LA MISSIONE DEI GESUITI A BIANDRATE |
Nella
primavera dell’anno del Signore 1601 migliaia di persone della bassa Valsesia,
e tra esse Antonia, andarono in pellegrinaggio a Biandrate a vedere la tigre
imbalsamata e gli altri animali meravigliosi e mostruosi che i reverendi padri
missionari della Compagnia di Gesù portavano attorno di villaggio in villaggio,
di città in città, nello Stato di Milano e in tutta Europa: per stimolare le
nuove vocazioni, mostrando al popolo cristiano i progressi compiuti dalla vera
fede nei paesi lontani e inesplorati e per raccogliere offerta d’ogni genere,
in denaro ma anche in sacchi di riso, di frumento,di segale; in porci e capre e
capponi vivi, che i villani si trascinavano appresso, venendo dai più sperduti
villaggi della bassa; in forme di formaggio e salami d’oca. Biandrate è un
borgo della ripa del Sesia un po’ più a nord di Zardino e i nostri pellegrini,
per andarci a piedi, dovettero partire dall’aia dei Nidasio prima che il sole
sorgesse. Erano in sette: la signora Francesca con Antonia, Consolata Barbero
con le figlie e con il piccolo Irnerio. Il cane Nero li seguì, come faceva
sempre, per un breve tratto fuori del paese; poi tornò indietro. Per aiutar le
missioni, ma anche per rifocillarsi durante il percorso, le due donne portavano
ciascuna una paniera piena stipata d’ogni ben di Dio: uova sode, salami sotto
grasso, ciccioli d’oca, marmellata di prugne. I ragazzi si tenevano per mano:
Luigia con Irnerio, Antonia con Anna Chiara. Soltanto Teresina, che era la più
grande, e che si considerava già adulta, una donna fatta! chiudeva il gruppo
camminando da sola. Procedettero seguendo il bianco della strada tra le siepi
degli orti e tra i campi seminati, e quando costeggiarono il dosso su cui
stormiva nel buio, nera e gigantesca, l’albera dei ricordi, Antonia si sentì
gelare, trattenne il fiato; strinse la mano di Anna Chiara così forte che la
bambina si lamentò: "Mi stai facendo male!" poi, cominciò a
albeggiare: a destra, dalla parte di Novara. Su un orizzonte indistinto,
nebuloso, affiorò il sole: un disco rosso, un po’ velato, che alzandosi
s’accendeva d’una luce sempre più vivida, si rifletteva nell’acqua delle
pozzanghere e dei fosse e sui bordi delle nuvole, costringendo le donne -
quando uscirono dal bosco - a ripararsi gli occhi col fazzoletto che tenevano
in capo, e i bambini a farsi schermo con le mani. Antonia non aveva mai visto
sorgere il sole e si ricordò di quell’alba fin che visse; ancora se ne sarebbe
ricordata, a Novara, quand’era prigioniera nella Torre dei Paratici e guardando
attraverso le feritoie nella prima luce del mattino vedeva sotto di sé il rosso
dei tetti, e le nebbie della pianura, e il Monte Rosa che affiorava da quelle
nebbie, irraggiungibile, come il suo sogno di salvezza… "Ecco, - avrebbe
pensato in quei suoi ultimi giorni - io vorrei essere lassù!" Arrivarono
alla Fonte di Badia che il sole era già fuori dai vapori, ma l’erba nei
prati era ancora bagnata di rugiada: e
si stupirono, scendendo, di non vedere le le Madri rispecchiarsi sulla
superficie dello stagno, tra le ninfee e i rami dei salici che scendevano fino
ad unirsi con i loro riflessi. "Non ci sono più le madri!" esclamò
Teresina. Si guardarono attorno. La lastra di marmo con lo gnomone conficcato
nel mezzo stava sempre là, sopra i gradini di pietra grigia della fonte, a
segnare le ore della bassa; sulla sua base in muratura una scritta ammoniva:
tempora metimur
sonitu umbra
pulvere et unda
nam sonus et
lacrima
pulvis et umbra
sumus
("Misuriamo le ore | Col suono e con l'ombra
| Con la polvere e con l'onda | Perché noi stessi siamo polvere e ombra |
Rumore e lacrime" e nient’altro); ma sulla riva opposta dello stagno erano
stati tolti i due blocchi di marmo,informi e levigati dalle intemperie più che
dalla mano dell’uomo, in cui la fantasia popolare per almeno due millenni aveva
visto effigiate le più antiche divinità della regione,le Matrone celtiche:
diventate Madri Matute in età pagana e poi, con il cristianesimo, le Madri. Al
loro posto c’era un rustico altarino: pochi mattoni legati insieme con la calce
e, sopra questi, una Madonna bianca e blu di ceramica dipinta alzava gli occhi
al cieli in gesto di preghiera, tenendo tra le mani una corona del
rosario."Chissà poi a chi davano fastidio, le Madri! - disse la signora
Francesca in tono contrariato. - Stavano lì da sempre, e, per quello che so io,
non avevano mai fatto male a nessuno!"
Le due
donne si sedettero sui gradini della Fonte, scoprirono le paniere e diedero ai
ragazzi, come prima colazione, un uovo sodo e un pezzo di focaccia ciascuno. SI
sentivano a disagio. C’era un gran silenzio, lì attorno: nemmeno un uccello che cantasse tra le fronde dei salici
né un pesce che guizzasse sulla superficie
dello stagno. Forse - pensò la
signora Francesca - quel posto era sempre stato così silenzioso: ma perché lei
non ci aveva mai fatto caso, come ora? "Chiunque ha tolto le Madri, non
gliene verrà bene!", disse Consolata: che, come quasi tutte le donne della
bassa, era molto attenta a ogni genere di presagi e di superstizioni. Aggiunse,
dopo un breve silenzio: "Le Madri si vendicheranno!"
Teresina
rifletteva. Non eran poi così terribili! - disse infine. - Per quante storie si
raccontassero su di loro… Bastava fargli un regalino quando si passava, una
cosa qualsiasi: un frutto, un fiore che si raccoglieva per strada prima di
arrivarci, e loro erano contente. Perché le han tolte? Chi le ha tolte?"
Si
rimisero in cammino che il sole era già alto e di lì a poco arrivarono in vista
del paese. Ad Antonia, che non c’era mai stata prima d’allora, Biandrate sembrò
una piccola città: c’erano perfino dei portici, bassi bassi, ed una strada
acciottolata che, come quelle di Novara, aveva in mezzo due guide in pietra per
facilitare lo scorrimento dei carri. C’era molta confusione, molta gente: carri
e carretti dappertutto, e contadini vestiti della festa, coi cappelli a cono;
comari agghindate come la signora Francesca, con il costume della bassa
Valsesia, o tutte in nero, come la Consolata Barbero; giovanotti e spose, cioè
ragazze in età da marito con in testa il diadema di spilloni (l’argento) che
era l’emblema della loro condizione; ragazzetti e monelli e bambini piccoli che
le madri tenevano per mano o legati con una strisciolina di cuoio, perché non
si perdessero. La presenza dei missionari e della tigre aveva richiamato nel
borgo una quantità di girovaghi: venditori ambulanti, ciarlatani, procacciatori
d’affari,giocolieri, musici, accattoni… Attorno a costoro, come sempre, s’era
creata un’atmosfera rumorosa e festosa, da sagra di paese, che rendeva i nostri
ragazzi eccitatissimi e li faceva sostare ad ogni passo, di scoperta in
scoperta: "Laggiù! L’uomo più forte del mondo!" "Il
mangiafuoco!" "L’uomo che cammina sui vetri rotti!" "Per
favore, mamma, dammi almeno un mezzo soldo!" "Una moneta di rame, per
comprarci lo zucchero!".
Comperarono
cinque canne di zucchero e lo mangiarono guardando l’uomo che camminava scalzo
sopra i cocci di vetro; ma, sebbene poi ne raccontassero mirabilie, di fatto
videro pochissimo, soltanto le schiene delle persone che avevano davanti e di
là dalle schiene la faccia dell’acrobata che si stava spostando. Un suo compare
col tamburo faceva un rumore basse e continuo d’accompagnamento e lui,
l’acrobata, veniva avanti piano piano, con gli occhi chiusi per aumentare la
concentrazione: tutti i muscoli del suo viso erano tirati e anche i capelli
erano legati sulla sommità della testa a formare una specie di coda. Quando
arrivò in fondo, il tamburo smise ei rullare; gli occhi dell’uomo si aprirono,
le schiene si mossero, ci fu un applauso non troppo caloroso: qualche mano
frugò nel borsellino, qualche moneta tintinnò sul selciato. La gente si
disperse, mentre lo zingaro e il suo aiutante raccoglievano le monetine di
rame. Il piccolo Irnerio era eccitatissimo. Correva avanti, si perdeva tra la
gente; poi d’un tratto ricompariva, gridando cos’aveva scoperto. Pretendeva che
lo donne lo seguissero. "Di qua, - gridava: - venite! Giocano a dadi! Fate
in fretta!"
Non fu
impresa da poco quella di togliere al bambino d’attorno a un gruppo di uomini -
facce nient’affatto raccomandabili, capelli lunghi, coltellacci alle cinture -
che si erano radunati, in atteggiamento tra curioso e circospetto, attorno a un
tizio con una gran barba rossa ed una gran cicatrice che gli attraversava la
fronte, e al suo minuscolo banco: un panchettino pieghevole, lavorato a
intarsio, su cui l’unica merce esposta erano un bicchiere di legno, ed un paio
di dadi. La partita non era ancora incominciata, tutto era fermo. L’uomo dalla
barba rossa guadava in faccia i suoi possibili avversari e non diceva niente;
teneva in mano due reali d’argento e li faceva saltellare sulla palma aperta.
Consolata e Teresina dovettero portare via Irnerio sollevandolo per le braccia,
di peso, mentre lui recalcitrava e piangeva tutte le sue lacrime, Un po’ più in
là un mercante di vasi e bottiglie aveva sciorinato per terra la sua mercanzia
ed attirava i bambini con certi uccelli di terracotta colorata che bastava
riempirli d’acqua e soffiarci dentro per sentirli gorgheggiare come uccelli
veri. Costavano piuttosto cari, un soldo l’uno: ma fu a quel prezzo che Irnerio
si quietò, e ricominciò a sorridere con le guance ancora bagnate di pianto. A
ciascuna delle ragazze, invece, la signora Francesca regalò un salvadanaio di
coccio dipinto a fiorellini. Proseguirono: il mercato s’allargava con i
venditori di tisane, di unguenti per qualsiasi genere di piaga, elisir per
vivere cent’anni, di panacee o rimedi universali per tutti i mali. "La
teriacca! La teriacca!", gridavano certi venditori vestiti di nero da capo
a piedi, come i medici: e allineavano sul banco che avevano davanti certe
bottigliette piene di un farmaco oleoso che, variando le dosi e le modalità di
assunzione, curava tutto. "La teriacca di San Marco!" (che si faceva
a Venezia e veniva considerata migliore delle altre). Più avanti, si passava
tra due file di statuette e di statue di ceramica dipinta, in una festa di
colori: c’erano i blu degli abiti delle madonne, i rossi accesi dei Sacri
Cuori, le tinte bruciate dei Sant’Antonii e dei San Franceschi, i gialli e gli
ori delle aureole, i verdi dei piedestalli, gli avori e i rosa dei visi… I
villani si incantavano a guardare, con gli occhi spalancati e le bocche aperte.
Esclamavano: "Che belle statue! Sembran vere!" (Volendo dire che
sembravano persone, o qualcosa del genere). Comperavano certe Madonne e certi
Redentori così grandi, che per trasportarli fino al loro paese, se li dovevano
legare sulla schiena, avvolti alla bell’e meglio dentro una coperta. E il
mercato continuava. Si vendevano crocefissi d’ogni misura e d’ogni materiale:
in terracotta, in legno, in bronzo, in legno e bronzo, in legno e avorio, in
argento, in peltro… Si vendevano reliquiari fatti a sbalzo, cesellati, con
incastonate pietre e vetri colorati, con dentro - spesso - una microscopica
Reliquia; piccole teche ed urne di cristallo,per riporvi gli oggetti di
devozione; campane di vetro sigillate, con dentro riprodotti gli episodi del
Nuovo Testamento: l’Annunciazione, l’Ascensione, la Resurrezione; immagini della
Via Crucis, cioè dei tormenti che Gesù Cristo ebbe a patire trascinando la sua
croce fino sul luogo del martirio; lampade cosiddette "perpetue";
ceri, di tutte le grandezze e di tutte le fogge: colorati, scolpiti, ornati
tutt’attorno da corone di ferro smaltato che raffiguravano tralci di vite con
attaccati i grappoli dell’uva, oppure gigli e crisantemi intrecciati tra loro.
Si vendevano le acque miracolose, dentro ampolle che facevano bella mostra di
sé allineate sulle panche o imballate nella paglia. Secondo quanto dicevano le
etichette, quelle ampolle provenivano dai luoghi santi di tutto il mondo
cristiano: dall’Abbazia di Montecassino al Monte Athos, da Santiago de
Compostela, in Spagna, alla Santa casa di Loreto, nelle Marche; e l’autenticità
delle acque in esse contenute era attestata da lettere patenti di reverendi
abati e d’altri ecclesiastici d’alto rango, incorniciate e appese al muro
dietro le spalle dei venditori. Non mancavano, naturalmente, le acque dei
santuari locali: del Sacro Monte di Varallo, della madonna di Re, della madonna
Nera di Oropa, della madonna del latte di Gionzana: particolarmente ricercate,
queste ultime due, dalle donne che non riuscivano ad avere figli. Si vendevano
messali, e libri di devozione, e libri d’ore, variamente illustrati e colorati;
si vendevano stampe in bianco e nero colorate
a mano di tutti i santi elencati nel calendario ma soprattutto di quelli
le cui virtù erano ben note nella bassa, e che quindi si invocavano più
frequentemente nelle preghiere dei contadini: San Teodulo che preserva i campi
dalla grandine; San Defendente che difende i fienili dagli inendi; San Giovanni
Nepomuceno che tiene a freno gli straripamenti del Sesia; San Cristoforo che
impedisce le cadute; San Rocco che allontana i contagi; San Martino che
protegge i mezzadri; Sant’Apollonia che cura i mali della bocca… Tutte le
stampe di questi Santi, e d’altri ancora, erano appese come panni di bucato
sopra le teste di quelli che passavano e che, se si fermavano a guardarle, dopo
aver lodato la bravura dell’artista dicevano del Santo, o della Santa:
"Gli manca solo la parola! Sembra proprio vivo!" ("Sembra
proprio viva!")
Le due
donne, e le ragazze, e lo stesso Irnerio, trascorrevano di entusiasmo in
entusiasmo, di sorpresa in sorpresa: per le stampe dei Santi, per le acque
miracolose, per le Reliquie, per i crocefissi, per tutto. Tra un’esclamazione e
l’altra, tra un acquisto e l’altro, come Dio volle arrivarono in un punto dove
il mercato finiva: lì c’erano i padri missionari, i Gesuiti, che raccoglievano
e smistavano le offerte, da una parte gli animali vivi, dall’altra il resto; e
anche le nostre comari vuotarono le paniere. La folla dei curiosi veniva poi
avviata su un unico percorso, proprio di fianco alla chiesa: sul muro esterno
della chiesa era stata appesa una tela lunga lunga, tutta dipinta a riquadri di
colori vivaci, e sotto quella tela c’erano altri missionari che si affannavano
a spiegare alla folla le gloriose imprese del venerabile Francesco Saverio;
fondatore, insieme a Ignazio di Loyola, del loro ordine; primo missionario in
Malacca, Giappone e Cina; campione e martire della fede cristiana che, come
tutti sanno, è quella vera: l’unica, che conduce gli uomini alla salvezza
eterna! Questi missionari gesuiti avevano teste rasate, grandi barbe e
portavano bene in vista sull’abito un cuore d’argento, poco più piccolo di un
cuore vero. S’alternavano a dire le lodi del loro fondatore: un grand’uomo, un
vero martire della fede – ripetevano – che sua santità Papa Clemente VIII
avrebbe proclamato beato nel prossimo
anno del Signore 1602, ricorrendo i cinquant’anni dalla morte; e per cui già
era stata avviata la causa di santificazione. Indicavano le immagini dipinte
sulla tela servendosi delle canne che avevano in mano, spegavano alla folla:
"Qui Francesco Saverio, già uomo fatto, incontra il giovane Ignazio di
Loyola che sta compiendo i suoi studi al collegio di Beauvais… Qui siamo a
Venezia, come ognuno può vedere: a destra nel dipinto ci sono le gondole e il Canal Grande coi suoi
palazzi; a sinistra, invece, inginocchiato, c’è Francesco che sta per essere
ordinato prete… Qui siamo in India, nella città di Goa: Francesco cura i
lebbrosi e gli appestati e gli sorride, indifferente al pericolo del contagio…
Qui Francesco è a Yamaguchi, in Giappone: assiste un condannato a morte che
riuscirà a convertire prima del supplizio…" Il piccolo Irnerio cominciò a
piagnucolare che aveva fame, che voleva andarsene da lì. Mezzogiorno era
passato da un pazzo: il sole caldo batteva a perpendicolo sulle teste dei
nostri pellegrini ma non c’era modo di uscire dalla calca in cui tutti erano
stretti e si stringevano: bisognava arrivare fino in fondo con le storie di
quel Santo che, se lo avessero lasciato fare, avrebbe convertito da solo tutto
il genere umano e invece tutti lo ostacolavano: i perfidi selvaggi della
Malacca e del Giappone, i suoi stessi confratelli pigri e ipocriti, perfino un
certo capitano Alvaro de Ataide, un vero manigoldo!; che gli aveva fatto
fallire la missione in Cina. Il Santo stava male, era in fin di vita e però non
moriva mai. "Crepasse in fretta!" s’augurava Antonia. Infine il Santo
crepò e la folla tirò un sospiro di sollievo. Tutti pensarono: è finita!
Un’occhiata alla tigre, e si va a mangiare…
Svoltarono
dietro l’abside della chiesa, dentro un cortile. Gli animali erano là, sotto
una grande cupola di tela che riparava i loro corpi imbalsamati dai raggi del
sole e dall’umidità della notte: ma non c’era la tigre. Un altro prete, anche
lui con il cuore d’argento in evidenza sull’abito, indicava le fiere ad una ad
una con una canna; non senza approfittare della circostanza per impartire ai
pellegrini qualche nuovo insegnamento morale. Diceva: "Questo è il
coccodrillo", e tutt’attorno dalla folla, s’alzava un coro di esclamazioni
e di commenti sbigottiti; "che prima uccide e divora le sue prede, e poi
piange pensando al male che gli ha fatto. Come lui molti cristiani s’inducono
al peccato illudendosi, stolti!, che per andare in Paradiso, gli basterà dire:
mi pento, un poco prima dell’ultimo respiro. Purtroppo per loro, le cose stanno
in tutt’altra maniera. Il Paradiso, Dio non lo regala a nessuno: arrivarci è
come scalare una montagna; e i gradini per salirci sono le buone opere e gli
atti di pietà". "Quest’altro animale a destra, con il muso lungo
lungo, è ilformichiere, che infila la lingua nei buchi del terreno per
catturare le formiche, di cui è ghiotto. Così anche facciamo noi missionari,
raggiungendo ogni angolo della terra con la parola di Dio per trarne anime da
avviare alle mete eterne!" "Questo mostruoso serpente che vedete,
lungo più di venti spanne e grosso come la trave di un tetto, è l’animale
pitone: che prima soffoca le sue vittime avvolgendole nelle sue spire e poi le
inghiotte tutt’intere, per quanto grandi esse siano. Così fa il Diavolo con gli
uomini: afferra le loro anime, le stritola nel vizio, le fa precipitare in un
luogo oscuro, chiamato inferno, dove non c’è riscatto né salvezza ma soltanto
risuona una parola, la parola mai". Animale dopo animale, arrivarono
all’ingresso di un grande granaio che doveva essere stato ripulito per la
circostanza e che era presidiato da due persone: da una parte un missionario
regolava l’afflusso dei visitatori, facendoli entrare a piccoli gruppi, di otto
o dieci per volta, non di più; dall’altra un moro vestito da moro, con un abito di seta viola
lungo fino ai piedi e un turbante in capo,metteva davanti a tutti quelli che
entravano la taschetta delle elemosine, e non la toglieva finché non s’era sentita
tintinnare la moneta sul fondo. “Là dentro, - disse il missionario, - c’è la
tigre: il Satana degli animali, la più crudele delle bestie. Guardatela il
tempo di dire un Pater noster e poi andatevene con Dio, perché qui non c’è pià
niente da vedere”. Mentre aspettavano il loro turno, Antonia spiegò ad Irnerio
com’è fatta una tigre; lei lo sapeva, o credeva di saperlo, avendola vista
disegnata da suor Clelia, nel suo quaderno: dov’erano anche rappresentati gli
uomini che vivono nella foresta indiana, lontani dalla civiltà, con le loro armi
e le loro capanne, e alcune belve di cui la conversa aveva sentito parlare dai
padri missionari, nelle loro prediche. “La tigre, - disse la ragazza al bambino
che aveva ricominciato a piagnucolare, - è un grosso gatto, con due baffi così
larghi; molto più astuto e più feroce dei gatti normali”. Quando fu il momento
di entrare nel granaio, la signora Francesca e Consolata misero alcune monetine
nella sacca che il moro gli porgeva; si ritrovarono dentro allo stanzone, alla
luce delle torce e non dissero più niente perché la parola gli morì in gola,
restò sospesa in un “Ah!”, che era insieme di spavento e di ammirazione. La
tigre era lassù nella penombra, alta sopra le teste dei visitatori, con le
zampe davanti sollevate in un certo modo che sembrava balzasse fuori dal buio
proprio in quell’istante. La sua bocca, spalancata ed arrossata col minio,
mostrava zanne così grandi da far sembrare assolutamente minuscole quelle di
cinghiale, di cui i bravacci dell’epoca si facevano collane: i vetri gialli
degli occhi s’accendevano nei riflessi delle torce, la cui fiamma muovendosi,
ne riverberava e ingigantiva l’ombra viva contro il soffitto e sui muri. Era
più grande di un vitello, più grande di un cavallo, più grande di un bue.
Nessuno mai, nella bassa, aveva visto un animale così fatto; nessuno pensava
che potesse esistere davvero, fuori dai sogni. I villani si toglievano il
cappello, le comari si facevano il segno della croce, i bambini piagnucolavano
e s’attaccavano alle gonne delle madri, come appunto Irnerio: “Mi fa paura! Ho
paura!” Girarono attorno al mosgtro imbalsamato senza distoglierne gli occhi,
trattenendo il fiato: quasi temessero che potesse ancora rianimarsi, per
aggredirle. Sul fianco destro della tigre, all’altezza della spalla e un poco
sotto, c’era un taglio o, per meglio dire, un vero e proprio squarcio che
l’imbalsamatore aveva cercato di ricomporre in vari modi, con il filo e con il
pennello, senza tuttavia riuscirci. Da lì, pensò Antonia, era esalata l’anima
della tigre: e chissà quale arma o quale trappola poteva aver avuto ragione di
una simile belva! Rabbrividì. Si ritrovò fuori del granaio, assieme agli altri
visitatori, fra gli orti e i muriccioli di quel villaggio della bassa e le
sembrò un’assurdità che la tigre esistesse davvero, e che fosse stata viva, e
che poi fosse finita proprio lì, in quel granaio e in mezzo a quella gente, per
opera di quei preti dalle grandi barbe… Sentì di odiarli. Che diritto avevano,
quei preti, di rimescolare a quel modo le cose del mondo?