Mancuso, Io e Dio |
La vita è assolutamente improbabile
Prima tesi: Il senso del sacro nasce quando ci si percepisce
al cospetto di qualcosa di più grande di sé, venendo come avvolti dalla maestà
dell’essere; esso suppone la seguente esperienza: “Essere > Io” (o anche
“Vita > Io”, o anche “Verità > Io”)
Seconda tesi: Senso del sacro e retto esercizio della
ragione guardano nella medesima direzione: più si utilizza la ragione, più
aumenta il senso del sacro
Terza tesi: Nella misura in cui il senso del sacro
codificato dalle varie religioni è al servizio del sacro originario che è la
vita è positivo; nella misura in cui è fine a se stesso è negativo.
La logica che emerge dall’essere è una logica relazionale,
di relazioni in cui siamo immersi
Esiste una direzione dell’energia interiore che ci lega a un
senso più grande di noi, ci induce a ritenere il nostro Io non come la cosa più
importante che c’è, e a vivere di conseguenza nel rispetto e nella solidarietà
reciproca.
Sovra-naturale nel senso di legare se stessi a qualcosa di
più grande di sé, di trascendere il semplice interesse naturale dove regnerebbe
“il gene egoista”. Superamento della logica dell’interesse per quella dell’inter-esse, dell’essere insieme, della
relazione armoniosa.
Ci spinge alla trascendenza anche il senso della nostra
nobiltà, un sentimento di indipendenza rispetto al mondo naturale e alla sua
necessità.
Manifestiamo fede in 4 ambiti: religioso; dei rapporti umani
e anche economici; della filosofia (dove la ragione sviluppa una intuizione
personale e non-razionale); della scienza (dove i più grandi scienziati hanno
fede nelle loro visioni, dove esiste un nucleo irrazionale). La fede è un atto
umano integrale che riguarda tutte le dimensioni di un essere umano.
(Wittgenstein) “Credere in Dio vuol dire comprendere la
questione del senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti
del mondo non sono poi tutto”. “La risoluzione dell’enigma della vita nello
spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo”. Esiste una percezione
del mistero della vita.
La mente umana ha visto fin dall’antichità la presenza di
una legge organizzatrice del mondo che dà forma all’essere-energia del mondo:
“causa formale”, logos, hokma (ebraismo), maat (Egitto), dharma. Ma
è un progetto che sale faticosamente e imperfettamente dal basso.
L’errore più comune è associare al termine “Dio” un essere
personale.
“Dio” è un termine relazionale. Un piccolo gruppo di teologi
moderni, tra cui Mancuso, intende riformare il teismo tradizionale. Dio è personale
solo nella misura in cui è anche impersonale, perché è il principium anche delle cose impersonali.
“Se qualcuno dice che il Dio unico e vero, creatore e
signore nostro, non può essere conosciuto con
certezza grazie al lume naturale dell’umana ragione attraverso le cose
create: sia anatema” (Canone ecclesiastico)
Se si intende per “Dio” il dio personale, non si possono
dare dimostrazioni rigorose pro o contro la sua esistenza.
Dio non è un essere personale. Mancuso pensa che l’id quod maius cogitari nequit esista e
che la sua esistenza sia evidente, a patto però di intendere con ciò la potenza
neutra dell’essere-energia
(esattamente id) dentro la quale
tutti siamo venuti ad esistenza, verso la quale tutti camminiamo e nella quale
tutti con la morte saremo assorbiti. Siamo emersi dall’essere-energia come da
una sorgente e in questa sorgente, pensabile come porto, torneremo quando la nostra libertà non esisterà più.
L’essere-energia comprende tutte le cose. E’ il dio di
Spinoza. L’amore di dio di Spinoza equivale all’amore per la vita, per ogni
manifestazione dell’esistenza, purissimo atto della gratuità mistica.
Il Dio delle prove logiche è un Dio che tutto governa, un
dio che costringe intelligenza e volontà rendendole serve. E’ una visione del
mondo all’insegna della necessità e dell’autorità. Ma la vita è invece libertà,
fantasia, caos creativo, libera trasgressione, nel male e nel bene.
Mancuso vede il mondo come un processo che si va
organizzando giorno dopo giorno, non
senza salti all’indietro e contraddizioni, anche se complessivamente orientato
verso una crescita dell’armonia relazionale e quindi della qualità
dell’essere-energia.
In un mondo come quello della teologia ortodossa, nel mondo
delle prove razionali dell’esistenza di Dio ogni evento deve avere una ragione
sufficiente, nel mondo della vita reale, invece molte cose presentano una
ragione completamente insufficiente,
non sono spiegabili in base a nulla, ammettono solo un volto come quello del
grido di Munch.
Come nominare questa dimensione più grande alla quale
tuttavia si sente di appartenere: regno della suprema bellezza, dell’armonia
compiuta, della pace del cuore, della luce buona dell’essere? Come nominare
l’esperienza di quando si esce da sé, senza tuttavia perdersi, ma ritrovandosi
a un livello più alto? Come nominare l’emozione dell’intelligenza di fronte
alla luce purissima che una poesia, un quadro, una musica, una preghiera, una
carezza, fa sorgere dentro di noi? Il complesso di termini quali “Dio, divino,
divinità”, racchiude i simboli più efficaci “inventati” dalla mente umana per
nominare questa realtà avvolgente, materna e paterna, che si dischiude alla
mente e al cuore in alcune peculiari esperienze vitali.
Dio è il simbolo meno inadatto inventato dagli uomini per
esprimere il contatto con l’inesausta creatività dell’universo che dà la vita e
che talora è in grado di rimandare a una dimensione al di là della semplice
vita naturale.
Ogni essere umano vive per qualcosa di più grande di sé e
quindi ha un suo Dio. Anche l’egoista vive per l’idea del suo io che è sempre
più grande della realizzazione concreta in quel preciso momento.
Anche coltivare una determinata filosofia è un atto di fede,
visto che la pura ragione non è in grado di dare una risposta soddisfacente
alle domande che riguardano il senso complessivo della vita.
I “bright” riconducono la ricerca religiosa e spirituale a
un mero fenomeno di ignoranza da compatire e deridere. Queste persone non
cercano più, non prende sul serio i problemi del credente. Invece esistono
persone (es. Norberto Bobbio) colpite dal profondo senso di mistero di ciò che
ci circonda, che è ciò che Bobbio chiama senso di religiosità.
Tesi contro lo scientismo: 1) E’ lo stesso teorema di
incompletezza di Godel che sostiene che esistono proposizioni, verità di cui il
sistema non riesce a dimostrare se sono vere o false. Assumendo il mondo come
sistema logico-matematico, risulta la legittimità, se non addirittura la
necessità di altri linguaggi oltre alla logica matematica per indagare il mondo
stesso. 2) Gli scienziati, partendo dai medesimi dati sperimentali, si dividono
nella loro interpretazione, presentando visioni molto differenti sul senso
dell’universo, l’origine della vita, la specificità umana. Cosmologi e biologi,
in particolare, sono divisi tra coloro che ritengono che le leggi della natura
spingano verso la vita e coloro che ritengono che producono caos senza senso;
tra coloro che ritengono il gene egoista e coloro che ritengono che il gene è
altruista. 3) Gli scienziati si dividono nell’utilizzo delle conoscenze
acquisite, praticando filosofie di vita, visioni etiche e comportamenti
concreti molto diversi.
Che vi sia un’armonia cosmica non è difficile da percepire
se non si è prevenuti. Se si considera il punto di partenza del big bang e la
situazione attuale l’evoluzione è stupefacente e a chi parla di caso si può
rispondere con Giordano Bruno: “Tanti ordini mirabili non possono attribuirsi
al caso, né ad altro principio che non sa distinguere et ordinare”. Questa
armonia cosmica però si va formando mediante e a dispetto di un immane carico
di dolore e sofferenza.
Un essere umano, rispetto a tutte le altre cose, è dotato di
libertà, che lo fa sentire slegato, scoordinato, privo di un centro di gravità.
A causa della sua libertà l’essere umano “ek-siste”, cioè sta fuori, sporge, è
più in là rispetto alla sua condizione di oggetto fisico, di semplice e
innocente pezzo di mondo. Questa “ek-sistenza”, questo stacco tra io e mondo
genera la disarmonia da cui nasce la ricerca spirituale, sviluppata poi dalle
varie religioni lungo due direzioni fondamentali tra loro opposte.
L’uomo, pur nato tra mille condizionamenti biologici e
ambientali, può giungere a non risultare interamente necessitato da tali
determinazioni, e da questa sua peculiare capacità di azione attiva e creatrice
chiamata libertà nasce, come invenzione-scoperta, l’altrettanto particolare
dimensione dell’essere chiamata trascendenza,
cioè l’esperire questo mondo non come definitivo ma come passaggio, il
sentimento che non siamo arrivati, ma coinvolti in un viaggio: “La trascendenza
è presente quando il mondo è esperito e pensato non più come sussistente da se
stesso, come l’essere in sé, ma come passaggio. Questa trascendenza è il punto
in cui si riferisce la libertà umana”.
L’ek-sistenza provoca angoscia, dolore, paura, noia negli
aspetti negativi, e gioia, amore, amicizia, profondità di pensiero, creatività
artistica negli aspetti positivi. Il miscuglio di tutto ciò conduce qualche
volta a chiedersi perché esisto, perché sono qui, capitato proprio qui, con
questo corpo e con questo carattere che sono il mio destino, e talora la mia
prigione.
La fede nasce come sentimento del bene quale dimensione ultima e costitutiva del mondo; la fede nasce
come sentimento della giustizia quale
dimensione ultima e costitutiva del mondo. La ragione vede solo antinomie,
conduce alla paralisi. E’ il sentimento che può muovere la volontà verso il
bene e la giustizia.
Il sentimento è il sentire dell’anima, è la percezione da
parte della nostra più intima personalità del sapore della vita nella sua
globalità. Il sentimento ci fa uscire dal nostro piccolo io e ci pone in
empatia con tutti gli esseri, animati e inanimati, avvertendo con essi una
comunanza di fondo, una specie di rete che tutti racchiude, un grembo comune da
cui tutti siamo usciti e in cui tutti siamo destinati a tornare.
Il concetto di Dio nasce per indicare l’idea di una realtà
prima e ultima in grado di abbracciare tutti gli esseri, di un fondamento
originario di tutte le cose che è insieme meta a cui tutte le cose aspirano,
inizio, presente e fine di ogni realtà.
Chi crede in Dio avverte dentro di sé, nella profondità del
vivere che sorregge e che guida la sua ragione, il sentimento e insieme il
desiderio di un senso complessivo che unifichi, abbracci, raccolga tutti gli
esseri, viventi e non.
La fede dice a ciascuno: “C’è un senso ultimo delle cose che
supera il tuo piccolo io e con cui il tuo piccolo io si può porre in relazione;
lo scopo ultimo del tuo vivere è prendere coscienza che ne fai parte e che a
esso ti puoi consapevolmente unire con la tua libertà”.
Tutte le grandi tradizioni religiose, a prescindere dalla
concretezza delle loro espressioni, si caratterizzano per una dimensione
comune, ossia per la fiducia di fondo nella possibilità che la nostra più
personale interiorità si possa relazionare alla realtà ultima. Ovvero nella
confluenza dell’Io in Dio, fino a che Dio sarà “tutto in tutti”, come scrive
Paolo.
Questa unità la si può raggiungere: a) per via mistica
(induismo, buddhismo); b) per via sapienziale (religione cinese, taoista e
confuciana); c) per via profetica, come nelle religioni semitiche di ebraismo
cristianesimo e islam.
Nella vita non si tratta di avere solo idee, ma di vivere,
lavorare, lottare per un mondo e un se stesso più giusto.
Non si può essere solo razionalisti. La vita, l’intuito,
viene prima della ragione. L’intuito è una forma di intelligenza che prescinde
e viene prima della ragione.
Quando in qualcuno nasce la fede in Dio o nel divino, è
perché con il cuore percepisce che la sua vita è immersa in qualcosa di più
grande di sé, e questa sua percezione lo rende differente da chi riconduce
tutto a sé facendo unicamente di sé lo scopo per cui vive generando un sistema
di pensiero che accetta solo quello che capisce e che può dominare, e che
esclude quello che non capisce e non può dominare, un sistema di pensiero dove
egli possa essere il dominatore, dominatore soprattutto del bene e del male che
vengono considerati come non esistenti oggettivamente ma come semplici convenzioni
che egli , uomo superiore, può infrangere. Chi vive per qualcosa di più grande
di sé percepisce che la vita gli si presenta come qualcosa che vale di più e la
vuole servire. Questo sentimento vitale che vince la naturale egocentricità
dell’Io empirico è la base dell’esperienza etica e spirituale.
Il sentimento del mistero è la condizione indispensabile per
il discorso spirituale.
L’uomo è l’unico fenomeno naturale in grado di superare le determinazioni
naturali e di essere creativo, ma proprio per questo è l’unico fenomeno
naturale in grado di porre deliberatamente il male.
Avvertiamo entro di noi una logica che conduce al bene, a
qualcosa di più di ciò che siamo nella vita mediocre e ordinaria.
Ciò che più fa sorgere il senso del mistero della vita è
proprio l’amore, e il senso del mistero è ciò che fa sorgere la fede in Dio e
nella trascendenza. Con l’amore la necessità naturale viene vinta da una forza
più intensa, quella delle generosità.
La vita è parte di un movimento di generosità cosmica.
Quattro atteggiamenti di fronte al mistero: a) chi lo
esclude, riconducendo la vita alle sole leggi di natura governate dal caso e
dalla necessità: né religiosità né religione; b) chi lo ammette, ma non trova
modo di aderirvi personalmente: religiosità senza religione; c) chi lo ammette
e vi aderisce: religiosità con religione; d) chi lo ammette ma poi l’incatena
con i dogmi della sua religione trasformandolo in una serie di “misteri”:
religione senza religiosità.
Al cospetto della vita la fede ha fiducia nel terreno solido
del bene e della giustizia, si crede nel senso fondamentale del cosmo come
armonia e della vita come amore (la vera posta in gioco nella questione
dell’esistenza di Dio) e vi si edifica la vita in conformità: “dire di sì a Dio
significa optare per una fiducia fondata e coerente nella vita”.
Si sperimenta la nascita di se stessi come figli di Dio
quando si identifica la logica della relazione armoniosa dentro di noi con la
logica che governa il senso complessivo dell’essere. Quando si produce questo ponte tra interiorità ed esteriorità si
nasce alla realtà della figliolanza divina. Diventare figlio di dio significa
istituire la relazione armoniosa tra il nostro desiderio di vita in quanto vita
buona (pace, giustizia, bene) e il senso ultimo del mondo e della vita.
Significa porre armonia tra la legge morale dentro di noi e il cielo stellato
sopra di noi, che non appaiono più come due dimensioni estranee o persino
opposte, ma concordanti; anzi, la prima dimensione (le stelle) appare
generatrice della seconda (la legge morale). La fede in Dio è la generazione
dell’armonia tra il senso della giustizia interiore e il senso complessivo del
mondo. Tale idea non è data ai sensi e all’intelletto, perché per essi regna la
contraddizione e l’antinoia; essa è piuttosto l’intuizione di un’altra dimensione,
di “un posto in terra o in cielo dove non soffriremo e tutto sarà giusto”.
I grandi scienziati avevano una fede incrollabile
nell’armonia del mondo.
Il mondo naturale è abitato dall’armonia, la vuole, la ricerca,
la insegue.
Esistono la “mistica etica” e la “mistica logica” delle
religioni orientali, che giungono alla dimensione mistica attraverso la lettura
fisica del mondo. La via dell’Occidente è mistica etica; non è mistica logica o
cosmologica, perché non ritrova l’armonia nel mondo; è piuttosto mistica etica,
perché la genera dentro di sé in quanto atto di fede in un Dio personale e in
un Regno di Dio come comunione degli spiriti liberi e poi, da qui, la riversa
sul mondo (e il mondo appare ricettivo di questa lettura all’insegna
dell’armonia e dell’unificazione). E questo riversare sul mondo l’armonia, che
di per sé nel mondo non c’è in questa pienezza (perché altrimenti non avremmo
tante catastrofi), si chiama amore.
L’amore immette energia nel sistema mondo per renderlo più armonioso, più
giusto, più vero.
Verità e bellezza sono esperienze primordiali della vita di
un essere umano.
Oggi in Occidente il concetto di verità è stato sottoposto a
critiche radicali, tra cui quelle del relativismo.
Siamo incapaci di unire verità e bellezza. La bellezza è
diventata evasione e la realtà è diventata sinonimo di realtà cruda, negativa.
I dati oggettivi forniti dalla scienza non esauriscono la
ricerca della verità. Non si può fare a meno di essi, occorre conoscerli e
occorre che le affermazioni filosofiche e teologiche non li contraddicano, ma
quando li si pensa nel loro insieme e nel loro senso generano tra gli stessi
scienziati grandi differenze.
L’universo, nella sua espansione, aumenta al contempo in
organizzazione e informazione: aumenta cioè non solo l’entropia ma anche la
neghentropia, non solo il disordine ma anche l’ordine; per questo l’universo
consiste in un processo che è lecito chiamare evoluzione in quanto passaggio da minore a maggiore organizzazione
e il cui fenomeno più alto è la vita intelligente e libera. Anche se non c’è
nessuna armonia prestabilita, però si deve affermare che il processo
cosmico mostra una salita dal basso
verso l’alto, una crescente tendenza all’organizzazione. Non senza dolore e
assurdità, non senza selezione naturale, anzi, grazie al dolore e grazie alla
selezione naturale.
Questo processo pare avere uno scopo: la creazione di una
mente, quella umana, capace di intelligenza e libertà, un cuore, centro esistenziale di ciò che intendiamo con umanità.
L’unico scopo degno di questo immane processo
è la mente che giunge a essere consapevole di tutto il lavoro necessario
per portarla all’esistenza e che trasformandosi in cuore riproduce dentro e fuori di sé la medesima logica tendente
all’organizzazione e all’armonia. Una riproduzione di questa logica è
l’estetica, un’altra è l’etica. Le grandi tradizioni spirituali intuiscono
questa verità del mondo (logos, tao, maat,
dharma, hokmà).
La grazia va intesa rettamente non come forza magica che
cala dall’alto, ma come attrazione e fascino dell’idea del bene, del bello, del
giusto, del vero, in quanto dotata di consistenza ontologica, e quindi
dell’idea di Dio.
Mancuso dice che il suo assoluto, il suo dio, ciò che presiede alla sua vita non
è dio inteso come essere perfettissimo e creatore, non è nulla di esterno a
lui; il suo assoluto è il bene, l’idea e la pratica del bene. Il bene che
all’interno dei nostri corpi esprime la realtà fisica della relazione armoniosa
fra i diversi elementi che ci costituiscono e che si dice come salute, e che poi riproducendosi all’esterno dà origine alla tensione etica che ci spinge
a introdurre tale logica armoniosa anche nell’ambito spesso disordinato della
libertà e che si dice come giustizia.
Il suo assoluto è percepire la meraviglia che tutto questo esiste in virtù di
una don dovuta e inattesa generosità dell’essere-energia che nel linguaggio
teologico tradizionale viene detta grazia.
Secondo lui l’esistenza di tale bene rimanda a un bene eterno, sussistente,
definibile come sommo bene, come “Dio” nel senso comune del termine. A partire
dal bene, crede in un Sommo Bene a cui pensa vada attribuita anche la
personalità per quanto sia ben lontano dall’essere identificabile con una
persona nel senso comune del termine. Dice Buber: “Questo significa che Dio ‘è’
persona? Il carattere assoluto della sua persona, il paradosso dei paradossi,
vieta una tale affermazione”.
Se testimonia del mondo la “lotta per l’esistenza”
darwiniana, perché non deve testimoniarne altrettanto quella particolare lotta
per l’esistenza che si chiama amore?
Il suo Dio nel senso del suo assoluto è l’idea del Bene, che
intende come idea regolatrice per edificare la sua vita su di essa. Essa è
regolatrice nel senso che, anteriormente a noi, sussiste come logica vera del
mondo, come logos che dà forma all’essere-energia, che lo in-forma e crea
l’informazione
Mancuso non vorrebbe neppure essere cristiano se essere
cristiano significasse essere qualcosa in più e di diverso dal suo essere naturale,
una sorta di vestito naturale che is aggiunge e che copre il suo essere
naturale.
(Bertrand Russell) “Non sono in grado di dimostrare che il
mio punto di vista sulla vita retta sia giusto; posso solo formulare la mia
opinione, sperando che sia condivisa da molti. Il mio pensiero è questo: la
vita retta è quella ispirata dall’amore e guidata dalla conoscenza. Conoscenza
e amore non hanno confini, cosicché una vita, per quanto retta, è sempre
suscettibile di miglioramento. L’amore senza la conoscenza, o la conoscenza
senza l’amore, non possono maturare una vita retta. Benché amore e conoscenza
siano necessari, l’amore è, in un certo senso, più fondamentale perché spinge
l’intelligenza a scoprire sempre nuovi modi di giovare ai propri simili”.
Mancuso condivide quest’etica.
Il cristianesimo
nella sua essenza eterna è filosofia dell’amore, visione del mondo alla luce
del primato dell’amore, teoria e pratica dell’amore, testimonianza che il senso
della libertà è l’amore.
Cosa si deve fare se ci si imbatte in una difformità tra ciò
che la Chiesa dice del mondo e ciò che il mondo manifesta di sé? L’autenticità
della vita viene dal suo rapporto con la verità. La vita ha il suo magistero,
esso sì davvero infallibile. Da tempo
Mancuso ha scelto di lasciarsi istruire da tale supremo magistero disponendosi
senza preconcetti di fronte al mondo, guardandolo con attenzione,
riflettendo su quello che vede e
ripensando il suo essere cristiano alla sua luce.
Alcune dottrine ecclesiastiche generano distorsioni della mente ed errate visioni
delle cose, che sfocia anche nella violenza, come nella lotta fanatica contro
l’aborto negli stati uniti.
Occorre passare dal principio di autorità al principio di
autenticità, per il quale l’istanza conclusiva è la coerenza del pensiero
rispetto all’esperienza concreta della vita.
Nella mente dei credenti
deve essere superata la convinzione che la verità della loro fede si
misura sulla conformità alla dottrina stabilita dalla gerarchia. Una fede
moderna non può configurarsi come obbedienza incondizionata al Magistero
ecclesiastico: “Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le
operazioni dell’intelligenza e le illuminazioni dell’amore nell’ambito del
pensiero” (Simone Weil).
Collezioni di testi
di papi contro la libertà di manifestazione del pensiero e di religione
Non nego che si sia potuta dare una rivelazione di Dio nella
storia, ma semplicemente non è su di essa che riesco a basare la mia fede in
Dio, la mia fede sul senso della vita come amore e nel primato del bene e della giustizia. La
rivoluzione storica depositata nella Bibbia non mi basta, la trovo insicura,
incerta, poco affidabile, a tratti persino ingiusta, e per questo bisognosa, al
fine di essere avvertita quale rivelazione di
Dio, di essere fondata su qualcosa di più sicuro e di più fondamentale. La
Bibbia per me non è “la parola di
Dio”, ma piuttosto contiene la parola
di Dio, per far scaturire la quale è necessario superare la dimensione della
lettera ed entrare in quella dello spirito.
La storia dei patriarchi sarebbe stata scritta dodici secoli dopo, in un’età in cui
erano comparsi animali (i cammelli) che prima in quelle regioni non esistevano.
Altre confutazioni della realtà dell’Esodo ecc.
Finkelstein-Silberman, The Bible Unearthed. Archaeology’s New Vision
of Ancient Israel and the Origin of Its Sacred Texts.
Ogni cristiano “incontra” un Gesù diverso, mentre dovrebbe
trattarsi di una esperienza che riflette una realtà unica di ciò che si è
incontrato. Non c’è una sola immagine, ce ne sono tante. Neanche Paolo ha
incontrato di persona Cristo. Cosa dovrebbe significare quindi l’espressione di
Benedetto XVI “incontro personale con Gesù”?
I Vangeli racchiudono effettivamente una parte della
personalità originaria di Gesù
Ma il Cristo storico diventa poi persona della Trinità,
redentore cosmico. Ratzinger lo considera “il senso (logos) del mondo e della
mia vita”. Si attribuisce un valore sovrastorico ad un personaggio storico. Un
messaggio filosofico e cosmologico dovrebbe scaturire da una filosofia, da una
considerazione del mondo; l’uomo Gesù andrebbe distinto dai suoi insegnamenti,
mentre nel cristianesimo, dove viene eloquentemente chiamato “Gesù-Cristo”
tende a incarnarli. (a pag. 184 si evince che Mancuso intende il problema del
reale insegnamento di Cristo).
Oggi c’è una forte corrente di studi biblici che vede in
Gesù un ebreo ortodosso.
Mauro Pesce, professore di storia del cristianesimo presso
l’Università di Bologna: “non sono d’accordo sull’idea che il cristianesimo
nasca con la fede nella resurrezione di Gesù né che nasca grazie a Paolo. Anche
Paolo, come Gesù, non è un cristiano ma un ebreo che rimane nell’ebraismo.
Forse il cristianesimo nasce addirittura nella seconda metà del II secolo”.
Jakob Neusner, A Rabbi
Talks with Jesus, ciò che insegnava Cristo è completamente fuori della Torah ed irrispettoso di essa. Ratzinger
cita questo libro come prova della originaria alterità del messaggio di Gesù.
Gesù non si pone come Mosè che dice di trasmettere la parola di Dio, egli dice
(Discorso della Montagna): “vi hanno detto, ma io vi dico”, ponendosi come nuova Torah e nuovo Israele. Gesù intende se stesso come la Torah, la
parola di Dio in persona.
L’ebraismo non ha una teologia nel senso dogmatico del
termine, perché il suo centro è un codice, una legge, quindi ha un volto
eminentemente operativo, pratico. Il cristianesimo sviluppa invece sin da
subito una teologia nel senso rigoroso del termine, cioè in quanto
investigazione logica sull’assoluto, e lo fa perché il suo centro è teoretico,
consiste nell’attribuzione del carattere dell’assolutezza ad un particolare
storico. Per questo, per quanto sia importante il fare, il cuore teologico del
cristiano è (secondo la lettura di Ratzinger) teoretico, e l’ortodossia riveste
un ruolo superiore all’ortoprassi.
Vi sono studiosi di parte ebraica che interpretano Gesù come
uno di loro, e vi sono cristiani che sono d’accordo con questa interpretazione
e ricercano una rigenerazione del cristianesimo all’insegna della spiritualità
ebraica col primato dell’ortoprassi sull’ortodossia; e vi sono studiosi di
parte ebraica come Neusner che interpretano Gesù come un trasgressore
dell’ebraismo, e vi sono cristiani come Ratzinger e la gran parte della
tradizione che concordano con questa lettura, raccomandando che venga mantenuta
al primo posto del cristianesimo l’ortodossia e non l’ortoprassi. Tra queste
due vie l’anima di ogni cristiano è chiamata a decidere.
L’operazione proposta da Ratzinger, di leggere i Vangeli
come pura verità storica, è destinata al fallimento. Dice Mancuso: “se persino
di fronte ai santi vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire
discernendo ciò che è vero da ciò che sicuramente non esprime un fatto storico
(lo stesso Ratzinger rimarca che l’affermazione “tutto il popolo chiese la
condanna di Gesù” è storicamente impossibile), ne viene che non esiste ambito
della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato.
Dalla dinamica della libertà non si esce, perché l’interpretazione è sempre
necessaria e a libertà è il succo vitale dell’interpretazione. In questo senso
Vattimo scrive a ragione che ‘la salvezza passa attraverso l’interpretazione’”.
Gli episodi narrati nella Bibbia possono essere compresi
quale rivelazione di Dio solo in quanto nell’uomo esiste già la nozione del divino.
Solo se la storia particolare di Gesù può essere mostrata come simbolo
concreto del Dio universale essa diviene
rivelazione di un Dio qui e ora. Se no, nel migliore dei casi rimane una storia
interessante e insieme incredibili.
Persino i cristiani di Ippona molestavano Agostino con la
domanda: “perché Dio si è manifestato solo ora? Perché così tardi?”. Agostino
non seppe rispondere se non che i misteri di Dio erano tali per l’uomo, che non
doveva cercare di indagarli.
Secondo Mancuso la rivelazione storica è solo una grammatica che consente di comprendere
al meglio la rivelazione universale, eternamente disponibile a tutti gli uomini
di tutti i tempi, così come è loro disponibile la salvezza, perché creazione e
rivelazione sono la medesima cosa.
Il senso della vita spirituale non è l’ascolto sull’attenti
della rivelazione storica depositata nella Bibbia avvenuta qualche migliaio di
anni fa in modi tutti da chiarire, ma è la capacità di leggere e di
interpretare la natura e la storia qui e ora, perché diventino qui e ora
rivelazione di Dio.
Si tratta di credere “come credeva Gesù”, non ai dogmi
costrittivi e astrusi che propone la Chiesa in base al principio di autorità e
non a quello di verità.
Il Catechismo della Chiesa cattolica oscilla tra la definizione
di fede come “sottomissione” (secondo il concetto musulmano: “islam” =
sottomissione) e quella di fede come “adesione” (più vicina al concetto ebraico
di fede come “alleanza”).
Affermazioni del tutto contraddittorie sulla fede e l’atto
di fede contenute nel Catechismo e
nel magistero tradizionale
Mancuso presenta numerosi testi (fino ai primi del Novecento
e oltre) in cui la Chiesa condanna la libertà di stampa, l’istruzione pubblica,
la libertà religiosa ecc.
Il problema della Teodicea
I santi amano la verità e insieme, come medesima cosa, amano
il bene. Cercano la verità, quale logica interiore e profonda della realtà, e
cercano il bene, il bene quale logica interiore e profonda della realtà. Per
loro vale l’equazione verità = bene.
Quando i santi e i mistici cercano la verità vengono al
cospetto dell’abisso del nulla. Questa esposizione alla verità purifica la
mente (expurgatio intellectus). La
purificazione avviene facendo operare nella mente la potenza purificatrice
della logica, quella stessa logica che è figlia del Logos che governa il mondo. Ragionando (non alla maniera
razionalistica e fredda di chi vuole solo distruggere e non ha a cuore la
custodia del mistero sommo della vita, ma al modo pieno di attenzione e di
calore di chi cerca la verità complessiva e vuole legare insieme i fenomeni) si
entra nella notte oscura della fede. Le costruzione teologiche appaiono solo
deboli segnali, a volte veridici a volte no.
A differenza dello scanzonato ateismo bright che non ha nulla da insegnare perché non nasce dal patire
(dal quale solo si genera autentica conoscenza), l’ateismo che nasce nelnome
della ribellione morale e della passione intellettuale ha molto da insegnare ai
credenti.
Secondo la tradizione agostiniana tutto quanto di buono c’è
in noi non è nostro ma viene da Dio,
mentre tutto ciò che è nostro è macchiato dal male e dalla concupiscenza.
L’io va purificato, portato a vedere le cose nella
prospettiva dell’universalità, abbracciando la totalità degli esseri e volendo
il bene e la giustizia per se stessi, esce dall’interesse ed entra nell’inter-esse, raggiungendo il più alto
fenomeno spirituale, ciò che la tradizione cristiana chiama “santità”. Un io
che lavora per introdurre ordine e armonia là dove si trova. E’ il livello del
“cuore”, cioè quella dimensione integrale dell’essere umano in cui
l’intelligenza e la volontà sono unificate dal sentimento del bene, il più alto
livello di ciò che chiamiamo “umanità”.
Ognuno al cospetto della propria coscienza si chieda attorno
a quale centro egli gravita, qual è la forza che suscita e attrae le sue
energie, in base a quali obiettivi struttura la vita, qual è l’ideale che dà
forma alle sue giornate e di conseguenza alla sua personalità, e rispondendo
scoprirà chi è, o cos’è il suo dio.
“Respiro, dunque sono”: è la mia relazione col mondo che mi
mantiene in vita.
“Io credo in Dio perché ciò mi consente di unire il
sentimento del bene e della giustizia dentro di me con il senso del mondo fuori
di me. Affermare con la mia mente e con il mio cuore l’esistenza di una
dimensione prima e ultima dell’essere che è bene e giustizia (dagli uomini
convenzionalmente chiamata Dio) significa per me assegnare il primato
ontologico, oltre che assiologico, al sentimento del bene e della giustizia che
mi anima, e che vedo animare molti altri esseri umani. Significa valutare tale
sentimento non come l’ingenuità infantile di chi ancora non si è svegliato al
principio di realtà ostinandosi a credere alle favole, ma come la luce che
indica la verità definitiva del mondo. L’idea di Dio è il ponte che mi consente
di unire il sentimento e l’attesa del bene dentro
di me, con il senso ultimo del mondo fuori
di me.
L’idea di Dio consente di unire, per usare le parole di
Kant, “il cielo stellato sopra di me e la legge morale entro di me”. Fa sì che
la legge morale appaia veramente come la legge fondamentale del mondo, come la
logica-logos che dà vita e sorregge
ogni cosa, e gli onesti e i giusti risultino davvero come coloro che realizzano
il senso del loro essere qui, e i disonesti e i malvagi come ignoranti.
Io credo in Dio perché intuisco che l’ideale del bene e
della giustizia che si muove entro di me non è solo un sentimento soggettivo,
una pia illusione, ma è la verità ultima della logica del mondo. So
perfettamente che non è possibile dimostrarlo e da questa intuizione sulla
logica del mondo giungere direttamente alla conoscenza certa di Dio. Ma proprio
all’interno di un mondo in evoluzione e quindi non sempre coerente, una
filosofia di vita che voglia coltivare la coerente dedizione al bene e alla
giustizia richiede un investimento emotivo, uno slancio ideale, un surplus di
lavoro, che si chiama fede.
Non è vero, come dice Spinoza, che “realtà e perfezione sono
la stessa cosa” e, come dice Hegel, “il reale è razionale e il razionale
reale”. Io vedo uno scarto insuperabile tra il mondo come dovrebbe essere e il
mondo com’è, e penso che sia precisamente questo scarto a generare
l’evoluzione, il movimento, la tensione che pervade l’essere e che lo porta
continuamente a divenire, generando nuove forme e disgregandone altre. La
filosofia di Spinoza suppone un universo stazionario non evolutivo. La realtà
invece mostra che c’è come un’insoddisfazione diffusa nelle cose, nelle fibre
dell’essere-energia, che lo rende inquieto, sempre al lavoro.
Ritengo che per raggiungere il vertice spirituale non si
debba annullare l’Io, ma potenziarlo, educandolo a un più alto sentire, una
spiritualità come gusto e passione di vivere, gioia di agire e di lavorare.
Credere nell’esistenza di Dio significa assegnare a tali momenti di “fremito”
lo statuto non di emozioni fuggevoli e ingannatrici, ma di rivelazioni: essi
rivelano il vero volto dell’essere, l’eterno presente nelle fibre del tempo.
Credendo in Dio il credo che quella dimensione dell’essere
manifestata dalla tensione verso l’organizzazione e la complessità non sia
un’illusione, ma l’ultima, la più fondamentale dimensione dell’essere-energia,
e che essa sia il destino del mondo. Credendo in Dio, io affermo l’esistenza di
una patria, di un porto, di un approdo a cui il lavoro dell’essere-energia è
destinato.
Credendo in Dio io non credo all’esistenza di un ente
separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione
dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie, più vera di ciò che
appare in superficie, qualitativamente più raffinata di ciò che appare in
superficie, capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora
energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce,
forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di
Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi ma
essenziale al cuore, esiste e sia la casa della giustizia, del bene, della
bellezza perfetta, della definitiva realtà.
La mente che supera l’interesse immediato scorge la verità
di noi stessi come legati a ogni uomo e a ogni vivente per il solo fatto che,
come noi, sono, esistono, respirano. La condizione ontologica del nostro
essere-relazione (l’Io non ha relazioni, l’Io è relazioni) ci porta a generare
l’etica. L’etica diviene sempre più matura man mano che estende la condizione
ontologica dell’uomo come cura al di là degli ambiti dove è logico aspettarsela
(famiglia, clan, corporazione), arrivando a sentire il dovere di essere giusti
anche verso gli estranei. L’etica compie se stessa oltrepassando lo stretto
interesse verso il più ampio inter-esse.
La religione nasce come estensione a ogni forma di vita
dell’essenza umana in quanto cura. La religione è cura per il destino di tutti
i viventi, passione della mente e del cuore perché il senso di ogni vita sia
custodito e la sua esistenza non sia stata vana.
Non sto sostenendo che la religione sia la sorgente
dell’etica, come vuole una certa visione del cristianesimo secondo cui è solo
dalla grazia di Cristo che discende la purificazione del cuore altrimenti
inevitabilmente corrotto a seguito del
peccato originale, con la conseguenza che solo i cristiani sarebbero le persone
veramente rette, mentre le virtù di coloro che non conoscono Cristo sarebbero
solo un inganno.
Sostengo che l’autentica religiosità nasce quando in alcuni
la dimensione etica assume un tale significato da andare al di là del
comportamento personale e arriva a voler abbracciare il senso complessivo del
mondo: si giunge a volere che il mondo in se stesso sia etico, che la vita in
se stessa sia giusta, che il senso complessivo del tutto sia il bene. E siccome
il mondo e la vita qui e ora si chiudono e si chiuderanno sempre
nell’antinomia, si postula nella propria coscienza lo scioglimento positivo di
tale antinomia ponendo (qualcuno direbbe “proiettando”) l’esistenza di una
definitiva dimensione dell’essere che garantisca la vittoria del polo positivo:
ecco l’atto di fede in Dio, cioè nell’esistenza di una dimensione definitiva
dell’essere del tutto buona e luminosa.
Occorre fare il bene per se stesso, ma proprio nel fare il
bene per se stesso si viene rimandati ad una logica che va al di là
dell’interesse personale e che raggiunge un inter-esse,
un essere-con, una relazionalità che aspira a una dimensione universale,
cosmica, avvertita dalla mente umana di tutti i tempi e chiamata “divinità”.
Qual è il motivo che conduce un essere umano a legare se stesso a un senso che egli non
potrà mai dominare e quindi mai dimostrare, ma di cui avverte al contrario di
essere dominato, o anche affascinato. La peculiarità di tale
dominazione-fascinazione divina consiste nel fatto che essa viene avvertita
dalla coscienza come certamente più grande di essa, ma per nulla estranea, anzi
come la dimensione originaria cui appartiene da sempre.
Ci sono momenti nei quali possiamo dire che raggiungiamo la
pienezza delle nostre potenzialità vitali in modo che sembra che varchiamo la
soglia di un’altra dimensione. Gli antichi greci parlavano di entusiasmo.
▸ Mancuso
sistematizza il suo pensiero secondo una scansione in dodici passi.
(1) C’è in noi, dice Kant, una disposizione
morale originaria verso il bene, un “germe del bene” che si contrappone al
“germe dell’egoismo”, che è quasi miracolosa, considerando la corruzione e i
condizionamenti umani
(2) La tendenza al bene, per Kant, è così
paradossale nell’uomo che è legittimo postularne l’origine esterna e divina
(3) L’uomo è chiamato ad aderire a questa legge
morale, a convertirvisi
(4) Kant rifiuta l’idea che il bene entro di noi
discenda dall’alto con la grazia divina, negando valore alla nostra libertà.
Questo è il concetto tradizionale di grazia, elaborato in massima parte da
Agostino, ed è insostenibile. E’ invece l’esercizio virtuoso della libertà che
si dedica al bene e alla giustizia a condurre la coscienza al cospetto del
mistero sommo della vita.
(5) Kant però non sa dare risposta al come la
nostra libertà si elevi sopra il meccanicismo di causa ed effetto (celebre topos kantiano) né come si elevi al bene
e all’altruismo.
(6) A differenza di Kant Mancuso non pensa la
libertà in contrapposizione al mondo ma unitamente al mondo, come frutto più
bello del lavoro del mondo, al quale l’uomo non cessa mai di appartenere. Per
indagare il fenomeno fisico del bene che si produce nell’uomo (sorgente del
retto discorso su Dio) occorra mettere in gioco una visione dell’essere come
energia, come lavoro, come rete di relazioni, da cui emergono livelli sempre
più organizzati di essere, il più alto dei quali è tradizionalmente designato mediante il termine “spirito”.
Comunemente questa visione alla quale aderisco è detta “emergentismo”, in
contrapposizione alla prospettiva detta “riduzionismo”. Si tratta di capire se
è reale oppure no questa dimensione dell’essere chiamata spirito, e in questa prospettiva mi chiedo qual è il fenomeno
fisico originario per esprimere il quale tale termine è sorto.
(7) L’energia totale dell’uomo, a differenza
della pietra, ha una sovrabbondanza rispetto all’energia imprigionata nella massa;
questa sovrabbondanza, molto superiore a quella che pure si trova negli animali
e nelle piante e è alla base del fenomeno della vita, è talmente grande che gli
consente di raggiungere la libertà. Il fenomeno fisico della vita assume
nell’uomo una particolare configurazione data dal fatto che l’energia libera
aggiunge in lui la possibilità di determinarsi indipendentemente rispetto alla
logica della massa corporea. Per designare tale qualità particolare è stato
coniato dalla mente il termine “anima spirituale” o anche solo “spirito”.
Riferito all’uomo, il termine spirito
designa lo specifico umano, ciò che rende l’uomo un essere fisico ma anche
meta-fisico, se con ciò si intende la capacità di andare al di là della
determinazione fisica e quindi di essere realmente dotati di libertà.
(8) Il legame tra vita umana e libertà appare
dal fatto che per designare il fenomeno fisico della vita il pensiero degli
antichi sia ricorso al simbolo per eccellenza della libertà: l’aria, il vento,
che sono etimologicamente alla radice del termine “anima”.
(9) A eccezione dell’uomo, tutti gli esseri
viventi nell’espressione della loro energia sono determinati dalla massa
corporea. Anche l’energia libera rispetto alla massa corporea che produce il
movimento che chiamiamo vita si esprime comunque in modo necessitato, perché è
la natura che comanda e che guida mediante gli istinti. Da parte dei viventi
non-umani non c’è possibilità di porre qualcosa di imprevedibile, di creativo,
trasgressivo-innovativo. Gli uomini hanno creato la civiltà. Questo surplus
rispetto alla dimensione biologica che abita il fenomeno uomo si chiama libertà se lo si analizza in senso
dinamico,oppure spirito se lo si
analizza in senso ontologico.
(10) L’Io che raggiunge la dimensione dello
spirito-libertà può infrangere la struttura che l’ha generato e che lo mantiene
in vita, superando la forza di gravità biologica e sociale. La può infrangere
nel male e nel bene. Quando l’uomo opera il superamento della logica ordinaria
che lo lega alla struttura nella direzione di un incremento di ordine e di
armonia (fenomeni di cui il linguaggio parla in termini di gratuità,
disinteresse personale, solidarietà, carità) ci si trova in presenza di un
fenomeno sovra-naturale, la cui logica, non contenuta in quanto tale nella
struttura naturale, segnala un diverso livello dell’essere. E l’uomo, che si sa
figlio della terra (la struttura), si scopre anche figlio di un’altra
dimensione, per designare la quale non ha saputo fare di meglio che rimandare
al “cielo”, come fanno le grandi tradizioni spirituali. “Colui che va in fondo
al proprio cuore conosce la sua natura. Conoscendo la sua natura, conosce il
Cielo” (Mencio, maestro confuciano)
(11) La grammatica fondamentale dentro la quale
siamo iscritti da sempre è quella del nostro corpo, costituito dall’intreccio
delle relazioni tra particelle subatomiche, atomi, molecole, cellule, fino
all’insieme dell’organismo pensante e libero. Questa progressiva organizzazione
è possibile perché la legge dell’essere è la relazione armoniosa: è questa la
grammatica fondamentale che ci contiene e che ci compone e se noi “crediamo ancora nella grammatica”
(un modo di dire nietzchiano: “temo che non ci sbarazzeremo di Dio poiché
crediamo ancora alla grammatica”) è perché veniamo da lì. L’apparire della
giustizia e del bene all’interno dell’uomo non piove quindi dall’alto ma sale
dal basso:è la logica fisica della relazione armoniosa che prende
coscienza di sé e si dice ora come
diritto, ora come etica, estetica, religione.
(12) L’intero lavoro della filosofia moderna a
partire da Cartesio si può interpretare come un elaborato tentativo di
verificare l’accordo tra la dimensione interiore (le idee, i concetti, le
convinzioni personali) e la realtà. Mancuso concorda con Kant che la cosa in sé,
l’esterno in sé non potrà mai essere completamente conoscibile a noi. Pensa
però che si possa uscire da sé tramite l’azione. L’azione, che sorge dal cuore
e ci motiva, mette in modo le mani e con esse tocchiamo la realtà. Le mani ci
fanno uscire dall’isola dell’ego, le mani guidate dal cuore. Se la dimensione
dell’essere che si schiude a chi agisce motivato dalla fede che gli sorge dal
cuore incrementa l’organizzazione dell’essere “qui dentro” e “là fuori”, se
cioè l’idea è produttiva in termini di armonia soggettiva e di armonia
intersoggettiva, se l’albero-idea produce frutti-azioni buoni, allora non si
tratta di ua proiezione indebita ma di una proiezione debita, legittima,
autentica. Toccare la realtà in modo certo non è possibile, e però devo
toccarla, devo costruire il ponte tra me e il mondo se voglio vivere. Quindi
devo compiere una proiezione in ogni caso. Posso proiettare lo spirito che c’è
dentro di me nella materia fuori di me dando il primato allo spirito, oppure
proietto la materia che c’è fuori di me nello spirito dentro di me dando il
primato alla materia e al materialismo.
Nella sua intima costituzione l’essere umano non è per nulla
anarchico (privo di arché, inizio,
fondamento, fine), al contrario desidera incontrare qualcosa per cui vivere, la
stella attorno a cui gravitare, la passione fondamentale della vita. La libertà
alla fine non vuole essere perennemente libera nel senso di slegata ma vuole al
contrario donarsi, impegnarsi seriamente, appassionarsi e quindi legarsi. Si
potrebbe dire consacrarsi. Lasciarsi
conquistare dall’incanto della bellezza che traspare dalla natura, da una
città, da una musica, da un volto di donna, da mille altre cose.
Dire “bellezza” e dire “verità” è la medesima cosa, come insegna la filosofia
scolastica con la dottrina dei trascendentali dell’essere secondo cui ens, unum,
verum, bonum et pulchrum
convertuntur. Per “trascendentali”
si intendono quelle proprietà che appartengono a ogni ente per il fatto
stesso che è, e che si distinguono dalle “categorie” che invece esprimono
proprietà peculiari e individue degli enti. Questa prospettiva ontologica
ritiene che tutto ciò che esiste, per il fatto stesso di esistere, sia buono e
sia bello. Si tratta di un grande atto di ottimismo intellettuale, che esprime
una fiducia così assoluta verso la vita da risultare persino un po’ ingenua. Fu
Hans Urs von Balthazar che con la sua “estetica teologica” lottò per rivalutare
la bellezza quale categoria che appartiene all’essere e al suo splendore
esattamente allo stesso modo della verità e del bene. Tommaso d’Aquino e gran
parte della teologia cattolica tradizionale escludevano il pulchrum dai tracendentali dell’essere, perché l’uomo è null’altro
che intelletto e volontà e, in quanto intelletto, coglie l’essere sotto il
trascendentale del verum e in quanto
volontà sotto il trascendentale del bonum.
Ma l’essere umano è anche sentimento, di cui sino a pochi anni fa taluni
insegnanti di teologia guardavano più o meno coma a malattie da cui guardarsi.
E in quanto sentimento all’uomo l’essere si manifesta sotto il trascendentale
del pulchrum. Il sentimento di cui si parla qui non va
limitato ai “sentimenti”, alla dimensione emotiva, ma abbraccia tutto il nostro
sentire, producendo l’estetica, termine che non a caso viene dal greco aisthesis, cioè “percezione coi sensi”.
Hegel insegnava che “la bellezza è solo un genere determinato di
estrinsecazione e rappresentazione del vero”
L’oggetto della bellezza, per gli scolastici, deve avere claritas (deve essere intelligibile), integritas (deve essere completo
rispetto all’idea che vuole esprimere), proportio
(deve essere dotato di armonia tra le parti che lo compongono). Ma questo può
dirsi anche della veritas.
La religione non dogmatica si basa sulla predicazione di
Gesù, è etica, si limita alle fondamentali verità etiche, e si sforza per
quanto è in suo potere di rimanere in buoni rapporti col pensiero. Vuole
realizzare nel mondo parte del Regno di Dio. Si ritiene identica alla religione
di Gesù. La fede non dogmatica come assoluto non pone il dogma ma il bene
concreto. Il suo statuto veritativo non è di tipo dottrinale, ma pragmatico,
quindi molto vicino al pragmatismo, corrente filosofica secondo cui la verità
di una proposizione dipende dalla prassi che genera: “il significato di un
concetto sta nella differenza concreta che per qualcuno produrrà il suo essere
vero”. “La verità di una proposizione consiste nelle sue conseguenze, e più in
particolare nel loro essere conseguenze buone” (William James). Eccoci dunque
al vero criterio: il bene, un bene pratico, concreto, umano, produttivo per la
vita qui e ora. Tale bene è da intendersi sia a livello teorico come idee più
coerenti e più in grado di produrre armonia ed energia vitale positiva
(naturalmente sempre da sottoporre a verifica), sia a livello pratico, come
azioni giuste nella concreta situazione in cui ognuno si trova.
Il cristianesimo identitario
identifica la verità del mondo e della vita con la propria identità, da
intendersi come dottrina garantita dal Magistero della Chiesa. Il cristianesimo
dialogico è quello che concepisce la verità del mondo e della vita come più
grande della propria identità, perché pensa la verità non in termini di statica
dottrina ma come processo dinamico e relazionale sempre in atto, come logica
della vita concreta. Rispetto a tale verità concreta della vita, la propria
identità cristiana è interpretata come
metodo per immettere più armonia e più organizzazione nel processo vitale. Chi
vi aderisce desidera essere prima di tutto e alla fine di tutto un uomo, e interpreta il senso del suo
essere cristiano come finalizzato a essere uomo nel modo più autentico
possibile. Nella prima prospettiva la verità è una dottrina che si professa;
nella seconda, è la logica che incrementa la vita. L’autentica verità cristiana
è ciò che incrementa al meglio la relazione armoniosa in cui consiste la vita,
ed è quindi da intendere sempre in funzione del mondo e della sua evoluzione
creatrice da cui vengono la vita, il pensiero, la libertà; mai, invece, contro
il bene del mondo: “ci riterremo al servizio della volontà divina solo in
quanto promuoveremo in noi stessi e negli altri il bene del mondo” (Kant).
I veri maestri della fede non sono i custodi dell’ortodossia
dottrinale, ma i santi e i giusti.
Nel tempo della postmodernità dove tutto viene discusso e
deve dare pubblicamente ragione di sé, la dottrina con la sua autorità non può
più essere l’orizzonte sotto cui si pensa la verità. La verità deve tornare a
essere pensata nell’orizzonte dell’autenticità. Un’affermazione dottrinale sarà
vera non perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma
ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, anzi di più: perché serve la
vita immettendovi più ordine, più armonia, più bene.
Non si tratta di essere cattolico; si tratta molto più
radicalmente di coltivare una libertà che senza etichette e forzature cerchi di
vivere e pensare la vita alla luce del primato ontologico e morale dell’amore,
con tutto lo spirito di verità e sincerità di cui si è capaci. Questo significa
seguire il messaggio di Gesù.
Né la Chiesa (principio cattolico) né la Bibbia (principio
protestante) sono risultati solidi punti di appoggio per la vita. Si tratta di
realtà esteriori rispetto alla coscienza, e chi consegna loro la sua libertà si ritrova necessariamente
scisso, lacerato, insicuro.