RIFLESSIONI SULL'ISLAM

 

 

 

INDICE

 

 

  L'Islam e la schiavitù

  La schiavitù nei paesi cristiani e quella nei paesi islamici. L'opinione del sociologo Rodney Stark

  Sacre Scritture, Corano, letteralismo e psicofarmaci

  Il luogo comune della superiorità culturale dell'Islam in epoca medievale

  L'islam moderato esiste veramente o è un mito culturale occidentale?

  L'opinione di Charles de Gaulle sull'immigrazione islamica

  Il Devshirme o "tassa di sangue": un tributo in esseri umani preteso dai conquistatori ottomani nei confronti delle popolazioni cristiane.

  La famosa descrizione del devshirne, o tributo di sangue imposto dagli Ottomani ai Cristiani dei Balcani, nel libro Il ponte sulla Drina di Ivo Andric.

  Integrabilità degli Islamici: qualche nota a margine.

  Il mito della tolleranza islamica nei confronti dei sudditi di altre religioni. Alcune necessarie precisazioni.

  Il mito della tolleranza islamica nei confronti dei sudditi di altre religioni. Le drammatiche condizioni dei cattolici balcanici sotto l'Islam.

  Ingresso della Turchia nella Unione Europea e rischi connessi: le vere ragioni per cui sinora le è stato impedito - e forse saggiamente.

  Uomini, donne, eunuchi nei paesi islamici tradizionalisti

  Letture consigliate

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'Islam e la schiavitù

 

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I musulmani non hanno mai abolito ufficialmente la schiavitù, per il semplice motivo che a norma di legge coranica non possono farlo: Maometto, l'uomo ideale, che Allah ha dato come modello ai credenti, aveva schiave e schiavi. Qualsiasi Imam, se interpellato, potrebbe confermare questo dato.

I Musulmani sono stati schiavisti per ben 1300 anni (dal 600 d.C. al 1965) perché l'Arabia Saudita e gli altri paesi islamici hanno sospeso, non abolito la schiavitù negli anni Sessanta del Novecento (fonte: Wikipedia). Per contro, i cristiani hanno reso la schiavitù una prassi diffusa e quantitativamente importante solo per 350 anni (dal 1500 al 1850): e non tutti i paesi cristiani.

Già il 2 giugno 1537 Papa Paolo III emanò una bolla in cui scriveva: "Gli indiani e tutte le altre genti […] possono usare in modo libero e lecito della propria libertà e del possesso delle proprie proprietà; […] non devono essere ridotti in servitù e […] tutto quello che si è fatto e detto in senso contrario è senza valore."

Il Papa Innocenzo XI, Benedetto Odescalchi, nel 1683 tentò di estirpare la pratica della schiavitù in Angola

Il sociologo Rodney Stark, nel sul libro A gloria di Dio, che esamina i pregiudizi e le accuse mosse al Cristianesimo da un punto di vista storico, pone un interrogativo inquietante: perché in Turchia, ex impero ottomano, che ha utilizzato largamente, per quasi mille anni, schiavi di colore, non esistono gli afro-turchi, mentre in America esistono gli afro-americani? Secondo questo rispettabile studioso, è più che possibile che le donne di colore venivano costrette ad abortire o i neonati venissero uccisi, il che, se confermato, darebbe un quadro di trattamento brutale che contraddice con l'asserzione di parte islamica che la schiavitù nei paesi musulmani sia sempre stata molto blanda.

Una affermazione apologetica corrente riguardo la schiavitù nei paesi islamici è che si trattava perdipiù di schiavitù domestica, il che non è vero: cronache dell'epoca riportano notizie di masse di schiavi neri utilizzati per le opere edilizie presso La Mecca, e sicuramente è stato così anche altrove.

Il Khanato di Crimea, fondato dai Tartari Giray dell'Orda d'Oro, era di religione islamica, ed è stato storicamente uno dei maggiori razziatori di schiavi, attraverso gli incessanti raid in Ucraina. Si calcola che 1.800.000 ucraini siano stati ridotti in schiavitù nel corso della storia del Khanato e venduti sui mercati degli schiavi dell'Impero Ottomano. Le condizioni terribili in cui vivevano gli schiavi agricoli dei Giray sono state raccontate da molti viaggiatori. Basti solo dire che, non essendovi animali da tiro nell'Impero Ottomani e paesi limitrofi, gli schiavi dovevano persino tirare l'aratro. La notte venivano gettati in fosse dove dormivano all'addiaccio.

A proposito della schiavitù domestica, si trascura di dire che la possibilità di accedere all'harem, che nei paesi islamici è il nome della parte privata della casa, dove sono le donne e gli ospiti non possono entrare, era subordinata, almeno nelle famiglie di rango, alla castrazione dello schiavo. La castrazione degli schiavi per gli harem è stata praticata per parecchi secoli. Chi conosce l'inglese può leggere in questo file l'articolo del ricercatore turco Ezgi Dikici, "The Making of the Ottoman Court Eunuchs: Origins, Recruitment Paths, Family Ties, and 'Domestic Production' " che ne illustra gli aspetti più terribili.

Chi ha visitato paesi come la Grecia, sa benissimo quanto sia penoso uscire a lavorare per molte ore della giornata, a causa del sole e del calore soffocante. Le condizioni di lavoro nelle piantagioni di cotone erano ancora più terribili. Il fatto che si tratti di "schiavitù domestica" dovrebbe significare, nell'intenzione di chi lo fa presente, che si trattava di lavori "leggeri", ma questo, per chi conosce le cronache del lavoro servile nelle famiglie borghesi europee dell'Ottocento, è quantomeno dubbio.

Non si capisce comunque quale attenuante dovrebbe rappresentare il fatto che si tratti di "schiavitù domestica", posto che si tratta sempre del vergognoso assoggettamento della vita di un essere umano alla volontà di un altro. Chi scrive non pensa che essere uno "schiavo domestico" salvasse queste disgraziate persone dalle violenze fisiche se solo si rifiutavano di lavorare.

Tanto per fare termini di paragone, è ben noto che non è raro che le colf - che pure sono islamiche - che provengono da paesi come Indonesia, Filippine ecc. sono utilizzate come schiave sessuali dei rampolli delle famiglie arabe altolocate. Nel sito www.migrants.org è stata pubblicata qualche anno fa la foto di una giovane trovata per le strade di Riyad in coma, con numerose ossa fratturate, un occhio quasi perso e parte delle labbra asportate per il pestaggio a cui era stata sottoposta da parte dei datori di lavoro. Nella pagina si leggeva il commento di un anonimo uomo di affari inglese che diceva che fatti del genere in quei paesi non erano per niente rari, malgrado le veementi proteste dell'ambasciata indonesiana.

Sempre gli apologeti della schiavitù islamica affermano che il Corano e Maometto incitano alla liberazione degli schiavi, ma la liberazione di uno schiavo anziano è un atto che lo priva d'un tratto di tutti i mezzi di sussitenza, ed effettivamente le cronache di visitatori di Costantinopoli parlano di queste folle derelitte di schiavi affrancati.

Infine, non è stata fatta ad oggi nessuna ricerca storica per quantificare il coinvolgimento di negrieri islamici nella tratta degli schiavi, che pure fu importante per consentire agli occidentali di approvvigionarsi nell'interno dell'Africa, di cui i musulmani controllavano alcune regioni.

Attualmente esistono organizzazioni umanitarie specializzate nel riscatto dei cristiani del Sudan che i miliziani islamici rivendono sul mercato degli schiavi fin nelle oasi interne della penisola arabica. Attività di riscatto che gli organismi dell'ONU hanno ripetutamente condannato, perché… mettono a rischio i rapporti internazionali, rappresentando una "provocazione occidentale" agli occhi dell'Islam intransigente!

Mentre l'Impero Ottomano, la più grande realtà islamica nei secoli XI-XIX era contraddistinto da una pratica schiavistica ben radicata, i riferimenti ad una analoga pratica nei paesi cristiani sono, a giudizio di chi scrive, piuttosto indiretti. Si veda in questo file il paragrafo con l'articolo di Francesco Barbarani, da cui emerge una pratica non massiccia e non priva di voci autorevoli di opposizione.

Rimane poi sempre il fatto che la società cristiana ha infine abolito sponte sua la schiavitù, poiché alla fine il lievito e gli anticorpi della dottrina cristiana hanno prevalso sugli interessi economici, mentre niente di remotamente simile è avvenuto nei paesi islamici.

 

 

 

La schiavitù nei paesi cristiani e quella nei paesi islamici. La opinione di Rodney Stark.

 

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Come per la nascita della scienza, così anche per l' opposizione morale alla schiavitù fu essenziale la teologia cristiana. Con questo, non voglio negare che i primi cristiani accettassero in qualche modo la schiavitù. Tuttavia, va riconosciuto che fra tutte le religioni del mondo, compresi i tre grandi monoteismi, solo nel cristianesimo si sviluppò l'idea che la schiavitù fosse un peccato e dovesse essere abolita. Benché sia una moda negarlo, le dottrine antischiaviste iniziarono a comparire nella teologia cristiana poco dopo il declino di Roma e ottennero la definitiva scomparsa della schiavitù ovunque, tranne che ai margini dell'Europa cristiana. Quando successivamente gli europei istituirono la schiavitù nel Nuovo Mondo, lo fecero nonostante la strenua opposizione papale, un fatto questo che è stato dimenticato nella storia, per motivi di convenienza ideologica, fino a epoche recenti. Infine, l'abolizione della schiavitù nel Nuovo Mondo fu un'impresa avviata e portata a termine da attivisti cristiani.

Queste sono le tematiche principali che svilupperò in questo capitolo, insieme ad altre due questioni molto importanti. Per prima cosa, l'eccessiva adesione al «politicamente corretto» non ha fatto altro che cancellare il fatto che la schiavitù un tempo fosse praticamente universale per tutte le società in grado di permettersela, e che solo in Occidente nacque una significativa opposizione di natura morale che portò alla sua abolizione. Purtroppo, quando trattano della schiavitù, i libri di testo danno l'impressione che si sia trattato di un vizio specificamente europeo, e soprattutto americano, e non parlano dell'estensione della schiavitù in epoche passate, o delle notevoli dimensioni del fenomeno che tuttora persiste in molte parti del mondo non cristiano. Anzi, fra le molte migliaia di libri sulla schiavitù attualmente pubblicati (una ricerca per argomento su Amazon mi ha dato come risultato 2680 titoli), praticamente non ci sono storie generali o studi comparativi di una certa portata. Invece, nella maggioranza di essi, gli autori si limitano a trattare la schiavitù nel Nuovo Mondo, e spesso circoscrivono il loro interesse a uno stato o anche solamente a una città, o a una contea, o a una piantagione. Di conseguenza, per comporre questo capitolo, sono stato costretto a un grande sforzo di sintesi. Una seconda ragione per cui ho deciso di scrivere questo capitolo è il fatto che un gruppo di storici revisionisti incredibilmente influenti ha tentato non solamente di negare che la religione svolse il ruolo principale nel sostenere il movimento antischiavista, ma anche di sostenere che essa non ne fece parte - e che la retorica religiosa degli abolizionisti fosse o «falsa coscienza» o una maschera dietro cui si nascondeva un tornaconto economico. Ciò che segue, dunque, è un tentativo di dire come stanno davvero le cose. Una sintesi della storia complessiva della schiavitù mi permetterà di analizzare la connessione esistente fra le diverse religioni e la schiavitù nelle diverse epoche, così da riuscire a dimostrare il motivo per cui fu solamente la teologia cristiana, con l'eccezione di un certo numero di sette ebraiche, a sviluppare una prospettiva abolizionista. Poi esaminerò la diffusione nella società dell'opposizione teologica alla schiavitù e la creazione di movimenti sociali antischiavisti veri e propri. Descriverò quindi l'incapacità di filosofi e moralisti non religiosi o anti-religiosi dell' «Illuminismo» di opporsi efficacemente alla schiavitù. Infine, smonterò la tesi che fu solamente l'economia a porre fine alla schiavitù e che tutti i riferimenti a Dio e al peccato furono irrilevanti.

 

Un breve sguardo d'insieme sulla schiavitù

 

Uno schiavo è un essere umano che, per il diritto e la consue-tudine, è una proprietà, o un bene mobile, di un altro essere umano o di un piccolo gruppo di esseri umani. La proprietà di schiavi comporta il controllo assoluto, incluso il diritto di punizione (spesso comprendente anche il diritto di vita e di morte), di dirigerne i comportamenti e di trasferirne la proprietà. Le modalità primarie mediante le quali le persone diventano schiave sono nascita, cattura, vendita da parte di genitori o famigliari, e procedimento giudiziario - i criminali e i debitori spesso sono stati condannati alla schiavitù.

Non solo la schiavitù è stata una caratteristica quasi universale della «civiltà», ma era anche comune in un certo numero di società «aborigene» sufficientemente ricche da potersela permettere - per esempio, la schiavitù era un fenomeno prevalente fra i nativi americani delle regioni nordoccidentali. L'esistenza della schiavitù è funzionale alla produttività umana. Quando i costi del mantenimento e del controllo gli schiavi sono più che ripagati dalla loro capacità produttiva, ci sarà una domanda di schiavi. Nell'economia delle piantagioni del Nuovo Mondo, come nel mondo antico, gli schiavi erano letteralmente i mezzi di produzione fondamentali. Tuttavia, quando alcuni membri della società sono sufficientemente benestanti, la schiavitù può anche esistere principalmente come forma di consumo, con schiavi utilizzati in ruoli non produttivi, come domestici personali, concubine, intrattenitori e persino guardie del corpo. «La schiavitù di consumo» era la forma tipica nel mondo islamico.

Il termine «schiavo» è una forma corrotta della parola «slavo», poiché i popoli slavi erano una normale fonte di approvigionamento degli schiavi per gli europei (anche la parola araba per «schiavo» è una corruzione del termine arabo per «slavo»). Questo fatto ha un'importanza che va ben al di là dell'etimologia, perché ci permette di capire che spesso la schiavitù non implicava le differenze razziali. Storicamente, la maggioranza degli schiavi era identica ai padroni dal punto di vista razziale, benché di solito appartenesse a una comunità o gruppo etnico diversi. Così la maggior parte degli schiavi cinesi erano cinesi, o asiatici. Gli antichi ateniesi avevano principalmente schiavi greci di altre città-stato o «stranieri» di analoga provenienza etnica, e gli schiavi fra i nativi americani della costa settentrionale provenivano in maggioranza da altre tribù vicine - anche se dopo l'arrivo degli europei nel Nord America, alcuni di loro finirono come schiavi dei Makah e dei Mowachaht.

 

Il declino della schiavitù nel mondo cristiano

 

Il declino della schiavitù cominciò negli ultimi giorni dell'Impero romano, come conseguenza diretta della debolezza militare. Non c'erano più comandanti vittoriosi che distribuivano moltitudini di prigionieri ai mercati di schiavi. Dal momento che i tassi di fertilità erano molto bassi fra gli schiavi romani, a causa sia delle privazioni sia della mancanza di donne, il loro numero scese rapidamente e, per la carenza di schiavi, il lavoro dell' agricoltura e dell'industria venne affidato a lavoratori liberi. Come ha dimostrato Moses Finley, presto «il mondo della tarda antichità non fu più una società schiavista [...] gli schiavi non costituivano più la forza lavoro dominante per la produzione su larga scala nella campagna [...] non rappresentavano più il grosso delle rendite delle élite. Solo nella sfera domestica rimasero predominanti» (Finley 1980, p. 149).

La «caduta» definitiva di Roma causò un'ulteriore diminuzione della schiavitù, dal momento che essa non era mai stata una caratteristica rilevante nelle società germaniche (Thompson 1957). Presto, «in gran parte dell'Europa occidentale la schiavitù cominciò a declinare e poi quasi scomparve con l'emergere del sistema feudale», persistendo «solamente ai margini dell'Europa medievale - in Spagna, nel vasto mondo musulmano, nell'impero bizantino, nella Rus' di Kiev» (Davis 1966, pp. 31, 37). Quest'ultima affermazione potrebbe sembrare ovvia, e benché sia accettata da importanti storici (fra i quali Bloch e Finley), per svariate ragioni alcuni la trovano discutibile.

Da una parte, è molto difficile stabilire con esattezza quando finì la schiavitù nell'Europa cristiana (che continuava tuttavia in aree pagane). Come ha scritto Adam Smith, «il tempo e il modo [...] con i quali fu determinata una così importante rivoluzione è uno dei punti più oscuri della storia moderna» (Smith [1776] 1981, p. 389). La maggioranza degli storici del Medioevo ha semplicemente eluso la questione, ignorando del tutto il fenomeno. Le parole «schiavo» e «schiavitù» a mala pena compaiono nei sette volumi della Storia del mondo medievale (a cura della Cambridge University 1911-1936). La grande storia d'Europa di Norman Davies (1996) contiene solo due riferimenti alla «schiavitù» nell'indice, uno in meno di quelli a Margaret Thatcher e uno in più di quelli al «football» e al «Tour de France». Il primo consiste in una pagina e mezza sulla rivolta degli schiavi guidata da Spartaco nel 73 BCE, l'altro, di estensione simile, è dedicato al primo acquisto portoghese di schiavi in Africa; segue poi un sommario di molti paragrafi sulla tratta atlantica degli schiavi. Quindi, Davies non solo ignora il declino del fenomeno, ma non ha nemmeno nulla da dire sulla schiavitù in Grecia e a Roma, o sui movimenti abolizionisti europei del 1700 e 1800! E le storie di portata molto minore spesso non fanno meglio. Nell'edizione ri- veduta di The Civilization of the Middle Ages, Norman F. Cantor ha menzionato la schiavitù soltanto per affermare, in maniera scor-retta, che il primo cristianesimo non condannava la schiavitù e per imputare alla Chiesa una visione razzista nei confronti dei neri (Cantor 1993). E in A History of the Middle Ages di Joseph Dahmus, le parole «schiavo» e «schiavitù» non compaiono nemmeno una volta (Dahmus [1968] 1995).

Peggio ancora, alcuni storici che si sono occupati della schiavitù europea negano addirittura che essa sia scomparsa. Molti giustificano questa posizione citando l'esistenza della schiavitù fra gli scandinavi e i russi, non riconoscendo che questi non erano propriamente «europei» nell'epoca in questione e trattando come tipici ed esemplari i casi di schiavitù isolati, e di portata solo locale, come a Venezia (Meltzer 1993; Phillips 1998). Altri ancora rifiutano l'idea del declino del fenomeno sostenendo che non avvenne altro che uno slittamento linguistico, nel quale il termine «schiavo» fu sostituito da «servo». In altre parole, invece che scomparire, coloro che un tempo erano chiamati schiavi furono semplicemente chiamati servi, e continuarono ad esistere per tutto il periodo medievale; così, «trasformata ma ancora riconoscibile, la schiavitù continuò a esistere in Occidente, dall'antica Roma all'incontro con le Americhe» (Bensch 1998, p. 231). Qui non è la storia, sono gli storici a fare giochi di parole. Come ha osservato Mare Bloch, la vita dei servi medievali «non aveva nulla in comune con la schiavitù» (Bloch 1999). I servi non erano dei beni mobili; avevano dei diritti e un notevole grado di libertà di scelta. Sposavano chi volevano, e le loro famiglie non erano soggette a vendita o a divisione. Pagavano una pigione, e quindi avevano il controllo del proprio tempo e del ritmo di lavoro, «che in genere era lento e [...] rispettoso dell'individuo» (Fogel 1989, p. 25). Se, in alcuni luoghi, i servi dovevano ai propri signori un certo numero di giorni di lavoro l'anno, l'obbligo era comunque limitato, e assomigliava a un lavoro «a nolo» più che alla schiavitù. Come ha scritto Bloch, «Lo schiavo era stato un bue nella stalla, costantemente soggetto agli ordini del suo padrone; il servo era un lavoratore che si presentava in certi giorni e che se ne andava non appena il lavoro era finito» (Bloch 1975, p. 23). Di conseguenza, benché i servi fossero vincolati da molti «obblighi» al loro signore, anche il loro signore era vincolato da obblighi a un'autorità superiore, e così via, in diversi schemi di obblighi reciproci - e questa era la natura essenziale del feudalesimo (Bloch 1975 e 1999; Dahmus [1968] 1995; Davis 1966; Pelteret 1995).

Anche se nessuno potrebbe sostenere che fossero liberi in senso moderno, i contadini medievali comunque non erano schiavi, e dunque quella brutale istituzione scomparve in quel periodo dall'Europa. Non così a Oriente e al Sud.

 

Schiavitù musulmana

 

Per quasi tutto il secolo corso, la schiavitù esistente nel mondo islamico, come quella fra i nativi della costa nordoccidentale, ricevette poca attenzione. Nel suo Slavery: A World History (1993), Meltzer non nomina nemmeno la schiavitù musulmana se non in una breve discussione sull'attuale schiavitù, proprio alla fine del libro. È come se, paragonata al commercio di schiavi dell'Atlantico, la schiavitù islamica fosse troppo insignificante per essere considerata importante storicamente. In verità, il commercio di schiavi musulmano iniziò molti secoli prima che gli europei scoprissero il Nuovo Mondo e ne furono vittime tanti africani quanti ne furono imbarcati per attraversare l'Atlantico, se non di più (Austen 1979; Curtin 1969; Gordon 1989; Lewis 1990; Lovejoy [1983] 2000; Mauny 1970; Segal 2001; Thomas 1997). Inoltre, molto tempo dopo la fine del commercio occidentale di schiavi, «i sambuchi arabi si muovevano ancora furtivamente da Zanzibar, Mombasa e altri porti dell'Africa orientale, seguendo le familiari rotte dell'Oceano Indiano, per consegnare l"'ebano" [...] destinato a essere venduto nelle fiere di schiavi dell'Arabia, del Golfo Persico, dell'Impero ottomano e dell'India» (Gordon 1989, p. 4).

Per la stragrande maggioranza dei casi la schiavitù musulmana era del tipo «di consumo». I primi esperimenti con l'impiego di schiavi nelle piantagioni provocarono sanguinose ribellioni, e la pratica della schiavitù fu discontinua - l'esistenza di vaste popolazioni contadine nelle aree agricole dell'islam, poi, scoraggiava il ricorso al lavoro degli schiavi. C'erano alcuni corpi militari d'élite composti solamente da schiavi, soprattutto bianchi di origine cristiana comprati quando erano bambini. Ma era la servitù domestica a costituire la: maggioranza degli schiavi islamici, e moltissime erano anche le schiave concubine. Di conseguenza, «le schiave erano richieste molto più degli uomini» (Gordon 1989, p. 57), e molti schiavi, maschi adulti o ragazzi, venivano evirati al momento della cattura o dell'acquisto. Ciò causava una mortalità estremamente elevata, ma le conseguenti perdite finanziarie erano molto più che controbilanciate dalle somme pagate per gli eunuchi. Dal momento che tutte le forme di mutilazione erano proibite dalla legge islamica, le operazioni erano svolte da «infedeli», come i cristiani copti o gli ebrei, comunque, di solito, sotto la supervisione diretta dei mercanti islamici di schiavi (Gordon 1989; Lewis 1990; Lovejoy [1983] 2000; Segal 2001).

I musulmani non avevano una particolare preferenza per gli schiavi neri, e per secoli utilizzarono un numero enorme di schiavi bianchi. Il numero di gran lunga più grande, probabilmente di diversi milioni, si otteneva con il devshirme, un tributo obbligatorio imposto sugli europei nel Mediterraneo orientale. Ogni quattro anni, i funzionari ottomani passavano in tutti i distretti cristiani sottoposti al dominio dell'Impero e sceglievano i bambini più adatti, che venivano portati via, allevati come musulmani, e poi diventavano schiavi di prezzo elevato. Oltre a ciò, i musulmani raccoglievano un gran numero di schiavi nelle regioni slave dell'Europa, come pure europei presi prigionieri in battaglia o catturati dai pirati. Quando, nel 1535, Carlo V di Spagna invase Tunisi, liberò circa 20.000 cristiani che vi erano detenuti come schiavi (Grun 1982). Nella battaglia di Lepanto (1571), quando le galee cristiane sotto il comando di Don Juan distrussero una grande flotta musulmana, furono liberati 15.000 schiavi galeotti cristiani, e un numero molto maggiore annegò (Hanson 2002).

Tuttavia, quando le forze islamiche vennero respinte al di fuori dell'Europa, la loro fonte principale di schiavi divenne l' Africa. Si stima che nel 1600, fossero più di 7 milioni gli africani trasportati in cattività nelle società islamiche (Lovejoy [1983] 2000). Nei due secoli successivi ne furono portati via altri 2 milioni (Austen 1979). All'inizio del XIX secolo, alcune nazioni dichiararono fuorilegge il commercio atlantico degli schiavi: nel 1803 la Danimarca, la Gran Bretagna nel 1807, gli Stati Uniti nel 1808, e l'Olanda nel 1818. Tuttavia, il flusso di schiavi che si dirigeva verso le nazioni musulmane non conobbe sosta. La stima più plausibile è di almeno 1,2 milioni di persone portate via tra il 1800 e il 1900 (Austen 1979). Quanti schiavi siano stati importati nel XX secolo non si sa, ma di certo non fu un numero trascurabile - la schiavitù fu legalmente abolita in Arabia Saudita solo nel 1962, e in Mauritania solamente nel 1981.

È importante capire anche che queste statistiche riguardano principalmente il trasporto di schiavi andato a buon fine,che partiva dall'interno dell'Africa e aveva come destinazione una nazione islamica. Quindi, il numero effettivo di africani sottoposti a schiavitù era molto più grande, poiché molti morivano «durante le lunghe marce forzate verso la costa o a bordo delle affollate» navi schiaviste (Gordon 1989, p. 149). Le stime più serie affermano «che da un 20 a un 40% di schiavi moriva mentre veniva trasportato verso la costa, un altro 3-10% moriva durante l' attesa sulle coste, e da un 12 a un 16% di quelli imbarcati sulle navi moriva durante il viaggio» (Cohn 1998, p. 290). In totale, si parla di una perdita dal 35 al 66% di persone inizialmente catturate come schiave!

Si è spesso sostenuto che i musulmani si curassero molto più dei loro schiavi e li trattassero con maggiore umanità rispetto ai proprietari di schiavi del Nuovo Mondo. Ronald Segal vorrebbe farci credere che «il trattamento degli schiavi nel mondo islamico era nel complesso più benevolo» e attribuisce ciò all'assenza del «capitalismo di tipo occidentale, che considera prioritario il profitto rispetto alla dignità delle persone» (Segal 2001, p. 5). E M. A. Salahi ha affermato che «gli schiavi, nello stato musulmano, godevano dei diritti umani essendo per il loro padrone degli individui. E fu così solamente nella terra dell'islam» (Salahi 1995, p. 375). Uno dei motivi che stanno alla base di simili affermazioni è il fatto che, a volte, gli schiavi, soprattutto gli eunuchi, ottenevano una posizione di notevole potere e influenza. Ma è fondamentale capire che è fuorviante paragonare uno schiavo tipico del mondo musulmano e uno tipico del Nuovo Mondo, poiché non è possibile confrontare schiavi domestici con schiavi che lavoravano nei campi. E ciò nonostante è facile confutare l'idea che gli schiavi fossero trattati meglio nell'islam. Anzi, è sufficiente osservare quanto poche siano le persone di discendenza africana nelle nazioni islamiche rispetto a quelle del Nuovo Mondo. Dal momento che, approssimativamente, lo stesso numero di africani giunse nelle due diverse aree, se la vita degli schiavi nella «terra dell'islam» fosse stata anche solo paragonabile a quella degli schiavi americani, beh, allora queste nazioni dovrebbero avere una rilevante popolazione nera. Ma non è così, perché la fertilità degli schiavi nel mondo islamico era estremamente bassa, non solo a causa della frequente castrazione degli uomini, ma anche perché l'infanticidio era pratica comune nel caso di neonati che mostrassero una discendenza africana (Gordon 1989; Lewis 1990).

La fine della schiavitù islamica (ma il fenomeno esiste ancora su scala minore), fu il risultato diretto della sua abolizione in Occidente (Lewis 1990). Fu soprattutto la Marina britannica a prati-care l'embargo sulle navi schiaviste musulmane, e le truppe coloniali britanniche e francesi intercettarono innumerevoli carovane di schiavi in Africa, liberando le persone e a volte giustiziando sul posto i mercanti di schiavi. Anche la recentissima abolizione della schiavitù in alcune nazioni islamiche è stata una risposta alla forte pressione occidentale.

 

Schiavitù africana

 

Proprio come hanno ignorato per molto tempo la schiavitù islamica, gli storici occidentali hanno mostrato «una tendenza simile a "glissare" sulla pratica della schiavitù e sull'esteso traf- fico di schiavi, fenomeni largamente diffusi nella stessa Africa» (Gordon 1989, p. 5). Una ragione di questa negligenza è dovuta al fatto che porre l'attenzione sulla schiavitù in luoghi diversi dal Nuovo Mondo significa andare incontro a polemiche spiacevoli ed essere accusati di minimizzare la colpa «dei bianchi». Tuttavia, il motivo principale è che ben poco è stato scritto su qualsiasi argomento riguardi l'Africa. Le fonti sono relativamente poche, e così i libri pubblicati. Eppure rimane il fatto che la schiavitù e il commercio di schiavi erano due fenomeni ben consolidati nel continente da molto tempo prima dell'arrivo degli europei e che i compratori, sia europei sia islamici, dipendevano comunque da fornitori africani (Lovejoy [1983] 2000; Manning 1990; Thornton 1998a).

L'asservimento degli africani neri risale per lo meno all' antico Egitto. Pitture murali sulle tombe dei faraoni ritraggono alcuni schiavi con una pelle scura, in evidente contrasto con gli egiziani di pelle chiara raffigurati nelle stesse scene. Ciò nonostante, fu il possesso di schiavi e non il commercio a costituire l' aspetto fondamentale della schiavitù nell'Africa nera: «Molte delle società africane precoloniali, se non tutte, si reggevano su sistemi schiavistici» che implicavano il ricorso sistematico, e in misura rilevante, al lavoro degli schiavi (Thornton 1998b, p. 27). Dunque, l'inizio del commercio degli schiavi, che fosse con mercanti egiziani, islamici o, alla fine, cristiani, non dipese dalla trasformazione profonda di società agricole a economia chiusa e autosufficiente, che producevano solo per il consumo domestico, in società a economia aperta, che vendevano i prodotti dell' agricoltura o le altre merci. Né si può dire, nonostante le esortazioni di radicali quali Walter Rodney, che il commercio di schiavi fosse stato imposto agli africani dagli europei (Rodney 1984). Infatti, il fenomeno precedette di gran lunga la scoperta e l'esplorazione del territorio africano da parte degli europei. Per di più, molto dopo la scomparsa del mercato estero di schiavi, e nonostante tutti gli sforzi delle amministrazioni coloniali, la schiavitù locale continuò (e continua) in molte parti dell'Africa. La schiavitù africana fu un'istituzione indigena.

 

Schiavitù nel Nuovo Mondo

 

Nel 1441, una piccola nave portoghese con a bordo dodici schiavi neri approdò a Lisbona. Gli africani erano una novità, e il loro arrivo fu accolto con grande interesse, ma senza disapprova-zione, poiché, anche se la schiavitù era ormai da molto tempo scomparsa nella maggior parte dell'Europa, era ancora presente in alcune aree del Mediterraneo. La schiavitù esisteva ancora in quelle parti di Spagna e Italia che si trovavano sotto il dominio moresco (musulmano), e anche in alcune zone cristiane, soprattutto in Spagna, dove c'era uno stato di guerra endemico fra cristiani e musulmani. I cristiani catturati in battaglia dai mori venivano asserviti. A loro volta, i cristiani ricambiavano il trattamento facendo schiavi i prigionieri mori. Anche in Italia il contatto fra musulmani e cristiani alimentava la schiavitù - i mercanti di Ve-nezia vendevano europei (soprattutto slavi) ai mori.

Questo primo carico di schiavi sbarcato nel 1441 a Lisbona fu presto seguito da altri e, quando gli schiavi africani cominciarono a essere venduti anche più a nord, nacque un dibattito sulla moralità e sulla legalità della schiavitù. Rapidamente si diffuse l'opinione che la schiavitù fosse sia un peccato sia un'azione illegale - Jean Bodin (I sei libri della Repubblica), acerrimo nemico delle «streghe», proclamò che la schiavitù era «una cosa assai perniciosa e pericolosa», e che essendosene liberati da tempo in Europa non si doveva ripristinarla. Le idee di Bodin furono riaffermate da Germain Fromageau, professore alla Sorbona, il quale osservò che «nessuno può, in verità di coscienza, comprare o vendere negri, perché in simile commercio c'è ingiustizia» (in Elkins [1959] 1976, p. 69). Venne applicato il principio del «libero territorio»: gli schiavi che facevano ingresso in una terra libera erano automaticamente liberi. Questo principio era saldamente in vigore alla fine del 1600 in Francia, Olanda e Belgio (Watson 1989). Quasi un secolo dopo, nel 1761, i portoghesi lo tradussero in una legge, e un giudice inglese applicò lo stesso principio in Gran Bretagna nel 1772 3• Benché a volte venissero tollerate alcune eccezioni come il possesso di un solo schiavo domestico, o due, soprattutto se in compagnia di un viaggiatore straniero, «al di là di qualche servo in Spagna e Portogallo, nell'Europa occi-dentale di fine XVI secolo c'erano pochissimi veri schiavi» (Blackburn 1998, p. 62). Nel frattempo, Colombo era salpato verso il Nuovo Mondo.

Portogallo e Spagna quindi si trovarono coinvolte nell'enorme sforzo di controllare, sfruttare e sviluppare i propri interessi in questa vastissima nuova regione. Il che richiedeva una forza lavoro. I tentativi di sfruttare i popoli indigeni nelle piantagioni e nelle miniere furono piuttosto fallimentari. Non solo i prigionieri nativi erano ribelli e ostinati, ma le malattie trasmissibili che gli europei portarono con sé - soprattutto morbillo e vaiolo - provocarono delle vastissime epidemie mortali, che ridussero rapidamente il numero dei nativi americani. Allo stesso modo, fallirono anche i tentativi di utilizzare lavoratori importati dall'Europa, specialmente nelle Indie Occidentali e in Brasile, dal momento che non erano immuni alle malattie croniche dei Tropici. I colonizzatori europei non ci misero molto a capire che era possibile acquistare, a basso costo, una forza lavoro adatta, proveniente dalla costa occidentale dell'Africa, praticamente immune alle malattie tropicali (Diamond 1998; McNeill 1981).

Gli europei parteciparono raramente alle incursioni schiaviste nell'interno dell'Africa. Se fosse stato necessario, probabilmente la cosa avrebbe notevolmente minimizzato il ricorso agli schiavi neri nelle nuove colonie. Ma l'esportazione di schiavi africani si pro-traeva da molti secoli, e i mercanti africani erano ben organizzati e preparati a offrire una fornitura quasi inesauribile di eccellenti la-voratori a basso prezzo. Per guadagnare profitti enormi, tutto quello che gli europei dovevano fare era trasportarli dai centri schiavisti sulle coste africane ai mercati di schiavi nelle colonie. Di solito il prezzo degli schiavi nelle Indie Occidentali era dalle cinque alle sei volte superiore a quello nei porti africani. Fra il 1638 e 1702, i prezzi degli schiavi nell'Africa occidentale si aggiravano in media intorno alle 3,8 sterline britanniche', mentre il prezzo pagato all'arrivo nelle colonie britanniche era di circa 21,3 sterline - questi prezzi fluttuarono solo leggermente in tutto il periodo considerato (Bean 1975). Certo, c'erano molti costi da detrarre, inclusa la non infrequente perdita di intere navi con il loro carico, ma la maggio-ranza dei mercanti di schiavi in un arco di tempo di tre o quattro mesi guadagnava un profitto pari al 200 o 300% della cifra spesa (Thomas 1997).

Data la continua domanda di schiavi del Nuovo Mondo, non c'è da meravigliarsi se le navi schiaviste affollavano l'Atlantico. Dall'inizio, nel 1510 circa, fino alla fine, quando Cuba abolì il commercio degli schiavi, nel 1868, circa 10 milioni di africani rag-giunsero i mercati degli schiavi del Nuovo Mondo, il che significa che a iniziare il viaggio dalle regioni interne dell'Africa furono almeno 15 milioni (probabilmente di più). Philip Curtin calcolò che dei 10 milioni che sopravvissero al viaggio, circa 400.000 raggiunsero il Nord America britannico, 3,6 milioni andarono in Brasile, 1,6 milioni nelle colonie spagnole, e i restanti 3,8 milioni furono portati nelle colonie britanniche, francesi, olandesi e danesi dei Caraibi (Curtin 1969).

Nel Nuovo Mondo gli schiavi venivano usati nella stragrande maggioranza dei casi come lavoratori del settore produttivo, soprattutto in vaste piantagioni nelle quali venivano coltivati i principali prodotti agricoli destinati al mercato - anche se fino al 1800 gli schiavi delle aree spagnole erano utilizzati soprattutto nelle miniere, nel settore delle costruzioni, e nell'agricoltura estensiva. Di conseguenza, diversamente dal mercato islamico, nel Nuovo Mondo i maschi avevano un prezzo molto più elevato delle femmine, e non esisteva nessun mercato per gli eunuchi. Nonostante le differenze di prezzo basate sul sesso, però, i carichi di schiavi includevano un numero elevato di donne, e in alcune colonie agli schiavi era permesso formare delle unioni «maritali», con il risultato che il tasso di fertilità era molto più elevato qui che nel mondo islamico o nelle nazioni dell'antichità.

Le condizioni imposte agli schiavi nel Nuovo Mondo - l'eco-nomia, il diritto, le usanze, il clima, la configurazione geografica e le malattie endemiche - erano molto diverse da zona a zona. Perciò non è facile fare un discorso generale. Di conseguenza, farò una breve sintesi delle condizioni degli schiavi nei Caraibi, in Brasile e nel Nord America.

 

La schiavitù nei Caraibi

 

I possedimenti coloniali divisi fra spagnoli, britannici, francesi, olandesi e danesi erano costituiti da Cuba, Portorico, Barbados, Martinica, Santo Domingo (successivamente diviso in Haiti e Repubblica Dominicana), Bermuda, Bahamas e Giamaica nella «regione caraibica», da Guyana, Suriname e Venezuela, sulla costa sudamericana. In gran parte erano società schiaviste, nelle quali gli schiavi rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione. Il loro sistema sociale era stratificato a quattro livelli. In cima c'era l'élite bianca: proprietari di piantagioni, amministratori, mercanti, banchieri, funzionari governativi e ufficiali militari. Il secondo livello era quello dei «bianchi poveri» fra i quali c'erano sorveglianti, negrieri, marinai .e soldati. Al terzo livello, ancora più sotto nello status system, c'erano gli schiavi liberati e le persone libere di razza mista, i «liberi di colore» (nelle colonie britanniche c'erano poche persone appartenenti a queste categorie). All'ultimo livello stava l'enorme massa di schiavi.

L'estremo divario esistente fra il numero degli schiavi e quello degli uomini liberi nelle società caraibiche era dovuto al fatto che esse si basavano su economie quasi esclusivamente di piantagione - riso, indaco, cacao, caffè, cotone, tabacco - specializzate in raccolti destinati al mercato, e richiedevano quindi necessariamente una forza lavoro numericamente consistente che poteva essere fornita solo dagli schiavi. La coltivazione intensiva dello zucchero ebbe molte gravi conseguenze (Fogel 1989). La prima è che questo tipo di prodotto era coltivato in piantagioni molto estese, come si deduce dal fatto che la maggioranza dei proprietari di schiavi dei Caraibi ne possedeva più di 150 (diversamente dal Nord America, dove più del 90% dei proprietari aveva meno di 50 schiavi). In secondo luogo, la produzione dello zucchero richiedeva l'utilizzo di squadre di lavoro di 10-20 schiavi, ognuna controllata da un negriero pronto a usare la frusta contro i più lenti. La terza conseguenza era che, in parte a causa dello sforzo fisico richiesto da questo tipo di lavoro a squadre e in parte per le condizioni ambientali adatte alla coltivazione della canna da zucchero (aree basse e paludose), la mortalità era molto alta - in Giamaica la percentuale di morti nelle piantagioni di zucchero era del 50% più elevata di quella nelle piantagioni di caffè (Higman 1976). Infine, era necessario un costante erilevante afflusso di nuovi schiavi, dal momento che l'alto tasso di mortalità non era compensato dalla natalità, molto bassa, come abbiamo visto, fra gli schiavi.

Al di là di queste condizioni generali, nei Caraibi c'era una notevole differenza nel trattamento degli schiavi a seconda della nazionalità dei colonizzatori.

Nelle colonie francesi la condizione degli schiavi era regolata dettagliatamente dal Code Noir, formulato da Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), il ministro delle finanze di Luigi XIV. Nell'elaborare il codice, promulgato nel 1685, Colbert fu assistito e fortemente influenzato dai più importanti uomini della Chiesa francese. Sono troppi gli storici che hanno prestato attenzione solamente all'articolo 3, che proibiva «qualsiasi esercizio pubblico di religione diversa» dal cattolicesimo romano, usandolo come pretesto per scagliarsi contro l' «intolleranza» cattolica. Nessuno di questi storici dice che proprio in quella stessa epoca il culto pubblico del cattolicesimo romano era proibito nelle colonie britanniche (con l'eccezione del Maryland). Più significativo, comunque, è il fatto che questi storici abbiano ignorato i molti articoli del codice che si fondavano sulla premessa che uno schiavo è «una creatura di Dio». Era in questo spirito che il codice stabiliva che i padroni battezzassero i propri schiavi, fornissero loro un'istruzione religiosa e consentissero loro il sacramento del sacro matrimonio, il quale, a sua volta, implicava la proibizione di vendere separatamente i membri della stessa famiglia. Gli schiavi erano poi esentati dal lavoro la domenica e nelle festività religiose (da mezzanotte a mezzanotte), e i loro padroni erano soggetti a multe o addirittura alla confisca degli schiavi stessi in caso di violazione di questa disposizione. Altri articoli specificavano una quantità minima di cibo e vestiario, che il padrone era obbligato a fornire, e ordinavano che i disabili e gli anziani venissero accuditi in maniera appropriata, ospedalizzazione compresa.

Non sorprende affatto che l'articolo 12 proibisse agli schiavi di portare pistole o mazze, né che l'articolo 13 dichiarasse illegale «che schiavi appartenenti a diversi padroni si riunissero in folle». L'articolo 38, che proibiva ai padroni di torturare gli schiavi, consentiva loro, però, di frustarli. Come vedremo, alcuni storici considerano solo questi articoli e li presentano come esemplari dell'intero codice, nel tentativo di sostenere che esso si occupava solamente della «protezione dei bianchi». Peter Gay scrisse che il Code era «straordinariamente severo - ovviamente, nei confronti dello schiavo»5• Ma per credere ancora a questa menzogna, è necessario che non vengano citati non solamente gli articoli che ho già menzionato, ma anche l'articolo 39, che ordinava ai responsabili della giv stizia «di procedere penalmente contro quei padroni e quei sorveglianti che uccidano o mutilino i loro schiavi».

Va di moda sottovalutare il Code Noir sostenendo che spesso non veniva osservato, né fatto rispettare - David Brion Davis si lamentava che «non vi è testimonianza del fatto che un proprietario francese sia mai stato giustiziato per aver ucciso uno schiavo» (Davis 1966, p. 258). Mi colpisce, e trovo significativo, il fatto che Davis non riporti l'intera citazione che afferma essere la sua fonte, la quale dice: «I padroni che maltrattano o uccidono gli schiavi erano passibili di azione legale, e abbiamo testimonianza di effettive accuse mosse contro di loro, anche se pare che nessun proprietario sia stato condannato alla pena di morte per aver ucciso uno schiavo» (Goveia 1969, p. 132). E questo mette sotto tutt'altra luce la questione dell'applicazione del codice, non vi pare? Il Code Noir veniva spesso violato, non c'è dubbio. Ed è indubbio anche il fatto che i proprietari di schiavi godessero di molti vantaggi quando il codice veniva applicato ai loro misfatti. Eppure, è altrettanto ovvio che i codici stabiliscono leggi standard, ed è molto più probabile che un'azione non venga perpetrata se è proibita dalla legge rispetto al caso in cui venga liberamente scelta - in altre parole, dopo tutto, c'era la possibilità di essere perseguiti penalmente, come scoprirono alcuni proprietari di schiavi francesi. Posto che il codice non era osservato allo stesso modo nelle varie colonie, va detto che in genere il Code Noir servì come deterrente a rendere meno dura la situazione degli schiavi nella gran parte delle colonie francesi, come vedremo chiaramente procedendo nella nostra trattazione.

Forse sorprende il fatto che le colonie spagnole nei Caraibi non divennero delle vere e proprie società schiaviste, né svilupparono un sistema di agricoltura estensiva a piantagione fino al XIX secolo. Quindi, prima di allora vi furono relativamente meno schiavi nell'America spagnola. Il passaggio alle piantagioni iniziò all'indomani della Guerra dei Sette Anni (1756-1763). Valutando la debolezza delle proprie colonie caraibiche, la corte spagnola decise di «emulare il successo delle altre nazioni europee con lo sviluppo di piantagioni schiaviste nei Caraibi» (Scarano 1998, p. 140). Così, gli spagnoli diedero vita a grandi pian-tagioni di caffè e zucchero a Cuba, Santo Domingo e Porto Rica, piantagioni che richiesero un'immensa espansione della schiavitù; quasi un milione di schiavi fu importato dall'Africa durante la prima metà del XIX secolo, dopo di che la tratta atlantica degli schiavi venne completamente abolita da trattati internazionali e dalla marina britannica (anche se gli schiavi continuarono a entrare clandestinamente a Cuba fino al 1867).

Come accadeva nelle colonie francesi, il modo spagnolo di trattare gli schiavi era fortemente influenzato dalle preoccupazioni dei cattolici, ma risultò di una benevolenza di gran lunga maggiore. Infatti, verso la fine del XVIII secolo, la Spagna adottò il suo C6digo Negro Espaiiol, basato su un codice castigliano del XIII secolo, che stabiliva le norme di trattamento degli schiavi mori prigionieri di guerra. Il C6digo non solo includeva la maggior parte delle disposizioni del Code Noir francese, ma era anche molto più liberale, nel senso che garantiva agli schiavi il diritto di proprietà e di acquisto della libertà. Nello specifico, gli schiavi potevano presentare una petizione al giudice «per essere valutati e per potersi riscattare dietro pagamento anche da padroni non disposti a farlo secondo il loro valore di mercato stimato giudizialmente» (Schafer 1994, pp. 2-3). Ciò era notevolmente facilitato da altre disposizioni del codice, le quali davano agli schiavi il diritto di lavorare in forma autonoma nei giorni di riposo, compresi gli ottantasette giorni l'anno in cui erano liberi poiché non dovevano per legge lavorare per i loro padroni, vale a dire le domeniche (52) e nelle festività religiose (35). Nelle zone rurali, agli schiavi era in genere consentito di vendere i prodotti dei propri orti e tenere il ricavato (Tannenbaum [1946] 1992). Al contrario, nella sua versione originale, il Code Noir poneva dei seri ostacoli all'affrancamento, richiedendo addirittura che i proprietari ottenessero il permesso dal governo - anche se «un diritto consuetudinario di affrancamento iniziò [presto] a ottenere rico-noscimento nelle [colonie] francesi» (Turley 2000, p. 58), il che alla fine portò alla modificazione del codice (Goveia 1969).

Molti scettici hanno sostenuto che i diritti concessi dal C6digo fossero puramente «simbolici». Ma, allora, come si giustifica il fatto che nel 1817 nella sola Cuba c'erano 114.058 neri liberi, molti di più che in tutte le Indie Occidentali britanniche (SchmidtNowara 1999)? Oppure il fatto che gli schiavi degli spagnoli si sposavano (in chiesa) quasi nelle stesse percentuali dei bianchi? Per quanto riguarda l'applicazione del C6digo, la Chiesa non solo aveva avuto un ruolo di primo piano nella sua formulazione, ma continuò a occuparsene e i vescovi tennero spesso dei sinodi per «affrontare le condizioni locali», durante i quali «legiferavano sempre a favore della massima libertà e dei diritti ammissibili [degli schiavi]» nel C6digo. Nel frattempo, «il clero più basso, soprattutto a livello parrocchiale, di fatto faceva applicare questa legge» (Klein 1969, p. 145). E lo faceva non solo mantenendo stretti contatti con i i parrocchiani neri, ma anche cercando di regolare conformemente ai precetti della religione molti aspetti del rapporto schiavo-padrone. Non solo i figli degli schiavi erano battezzati con cerimonie formali che sottolineavano la loro «umanità», ma si celebravano anche matrimoni religiosi per coppie schiave, e anche l'affrancamento veniva presentato con una cerimonia religiosa tenuta in chiesa (Klein 1967; Meltzer 1993; Thomas 1997; Turley 2000).

Al contrario, i britannici non battezzavano gli schiavi né cer-cavano di convertirli al cristianesimo, anzi, diverse assemblee coloniali inflissero ammende pesanti ai quaccheri che avevano di farlo (Dunn 1972). Inoltre, i britannici non elaborarono mai codici di regolamentazione dei rapporti fra padroni e schiavi. Nel suo violento attacco contro tutti gli storici non marxisti della schiavitù, Marvin Harris trovò «piuttosto oscuro» il motivo per cui tale «lacuna legislativa» potesse avere una qualche importanza «per il corso della schiavitù» (Harris 1964, p. 70). Larisposta avrebbe dovuto essere ovvia anche per un marxista così polemico. Non esisteva nessun codice, e il Parlamento si rifiutava di formularne uno, così l'emanazione delle norme fu lasciata alle colonie britanniche. Dal momento che le colonie erano completamente sotto il controllo di una «classe dirigente» schiavista (e la Chiesa d'Inghilterra non faceva nemmeno finta di esserne interessata), le leggi emanate erano semplicemente il sogno dei colonizzatori e l'incubo degli schiavi.

Nel 1661 i proprietari delle piantagioni delle Barbados adotta-rono, per una miglior regolamentazione degli schiavi, un Act far the Better Ordering of Slaves. Presto l'atto fu copiato da altre colonie britanniche - in Giamaica nel 1664, nel South Carolina nel 1696, e ad Antigua nel 1702 (Dunn 1972) - e quei pochi storici che l'hanno menzionato a volte l'hanno chiamato Code of Barbados, oppure Act of Barbados. Qualunque fosse il suo titolo, questo codice, brutale almeno tanto quanto quelli formulati dagli antichi romani (Beckles 1989; Dunn 1973; Goveia 1969; Sheridan 1974; Watson 1989), definiva gli schiavi neri come «pagani, bruti e una tipologia di persone volubile e pericolosa» (in Dunn 1972, p. 239). I padroni avevano il diritto di «esercitare una forza illimitata per obbligare [gli schiavi] al lavoro», senza alcuna sanzione, anche qualora ciò determinasse la mutilazione o la morte (Fogel 1989, p. 36). Pertanto, anche se il codice comminava una multa per l'uccisione «arbitraria» di uno schiavo, questa non veniva applicata quando gli schiavi erano puniti per un «giustificato motivo», non importava quanto insignificante. Coerentemente con il principio che gli schiavi erano una proprietà privata, l' ammenda era notevolmente più pesante qualora qualcuno uccidesse arbitrariamente lo schiavo di un altro (Dunn 1972). Agli schiavi erano specificamente preclusi i processi con giuria: «Essendo gli schiavi bruti non meritano, per la bassezza della loro condizione, di essere giudicati da[ ... ] dodici uomini» (Goveia 1969, p. 126). Tuttavia, nel caso di un «qualsiasi reato degno di morte» il padrone doveva portare il colpevole davanti a un giudice di pace e a due testimoni per una condanna formale (Dunn 1972, p. 243). Il codice, inoltre, precisava che i sorveglianti dovevano tenere gli schiavi sotto un controllo molto stretto, e perquisire le loro capanne almeno due volte al mese alla ricerca di beni rubati e merci di contrabbando. Agli schiavi non era permesso sposarsi, e ai padroni era proibito dare la libertà a uno schiavo, tranne nel caso in cui vi fosse un atto legislativo speciale. Questa restrizione legale all'affrancamento fu presto sostituita da una tassa così pesante da renderlo un divieto. Nelle isole Leeward settentrionali un proprietario era tenuto a pagare 500 sterline al tesoro pubblico per liberare uno schiavo, cifra molte volte superiore al prezzo d'acquisto di uno schiavo (Johnston 1910, p. 231). Una tassa simile fu imposta da parte del legislatore di San Cristoforo nel 1802, con il dichiarato intento di evitare l'aumento del nu-mero di «negri liberi», che era considerato un «grande inconveniente» (Mathieson 1926, pp. 38-40). I coloni delle Barbados erano così preoccupati di ridurre al minimo il numero di neri liberi che imposero una tassa ancora più pesante sulla liberazione delle schiave.

Quando il codice fu promulgato e inviato in patria per la revisione governativa, il governatore delle Barbados temette che potesse essere uno «shock» per i funzionari in Inghilterra. Con sua grande sorpresa, invece, il codice fu rapidamente approvato nella sua integrità dai funzionari del Commercio, i quali osservarono che gli schiavi neri erano «gente brutale considerata [correttamente] alla stregua di merce e beni mobili» (Mathieson 1926, p. 245).

Si tenga presente che il Code of Barbados fu adottato in parte per moderare il trattamento degli schiavi nelle colonie britanniche! E questa moderazione era assolutamente necessaria. Ad esempio, un rapporto proveniente dalla colonia di Nevis, nel 1675, parlava di «numerose persone crudeli» che avevano ucciso «molti» schiavi neri «in modo frivolo». Nell'ultimo decennio del 1600, a Montserrat, uno schiavo fuggitivo venne squartato e «i pezzi del suo corpo appesi nelle piazze pubbliche come di con-suetudine» (Mathieson 1926, p. 244). Un visitatore recatosi in Giamaica negli anni '80 dello stesso secolo catalogò un'intera serie di punizioni estreme, fra le quali rientrava quella di impalare gli schiavi attraverso l'ano, per poi bruciarli vivi lentamente (Craton 1998; Dunn 1972). Nella pratica, i proprietari britannici di schiavi di solito erano molto meno feroci di quanto consentito loro dalla legge, ma la maggioranza trattava comunque i propri schiavi più duramente di quanto permetteva la legge nelle colonie cattoliche.

Dunque, a smentita delle normali accuse mosse contro i «cru-deli» spagnoli, era la Spagna ad avere la legge schiavista più umana, seguita dalla Francia, e l'Inghilterra a essere colpevole di aver tradotto in legge le pratiche più brutali. E per quanto riguarda l'obiezione per cui la legge contava poco, le differenze nella severità dei codici si accompagnano a differenze nel tasso di mortalità: gli schiavi nelle colonie inglesi avevano infatti tassi di mortalità molto più elevati rispetto alle colonie spagnole, mentre le colonie francesi si collocavano nel mezzo (Beckles 1989; Curtin 1969; Dunn 1972).

Fin dall'inizio, gli osservatori della schiavitù del Nuovo Mondo concordarono sul fatto che gli spagnoli e i portoghesi fossero «indubbiamente i migliori padroni di schiavi», come disse Wad-strom nel 1794, e che gli inglesi fossero i peggiori (in Elkins [1959] 1976, p. 77). Sir Harry Johnston osservò che portoghesi e brasiliani «rivaleggiano con la Spagna per il primo posto nell' elenco delle nazioni schiaviste più umane[ ... ]. La schiavitù sotto la bandiera [ ... ] della Spagna non era una condizione senza speranza, una vita all'inferno, come nella maggior parte delle Indie Occidentali britanniche» (Johnston 1910, p. 89). E, naturalmente, Frank Tannenbaurn, al quale spesso si riconosce il merito di aver compiuto studi comparativi sulla schiavitù del Nuovo Mondo6, sviluppò questa prospettiva in un'analisi sistematica e dettagliata nel suo Slave and Citizen ([1946] 1992). Questo studio, un clas- sico pubblicato per la prima volta nel 1946, fu considerato per molto tempo la dimostrazione definitiva delle notevoli differenze esistenti fra la schiavitù spagnola e quella britannica, «non solo per quanto riguarda il loro effetto sugli schiavi ma, ancora più significativamente, sul luogo e sullo status morale degli uomini liberati» (Tannenbaum [1946] 1992, p. 88). Successivamente, il giudizio di Tannenbaum fu confermato da Stanley M. Elkins, il quale scrisse che nelle colonie cattoliche «la tensione e l' equilibrio esistenti fra le tre tipologie di interesse organizzativo - Chiesa, Corona e agricoltura delle piantagioni - impedirono che la schiavitù fosse portata all' estreme conseguenze di disumanità dalla classe dei proprietari terrieri» (Elkins [1959] 1976, p. 71). Molti altri importanti studiosi hanno espresso opinioni simili (si veda Genovese 1969; Goveja 1969; Klein 1967 e 1986).

Ovviamente, i revisionisti si misero subito a lavorare sodo per dimostrare che gli schiavi non stavano di certo meglio sotto gli spagnoli o in Brasile, anzi, che forse era il contrario. Nessun re-visionista fu più veemente di Marvin Harris (1963 e 1964), né si dedicò con maggiore accanimento alle «escursioni polemiche fe-roci» (Genovese 1969). Harris condannò l'idea che alcuni aspetti della «cultura», quali leggi o ideali, potessero influenzare il sistema della schiavitù, e chiese che tutta l'analisi storica rimanesse assolutamente «materialista». Egli credeva che, dal momento che solamente la classe dei proprietari e le modalità di produzione potevano fare una qualche differenza, gli schiavi francesi e spagnoli dovevano aver sofferto tanto quanto quelli posseduti dagli inglesi. Pur esprimendosi con molto meno astio, dagli anni '50 anche gli storici marxisti brasiliani hanno attaccato l'idea che gli schiavi stessero meglio sotto portoghesi e spagnoli, operando un totale rovesciamento rispetto alle opinioni degli storici brasiliani che li avevano preceduti (si veda Schwartz 1992).

Questa posizione contraria al riconoscimento degli effetti mo-deratori della cultura legale e religiosa riscosse un notevole suc-cesso quando fu appoggiata da David Brion Davis nel suo libro The Problem of Slavery in Western Culture (1966, ed. it. Il problema della schiavitù nella cultura occidentale), vincitore del premio Pulit- zer. Davis condannò come «modelli idealizzati» tutte le tesi che consideravano le condizioni di schiavitù più leggere nelle aree cattoliche, paragonandole a quelle avanzate in merito dagli «apologeti del sud». Sostenne, invece, che «la schiavitù negra fosse un fenomeno isolato, o Gestalt, le cui variazioni non avevano grande importanza rispetto alla sua fondamentale unità» (Davis 1966, pp. 228-229). E a questa affermazione seguono pagine di esempi che vorrebbero dimostrare l'esistenza di padroni «buoni» in zone accusate di essere state dei posti «cattivi», e viceversa, e altre dichiarazioni in merito al fatto che le leggi più umane non ebbero alcuna conseguenza, a causa di magistrati disonesti e padroni avidi e sadici. Infine, Davis conclude che «per mancanza di informazioni statistiche dettagliate» e dal momento che l'argomento è «troppo complesso», è impossibile «presumere che il trattamento degli schiavi fosse sostanzialmente mi-gliore in America Latina rispetto alle colonie britanniche, prese nel loro complesso» (Davis 1966, p. 243).

Da nessun'altra parte Davis esprime un così grande interesse per la statistica, e il fatto che neghi l'esistenza degli effetti culturali è abbastanza strano in un libro come il suo che è una classica storia delle idee. Anzi, Moses Finley si lamentò giustamente del fatto che Davis fosse spesso in errore proprio perché legato - dedito com'era al «regno delle astrazioni» - alla storia delle idee, e troppo poco interessato ad azioni ed eventi (Finley 1969, p. 260). Personalmente, sono incline ad attribuire l'insolita posizione di Davis, la sua escursione al di fuori del regno delle idee, a quella che chiamiamo «correttezza politica». Nel contesto polemico degli anni '60, Davis sembra preoccuparsi molto di evitare le accuse di «moderazione» sull'argomento della schiavitù, accuse così spesso sollevate contro coloro che suggerivano la possibilità che alcuni sistemi schiavisti fossero meno brutali di altri - come Fogel ed Engerman (1974) avrebbero scoperto presto. La scelta più sicura era quella di asserire che la schiavitù fosse una condizione disumana in tutte le sue manifestazioni. E Davis non fu certamente l'unico a far propria quest'ultima affermazione; era tipico di quell'epoca - come Finley racconta eloquentemente (Finley 1980).

Un altro esempio di questo punto di vista si può ritrovare nel-l'illustre studio sulle colonie britanniche di Richard S. Dunn, nel quale si nega che «la schiavitù protestante inglese fu più feroce e traumatica della schiavitù cattolica spagnola e portoghese». E Dunn giustificò questa affermazione facendo un paragone chiaramente capzioso, non con i Caraibi britannici, ma con il trattamento degli schiavi relativamente più mite dei «protestanti inglesi che coltivavano il tabacco nella Virginia, o il riso in Carolina» (Dunn 1972, p. 225). Per molti studiosi, naturalmente, questi sono gli unici confronti interessanti, dal momento che al centro della loro attenzione pongono principalmente la schiavitù nel Sud degli Stati Uniti. Ciò nonostante, quando si fanno dei confronti tra schiavi impegnati nello stesso tipo di lavoro (come la coltivazione e la lavorazione dello zucchero), nello stesso ambiente fisico, e laddove i padroni di schiavi (a differenza di quelli del Sud America) erano esenti dalle pressioni abolizioniste, gli schiavi di proprietà di «inglesi protestanti» stavano molto peggio degli altri.

Ho dedicato tanta attenzione a questo argomento solo perché, come tutti riconoscono, la religione svolse un ruolo molto più im-portante nella vita degli schiavi delle colonie cattoliche rispetto a quelle protestanti. Accettare l'idea che tali differenze religiose, e le differenze legali da esse ispirate, non abbiano influito su come andarono effettivamente le cose non significa solamente rifiutare la tesi di questo capitolo, ma anche ignorare il buon senso.

Gli olandesi ebbero un ruolo di primo piano, secondo solo a quello britannico, nella tratta atlantica degli schiavi (Emmer 1998). Tuttavia, i coltivatori olandesi fallirono più volte nei loro sforzi di gestire delle piantagioni basate sul lavoro degli schiavi. Acquisirono il Suriname dai britannici in cambio di Nuova Amsterdam, ben presto ribattezzata New York. Ma a causa di una serie di valutazioni errate e di un tasso elevato e costante di fughe di schiavi, i quali scappavano in roccaforti «maroon» nella giungla, i coltivatori olandesi non riuscirono mai a produrre un bilancio positivo e sperimentarono frequenti fallimenti. Gli osservatori dell'epoca classificarono gli olandesi assieme ai britannici come «peggiori» schiavisti (Elkins [1959] 1976, p. 77). Certo, anche gli olandesi erano protestanti e, come gli inglesi, elaborarono un loro codice schiavista.

Per quanto riguarda i danesi, solo su St. Croix riuscirono a creare delle piantagioni di zucchero di grandi dimensioni, intorno al 1750, ma ormai s'intravedeva già la fine del commercio degli schiavi - la Danimarca abolì la tratta degli schiavi nel 1803 (Green-Pedersen 1971 e 1981).

 

La schiavitù in Brasile

 

La colonia portoghese del Brasile è stata la società schiavistica più grande e longeva del Nuovo Mondo (Conrad 1974, 1983 e 1993; Drescher 1988; Karasch 1987; Schwartz 1985, 1992 e 1998; Toplin 1972 e 1981). Inizialmente, gli schiavi erano nativi. Tuttavia, gli schiavi nativi potevano essere catturati solo con spedizioni costose e rischiose; inoltre, una volta prigionieri, erano molto difficili da controllare (e spesso fuggivano di nuovo nella giungla) e nelle loro comunità il tasso di mortalità era molto elevato a causa delle malattie europee. I missionari gesuiti e domenicani, poi, si opponevano con forza ed efficacia alla schiavitù dei nativi, citando le bolle papali in materia (di questo, parleremo più avanti). Così, nel 1570, la corona portoghese vietò la riduzione in schiavitù dei nativi, a meno che non fossero catturati e fatti prigionieri in una «guerra giusta». La Chiesa cattolica romana si affrettò a osservare, però, che quelle contro i nativi non erano affatto guerre giuste, e inoltre condannò la riduzione in schiavitù dei nativi «per guerra sia giusta sia ingiusta», come scrisse papa Gregorio XIV (1590-1591) nella sua bolla Cum sicuti, nel 1591 (Panzer 1996, p. 30). Tutti questi fattori spinsero i portoghesi a cercare in Africa lavoratori schiavi, con il vantaggio ulteriore che la costa africana era più vicina a quella del Brasile rispetto a qualsiasi altro punto dell'emisfero occidentale.

Dalla metà del XVI secolo fino all'abolizione della schiavitù nel 1888, i brasiliani importarono dall'Africa almeno 3,6 milioni di schiavi (Curtin 1969). Oltre alla mortalità molto elevata, anche un tasso di fertilità molto basso rese necessaria questa importazione massiccia. La bassa fecondità era il risultato di una serie di fattori, tra cui l'importazione di un maggior numero di uomini rispetto alle donne (circa 3,2 a 1), le brutali condizioni di vita, il clima malsano e l'elevatissima mortalità infantile (Conrad 1974). Una conseguenza inattesa del continuo aumento di nuovi schiavi provenienti dall'Africa fu il rafforzamento della capacità di so-pravvivenza della cultura africana, che, a sua volta, plasmò «la cultura brasiliana in generale, com'è evidente dalla sua cucina, dalla lingua, dalla musica, dalla religione, e da molti altri aspetti della vita» (Schwartz 1998, p. 101).

La schiavitù assunse degli aspetti molto curiosi in Brasile. Mentre un gran numero di schiavi lavoravano in squadre nelle piantagioni, molti altri vivevano nelle città in rapida crescita - nel 1849, Rio de Janeiro aveva una popolazione di circa 200.000 abitanti, quasi la metà dei quali erano schiavi e molti altri ex-schiavi. Spesso era molto difficile distinguere i due gruppi - non perché mancasse la libertà agli ex-schiavi, ma perché molti schiavi erano così privi di sorveglianza da essere in grado di lavorare autonomamente, il che procurava loro il denaro necessario all' acquisto della propria libertà (Karasch 1987). Gli schiavi delle città formavano anche delle proprie confraternite religiose, e prendevano parte in modo visibile e attivo alle feste pubbliche come il Carnevale (Schwartz 1998). A differenza delle colonie dei Caraibi, dove la maggioranza degli schiavi veniva acquisita attraverso nuovi prelievi dall'estero, in Brasile vi era un notevole commercio di schiavi interno, e nel tempo la zona di maggiore concentrazione della popolazione schiava si spostò, passando dalle piantagioni di zucchero nel nord-est del Brasile alle aree di coltivazione del caffè nel regione centro meridionale (Turley 2000).

Gli autori moderni rimangono perplessi di fronte alle leggi che regolavano la schiavitù in Brasile, il che non sorprende, dal mo-mento che pare che gli stessi brasiliani fossero piuttosto confusi a proposito. Ciò che si riesce a desumere dai diversi stralci di decisioni legislative e giudiziarie sono delle pratiche apparentemente influenzate, spesso senza che vengano menzionati negli statuti, dal diritto romano e dal C6digo Negro Espafiol. Per esempio, la Chiesa cattolica riconosceva i matrimoni, e questo era «tacita- mente accettato in Brasile», ma non riconosciuto dal «diritto civile». Tuttavia, il diritto riconosceva che un «proprietario non poteva vendere o alienare uno schiavo distruggendone l'unione ma-trimoniale» (Watson 1989, p. 98). In generale, gli schiavi avevano il permesso di trattenere una parte del reddito guadagnato, con la quale acquistavano di solito la propria libertà, ma non c'era alcuna garanzia legale, né formalità legali, per l'affrancamento. La legge autorizzava uno schiavo a richiedere di essere venduto se un padrone era brutale, tuttavia la mutilazione, la marchiatura e le pesanti percosse erano pratiche ammesse dal diritto. Forse questa contraddizione legislativa fu parzialmente responsabile del fatto che alcuni padroni si sentissero liberi di agire a proprio piacimento - si dice che alcuni coltivatori brasiliani di grado sociale elevato avessero delle stanze di tortura nelle loro proprietà (Boxer 1962; Davis 1966). In ogni caso, si è discusso molto se in Brasile gli schiavi fossero trattati meglio o peggio che nelle altre colonie (si veda Davis 1966). Come già accennato a proposito delle colonie spagnole, la conclusione a cui si giunge dipende dal confronto fra le varie situazioni. Gli schiavi in Brasile probabilmente erano trattati molto meglio di quelli delle colonie britanniche dei Caraibi, e probabilmente peggio degli schiavi nelle colonie spagnole, e forse non meglio di quelli nel Nord America.

 

La schiavitù nel Nord America

 

Furono relativamente pochi gli schiavi portati nell'America del Nord se pensiamo all'estensione del sistema delle piantagioni meridionali e ai milioni di americani di origine africana. I primi schiavi neri arrivarono in Nord America nel 1626, quando una piccola spedizione di olandesi sbarcò sull'isola di Manhattan. Da allora fino al 1808, quando l'importazione di schiavi divenne illegale, nel paese entrò un totale di circa 400.000 schiavi. Per fare un confronto, si stima che 340.000 schiavi furono importati da piantatori inglesi a Barbados, una piccola isola con una superficie di soli 430 chilometri quadrati, appena un quarto delle dimensioni di una contea media americana. Barbados poté ricevere un numero così elevato di schiavi solo grazie al suo spaventoso tasso di mortalità, approssimativamente pari al tasso d'importazione (Curtin 1969; Dunn 1972). E, tra il 1600 e il 1808, furono circa 750.000 gli schiavi importati nella colonia inglese della Giamaica; eppure, nel 1808, le persone di origine o discendenza africana nella colonia erano meno della metà (Higman 1976).

Dunque, la caratteristica più evidente della popolazione degli schiavi negli Stati Uniti fu la sua rapida crescita naturale. Il censimento del 1790, poco prima della fine degli sbarchi delle navi di schiavi, annoverava 694.224 schiavi in America, molti di più del numero totale importato. Settant'anni dopo, il censimento del 1860 registrava 3.950.546 schiavi, equamente divisi tra maschi e femmine, così come 482.122 neri liberi, un totale undici volte superiore al numero giunto dall'Africa. Ciò è in radicale contrasto con la crescita demografica della schiavitù di altri luoghi. Purtroppo, questa caratteristica della schiavitù americana è stata erroneamente interpretata come una prova che le condizioni essenziali della vita degli schiavi nel Sud degli Stati Uniti fossero significativamente più favorevoli di quelle di altri tempi e luoghi. Come abbiamo visto, alcuni sostengono che sia implicitamente immorale e razzista sostenere che vi siano dei diversi gradi di «malvagità» nel trattamento degli schiavi, dal momento che la schiavitù è un male assoluto. Ma qualsiasi storia comparativa seria è costretta a tener conto di differenze demografiche radicali, come queste. I proprietari di schiavi americani probabilmente punivano i loro schiavi più severamente di quanto non facessero spagnoli e francesi, tuttavia la salute degli schiavi nel Sud degli Stati Uniti beneficiò enormemente di un clima molto più mite e della relativa assenza di malattie tropicali che affliggevano i Caraibi. Inoltre, tutta una serie di studi accurati e ben documentati rivela che gli americani consideravano gli schiavi di loro proprietà, dei beni di grande valore e come tali li nutrivano, davano loro alloggio, li vestivano e li facevano lavorare -l'alimentazione degli schiavi negli Stati Uniti era probabilmente migliore di quella del contadino medio nella maggior parte dei paesi europei dell'epoca (Fogel 1989; Fogel, Engerman 1974). Non significa giustificare o scusare gli schiavisti del Sud il riconoscere che, per perseguire egoisticamente i propri interessi economici, trattavano meglio i loro beni mobili.

Per quanto riguarda la struttura della schiavitù americana, un fattore importante è il fatto che non fosse basata sulle piantagioni di zucchero (Fogel 1989). Nella prima parte del XVIII secolo, la maggioranza degli schiavi americani lavorava nell'agricoltura estensiva, nell'artigianato e nei servizi domestici; le piantagioni di tabacco ne impegnavano circa un terzo, e il resto degli schiavi lavorava nelle piantagioni il riso e di indaco. Le piantagioni di cotone assunsero una grande importanza solo intorno al 1800, con l'introduzione delle macchine sgranatrici. Le piantagioni di zucchero non impiegarono mai più del 5% degli schiavi americani, e solo in un'epoca successiva e soprattutto in Louisiana. Rispetto alle pian-tagioni di zucchero, le altre colture non richiedevano una forza lavoro schiavista altrettanto numerosa. Di conseguenza, non c'era un'avida domanda di schiavi. Come risultato, grazie anche al rapido aumento naturale della popolazione schiava in America, le importazioni furono ridotte al minimo.

Insieme, questi elementi hanno avuto numerose e significative conseguenze. In primo luogo, presto gli schiavi americani furono in maggioranza nativi del luogo: giunti agli anni '40 del 1700, più di metà degli schiavi americani era nata in America; verso il 1780, la percentuale era a salita a un 80% circa, e molti vivevano nel paese da diverse generazioni. Al contrario, ancora nel 1800 circa un quarto degli schiavi della Giamaica era stato importato dall' Africa nei dieci anni precedenti! In secondo luogo, quasi tutti gli schiavi americani lavoravano in piccole unità. Una piantagione di tabacco media aveva meno di venti schiavi, e anche le più grandi piantagioni di cotone erano piccole in confronto agli standard caraibici e brasiliani, poiché avevano in media solo trentacinque schiavi. In terzo luogo, invece che essere isolati in squadre di lavoro di grandi dimensioni, di solito gli schiavi americani avevano un contatto stretto e costante con i bianchi. Ciò fu ulteriormente facilitato dal fatto che, mentre gli schiavi costituivano la stragrande maggioranza della popolazione delle società schiaviste dei Caraibi, persino nel profondo Sud degli Stati Uniti rimasero una minoranza. Infine, l'assiduo contatto con i bianchi in un arco di tempo così lungo, fece sì che gli schiavi americani venissero assimilati in maniera molto più completa nella cultura «europea» - da qui an- che gli effettivi sforzi di recupero del patrimonio culturale africano, che non si sono verificati nei Caraibi o in America Latina.

Molti lettori saranno sorpresi nel leggere che i primi schiavi neri portati in America giunsero a Nuova Amsterdam su navi olandesi, e che inizialmente la schiavitù non si era limitata agli stati del Sud. Come mostrato nella Tabella 4.1, nel 1790 c'erano schiavi in ogni stato, ad eccezione di Maine e Massachusetts, dove, grazie all'eredità culturale e religiosa puritana, la schiavitù era già illegale. Benché la popolazione degli schiavi si concentrasse negli stati del Sud, il fenomeno era diffuso in modo numericamente significativo anche nello stato di New York, in New Jersey, Pennsylvania e Connecticut. La maggior parte degli schiavi in questi stati del Nord era costituita da «schiavi di consumo», impiegati come servitori personali.

Nelle piantagioni schiaviste americane, che nacquero sotto il sistema coloniale britannico, vigevano le leggi del Code of Barbados piuttosto che quelle del Code Noir o del C6digo Negro Espaiìol. Tuttavia, a differenza dei coltivatori inglesi dei Caraibi, i coltivatori degli stati del Sud adottarono presto molte «riforme», nel tentativo di prevenire la crescente pressione degli abolizionisti del Nord, soprattutto dopo l'indipendenza. Così, ad esempio, i tribunali e i parlamenti del Sud approvarono delle leggi contro l'uccisione degli schiavi. Nel North Carolina, nel 1791, l'uccisione degli schiavi era considerata un reato perseguibile penalmente e punibile come «omicidio»; nel 1816, la Georgia dichiarò che l'ucci-sione o la mutilazione di uno schiavo era equivalente all'uccisione o alla mutilazione di una persona bianca (Cobb [1858] 1968).

In generale, però, quasi tutti i tribunali del profondo Sud definivano gli schiavi come dei «beni immobiliari» e alcuni li trattavano semplicemente come «beni personali» (Morris 1996). Ciò significava che gli schiavi potevano essere ereditati, scambiati o venduti a piacere, senza riguardo a conseguenze come la separazione delle coppie sposate o dei genitori dai figli. Tuttavia, in misura sempre maggiore, i tribunali del Sud dichiararono che gli schiavi «erano delle proprietà con un'anima» e definirono i principi concernenti i «doveri reciproci di schiavi e padroni ratificandoli nella legge». Quindi, i padroni «erano obbligati a sfamare e vestire i loro schiavi, oltre che a fornire cure mediche, e in molte giurisdizioni schiaviste dovevano garantire una consulenza legale agli schiavi processati per qualche crimine» (Morris 1998, p. 257). In alcune città degli stati del Sud agli schiavi era permesso il lavoro autonomo (previo pagamento di un'imposta ai loro padroni), e a volte svolgevano mestieri altamente qualificati. Ma i tribunali ritennero sempre prioritari i diritti di proprietà degli schiavi rispetto agli altri principi.

Gli abitanti degli stati del Sud tendevano, poi, proprio come i bianchi nei Caraibi britannici, a ritenere poco desiderabile la presenza di «neri liberi». Così, il censimento del 1860 rilevò che nel 1849, su oltre 3,2 milioni di schiavi, solo 1467 erano stati liberati in quell'anno, e nel 1859, su oltre 3,9 milioni di schiavi, ne erano stati liberati solamente 3018. In effetti, le statistiche sui neri liberi offrono l'opportunità per un «esperimento naturale» volto a valutare se, e in quale misura, il Code Noir e il C6digo Negro Espafiol facessero una qualche differenza nella vita degli schiavi. Questo comporta necessariamente un confronto fra la «cattolica» Louisiana e il resto del Sud «protestante».

La Louisiana adottò il Code Noir nel 1724, quando i francesi consolidarono la loro giurisdizione sul territorio. Quando il con-trollo passò alla Spagna, nel 1769, le condizioni di vita degli schiavi furono notevolmente migliorate grazie alle disposizioni liberali del C6digo Negro Espafiol concernenti il diritto di proprietà degli schiavi e il diritto di acquistare la propria libertà. La Francia riconquistò la Louisiana nel 1802 e la vendette agli Stati Uniti l'anno successivo, ma le norme cattoliche in merito alla schiavitù e al trattamento dei neri liberi erano ormai profondamente radicate. Ciò è evidente dal censimento degli Stati Uniti del 1830 che rilevò che in Louisiana c'era una percentuale molto più alta di neri liberi (13,2%) rispetto a qualsiasi altro stato schiavista. Il contrasto è particolarmente netto con i paesi limitrofi che avevano delle economie di piantagione simili: Alabama (1,3%), Mississippi (0,8%) e Georgia (1,1 %).

Tuttavia, è ancora più indicativo il contrasto tra New Orleans e le altre importanti città del Sud, come mostrato nella tabella 4.2 (in cui i dati per le città sono rielaborati sulla base dei dati riferiti alla contea). A New Orleans, oltre quattro residenti neri su dieci erano liberi! Persino a Richmond e Norfolk i neri avevano molte meno probabilità di essere liberi, e queste città non si trovano certo nel profondo Sud. Nelle città della Carolina le probabilità che un nero fosse libero variavano da uno su dieci a uno su venti. Altrove, pochissimi schiavi avevano conquistato la libertà. E da cosa possono derivare queste enormi differenze se non dagli effetti dei codici e dell'attitudine cattolica nei confronti della schiavitù? Invece di versare lacrime di coccodrillo per la mancanza di « informazioni statistiche dettagliate» che rivelino se i codici schiavisti cattolici abbiano fatto o meno una qualche differenza, David Brion Davis avrebbe fatto meglio a fare i semplici calcoli mostrati nella Tabella 4.2 - dati disponibili da 170 anni.

Essendo molto numerosi, i neri liberi (così come gli schiavi) svolgevano dei ruoli straordinariamente importanti nella vita culturale ed economica di New Orleans, e la razza non era affatto un fattore decisivo discriminante nelle attività sociali (Ingersoll 1999). In realtà, come rivelano le cifre del US Census del XIX secolo, benché in alcune parti del Sud vi fossero proprietari neri di schiavi, questi erano molto più comuni a New Orleans; solamente la Louisiana aveva dei grandi proprietari di piantagioni neri che possedevano molti schiavi (Foner 1970; Genovese 1974; Koger 1985; Menn 1964; Mills 1977). Invece, nelle altre parti dell'America, e persino negli stati non schiavisti, ai neri liberi erano negati molti diritti civili, compreso quello di testimoniare nei tribunali.

Si completa così questa «breve rassegna» sulla schiavitù pensata per fornire solo una base adeguata per l'analisi del ruolo svolto dalla religione nel porre fine a tutta questa triste storia.

 

Dei e morale

 

Gli studiosi di scienze sociali considerano un assioma il concetto che la funzione della religione sia quella di sostenere l' ordine morale. Ma non è vero, o almeno non è vero in molti casi, poiché solamente alcuni tipi di religione hanno delle implicazioni morali. Questo non vuol dire che ci siano delle società senza codici morali, ma che in molte di esse la morale non ha alcun fondamento religioso e manca di autorità sacra. Svilupperò questo aspetto a lungo nel poscritto. Qui, sarà sufficiente un breve cenno.

La possibilità che le religioni generino una cultura morale di-pende principalmente dalla loro immagine di Dio. Non solo le essenze divine non sono in grado di trasmettere dei comandamenti, ma non possono nemmeno generare il concetto di «peccato». Il Tao non consiglia agli uomini di amarsi gli uni gli altri, né la «Causa Prima» dice di non desiderare lo sposo o la sposa di altri. Il «fondamento del nostro essere» di Paul Tillich non è un essere, e di conseguenza è incapace di avere delle preoccupazioni morali, figurarsi di esprimerle (Tillich 1951). Solamente gli Dei - esseri soprannaturali consapevoli - possono desiderare che noi ci comportiamo secondo i principi della morale. Ma nemmeno questo è sufficiente. Gli Dei possono fondare l'ordine morale solo se sono disponibili e affidabili, se si interessano, si informano e si dimostrano attivi per il bene degli essere umani. Inoltre, per favorire la virtù fra gli uomini, gli Dei devono essere a loro volta virtuosi e devono preferire il bene al male. Infine, gli Dei saranno efficaci nel promuovere i precetti morali se la loro potenza si estende a largo raggio.

Oltre a essere più deboli, le numerose divinità dei sistemi po-liteistici spesso non sono concepite come disponibili e affidabili, o necessariamente attive a favore del bene. Tra i nativi americani della costa nordoccidentale, gli Dei non si occupavano di morale, e la magia dominava i riti religiosi (Suttles 1990). A parte le persone che appartenevano alle sette ascetiche, la maggior parte di greci e romani credeva che gli Dei potessero ascoltare le loro suppliche, ma che nella maggioranza dei casi non lo facessero, e non se ne curassero. Aristotele insegnava che gli Dei non erano capaci di una reale preoccupazione per gli esseri umani - potevano provare lussuria, gelosia e rabbia, certo, ma mai affetto nei loro confronti. Questi Dei richiedevano di essere propiziati, e talvolta si poteva contrattare con loro dei favori. Ma non si poteva fare affidamento su di loro, e addirittura forse non era nemmeno saggio attirare la loro attenzione. Certo, gli Dei della Grecia e di Roma (e dei politeismi in generale) a volte mantenevano la parola e davano agli esseri umani ricompense di grande valore, ma spesso mentivano e arrecavano gravi danni agli uomini per ragioni molto meschine. Come affermò William Foxwell Albright (1957, p. 265), «Le divinità greche dell'Olimpo [erano] figure poetiche affascinanti [ma] modelli poco edificanti». Poteva valer la pena offrire periodicamente a simili Dei un animale sacrificale o due (soprattutto poiché i donatori banchettavano con le offerte dopo la cerimonia), ma nulla più di questo.

Al contrario, gli immensi Dei del monoteismo chiedono molto di più, e lo ottengono. In cambio delle ricompense ultraterrene che promettono, e per consentire agli esseri umani di evitare le terribili punizioni che minacciano, questi Dei impongono costantemente una serie di richieste, fra cui l'ubbidienza ai dettagliati codici di comportamento, non solo nei confronti del sacro, ma anche gli uni verso gli altri. Questi codici etici si basano sul concetto di peccato - pensieri e azioni illecite che meritano una punizione divina. Alcuni peccati saranno precisati da rivelazioni, altri saranno i prodotti della teologia, cioè dello studio delle implicazioni delle rivelazioni.

L'identificazione di nuovi peccati è stata un punto centrale nel lavoro di teologi ebrei, cristiani e islamici. Per esempio, in nessuna parte della Bibbia è vietato il suicidio. Fu sant' Agostino ad affermare che il togliersi la vita fosse un peccato (Città di Dio 1,17-23). Per tornare alla questione del rapporto etica-religione, mi ripropongo di dimostrare che prima del sorgere del monoteismo le religioni erano poco attrezzate per imporre dei codici morali, comprese le proibizioni di natura morale nei confronti della schiavitù. E i filosofi non potevano certo riempire questo vuoto. Poi, spiegherò in che modo due antiche sette ebraiche e, succes-sivamente, il cristianesimo medievale stabilissero che la schiavitù era un peccato - un principio in seguito ratificato da molti papi, e dopo ancora dai quaccheri, seguiti da molti altri gruppi protestanti. Infine spiegherò perché i teologi islamici non giunsero alla conclusione che la schiavitù fosse un peccato.

 

Politeismo e schiavitù

 

Quando le religioni non sottoscrivono l'ordine morale, la critica sociale è un'iniziativa laica lasciata a filosofi, artisti e altri in-tellettuali. Non avendo alcun concetto di peccato per rafforzare i propri giudizi, e non avendo rivelazioni da cui partire, i filosofi antichi, per la maggior parte, furono dei sostenitori dello status quo. Non vi è alcuna traccia di filosofi nel mondo sumero, babilonese o assiro che abbiano mai protestato contro la schiavitù, «né vi è alcuna espressione della benché minima simpatia per le vittime di questo sistema. La schiavitù veniva semplicemente data per scontata» (Mendelsohn 1949, p. 123). Anzi, il Codice di Hammurabi (1750 ca. BCE) prescriveva la morte per chi aiutava uno schiavo a fuggire.

Nemmeno i grandi filosofi greci condannarono la schiavitù. Platone era contrario alla schiavitù dei suoi compagni «elleni» (greci) ma assegnò agli schiavi «barbari» (stranieri) un ruolo cru-ciale nella sua Repubblica ideale - dove avrebbero svolto tutto il lavoro produttivo (Schlaifer 1936). Anzi, le regole stilate da Platone in merito al giusto trattamento degli schiavi erano insolitamente brutali- «Nessun codice americano fu così severo» (Davis 1966, p. 66). Inoltre, Platone non credeva che il divenire schiavo fosse una questione di pura malasorte; piuttosto, era la natura a creare «un popolo schiavo», privo della capacità mentale necessaria alla virtù o alla cultura, e adatto solamente a servire. Dal momento che gli schiavi non avevano anima, non avevano nemmeno «diritti umani», e i padroni potevano trattarli a loro arbitrio. Ovviamente, se qualcuno uccideva uno schiavo appartenente ad altri, doveva ricompensare il padrone con il doppio del valore di mercato dello schiavo morto - un principio che riapparve anche nel Code of Barbados 7• Benché suggerisse di sottoporre a una rigida disciplina gli schiavi, Platone credeva che, per prevenire le agitazioni, fosse necessario non sottoporli a eccessive crudeltà (Schlaifer 1936). Come si legge nel suo testamento, le proprietà di Platone comprendevano cinque schiavi.

Aristotele rifiutava la tesi avanzata dai sofisti per cui tutta l'autorità si fonda sulla forza e dunque si autogiustifica, poiché dal canto suo condannava la tirannia politica. Ma allora, come giustificare la schiavitù? Qui, Aristotele anticipò gli umanisti so-stenendo che senza schiavi che si occupassero del lavoro, gli uomini illuminati non avrebbero avuto il tempo e l'energia per perseguire virtù e conoscenza. E giustificava la schiavitù anche affidandosi alle affermazioni «biologiche» di Platone - la schiavitù è giustificata perché gli schiavi sono molto più simili a bruti ottusi che a uomini liberi (Schlaifer 1936). Lasciati a se stessi, gli schiavi sarebbero stati guidati solamente dai loro appetiti, causando un gravissimo danno alle città. Il fondamento della schiavitù, scrisse, è innato: «Certi esseri, subito dalla nascita, sono destinati, parte a essere comandati, parte a comandare» (Politica I, 1254). Alla sua morte, le proprietà personali di Aristotele comprendevano quattordici schiavi.

Fra gli ateniesi c'erano anche delle «voci» che dissentivano da questi principi. Il drammaturgo Euripide (480-406 BCE) sosteneva che alcuni schiavi erano più virtuosi e intelligenti dei loro padroni, rifiutando così l'idea che la schiavitù fosse una qualità naturale ereditaria. Tuttavia, egli accettava anche il concetto che «vi sono alcuni la cui natura è più adatta alla schiavitù» (Schlaifer 1936). Il poeta Filemone (361-262 BCE) scrisse che schiavo e padrone sono fatti della stessa carne, e che non è la natura, ma il fato, a ridurre in schiavitù il corpo. E il filosofo sofista del N secolo Alcidamante insegnava che «Dio ci ha creati tutti liberi; la na- tura non crea schiavi» (in Meltzer 1993, p. 96). Ma quale Dio? I sofisti non potevano invocare un Unico Vero Dio. E invocare un Dio minore non faceva tremare proprio nessuno.

 

Monoteismo e schiavitù

 

Durante il XX secolo, la maggioranza degli studiosi che ha trattato l'argomento ha sottolineato con una certa soddisfazione che ebraismo, cattolicesimo romano e islam accettarono tutti la schiavitù (si veda Blackbum 1998; Davis 1966; Meltzer 1993). Di-mentichiamo per un momento che la Chiesa cattolica medievale abbia condannato la schiavitù. Di certo, non potremmo sorprenderci se i teologi soffrirono della stessa «cecità» della loro epoca e dei loro paesi. Come abbiamo visto nel capitolo 2, molti teologi cristiani, fra i quali sant' Agostino e Giovanni Calvino, hanno insegnato che le limitazioni culturali spesso hanno reso impossibile a persone appartenute a epoche precedenti la comprensione di una verità rivelata loro. Il punto rilevante è che i teologi possono sempre innalzarsi al di sopra di questi limiti. Ed è questa la storia che ora vi racconterò.

 

Ebraismo: esseni e terapeuti

 

Mosè non scese dalla montagna con un comandamento che proibiva la schiavitù. Eppure, secondo la Torah, Dio gli rivelò un codice morale molto elaborato in merito alla condizione degli schiavi - un codice che rese la schiavitù ebraica molto più umana di quella di altre società dell'epoca classica.

Benché fosse proibito agli ebrei il ridurre in schiavitù altri ebrei, e quindi nonostante il fatto che i loro schiavi provenissero da popoli «pagani», c'erano delle limitazioni severe in merito al modo di trattarli. Per qualsiasi padrone ebreo che uccidesse uno schiavo c'era la pena di morte. La Torah ammoniva anche che doveva essere data come ricompensa la libertà a uno schiavo che avesse subito atti di violenza: «Quando un uomo colpisce l' occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, gli darà la libertà in compenso dell'occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava, gli darà la libertà in compenso del dente» (Esodo 21,26-27). La legge ebraica diceva che i figli degli schiavi non dovevano essere separati dai loro genitori, né le mogli dai mariti. Inoltre, nel Deuteronomio (23,16-17) agli ebrei si intima di non riportare indietro gli schiavi fuggiti: «Non consegnerai al suo padrone uno schiavo che, dopo essergli fuggito, si sarà rifugiato presso di te. Rimarrà da te nel tuo paese, nel luogo che avrà scelto, in quella città che gli parrà meglio; non lo molesterai». Anzi, nel Talmud si dice che lo schiavo deve essere trattato come un membro della famiglia, gli si deve consentire il risposo del sabato e lo si deve trattare in modo equo: «Non bere vino invecchiato dando a lui quello nuovo. Non dormire su cuscini lasciando-lo giacere sulla paglia» (in Meltzer 1993, p. 44).

Alla fine, alcuni ebrei rifiutarono del tutto la schiavitù. Così si dice che gli esseni, la setta ascetica descritta nel capitolo 1, avessero reso illegale la schiavitù 8• Come riferì Filone di Alessandria (20 ca. BCE-50), gli esseni «non solo condannano i padroni come ingiusti in quanto ledono l'uguaglianza, ma anche come empi poiché violano la legge naturale che ha generato e nutrito tutti gli uomini allo stesso modo» (Ogni uomo buono è libero 79). In modo simile, anche i terapeuti («guaritori»), altra setta ebraica che si crede sia vissuta vicino ad Alessandria, rifiutavano la schiavitù. Filone scrisse: «Non sono serviti da schiavi, poiché ritengono che possederne sia assolutamente contro natura, che ha generato gli uomini liberi» (De vita Contemplativa 70).

Filone non spiega la teologia in base alla quale questi gruppi condannavano la schiavitù. Dal momento che la Torah chiaramente la accetta, come potevano costoro rifiutarla pur sostenendo di essere ligi osservanti della Legge? Personalmente, credo che la risposta sia duplice. Per prima cosa, potrebbero non aver definito la schiavitù un peccato di per sé, ma essere giunti alla conclusione che il vero ascetismo richiedesse molti sacrifici, fra i quali il non essere serviti da altri. In altre parole, rifiutarono la schiavitù come peccato in quanto asceti, come rifiutavano tutti gli altri lussi e comodità. In secondo luogo, credevano che nella misura in cui osservavano pienamente la Legge, erano assolutamente liberi di imporre dei precetti morali ancora più rigidi. Per esempio, non osservavano solo i precetti kosher di astenersi dal mangiare carne di maiale, ma li estendevano a tutti i tipi di carne. Allo stesso modo, non solo osservavano la Legge in merito al trattamento umano degli schiavi, ma andando oltre, non riducevano nessuno in condizione di schiavitù.

Dal momento che gli esseni e i terapeuti erano gruppi isolati, considerati precursori dei monaci cristiani, non è certo che si aspettassero che il loro rigore etico fosse adottato da tutti. Di con-seguenza, il loro rifiuto della schiavitù potrebbe non aver avuto nessun significato morale al di fuori delle loro comunità. Sia come sia, per quanto sono riuscito a determinare, esseni e terapeuti furono le prime «società» (benché società piccole) a proibire la schiavitù. E non è una coincidenza il fatto che gli ebrei fossero anche i primi a credere che Dio fosse molto interessato al comportamento morale degli uomini.

 

Santi e papi

 

Anche alcuni autori cattolici ripetono che la schiavitù non fu ripudiata dalla Chiesa cattolica romana prima del 1890 (si vedano Hurbon 1992; Noonan 1993), e un sacerdote britannico ha persino affermato che ciò non è avvenuto prima del 1965 (Maxwell 1975). Sciocchezze! Addirittura nel VII secolo, santa Batilde (moglie di re Clodoveo II) divenne famosa per la sua campagna contro il commercio di schiavi e a favore della loro liberazione; nell'851, san Oscar tentò di fermare la tratta vichinga degli schiavi. Il fatto che venisse loro impartito il battesimo a opera della Chiesa fu portato come prova del fatto che anche gli schiavi avessero un'anima, e ben presto re e vescovi - compresi Guglielmo il Conquistatore (1027-1087), san Wulfstan (1009-1095) e sant'Anselmo (1033-1109) - proibirono la riduzione in schiavitù dei cristiani (Attwater, [ohn 1993; Thomas 1997). E dal momento che, a eccezione di piccoli insediamenti di ebrei e dei vichinghi a nord, tutti nel vecchio continente erano per lo meno nominalmente cristiani, nella pratica questo significò abolire la schiavitù nell'Europa medievale, tranne che ai confini meridionali e orientali con l'islam, dove cristiani e musulmani riducevano in schia- vitù i prigionieri. Tuttavia, anche questo comportamento a volte fu condannato: nel X secolo, i vescovi di Venezia fecero pubblica penitenza per il loro passato coinvolgimento nel commercio di schiavi mori e cercarono di impedire ai veneziani di esserne nuo-vamente coinvolti. Poi, nel XIII secolo, san Tommaso d'Aquino affermò che la schiavitù era un peccato, e una serie di papi sostenne la sua posizione, a partire dal 1435 fino ai tre grandi pronunciamenti contro la schiavitù di papa Paolo III, nel 1537 (Brett 1994; Panzer 1996).

È importante osservare che all'epoca di san Tommaso d' Aquino la schiavitù era ormai un sistema legato al passato o a terre lontane, per cui egli prestò molta poca attenzione al concetto in sé, occupandosi di più della servitù, che riteneva ripugnante. Tuttavia, nella sua analisi della moralità nelle relazioni umane, san Tommaso definì la schiavitù contraria alla legge naturale, dichiarando che tutte «le creature razionali» avevano diritto alla giustizia. Dunque, egli non trovava nessun fondamento naturale per la riduzione in schiavitù di una persona piuttosto che di un'altra, «rimuovendo in tal modo qualsiasi possibile giustificazione della schiavitù basata su razza o religione» (Brett 1994, pp. 57, 78). La giusta ragione, e non la coercizione, è il fondamento morale del- 1' autorità, poiché «un uomo non è per natura assegnato a un altro come suo fine» (Somma teologica q.3, a.3). San Tommaso distingue due forme di «sottomissione» o autorità, giusta e ingiusta. La prima esiste quando i capi operano per il vantaggio e il beneficio dei loro sottoposti. La forma ingiusta di sottomissione «è quella della servitù, nella quale colui che comanda usa il suddito per la propria utilità» (Somma teologica q.92, a.1-2). L'opinione che la schiavitù era un peccato, fondata sull'immensa autorità di san Tommaso d'Aquino, divenne ufficiale nella Chiesa.

È vero che alcuni papi non osservarono l'obbligo morale di opporsi alla schiavitù - in effetti, nel 1488, papa Innocenzo VIII accettò da re Ferdinando d'Aragona il dono di un centinaio di schiavi mori, e ne diede alcuni ai suoi cardinali favoriti. Certo, Innocenzo può essere accusato di una lunga serie di azioni immorali, come abbiamo visto nel capitolo 1, ma il lassismo non va confuso con la dottrina. Infatti, benché avesse avuto personalmente molti figli, Innocenzo non modificò la dottrina ufficiale sul celibato del clero. Analogamente, il fatto che lui avesse accettato degli schiavi in dono non va confuso con gli insegnamenti ufficiali della Chiesa, che venivano proclamati di frequente e in maniera esplicita.

Durante gli anni '30 del 1400, gli spagnoli colonizzarono le Canarie e iniziarono a ridurre in schiavitù la popolazione nativa. Non si trattava di servitù, ma di vera e propria schiavitù, dello stesso tipo di quella che da molto tempo cristiani e mori praticavano con i rispettivi prigionieri. Quando la notizia giunse a papa Eugenio IV (1431-1447), questi emanò una bolla, Sicut dudum. Il Papa parlò con franchezza, senza misurare le parole. Minacciando la scomunica, dava ai destinatari della bolla quindici giorni «per riportare alla loro precedente libertà tutte le persone di entrambi i sessi residenti nelle isole Canarie[ ... ]. Queste persone devono essere totalmente e perpetuamente libere e devono essere liberate senza esazione e ricevimento di denaro» (in Panzer 1996, p. 8). Papa Pio II (1458-1464) e papa Sisto IV (1471-1484) seguirono questa strada con altre bolle nelle quali condannarono la schiavitù dei popoli delle Canarie, che, ovviamente, era continuata. E ciò dimostra chiaramente la debolezza dell'autorità papale in quell'epoca, non l'indifferenza della Chiesa di fronte al peccato della schiavitù.

Con il successo delle invasioni spagnole e portoghesi del Nuovo Mondo, iniziò la riduzione in schiavitù dei popoli indigeni e l'importazione degli africani, e alcuni schiavisti ritennero che non si trattasse di una violazione della morale cristiana, in quanto tali popoli primitivi non erano «creature razionali» con diritto alla libertà, ma erano una sorta di animali, e quindi potevano essere legittimamente sottoposti allo sfruttamento umano. Questa teologia strumentale dei mercanti di schiavi è stata abilmente utilizzata da Norman R. Cantor per accusare il cattolicesimo: «La Chiesa accettava la schiavitù [ ... ] Nella Spagna del XVI secolo, i cristiani discutevano ancora se gli schiavi neri avessero un'anima o fossero stati creati come animali dal Signore» (Cantor 1993, p. 38). Ma Cantor non acc~nna nemmeno al fatto che Roma avesse più volte proclamato che la schiavitù del Nuovo Mondo era motivo di scomunica.

Eppure, questo è precisamente ciò che disse sulla questione papa Paolo III (1534-1549). Benché appartenesse a una famiglia ecclesiastica romana, e benché fosse stato una sorta di libertino in gioventù (fu ordinato cardinale a 25 anni, ma non accettò l' or-dinazione fino all'età di cinquant'anni), Paolo si rivelò un Papa molto autorevole e devoto, riconobbe pienamente il significato morale del protestantesimo e avviò la Controriforma. La sua bolla contro la schiavitù del Nuovo Mondo (così come le bolle simili di altri Papi) è andata in qualche modo «perduta» (Auping 1994; Panzer 1996) fra i documenti storici, fino a poco tempo fa 9. Credo che ciò sia dovuto ai pregiudizi degli storici protestanti, magari indignati dal fatto che il Papa fondasse il suo attacco sul presupposto che Satana era la causa della schiavitù: [Satana,] nemico del genere umano, che si oppone sempre alle buone opere per portare gli uomini alla distruzione, inventò un metodo fino ad allora inaudito per impedire che la parola divina di salvezza fosse predicata alle genti. Egli ha aizzato alcuni dei suoi accoliti, i quali, desiderando soddisfare la propria avarizia, si trovarono ad affermare che gli indiani occidentali e meridionali di cui abbiamo recente conoscenza, con il pretesto che ignorano la fede cattolica, debbono essere sottoposti alla nostra obbedienza come se fossero animali. E li riducono in servitù, facendoli soffrire come non farebbero nemmeno con le bestie. Noi[ ... ] consideriamo[ ... ] che gli stessi indiani [siano] uomini veri [ ... e] facendo ricorso all'autorità apostolica determiniamo e dichiariamo con la presente lettera che detti indiani e tutte le genti che in futuro giungeranno alla conoscenza dei cristiani, anche se vivono al di fuori della fede cristiana, possono usare in modo incondizionato e lecito della propria libertà e delle proprie proprietà; che non devono essere ridotti in servitù e che tutto quello che si è fatto e detto in senso contrario è senza valore. (In Panzer 1996, pp. 16- 21. Corsivo mio)

In una seconda bolla sulla schiavitù, Paolo minacciò la scomunica contro chiunque, indipendentemente da «dignità, stato, condizione o grado[ ... ] possa in qualche modo presumere di ridurre detti indiani in servitù o di spogliarli dei loro beni» (Panzer 1996, p. 22). Eppure, non accadde nulla. Ben presto, al brutale sfruttamento dei nativi si aggiunsero i viaggi delle navi schiaviste spagnole e portoghesi fra Africa e Nuovo Mondo. E proprio come i missionari cattolici d'oltremare avevano spinto la Chiesa romana a condannare l'asservimento degli indios, iniziarono subito simili appelli contro l'importazione di schiavi neri. Il 22 aprile 1639, papa Urbano VIII (1623-1644), su richiesta dei gesuiti del Paraguay, emanò una bolla, Commissum nobis, nella quale riaffermava le direttive «del nostro predecessore Paolo III» per cui chi riduceva altri in schiavitù era soggetto a scomunica (Panzer 1996, p. 33). Alla fine, la Congregazione del Sant'Uffizio (la Santa Inquisizione) si occupò della questione. Il 20 marzo 1686, in forma di questionario, domande e risposte, decretò:

Si chiede: è permesso catturare con la forza e l'inganno neri e altri nativi che non hanno fatto male a nessuno? La risposta è: no. È permesso comprare, vendere o stipulare contratti di compravendita di neri e altri nativi che non hanno fatto male a nessuno e sono stati fatti prigionieri con la forza e l'inganno? , La risposta è: no. I possessori di neri e altri nativi che non hanno fatto male a nessuno e sono stati catturati con la forza o l'inganno sono tenuti a lasciarli liberi? La risposta è: sì. I catturatori, i compratori e i possessori di neri e altri nativi che non hanno fatto male a nessuno e che sono stati catturati con la forza e l'inganno sono tenuti a ricompensarli? La risposta è: sì. (Panzer 1996, appendice C)

Qui non c'è proprio nulla di ambiguo. Il problema non era che la Chiesa non condannava la schiavitù, quanto piuttosto che erano in pochi ad ascoltarla, e che la maggioranza non sentiva queste parole. In quest'epoca, i Papi avevano poca o nessuna influenza su spagnoli e portoghesi, dal momento che gli spagnoli dominavano la gran parte d'Italia (si veda il capitolo 1); nel 1527, sotto il comando di Carlo V, avevano addirittura saccheggiato Roma. E se il Papa aveva poca influenza in Spagna e Portogallo, ne aveva ancora meno nelle colonie del Nuovo Mondo, se non in forma indiretta, attraverso l'operato degli ordini religiosi. Infatti, era addirittura illegale pubblicare i decreti papali «nei possedimenti coloniali spagnoli senza il consenso reale» e al re spettavano anche le nomine di tutti i vescovi (Latourette 1975, p. 944). Ciò nonostante, la bolla di Urbano VIII fu letta in pubblico dai gesuiti di Rio de Janeiro, con il risultato che dei rivoltosi attaccarono il collegio gesuita locale e ferirono un certo numero di religiosi. A Santos, una folla travolse il vicario generale gesuita quando questi cercò di rendere pubblica la bolla, e i gesuiti furono espulsi da San Paolo quando si diffuse la voce del loro coin- . volgimento nella pubblicazione del documento (Delumeau 1977; Genovese 1974). Ciò nonostante, la conoscenza delle bolle anti-schiaviste e · delle dichiarazioni successive dell'Inquisizione fu generalmente limitata al clero, soprattutto agli ordini religiosi, e quindi ebbe un impatto pubblico scarso. Naturalmente, spagnoli e portoghesi non erano gli unici schiavisti presenti nel Nuovo Mondo, ma anche se fossero state pubblicate e diffuse ovunque, le bolle papali non avrebbero avuto nessuna forza morale fra i britannici e gli olandesi. Va comunque osservato che l'introduzione della schiavitù nel Nuovo Mondo non spinse nessun importante esponente religioso o politico protestante, danese o britannico, a denunciarla. Anche se le bolle papali contro la schiavitù non furono ascoltate nel Nuovo Mondo, le visioni antischiaviste della Chiesa ebbero comunque un effetto moderatore significativo nelle Americhe cattoliche tramite il Code Noir e il C6digo Negro Eepaiioi. In entrambi i casi, la Chiesa ne guidò la formulazione e applicazione; dimostrò quindi la sua fondamentale opposizione alla schiavitù, tentò di garantire «i diritti dello schiavo e il suo benessere mate-riale», e impose degli «obblighi ai proprietari di schiavi, limitando il loro controllo su costoro» (Auping 1994, p. 13). Come ha scritto Eugene Genovese: «Il cattolicesimo segnò una profonda svolta nella vita degli schiavi. Impartì alle società schiaviste brasiliane e dell'America spagnola un'etica [ ... ] di vera forza spirituale» (Genovese 1974, p. 179).

La prevalenza di pregiudizi antireligiosi, e soprattutto anti-cattolici, nelle diverse storie della schiavitù è ben esemplificata dall'analisi del Code Noir nella voce sulla Louisiana della Columbia Encyclopaedia (1975): «Il Code Noir, adottato nel 1724, provvide al rigido controllo della vita [degli schiavi] e alla protezione dei bianchi. Altre disposizioni istituirono il cattolicesimo come religione ufficiale». Tutto qui! I molti articoli a protezione degli schiavi, nemmeno presi in considerazione! Certo, non era un proclama di emancipazione, ma non era nemmeno il Code of Barbados!

Come ulteriore esempio di pregiudizio antireligioso diffuso fra gli storici contemporanei si prenda in considerazione il fatto che nella sua discussione del Code Noir, Robin Blackburn scrisse della «presunta politica ufficiale d'incoraggiamento dei matrimoni fra schiavi nelle colonie francesi» solo per concludere la frase con la notevole ammissione che essa ebbe «risultati limitati ma non trascurabili» (Blackburn 1998, p. 291). Poi cita un documento della Martinica nel quale si riferiva che metà degli schiavi in età da matrimonio erano sposati. Dal momento che, tener conto della distribuzione dei sessi fra la popolazione schiava, significava eguagliare le percentuali dei matrimoni nella Francia dell'epoca, sembrerebbe che il «presunto» sostegno al matrimonio sia stato sufficiente.

Altrettanto rilevante è il fatto che storici della schiavitù così il-lustri abbiano raramente menzionato il Code Noir e completamente ignorato il C6digo Negro Espafiol, al punto che quest'ultimo non compare nemmeno negli indici delle loro famose opere (Blackburn 1998; Davis 1966 e [1975] 1999; Drescher, Engerman 1998; Meltzer 1993; Turley 2000). Ma se molti storici hanno pre-stato poca o nessuna attenzione a questi codici ispirati dalla Chiesa, praticamente nessuno ha mai nominato il Code of Barbados (nemmeno con altri nomi), tranne quei pochi storici specializzati sulla legislazione riguardante la schiavitù (Goveia 1969; Morris 1996; Schafer 1994; Watson 1989), e i molti che hanno scritto specificamente sulla storia della schiavitù nelle Barbados (Beckles 1989; Dunn 1979). E questo nonostante il fatto che il codice fosse in vigore in tutte le Indie Occidentali britanniche. Credo che il Code of Barbados avrebbe ricevuto notevole attenzione se fosse stato scritto da cattolici e non da protestanti.

Eppure, l'omissione forse più significativa in tutta la discussione sulla schiavitù nel Nuovo Mondo, e in particolare sull'asservimento e il maltrattamento delle popolazioni indigene, riguarda la repubblica gesuita del Paraguay (Abou 1997; Boxer 1962; Caraman 1975; Furneaux 1969; Graham 1901; Mòrner 1965). Per più di 150 anni (1609-1768), i gesuiti amministrarono un'area due volte più grande della Francia, situata a sud del Brasile e a ovest dei territori ceduti al Portogallo dal Trattato di Tordesillas (1494). Qui, un piccolo gruppo di gesuiti spagnoli (probabilmente mai più numerosi di duecento) fondarono, protessero, istruirono e consigliarono uno stato autonomo che racchiudeva per lo meno trenta comunità, o reducciones 10, di indios guaranì. Non solo nella repubblica gesuita fiorirono le arti e l'industria (città con strade pavimentate e grandi edifici, orchestre sinfoniche, stampa) ma fu fatto anche un valido tentativo di creare un governo rappresentativo. Lo scopo dei gesuiti nel fondare questa repubblica, come spiegò il loro superiore Antonio Ruiz de Montoya nel 1609, era quello di cristianizzare e «civilizzare» gli indios, così che potessero diventare sudditi liberi della Corona, alla pari degli spagnoli, e dunque «portare la pace fra spagnoli e indios, un compito così difficile che, dalla scoperta delle Indie Occidentali più di un centinaio di anni fa, non è stato ancora possibile» (in Abou 1997, p. 65).

La repubblica fiorì, ma invece di divenire la base per l'ugua-glianza e la pace, la sua esistenza disturbò molti funzionari colo- niali e coltivatori, e alimentò la tentazione dell'esproprio. Ciò nonostante, i gesuiti riuscirono per generazioni a prevenire e sventare questo tipo di interessi a loro contrari degli oppositori. Ma poi le cose cominciarono ad andare male. Il primo passo verso la caduta della repubblica fu compiuto nel 1750, quando portoghesi e spagnoli firmarono un nuovo trattato nel quale si spartivano il Sud America sulla base dei confini naturali. Come risultato, sette reducciones finirono sotto la giurisdizione portoghese. I ge-suiti si opposero all'ordine di consegnare questi insediamenti alle autorità civili, e si rivolsero alle Corone portoghese e spagnola affinché risparmiassero le reducciones. Tuttavia, i loro oppositori erano troppo forti e senza scrupoli, e diffusero voci e false prove di cospirazioni gesuite contro entrambe le Corone. Così, nel 1754, la Spagna mandò contro le sette reducciones le sue truppe, che procedettero da ovest, mentre i portoghesi avanzarono da est. Entrambe le forze europee furono sconfitte dagli indios, ben addestrati in tattica militare e dotati di moschetti e cannoni. Benché i gesuiti non avessero partecipato alle battaglie, furono accusati di essere dei traditori e vennero espulsi dal Portogallo e da tutti i territori portoghesi, nel 1758. Presto, complotti simili contro i gesuiti ebbero successo anche in Spagna, e tutti gli appartenenti all'ordine furono arrestati, nel 1767, e deportati nello stato papale. Nel luglio dello stesso anno, le autorità coloniali furono pronte a muoversi contro i gesuiti in America Latina, e le retate iniziarono da Buenos Aires e Cérdoba. Ma fu solamente l'anno successivo che le truppe spagnole si mossero contro le restanti 23 reducciones e catturarono tutti i gesuiti rimasti, legarono ai muli anche padri molto anziani e ammalati, e li trasportarono sulle montagne - molti morirono a causa degli stenti e del cattivo tempo. E fu così che i gesuiti furono espulsi dall'emisfero occidentale. Presto la loro repubblica andò in rovina - sconfitta e depredata dalle autorità civili. Scoraggiati dai maltrattamenti e dalla perdita dei padri dalla tonaca nera, i guaranì sopravvissuti si dispersero, e molti si trasferirono nelle città.

Ovviamente, fra i pochi storici che hanno parlato della repubblica gesuita ve ne sono alcuni che insistono a scagliarsi con- tro il colonialismo e il cattolicesimo, condannando i «fanatici» gesuiti per aver imposto la religione e la civiltà ai «miti» indios, e definendo i tentativi dei gesuiti di conservare la repubblica solo crudele paternalismo e «sfruttamento spietato» (Garay [1900] 1965; Madariaga [1948] 1965; si veda poi la sintesi di Caraman 1975). Anche qualora accettassimo la versione più estrema di questa ricostruzione storica, troveremo comunque testimonianza dei tentativi sinceri e concreti dei gesuiti di proteggere gli indios dai coltivatori e dalle autorità coloniali che volevano ridurli in schiavitù o sradicarli completamente dalla loro terra. L'aver costruito una civiltà indios avanzata in tale contesto storico fu un'impresa piuttosto straordinaria. Comunque, per lo meno questi storici parlano, pur travisandolo, di questo evento storico significativo; la maggior parte degli altri storici, semplicemente, lo ignora. Personalmente, sono riuscito a trovare soltanto due libri sull'argomento scritti in lingua inglese negli ultimi 30 anni, uno dei quali è una traduzione dal portoghese, ed entrambi sono esauriti (Abou 1997; Caraman 1975). Per quanto sono riuscito a scoprire, l'unico cenno all'argomento nell'Encycopaedia Britannica è un'unica frase, alla voce «Paraguay, Storia di»: «Per gran parte dell'epoca coloniale, il Paraguay fu noto principalmente per il folto gruppo dei missionari gesuiti delle 30 reducciones». Non ci viene nemmeno spiegato cosa siano le reducciones. Untotale silenzio riservano alla Repubblica gesuita le maggiori opere sulla schiavitù del Nuovo Mondo, le quali esprimono sempre giudizi negativi molto duri (e spesso improntati a pregiudizi anticattolici) sulla riduzione in schiavitù e sugli abusi sugli indios in America Latina.

Al contrario, grande attenzione è stata riservata al fatto che non tutto il clero cattolico, non tutti i gesuiti, accettavano l'idea che la schiavitù fosse peccaminosa. In effetti, immersi in società schiaviste, a volte anche gli stessi appartenenti al clero possedevano degli schiavi - nel XVIII secolo e agli inizi del XIX i gesuiti del Maryland erano proprietari di schiavi (Murphy 2001). Altri religiosi, invece, avevano idee molto confuse sull'argomento. Ad esempio, il domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566) con- tro la riduzione in schiavitù degli indios intraprese una campagna dura e di un certo successo, nella quale proponeva però di andare a prendere gli schiavi in Africa. In seguito giunse a rammaricarsi profondamente di questa sua proposta, e confidò di avere profondi dubbi sul perdono di Dio per questo suo terribile peccato (Hanke 1951).

Va inoltre riconosciuto che la Chiesa, di solito, non ha affrontato di petto i governi su questo problema per tentare di forzarli a porre termine alla schiavitù. Certo, i Papi avevano minacciato la scomunica, ma nella pratica la Chiesa si limitò a tentare co-stantemente di migliorare per quanto possibile le condizioni degli schiavi. Così la Chiesa fu inesorabile nel dichiarare che la schiavitù era solo una condizione di servizio, e che gli schiavi rimanevano pienamente umani e conservavano la piena uguaglianza agli occhi di Dio. Come scrisse l'importante cardinale italiano Giacinto Gerdil (1718-1802): «La schiavitù non è da intendersi come il dare a un uomo lo stesso potere su un altro uomo che si ha sul bestiame[ ... ]. Difatti, la schiavitù non abolisce l'uguaglianza naturale degli uomini[ ... ed] è subordinata alla condizione che il padrone abbia la dovuta cura del suo schiavo e lo tratti umanamente» (in Fox 1913, p. 40). Come già accennato, fu con questo spirito che il primo articolo del C6digo Negro Espaiiol richiedeva a tutti i padroni di far battezzare i loro schiavi e prevedeva delle sanzioni gravi per quelli che non permettevano agli schiavi di partecipare alla Messa o di celebrare i giorni di festa. Al contrario, la Chiesa d'Inghilterra non riconosceva gli schiavi «come esseri umani battezzabili» (Fiske 1899, p. 108). Entrambe le prese di posizione ebbero un effetto profondo, non solo su chi era direttamente coinvolto nella schiavitù, ma anche sull'attitudine nei confronti dell'affrancamento e, soprattutto, degli ex schiavi.

È chiaro, dunque, che l'idea diffusa che la Chiesa cattolica, in generale, abbia favorito la schiavitù non è affatto vera. Infatti, come si vedrà, quando i quaccheri americani diedero vita al movimento abolizionista, trovarono anime affini non solo tra gli altri protestanti, ma anche tra i cattolici romani.

 

L'eccezione islamica

 

Se il monoteismo contiene in sè il germe originario delle dottrine antischiaviste, perché l'islam non si ribellò contro la schiavitù? Anzi, perché la schiavitù persiste ancora in alcune aree islamiche? Perché la pratica è stata solo recentemente interrotta in alcune nazioni musulmane, e solo in risposta alle intense pressioni da parte dell'Occidente?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo capire che i teologi lavorano entro precisi limiti intellettuali - vale a dire, su materiali culturali specifici, dai quali non è possibile trarre una conclusione qualsiasi. Per esempio, sarebbe del tutto impossibile per teologi ebrei, cristiani o islamici dedurre dalle Sacre scritture che Dio non abbia alcun interesse per il comportamento sessuale umano. I testi rivelati non permetterebbero mai una simile conclusione. Né i teologi cristiani potevano dedurre che Gesù preferisse la poligamia, almeno non senza una rivelazione supplementare. Il problema fondamentale che i teologi musulmani si trovarono davanti in merito alla moralità della schiavitù è il fatto che Maometto acquistò, vendette, catturò e possedette schiavi (Lewis 1990; Watt 1961 e 1965).

Come Mosè, il profeta ordinò che gli schiavi fossero trattati bene: «Date loro da mangiare ciò che voi stessi mangiate e vestiteli con ciò che voi stessi indossate[ ... ] Sono il popolo di Dio come voi e siate gentili con loro» (in Gordon 1989, p. 19). Maometto, per di più, liberò diversi suoi schiavi, ne adottò uno come figlio, e sposò una schiava. Inoltre, il Corano insegna che è sbagliato costringere a «le vostre schiave prostituirsi» (24,33), e che si può ottenere il perdono per aver ucciso un fratello credente, liberando uno schiavo (4,92). Come fecero le regole ebraiche sulla schiavitù, l'ammonizione e l'esempio di Maometto probabilmente mitigarono spesso le condizioni degli schiavi nel mondo islamico, diversamente da quanto accadeva in Grecia e a Roma. Tuttavia, non era in dubbio la moralità della pratica della schiavitù. Benché i teologi cristiani fossero in grado di aggirare l'accettazione biblica della schiavitù, probabilmente non avrebbero potuto farlo se Gesù avesse posseduto degli schiavi 11• Che Maometto possedesse degli schiavi era un fatto che i teologi musulmani non potevano superare con nessuna manovra intellettuale, anche se avessero voluto.

 

Spiegare i movimenti abolizionisti

 

Quando gli schiavi cominciarono a riapparire nell'Europa del XV secolo, la loro presenza suscitò quelli che possono essere chiamati solamente movimenti abolizionisti nascenti. Nel 1444, quando una nave carica di schiavi africani fu messa in vendita a Lagos, in Portogallo, la folla fu così sconvolta dalla vista di famiglie separate e vendute da intervenire per impedirlo (Saunders 1982). Quando un mercante di schiavi olandese ne portò un carico nei Paesi Bassi, nel 1596, il consiglio locale, spinto dai cittadini infuriati, dichiarò liberi tutti gli schiavi - dopo di che gli schiavisti olandesi proseguirono la loro attività all'estero (Dre-scher 1987). La vista di schiavi per le strade di Parigi suscitò un tumulto popolare (McCloy 1961). Dopo aver visto il mercato degli schiavi in Giamaica, all'inizio del XVIII secolo, un ammiraglio inglese scrisse una lettera arrabbiata e disgustata nella quale parlava di compratori che sceglievano esseri umani «come se fossero stati tanti cavalli» (Leslie 1740).

Ciò che suggeriscono queste reazioni è che il contatto diretto con la schiavitù si dimostrava intollerabile per molti cristiani non personalmente coinvolti nello sfruttamento degli schiavi. Infatti, la tesi fondamentale che esprimerò nel seguito di questo capitolo è la seguente: un'opposizione organizzata alla schiavitù sorse solo dove e quando: 1. la necessaria predisposizione morale fu 2. stimolata dalla rilevanza del fenomeno e 3. non fu repressa da un percepito interesse personale. Il primo fattore spiega il motivo per cui dei movimenti abolizionisti indigeni devono ancora fare la loro comparsa nei paesi non cristiani. Il secondo risponde del fatto che i movimenti abolizionisti si siano limitati a luoghi in cui la gente sentiva di avere una certa responsabilità diretta per l'esistenza della schiavitù, come negli Stati Uniti, in America Latina, e nelle nazioni europee che parteciparono direttamente alla schiavitù coloniale. Il terzo fattore spiega perché i movimenti abolizionisti non prosperarono nel Sud degli Stati Uniti o nelle colonie europee.

Per esporre in modo esauriente questa tesi, traccerò la storia della nascita del movimento abolizionista negli Stati Uniti. Poi, delineerò la sua evoluzione in Gran Bretagna e in Francia. Infine, analizzerò l'abolizionismo in Spagna e America Latina.

 

I movimenti abolizionisti in America

 

Il 19 giugno 1700, Samuel Sewall (1652-1730), pubblicò The Selling of Joseph ( «La vendita di Giuseppe», N.d. T.) il primo trattato abolizionista scritto in America. Sewall era un bostoniano di classe sociale elevata, puritano devoto, laureato a Harvard, mercante di successo. Era stato un famoso giudice impegnato nei processi per stregoneria a Salem, una cosa per la quale successivamente espresse pubblicamente il suo pentimento. Nonostante la sua statura sociale, l'attacco di Sewall alla schiavitù «fu semplicemente ignorato dai suoi contemporanei» (Yazawa 1998, p. 3).

Questo esempio illustra un principio sociologico fondamentale: le pubblicazioni non danno vita ai movimenti sociali; lo fa la gente, coinvolgendo amici, parenti, vicini e colleghi, motivandoli ad agire in maniera coordinata - a diventare un'organizzazione. E la cosa di solito è più semplice se si parte da un gruppo che è già organizzato.

Di conseguenza, il movimento abolizionista americano non nacque a Boston, ma cinquantaquattro anni dopo, all'Assemblea annuale quacchera di Philadelphia, stimolato da un altro trattato abolizionista. In questo caso, si trattò dell'opera di John Woolman (1720-1772), un giovane molto devoto, le cui preoccupazioni morali riguardo alla schiavitù emersero quando il suo datore di lavoro gli chiese di redigere una fattura per una schiava. Woolman l'aveva fatto, ma ne aveva tratto un senso di colpa che non trovava sollievo. Le sue inquietudini crebbero, fino a diventare critiche aperte, quando, viaggiando per la Virginia, constatò con i propri occhi la miseria della condizione degli schiavi. Al ri-torno, scrisse il suo primo trattato contro il «peccato della schia-vitù», Some Considerations on the Keeping of Negroes [ «Alcune con-siderazioni sul possesso di negri», N.d.T.]. Esso non si limitava solo a rispecchiare il punto di vista del suo autore, ma dava voce a idee diffuse e, dopo aver ricevuto l'approvazione ufficiale dei responsabili stampa dell'Assemblea, fu distribuito a tutti i presenti. Il pamphlet di Woolman ([1974] 1969) era un modello di garbata persuasione quacchera. Iniziava con una citazione dal Vangelo di Matteo (25,40): «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me», con l'implicazione diretta che ridurre in schiavitù un «negro» significava far schiavo Cristo. Benché fosse chiaramente rivolto ai quaccheri che possedevano degli schiavi, il trattato ricordava a tutti i quaccheri che «i negri sono creature nostre sorelle, e la loro attuale condizione fra di noi richiede la nostra seria attenzione», e che tutti i fratelli quaccheri si erano votati alla giustizia, all'amore e al miglioramento dell'umanità, non al tornaconto personale. Nel suo paragrafo finale, Woolman esprimeva, poi, la convinzione che Dio, anche se non era intervenuto fino a quel momento, vedeva che «[gli schiavi] sono umiliati e disprezzati, eppure si ricorda di loro: Egli vede il loro dolore», e presto si sarebbe accinto a «umiliare gli arroganti» che preferivano «il guadagno [ ... ] alla giustizia». Successivamente, Woolman dedicò la sua vita alla diffusione del messaggio abolizionista, che basò esclusivamente su obiezioni religiose alla pratica schiavista.

Woolman aveva scritto il suo trattato nel 1746, ma scelse di aspettare a divulgarlo perché i responsabili della stampa quacchera di allora erano in maggioranza proprietari di schiavi. Nel 1754, però, le cose erano cambiate, e solo un terzo di essi possedeva degli schiavi. Inoltre, la percentuale di proprietari di schiavi fra coloro che erano stati inviati in rappresentanza all'incontro annuale di quell'anno era da poco scesa da un 50 a un 10% (Soderlund 1985). Dunque, il messaggio di Woolman non incontrò un'opposizione dovuta alla difesa di un invincibile tornaconto personale, ma fu accolto favorevolmente dalla maggioranza, tan- to che l'anno successivo l'assemblea concordò di pubblicare un proprio trattato, con un attacco molto più diretto contro la schia-vitù: An Epistle of Caution and Advice, Concerning ihe Buying and Keeping of Slaves [ «Una lettera di diffida e avvertimento circa l' ac-quisto e il possesso di schiavi», N.d. T.].

Questa lettera iniziava chiedendosi se fosse compatibile con la Regola d'Oro il privare «creature nostre sorelle di quella libertà benedetta e preziosa», o l'«arricchirsi tramite la loro schiavitù». Poi proclamava: «Il vivere nell'agio e nell'abbondanza grazie alla fatica di coloro che la violenza e la crudeltà hanno messo in nostro potere, non è coerente né con il cristianesimo né con la comune giustizia, e abbiamo buone ragioni per credere che attiri il dispiacere del cielo[ ... ]. Come possiamo dire di amare i nostri fratelli e [ ... ] per fini egoistici tenerli in schiavitù?», Poi, dopo aver proseguito su questa linea, il comitato estensore del documento giungeva al punto decisivo: «Infine, fratelli, noi vi supplichiamo [ ... ]per amore del Vangelo, di valutare seriamente la causa della loro detenzione in schiavitù. Se è per il vostro privato guadagno, o qualsiasi altro motivo che non sia il loro bene, dobbiamo temere che l'amore di Dio, e l'influenza dello Spirito Santo, non trovino spazio nei vostri cuori» (in Brookes 1937, pp. 475-477).

Oltre a diffondere questo trattato, l'Assemblea annuale nominò una commissione perché appurasse presso le Assemblee locali se i membri erano «esenti dal peccato dell'importazione e dell'acquisto di negri»; gli sforzi dovevano essere diretti a convincere i colpevoli di tali azioni che erano in errore. In risposta, molte Assemblee locali cominciarono a espellere i membri riconosciuti colpevoli. Successivamente, nel 1758, l'Assemblea annuale nominò un comitato di cinque persone «per far visita e affrontare tutti questi fratelli che possedevano schiavi» e riferire sui progressi compiuti nell'attività di convertirli. Infine, nei primi anni '70 del 1700, le Assemblee annuali quacchere di New England, New York, New Jersey e Pennsylvania vietarono ai loro membri di possedere schiavi, pena l'estromissione. E così nacque il movimento abolizionista americano (Soderlund 1985).

David Brion Davis ha giustamente osservato che anche un certo numero di voci non-quacchere in quell'epoca si erano sollevate contro la schiavitù, sia in America sia all'estero (Davis 1966). Ma, come ha riconosciuto lo stesso Davis, le «voci» non sono movimenti. I quaccheri non erano solo un gruppo di persone affini che leggevano e concordavano con i trattati antischiavisti. Il loro approccio all'abolizionismo fu potente perché fin dall'inizio si dedicò alla causa la loro comunità religiosa, ben organizzata e influente. Il loro scopo iniziale era quello di purificare se stessi dalla colpa del possesso di schiavi, e principalmente in questo ebbero successo. Anche se alcuni proprietari di schiavi quaccheri abbandonarono la loro chiesa piuttosto che adeguarsi alla sua politica abolizionista, la maggior parte vi aderì, compresi i proprietari di alcune piantagioni molto grandi (Soderlund 1985). Tuttavia, proprio come speravano di ottenere alla fine la salvezza per tutta l'umanità, così il loro obiettivo ultimo era quello di porre fine alla schiavitù ovunque. E si avvicinarono a tale obiettivo molto più di quanto tante persone colte e raffinate avessero previsto all'epoca (o di quanto diverse persone altrettanto colte e raffinate di oggi vorrebbero ammettere).

Uno dei motivi del loro successo fu il fatto che, pur avendo iniziato come una setta disprezzata dagli altri cristiani (tra il 1659 e il 1661 quattro quaccheri che erano stati precedentemente frustati e cacciati dal Massachusetts per «eresia» furono impiccati per esservi tornati), i quaccheri americani avevano raggiunto un grande potere economico e politico. Molte delle persone più ricche del tempo erano quacchere, alcune delle quali, come John Pemberton, acquistarono con il loro denaro la libertà di molti schiavi. Si ricordi, inoltre, che Philadelphia era la città più grande delle colonie americane e che fu la capitale della nazione fino alla creazione di Washington, D.C. Indicativo dell'influenza dei quaccheri è anche il fatto che nel 1787 la Pennsylvania Society far Promoting the Abolition of Slavery, d'ispirazione quacchera, era guidata da Benjamin Franklin e Benjamin Rush, due tra gli americani più rispettati e influenti dell'epoca. Quello che dicevano loro contava, eccome. Per di più, i quaccheri avevano lanciato una sfida morale alle altre organizzazioni cristiane. I puritani po-tevano anche ignorare con una certa facilità Samuel Sewall, ma potevano lasciare ai quaccheri il monopolio assoluto della moralità? Certo che no, disse nel 1771 la maggioranza puritana nel- 1' assemblea legislativa del Massachusetts, dichiarando illegale l'importazione di schiavi.

Per non essere da meno, molti gruppi cristiani aderirono alla causa dell'abolizionismo, e ben presto sorsero molte associazioni abolizioniste anonime. Ma, nel complesso, il movimento (distinto dai gruppi informali di semplici simpatizzanti) era composto da devoti cristiani attivisti, la maggior parte dei quali membri del clero (Auping 1994; Barnes [1933] 1964; Strong 1999). Infatti, le più importanti figure religiose del XIX secolo ebbero un ruolo di primo piano nel movimento, come il congregazionalista liberale Lyman Beecher (1775-1863), la cui figlia scrisse La capanna dello zio Tam, o l'evangelista più potente dell'epoca, Charles Grandison Finney (1792-1885), il quale trasformò l'Oberlin College in una stazione chiave della «ferrovia clandestina» che portava in Canada gli schiavi in fuga, oppure come John Humphrey Noyes (1811-1886), fondatore del «notorio» gruppo comunitario Oneida.

Nel 1833, un gruppo importante di abolizionisti formò l' A-merican Anti-Slavery Society (Kraditor 1967; Mayer 1998; Nye 1955). Guidato dall'ardente redattore di «The Liberator», William Lloyd Garrison (1805-1879), il gruppo elaborò e pubblicò una Dichiarazione di Sentimenti, ricca di motivazioni religiose. Constatando che tenere un essere umano «in servitù involontaria» significa rubare «secondo le Scritture», il documento proclamava la certezza che «gli schiavi dovrebbero essere liberati immediatamente, e posti sotto la protezione della legge».

Inoltre tutte le leggi attuali - proseguiva il documento - «am-mettendo il diritto di schiavitù, sono dunque, davanti a Dio, del tutto nulle e prive di valore [ ... ] un'audace usurpazione delle prerogative divine» e «un'arrogante trasgressione di tutti i sacri comandamenti». Ciò nonostante, il gruppo accettava «la sovranità di ogni stato» e ammetteva «che il Congresso[ ... ] non ha al- cun diritto di interferire negli stati schiavisti». Ma la Dichiarazione sosteneva anche che il Congresso aveva il diritto e l' obbligo di porre fine al commercio degli schiavi tra gli stati, e di mettere fuorilegge la schiavitù in tutti i territori. In conclusione, riponeva la fiducia «nella giustizia sovrana di Dio»: «Ci fondiamo sulla Dichiarazione della nostra Indipendenza e sulle verità della Divina Rivelazione come sulla Roccia Eterna» (in Ruchames 1963, p. 78).

L' American Anti-Slavery Society crebbe rapidamente. In due anni nacquero 400 sedi locali, e nel 1838 erano più di 1000. Anche se Garrison stesso trovò spesso difficile andare d'accordo con il clero (Mayer 1998), quest'ultimo costituiva la spina dorsale vitale della sua organizzazione. La società si diffuse e crebbe grazie agli sforzi degli agenti itineranti nominati per supervisionare specifici territori, aiutati da agenti locali residenti nei grandi centri abitati. J ohn A. Auping ha raccolto dati su tutti i 155 agenti itineranti e i 149 locali che prestarono il loro servizio per 'American Anti-Slaverv Society durante il periodo della sua grande espansione, dal 1834 al 1840. Ottantuno agenti itineranti, il 52%, erano ministri del culto. E degli agenti locali, 111, il 75%, facevano parte del clero (Auping 1994).

Inoltre, man mano che i sentimenti abolizionisti si diffondevano, furono soprattutto le chiese (spesso congregazioni locali), e non le associazioni e le organizzazioni laiche, a rilasciare dichiarazioni formali a favore della fine della schiavitù (Barnes [1933] 1964; Strong 1999). L'abolizionismo apertamente espresso dalle congregazioni del Nord e dai gruppi confessionali causò grandi scismi all'interno delle più importanti chiese protestanti, e alla fine portò alla loro separazione in due chiese indipendenti, una al nord e una al sud; e questa fu l'origine dei battisti, dei metodisti, e dei presbiteriani meridionali. I congregazionalisti non si divisero perché non avevano chiese più a sud del Connecticut.

La Chiesa cattolica romana americana subì gravi conflitti interni sulla schiavitù perché aveva poche parrocchie negli stati meridionali e, per lo meno all'inizio del XIX secolo, il clero se- guiva il Papa nella sua opposizione alla schiavitù. Al Congresso di Vienna del 1815, papa Pio VII (1800-1823) chiese la soppressione del commercio degli schiavi. Poi, nel 1839, papa Gregorio XVI (1831-1846) inviò una Lettera Apostolica al Consiglio provinciale dei vescovi americani nella quale condannava la schiavitù. La lettera iniziava con un bell' esempio di «deduzione» teologica. Nel suo paragrafo di apertura il Papa ammetteva che gli apostoli avevano consigliato agli schiavi di obbedire ai loro padroni, ma proseguiva osservando (come aveva fatto anche Woolman) che dal momento che Cristo aveva dichiarato che qualsiasi cosa fatta al più piccolo degli uomini era come se fosse fatta a Lui, «ne conseguiva naturalmente» che i cristiani dovevano trattare gli schiavi come fratelli. Poi, il Papa sottolineava come «nel procedere del tempo, essendo stata completamente dissipata la nebbia della superstizione pagana e ammorbidite le maniere delle genti barbare, grazie alla Fede che opera con la Carità [ ... ] non vi sono più schiavi nella maggior parte delle nazioni cristiane». Purtroppo, «fra gli uomini di fede» vi erano uomini «vergognosamente accecati dal desiderio di sordido guadagno» che si erano recati in paesi lontani e «non hanno esitato a ridurre in schiavitù gli indios, i negri e altri popoli infelici». Quindi, «desiderando rimuovere tale vergogna dalle nazioni cristiane» e «camminando sulle orme dei nostri predecessori», il Papa chiedeva la fine della schiavitù (in Auping 1994, pp. 109-110).

In seguito a ciò, il segretario di stato americano John Forsyth, nella campagna elettorale negli stati del Sud del 1840 per la rie-lezione del presidente Martin van Buren, definì il Papa un aboli-zionista, per far appello ai sentimenti anticattolici degli elettori. A ciò John England, vescovo di Charleston, nel South Carolina, rispose che benché considerasse la schiavitù un peccato, la Chiesa intendeva lasciare le questioni legali agli organi legislativi del governo. England aveva le sue ragioni per essere cauto, dal mo-mento che nel 1836 una folla violenta lo aveva costretto a chiudere la scuola per neri liberi che aveva aperto nella sua diocesi un anno prima (Auping 1994). Tuttavia, la dichiarazione del vescovo non riuscì a disinnescare l'anticattolicesimo in rapida ere- scita - nell'estate del 1844 una sollevazione di protestanti a Phi-ladelphia portò all'incendio delle due maggiori chiese cattoliche della città. Anzi, la Chiesa cattolica veniva talmente associata con l'abolizionismo dalle forze pro-schiavitù che Charles Finney, il famoso devoto evangelico e primo presidente dell'Oberlin College ricordò che la scuola era stata boicottata proprio perché le sue visioni sulla razza sarebbero state addirittura «peggiori di quelle del cattolicesimo romano» (Finney [1876] 1960, p. 344). Sia come sia, come è stato dimostrato dalla splendida analisi di John Hammond, la rinascita spirituale promossa da Finney ebbe un profondo effetto sull'aumento delle adesioni alle varie associazioni antischiaviste, così come sul sostegno al Partito liberale nel 1844 e al Partito del Libero Suolo (Free Soil Party) nel 1848 (Hammond 1974).

L'aspetto più rilevante è che gli abolizionisti, sia Papi sia capi evangelici, parlavano quasi esclusivamente il linguaggio della fede cristiana. E benché molte personalità religiose degli stati del Sud abbiano proposto delle difese teologiche della schiavitù, i discorsi a favore di essa erano in maniera preponderante di natura secolare - e i loro riferimenti erano alla «libertà» e ai «diritti degli stati», non al «peccato» o alla «salvezza». Ciò è stato dimostrato in maniera definitiva da Auping, con un'analisi del contenuto degli scritti di alcuni importanti abolizionisti e di quelli dei difensori della schiavitù, scelti in modo casuale. Gli abolizionisti erano contro la schiavitù in maggioranza per motivi religiosi, e si notavano differenze anche fra i testi di uomini religiosi (Auping 1994). Il che non stupisce affatto dal momento che persino gli storici marxisti più radicali sono d'accordo sul fatto che il movimento abolizionista sia stato avviato e portato avanti da credenti. Ovviamente, come vedremo, questi marxisti sostengono anche che quando le persone di fede condannavano la schiavitù per motivi religiosi, in realtà non erano sincere o erano vittime di una falsa coscienza.

Tuttavia, c'è ancora un'altra tesi, molto più persuasiva, che viene avanzata per minimizzare l'importanza della religione nell'abolizione della schiavitù. Si sostiene, infatti, che molti sin- ceri cristiani furono piuttosto abili a inquadrare la pratica della schiavitù all'interno della teologia - come scrisse nel 1798 Francis Asbury, primo vescovo metodista degli Stati Uniti, «metodisti, battisti, presbiteriani [ ... ] nei loro più alti voli di entusiastica devozione, mantengono ancora e difendono [la schiavitù]» (Asbury 1958, vol. 2, p. 151). Stando così le cose, secondo questa prospettiva, non deve essere stata la religione di per sé ma qualcos'altro a spingere alcuni cristiani a concludere che fosse un peccato tenere in schiavitù degli esseri umani. Eppure, come sapeva bene Asbury, questo tipo di ragionamento non significa nulla. L'argomentazione contro la schiavitù è teologica, non relativa a una rivelazione. Se Mosè avesse ricevuto un comandamento contro la schiavitù, beh, allora solamente gli ebrei e i cri- , stiani eretici avrebbero potuto possedere degli schiavi. Oppure, se Gesù avesse proclamato che nessun padrone di schiavi sarebbe entrato in Paradiso, i cristiani non avrebbero avuto nessuna incertezza nella scelta di un comportamento antischiavista. Ma la teologia si basa sulle interpretazioni umane, e dunque dei pensatori sinceri e brillanti possono giungere a conclusioni opposte. Asbury non disse che coloro che accettavano la schiavitù non erano a conoscenza delle rivelazioni, ma che avevano tratto delle conclusioni teologiche scorrette dalle scritture, che non avevano né «un senso della religione né un senso della libertà sufficiente». L'abolizionismo non era un concetto inerente alla Scritture cristiane; era solamente una conclusione possibile, e una conclusione improbabile da raggiungere tranne che in circostanze favorevoli. Per dirla in un altro modo, non voglio sostenere che il monoteismo o persino la cultura cristiana siano una base sufficiente per condannare la schiavitù come un peccato. Piuttosto, sostengo che si trattasse di una base necessaria, nel senso che solamente quei pensatori religiosi che operavano all'interno della tradizione cristiana furono in grado di giungere a conclusioni di natura antischiavista (con l'eccezione di due sette ebraiche). Ma, ho già avuto modo di spiegarlo, come la fede in un Dio creatore razionale fu la causa necessaria, ma non sufficiente, per la nasci- ta della scienza (poiché fu necessario anche un notevole progresso tecnologico e intellettuale), allo stesso modo, all'interno del pensiero cristiano risiedeva il potenziale morale per una teoria antischiavista, che tuttavia maturò soltanto quando venne a contatto con i concetti laici di libertà e dignità dell'individuo - vale a dire, con le tendenze morali e politiche generali della cultura occidentale. In effetti, come ho già osservato, i cristiani europei avevano avuto l'opportunità unica di vivere in un «mondo» senza schiavi, il che dava loro un punto di vista avvantaggiato da cui guardare alla schiavitù, liberi da preconcetti in merito alla sua normalità.

Si tenga presente, poi, che non voglio nemmeno suggerire che il movimento abolizionista sia riuscito a coinvolgere un così grande numero di americani da far eleggere presidente Abraham Lincoln. Furono relativamente pochi, invece, gli americani coinvolti in maniera effettiva in una qualche organizzazione abolizionista, e furono molti i fattori che influenzarono la crescita del Partito re-pubblicano e la nomina e l'elezione di Lincoln, nel 1860. Tuttavia, contrariamente a quanto sostengono, nel loro revisionismo, storici progressisti quali Charles Beard, la Guerra civile fu primariamente una guerra combattuta contro o a difesa della schiavitù, e non per gli interessi economici del Nord industriale o del Sud agricolo. Ed è molto significativo che nessuno degli storici progressisti, colleghi di Beard, abbia ritenuto strano che Beard, pur opponendosi all'idea di motivazioni religiose a sostegno dell'abolizionismo, sostenesse però l'esistenza di una forte influenza religiosa a favore della schiavitù negli stati del Sud (Beard 1927). Per lo meno, Beard non negò che valesse la pena combattere per l'affrancamento degli schiavi, come fecero molti altri illustri storici dell'epoca, compreso Avery O. Craven, il quale diede la colpa della Guerra civile ad agitatori e predicatori senza scrupoli di entrambe le parti, e concluse che la guerra era stata un grosso e inutile errore, e che non valeva la pena combattere per la questione della schiavitù (Craven 1942).

Con tutto ciò, Craven aveva però ragione nel dire che la Guerra civile non si era basata essenzialmente sullo scontro fra sistemi economici, fabbriche contro piantagioni, ma fra concezioni morali diverse. Pochi soldati «yankee» avevano un qualche collegamento con le fabbriche, e la maggioranza dei «ribelli» non possedeva schiavi. Blu o grigio, l'idealismo era dilagante! Ed è merito degli abolizionisti l'aver dato vita a questo confronto morale. Decenni di esortazioni, dal pulpito e dal palco pubblico, spinsero i reggimenti dell'Unione a marciare cantando «Mine eyes have seen the glory of the coming of the Lord ... » [«I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore», The Battle Hymn of the Republic, N.d.T.].

La storia dell'affrancamento degli schiavi in America è lunga e complessa, con crisi politiche e compromessi; e alla fine con una guerra molto sanguinaria, nella quale morì un soldato dell'Unione per ogni dieci schiavi liberati. Non ho nemmeno ipotizzato la possibilità si riassumere gli eventi in uno studio così breve, essendo interessato esclusivamente a fornire un racconto adeguato solo degli aspetti pertinenti alla mia tesi. In sintesi: un'opposizione organizzata alla schiavitù nacque l. come una questione di coscienza fra quaccheri che avevano 2. un contatto personale con la schiavitù, ma 3. che non erano proprietari di schiavi, benché la loro moral suasion abbia fatto sì che alcuni quaccheri liberassero i propri schiavi. Per portare questo discorso su un livello più generale, l. l'abolizionismo si diffuse attraverso le chiese cristiane del Nord, alimentato dall'indignazione morale e 2. infiammato non solamente dall'esistenza della schiavitù nei vicini stati meridionali, ma anche dalla testimonianza di ex schiavi e dalle cacce all'uomo organizzate da coloro che in tutto il Nord catturavano e, spesso, rapivano gli schiavi fuggitivi. Infine, 3. al Nord erano molto poche le persone che traevano un profitto diretto dagli schiavi. Dunque, gli abolizionisti avevano buone possibilità di affrontare la schiavitù da un punto di vista ravvicinato, ma esterno. Come vedremo, tutti i maggiori movimenti abolizionisti in Europa e America Latina godettero di un simile punto di vista avvantaggiato.

Al contrario, benché la maggioranza dei residenti negli stati del Sud fosse composta da cristiani praticanti che non possede- vano schiavi, la maggioranza considerava la schiavitù una questione di interesse personale, essendo basilare per l'economia e la cultura di quegli stati, e fu questo a stimolare il sorgere di un diffuso sentimento collettivo di difesa «immorale» della schiavitù, nella quale la religione svolse un ruolo rilevante (Fax-Genovese, Genovese 1987; Mathews 1977). Con questo spirito fervente partirono entusiasti per difendere «Dixie» e il modo di vivere del Sud. Infine, gli abolizionisti sapevano che il loro era un movimento religioso, e come loro numerose generazioni di storici (Ahlstrom 1972; Anstey 1975; Bames [1933] 1964; Coupland 1933; Fagel 1989). Ma durante la seconda metà del XX secolo, molti storici decisero che erano gli unici depositari della verità. Lascio il revisionismo marxista a un'analisi successiva, ma mi sembra opportuno chiarire qui le idee scorrette portate avanti da storici la cui incapacità di capire come stessero le cose risiede principalmente nel loro pregiudiziale antagonismo nei confronti della religione in generale, e della Chiesa cattolica romana in particolare. Ancora una volta, David Brion Davis può servire da esempio illuminante.

Davis pose la questione cruciale in merito al ruolo della religione nel movimento abolizionista in due frasi: «Per duemila anni gli uomini hanno considerato il peccato una sorta di schiavitù. Un giorno hanno iniziato a considerare la schiavitù un peccato» (Davis 1966, p. 90). Ma non provò nemmeno a spiegare il motivo per cui avvenne questo spostamento di prospettiva. Dopo aver dedicato molte pagine a dimostrare che coloro che avevano guidato l'abolizionismo in maggioranza erano cristiani devoti, e che tutti, in un modo o nell'altro, avevano detto di fare quello che facevano per Dio, Davis scelse di non credere loro. Secondo me, giunse a questa conclusione perché non capiva la natura problematica della teologia, e perché negava, o trascurava, l'effettiva storia della «risposta» cristiana alla schiavitù. Dunque, Davis affermò che i teologi cristiani, e soprattutto la Chiesa cattolica, non potevano «mettere in dubbio le basi etiche della schiavitù [ ... perché] avrebbe significato mettere in dubbio le concezioni fon- damentali dello scopo di Dio e della storia e del destino dell'uomo. Se la schiavitù fosse stata un male e non avesse svolto nessuna funzione decretata dal disegno divino, allora perchè Dio la autorizzava nelle Scritture e aveva permesso la sua esistenza in quasi tutte le nazioni?» (Davis 1966, p. 91).

Questo tipo di argomentazione risulta plausibile solamente se non si riesce a capire che per i cristiani doveva essere possibile mettere in dubbio le basi etiche della schiavitù, visto che in così grande numero lo fecero. Come accade spesso con gli intellettuali, Davis non riusciva a capire come teologi creativi e raffinati potessero impegnarsi tanto per trovare dei fondamenti che giustificassero la conclusione da loro desiderata - basti pensare all'eleganza logica della Lettera Apostolica di papa Gregorio XVI. Ancora peggio, dal momento che Davis aveva imputato un carattere sociale e morale monolitico al cristianesimo, ogni qual volta incontrava dei sentimenti d'indifferenza, o a favore della schiavitù, da parte di qualcuno collegato in qualche modo a una chiesa, li generalizzava, ritenendo tutti colpevoli. Per di più, in tutte le occasioni in cui dei capi religiosi avevano riconosciuto i limiti del proprio potere e della propria influenza, e avevano tentato di rendere più umane le condizioni della schiavitù, Davis aveva disprezzato i loro sforzi, tacciandoli di complicità con gli schiavisti. Secondo questa logica, non si poteva dare il merito al cristianesimo di aver fornito l' essenziale base morale all'opposizione alla schiavitù, a meno che non si fosse tenuta una grande Conferenza Ecumenica nella quale si fosse denunciata la pratica della schiavitù in quanto peccato, con un voto unanime, e dimostrando chiaramente e pubblicamente il pentimento per averla tollerata in epoche passate. Non essendo avvenuto nulla di tutto ciò, Davis non fu in grado di capire che la convinzione che la schiavitù fosse un peccato era nata fra alcuni cristiani, proprio perché erano cristiani. Essi non erano preoccupati del fatto che altri cristiani potessero non essere d'accordo. Esattamente come nessuna delle migliaia di sette e fazioni cristiane sorte attraverso i secoli sono mai state vittime del dubbio perché gli altri non concordavano con loro, così non lo furono gli abolizionisti cristiani. E, in questo caso, prevalse la virtù.

 

L'abolizionismo in Gran Bretagna

 

Fu dai cugini americani che i quaccheri britannici trassero il loro entusiasmo per l'abolizione della schiavitù, e anch'essi fornirono l'iniziale ossatura religiosa al movimento antischiavista. Tuttavia, i britannici raggiunsero il loro scopo molto prima delle forze abolizioniste americane. I motivi principali furono due. Per prima cosa, dal momento che quasi tutti gli inglesi proprietari di schiavi vivevano in colonie lontane, la loro influenza politica era limitata. In secondo luogo, il governo britannico era di gran lunga più centralizzato e molto meno rappresentativo delle istanze locali del governo in America. Così, le élite di partito potevano emanare leggi più liberamente rispetto a quelle statunitensi, poiché negli Stati Uniti molte azioni richiedevano una legislazione locale, non nazionale, e persino il Congresso era indisciplinato e spesso incapace di raggiungere un accordo. Queste sono dunque le tematiche che mi accingo ad affrontare (Anstey 1975; Blackburn 1988; Clarkson 1808; Drescher 1987; Eltis 1987; Temperley 1998; Walvin 1981).

Nel 1783, su richiesta dei quaccheri di Philadelphia, i quaccheri britannici crearono il Meeting far Sufferings di Londra. Così, come in America, furono loro a fornire una solida base organizzativa all'opposizione britannica alla schiavitù: volontari, luoghi per incontrarsi e denaro. Questi sforzi furono moltiplicati in modo significativo nel 1787, con la costituzione della Society far the Abolition of the Slave Trade, Associazione per l'abolizione della tratta degli schiavi, nella quale si unirono ai quaccheri altri protestanti non conformisti. L'anziano John Wesley (1703-1791), fondatore del metodismo, intraprese una campagna di predicazione contro la schiavitù, facendo riecheggiare molte delle idee che aveva espresso con tanta forza nel suo trattato abolizionista del 1774, Thoughts on Slavery (Green 1964; Smith 1986). Wesley mise a disposizione della coalizione religiosa antischiavista in rapida crescita l'importante risorsa costituita dalle sue cappelle metodiste. Fu sempre in questo periodo che il movimento abolizionista britannico arruolò le sue reclute più importanti.

William Wilberforce (1759-1833) era il padre del vescovo Sa-muel Wilberforce (capitolo 2) e un membro del Parlamento, pro-veniente dallo Yorkshire. Egli apparteneva a un gruppo evangelico molto rigoroso e influente all'interno della Chiesa d'Inghilterra, conosciuto come la Setta di Clapham. Probabilmente l'unico motivo per cui questi evangelici non lasciavano la Chiesa d'Inghilterra era il fatto che all'epoca solo i membri di quest'ultima godevano di pieni diritti civili, compreso il diritto esclusivo a essere eletti alla Camera dei Comuni. Abbracciando la causa abolizionista, Wilberforce si assunse la responsabilità di orientare gli sforzi antischiavisti di alcuni deputati della Camera dei Comuni, dove godeva di un rapporto stretto con il Primo ministro William Pitt.

Thomas Clarkson (1760-1846) frequentava Cambridge, dove si preparava a entrare nelle fila del clero. Ordinato diacono, partecipò a un concorso per un premio di saggistica sul tema «È giusto ridurre in schiavitù gli altri contro la loro volontà?», Il trovarsi a riflettere su questo interrogativo lo portò ad accantonare «le sue notevoli prospettive di carriera ecclesiastica» all'interno della Chiesa d'Inghilterra per dedicare la sua vita interamente alla causa dell'abolizionismo (Anstey 1975, p. 249). Con le sue parole: «Non c'è mai stata una causa[ ... ] così grande e importante[ ... ] in cui il dovere della carità cristiana debba essere così ampiamente esercitato; mai una causa più degna della dedizione di tutta una vita per essa» (Clarkson 1808, vol. 1, pp. 228-229). Clarkson si assunse subito la responsabilità di mobilitare l'opinione pubblica. A tal fine, costruì una rete di organizzazioni locali e di attivisti sulla preesistente struttura delle congregazioni quacchere, percorrendo circa 50 mila chilometri a cavallo su e giù per l'Inghilterra tra il 1787 e il 1792. Il risultato più evidente di tutto questo sforzo fu la presentazione di una petizione che chiedeva al Parlamento di porre fine alla tratta degli schiavi. Durante il biennio 1786-1787 gli sforzi di Clarkson portarono all'adesione alla causa di almeno sessantamila inglesi 12 - undicimila solo a Manchester ( dove firmarono circa due terzi dei maschi adulti).

Queste petizioni diedero a Wilberforce un'arma potente da utilizzare in Parlamento, e nel 1792 sembrava che il divieto del commercio degli schiavi sarebbe stato approvato. Tuttavia, lo scoppio della Rivoluzione francese e la guerra con la Francia ostacolarono gli sforzi abolizionisti. Infatti, al culmine della «rabbia» britannica per i brutali eccessi che si verificavano in Francia, Wilberforce fu accusato per qualche tempo di simpatie radicali. Con la sconfitta della flotta di Napoleone a Trafalgar, nel 1805, i britannici rilevarono le colonie francesi nei Caraibi. A questo punto riemerse una rinnovata campagna antischiavista, che non riuscì a ottenere voti sufficienti alla Camera dei Comuni per fare approvare un atto di abolizione della schiavitù. Quindi, Wilberforce cambiò tattica e convinse Pitt a imporre un divieto al commercio degli schiavi nelle colonie francesi per decreto amministrativo e in virtù della sua facoltà di disciplinare il commercio nei territori conquistati. Pitt morì cinque mesi più tardi. Quando fu formato un nuovo governo, con Lord Grenville come Primo Ministro e Charles Fox come leader della Camera dei Comuni, si scoprì che la maggioranza del governo era a favore del- 1' abolizione della schiavitù. Così nel 1807 fu approvato con una maggioranza schiacciante sia alla Camera dei Lords sia a quella dei Comuni un atto di abolizione della tratta degli schiavi in tutte le colonie britanniche. Non accontentandosi di essersi chiamati fuori dal commercio degli schiavi, i britannici ricorsero alla diplomazia e perfino alla corruzione per far sì che anche altre nazioni firmassero i trattati che vietavano il trasporto di schiavi dall'Africa al Nuovo Mondo. Oltre a ciò, gli inglesi formarono e finanziarono una forza speciale della Marina perché pattugliasse le coste africane e facesse rispettare tali trattati. Nei cinquant'anni successivi, la Marina britannica sequestrò quasi 1600 navi schiaviste, molte delle quali cariche di schiavi, ma anche quelle senza schiavi a bordo venivano requisite se trovate attrezzate allo scopo. Complessivamente, i britannici liberarono dalle navi più di 150.000 persone (Eltis 1987).

Tuttavia, l'eliminazione del commercio di schiavi non aboliva la schiavitù nelle colonie britanniche; semplicemente impediva che vi venissero introdotti altri schiavi. Quindi fu creata una nuova società britannica per perseguire l'obiettivo di una completa abolizione: The Society far the Mitigation and Gradual Abolition of Slavery Throughout the British Dominions. Ancora una volta Clarkson percorse in lungo e in largo il paese per rinnovare e ridare vigore alle organizzazioni locali. Fu organizzata una nuova petizione; quando si giunse a una crisi politica definitiva, nel 1833, la firmarono più di un milione e mezzo di inglesi, circa la metà della popolazione adulta maschile dell'Inghilterra (i miei calcoli si basano sui dati forniti in Mitchell 1962). Questi sforzi furono incrementati dal lavoro dimissionari metodisti e battisti tra gli schiavi nelle Indie Occidentali - la Chiesa d'Inghilterra non prendeva ancora posizione. L'opinione pubblica in Gran Bretagna continuava a essere stimolata e orientata in senso antischiavistico dalle relazioni dei missionari che «descrivevano le minacce e le molestie subite a opera dei titolari delle piantagioni, e conferivano autenticità all'opinione crescente, non solo tra i metodisti ma in tutte le chiese evangeliche, che i coltivatori delle Indie Occidentali fossero una classe corrotta» (Fogel 1989, p. 219).

I proprietari delle piantagioni delle colonie ammonirono che l'emancipazione degli schiavi avrebbe significato delle perdite catastrofiche per gli investitori in Gran Bretagna, e sottolinearono che tutti nella madrepatria ne avrebbero risentito perché sarebbe aumentato notevolmente il prezzo dello zucchero qualora fosse stato prodotto da lavoro libero. Questi appelli ebbero un certo peso alla Camera dei Lord - in quell'epoca i Lord erano importanti e il loro consenso era necessario per legiferare. Per ottenere l'appoggio della Camera dei Comuni, gli abolizionisti accolsero delle disposizioni nell'Emancipation Act volte a compensare i coltivatori delle colonie con una somma enorme, pari alla metà del bilancio annuale britannico. Nel 1833, un mese dopo la morte di William Wilberforce, fu così approvata la legge che stabiliva che il 1 ° agosto 1834 sarebbe cessata la schiavitù in tutte le colonie britanniche. I costi diretti per i singoli cittadini britannici furono notevoli, sia in termini di imposte per la compensazione dei coltivatori (e per continuare a sostenere le operazioni navali contro le navi schiaviste) sia di un maggior costo della vita - il prezzo dello zucchero salì sensibilmente, come era stato previ-sto. Anzi, il costo dell'emancipazione fu così alto che Seymour Drescher definì l'abolizione della schiavitù britannica come un «economicidio» volontario. (Drescher 1977).

Dall'inizio alla fine, i quaccheri svolsero un ruolo fondamen-tale nelle organizzazioni abolizioniste britanniche, e quasi tutti gli altri abolizionisti importanti erano membri devoti di gruppi religiosi non conformisti, specialmente metodisti e battisti. No-nostante ciò, gli storici revisionisti hanno cercato di sminuire l'importanza delle influenze religiose. L'argomentazione usata più di frequente è che, anche se delle personalità religiose possono avere avviato il movimento abolizionista britannico, esso ebbe successo solo perché aveva fatto presa in ambienti esclusivamente secolari, come dimostrava il grande successo della campagna per la petizione. Un'enfasi particolare viene posta sulla straordinaria risposta degli uomini di Manchester alle petizioni. Manchester era una città industriale di primo piano, e quindi è stato detto che i suoi lavoratori erano, in qualche modo, «i meno parrocchiali della Gran Bretagna», seguaci dei principi di mercato e del libero scambio. Così fu «Manchester e non la rete religiosa quacchera a spingere la Gran Bretagna oltre la soglia psicologica dell'era abolizionista» (Drescher 1987, pp. 71-72).

Eppure, questa interpretazione dei fatti mostra molte pecche. Prima di tutto, nulla della sua conformazione industriale, economica o culturale, distingueva Manchester da molte altre città inglesi, eccetto la sua risposta alla petizione abolizionista. Le affermazioni del contrario sono sempre vaghe e prive di prove. In secondo luogo, si presume che gli operai di Manchester non fossero influenzati da motivazioni religiose, come se queste fossero esclusive del clero e degli attivisti religiosi a tempo pieno. Ma non c'è ragione di supporre che la maggior parte delle persone a Manchester dividesse la propria fede, separandola nettamente, dalle valutazioni «politiche». Per di più, la campagna per le petizioni veniva presentata principalmente non come una questione politica, ma come un obbligo morale. Inoltre, mi sembra che in modo assai significativo proprio a Manchester, diversamente dalle altre città inglesi, accadde che nel 1787, poco prima dell'immensa risposta locale alle petizioni antischiaviste, John Wesley, l'evangelista più influente dell'epoca, predicò una rinascita spirituale contro la schiavitù, e i metodisti locali, rompendo con la politica ufficiale di non partecipazione alla vita politica, contribuirono alla diffusione della petizione (Drescher 1987; Green 1964; Smith 1986). Sarebbe stato incredibile che tutti questi avvenimenti non riuscissero a galvanizzare la popolazione locale!

In terzo luogo, ridurre al minimo l'importanza di coloro che resero popolare la visione antischiavista e che fecero circolare le petizioni abolizioniste, per dare il merito di aver costituito la vera base dell'abolizionismo britannico ai soli firmatari, significa scambiare le cause con gli effetti. Certo, né i quaccheri né i loro alleati non conformisti avrebbero potuto ottenere l'Emancipation Act senza riuscire a risvegliare l'opinione pubblica. Ma senza i loro sforzi, organizzati ed efficaci, finalizzati a plasmare e sollevare l'opposizione popolare alla schiavitù non sarebbe successo niente. Infine, sostenere che l'abolizione fu una conquista laica non ha fatto altro che creare una sorta di «mistero», sciocco e inutile, sulle motivazioni degli abolizionisti inglesi, come è spiegato dalle riflessioni di Howard Temperley:

Il movimento britannico contro la schiavitù continua ad intrigare gli storici, a causa dell'apparente mancanza di interesse personale da parte dei suoi principali sostenitori. Ciò è così contrario al punto di vista convenzionale sul comportamento politico da dar luogo a una controversia intellettuale. Eppure, nonostante ogni sforzo in-tellettuale, nessuno è riuscito a dimostrare che quelli che hanno fatto le campagne per porre fine al commercio degli schiavi e poi per la loro liberazione avessero da guadagnare personalmente in qualche modo tangibile, né che tali misure non fossero economicamente costose per il paese. A suo tempo, i successi antischiavisti della Gran Bretagna sono stati dunque considerati con orgoglio come l'e-spressione della dedizione della nazione ai principi di umanità e li-beralità. (Temperley 1998, p. 14)

Questo passo di Temperley ricapitola la posizione della recente storiografia. Dopo molte oscillazioni e amoreggiamenti con le infondate interpretazioni marxiste per le quali l'emancipazione in realtà fu un atto compiuto per un tornaconto economico, gli storici sono giunti ad accettare l'idea che vi fosse implicata anche una notevole componente di idealismo. E sono venuti a patti con tale conclusione affermando che si trattava di «principi liberali», evitando così un ritorno alla convinzione «scorretta» che l'idealismo dell'epoca fosse di carattere religioso. Ma ciò richiede che si ignori la testimonianza unanime delle persone che effettivamente condussero con successo quell'impresa! Coloro che divulgarono i principi abolizionisti in tutta la Gran Bretagna non citavano «principi liberali», ma la Bibbia. Parlavano di peccato e della grazia salvifica di Dio.

 

L'abolizionismo in Francia

 

A prima vista potrebbe sembrare che il movimento abolizionista in Francia si sia davvero basato su «principi liberali». Tuttavia, una volta detto che mai gli abolizionisti francesi hanno fatto appello al popolo, bisogna riconoscere che esso fu un risultato delle inquietudini religiose come lo erano i movimenti americani e bri-tannici. Infatti, i tre movimenti erano direttamente collegati (Blackburn 1988; Daget 1980; Drescher 1987; Jennings 2000).

Nel 1793 il commissario di Santo Domingo, Léger Félicité Sonthonax, nominato dal governo rivoluzionario di Francia, dichiarò l'abolizione della schiavitù in quella colonia. Lo fece in risposta al successo della ribellione degli schiavi scoppiata fin dal 1791, e alle minacce di invasione da parte di britannici e spagnoli. La sua speranza era che l'emancipazione gli consentisse di guadagnare il sostegno sia degli ex-schiavi sia dei ribelli nella difesa della colonia. Quando la notizia raggiunse la Francia, la Convenzione nazionale controllata dai giacobini non solo sostenne questa azione ma abolì anche la schiavitù in tutte le colonie francesi. Nel farlo, i membri della Convenzione condannarono la schiavitù come una reliquia della monarchia e una pratica non coerente con i loro valori rivoluzionari. Il fatto che non ab- biano agito che quattro anni dopo la Rivoluzione, e solo quando furono informati della necessità dell'alleanza con gli schiavi per difendere le colonie, ci fa capire che forse l'idealismo radicale da solo non basta. In ogni caso, nel 1802 Napoleone reinstaurò la schiavitù nelle colonie francesi. Come già detto, quando poi gli inglesi conquistarono le colonie francesi nei Caraibi, Pitt vietò loro d'importare schiavi. Tuttavia, dopo la sconfitta definitiva di Napoleone, le colonie dei Caraibi furono restituite alla Francia, e l'importazione di schiavi riprese. Nel corso dei quindici anni successivi arrivarono nei Caraibi francesi circa 125 mila nuovi schiavi (Blackburn 1988). Fu solamente il 22 febbraio 1831 che la Francia approvò una legge efficace contro la tratta degli schiavi; e la schiavitù fu abolita solo nel 1848.

Con l'aiuto britannico, nel 1788, poco prima della Rivoluzione, fu fondata in Francia una società abolizionista, la Société des Arnis des Noirs (Società degli amici dei neri). Thomas Clarkson trascorse molto tempo in Francia, contribuendo a formare il gruppo. Gran parte dei testi adottati da questa associazione era costituita dalle traduzioni in francese dei suoi pamphlet, dai quali derivava l'idea della motivazione religiosa della condanna della schiavitù. Benché gli Amis des Noirs non abbiano mai avuto più di 150 membri, molti di essi erano famosi, come il filosofo Antoine de Condorcet e l'eroe francese della Rivoluzione Americana, il marchese de Lafayette. Purtroppo, quando la Rivoluzione francese sfociò in una guerra interna al movimento rivoluzionario, gli Amis des Noirs furono identificati con la fazione dei girondini e condannati a morte da Robespierre, nella primavera del 1793 - i leader andarono alla ghigliottina, Condorcet si suicidò in carcere, e Lafayette fuggì in Austria. I pochi sopravvissuti ripresero gli incontri alla fine di quel decennio, ma «scomparirono definitivamente nel 1799, quando Napoleone giunse al potere.[ ... ] Ci vollero due decenni prima che nascesse ancora una volta in Francia una società con lo scopo di porre fine alla tratta degli schiavi e alla schiavitù nelle colonie francesi» (Iennings 2000, pp. 3-4).

Nel 1821 fu fondata la Société de la Morale Chrétienne (Società della morale cristiana). Com'era evidente fin dal suo nome, il programma di questo gruppo era ispirato da motivazioni reli-giose, e fra i suoi obbiettivi aveva l'abolizione della tratta degli schiavi. Come gli Amis des Noirs, anche questo era un gruppo molto piccolo (al momento del suo maggiore successo ebbe 338 membri), ma si trattava di un'élite ancora più illustre, che anno-verava anche il futuro re Luigi Filippo. Anche i membri di questo gruppo fecero circolare una petizione, e nel 1825 la presentarono al governo. Le 130 firme della petizione erano tutte di «cittadini importanti» (Daget 1980, p. 72). In ogni caso, il commercio degli schiavi fu messo fuorilegge nel 1831, subito dopo che era salito al trono Luigi Filippo.

I francesi ben presto iniziarono a collaborare pienamente con gli inglesi per sequestrare le navi schiaviste che salpavano dal- 1' Africa. Ma nonostante ciò la schiavitù continuava indisturbata nei Caraibi francesi. Quindi, nell'agosto 1834, gli abolizionisti francesi formarono un altro gruppo, la Société Française pour l' Abolition de l'Esclavage (Società francese per l'abolizione della schiavitù). Anche questa era un'associazione molto piccola, e probabilmente non superò mai i 92 soci (Jennings 2000). Ma era anch'essa un gruppo molto elitario, composto da persone di classe sociale elevata e nobili, e «avrebbe operato in gran parte come appendice alla Camera dei Deputati» (Jennings 2000, p. 54). Il gruppo aveva poi una percentuale più alta di protestanti rispetto alla media nazionale, e gli abolizionisti inglesi esercitavano su di esso una notevole influenza, nonostante il fatto che la grande maggioranza dei membri fosse composta da attivisti cattolici. Inoltre, più della metà degli appartenenti a questa associazione era nobile di nascita, e molti avevano importanti incarichi politici nel governo. Tra di loro c'era l'illustre Alexis de Tocqueville (1805-1859), recentemente tornato dal suo giro del- 1' America. Nel 1839, a nome della Société, Tocqueville presentò una proposta di emancipazione alla Camera dei Deputati francese. Era ispirata all'Emancipation Act britannico e prevedeva un risarcimento di 150 milioni di franchi francesi per i padroni di schiavi che fossero stati liberati. Tuttavia, la proposta fu archiviata, come in seguito molte altre dello stesso tipo.

Negli anni '40 del 1800, con il sostegno finanziario degli abo-lizionisti inglesi, la Société iniziò ad ampliare le proprie prospettive (Jennings 2000). Nel 1844 presentò al governo una nuova petizione antischiavista, sottoscritta da 7000 parigini. Il re Luigi Filippo l'accolse e liberò tutti gli schiavi appartenenti alla Corona. A questo punto, la Chiesa cattolica entrò in gioco, chiedendo l'e-mancipazione immediata di tutti gli schiavi francesi e facendo circolare una nuova petizione. Molti degli 11.000 cittadini che la firmarono erano sacerdoti cattolici. Sostenuto dall'arcivescovo di Parigi, il quotidiano cattolico «L'Univers» si unì alla battaglia contro la schiavitù. Tutti questi sforzi ebbero successo nel 1848, quando la Monarchia di luglio fu sostituita da un governo prov-visorio, prima della formazione della Seconda Repubblica. Il de-creto di emancipazione passò, e il regime provvisorio liberò tutti gli schiavi entro due mesi dalla sua proclamazione, compensando i loro proprietari con una somma di denaro pari alla metà del valore di ogni schiavo, per un costo di 6 milioni di franchi in denaro e 120 milioni in obbligazioni del 5%. Dunque, come in Inghilterra, anche in Francia l'emancipazione fu ottenuta a un prezzo davvero rilevante che ricadde su tutti i contribuenti.

Si è spesso sottolineato che i movimenti abolizionisti organiz-zati in Francia furono molto piccoli ed elitari, ma ciò si spiega con il fatto che in quell'epoca la Francia non era una democrazia: eventuali appelli per ottenere il sostegno popolare non solo non avrebbero avuto successo, ma anzi, avrebbero potuto danneggiare pesantemente la causa. Da Napoleone in poi, i governi francesi hanno cercato di evitare la mobilitazione dei cittadini, temendo, probabilmente a ragione, che fosse solo un invito al disordine e alla rivoluzione. Quindi, gli appelli di massa sarebbero stati soffocati; per avere successo bisognava convincere ad agire l'élite politica. Sarebbe del tutto sbagliato interpretare ciò come una prova del fatto che gli ideali e le convinzioni religiose fossero irrilevanti. Perché l'élite francese intraprese davvero questa azione? Non per un interesse economico, poiché, come per gli inglesi, l'emancipazione degli schiavi nelle colonie francesi fu raggiunta a un prezzo rilevante, che ricadde pesantemente su colo- roche l'avevano voluta. Nulla più di un simile esempio di idealismo in azione dimostra chiaramente che gli ideali erano im- portanti.

Va inoltre rilevato che esisteva una «linea» religiosa che colle- gava i movimenti abolizionisti francesi, americani e inglesi: i quaccheri americani diedero vita all'abolizionismo tra i loro pari in Gran Bretagna, e l'impegno di John Wesley e dei suoi metodisti britannici influenzò i metodisti americani. Poi, furono dei devoti abolizionisti inglesi ad avviare, e in parte finanziare, il movimento francese.

 

L'abolizionismo in Spagna e America Latina

 

Quando fu organizzata la Sociedad Abolicionista Espafiola (Società abolizionista spagnola), nel 1865, era molto tardi. Gli schiavi erano stati liberati nelle colonie britanniche da più di trent'anni, nelle colonie francesi da quasi vent'anni, e nelle colonie olandesi da due; il 9 aprile di quell'anno, Lee si era arreso a Grant, e tutti gli schiavi americani erano diventati uomini liberi. Rimaneva solo la schiavitù coloniale spagnola, insieme con la schiavitù del Brasile, che ormai si era liberato dalla dominazione portoghese.

Coloro che cercano un movimento abolizionista secolare pos- sono guardare alla Spagna, dove la religione servì da base morale implicita e fornì un lessico di obbligo. Gli storici dell'abolizionismo spagnolo giustamente sottolineano il ruolo dei movimenti politici liberali e radicali emergenti in Spagna così come nelle colonie (Blackburn 1988; Klein 1986; Schmidt-Nowara 1999). Tuttavia, questi storici non prestano adeguata attenzione all' evidente debolezza economica e militare della Spagna. Appare molto significativo che siano state delle attività antischiaviste a Porto Rica a spingere alla formazione di un'associazione abolizionista in Spagna, e che a fondamento dell'abolizionismo portoricano vi fossero principalmente il recente declino economico di Porto Rica e le preoccupazioni per l'espansionismo americano, nonché la difesa di interessi locali in quanto «una transizione immediata al lavoro libero sarebbe stata di giovamento per l'isola» e per la sua economia depressa (Schmidt-Nowara 1999, p. 7). Anche se si basava su un ragionamento economico difettoso (che i proprietari di schiavi capirono subito), questa proposta ebbe l'effetto di collegare la virtù morale a un chiaro interesse personale. Infatti, l'idea di una Spagna rinnovata e potente fu un elemento esplicito dell'abolizionismo spagnolo, con la sua duplice enfasi sui benefici del lavoro libero e del libero scambio.

Si tenga presente che gli abolizionisti spagnoli non svolsero alcun ruolo nel processo di emancipazione degli schiavi in gran parte dell'America Latina, perché la Spagna aveva da tempo perso la sua sovranità sul continente a causa dei movimenti di liberazione nazionale. Tre fattori collegano la maggior parte di questi movimenti di liberazione all'emancipazione. Il primo è che, al di là del Brasile e di diverse colonie continentali nei Caraibi, l' America Latina non aveva economie di piantagione, e la schiavitù - impiegata tanto a livello di consumi quanto di produzione - era sempre rimasta una pratica su piccola scala. Il secondo fattore è che quasi tutti coloro che possedevano schiavi erano contrari ai movimenti di liberazione. Il terzo fattore è che, proclamando l'emancipazione, i movimenti di liberazione furono in grado di guadagnarsi il sostegno degli schiavi alla loro causa - quantunque fosse probabile che i leader rivoluzionari fossero del tutto sinceri nella loro opposizione alla schiavitù. Quando ottennero l'indipendenza, le nazioni latinoamericane optarono per l'emancipazione: l'Argentina nel 1813, la Colombia nel 1814, il Cile nel 1823, l'America Centrale nel 1824, il Messico nel 1829, la Bolivia nel 1831, l'Ecuador nel 1851, e Perù e Venezuela nel 1854. Così, quando alla fine si manifestò, l'attività abolizionista spagnola ebbe una portata molto ridotta, limitandosi soltanto alle poche colonie rimaste, principalmente Cuba e Porto Rica.

La storia di come il governo spagnolo emancipò gli schiavi a Porto Rica (1873) e a Cuba (1886) è una vicenda complessa di tumulti politici e di un alternarsi di liberalizzazione e di repressione. In tutto ciò, naturalmente, la Spagna era fortemente consapevole non solo del suo status di paria schiavista agli occhi delle altre nazioni europee, ma anche delle sue debolezze economiche e militari. Infatti, dieci anni dopo che le Cortes spagnole abolirono la schiavitù a Cuba, gli Stati Uniti conquistarono tutte le colonie spagnole dei Caraibi, così come le Filippine.

Il Brasile divenne una nazione indipendente nel 1822, quando Pedro I (figlio del re Giovanni VI di Portogallo) si proclamò imperatore. Come risultato, i proprietari delle piantagioni brasiliane non furono più sottoposti al controllo di un regime europeo e assunsero un'influenza economica e politica dominante. Di conseguenza, l'emancipazione si raggiunse molto lentamente. Quando finalmente ciò avvenne, nel 1888, il merito fu di tre fattori (Conrad 1974, 1983 e 1993; Drescher 1988; Karasch 1987; Schwartz 1985, 1992 e 1998; Toplin 1972 e 1981).

Il primo fattore connesso con la fine della schiavitù brasiliana fu un'intensa pressione straniera: «I brasiliani [erano] umiliati dai riferimenti al loro paese come all'ultima nazione cristiana che tollerava la schiavitù, allo stesso livello "arretrato" delle società schiaviste africane e asiatiche» (Drescher 1988, p. 21). Anzi, fu solamente per reazione alle pressioni britanniche che il Brasile accettò di porre fine alla sua partecipazione alla tratta atlantica degli schiavi, nel 1831. E furono i pattugliamenti britannici a bloccare l'importazione illegale di schiavi da parte dei brasiliani, nel 1853. La caduta della Confederazione americana degli stati del Sud fu un colpo politico terribile, che privò il Brasile di un importante alleato - se gli stati del Sud avessero vinto la Guerra Civile, il Brasile e le colonie spagnole dei Caraibi avrebbero potuto aderire alla Confederazione (Fogel 1989).

Il secondo fattore fu un movimento abolizionista sempre più militante, alimentato da uomini giovani istruiti all'estero e dal numero molto grande e in rapida crescita di neri liberi, risultato di condizioni di affrancamento molto liberali (modellate sul C6- digo Negro Espafiol). Già nel 1817, circa il 25% dei 2,3 milioni di brasiliani di origine africana era libero. Quando vi fu l'emancipazione nel 1888, gli schiavi erano solamente un 5% circa della forza lavoro brasiliana (Conrad 1993; Schwartz 1998).

Il terzo fattore fu un rapido sviluppo economico e la crescita della popolazione, che privarono del potere politico i proprieta- ri delle piantagioni. Tra il 1840 e il 1890, la popolazione del Brasile passò, con un incremento sostanziale della crescita dovuta a immigrati europei, da 4 a 14 milioni (Merrick, Graham 1979). Sebbene le città assorbissero gran parte di questa crescita, l'im-migrazione fornì anche una forza lavoro agricola che contribuì a convertire all'abolizionismo alcuni proprietari terrieri settentrionali (Toplin 1972). Nel frattempo, le piantagioni di zucchero e di cotone degli stati settentrionali sperimentarono tempi difficili dal punto di vista economico, e la zona con una maggiore presenza di schiavi divenne il Sud, dove la principale coltura era il caffè - e moltissimi schiavi furono trasferiti da Nord a Sud. L'urbanizzazione, l'industrializzazione e un mercato dello zucchero in crisi erosero l'influenza politica dei grandi proprietari di piantagioni. Alla fine, le città e le zone che non dipendevano economicamente dalle piantagioni imposero l'emancipazione a un Sud dipendente al contrario dal lavoro degli schiavi. A causa dell'influenza ridotta dei proprietari delle piantagioni, non vi fu nessun indennizzo per loro quando furono costretti a lasciar liberi i loro schiavi.

E così finì la schiavitù nel mondo cristiano. Fu abolita grazie alle campagne moralizzatrici stimolate dalla gravità del fenomeno. Naturalmente, dal momento che la maggioranza degli uomini non è composta da moralisti senza riserve, i movimenti abolizionisti ebbero successo laddove le preoccupazioni morali non entravano in conflitto con l'interesse economico dei proprietari di schiavi, anche se in America, Gran Bretagna e Francia la gente fu disposta a fare notevoli sacrifici personali in nome della liberazione degli schiavi. Ciò nonostante, possiamo dire che in ogni caso una zona non schiavista potente impose l'abolizione della schiavitù a una regione schiavista più debole. In altre parole, gli abolizionisti americani mobilitarono il Nord per liberare gli schiavi del Sud; gli abolizionisti in una Gran Bretagna priva di schiavi convinsero il governo a dichiarare illegale la schiavitù nelle lontane colonie; fu nella Francia metropolitana che si decise il destino della schiavitù nelle Indie Occidentali francesi; fu a Madrid, non a L'Avana o a San Juan, che si ottenne l'emancipa- zione degli schiavi dei Caraibi spagnoli; e fu a Rio che gli schiavi brasiliani furono emancipati. Al contrario, i movimenti abolizionisti non si fecero strada, o non ne fecero molta, nelle regioni meridionali degli Stati Uniti e del Brasile, o nelle colonie europee con un'economia di piantagione.

 

L'«Illuminismo» e la schiavitù

 

Farebbe piacere a molti studiosi contemporanei se gli argomenti morali a favore dell'abolizione fossero stati un prodotto dell'«Illuminismo». In effetti, Peter Gay si spinse fino ad affermare che fu proprio così, pur rimproverando ai philosophes di essere stati un po' troppo vaghi sulla questione (Gay 1969, 410). Tuttavia, nemmeno l'attenta selettività di Gay può nascondere il fatto che le principali figure dell' «Illuminismo» accettassero pienamente la schiavitù. Thomas Hobbes (1588-1679) e John Locke (1632-1704) «approvarono apertamente l'asservimento umano» (Davis 1966, p. 391), e Locke addirittura investì nella tratta atlantica degli schiavi (Gay 1969). Voltaire (1694-1778) scrisse un aspro commento sui cristiani che traevano profitto dalla schiavitù, ma sosteneva la tratta degli schiavi e credeva nell'inferiorità degli africani (Seeber 1937). Il barone di Montesquieu (1689-1755) ebbe cura di escludere eventuali motivazioni religiose a favore della schiavitù, solo per dire che essa era giustificata dalla legge naturale. Il conte di Mirabeau (1748- 1791) accettava la schiavitù, e come lui Edmund Burke (1729- 1797), che liquidò gli abolizionisti come fanatici religiosi e spiegò che «la causa dell'umanità trarrebbe molti più benefici dalla continuazione del commercio [degli schiavi] e della servitù [ ... ] che dalla distruzione totale di entrambi, o di uno dei due» (in Davis 1966, p. 398). David Hume (1711-1776) non era favorevole all'abolizione, anche se il suo vicino e amico Adam Smith (1723-1790) fu un veemente oppositore della schiavitù per motivazioni sia morali sia economiche, come vedremo. In effetti, anche alcuni altri esponenti dell' «Illuminismo» sosten- nero la causa dell'abolizionismo, come Denis Diderot (1713- 1784), Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-1781), il dottor Samuel Johnson (1709-1784) e, ovviamente, Condorcet (1749- 1794). Tuttavia, la maggior parte di loro accettava la schiavitù come una componente normale della condizione umana (Davis 1966). Non furono i filosofi o gli intellettuali laici a mettere insieme l'atto d'accusa formale contro la schiavitù, ma le stesse persone che loro disprezzavano, uomini e donne di grande fede, che si opposero alla schiavitù perché era un peccato. Dunque, come abbiamo detto nel capitolo 2, fu il teologo naturale William Paley, e non il suo oppositore ateo David Hume, a condannare la schiavitù in quanto «istituzione odiosa», e lo fece sulla base della «luce e dell'influenza» cristiana (Paley [1785] 1827, pp. 87-88).

Non solo gli intellettuali dell' «Illuminismo» non raggiunsero minimamente l'intensità e la passione dell'impegno abolizionista che si diffuse attraverso i circoli religiosi dell'epoca; anche se fossero stati unanimemente a favore dell'emancipazione degli schiavi, il loro sostegno pubblico avrebbe contato molto meno di quello degli abolizionisti cristiani. E la ragione è semplice: nel corso degli eventi umani, le «voci» contano molto meno delle organizzazioni. I quaccheri erano pochi (persino negli Stati Uniti, nel 1776, erano solo un 10% di tutte le congregazioni - Stark e Finke 1988), ma non erano delle «voci»; erano congregazioni. Non si limitarono a esprimere le loro opinioni, ma agirono. Le loro azioni furono ben fondate, coordinate, ben condotte e orientate a influenzare l'opinione pubblica. Le chiese sono sempre incredibilmente efficaci nel plasmare la politica pubblica perché non hanno bisogno di creare organizzazioni per perseguire i propri fini; sono già delle organizzazioni. Anzi, l'abolizione della schiavitù fu solamente la più celebrata di molte efficaci campagne religiose simili - le chiese svolsero un ruolo guida anche nel movimento per il suffragio femminile, e furono la componente fondamentale nel movimento per i diritti civili del Sudamerica (Branch 1988; Fagel 2000; Morris 1984).

 

La contro-spiegazione marxista

 

All'insaputa di gran parte degli storici marxisti, la loro spie-gazione revisionista del «vero» motivo per cui gli schiavi furono liberati si basa sull'opera dell'economista che più disprezzano: Adam Smith. Però Smith sbagliò sull'economia della schiavitù e, di conseguenza, sbagliarono (sbagliano) i marxisti.

Smith sosteneva che la schiavitù fosse una modalità di pro-duzione inefficiente poiché il lavoro degli schiavi costava più di quello di individui liberi e pagati. Gli schiavi non avevano alcuna motivazione economica, ma lavoravano solamente il necessario per evitare la punizione - dunque, più lentamente e con meno cura rispetto ai salariati. Invece, i lavoratori liberi potevano essere ricompensati proporzionalmente alla loro produttività, e dunque si sarebbero applicati al lavoro, sia mentalmente che fisicamente. «L'esperienza di tutti i tempi e di tutte le nazioni dimostra che [ ... ] l'opera fatta dagli uomini 'liberi risulta alla fine più a buon mercato che non quella fatta dagli schiavi.» (Smith [1776] 1981, p. 99). Dunque, il saggio latifondista delle piantagioni avrebbe dovuto preferire alla schiavitù un sistema simile alla mezzadria.

Con la crescita della fama di Smith, si diffuse tra gli intellettuali la convinzione che la schiavitù fosse contraria alla buona pratica economica - che le piantagioni schiaviste fossero molto meno redditizie di quanto lo sarebbero state impiegando lavoratori liberi. Presto, questa divenne l'opinione prevalente tra gli oppositori della schiavitù, tanto che William Lloyd Garrison condannò quelle che riteneva delle proposte non attendibili, sostenendo che gli abolizionisti americani dovessero modificare il fondamento del loro attacco al sistema della schiavitù, sostituendo al «dovere cristiano» le questioni di «portafoglio» (in Thomas 1963, p. 326). Alla vigilia della guerra civile, Hinton Rowan Helper sostenne che la schiavitù stava ritardando la crescita economica del Sud (Helper 1857), e Frederick Law Olmsted proclamò che le piantagioni schiaviste del Sud erano un investimento non remunerativo (Olmsted 1861). Dopo la guerra, questa divenne l'opinione accademica comune - e all'inizio del XX secolo ogni persona «ben informata» sapeva che la schiavitù del Sud era ormai alla fine dei suoi giorni al momento della secessione, e che se i proprietari delle piantagioni fossero stati degli imprenditori più sobri, e accorti, avrebbero abbandonato la schiavitù molto prima che divenisse necessaria una guerra.

Quando i marxisti si occuparono della questione, queste idee si erano evolute fino all'affermazione che non fossero state delle obiezioni morali, ma il capitalismo, ad abolire la schiavitù! Non che il capitalismo portasse a simpatizzare con coloro che venivano tenuti in schiavitù, naturalmente. Come ha scritto Howard Temperley, «una filosofia che esaltava il perseguimento dell'inte-resse personale, come avrebbe potuto contribuire, in assenza di qualsiasi aspettativa di guadagno economico, al raggiungimento di un così lodevole obiettivo quale l'abolizione della schiavitù?» (Temperley 1977, p. 105). Secondo David Brion Davis, la «do-manda fondamentale» era questa: come «ha fatto un movimento apparentemente liberale a emergere e a continuare ad ottenere il sostegno dei più importanti leader di governo nel periodo 1790- 1832, un periodo caratterizzato sia dalla restaurazione politica sia dalla rivoluzione industriale» (Davis [1975] 1999, pp. 348- 349)? La risposta marxista è che l'emancipazione fu conseguita per sostituire l'istituzione economica precapitalistica, inutile e datata, della schiavitù: il «vero» scopo degli abolizionisti era rimuovere un impedimento all'ulteriore sviluppo del capitalismo.

Il sostenitore più energico e originale di questa tesi fu Eric Williams, uno storico dell'economia che fu primo ministro di Tri-nidad e Tobago dal 1961 al 1981. Egli sostenne che i britannici at-taccarono la schiavitù nelle Indie Occidentali, perché era «così poco redditizia da rendere inevitabile la sua soppressione» (Williams [1944] 1994, p. 135). Per la precisione, l'argomentazione di Williams era che l'obiettivo primario del capitalismo emergente fosse quello di abbassare il costo del lavoro: essendo pienamente consapevoli della tesi di Adam Smith per cui il lavoro degli schiavi era più costoso di quello salariato, i capitalisti britannici sostennero l'abolizionismo. Williams capì che se avesse lasciato la sua affermazione così come era formulata, sarebbe stata ov-viamente smentita dal fatto che la schiavitù nelle Indie Occidentali non finì affatto grazie a dei capitalisti che cercavano di aumentare i propri profitti. Per ovviare a questo inconveniente, liquidò i proprietari delle piantagioni definendoli «ciechi davanti a tutte le considerazioni e conseguenze, tranne il mantenimento del loro sistema malato» (Williams [1944] 1994, p. 135). Ma come poteva una riduzione del costo del lavoro nelle Indie Occidentali arrecare vantaggio a dei capitalisti della Gran Bretagna? Attraverso un notevole abbassamento dei costi dello zucchero: dal momento che questo avrebbe ridotto il costo della vita in Gran Bretagna, i datori di lavoro sarebbero stati in grado di diminuire i salari dei lavoratori. Per quanto riguarda le motivazioni religiose, Williams le scartò come false, ovviamente, perché, se fossero state autentiche, gli abolizionisti avrebbero anche lottato contro il colonialismo e contro lo sfruttamento capitalistico del lavoro libero. Dal punto di vista di Williams, qualsiasi vero oppositore della schiavitù avrebbe anche combattuto contro la «schiavitù del salario».

Gli aspetti economici della tesi di Williams da tempo sono stati confutati dai fatti. In primo luogo, è stato ampiamente dimostrato che i proprietari delle piantagioni non erano né sciocchi né ciechi davanti alle realtà economiche; piuttosto, la schiavitù era molto redditizia, e per forme di agricoltura su larga scala e intensiva il lavoro degli schiavi era molto più produttivo del lavoro salariato (Conrad, Meyer1958; Easterlin 1961; Fogel, Engerman 1974). In secondo luogo, come già osservato e come ampiamente previsto da coloro che approvarono in Gran Bretagna l'Emancipation Act, i costi economici della soppressione della schiavitù furono immensi, e il prezzo nazionale dello zucchero aumentò drasticamente. Ciò nonostante, l'insistenza di Williams sul fatto che gli abolizionisti dovevano essere stati dei capitalisti motivati solo dal proprio tornaconto sopravvive ancora oggi. Anche in questo caso, David Brion Da vis si dimostra l'esempio più influente, benché il suo sia un marxismo in un certo senso più «morbido».

Davis iniziò identificando i quaccheri inglesi come «l'incarnazione della mentalità capitalista[ ... ] l'avanguardia della rivoluzione industriale» (Davis [1975] 1999, p. 233). Come «classe imprenditoriale» la loro preoccupazione più urgente era quella di domare «una forza lavoro ribelle» e la necessità di imporre una «disciplina del lavoro». E l'abolizionismo fu il metodo adottato dai quaccheri per raggiungere tale obiettivo:

Ai moralisti e ai riformatori delle altre fedi i quaccheri dimostrarono che schierarsi contro la schiavitù poteva essere un corrispettivo sociale di purezza interiore che sembrava non costituire alcuna mi-naccia per l'ordine sociale - per lo meno per quell'ordine capitalistico nel quale i quaccheri si erano guadagnati un posto così invidiabile. [ ... ] L'antischiavismo [quacchero] era una risposta altamente selettiva allo sfruttamento del lavoro. Forniva il pretesto per dimostrare la preoccupazione cristiana davanti alla sofferenza e al-l'ingiustizia umana, e grazie a questo considerava profondamente immorali le attività economiche che dipendevano dalla sofferenza e dalla ingiustizia umana in maniera meno visibile. (Davis [1975] , 1999, p. 251)

Dunque, «il movimento abolizionista contribuì a preparare la strada ideologica agli industriali britannici» (Davis [1975] 1999, p.467).

Tuttavia, Davis non accusò i quaccheri di «insincerità o deliberato inganno». Piuttosto, data l'evidente sincerità degli abolizionisti quaccheri e cristiani, sostenne che la loro motivazione economica, seppur reale, era inconscia. Quindi, anche se i quaccheri non erano consapevoli delle loro vere e interessate motivazioni, i raffinati osservatori moderni sono in grado di penetrare nell'«intenzione conscia» degli abolizionisti e capire che costoro, in realtà, «riflettevano le necessità e i valori dell'emergente ordine capitalista» (Davis [1975] 1999, p. 350).

E qui Davis utilizzò la più celebrata e difettosa arma dell' arsenale marxista, vale a dire, il principio della «falsa coscienza». Ogni qual volta le persone non agiscono spinte dai loro «interes- si economici» secondo le previsioni marxiste, la cosa va spiegata come un errore, o una percezione sbagliata, da parte loro. Quindi, anche se i quaccheri avrebbero dovuto sapere che si opponevano alla schiavitù perché volevano l'espansione del capitalismo, pare che non ne fossero consapevoli, forse perché passavano troppo tempo in chiesa a raccontarsi l'un l'altro «favole» religiose. A ulteriore spiegazione di questo principio marxista mi sembra opportuno citare John Ashworth, il quale in sostegno a Davis e per eludere la chiara evidenza che gli abolizionisti fossero sinceri nel loro idealismo, definì la falsa coscienza come «il concetto che la consapevolezza degli attori storici è incompleta, con il risultato che costoro percepiscono in maniera errata il mondo attorno a sé». Ma non si tratta solamente d'ingannare se stessi, poiché è «la società, piuttosto che l'individuo, a generare la falsa coscienza». E poi cita l'asserzione di un «teorico marxista»: «Non è il soggetto che inganna se stesso, ma la realtà che lo inganna». Per illustrare questo punto, Ashworth osservò:

Quando Maria Antonietta disse ai contadini di Parigi (non impor-ta se la storia probabilmente è apocrifa) di mangiare dei dolci se non avevano più pane, non stava ingannando se stessa nel ritene-re che potessero metterselo. Piuttosto, la natura del suo coinvolgi-mento nella società le nascondeva la possibilità di capire che i contadini non potevano affatto permettersi di mangiare dolci. (Ashworth 1992, p. 182)

Ovviamente, come riconosce lo stesso Ashworth, Maria An-tonietta non pronunciò mai queste parole, e sembra anche piuttosto inconcepibile che lei, come chiunque altro dotato di un'intelligenza media, non sapesse che i contadini erano poveri. Com'è significativo che Ashworth abbia scelto di illustrare il principio della falsa coscienza con un falso esempio!

Davvero le persone percepiscono erroneamente le situazioni? Certo. A volte hanno delle motivazioni duplici? Di sicuro. A volte aiutano senza volerlo coloro ai quali vogliono opporsi? Senza dubbio. Eppure, riconoscere queste manchevolezze non significa sostenere che la realtà sia come vuole farci credere la teoria marxista - vale a dire, puro solipsismo. Tutto quello che sono di-sposto a concedere ai marxisti su questo punto è che il principio della falsa coscienza è un bell' esempio proprio di falsa coscienza, ma non riesco a trovarne un altro. Anzi, concordo pienamente con Thomas Haskell: «Dire che una persona è mossa dall'interesse di classe significa dire che questa persona intende promuovere gli interessi della sua classe, oppure non significa nient'altro» (Haskell 1992, p. 117).

 

Conclusione

 

La schiavitù non ebbe fine per la sua inefficienza, e l'emanci-pazione non fu il risultato di un complotto capitalista. Come spiega molto bene Robert William Fogel, la fine della schiavitù fu «l'esecuzione politica di un sistema immorale all'apice del suo successo economico, voluta da persone ardenti di fervore morale» (Fogel 1989, p. 410). Proprio così! Il fervore morale è l'argomento essenziale di tutto questo libro: la potente capacità del monoteismo, e soprattutto del cristianesimo, di dar vita a straordinari episodi di fede che hanno plasmato la civiltà occidentale.

 

 

 

Sacre Scritture, Corano, letteralismo e psicofarmaci

 

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Pochi sanno che tra il Corano e Bibbia cristiana esiste una importantissima differenza. Mentre la tradizione cristiana ritiene che le Scritture siano state composte da persone ispirate da Dio, e pertanto potrebbero contenere errori, Maometto affermò che il Corano gli era stato dettato parola per parola dall'Arcangelo Gabriele.

Una delle principali conseguenze è che, sebbene nei paesi cristiani esistano anche dei gruppi, come i Testimoni di Geova, che privilegiano l'interpretazione letteralistica, essi sono minoritari, mentre nei paesi islamici è ben più difficile discostarsi da una lettera che rappresenta le parole esatte di Dio. Questo ha importanti conseguenze per alcuni punti della Sharia, come la schiavitù, la posizione della donna, e persino gli psicofarmaci.

È un fatto che si può facilmente verificare, che l'Arabia Saudita vieta l'uso degli psicofarmaci, anche in situazioni di necessità, perché sarebbero contrari al precetto coranico che vieta le sostanze inebrianti.

 

 

 

Il luogo comune della superiorità culturale dell'Islam in epoca medievale

 

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Viene spesso ripetuto da uomini di cultura, di fede islamica ma anche cristiana, che l'Islam, nel tempo dell'occidente barbarico era civilissimo, e che la rinascita della civiltà occidentale è avvenuta proprio grazie all'apporto della cultura islamica, al tempo fiorente. Ma questa affermazione necessita di alcune correzioni.

Andrebbe anzitutto notato che l'impero bizantino, all'epoca, era altrettanto colto e civile degli arabi, se non di più.

In secondo luogo, molti degli intellettuali arabi dell'epoca e tutti i traduttori che tradussero in arabo le opere greche non erano in realtà arabi, ma appartenevano alle elites colte dei popoli conquistati (persiani, greci, siriani, egiziani), che scrivevano per conto dei conquistatori arabi, oppure erano ebrei. Si trattava dunque non di genuina cultura araba.

La fioritura della cultura araba durò poco, comparativamente alla storia occidentale. Proprio a partire dalla data che viene ritenuta di massimo splendore della cultura islamica (XI secolo) una delle figure più importanti del pensiero islamico, al-Ghazali, scrisse un virulento attacco ai filosofi nel suo ‘Tahafut Al-Falâsifa’, accusandoli di eresia. Da allora, gli studi filosofici andarono rapidamente tramontando nei centri di studio sunniti, e rimasero vivi solo nei centri sciiti (che non erano arabi, ma persiani convertiti a forza all’Islam).

La filosofia araba in realtà non è stata che una copia e una ripetizione di quella greca non meno della Scolastica occidentale. Avicenna e Averroè furono dei puri commentatori di Aristotele. Molti commentatori arabi giunsero a tali vette di anti-filosofia da identificare l'intelletto agente di Aristotele con l'arcangelo Gabriele.

Le prime opere a stampa dell'Impero Ottomano risalgono al 1700. Fino ad allora non circolavano libri.

Quanto all'oscurantismo medievale dell'Occidente, andrebbe notato che, a differenza di Cristo, Maometto eliminò fisicamente, armi alla mano, gli altri profeti del suo tempo. Quindi l'incipit dell'Islam non ha niente da invidiare all’Inquisizione.

Quanto alla famosa matematica araba, la numerazione araba era in realtà indiana, le equazioni di terzo grado sono state risolte dagli europei, il calcolo infinitesimale è stato inventato dagli europei, la teoria degli insiemi è stata inventata dagli europei, la topologia è stata inventata dagli europei, l’algebra astratta è stata inventata dagli europei… e si potrebbe continuare all’infinito.

Quanto alle condizioni materiali di vita, non dovevano essere migliori di quelle dell'occidente medievale, se è vero che, come riconosciuto da tutti gli storici delle epidemie, la peste arrivava in Europa a ondate fino a tutto il 1700 da focolai presenti nell’impero ottomano, per le terribili condizioni di vita e igieniche, rispetto a quelle europee.

La famosa superiorità culturale islamica tramontò rapidamente, e quando i francesi di Napoleone arrivarono in Egitto lasciarono dei resoconti spaventosi del degrado culturale e umano dei paesi arabi.

È infine in qualche modo ingiusto contrapporre la prosperità dell'Islam alle condizioni coeve dell'Europa, perché non pochi studiosi cominciano a ritenere che la rinascita economica e culturale dell’Occidente dopo le invasioni barbariche fu impedita proprio dai raid navali e dall’incessante pressione militare ottomana, che bloccò tutti i commerci nel Mediterraneo (così, tra gli altri, Rodney Stark, nel suo libro A gloria di Dio).

È vero che l'Occidente ha vissuto la vicenda oscurantista della caccia alle streghe, che certo non lo fa ben figurare di fronte all'Impero Ottomano, suggerendo l'esistenza di sacche diffuse di ignoranza e superstizione, ma al tempo della caccia alle streghe (fine Cinquecento e Seicento) l'Europa aveva già Newton, Huygens, Galileo. Aveva già avuto Leonardo, Marsilio Ficino, Michelangelo, Pico della Mirandola.

 

 

 

L'Islam moderato esiste veramente o è un mito culturale occidentale?

 

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Continuiamo a pensare che esista una maggioranza di persone ragionevoli entro l'Islam, che si è sbarazzata delle superstizioni e del fanatismo (l'Islam moderato o laico o quel che sia), che ha raggiunto lo stesso grado di sviluppo del libero pensiero dell'Occidente.

Però di fatto gli islamici continuano a credere fermamente che il maiale sia un animale impuro. Che la carne di un animale non completamente dissanguato sia impura. Che un martire dell'islam guadagna il paradiso per 50 parenti. Che il consumo di vino scatena la collera di Dio. Che valium e xanax sono vietati perché l'ha detto il Profeta (che in realtà parla solo di "bevande inebrianti").

Sono 2000 anni (ecco un passo del Vangelo: "non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo") che l'Occidente ha liquidato i tabù della Bibbia sul cibo, mentre gli islamici hanno ancora difficoltà a considerare il maiale un animale come tutti gli altri, perché l'ha detto il Profeta.

Si risponderà che anche un popolo civilissimo come gli ebrei ha la macellazione kosher. Ma questo vale solo per gli ebrei ultraconservatori. Gli ebrei hanno mostrato di sapersi integrare perfettamente nella civiltà occidentale e laica, a cui hanno dato un grande contributo (la lista di scienziati e intellettuali ebrei, tra cui molti atei e liberi pensatori, è lunga come la Via Lattea; sapevate che molti leader bolscevichi erano ebrei?). Sin dai tempi di Cristo l'ebraismo è stato caratterizzato da una straordinaria varietà di correnti: farisei, sadducei, esseni... c'erano persino indirizzi di pensiero che negavano la sopravvivenza dell'anima. Una situazione ben lontana da quella dell'Islam, dove non riescono a coesistere pacificamente neanche due correnti, gli sciiti e i sunniti che si uccidono da 14 secoli.

Tra le altre cose di non poco conto che gli islamici hanno difficoltà a mettere in discussione, perché la praticava il loro Profeta c'è anche la schiavitù, tuttora praticata in Sudan e in altri luoghi, abolita in Arabia Saudita e nei principali paesi islamici solo negli anni Sessanta del secolo scorso.

Giungono dai paesi islamici notizie di violenze sulle donne per comportamenti che la mentalità maschile giudica "poco consoni": uscire da sole, istruirsi e avere una vita indipendente, avere abitudini sessuali "discutibili". Una intellettuale iraniana in USA ha rivelato che non tornerà più in Iran, dove diverse sue amiche sono state uccise. È di pochi anni fa l'uccisione atroce, con tortura e sfiguramento, in uno degli emirati più ricchi, di una cantante eccessivamente disinibita. Come pure la notizia di raid integralisti che massacrano le occupanti delle case di piacere (a Baghdad sono state recentemente uccise 20 prostitute in un raid simile).

Si tenga presente che la parte di popolazione cristiana che vive in paesi economicamente e culturalmente evoluti è decisamente superiore a quella dei paesi islamici, in cui la massa dei fedeli vive nel Terzo Mondo, lungo la fascia equatoriale (Nordafrica, Paesi Arabi, Centro-asia), e che quindi la forza di di gravità delle idee e delle visioni più arretrate è più forte nell'Islam che nel cristianesimo.

Il fatto che molti intellettuali moderati abbiano stabilito la loro dimora in Occidente e si guardino bene dal tornare ai loro paesi di origine, potrebbe essere un segno che l'Islam moderato forse è minoritario, e che comunque, se anche non è così, rischia di essere sopraffatto da una minoranza fanatica, e di non avere molta rilevanza nel rapporto Occidente-Islam.

 

 

 

L'opinione di Charles de Gaulle sull'immigrazione islamica

 

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Charles de Gaulle, in un suo discorso ufficiale del 1959 disse testualmente: "È un bene che ci siano francesi gialli, francesi neri e francesi marrone. È la dimostrazione che la Francia è aperta a tutte le razze e che ha una vocazione universale. Ma a condizione che essi restino una piccola minoranza. Altrimenti la Francia non sarà più la Francia. [...] Noi siamo comunque prima di tutto un popolo europeo di razza bianca, di cultura greca e latina e di religione cristiana. Che non ci raccontino delle storie! I musulmani, voi siete stati a vederli? Voi li avete visti con i loro turbanti e le loro djellaba ? Vedete bene che non sono dei francesi! [...] Coloro che spingono verso l'integrazione hanno un cervello da colibrì. Cercate di integrare l'olio con l'aceto. Agitate la bottiglia. Dopo un secondo, si separano di nuovo. Gli arabi sono gli arabi e i francesi sono i francesi. [...] Voi credete che la popolazione francese possa assorbire 10 milioni di musulmani, che domani saranno 20 e dopodomani 40? Se noi facessimo l'integrazione, se tutti gli arabi e i berberi d'Algeria fossero considerati come dei francesi, come impediremmo loro di venire a installarsi nelle metropoli, dato che il livello di vita è molto più elevato? Il mio comune non si chiamerebbe più Colombey-les-Deux-Eglises ma Colombey-les-Deux-Mosquées".

 

 

 

Il Devshirme o "tassa di sangue": un tributo in esseri umani preteso dai conquistatori ottomani nei confronti delle popolazioni cristiane.

 

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La pratica del devscirme  era un sistema di arruolamento forzoso in vigore dal XIV al XVII secolo nei territori cristiani conquistati dall'Impero ottomano e ordinato dai sultani come una forma di normale tassazione per formare un esercito di schiavi leali (in precedenza costituito soprattutto da prigionieri) e reclutare la classe di amministratori (militari) dei "Giannizzeri", o di altro personale da dedicare per esempio al servizio di custodia nei bagni pubblici (Hammam). Questi ragazzi erano detti acemi oğlanlar ("ragazzi coscritti") ed erano per la gran parte cristiani rinnegati provenienti dalla regione balcanica, di cultura serbo-croata, ungherese, albanese o anche italiana.

L'istituto del devscirme costituì un efficiente sistema di reclutamento - per quanto moralmente aberrante - di futuri soldati e governatori nel periodo ottomano. Istituito da Murad I (Sultano dal 1359-1389), esso costituiva un grande serbatoio di manodopera, atto a far affluire forze professionalmente addestrate e, in teoria, fedelissime al potere, al fine di costituire i propri eserciti, così da far fronte alle continue guerre di espansione cercate dall'Impero e reprimere le insurrezioni.

Per questa ragione le terre appena conquistate erano "tassate" dei loro giovani chiedendo a ciascuna provincia di dare al Sultano un numero prestabilito di figli di contadini tra i 12 ed i 16 anni. Nei primi tempi questi ragazzi venivano da famiglie di cristiani. I ragazzi non erano forzati a convertirsi all'Islam (che infatti proibisce la conversione forzata) ma, essendo giovanissimi e lontani per sempre dalle loro famiglie, alla fine tendevano a convertirsi per usufruire dei notevoli vantaggi che si accompagnavano alla condizione di musulmano in terra d'Islam.

I ragazzi erano presi ogni anno dalle terre cristiane, prima soprattutto dai Balcani (greci, croati, bosniaci, bulgari, serbi ed albanesi); nel XVII secolo per la maggioranza dall'Ucraina e dalla Russia meridionale. Il primo passo della loro formazione prevedeva la permanenza presso famiglie di contadini turchi per apprendere la lingua e irrobustirsi fisicamente prima di essere trasferiti nella capitale o in una qualche altra guarnigione di addestramento.

Raggiungendo l'età adulta, i più brillanti erano scelti per fare carriera nella corte, gli altri erano distribuiti tra le varie unità dei giannizzeri o altre truppe di élite a corte.

A partire dal 1568 il pagamento della 'tassa di sangue' era pretesa solo occasionalmente e nel 1648 fu ufficialmente abolitai.

Le famiglie dei giovani cristiani vedevano l'istituto come una minaccia per la loro identità culturale poiché, una volta partiti, i loro figli non sarebbero più stati rivisti. Temevano, inoltre, che alcuni di loro fossero destinati a diventare schiavi sessuali degli alti ufficiali turchi[senza fonte] e facevano del loro meglio per tener nascosta la loro prole maschile.

Il devşirme, chiamato "tassa di sangue" in molte lingue balcaniche, è giudicato come una delle peggiori manifestazioni dell'oppressione che colpiva i popoli cristiani dell'Impero ottomano. Città come Pera e Giannina, che si erano arrese senza combattere agli invasori ottomani, ottennero in cambio l'immunità dal devşirme.

Per dare una idea dell'entità di questa pratica viene riportato il numero di fanciulli prelevati in vari anni:

 

anno

persone

1389

2.000

1514

10.156

1567-68

12.798

1609

37.627

1661

54.222

1665

49.556

1670

49.868

1680

54.622

 

Si tratta di cifre impressionanti. Si può calcolare che fra il 1389 e il 1615, nell'arco di circa 230 anni, si siano avuti circa 51 devshirme (uno ogni 4,5 anni in media). Facendo una media tra il numero di fanciulli del 1514 (10.000) e quello del 1609 (37000) abbiamo un prelievo medio di 24.000 giovani, che dà, per quel solo periodo 1.022.222 bambini prelevati.

 

 

 

La famosa descrizione del devshirne, o tributo di sangue imposto dagli Ottomani ai Cristiani dei Balcani, nel libro Il ponte sulla Drina di Ivo Andric.

 

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La cittadina di Višegrad, che in quel tempo, appunto, era ancora un piccolo borgo angusto, si trovava sulla riva destra della Drina, su per i declivi dell'erto poggio, sovrastata dalle rovine dell'antica fortezza, perché allora non possedeva neppure il perimetro e l'aspetto che assunse soltanto in seguito, dopo che il ponte venne costruito e le comunicazioni e i traffici si furono sviluppati.

Quel giorno di novembre giunse alla riva sinistra del fiume una lunga teoria di cavalli carichi, e si fermò per trascorrervi la notte. L'aga 1 dei giannizzeri, con la sua scorta armata, se ne tornava a Istanbul dopo aver raccolto tra i villaggi della Bosnia orientale un certo numero di bambini cristiani come "tributo di sangue".

Erano già trascorsi sei mesi dall'ultima riscossione cli questo tributo di sangue, cosi che questa volta la cernita era stata facile e abbondante; senza difficoltà era stato trovato il numero richiesto di ragazzi sani, svegli e prestanti tra i dieci e i quindici anni, sebbene molti genitori avessero nascosto i loro figli nel bosco, o avessero insegnato loro a simulare l'imbecillità oppure a zoppicare, li avessero rivestiti di stracci e li avessero lasciati nel sudiciume, al solo fine di salvarli dalla requisizione dell'aga. Alcuni avevano perfino mutilato a posta le proprie creature, tagliando loro un dito della mano. I ragazzi selezionati erano stati fatti proseguire sui piccoli cavalli bosniaci, in lunga fila. Su ogni cavallo c'erano due canestri intrecciati, del tipo di quelli che si adoperano per la frutta, uno a ogni fianco, e in ogni canestro era stato posto un ragazzo con un piccolo pacco e una forma di focaccia, ultime cose portate dalla casa paterna. Da quei canestri, che oscillavano e scricchiolavano in ma-niera uniforme, sbirciavano i volti freschi e impauriti dei ragazzi rapiti. Alcuni guardavano tranquillamente, oltre le groppe dei cavalli, quanto più fosse possibile in lontananza il paese natio, altri mangiavano e piangevano nello stesso tempo, altri ancora dormivano, la testa appoggiata al basto.

A una certa distanza dagli ultimi cavalli di quella inconsueta carovana avanzavano, sparpagliati e ansimanti, diversi genitori o parenti di quei ragazzi che venivano condotti via per sempre, destinati a essere circoncisi in una terra straniera, a essere turcizzati e, avendo dimenticato la propria fede, il proprio paese e la propria origine, a trascorrere la vita nei reparti dei giannizzeri o in qualche altro servizio superiore dell'impero. Erano per lo più donne, soprattutto madri, nonne e sorelle dei ragazzi portati via. Quando si avvicinavano troppo, i cavalieri dell'aga le disperdevano a colpi di frusta, avventando contro di loro i cavalli con alte grida. Esse, allora, si disperdevano e si nascondevano nel bosco che fiancheggiava la strada, ma dopo poco si raggruppavano nuovamente dietro al corteo e si sforzavano di raggiungere ancora una volta con gli occhi lagrimosi, al disopra delle ceste, le teste dei bambini che venivano loro strappati. Particolarmente tenaci e irrefrenabili erano le madri: correvano, con spedito calpestio, senza guardare dove mettevano i piedi, nudi i petti, scarmigliate, dimentiche di tutto intorno a sé, lamentandosi ·e· dolendosi come per un morto; altre, uscite fuori di senno, gemevano, urlavano come si sentissero lacerare l'utero nei dolori del parto, e, accecate dal pianto, andavano a cadere proprio sotto le fruste dei cavalieri, e ad ogni colpo di frusta replicavano con una domanda insensata: «Dove lo portate? Dove me lo portate?». Alcune tentavano di chiamare distintamente il proprio figlio e di dargli ancora qualcosa di sé, quanto può essere contenuto in due parole, un'ultima raccomandazione o un avvertimento per il viaggio:

« Rade, figlio mio, non dimenticare tua madre ... »

« Ilija! Ilija! Ilija! » gridava un'altra donna, cercando disperatamente con gli occhi la nota, cara testa, e ripetendo quel grido incessantemente, come volesse scolpire nella memoria del ragazzo quel nome che, soltanto qualche giorno dopo, gli sarebbe stato tolto per sempre.

Ma il cammino era lungo, la terra dura, il corpo debole, e gli ottomani forti e spietati. A poco a poco quelle donne rimanevano indietro e, spossate dal gran camminare, cacciate dalle frustate, chi prima chi dopo, rinunciavano alla disperata fatica. Qui, al traghetto di Visegrad, dovevano fermarsi· anche le più ostinate, perché sul battello non le prendevano e non era possibile passare attraverso l'acqua. Potevano sedere quietamente sulla sponda e piangere, dato che nessuno le cacciava più. Qui aspettavano come pietrificate e insensibili alla fame, alla sete e al freddo, finché vedevano ancora una volta sull'altra riva del fiume la lunga teoria di cavalli e di cavalieri che sì dirigevano verso Dobrun, e in quella fila avvertivano ancora una volta la presenza della propria creatura che spariva dai loro occhi.

 

 

 

Integrabilità degli Islamici: qualche nota a margine.

 

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Il grande storico Henri Pirenne ha scritto che la civiltà islamica rappresenta un unicum tra tutte le civiltà dell'antichità che sono venute in contatto con Roma, perché, sola tra tutte, si è rivelata impervia a qualsiasi assimilazione culturale sin dall'inizio. Quello che colpisce, scrive Pirenne, è che mentre Roma è riuscita ad integrare tutti i popoli barbari, grazie alla sua superiore cultura, gli arabi, che pure erano ad uno degli stadi più arretrati tra tutte le popolazioni del Mediterraneo, hanno mostrato sin dall'inizio della loro storia una assoluta impermeabilità agli influssi culturali di Roma e un granitico senso della propria superiorità. Per evitare qualsiasi contatto in grado di contaminare le loro convinzioni, i conquistatori musulmani stabilivano addirittura i loro accampamenti fuori delle città che avevano occupato.

Nessuno, in millequattrocento anni, è effettivamente riuscito a scalfire la loro convinzione di essere spiritualmente, moralmente e intellettualmente superiori ai cristiani. Ancora oggi, gli Imam delle moschee occidentali raccomandano in maggioranza ai fedeli islamici di non aver contatti personali con le "pecore nere" cristiane perché essi ne sarebbero contagiati.

Un altro ostacolo alla integrazione nei paesi occidentali è dato dal fatto che per loro vale la legge coranica, che prevale su ogni legge dello Stato in cui vivono. Ogni norma statale contraria è automaticamente nulla. Secondo alcuni, qui non si tratta di qualcosa che la concessione di una ampia autonomia potrebbe sanare, qui si tratta di una potenziale fonte di secessione. Tanto per fare un caso di possibile conflitto, possiamo notare che mentre un cristiano è libero di seguire la propria coscienza e cambiare convinzioni religiose, a norma della legge islamica, l'apostata è passibile di morte, quali che siano le norme sulla libertà personale del paese in cui vive. È facile capire quanto possano valere le norme dello stato per persone che vivono in quartieri islamici che già ora sono difficilmente penetrabili dalle forze dell'ordine.

Un altro ostacolo al dialogo pacifico è dato dal fatto che sin dal tempo dell'impero ottomano le leggi della Jihad impediscono di stabilire una pace perpetua con gli infedeli, e consentono solo una pace temporanea (leggere il libro "Venezia porta d'Oriente” della serissima studiosa Maria Pedani per credere), perché secondo esse la guerra non cesserà fino a quando anche l'ultimo infedele sarà conquistato all'Islam. Un attentatore islamico in suolo inglese, qualche anno fa, è stato sentito urlare "casa della guerra". "Dār al-arb" o "Casa della guerra", in contrapposto a “Dār al-Islam, casa dellIslam dove regna la pace, è il nome tradizionale dei paesi cristiani e in genere non islamici dove non potrà mai regnare la pace fino a quanto l'Islam non avrà trionfato completamente. Siamo di fronte ad una mentalità incompatibile con quella occidentale moderna del terzo millennio.

Quando si parla di integrazione si parla di matrimoni misti, che sono la via più efficace per stringere rapporti, occorre tenere presente che gli islamici non consentono alle donne il matrimonio con i cristiani, né consentono dal figlio nato da tale unione di scegliere una religione diversa dall'Islam.

Infine, ecco cosa pensano gli Imam "moderati" dell'Università al-Azhar del Cairo, che è il centro di opinione più influente del mondo islamico sul terrorismo: che il terrorismo è una via sbagliata... perché al momento l'Occidente è più forte e non va sfidato (leggere il libro del serissimo studioso Paolo Branca Voci dell'Islam, riportato in estratto su questo sito learningsources.altervista.org per credere).

 

 

 

Il mito della tolleranza islamica nei confronti dei sudditi di altre religioni. Alcune necessarie precisazioni.

 

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Viene spesso vantata la tolleranza dell'Impero Ottomano nei confronti degli Ebrei e dei Cristiani, ma si ignorano numerosi fatti, riportati da diversi autori (cfr Bat Ye'or, Il declino della cristianità sotto l'Islam, e gli interventi e i documenti riportati in Bostom, The Legacy of Jihad), che correggono in modo alquanto deciso questa visione rosea dei fatti.

Tanto per cominciare la tolleranza viene riservata solo ai "popoli del libro": cristiani, ebrei e Sabei (una popolazione mesopotamica che ha una antica religione basata sugli astri e che viene assimilata agli altri due popoli), mentre per gli altri gruppi religiosi la scelta è tra convertirsi ed essere uccisi. La storia degli stermini di massa perpetrati dai conquistatori Moghul nei confronti della popolazione induista sta a dimostrare la drammatica verità di questo fatto. Perdipiù, non sempre i conquistatori musulmani davano a cristiani, ebrei, sabei e altri popoli la scelta: in diverse occasioni i documenti storici mostrano massicce conversioni forzate o uccisioni di gruppi che non appartenevano al libro. Maometto stesso sterminò gli ebrei di Medina. In sostanza, l'applicazione della norma coranica sulla tolleranza dipendeva dal califfo o dall'emiro di turno.

Né si deve credere che lo status dei cristiani, che qui di seguito prenderemo ad esempio per tutti, fosse del tutto equiparato a quello dei sudditi musulmani. I cristiani, nel Corano, sono considerati colpevoli della eresia più deprecabile agli occhi del Profeta: quella di essere "associatori", che nel libro sacro dell'Islam designa coloro che credono nella trinità e sono colpevoli di aver pervertito la religione mosaica facendola tornare al politeismo idolatra. La condizione dei dhimmi, cioè dei popoli tollerati, era pertanto precaria, perché il loro destino finale doveva e non poteva che essere quello della rinuncia al loro errore e della conversione all'Islam. Condizione ben diversa da una vera tolleranza. A prova di questo sta tutta una serie di misure umilianti, raccomandate dagli ulema, i preti islamici, per rimarcare questa inferiorità, a cominciare dalle percosse di rito a cui venivano sottoposti cristiani ed ebrei quando si recavano a pagare la tassa che consentiva loro di praticare la loro religione.

Si vorrebbe sapere cosa penserebbe un indiano o un protestante o un musulmano di un paese europeo dei nostri giorni se si sentisse dire che fintanto che è in grado di pagare una tassa annuale di non lieve importo può mantenere la propria libertà di religione, ma che la perderà quando non potesse pagarla. Verrebbe considerata vera libertà?

Ma era lo stato di umiliazione in cui erano tenuti i cristiani che li affliggeva di più. Non potevano cavalcare cavalli. E persino cavalcare un mulo o un asino era proibito quando incrociavano un musulmano appiedato, e bisognava smontare. In molte regioni era vietato loro anche l'uso della sella. Non potevano portare armi per difendersi, con conseguenze facilmente immaginabili per la loro incolumità personale. I pavimenti delle botteghe dei cristiani dovevano essere più bassi di quelli delle botteghe dei musulmani, e le loro case e chiese non dovevano essere più alte. In certi luoghi, i mufti avevano stabilito la regola che non si dovevano vedere che la testa e le spalle dei commercianti o artigiani infedeli al lavoro nella propria bottega, in modo che i credenti di passaggio non fossero eccessivamente offesi dalla loro vista. In una lite contro un musulmano, la parola di un cristiano non aveva valore e la loro testimonianza non veniva accettata.  Il loro contegno in presenza di un musulmano doveva essere umile e rispettoso. Era preferibile tenere gli occhi bassi e cedere il passo. Come già detto, i cristiani non potevano portare alcun tipo di arma, quindi dovevano stare molto attenti a non provocare in alcun modo i musulmani. Del resto, usare le armi avrebbe solo peggiorato le cose: chi faceva anche solo il gesto di alzare la mano o minacciare un credente veniva gettato in carcere a tempo indeterminato e il riscatto, quando dopo molte suppliche è concesso, rovinava la famiglia. Chi colpiva un credente era amputato della mano o della gamba o ucciso a seconda dell’umore del qadi e della gravità dell’offesa. Ogni quattro anni le famiglie cristiane dei Balcani dovevano cedere i loro figli più belli ai reclutatori del sultano, che dopo averli convertiti a forza all'Islam ne facevano soldati che combattevano contro i loro antichi fratelli, oppure schiavi di palazzo. Per evitare che i giovani tentassero di fuggire, erano inviati lontanissimo, per tre anni in Anatolia o in altre province lremote, a lavorare la terra per un padrone musulmano, egli stesso un soldato, che li istruiva nell'Islam e nell'arte della guerra e li trattava brutalmente, come schiavi. Poiché la maggior parte di loro veniva destinato alla guerra, e le perdite di campagne belliche come quelle di Persia erano spaventose, quattro di essi su dieci sarebbero morti di una morte orribile sul campo di battaglia.

I cristiani non avevano ghetti, ma la stessa storica Suraiya Faroqui una delle più decise revisioniste, che non riconosce praticamente nessuno degli aspetti negativi che la storiografia tradizionale attribuisce all'Impero Ottomano, riconosce che all'interno delle città islamiche i quartieri cristiani venivano rigoramente circoscritti e venivano chiusi per la notte, esattamente come i ghetti. Una oppressiva polizia religiosa percorreva incessantemente mercati e quartieri e faceva rispettare spietatamente le norme che limitavano movimenti, divertimenti, cortei e assembramenti. È non è difficile capire perché: la paura di sommosse da parte dei conquistatori musulmani portava ad inibire gravemente le attività sociali dei cristiani a partire, come abbiamo visto, dai funerali e dalle funzioni religiose. Non era raro il caso che un musulmano capitasse in una casa cristiana e imponesse la propria presenza pretendendo di mangiare e di trattenervisi. Le cronache dei primi secoli della conquista araba riportano la frequenza con cui i giovani musulmani entravano nelle chiese durante le funzioni per corteggiare le belle cristiane, incuranti dell'offesa e della umiliazione che infliggevano alla comunità.

Agli occhi di un musulmano i cristiani valevano quanto gli ebrei e i sabei, un popolo inselvatichito che viveva sulle sponde dell'Eufrate che adorava gli astri e non sapeva più leggere i suoi antichi libri. Si rifiutavano di accettare la verità rivelata a Maometto e tutti erano disprezzabili alla stessa maniera. Sebbene tollerati, il Corano e gli Hadith, le raccolte di detti e fatti de Profeta, non proibivano formalmente di disprezzarli per la loro ostinazione nell'errore. Quando venivano a pagare la jiza il tributo dei dhimmi, dei vinti, questo veniva interpretato come una riconferma della loro ostinazione e venivano giustamente schiaffeggiati. Questo prescrivevano i loro Sheikh-ul-Islam e i loro mufti.

 

 

 

Il mito della tolleranza islamica nei confronti dei sudditi di altre religioni. Le drammatiche condizioni dei cattolici balcanici sotto l'Islam.

 

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Un altro aspetto della condizione dei cristiani sotto l'islam è dato dal fatto che la tanto vantata (in realtà limitata) tolleranza era riservata esclusivamente agli ortodossi, mentre le condizioni delle popolazioni cattoliche era ben peggiori. I documenti che viaggiatori europei e missionari francescani che percorrevano l'impero ottomano mostrano una condizione ben diversa dalla tanto vantata prosperità di cristiani ed ebrei sotto un Islam illuminato e tollerante. Ecco, di seguito, la situazione che rivelano all'inizio del Seicento.

Le autorità ottomane prendevano di mira i vescovi, i missionari e i Francescani con particolare odio e malevolenza, ben superiore alla prevaricazione con cui venivano trattati i cristiani di rito greco. I cattolici dovevano dividere le chiese con i protestanti e gli ortodossi. A Buda nell'unica chiesa che gli Ottomani facevano tenere aperta, quella di S. Maria Maddalena, la cappella era riservata ai cattolici, mentre la navata era stata chiusa con una palizzata di legno dai protestanti. Infine, i Turchi l'avevanotrasformata in una moschea, come facevano con molte chiese cristiane: imbiancando a calce le pareti e usando i banchi per costruire il minareto. Per difendersi da queste pretese i Cristiani dovevano sborsare somme sempre maggiori perché il kadi, il giudice locale, gli consentisse di mantenere la proprietà delle loro chiese. Nel Seicento, in un periodo in cui l'Impero Ottomano cominciava a declinare, tutti i giudici ormai mettevano in vendita la loro carica, seguendo l'esempio del Sultano, che mette in vendita la riscossione delle tasse, le cariche di palazzo e persino le cariche di patriarca.

Le comunità rimanevano prive di preti a volte per decenni. Le chiese, spesso di legno, erette alla meno peggio da missionari di passaggio, cadevano in rovina ed erano utilizzate come porcilaie o ammazzatoi per gli animali. I cattolici, privi di rappresentanti di Roma a cui fare riferimento, cadevano sotto l'autorità dei vescovi e dei preti ortodossi che imponevano i loro riti o, peggio ancora, si rivolgevano ai pastori protestanti. I fedeli che si rivolgevano ai preti ortodossi, finivano per riconoscere il patriarca di Costantinopoli come capo della Chiesa, perché si convincevano o veniva loro detto che il Papa aveva perso l'autorità e la barba. Questi preti impartivano loro rozzi insegnamenti. Non conoscendo più gli insegnamenti e i riti cattolici i fedeli cadevano preda di assurde superstizioni. Pensavano che i bambini morti possano ricevere il battesimo dal padre che prega rivolto ad est tenendoli in braccio. Si facevano il segno della croce badando a non iniziare dalla sinistra, perché quella è la direzione da cui provengono i cattivi spiriti. Pensavano che bere vino ubriacandosi, con una candela in mano, a capo scoperto, fosse una attività religiosa, e i preti davano l'esempio bevendo finché non erano completamente ebbri. Lasciavano una donna per prenderne un'altra, sfruttando il fatto che il pastore di una religione non riconosceva il matrimonio celebrato da quello dell'altra, vivevano in bigamia e si sposavano tra parenti stretti senza considerarlo peccato. Superstizioni e pratiche magiche erano estremamente diffuse. La mancanza di preti e di autorità ecclesiastiche si traduceva in molti luoghi in una vita licenziosa, specie nelle regioni più sperdute e inaccessibili. In molti villaggi il Natale e la Pasqua venivano celebrati con tre giorni di danze selvagge, ubriachezza e promiscuità.

I Turchi vietavano la costruzione di nuove chiese e creavano infinite difficoltà per la riparazione di quelle esistenti. Vietavano ai cristiani di suonare le campane, come pure di leggere ad alta voce le Sacre Scritture o di pronunciare il nome di Cristo. Era proibito mostrare una croce o farsi il segno della croce. Le chiese che andavano distrutte con le guerre e le razzie non potevano essere ricostruite perché costruire una chiesa era strettamente proibito. Ai Cristiani veniva proibito di seppellire durante il giorno i propri morti. Le sepolture dovevano essere fatte di notte, di nascosto. I cortei funebri erano proibiti come riti relgiosi eretici celebrati in pubblico, come tutti gli altri riti della religione cristiana.

Nel sangiaccato di Buda vi erano all'inizio del Seicento solo 76 religiosi, e solo 9 di loro vivevano nello stesso luogo. Solo una parrocchia su sedici aveva un prete.

Le messe, non essendo disponibili che poche chiese, non di rado erano celebrate all'aperto, nei boschi o in luoghi montani, o sotto una quercia, oppure nella casa di qualcuno dove in segreto si ritrovano le persone.

La maggioranza delle chiese era priva di tetto, non ci sono altari, campane, statue di santi o fonti battesimali. Spesso i preti erano costretti a battezzare nei campi, a trasportare le ostie nascoste tra le pagine di un libro o ad usare quelle consacrate l'anno precedente.

I monasteri francescani della Bosnia erano così poveri, risiedevano in aree spopolate dalla guerra e dalla conversione dei cattolici, che dovevano ricevere aiuto dai confratelli dei monasteri ungheresi.

Ignoranti, esaltati ed apostati percorrevano in gran numero i Balcani ormai privi di religiosi e diffondevano ogni giorno di più un infinito numero di eresie tra i poveri cristiani delle campagne. In molto luoghi si veneravano addirittura particolari alberi. Come conseguenza di tutto questo, I nostri missionari sono accettati solo se sanno compiere prodigi, atti di magia o guarigioni miracolose.

La responsabilità delle conversioni all'Islam, anche di quelle false, che comunque conducevano, dopo più o meno tempo una famiglia a dimenticare la fede cattolica, ricadevano in molte aree sulla infame setta dei dervisci bektashi, gli stessi che addottrinano i giovani rapiti alle loro famiglie col tributo di sangue, il devshirme per confondere le menti e farli passare all'Islam. Questi santoni itineranti, sebbene fossero una setta persiana, erano tollerati dagli Ottomani perché celebravano i loro riti riservatamente e indubbiamente perché contribuivano a convertire i cristiani. Essi ne confondevano le menti, perché il loro culto era astutamente simile a quello cristiano, in particolare per la venerazione dei santi. Dicevano ai poveri fedeli ignoranti che l'Islam era perfettamente compatibile con la fede cristiana e avallavano queste affermazioni facendosi credere essi stessi dei santi e dei facitori di miracoli e guarigioni. Grazie anche a loro, presto il processo di conversione della Bosnia fu completato ed essa fu definitivamente persa per il cristianesimo. In buona sostanza, i musulmani potevano ben permettersi di essere tolleranti: in queste condizioni la fine del cristianesimo era solo questione di tempo.

Le difficoltà di evangelizzazione dei missionari cattolici erano spaventose. Su istigazione dei vescovi ortodossi, non di rado le autorità ottomane vessvano i religiosi cattolici, considerati spie dell'Imperatore e del Papa, fomentatori di ribellione e attentatori contro fede islamica accusati di convertire i musulmani. Sebbene Maometto II in persona avesse garantito immunità ai Francescani, e il suo editto rimase in vigore, essi e gli altri missionari, come pure i preti che viaggiavano di necessità da una lontana parrocchia ad un'altra, erano invariabilmente soggetti all'arbitrio dei Bey, dei Pasha, dei comandanti militari locali, e persino di bande di soldati non pagati, che agivano di propria iniziativa. Montare un'accusa contro di loro, che non avevano modo di difendersi adeguatamente di fronte ad una corte ottomana, a meno di non avere potenti appoggi presso i Turchi, allo scopo di imprigionarli e chiedere un riscatto, era estremamente facile. Erano uomini inermi, che non opponevano resistenza. Ci furono vescovi e diaconi imprigionati non meno di una diecina di volte e ogni volta avevano dovuto pagare un pesante riscatto. Il riscatto era garantito dalla comunità di fedeli. In tempi di turbolenza, i cristiani di Belgrado giunsero a proibire al loro vescovo di viaggiare per paura che venissero imprigionati ed essi si trovassero a  dover pagare una serie infinita di riscatti. Una volta in carcere, i missionari potevano ritenersi fortunati se venivano gettati in una cella sotterranea e nutriti di carne di cani morti, scarti di concia delle pelli ed erbe selvatiche che si gettano alle bestie una o due volte a settimana, perché spesso i carcerieri li torturavano o bastonavano ripetutamente per farsi dire dove erano gli altri preti e vescovi e cosa stavano tramando per conto di Roma. Oppure per farsi pagare i soldi del vitto.

Per la stessa ragione era molto facile per gli ortodossi, quando avevano una lite con i cattolici, accusarli di essere spie cristiane, una accusa che funzionava invariabilmente, e che costringeva la comunità cattolica a pagare sottobanco denaro al giudice. Moltissimi missionari e preti cattolici erano imprigionati su istigazione degli ortodossi, perché si oppongono al pagamento di decime ai patriarchi, che le estorcevano ai cattolici con ogni mezzo, per poter pagare le somme necessarie ad assicurarsi la loro carica che, come ormai ogni altra carica in quell'impero, era rimessa in vendita al miglior offerente ogni pochi anni. Il livello di corruzione è così alto, specie alla periferia dell'Impero, in Ungheria, Bosnia, Serbia, che le autorità locali potevano persino essere pagate perché montassero accuse senza fondamento contro i cattolici, da parte dei protestanti o degli ortodossi. Non era raro che una disputa tra protestanti e cattolici, come ne scoppiavano frequentissime, ad esempio per appropriarsi delle poche chiese esistenti, fosse risolta a suon di denaro. E non di rado, per ottenere queste somme, le comunità, che erano poverissime, si indebitavano pesantemente con gli usurai musulmani."

E quando i missionari, che avevano bisogno di supporto economico, lo ricevevano dai vari stati cristiani da cui provengono, essi erano automaticamente sospettati di essere spie, i loro continui movimenti erano considerati sospetti, e erano sottoposti a ogni tipo di ostacolo e vessazione.

Gli Ottomani promuovevano una specie di guerra permenente tra le varie confessioni cristiane, lasciavano libertà completa di culto a tutti i nemici dei cattolici: oltre agli Ortodossi, ai Luterani, ai Calvinisti, agli Ebrei, ed erano tollerati persino gli Antitrinitari, visto che Maometto nel Corano si scagliava contro coloro che hanno creato tre divinità al posto di una.

Tutto questo sarebbe stato già abbastanza grave, ma a ciò si aggiungeva che molte delle zone in cui operano i missionari, oltre ad essere infestate da briganti, erano costantemente in guerra o sottoposte a razzie da entrambe le parti, per cui essi erano bersaglio di uccisioni e rapimenti. L'unica protezione per i viaggiatori era quella offerta dalle carovane dei turchi, ma essi rifiutanovano ai missionari il permesso di aggregarsi, col risultato che questi dovevano viaggiare travestiti da turchi. Non di rado vescovi e missionari dovevano visitare le parrocchie di notte perché i Bey locali, informati del loro arrivo, li attendevano al varco per catturarli a scopo di riscatto.

Persino lettere e lasciapassare siglati dal Sultano non erano riconosciuti dalle autorità locali, e non di rado un missionario doveva esibire, per la propria sicurezza, tre o quattro salvacondotti emanati da altrettanti comandanti o governatori, ciascuno pagato a caro prezzo.

Ma tutto questo non era niente al confronto di cosa succede in tempi di guerra tra Ottomani e Cristiani. Resoconti agghiaccianti di vescovi impiccati di fronte alle loro chiese e di interi conventi di monaci impalati o battuti fino a ridurli a storpi giungevano in questi tempi a Roma, senza che nessuno potesse far nulla per la sorte degli sventurati. L'ira dei Turchi era tanto maggiore se le comunità si erano ribellate, in quel momento o nel passato. Si possono leggere racconti di studenti dei collegi fatti schiavi, con i vestiti completamente rimossi per essere venduti anche quelli, che venivano trascinati d'inverno al mercato di Costantinopoli, incatenati per il collo ad altri disgraziati. Quando lo sventurato moriva, la sua testa viene spiccata dal collo per non perdere tempo a liberare il cadavere dal collare di ferro che impediva agli altri di proseguire il viaggio."

Non di rado preti, frati e missionari erano scacciati dalle più importanti città, che erano fortezze ottomane, perché erano considerati spie che potevano metterne in pericolo la sicurezza, e le comunità locali rimanevano senza assistenza spirituale, abbandonate a se stesse in mezzo ai gruppi ostili dei protestanti o dei musulmani.

Maomettani, eretici riformati, ortodossi e cattolici si mescolano quotidianamente nelle funzioni e in occasione delle feste, con grande pericolo agli occhi di Roma.

Il malgoverno periferico era giunto a livelli tali che le popolazioni cattoliche erano al loro limite di sopportazione. Le loro sofferenze erano indicibili. In gran parte dei domini periferici dell'impero gli abusi erano diventati quotidiani e insostenibili. Sebbene il decreto del Sultano esentasse i conventi dal fornire vitto e alloggio ai soldati turchi, questi facevano regolarmente il giro dei monasteri e dei villaggi cattolici, pretendendo con la violenza di mangiare e bere a spese dei cristiani. Atroci battiture, che provocavano lesioni permanenti, accoltellamenti, mutilazioni di arti e uccisioni erano la conseguenza di qualsiasi tentativo di resistere e di mettere in salvo il tesoro dei monastero, che spesso costituiva bottino per la soldataglia. Non era infrequente che soldati esaltati dal vino violentassero i novizi. Quando i francescani venivano incontrati per strada, erano privati persino dei loro abiti. Alcuni venivano costretti ad abiurare la religione cattolica e a passare all'Islam sotto minaccia di impalamento. Una volta che un cristiano era stato costretto a pronunciare la formula della fede musulmana, la shahādah, il suo fato era segnato, perché non poteva più apostatizzare. Certe volte la perfidia dei musulmani arrivava a far recitare la formula ad un cristiano ubriaco o inconsapevole: Ašhadu an lā ilāha illā Allāh - wa ašhadu anna Muammadan Rasūl Allāh, e a portarlo poi davanti al kadi perché abiurasse formalmente la sua fede.

Sebbene decreti di Istanbul limitavano a tre giorni l'ospitalità che un drappello di soldati poteva chiedere ai villaggi, i Giannizzeri spadroneggiano brutalmente, uccidendo indiscriminatamente gli animali al loro arrivo senza nessuna considerazione per la povertà delle famiglie di zone remote o montuose, che traggono da essi l'unica fonte di sostentamento. Un abuso ancora peggiore era il calare in forze su un villaggio e requisire tutto il bestiame, il frumento e il denaro che veniva trovato: era una forma di brutale requisizione militare a danno dei contadini, specie quelli cristiani, chiamata salgun. Nelle province dove le autorità centrali erano lontane non c'era nessuno che potesse proteggerli da questi abusi, e resistendo rischiavano la vita.

Solo pochi storici hanno messo sufficientemente in evidenza l'effetto devastante della perenne guerra che i Turchi portarono nei Balcani sin dal 1300, e con la quale giunsero quasi a distruggere le radici stesse della civiltà in tutta la Dalmazia. La costa non era più in grado di sopravvivere, perché gli invasori si erano impadroniti delle poche terre fertili dell'interno. Così le città piombavano in una spirale di povertà e violenza, si davano al saccheggio sul mare, cercavano di danneggiarsi l'una con l'altra. I contadini fuggivano sulle montagne e si trasformavano in predoni. Le cronache del Cinquecento e del Seicento raccontano che non c'era punto tra Zara e Belgrado in cui la strada non fosse disseminata di cadaveri di viaggiatori rapinati e uccisi dai banditi. Le greggi distruggevano la terra coltivabile e i Valacchi vivevano di preda sui contadini, che a loro volta, diventati poveri, si facevano briganti essi stessi, in un ciclo che alimentava la povertà e la violenza. I continui raids di una parte e dell'altra rendevano impossibile coltivare la terra e trasformavano tutti in assassini e ladri. Le famiglie, fuori delle città, vivevano in complessi fortificati circondati da muri di legno o di fascine spinose, da cui si avventurano solo in gruppo. I contadini aravano la terra con l'archibugio posato accanto a loro. Il bestiame spariva da un giorno all'altro. Una nave non poteva più fare una sosta in una rada isolata o in un porto fuori mano durante una tempesta perché veniva immediatamente segnalata dalle spie e attaccata dai corsari. Solo le carovane armate fino ai denti percorrevano questa terra desolata, da cui le persone fuggivano offrendosi persino come schiavi nelle città della costa, o attraversano il mare e accettano la schiavitù di padroni italiani. Le donne si sposavano ai musulmani per poter garantire la sopravvivenza dei propri figli. Le scuole erano sparite e l'istruzione e la civiltà con esse. In molte zone i missionari paragonavano gli abitanti piuttosto ai lupi che agli uomini. Le faide per la terra e il bestiame insanguinavano i monti, dall'Albania alla Bosnia. Gli stessi nobili impoveriti si trasformavano in capobanda o profittano delle cariche militari per vessare le popolazioni e arricchirsi a loro danno. Tutti girano armati e uccidono per la minima provocazione.

 

 

 

Ingresso della Turchia nella Unione Europea e rischi connessi: le vere ragioni per cui sinora le è stato impedito - e forse saggiamente.

 

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Da tempo si dà come imminente l'ingresso nella Unione Europea la Turchia, un paese che A) ha riconvertito in moschea Santa Sofia e vuole imporre il velo alle studentesse per far vedere al mondo che sta ridiventando islamico radicale, B) alla fine della prima guerra mondiale ha sterminato un milione e mezzo di cristiani armeni e si rifiuta ancor oggi di riconoscere il genocidio, C) quanto a razzismo contro le persone di colore si possono citare i milioni di schiavi di colore impiegati nel corso della sua storia a fronte di una popolazione afro-turca oggi inesistente: il sociologo Rodney Stark ritiene probabile che le donne di colore venissero costrette all'aborto o all'infanticidio. C'è a chi teme che con la libera circolazione garantita dalla cittadinanza europea un numero enorme di cittadini islamici si insedierà in Europa, sconvolgendo gli equilibri sociologici dell'intero continente. E forse non sono paure infondate, se gli stessi paesi europei nonostante tutta la loro fame del petrolio del centro-asia, di cui la Turchia potrebbe aprire loro la porta, abbiano sinora negato ai Turchi l'ingresso della UE.

 

 

 

Uomini, donne, eunuchi nei paesi islamici tradizionalisti

 

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In molti paesi islamici sono ancora culturalmente accettate visioni della donna che risalgono alle concezioni mediche della tarda antichità, che sono rimaste vive nel Nordafrica per 1400 anni. Secondo tali concezioni la donna sarebbe un "uomo non compiutamente sviluppato", perché mancherebbe dell'organo di riproduzione maschile, in altre parole non un organismo perfetto, ma un "maschio mal riuscito". Come tali, le donne sono considerate, in molti paesi islamici, moralmente, intellettualmente e spiritualmente inferiori non solo agli uomini, ma anche ai transessuali e ai travestiti.

Nel Corano in traduzione italiana. nientemeno che con introduzione di Franco Cardini, un granitico assertore della assoluta percorribilità della strada dell'integrazione multiculturale, è dato leggere la seguente nota del traduttore (anch'egli italiano) Hamza Roberto Piccardo al passo (Sura II, verso 228): "Esse [le donne] hanno diritti equivalenti ai loro doveri, ma gli uomini hanno maggiore responsabilità":

 

"Questo versetto può dar luogo ad equivoci in quanto si ha l'impressione che sancisca una disparità tra i diritti degli uomini e delle donne. Tenendo conto che esso è inserito nel contesto di un discorso sui rapporti familiari, si deve inteprtare questa superiorità maschile non i nsenso assoluto, ma relativo all'ambito domestico, posizione maschile che troviamo ribadita anche in IV, 34, con il verbo qa^ma che significa occuparsi  di qualcosa, prendersene cura. SI tratta quindi di una superiorità relativa a certi ambiti, per l'assunzione di alcuni compiti, mai da intendersi in ogni caso sul piano del valore intrinseco dell'essere femminile e maschile, e mai da espletarsi nel senso ci un odioso dominio o di una cieca imposizione. Ben al contario, l'autorità familiare dve essere basata su concertazion e rispetto reciproci. Le differenze fisiologiche e psicologiche tra l'essere maschile e quello femminile debbono, proprio nella realizzazione della loro diversità, creare uno sviluppo armonicoi familiare e sociale. La sensibilità maschile è per lo più esteriore, proiettata in un ambito extrafamigliare che tende a diventare pubblico e politico. Quella femminileè per lo più interiore, attenta a se stessa, tesa alla protezione di quanto acqusito o alla acquisizione di semplici mezzi di sostentamento e di sicurezza. La psicologia maschile in generale immaginifica, creativa, sperimentale, amante di un certo rischio, desiderosa di novità di affermazione dell'io, per lo più ampia e superficiale. Quella femminile è invece solitamente concreta, tradizionale, nemica dell'azzardo, desiderosa di certezze, di conservazione del "mio", il più delle volte profonda e limitata. Nell'ambito famigliare, il rispetto della Legge di Allah e della Sunna dell'Inviato, fa sì che non si creino situazioni tali da esigere un'affemazione di potere che mortifichi la complemenarietà dei coniugi. L'abolizione completa della diversità dei ruoli, propugnata in ambito comtemporaneo, è altrettanto ingiusta e contro natura che la fissità assoluta di questi. Essere diversi e complementari implica anche l'assunzione, da parte dell'uomo di un ruolo di guida, che esercitato nel giusto senso, non svalorozza l'essere femminile, ma lo completa".

 

Non si aggiunge alcun commento ad una simile nota, che si commenta da sola. Certo è che una femminista in procinto di matrimonio che si sentisse declamare una simile carta dei diritti (e non solo lei), imbraccerebbe il bazooka.

 

 

 

Letture consigliate

 

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Paolo Branca, Voci dell'Islam moderno. Il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione

 

 

Paolo Branca, studioso assolutamente imparziale e perfetto conoscitore del mondo islamico, raccoglie in questo libro una antologia preziosissima di fonte islamica sul pensiero politico musulmano nella sua evoluzione dall'Ottocento ai giorni nostri e riporta le posizioni dei principali pensatori intellettuali arabi dei nostri giorni, fondamentalisti e non, sul dialogo e l'integrazione con l'Occidente.

Il quadro che ne risulta non coincide in pieno con l'Idea di Islam illuminato e moderato che viene proposta oggi dall'ala "progressista" degli intellettuali occidentali.

 

Bat Ye'or, Il declino della Cristianità sotto l'Islam

 

Bat Ye'or, Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita

 

Bat Ye'or, Verso il califfato universale. Come l'Europa è diventata complice dell'espansionismo mussulmano

 

 

Bat Ye'or, ebrea di origini egiziane emigrata in Gran Bretagna, è nota a livello mondiale come pioniera nello studio dei dhimmi e del Jihād. Pubblica articoli su riviste di tutto il mondo e concede interviste a radio e televisione. Ha inoltre pronunciato discorsi davanti al Congresso degli Stati Uniti e alla Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Bat Ye'or è nota per aver diffuso il termine dhimmi attraverso il libro Il declino della Cristianità sotto l'Islam. In particolare, la parola dhimmitudine indica lo stato di sottomissione al dominio islamico di territori e popolazioni accompagnata dal pagamento di un'imposta (jizya). In cambio, le popolazioni sottomesse ricevono dalle autorità la promessa di protezione (dhimma). Nel suo libro si è così espressa: "Sono testimone della distruzione in pochi anni della vitale comunità ebraica stabilitasi in Egitto più di duemilaseicento anni fa, dai tempi del profeta Geremia. Ho visto la dissoluzione e fuga di famiglie spogliate di tutti i loro beni ed umiliate, la distruzione delle loro sinagoghe, il bombardamento dei loro quartieri ed una popolazione pacifica terrorizzata. Conosco personalmente le privazioni e la durezza dell'esilio, la miseria di essere senza patria e mi sono proposta di trovare una ragione a tutto questo."

Bat Ye'or considera la dhimmitudine come la condizione sociale che nasce dal Jihād, da lei definita come lo stato di insicurezza in cui versano gli infedeli ai quali viene chiesto di sottomettersi a una condizione di umiliazione. Ye'or considera la situazione dei dhimmi nel contesto del Jihad: "La dhimmitudine è la conseguenza diretta del Jihad. Comprende tutte le leggi ed i costumi islamici applicati da più di un millennio sulle popolazioni ebree e cristiane sottomesse, perché residenti nei territori conquistati dal Jihad e, per questo, islamizzate."

La più controversa delle idee di Bat Ye'or è l'affermazione che in Occidente è in atto un processo di islamizzazione. Per esprimere questo concetto ha coniato il termine di Eurabia (dal titolo di un suo libro: The Euro-Arab Axis). L'autrice vede questo processo come il risultato di una politica estera europea conciliante con i paesi arabi, orchestrata dalla Francia per aumentare l'influenza europea ai danni degli Stati Uniti. Secondo questa teoria, il cambio culturale europeo sarebbe cominciato all'indomani della Crisi energetica degli anni settanta del secolo scorso, che avrebbe obbligato i dirigenti europei a fare concessioni ai paesi arabi produttori di petrolio. Per Bat Ye'or principale conseguenza di questa politica è l'ostilità europea verso Israele.

 

Rodney Stark, A gloria di Dio. Come il cristianesimo ha prodotto le eresie, la scienza, la caccia alle streghe e la fine della schiavitù

 

 

Molti oggi imputano alla religione certi tragici passaggi della storia, e in ogni caso le negano qualunque ruolo positivo nelle vicende dell'umanità. Per esempio, affermano che il cristianesimo ha ostacolato il progresso scientifico e offerto giustificazioni alla schiavitù. In realtà, al contrario, la scienza moderna è un prodotto della concezione cristiana del Dio unico, che attribuisce alla ragione un valore essenziale. La Chiesa cattolica ha poi avuto una parte rilevante nella diffusione dell'idea che la schiavitù fosse un abominio agli occhi di Dio e nella soppressione di questa pratica disumana in Occidente. Rodney Stark si prefigge lo scopo di denunciare e smascherare gli errori e i pregiudizi degli storici, e di dimostrare come le idee su Dio abbiano plasmato la storia e la cultura moderna dell'Occidente, costituendo l'indispensabile premessa di molte delle sue più importanti conquiste. Anche fenomeni complessi e contraddittori, come la caccia alle streghe e le eresie, sono in queste pagine oggetto di un'analisi nuova, ricca di stimolanti e inattese considerazioni, in grado di cambiare radicalmente il nostro modo di giudicarli. Come ha scritto Jeffrey Burton Russell, "ciò che comunemente sappiamo su scienza, religione, stregoneria, schiavitù e sette religiose, purtroppo, è falso". Questo libro di Rodney Stark "chiarirà le cose a chiunque abbia una mente abbastanza aperta per trarre degli insegnamenti dalla sua lettura".

 

Rodney Stark, Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate

 

 

Qual è la radice dell'odio dell'islam fondamentalista per l'Occidente? Sono davvero le crociate la causa remota dell'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001? Fra gli storici e gli studiosi di politica non pochi addossano alle "guerre cristiane" la responsabilità di aver inaugurato l'era della colonizzazione europea allo scopo di accaparrarsi le ricchezze della Terra Santa e di arruolare nuovi credenti. Questa interpretazione giustifica l'idea di una sorta di peccato originale che condizionerebbe i rapporti dell'islam con l'Occidente - un'idea che si è insinuata nei discorsi e nei dibattiti più importanti e ha spesso informato le scelte di capi di governo od organizzazioni internazionali (come la Comunità Europea e l'ONU). Per Rodney Stark è arrivato il momento di fare chiarezza, ricollocando al giusto posto sulla base delle fonti dell'epoca (dell'una e dell'altra parte) e degli studi più autorevoli - tutte le tessere che compongono il complesso mosaico di quelle vicende lontane. Stark presenta i protagonisti (i papi, i re, tutto il variegato universo umano che prese parte a vario titolo all'impresa, e anche gli "infedeli" con le loro vere o presunte eccellenze), analizza le ragioni e motivazioni rispettive, descrive i complessi intrecci politici, economici e culturali e naturalmente ricostruisce, con rigore e puntualità, la sequenza degli eventi.