò Paolo, che alfine
comprendeva la cagione per cui la dolce amante da più notti gli chiudeva le
porte del penetrale.
- Voi osate di mettere un sospiro lamentevole, mentre io mi
degno di rivelarvi l'origine della mia
tristezza e del mio languore?
- Mi pento e mi dolgo - disse il San Sostene, confuso da
quella singolare irascibilità della donna.
- La principessa di Policoro ha il
segreto della Salamandra.
- Inter omnia venenata Salamandrae scelus maximum est.
- Ella vive nel fuoco senza esserne tocca. Ha il dono di
suscitare l'amore in tutti li esseri che si volgono a lei e di affascinare e di
signoreggiare li uomini e di mutarne le sorti e di trasformarne li animi con
tale immancabile prontezza che veramente, quando io ci penso, rimango quasi
atterrita.
- La Policoro fa professione di
magia; non sapete? Si dice che ella abbia ritrovato in un cofanetto non so che
quantità di pietre vertudiose e di materie medicinali
per comporre beveraggi, con le relative regole manoscritte in lingua caldaica da un suo avo, il quale fiorì nel primo secolo
dopo la natività di Gesù Cristo. Il the che si beve
in casa della principessa ha talvolta infatti un sapore speciale; e i gioielli
ch'ella porta addosso hanno forme misteriose e chiudono gemme non mai vedute.
Le altre dame portano smeraldi, rubini, zaffiri. Voi, Ebe, nelle cerimonie
solenni, portate trecentonovantanove diamanti di tutte le grandezze: un
firmamento intero. Apollonia di Policoro invece non
porta che alettorii e calcedonii
e lincurii e crisoprassi e gagatessi e geracchitessi e piritessi e oritessi e tutte
quante insomma le diaboliche pietre del Lapidario di Evax,
re d'Arabia, e del vescovo Marbodo.
- Paolo, voi siete erudito.
- Sì, anima mia. Con tutte quelle virtù pendenti alli orecchi e intorno al collo ed ai polsi la principessa
è irresistibile. Tutti i cuori, d'intorno a lei, fiammeggiano e si consumano.
L'aria che ella respira è ardente come l'aria delle fornaci. Ma ella attraversa
gl'incendi della passione, incolume:
Di mia morte mi pasco e vivo in fiamme:
stranio cibo e mirabile salamandra.
-Paolo, basta. Queste cose non mi
dilettano. Rispondetemi piuttosto: conoscevate il duca di Picerno?
- Sì, amica dolce. Io fui testimonio del duello in cui egli
rimase ucciso dal duca di Santa Panagia.
- Or dunque voi sapete ch'egli era un uomo straordinario.
Favolosamente ricco, dopo avere acquistato tesori in paesi sconosciuti ed avere
edificato città e tenuto al suo servizio intere popolazioni di barbari, e dopo
avere sterminato pe' bisogni della sua causa non so
quante tribù d'indiani ed avere abbattuto foreste secolari ed aver piantato, a
similitudine del dio Bacco, la vite nei deserti infecondi, egli ancora molto
giovine si diede tutto alle imprese d'amore. Aveva la bellezza che piace alle
donne, temperata di grazia e di forza. Era disumano, superbo, incurante del
dolore altrui, dispregiatore del pericolo. Pareva nato a vincer sempre. Tutte
le donne si sottomettevano a lui, umili e palpitanti; ed egli non faceva
differenza tra una principessa di stirpe reale e una villana. Era veramente il
cavaliere di molti inganni celebrato ne' canti dei poeti
- Ebbene?
- Ebbene, quando egli conobbe Apollonia di Policoro
si trasfigurò d'improvviso. Non respirò più che per lei sola; la seguì ovunque,
come l'ombra segue il corpo; passò i
suoi giorni in una specie di adorazione contemplativa, in un'estasi infinita e
soavissima; smarrì la coscienza di ogni
cosa che non appartenesse al suo amore. E Apollonia si lasciò adorare, nulla
mai concedendo, simile a una divinità impassibile e inesorabile. A poco a poco
il duca, disperando di poterla mai possedere, precipitò dall'estasi in un supplizio senza nome; e una notte,
affranto , disperato, riarso dal lungo desiderio, risoluto a vedere per
l'ultima volta la crudelissima donna e quindi a morire, salì la grande scala
d'ebano intarsiata di madreperla, che conduce alle stanze della principessa per
misteriosi giri. La scala era deserta Nel vestibolo, ove sono i dieci arazzi
grotteschi di Giulio Romano, ardeva una lampada sola. Il silenzio era profondo.
Poiché il duca titubava, apparve Galatea Vagula Blandula, la camarlinga; e gli
accennò la porta delle celebre sala bianca dove Apollonia, a cui debbono esser
cari i vergini splendori della neve, ha voluto eseguire la mirifica Sinfonia
del poeta di Rondalla. Entrando, il duca rimase come
abbacinato.
Sopra origlieri così lievi e molli
che parevano immateriali, era distesa la principessa di Policoro,
quasi intieramente sommersa nell'onda oscurissima
della chioma. Intorno, tutte le cose nella lor
purezza parevano forme di luce. Ma quando con un gesto divino la principessa
aprì la chioma ridendo ed emerse ignuda da quella viva tenebra, come Venere da
un fiume dell'Inferno, tutte le cose intorno impallidirono, e il duca fu invaso
da un impeto di gioia così sovrumano che cadde fuor de'
sensi sul tappeto.
Allorché rinvenne, dopo alcune ore, si trovò solo. La luce del
giorno penetrava dalle finestre fredda ed uguale. I molli origlieri
conservavano ancora l'impronta del corpo di Apollonia. Egli avrebbe voluto
rimaner là per sempre, in quel meraviglioso teatro del suo sogno; ma siccome un
gentleman può rassegnarsi a tutto, fuorché
a sembrare un notaio dei tempi passati mostrandosi in abito nero alle nove
della mattina, decise infine d'andarsene. E nell'andarsene, pieno di speranza,
non pensò certo a lasciare in dono alla grande amica qualcuna delle solite
volgari opere d'orificeria comprate al ridicolo
prezzo di centomila o di cinquecentomila
lire nostre: ohibò! Ma ebbe occasione allora di congratularsi seco
medesimo d'una felice abitudine presa nei viaggi della prima giovinezza. Egli
soleva portar sempre addosso, in un sacchetto di pelle rara, una certa quantità
di diamanti così grandi e puri che in verità i miei cedono al paragone. Lasciò
dunque cadere, come per negligenza, il sacchetto entro il cavo che la nudità
adorata aveva fatto nelli origlieri.
E discese la scala d'ebano pianamente.
- Notevole saggio di stil narrativo
parlato! - disse il conte di San Sostene, non senza gravità.
Giunto alla sua casa, il duca si gettò sul letto per
riordinare i pensieri un po' confusi e tumultuanti. Insofferente della posa
orizzontale, si levò dopo alcuni minuti e si mise a percorrere la stanza in
lungo e in largo. In questo utile esercizio gli avvenne di urtare con la punta
del piede un corpo duro. Volse li occhi a terra; ed egli, che aveva visto tante
cose singolari ed in ispecie talune tribù rosse, dove
i poeti lirici son tenuti in onore, non poté
trattenere un moto di stupefazione scorgendo il sacchetto dei diamanti medesimo
c'egli aveva poc'anzi lasciato sui cuscini della
principessa di Policoro. Interrògò
i domestici, e nessuno seppe chiarire il mistero.
- Oh, virtù dell'Elitropia!
- Ordinò i cavalli sarmati e con la
massima celerità si fece portare alla casa di Apollonia, dove Galatea Vagula Blandula gli annunziò che
la principessa era partita d'improvviso per un'incognita mèta. Il supplizio del
duca di Picerno ricominciò più feroce ancora. Il
ricordo indistruttibile della fuggevole visione di quella notte gli turbava la
mente, gli rodeva il cuore, gli inaridiva le vene. Egli passò le sue vigilie a
comporre un epistolario dove le epistole supplichevoli si avicendavano
con quelle minacciose, e le epistole ragionevoli con quelle prive di senso
comune Questa sua insigne opera di prosa non fu mai letta, a quanto si dice,
dalla principessa di Policoro. Ben fu letta invece da
Galatea Vagula Blandula; la
quale essendo una camarlinga di nobile facondia e
conscia deì suoi doveri, una bella mattina si
presentò al duca che allora stava terminando la dugentesima
quinta epistola; e gli disse con fiorito linguaggio: "Io vengo, mio signor
duca, a sfrondare il verde albero delle vostre illusioni." A tali parole
il duca impallidì visibilmente. Ma Galatea, alludendo alle offerte di nozze che il Picerno faceva ad Apollonia nelle sue ultime missive,
soggiunse: "Qual demenza è mai la vostra, mio signor duca? Come potete mai
pretendere di stringer le nozze con l'innumerevole riso del mare o con il
chiaror trepido delle stelle o con il profumo dei giacinti e dei narcisi? Non
comprendete voi che Apollonia di Policoro, essendo
perfetta e pari alla divinità, non deve appartenere ad alcuno? Ella si è
degnata di concedere a voi la gioia più grande che mai uomo possa desiderare
ne' sogni: la visione della bellezza ignuda. Siate pago; e deponete per sempre
ogni altro desiderio vano." Se il duca non impietrò,
fu prodigio. Dopo un intervallo di terribile silenzio, avendo riacquistato
l'uso della favella, disse tra i singhiozzi che gli rompevano il petto:
"Alacre Galatea, poiché la tua padrona comanda ch'io debba soffocare in me
ogni brama, mi conceda ella almeno di offerirle un
dono degno della divinità sua. In questi giorni vien
posta al pubblico incanto una delle isole del Mediterraneo. Mi conceda la
tiranna di Policoro ch'io gliela doni e la popoli
d'una gente nuova e vi stabilisca il culto d'Apollonia dea."
- Sorrise la camarlinga dotta, e
rispose: "Il favor d'una dea non si acquista a prezzo così vile, mio duca.
Siate ammirabile e laudabile sopra tutti li uomini;
liberate dalla schiavitù una nazione e guidatela alla vittoria; edificate un
tempio che sia più armonioso del Partenone; scolpite
una statua che sia più viva del Discobolo di Mirone, più composta del Doriforo di Policleto, più
possente dell'Heracles di Fidia; scrivete un poema
che abbia perfette tutte le rime, nuove tutte le imagini,
e sia più soave d'una musica, più profondo e puro d'un cielo stellato, più
ricco d'un fiume d'oro; rappresentate su la tela un gran fatto umano o divino,
con tale luminosa magnificenza di colori e di forme che la gloria di Paolo Veronese, di Rembrandt
e di Leonardo si oscuri; aprite una nuova fonte di piacere alla sazietà delli uomini moderni; scoprite una nuova legge della natura;
fate sorgere un'arte nuova dalla
comunione di tutte le arti o fate che dal connubio dei sette peccati capitali
con le tre virtù teologali nasca un'altra famiglia di peccati e di virtù.
Allora, forse, Apollonia vi concederà di offrirle un mazzolino di
violette." Il duca di Picerno già si preparava
ad una di queste imprese quando, come vi rammentate, fu immaturamente ucciso in
duello dal duca di Santa Panagia.
- E' questa la veridica istoria dell'infelice amore del duca
di Picerno per Apollonia tiranna di Policoro, ne sien testimoni
l'imperator Carlomagno dalla barba fiorita e il buon
re Giordano.
- Paolo, voi siete insopportabile.
- Voi siete, o Ebe, una inimitabile favolatrice.
- La verità vi confonda. In prova del mistero che avvolge la
divina figura di Apollonia io ho voluto recare l'esempio più insigne; ma li
adoratori di lei, egualmente ciechi e
tragici se non egualmente illustri, sono innumerevoli. Come mai può
ella, non amando e nulla concedendo, esercitare un tal potere sopra li uomini?
Quali arti ella usa per fare obliare alli uomini
tutta la lor vita passata e per trasfigurarli così
profondamente? Quel virtù ignota, in mezzo a così vasti incendi di amore, la
conserva sempre pura?
- La virtù della pietra Brettagnina
- disse ridendo il conte di San Sostene. - Virginitate
par sia sua dilizia… Né al demonio non sta prossimana… Serpenti scaccia, e…
- No, Paolo. La cosa è tanto grave ch'io mi meraviglio come
non vogliate ancora rinunziare alla esposizione del vostro Lapidario.
- De speciebus
lapidum…
- Ascoltata. Due, veramente, sono i misteri di Apollonia: il
primo è quello del suo irresistibile fascino su li uomini; il secondo è quello
della sua intangibile purità. E due anche saranno li esperimenti miei.
La marchesa di Monasterace tacque un
istante, figgendo nel fuoco li occhi che scintillarono come due topazi bruni, perocché ella avesse l'iride pendente in quel color tané
oscuro che, a sentenza dell'elegantissimo Firenzuola,
pare ottenga nell'occhio il primo grado. Dopo la breve meditazione, durante la
quale il conte ardì baciarle più d'una volta la punta delle dita che avean unghie firenzuolescamente
simili a balasci legati in rose incarnate con la foglia del fior di melagrana,
ella soggiunse:
- Ascoltate bene, Paolo. Voi sarete il mio ausiliario.
Paolo s'inchinò.
- Voi sarete l'amante di Apollonia.
Paolo aprì smisuratamente le palpebre, stupefatto.
- Con la vostra opera di amore - continuò Ebe, senza badargli
- tre cose noi otterremo. Scopriremo il primo mistero; scopriremo il secondo, e
vinceremo… la virtù della pietra Brettagnina.
L'impresa è degna.
Paolo, alzandosi in piedi, fece atto di parlare. Ma Ebe con un
cenno lo fermò.
- So già quel che volete dirmi. Io vi dispenso graziosamente
da ogni protestazione di fedeltà e da ogni rossor di modestia. Ed ecco le ragioni. Imprendendo la
conquista della tiranna di Policoro voi non mi sarete
infedele perché non avrete fatto che obedire ad un
mio comando. Né dovete arrossir di modestia, ritenendovi inferiore al gran
compito, perché indirettamente rechereste offesa a me stessa. In verità un uomo
che è riuscito ad essermi accetto non può pensare che una qualunque altra donna
gli sia spietata. Ma poi nel caso nostro, amico, la modestia è fuor di luogo.
Non sarete voi che avrete il merito della conquista d'Apollonia, sì bene sarò
io.
- Comincio a credere, mia cara Ebe, che questa Apollonia vi
abbia propinato, in una tazza di the, un qualche beveraggio - interruppe il
conte, guardando con una certa inquietudine l'amica, che a poco a poco
accendevasi in volto come un giglio all'aurora.
- Sarò io - continuò la bellissima donna, senza badargli: - Io
vi dico che li uomini conoscono molto
imperfettamente le arti della seduzione. Lo stesso duca di Picerno,
il Don Giovanni celebrato dai poeti, se fosse stato meno inesperto, avrebbe
vinta alfine ogni resistenza; ma a lui mancarono li ammaestramenti, che non
mancheranno a voi. O amico, credetemi: quando una donna cade nelle reti d'un
amante, non cade già affascinata e acciecata
dall'artificio dell'uccellatore, ma per voler suo, per suo diletto,
compiacendosi d'esser vittima contesa di una trama ch'ella avrebbe potuto assai
facilmente districare. La ingenuità di certi uomini, nel credersi sul serio
irresistibili, è davvero meravigliosa. Essi ignorano le regole più elementari di
questa, diremo così, strategia ossidionale che io nelle mie ore d'ozio ho
voluto approfondire. Li errori ch'essi commettono sono innumerevoli e
grossolani, e sarebbero irrimediabili nella maggior parte dei casi, se
l'indulgenza delle donne non fosse più grande della misericordia di Dio.
- Siete atroce, o Ebe - mormorò il conte umiliato.
- La seduzione per li uomini non è un'arte e non ha dell'arte
né anche le apparenze; ma è uno stupido esercizio convenzionale, un
imparaticcio volgarissimo, una comediola scipita e
monotona che omai tute le figlie d'Eva sanno a memoria e sopportano
pazientemente sino alla fine, con una specie di rassegnazione, come fanno tant'altre cose. Io mi ricordo d'aver sentita, non so più
in qual teatro urbano, una farsa in cui una giovine signora distesa su una gran
poltrona, accendendo una sigaretta, teneva a un giovine signore press'a poco questo discorso: "Poiché è indispensabile
che voi facciate l'assedio della mia virtù secondo tutte le regole della
consuetudine, cercate almeno di abbreviare. Un amante un po' svelto può far
molto in breve tempo. I madrigali, le prime confessioni, gl'inginocchiamenti,
le timide audacie, gli sconforti, le temerità finali non hanno bisogno di
lunghi intervalli. Da parte mia dichiaro che difficilmente potrò rassegnarmi a
concedervi i miei favori se anche, guardate, nel tempo che durerà questa sigaretta,
voi mi farete dal principio alla fine, avendo cura di non omettere la benché
minima particolarità, la corte assidua ed attenta, senza cui una donna che si
rispetti non potrebbe uscire dalla sua riservatezza naturale."
- Ella aveva a pena finito di parlare, e già il signore era scomparso. Egli ricomparve, in un attimo,
vestito d'una livrea, con una lettera in mano. Ella non volle ricevere la
lettera. Egli uscì e tornò poco dopo, recando un altro biglietto. Questa volta
ella consentì a ricevere il messaggio d'amore. Egli uscì di nuovo; e di nuovo
tornò, ma vestito de' suoi abiti; e cadde in ginocchio
mormorando parole ardenti di gratitudine. Ella, con gelida severità,
gl'ingiunse di levarsi, additandogli la porta. Il signore non si fece ripetere
il comando; e tornò dopo tre secondi, con li occhi rossi per molto pianto.
"Invano, per due lunghi mesi, aveva tentato di obliare quella che gli era
più cara della vita. Invano! Giorno e notte, dovunque, era perseguitato dall'imagine indimenticabile." A tali parole la donna parve
intenerirsi, tocca da quel perseverante amore. Ma ella sapeva i suoi doveri, a
cui non avrebbe mancato giammai. "Partite, viaggiate: la lontananza potrà
darvi l'oblio." "Ebbene, partirò!" disse, tra i singhiozzi,
l'infelice. Un minuto dopo, egli era già tornato, stanco per la fatica, pallido
per le sofferenze; aveva percorso la Spagna, la Russia, la Grecia e perfino la Mesopotamia e il regno di Siam. "L'avrebbe ella ancora respinto, dopo sì
lunga ed angosciosa prova?" Sì,
ella lo respinse. Pazzo di dolore e d'amore, egli si slanciò alla finestra e
disparve: si udì il terribile grido dell'uomo che s'infrange il cranio sul
lastrico. Ella trasalì a quel grido. "Tutto era finito. Egli dunque moriva
per lei per colpa di lei!" Si preparava a venir meno, quando il suicida
ricomparve, sorretto da due domestici, livido, con una fascia intorno alle
tempie. A tale orrida vista, ella non seppe più frenare gli impeti della
passione. Prese il ferito tra le braccia; e licenziati i domestici, tutta
trepida, l'adagiò su la gran poltrona. Quindi disse: "Io sono vostra.
Avete saputo far le cose con tanta lestezza che la mia sigaretta è poco più giù
della metà. Bravo!" e cadde, mentre il sipario cadeva.
- La farsa è graziosa - fece il conte. E ben raccontata.
- Ma io, poiché sono in
vena, ve ne dirò un'altra; che non è veramente una farsa, ma una pantomima,
veduta l'anno scorso in un teatro viennese: Arianna
abbandonata nell'isola di Nasso (Vi prego, Paolo,
di non interrompermi con li esametri di Valerio Catullo). Una delle scene
principali raffigurava l'incontro del giovine Dionigi con la bellissima figlia
di Minosse. Dopo aver imprecato a lungo ed invano dietro
l'ospite flavo, sulla riva del mare…
- Mollia nudatae tollentem tegmina surae…
- (Vi prego!) ella sedeva su una rupe e rimaneva là, in
un'attitudine tragica, quasi impietrita dal dolore. Sopraggiungeva Dionigi
dalla conquista delle Indie; e in poco più d'un quarto d'ora conquistava anche
la disperata amante di Teseo. L'audacia del coreografo, in verità, era
eccessiva e anche, se vogliamo, alquanto irriverente verso la memoria della Minòide che senza dubbio al tempo suo lottò assai più d'un
quarto d'ora contro le pretese di Bacco; ma da tutti li spettatori l'audacia
non fu né anche rilevata, poiché la nebride bacchica
pendeva dai perfetti omeri di una donna. Codesto dio femineo
rispondeva al nome di Giulia Arici, della celebre
mima fiorentina, che ha un elegantissimo corpo di androgine, il corpo preso a
modello da Nicodemo Albani pel suo San Sinforiano; non so, qualche cosa simigliante
a una Urania del Primaticcio, nelle estremità; l'ideale, in un tipo un po'
egizio, della linea di bellezza professata dal pittore lirico Sandro Botticelli.
- La conosco - disse il conte.
- Ella dunque sapeva con tal mirabile arte rappresentare tutti
i moti e gl'impeti del desiderio, e sapeva esprimere dallo occhi tanta forza di
persuasione e di astuzie così varie ed impreviste e nuove; sapeva afforzare il natural fascino
della sua bellezza, che non Arianna soltanto, ma qualunque altra donna
terrestre si sarebbe arresa. Vinta infatti e quasi ebra, la figlia di Minosse piegava lentamente verso il dio. La sua testa dai
diffusi capelli d'oro si avvicinava alla men bionda
testa di Dionigi dai capelli intrecciati a foggia di corna d'ariete; e le
bocche, alfine, si toccavano come le due rose di uno stesso ramo.
- La sorte d'Arianna aspetta Apollonia di Policoro
- soggiunse Ebe, con un sicuro sorriso - poiché l'assalirà nella sua torre
d'avorio un uomo inspirato da un alto genio feminino.
- Io sarò dunque Giulia Arici? -
chiese Paolo, anch'egli sorridendo, ma d'un mal sicuro sorriso, tra
l'inquietudine, la curiosità e l'incredulità.
- Voi non sarete che un semplice comediante
a cui io suggerirò ogni parola, ogni gesto, ogni attitudine, e i modi dello
sguardo, e i modi del sorriso, e i modi della voce, e insomma tutto. Io darò,
per mezzo vostro, al mondo un esempio sovrammirabile,
quale non Alessandro Macedone e non Caio Giulio Cesare né alcun altro poliorcete lasciò nella storia: L'esempio di un
difficilissimo assedio condotto, dal
principio alla fine, senza un solo fallo e senza una sola incertezza. Il sarò
la vincitrice della tiranna di Policoro…
Volea più dire, quando comparve, al
limitare d'una delle grandi porte del fondo, un maggiordomo annunziando:
- Galatea Vagula Blandula,
camarlinga di Sua Eccellenza la principessa di Policoro, chiede con istanza d'essere ammessa al conspetto della serenissima marchesa di Monasterace
e Comitini.
- Entri - disse la marchesa, con mal dissimulata meraviglia,
mentre il conte di San Sostene balzava in piedi.
La camarlinga entrò, reggendo con le
mani un canestro di filigrana ricolmo di rose multicolori. Ella era alta e
sottile, vestita d'una specie di tunica lunga. Camminava con una straordinaria
leggerezza, coronata da una capellatura cinerea; somigliando un poco a certe
figure dei freschi di Michelino Besozzo, ma avendo
nella bocca il sorriso enigmatico delle donne di Leonardo. Come fu dinanzi a
Ebe, le offerse il canestro, inchinandosi. Ella avea
la voce d'un timbro singolare, perché si nutriva di cose amare.
- La principessa di Policoro prega
la marchesa di Monasterace d'accettar queste rose, giunte nella sera
fresche dal dominio di Castrovalva.
E inchinandosi una seconda volta, si ritirò.
Il caso è degno di nota
- disse, dopo un intervallo di silenzio, il conte che aveva guardato la camarlinga allontanarsi.
Ma Ebe non fece motto. Ella era tutta intenta a guardare le
rose.
- Piena di grazia quella Galatea, del resto - seguitò il
conte. - Mi ricorda un poco Doroty Dese, l'attrice tragica.
Ebe taceva, pensando. Le rose non avevano pure un soffio di
profumo; ma erano d'una magnificenza e d'una larghezza non mai vedute: alcune
vermiglie e fulgide come l'antica porpora d'Elisa, altre nere come un velluto
funerario, altre candide e dolci come la mammella d'una giovinetta, altre
infine di puro argento come il piè di Teti celebrato
da Omero.
- O Ebe, o cara Ebe, a che pensate ora? - chiese Paolo, inginocchiandosi dinanzi a lei e
prendendole una mano, con un desiderio di carezze. - Da troppo tempo voi mi
fate languire! Lasciate la tiranna nella sua torre d'avorio, e date a me tutti
i vostri pensieri.
Così dicendo, tentava di togliere dal grembo dell'amica il
canestro. Ma Ebe lo respinse con un gesto così severo ch'egli tornò al suo
posto, umiliato.
Il fuoco nel camino era quasi spento. Un'ombra fluttuante
invadeva la sala e spandevasi a poco a poco, simile a un vapore, in cui le cose
si perdevano e quasi naufragavano con una lentissima dolcezza. L'odore, un poco
inebriante, del legno di ginepro. vaniva
in quell'ombra. I quadri, le statue si
confondevano, senza forma, senza colore.
Rimaneva illuminata in un angolo una terra cotta a smalto di Luca Della Robbia,
l'Annunciazione. Più in là emergeva
bianco il profilo di un busto di donna del Verrocchio,
e splendeva d'una luce singolare un bronzo di Andrea Riccio, conservante
qualche traccia di doratura. Come più languiva il fuoco, non si vedeva che
l'oro: l'oro delle cornici, l'oro della tappezzeria di Fiandra, l'oro d'un
ciborio di Benvenuto.
D'improvviso Ebe, con voce dura, ruppe il silenzio.
- Paolo, andatevene!
Paolo, senza parlare, umilmente obbedì. Non si udì nemmeno il
rumore de' suoi passi, attenuato dal tappeto alto e
morbido come un letto di fiori.
Nel camino il fuoco moriva. A pena un chiarore sanguigno, il
chiaror di un rubino, invermigliava li alari. Il
silenzio era profondo. Ma nella solitudine uno smarrimento vago incominciò ad
occupare l'animo della donna. Ora un profumo lento, caldo, fluido, più
penetrante d'un'essenza di aroma, più deificante di un vapore d'ambrosia, con
onde così misurate che davano al senso anche la voluttà del ritmo, saliva dal
canestro delle rose d'Apollonia. Il ritmo delle onde a poco a poco crescendo,
parve ad Ebe che in quel profumo fosse contenuta una voce non mai udita,
fievole, carezzevole, lusinghevole, infinitamente dolce. E le parve, pel
fascino di quella voce, di sentirsi coperta di baci innumerevoli, meglio che un
arbusto a maggio non sia coperto di tenere foglie.
- Che sarà mai? - mormorò ella, sorgendo dalla mollezza con
uno sforzo supremo, tutta tremante.
Le rose si sparpagliarono sul tappeto, e l'ultimo guizzo del
fuoco le illuminò di un lampo, mentre Ebe, nella tenebra, guidata dalle sottili
zone di luce che indicavano la porta delle sue segrete stanze, incedeva
pianamente fra le statue, sostando ad ogni tratto e vacillando, presa dalle vertigini.
- Che sarà mai? - mormorava ella atterrita, poiché l'idea del
potere magico le era apparsa nella mente d'un tratto.
Aprì la porta, entrò, attraversò le quattro stanze ove
splendevano per ordine i celebri arazzi dell'Istoria di Maria de'
Medici composta dal divino Rubens; e giunse al penetrale. Corsero Pulcheria
e Anatolia, le due cameriste fedeli; ma ella le congedò ambedue.
- Andate.
Le lampade ardevano placidamente, versando una luce eguale sul
damasco delle pareti intorno a cui ricorreva intessuto un ornamento di fiori e
di simboli composto da Giovanni di Udine. Più dolcemente risplendeva delle
lampade un tran tondo del pittore
lirico Sandro Botticelli, di quell'artefice
meraviglioso, il più ardente, il più sottile, il più profondo, l'elegantissimo
fra i quattrocentisti, che seppe dare alle sue figure sacre il lucido sorriso
delle deità gentili ed alle sue ignude ninfe e iddie
greche la soave castità delle vergini
cristiane. La Madonna, tenendo fra le braccia il bambino, in un'attitudine piena
di stanchezza quasi sofferente, stava seduta in mezzo a un coro d'angeli.
Dietro di lei sorgevano tre alte coppe d'oro colme di rose, fulgenti
nell'azzurro.
Ebe sollevò li occhi al quadro, dicendo, come per uno
scongiuro:
- Ave, Maria, gratia
plena!
Poi guardò uno delli angeli
preganti, ch'ella amava; il quale aveva su lo spirito di lei una singolare virtù
di pacificazione. L'angelo portava una ghirlanda di cipresso pendente dal
braccio poggiato su la ringhiera di pietra, era vestito d'un delicato color di
ambra ed aveva i capelli biondi giù per li omeri e di su i capelli un gruppo di
gigli simbolici sovrastante.
Ebe ancora mormorò:
- Ab insidiis diaboli libera me, candor lucis aeternae!
Il gran letto, tutto fasciato dal cortinaggio, protendeva
un'ombra profonda. Le allegorie della volta, a quell'albore,
assumevano il color diffuso e misterioso dei mosaici d'una basilica.
Ebe incominciò a svestirsi, con gesti lenti e languidi, talora
esitanti, soffermandosi ad ogni poco quasi per tender l'orecchio. Si tolse le
fini calze di seta, d'una tinta così rara che non aveva nome tra le tinte
conosciute; e le gittò lungi come fiori appassiti,
mollemente. Apparvero le sue gambe ignude, polite come di marmo pario, e i piedi piccoli e snelli, e i malleoli fragili come
quelli di un fanciullo, e i ginocchi delicati che con tanta venustà
nascondevano l'intreccio de' muscoli e il nodo delle
ossa. Quindi sciolse di su la spalla il nastro che tratteneva l'ultima spoglia,
la camicia più sottile e più preziosa delle tela gialla che nel tempo antico
riportavano i mercanti dalla Battriana.
Quella neve fluì lungo il petto, seguì l'arco delle reni, si
fermò un attimo ai fianchi; cadde poi d'un tratto ai piedi come un fiocco di
spuma. Ed Ebe sorse tutta pura nella sua divinità. Ella guardò i suoi piedi
splendere fra i fiori e i caratteri persiani del sedicesimo secolo intessuti
sul tappeto che pareva materiato d'argento, d'oro
verde e di lapislazuli. Le unghie erano rosate e il
pollice era lungo e discosto alquanto dalle altre dita come il pollice d'un
piede statuario.
Ella rimase in quell'attitudine un
istante, con la testa un po' china, con il petto a pena mosso dal respiro,
mentre a sommo della bocca le fiorivano le parole e quasi direi si disegnavano,
senza suono: le parole di lode che una donna mormora in segreto alla propria
bellezza. Ma, come li occhi le corsero alle mani inanellate, con un gesto di
grazia si tolse li anelli, ch'eran molti e
fiammeggianti. Quindi li seminò su 'l tappeto.
Rimasta così nella sua semplice perfezione, si volse al letto.
Il silenzio era altissimo; le lampade ardevano dolcemente; ed ella era omai
senz'alcuna tema.
Come sollevò con mano sicura i cortinaggi ella vide su l'origliere la testa di Apollonia, bianca, divina, profondata
nell'oscuro mare delle chiome. Scoprendo i denti nivei nel sorriso e
protendendo le braccia, la tiranna di Policoro disse:
- Cedo a Ebe.