LO GNOSTICISMO ANTICO E MODERNO

 

 

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indice

 

appendice viii – tutte le eresie cristiane dalle origini al grande scisma del 1054

 

 

Informazioni al lettore

Una prefazione e un augurio

Un antico testo mazdeo

La storia del Codice Da Vinci

Il grande pubblico scopre i Vangeli non canonici

I ritrovamenti di Qumran e Nag Hammadi

Il tema del presente discorso: lo Gnosticismo

Qualche cenno introduttivo sui rapporti tra Gnosticismo e pensiero moderno e sulla crescente importanza che vanno rivestendo gli studi sulle dottrine gnostiche.

Avvertenze metodologiche e delimitazione del campo di indagine

Le fonti dello Gnosticismo. Panoramica della letteratura gnostica.

Esposizione di un tipico sistema gnostico dei primi secoli

I sacramenti gnostici

Lo Gnosticismo in sintesi

Il mistero delle origini dello gnosticismo

I caratteri dello Gnosticismo in dettaglio

La gnosi

Dualismo

Il Pleroma e il Pantheon divino

Docetismo

Elitismo e predestinazione

Gli insegnamenti segreti

Il Demiurgo. Acosmismo. Pessimismo.

Gli Arconti

L'assoluta trascendenza della divinità

Le emanazioni o ipostasi o eoni

La creazione dell'uomo e la sua natura

La Teurgia

Il sincretismo

L'interpretazione delle Sacre Scritture. L'allegorismo.

L'etica

Gli angeli

Struttura delle comunità. Rapporti con gli altri gruppi cristiani.

Teurgia e magia nello Gnosticismo e nella Tarda Antichità

Le  descrizioni gnostiche dell'ascesa attraverso le sfere

Il  demone socratico

Il Teurgo

La  Teurgia in Gamblico

Teurgia e sapienza egizia

Le "parole di potenza"

Il testo di un rituale teurgico del IV secolo contenuto in un papiro

Il resoconto di una cerimonia teurgica finita non propriamente bene

Varianti entro lo gnosticismo. Maestri e scuole gnostiche.

Gnosticismo e Cristianesimo ortodosso

I punti di divergenza tra Gnosticismo e Cristianesimo ortodosso

La dottrina del Logos e la figura della Sapienza nelle Sacre Scritture

Il concetto di logos nella filosofia greca

La dottrina del logos in Filone di Alessandria

La Sapienza nella filosofia greca

La Sapienza nelle filosofie ellenistiche

La Sapienza nelle Sacre Scritture

Influssi dello gnosticismo sul cristianesimo

Il pensiero di San Paolo

Il Vangelo di Giovanni e la controversa dottrina del Logos

L'atteggiamento della Chiesa verso la sessualità

Teologia apofatica

Ascetismo e monachesimo

Infiltrazioni di elementi astrali nell'iconografia cristiana

Particolari sistemi gnostici

Il sistema di Marcione

Il sistema di Mani

I principali testi gnostici

Il  Vangelo di Tommaso

Il Vangelo di Filippo

Il Vangelo della Verità

Il Libro di Giovanni Evangelista

Il Vangelo di Giuda

La storia di Pistis Sophia

Il Libro di Enoch, il Libro dei Vigilanti, il Libro dei Giubilei

Immagini e simboli gnostici

Gnosi, catarsi, salvezza misterica, estasi nell'antichità e nel cristianesimo delle origini

Definizioni di gnosi

I vangeli gnostici fanno riferimento ad espressioni dei vangeli canonici che adombrano l'esistenza di insegnamenti segreti

Socrate e la conoscenza di sé

I  misteri antichi

Orfismo

Oracoli Caldaici

Mithraismo

Neopitagorismo

Neoplatonismo

Giamblico

Rapporti tra la gnosi cristiana e la dottrina di Plotino

La conoscenza immediata di Dio in Filone

Il Corpus Hermeticum

Lo Gnosticismo e le principali correnti di pensiero dell'epoca

L'ellenismo. Alessandria d'Egitto.

Zoroastrismo

I Parsi

Zurvanismo

Nazirei

Esseni

Gnosticismo e pensiero indiano ortodosso

Veda, Vedanta e Upanishad

Agostinismo e Gnosticismo

Astrologia tardoantica. Teurgia.

Cosmologia mesopotamica

L'astrologia tardoantica

La rinascita culturale europea a contatto con le fonti arabe

La ripresa dell'astrologia pagana nei secoli dodicesimo e tredicesimo

La teoria del microcosmo alla base della astrologia

La lotta della chiesa contro le religioni astrali

Il giudaismo ellenizzante. Filone di Alessandria.

Neoplatonismo

Ermetismo

La fine dello gnosticismo e i suoi prolungamenti in epoca medievale

Mandei

Ismailiti e Sciiti

La setta degli assassini

Premesse storiche

Il patto eterno di fedeltà, il ciclo della profezia e il ciclo dell'imamato

Definizione  e distinzioni tra sciismo duodecimano, ismailismo fatimida, ismailismo di Alamut

Caratteri  distintivi dell'ismailismo rispetto allo shiismo

Le tradizioni sul senso segreto delle scritture cui si rifà lo sciismo

Intelletto attivo e intelletto passivo in Aristotele e nei commentatori successivi

La gnosi ismailita e la teoria dell'intelletto  agente

Il corpus dottrinale sciita e ismailita

Legami dell'ismailismo con la gnosi antica

I miti ismailiti sull'origine del Cosmo omologhi ai miti gnostici

Bogomili

Catari

Rinascita dell'astrologia tardoantica nel medioevo

I percorsi di emersione dello gnosticismo in epoca moderna e contemporanea

Gnosticismo e "radici dell'Europa", con un intervento di Umberto Eco

Omens of millennium: la "nuova religione americana" secondo Harold Bloom. Il nuovo "gnosticismo protestante"

Il channeling

Gnosticismo e riscoperta del pensiero tardoantico

Gnosticismo e nichilismo contemporaneo.

Il nichilismo nell'Ottocento

Nietzsche e il nichilismo

Il dopo-Nietzsche e Heidegger

Nichilismo e "gnosi"

Gnosticismo e periodi di crisi: l'interpretazione esistenziale di Hans Jonas

Gnosticismo e ricerca neotestamentaria odierna

Rudolf Bultmann e la "demitizzazione". Elementi mitologici nel Cristianesimo.

Gesù come apocalittico ebraico

Il concetto di “ortodossia” ed “eresia” nel mondo cristiano delle origini

Le difficoltà logiche del dogma trinitario e della doppia natura del Cristo

Jung gnostico

La psicologia di Jung

Jung e lo gnosticismo

Jung e l'alchimia

Le chiese gnostiche contemporanee. Gnosticismo e occultismo.

La chiesa gnostica di Jules Doinel

Il dopo-Doinel in Francia

La Chiesa Gnostica Cattolica

Il significato delle Ecclesiae Gnosticae Catholicae

Ordine del Pleroma - Ecclesia Gnostica - Ecclesia Gnostica Mysterorum

Le chiese gnostiche oggi

Francesco Brunelli e la Chiesa Gnostica Italiana

Il nuovo gnosticismo in California

Michael Bertiaux e la Ecclesia Gnostica Spiritualis

Armand Toussaint e la Eglise Rosicrucienne Apostolique

Samael Aun Weor e il Movimento Gnostico

Gnosticismo e massonerie di frangia

Gnosticismo e occultismo

Gnosticismo, demonologia e riflessione contemporanea sul problema del male

Il problema del male nell'Antico Testamento e la risposta gnostica

Gnosticismo e antinomismo

Vampiri e Gnosticismo

 

appendice i - bibliografia essenziale

appendice ii - lessico di filosofia antica

appendice iii - il catechismo dell'ecclesia gnostica catholica

appendice iv - piccola antologia di brani gnostici

appendice v - altre importanti eresie dei primi secoli del cristianesimo

appendice vi - i septem sermones ad mortuos di jung (versione inglese)

appendice vii - fotografie di simboli e monumenti bogomili

appendice viii – tutte le eresie cristiane dalle origini al grande scisma del 1054

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Informazioni al lettore

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Il materiale qui pubblicato amplia notevolmente il testo della conferenza tenuta a Torino, nel mese di Giugno, presso le Molinette, dal titolo "Il ritorno dello Gnosticismo".

Piuttosto che una pura trascrizione di quanto detto in quella sede, qui si troverà una raccolta di materiali, sia dell'autore della conferenza, sia provenienti da una varietà di fonti selezionate, in parte tradotti da testi di lingua inglese non facilmente accessibili al pubblico italiano.

 

 

 

Una prefazione e un augurio

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"Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro"

(Giustino Martire, Prima Apologia)

 

 

Giustino subì il martirio non molto dopo aver scritto la sua Apologia. Si noti che non parla di cristiani ingiustamente odiati e perseguitati, come avrebbe potuto fare, ma degli uomini di ogni stirpe. La sua speranza era quella di un mondo in cui fedi ed idee potessero convivere pacificamente senza divenire radici di odio e di divisione. E questa è anche la speranza di chi scrive, nel momento in cui si accinge ad esporre le idee che hanno guidato la vita e le azioni di un gran numero di uomini antichi, gli gnostikoi, i figli della Luce e dello Spirito.

 

 

 

Un antico testo mazdeo

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In un piccolo manuale mazdeo in lingua pahlavi, apparte­nente al IV secolo della nostra era, si trova una confessione di fede che appare, in forma molto simile, in un'antica opera gnostica, il Vangelo di Tommaso. Il testo, destinato ad essere recitato in presenza del fedele che ha raggiunto il quattordicesimo anno di età, inizia con un quesito:

 

"Chi sono io e a chi appartengo? Da dove sono venuto e dove ritornerò? Di quale stirpe e di quale razza faccio parte? Qual è dunque la mia vocazione personale, nella forma di esistenza terrestre? Sono venuto dal mondo celeste, oppure è nel mondo terrestre che ha avuto inizio il mio essere? Appartengo a Ohrmazd o ad Ahriman? Agli Angeli o ai Demoni?".

 

Ecco la risposta:

 

"Io provengo dal mondo celeste, non è nel mondo terrestre che ho cominciato a essere. Sono stato originariamente manifestato nello stato spirituale, il mio stato originario non è lo stato terrestre.

Appartengo a Ohrmazd, il Signore Saggezza, non ad Ahriman, lo Spirito del Male e delle Tenebre; appartengo agli Angeli, non ai Demoni.

Sono la creatura di Ohrmazd, non la creatura di Ahriman. La mia stirpe e la mia razza discende da Gayomart, l'Uomo primordiale. Ho per madre Spandarmat, l'Angelo della Terra, ho per padre Ohrmazd.

Il compimento della mia personale vocazione consiste in ciò: pensare Ohrmazd come Esistenza presente, da sempre esistente, per sempre esistente. Pen­sarlo come Sovranità immortale, come Illimitatezza e come Purez­za.

Pensare Ahriman come Negatività pura, che svanisce nel nulla, come lo Spirito Malvagio che un tempo non esistette in questa Creazione, ma che un giorno cesserà di esistere nella Creazione di Ohrmazd e nel Tempo finale si inabisserà.

Con­siderare il mio intimo io appartenente a Ohrmazd e agli Arcangeli" .

 

Queste poche frasi, molto semplici e tuttavia decisive, ci informano che il momento della nascita e quello della morte, registrati con tanta solerzia dai nostri registri di stato civile, non sono il nostro assoluto inizio e nemmeno la nostra assoluta fine; ci dicono che il tempo, così come concepito da noi generalmente, come una linea che si prolunga indefinitamente e si perde nelle nebbie del passato e dell'avvenire, ha in realtà anche una dimensione verticale, che fissa l'altezza luminosa di un essere, o, al contrario, la sua profondità tenebrosa.

 

 

 

La storia del Codice Da Vinci

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Nel 2003 la casa editrice Doubleday pubblicava il decimo libro di Dan Brown, un brillante autore di smart thriller di discreta tiratura. Lo smart thriller è un genere di romanzo d'azione ambientato in scenari insoliti: laboratori all'avanguardia costruiti nell'Artico per studiare antichi meteoriti che custodiscono il segreto della vita; piani sotterranei di agenzie di spionaggio che ospitano i supercomputer utilizzati dall'intelligence americana per spiare la vita di milioni di persone; i laboratori del CERN di Ginevra; la Biblioteca Vaticana. Quest'ultima ambientazione aveva già introdotto il personaggio dello studioso di simbolismo Robert Langdon: il romanzo si intitolava Angels and Demons che, scritto sei anni prima del Codice da Vinci, ebbe scarsa notorietà.

Inaspettatamente, il Codice Da Vinci rimase al primo posto della classifica dei best-seller del New York Times per tre anni consecutivi, e un numero enorme di persone lo lesse. Nel libro un curatore del Louvre viene ucciso perché conosce la verità su Gesù contenuta nei vangeli non canonici o apocrifi: Gesù si era sposato con Maria Maddalena e ne aveva avuto un figlio. Questo lignaggio si era perpetuato fino all'epoca attuale e il lettore scoprirà alla fine del libro che Sophie Niveau, la giovane studiosa che aiuta Langdon nelle indagini che lo portano a sventare le losche trame di frange deviate dell'Opus Dei (una organizzazione cattolica semi-segreta effettivamente esistente) è in realtà, insieme a suo fratello, la diretta discendente di Cristo. Il Santo Graal non è altro che il simbolo trasparente del grembo della Maddalena, che custodisce la preziosa discendenza di Cristo.

In realtà, duole dire che secondo l'opinione della maggior parte degli esperti dell'argomento, quasi tutto ciò che l'autore dichiara essere frutto "di accurata descrizione di documenti storici" è falso: nessun vangelo registra il matrimonio di Cristo con Maria Maddalena, non esistono ottanta vangeli non canonici, e Costantino non ebbe niente a che fare col formarsi del canone neotestamentario.

 

 

 

Il grande pubblico scopre i Vangeli non canonici

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In una cosa però il Codice Da Vinci è storicamente accurato: circa la esistenza di numerosi vangeli non canonici.

Questa notizia ebbe il potere di elettrizzare il grande pubblico e di accendere i riflettori sulle scoperte più recenti riguardanti le Scritture non-canoniche, prima confinate nella cerchia degli eruditi.

In realtà, già nel 1979 la studiosa americana Elaine Pagels aveva già parlato in un suo libro dei più misteriosi e controversi dei vangeli non canonici: The Gnostic Gospels, i vangeli gnostici. Si trattava di una lettura affascinante ma destinata ad un pubblico colto e dalla curiosità intellettuale sofisticata.

Con Il Codice Da Vinci si risvegliò l'interesse del lettore comune su cento anni di ricerca sul Cristo storico, portata avanti con gli strumenti sofisticati della critica testuale e dell'archeologia. La critica biblica, a partire dall'inizio del Novecento aveva fatto un notevole percorso sulla via della storicizzazione e della demitizzazione della figura del Cristo, grazie a studiosi straordinari come Walter Bauer, Rudolf Bultmann, Albert Schweitzer, Jean Danielou, Paul Tillich, Karl Barth, Rudolf Otto, per citarne solo alcuni. Un secolo di ricerca aveva prodotto risultati straordinari, che erano perlopiù ignoti al grande pubblico.

Sarà Bart Ehrman, professore all'Università del North Carolina ed esperto riconosciuto di fama mondiale della critica testuale neotestamentaria a scrivere un altro libro importante e filologicamente rigoroso: Truth and Fiction in the Da Vinci Code (trad. it. La verità sul Codice da Vinci). In una straordinaria e fortunatissima serie successiva di libri, tra cui Misquoting Jesus (trad. it. Gesù non l'ha mai detto), Lost Christianities, The Orthodox Corruption of Scripture, Jesus Interrupted, God's Problem e altriEhrman portava a conoscenza del grande pubblico dei risultati della critica neotestamentaria anglosassone, largamente sconosciuti nei paesi cattolici.

Contemporaneamente un'altra serie di studiosi era venuta pubblicando importanti lavori sui più interessanti tra i vangeli non canonici, i cosiddetti Vangeli Gnostici, che comprendono i testi copti del Vangelo della Maddalena, del Vangelo di Tommaso, del Vangelo di Maria, del Vangelo della Perla e di altri apocrifi che dichiarano di svelare aspetti segreti della dottrina insegnata da Gesù.

Nel 2000 la Maecenas Foundation for Ancient Art acquista il Codice Tchacos, 66 pagine in copto che contengono il Vangelo perduto di Giuda. Finanziato dal National Geographic, un team di studiosi studia questo testo e ne appronta una traduzione, che viene pubblicata nel 2006.

 

 

 

I ritrovamenti di Qumran e Nag Hammadi

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Contemporaneamente, per una serie di vicende non meno romanzesche, giungevano alle stampe, dopo quarant'anni di dispute accademiche e territoriali, i risultati di tre straordinari ritrovamenti papirologici avvenuti in Egitto: quello dei papiri di Qumran, che svelavano i riti e le credenze della setta degli Esseni; quello della biblioteca gnostica di Nag Hammadi, e infine l'ultimo, risalente al 2006, di uno straordinario testo gnostico, il Vangelo di Giuda, menzionato nelle opere antieretiche dei Padri della Chiesa ma che era andato perduto.

Come si è detto, le vicende dei ritrovamenti sono alquanto romanzesche. Cominciamo con quelle riguardanti Qumran.

Nel 1947 il pastore Al Dib perde una pecora. La cerca ovunque, disperato, finché sente un belato lontano. Cercando tra i rovi, la ritrova in una grotta, dove rinviene dei vasi rotti, che conservano dei rotoli di pergamena. Ne raccoglie qualcuno, lo porta a casa e, per saperne qualcosa, offre questo rotolo al vescovo siro-ortodosso di Gerusalemme Baratanasius, il quale, capito che si tratta di un antichissimo testo della Scrittura lo compera e si accorge di essere in possesso di un antichissimo testo di Isaia. Lo rivende allo Stato di Israele. Americani vengono subito in Israele per cercare eventuali altre grotte o altri reperti nella stessa grotta già scoperta. Nel 1951 scoprono anche il convento dove questa comunità di Esseni viveva, a Hirbet Qumran. Nel 1952, guidati dai beduini, scoprono la seconda e la terza grotta, e quindi le altre, e trovano in ciascuna molti manoscritti che ci permettono oggi di sapere qualcosa di più sugli Esseni.

Nel dicembre del 1945 un contadino arabo fece una sorprendente scoperta archeologica nell'Alto Egitto. Le voci oscurarono le circostanze di questa scoperta, forse perché era stata accidentale, e la sua vendita nel mercato nero era illegale. Per anni persino l'identità dello scopritore rimase sconosciuta. Si diceva che era stato coinvolto all'epoca in una faida di sangue; altri dicevano che aveva fatto la scoperta vicino la città di Nag Hammadi, vicino a Jabal al-Tārif, una montagna che racchiudeva almeno 150 caverne. Originariamente naturali, alcune di queste furono scavate e dipinte e usate come sepolture sin dalla sesta dinastia, 4300 anni prima di Cristo.

Trent'anni dopo lo scopritore in persona, Muḥammad ‘Alī al-Sammān, narrò la storia di quanto era avvenuto. Quel giorno avevano sellato i cammelli e si erano recati al monte Jabal per scavare la sabakh, un terriccio che usavano come fertilizzante. Scavando nei pressi di un grosso masso, le loro vanghe colpirono una giara rossa di un metro di altezza. Muhammad esitò a romperla, per paura che vi fosse annidato un jinn malefico. Ma pensando che potesse contenere oro, colpì la giara scoprendo al suo interno tredici libri in papiro, rilegati in cuoio. Ritornato a casa sua ad al Qasr, gettò i papiri accanto alla stufa e sua madre, Umm-Ahmad ne ammette di averne usato una gran parte per accendere il fuoco.

Poche settimane dopo, racconta Muhammad, lui e i suoi fratelli avevano seguito l'assassino del loro padre e avevano vendicato col sangue il loro genitore, facendolo a pezzi il colpevole e mangiandone il cuore. Temendo che la polizia potesse perquisire la loro casa e scoprire i libri, li affidarono al prete locale, al-Qummuṣ Bạsīlīyus Abd al-Masīḥ. Raghib, un insegnante di storia del posto, aveva esaminato uno dei libri e sospettava che avessero un grande valore. Se ne fece dare uno e lo inviò ad un amico al Cairo per farlo valutare.

Venduto al mercato nero dei manufatti antichi del Cairo, il manoscritto presto attrasse l'attenzione dei funzionari del governo egiziano. Attraverso circostanze rocambolesche essi acquistarono un codice e confiscarono dieci dei libri, depositandoli nel museo Copto del Cairo. Ma il tredicesimo codice, che conteneva cinque testi straordinari, fu contrabbandato fuori dell'Egitto e venduto negli Stati Uniti. La notizia giunse alle orecchie di Gilles Quispiel, docente di storia delle religioni a Utrecht, in Olanda. Eccitato dalla scoperta, Quispiel convinse la fondazione Jung di Zurigo ad acquistare il codice. Ma alcune pagine mancavano. Quispiel volò in Egitto nella primavera del 1955 e provò a cercarle nel museo Copto del Cairo. Ne fotografò i testi e ritornò al suo albergo per decifrarli.

Scorrendo la prima riga egli lesse incredulo: "Queste sono le parole segrete che Gesù, in vita, pronunciò, e che il suo fratello gemello, Giuda Tommaso, trascrisse". Quispiel sapeva che il suo collega Henri-Charles Puech, utilizzando il lavoro di un altro storico, Jean Doresse, aveva identificato questo incipit come appartenente al Vangelo di Tommaso, scritto in greco e di cui frammenti erano stati scoperti e pubblicati nel 1890.

La scoperta del testo integrale sollevò molte domande: Gesù aveva un gemello? Era possibile che il resoconto delle sue parole fosse autentico? Il testo, a differenza di quelli canonici, si autodefiniva vangelo segreto: cosa voleva dire? Quispiel scoprì ben presto che conteneva molti passaggi già conosciuti del Nuovo Testamento, ma essi, posti in un contesto diverso, suggerivano altri significati. Altri passaggi, trovò Quispiel, differivano totalmente da ogni altro conosciuto fino ad allora, e somigliavano piuttosto, nella loro enigmaticità a koan dello zen: "Gesù disse: 'Se portate fuori ciò che è all'interno di voi, ciò che portate fuori vi salverà. Se non portate fuori ciò che è all'interno di voi, quel che non porterete fuori vi distruggerà' ". Il testo che Quispiel aveva in mano era solo uno dei cinquantadue scoperti  a Nag Hammadi, e tutti insieme costituivano una delle più incredibili scoperte archeologiche di tutti i tempi.

 

 

 

Il tema del presente discorso: lo Gnosticismo

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Eccoci arrivati al nostro tema: la biblioteca di Nag  Hammadi è una biblioteca gnostica, e lo Gnosticismo è l'eresia forse più importante – certamente quella sentita come più pericolosa – che si sono trovati a fronteggiare i padri della Chiesa. Il fascino dello gnosticismo risiede nella duplice circostanza che si tratta di un credo completamente estinto dalla voce della chiesa ufficiale e al contempo una dottrina radicalmente diversa da quella che siamo soliti associare alla pratica e alla teologia cristiana.

Dal 6° volume dell'Enciclopedia Cattolica, edito da Appleton a New York leggiamo:

gnosticismo: "Nome collettivo di un gran numero di sette molto differenti tra loro, che fiorirono in un periodo compreso tra poco prima dell'era cristiana e il quinto secolo di tale era, che consideravano la materia una corruzione dello spirito, e l'intero universo una degradazione della divinità, e insegnavano che il fine ultimo di tutti gli esseri era il superamento della rozzezza della materia e il ritorno allo spirito-padre, al Pleroma, ritorno che consideravano inaugurato e facilitato dall'apparizione di un Salvatore inviato da Dio.

gnosi: categoria dell'esperienza umana che si riferisce ad una visione diretta e intuitiva, salvifica, liberatoria e divinizzante, delle verità nascoste dell'anima individuale, dell'universo e del loro destino.

neo-gnosticismo: insieme di movimenti che in epoca moderna, a partire dalla fine dell'Ottocento, si sono richiamati ai miti, a riti, all'etica e alla cosmologia degli antichi gnostici

Lo status dello Gnosticismo è in qualche modo cambiato, a seguito degli studi neotestamentari del secolo scorso: da eresia a forma di cristianesimo alternativo; da credo bizzarro e demoniaco, quale veniva dipinto dai primi apologeti cristiani, a possibile chiave interpretativa di una parte del pensiero moderno; da dottrina scomparsa nelle sabbie del tempo a insieme di credenze che attraverso una serie numerosa e stupefacente di canali arriva a far sentire la sua influenza fino alle soglie dell'età moderna e oltre.

 

 

 

Qualche cenno introduttivo sui rapporti tra Gnosticismo e pensiero moderno e la crescente importanza degli studi sulle dottrine gnostiche.

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Lo Gnosticismo è oggetto di una intensa attività di studio. La sua importanza non è sfuggita a filosofi del calibro di Hans Jonas, a storici delle religioni quali Giovanni Filoramo, Jean Doresse, Charles-Henri Puech, A. J. Festugiére; Mircea Eliade, Gershom Scholem, Gherardo Gnoli, Henri Corbin, a critici letterari e culturali come Harold Bloom; in passato se ne erano occupati nomi importanti come G.R.S Mead, cofondatore della Società Teosofica, e il grande Ernest Renan.

Oggi gli studi sullo Gnosticismo proseguono con alacrità, ad opera di numerosi studiosi di alto livello, tra cui Bart Ehrman, Marvin Meyer, David Brakke, Elaine Pagels, Gilles Quispiel, Michael Greer, Birger Pearson, Hartmut Stegemann, Bruce Chilton, Karen King, Steven Davies e altri eminenti specialisti.

L'importanza del pensiero gnostico per la conoscenza del tardo ellenismo non potrà mai essere sufficientemente sottolineata. Lo Gnosticismo fa parte di una famiglia di sistemi sincretistici affini che hanno caratterizzato la cultura alessandrina del tardo impero romano: ermetismo, medio e tardo neoplatonismo, neopitagorismo, alchimia, giudaismo ellenizzante. Con esso sta venendo riscoperta tutta una porzione di pensiero tardoantico, un vasto affresco che comprende il culto degli astri messo in luce da Boll, Usener, Cumont e Saxl; le scoperte papirologiche di Nag Hammadi e del vangelo gnostico di Giuda; gli studi più recenti sul tardo neoplatonismo, la teurgia e le religioni misteriche dell'antichità e la loro connessione con il Rinascimento, ad opera di studiosi come Ioan Couliano, Anita Seppilli, Algis Uzdavinys, John Finamore, David Walker ed altri.

Lo Gnosticismo nella filosofia contemporanea compare in stretta associazione col tema del nichilismo, centrale nella riflessione di Martin Heidegger, Karl Jaspers, Jean Paul Sartre, Carl Schmitt, Emile Cioran e numerosi altri. Ma, con l'importanza che attribuisce alla conoscenza dell'essere o ontologia, può anche essere considerato vicino, come nota Jonas, alla ripresa di tali studi ad opera di Heidegger e dei suoi numerosi seguaci. Non pochi degli studiosi menzionati, come Jonas, Schmitt e Cioran hanno dedicato espressamente degli approfondimenti alla concezione gnostica.

Nell'ambito di un pensiero teologico che, anche di fronte alle atrocità dei conflitti contemporanei si interroga sulle radici e sul problema del male, la posizione degli gnostici è stata studiata con interesse, e confrontata con le altre teodicee elaborate per giustificare la presenza dell'ingiustizia e della sofferenza.

Nel campo affine della psicologia del Sé, Jung (per tacere di altri capiscuola, come Maslow) ha dedicato allo gnosticismo e all'alchimia una serie di notevoli approfondimenti, e ha scritto su tali argomenti opere famose, come Psicologia e Alchimia, e meno note, come i Septem Sermones ad mortuos, scritti a 42 anni in un momento particolare della vita e messi in bocca al maestro gnostico Basilide.

Testi e rituali gnostici sono utilizzati sin dagli inizi del secolo scorso in ambito massonico nella pratica "operativa" di logge e cerchie esoteriche ristrette, come in Italia avvenne con il Gruppo di Ur di Julius Evola e Arturo Reghini negli anni Venti.

E' dalla fine dell'Ottocento che data la creazione delle prime "chiese gnostiche" che sono andate moltiplicandosi nel corso del secolo successivo.

Sull'infiltrazione dello gnosticismo nella società, nella religione e nella vita spirituale in una America contemporanea che sta virando dal vecchio puritanesimo al sincretismo di stampo gnostico sono stati scritti notevoli studi ad opera dell'influente pastore Philip J. Lee, di Robert Bellah, e di Harold Bloom, che definisce lo gnosticismo "religione dell'America", di una America che si dedica al culto degli angeli, al channeling, allo studio delle esperienze di pre-morte, alla kabbalah, all'interpretazione mistica dei sogni.

Quanto all'Europa, il revival del catarismo e di gruppi neocatari, inaugurato dalle appassionate ricostruzioni storiche del giovane Otto Rahn ha una parte non piccola nell'ambito del risveglio di nuove spiritualità.

Come già detto, la riscoperta e l'analisi dei vangeli gnostici si va ad inserire proprio al centro degli attuali studi sul Nuovo Testamento, diretti a stabilire il volto storico e gli effettivi insegnamenti di Gesù. La tesi provocatoria di Walter Bauer, che il cristianesimo ortodosso non fosse, nei primi secoli, che una delle tante correnti in competizione per ottenere il controllo delle comunità cristiane e che i suoi insegnamenti non sono "gli originari insegnamenti di Gesù", ma si sono venuti a costituire dopo un lungo processo di riflessione teologica, non cessa di scatena re ancora oggi accanite polemiche tra studiosi cattolici e protestanti. Lo statuto dello Gnosticismo ne risulta decisamente rivalutato, da deviazione eretica a lettura alternativa del messaggio cristiano, avente la stessa legittimità di quella ortodossa.

I legami dello gnosticismo con l'ismailismo e lo sciismo, due correnti "eretiche" esistenti ancor oggi – in particolare la seconda, che è la religione ufficiale dell'Iran – sono stati approfonditi da una serie di studi eccezionali portati avanti da Henri Corbin a partire dalla metà del secolo scorso, che sono culminati nei due capolavori Storia della filosofia islamica e Corpo spirituale e Terra celeste: dall'Iran mazdeo all'Iran sciita. Quanto questo sia importante per la comprensione della cultura islamica nell'ambito di un dibattito interconfessionale e multietnico non sarà necessario rimarcare.

Il confronto con lo Gnosticismo costrinse il cristianesimo ortodosso a precisare e definire la sua dottrina, e fu quindi il motore fondamentale dello sviluppo della Chiesa cattolica e delle sue credenze. Come vedremo, numerosi elementi del cristianesimo richiamano lo Gnosticismo, per chiara contrapposizione o come tracce di pensiero gnostico che sono rimaste nel pensiero dei Padri della Chiesa e in pratiche come il monachesimo orientale dei primi secoli.

Anche il pensiero neoplatonico di Plotino non poté non misurarsi e definirsi in un confronto con lo Gnosticismo.

Il recente dibattito sulle "radici dell'Europa" che ha circondato la redazione della bozza della Costituzione Europea del 2005, con la polemica sulla proposta di inserire un riferimento alle "radici cristiane" chiama in causa anche lo gnosticismo, come una delle correnti che a lungo è stata presente e operante nello sviluppo della civiltà occidentale.

Da ultimo, il moltiplicarsi di culti di stampo luciferiano o satanista e gli studi che sono stati ad essi dedicati hanno portato in luce le possibili radici gnostiche (tra le altre) di tali credenze e pratiche.

Ma a prescindere dal loro valore filosofico o teologico, i testi gnostici hanno un notevole valore poetico e letterario, che ha attirato l'attenzione di estimatori come Geno Pampaloni e Dario Fo, per non citare che nomi italiani. Un fascino profondo è esercitato dalla visione gnostica della vita come lotta senza quartiere con le potenze delle tenebre nel quadro di un conflitto cosmico.

 

 

 

Avvertenze metodologiche e delimitazione del campo di indagine

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Le forme della riemersione delle gnosticismo nella nostra epoca, e più in generale le tracce del pensiero gnostico sono numerosissime e impossibili da analizzare tutte. Sarà necessario limitarci a quelli che sono gli aspetti più significativi.

Gli stessi sistemi gnostici sono in numero incredibilmente diverso e variato. Cercheremo di individuare un denominatore comune e di esporne qualcuno nel dettaglio.

Non verrà accolta qui la distinzione fatta da taluni tra Gnosticismo e Manicheismo, perché sono affini e condividono lo stesso destino culturale.

Dopo la fine del medioevo le tracce dello gnosticismo si perdono in Occidente, e sarà giocoforza allargare il campo di indagine al concetto più comprensivo di gnosi. Si cercherà comunque di limitarsi non ad un qualsiasi sistema che presenti l'intuizione mistica come mezzo di conoscenza dell'universo e della divinità, ma a quei sistemi che, come quello gnostico antico, sono caratterizzati da una stretta ed essenziale connessione tra gnosi, dualismo e acosmismo (universo materiale creato da una divinità malvagia).

Va infine notato, che Gnosticismo non è nichilismo, e se tratteremo di quest'ultimo fenomeno, sarà per lumeggiare le connessioni e le differenze, pur mantenendolo ben distinto dallo Gnosticismo.

 

 

 

Le fonti dello Gnosticismo. Panoramica della letteratura gnostica.

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Completando l'elenco dei testi di Nag Hammadi con altre notizie pervenuteci dalla patristica, si può tracciare il seguente quadro della letteratura gnostico-cri­stiana:

 

Sophia di Gesù

 

I) Ms già noto fin dal 1896: Papyrus Berolinensis 8502 (sec. v).

2) Ms nel Codice I della biblioteca di Nag Hammadi, Cairo (sec. IV).

È una dissertazione dottrinale sulla vera struttura dell'universo, sull'economia della salvezza, sulla provvidenza (divina, ecc.; dissertazione tenuta da Gesu, apparso dopo la resurrezione, ai dodici discepoli e a sette donne su di un monte della Galilea, rispondendo alle domande che gli pongo­no Filippo, Tommaso, Mattia, Bartolomeo e Maria Maddalena.

 

Epistola di Eugnosto.

 

Ms nel Codice I della biblioteca di Nag Hammadi (sec. IV).

Ha l'identico contenuto della Sophia di Gesù, in forma di lettera anziché di conversazione. Eccetto W. C. Till, il quale considera l'Epistola una derivazione dal­Ia Sophia I, tutti gli altri studiosi sono della opinione che, al contrario, la Sophia sia una forma dialogata della Epistola 2.

 

Dialogo del Redentore.

 

Ms nel Codice I della biblioteca di Nag Harnmàdi (sec. IV).

Il testo, in cattive condizioni e mutilo in più parti, tuttora sotto studio, contie­ne una dissertazione di Gesù su problemi cosmologici, antropologici e soteriologici

 

Pistis Sophia.

 

Ms Add. 5II4 (Codice Askew), Londra, British Museum (sec. IV).

È un insieme di quattro libri, di cui i primi tre costituiscono un'unica opera: il Cristo risorto, dopo aver ancora trascorso undici anni coi discepoli, nel dodicesimo appare loro in una luce abbagliante, tra canti e suoni e inni angelici, e rivela il mi­stero della caduta dell'anima umana nella materia, l'origine del male, la necessità del ritorno alla Luce di Dio, il destino degli Arconti (le potenze del male). Il quarto libro ripete argomenti già trattati prima, ambientando il discorso di Gesù, il giorno dopo la resurrezione, prima sulle sponde dell'Oceano (dove Gesù prega usando for­mule magiche) e poi in «un'aerea regione» lumi­nosa e su di un monte della Galilea.

 

Libri di Jeu.

 

Ms Bruce 96, Oxford, Biblioteca Bodleiana (data incerta).

È un trattato didattico, in due libri, in cui Gesù spiega ai discepoli come da Ieu (il «vero Dio »), uscito dal grembo del Padre, siano procedute ventotto emaI»­zioni (nominate e descritte ad una ad una); poi illustra le tre forme di battesimo coll'acqua, col fuoco, con lo Spirito Santo) e descrive l'ascesa delle anime dei discepoli, purificati e salvati, attraverso gli eoni del mondo superiore.

 

Libro del Grande Spirito Invisibile.

 

Ms nel Codice I e di nuovo nel Codice VIII della biblioteca di Nag Hammadi. Nel contesto è anche chiamato Vangelo degli Egiziani, ma non ha nulla a che vedere con l'omonimo Vangelo citato dai Padri. E' una dissertazione sul mondo della Luce e delle entità superiori, a cui appartengono anche gli gnostici "perfetti".

 

Vangelo della Verità .

 

Ms nel Codice jung; Zurigo, proveniente da Nag Hammadi (sec. IV).

Non è in realtà un Vangelo ma piutto­sto un'Omelia .

 

Vangelo della Perfezione.

 

Conosciamo appena il titolo da Epifanio, Panarion XXVI 25.

 

Vangelo dei Quattro angoli del mondo.

 

Abbiamo di esso solo la seguente testimonianza del vescovo arabo Mariità del IV secolo: «Questi perfidi [i seguaci di Simone Mago] hanno fabbricato per se stessi un vangelo che, diviso in quattro volumi, hanno chiamato Libro dei quattro angoli o cardini del mondo».

 

Vangelo di Eva.

 

Ne fa cenno Epifanio, Adv. Haeres. XXVI 2.

 

Vangelo di Maria.

 

I) Ms copto (incompleto) nel Papyrus Berolinensis 8502 (sec. V).

2) Ms greco (gli ultimi capitoli), Manchester, Cod. Rylands 463 (sec. III).

Maria Maddalena conforta i discepoli di Gesù e riferisce loro una rivelazione avuta da Gesù, secondo la quale alla visione di Dio non si giunge con l'anima, né con lo spirito, ma con l'Intelletto. Incredulità di Pietro e di Andrea che il Salvatore abbia fatto a una donna e non a loro tale rivelazione. Levi li biasima: dovrebbero piuttosto vergognarsi di essere stati amati da Gesti meno di Maria Mad­dalena.

 

Interrogazioni di Maria.

 

Ne fa cenno Epifanie, Adv. Haeres, XXVI 8.

 

Vangelo di Filippo.

 

Ms nel Codice III della biblioteca di Nag Hammadì (sec. IV).

 

Vangelo di Giuda .

 

Lo nominano Ireneo, Adv. Haeres, XXXI I, ed Epifanio Adv. Haeres. XXXVIII I, attribuendolo ai cainiti, setta gnostica che avrebbe - a loro dire - giustificato sia il fratricidio di Caino sia il tradimento di Giuda come atti indispensabili, e previsti da Dio, per la caduta e conseguente salvezza dell'umanità. Giuda sarebbe stato, quindi, strumento della salvezza, per cui i cainiti celebravano il mysterium proditionis

 

Vangelo di Mattia.

 

Ms nel Codice III della biblioteca di Nag Hammadi (sec. IV).

Già citato da Origene, Hom. I in Lucam, da Eusebio, Hist. Eccl. 11125,6-7, e dal Decretum Gelasianum, finora gli studiosi erano per lo più del parere che si do­vesse identificare con le Tradizioni di Mattia, di cui si conoscevano alcune poche citazioni in Clemente Alessandrino, Stromata Il 9; 1114; IV 6; VII 13, 17. Il testo di Nag Hammadi, ora allo studio, risolverà la questione.

 

Vangelo di Tommaso.

 

Ms nel Codice III della biblioteca di Nag Hammadi (sec. IV).

 

Libro di Tommaso l'Atleta.

 

Ms nel Codice III della biblioteca di Nag Hammadi (sec. IV).

E' un dialogo tra il Cristo risorto e Tommaso, attualmente ancora allo studio.

 

Apocrifo di Giovanni.

 

Ms nel Papyrus Berolinensis 8502 (sec. v).

Ms nel Codice I della biblioteca di Nag Hammadi (sec. IV).

Ms nel Codice III e di nuovo nel Codice VIII della biblioteca di Nag Hammadi (sec. IV), in redazione più ampia della precedente.

 

Ad eccezione di quella mandea, alla letteratura gno­stica fu impedito, dopo l'eclissi delle stesse comunità gnostiche, di essere trasmessa direttamente a causa del dominio esercitato dal Cristianesimo e dall'Islam. Per­ciò, fino a tempi piuttosto recenti, la documentazione era fornita quasi esclusivamente da abbondanti fonti indi­rette. Queste erano, per lo più, le opere antieretiche dei Padri della Chiesa (greci, latini e siriaci, da Ireneo nel II secolo fino a Theodor bar Konai nell'VIII) attraverso i loro accurati resoconti, riassunti ed estratti oppure le più tardive opere storiografiche e i compendi islamici. In ogni modo, da qualche tempo, una lunga serie di scoper­te di manoscritti ha grandemente ampliato il nostro ba­gaglio di testi originali: si tratta dei codici copto-gnostici su papiro rinvenuti in Egitto - il ritrovamento del 1945 di un'intera libreria a Nag Hammadi sta rivoluzionando lo stato della documentazione in un'area fino ad allora principalmente coperta dalla testimonianza patristica -, dei frammenti manichei in persiano, turco e cinese ritro­vati a Turfan in Asia centrale e in copto in Egitto e degli scritti sacri mandei provenienti dall'Iraq.

I Mandei costituiscono l'unico caso di una comunità gnostica sopravvissuta fino ad oggi con una tradizione scritta ininterrotta, testimoniata dalla loro voluminosa letteratura in aramaico; essa è giunta all'attenzione de­gli studiosi occidentali nel XIX secolo, dopo essere sfug­gita a quella dei Padri della Chiesa nell'antichità (pro­babilmente per l'orientamento prevalentemente greco dei Padri stessi). In tutti gli altri casi, le nuove fonti ori­ginali di solito convalidano, arricchendola variamente, la testimonianza ricavata dalla precedente prova indiret­ta. Il seguente resoconto - basato sull'intero materiale citato, nella sua estrema varietà - è sinottico e selettivo e risulta articolato secondo uno schema che rinvia a una concezione sistematica di questo complesso.

 

 

 

Esposizione di un tipico sistema gnostico dei primi secoli

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Proveremo, a mettere subito in contatto il lettore con la mitologia di un tipico sistema gnostico dei primi secoli. Eccone qui di seguito l'esposizione, che si è cercato di interpolare il meno possibile con ricostruzioni teoriche.

 

Secondo gli Gnostici, il dio supremo, "il Padre della Totalità" o "lo Spirito Invisibile", è inconoscibile e al di là di qualsiasi possibilità di descrizione. Non si dovrebbe neanche pensarlo come divino, perché "è superiore alla divinità" (Apocalisse di Giovanni). Da un lato, solo aggettivi negativi possono descrivere lo Spirito Invisibile: "non-misurabile", "invisibile", "illimitato", ecc., anche se perfino questi non sono sufficientemente negativi: "Non è corporeo, non è incorporeo… In verità nessuno può pensarlo" (Apocalisse di Giovanni). Dall'altro lato, a causa del fatto che è l'origine di tutto ciò che è, se ne possono dire alcune cose: "Esso è vita, in quanto elargisce la vita. Esso è benedetto, in quanto elargisce la benedizione. Esso è Conoscenza, in quanto elargisce la conoscenza". Ma lo Spirito Invisibile non ha nessuna di queste caratteristiche; piuttosto, le elargisce a tutte le cose esistenti tranne che a se stesso (Apocalisse di Giovanni). Un autore gnostico effettivamente postula una entità divina persino superiore allo Spirito Invisibile, lo Sconosciuto Silenzioso (Vangelo di Maria).

A dispetto della remota serenità dello Spirito invisibile o Padre della Totalità, esso è essenzialmente un intelletto, e la sua natura è perciò di pensare, e questo pensiero produce una manifestazione di una "Pienezza" o "Totalità" o "Pleroma" con una complessa struttura di "Eoni". Gli eoni sono simultaneamente attori, luoghi, estensioni di tempo e modi di pensiero. Essi hanno perlopiù nomi di qualità ideali, di astrazioni o di operazioni mentali, come "Intelligenza", "Verità", "Forma", "Riflessione", "Sapienza". Gli eoni che costituiscono la totalità provengono dalla conoscenza o pensiero che lo spirito invisibile ha di se stesso. Essi sono il suo pensiero o intelletto, in tutta la sua complessità. Essi formano anche un reame spirituale, l'equivalente del regno platonico delle idee. Nel sistema di Platone, l'universo materiale in cui viviamo è una copia imperfetta ma molto buona di un reame spirituale di idee o forme ideali che prese sole sono reali, cioè immutabili ed eterne. Similmente, per gli Gnostici solo la totalità costituita dagli eoni è veramente reale ed eterna; il mondo materiale è una imitazione corrotta della Totalità e destinata a perire.

Importante tra gli eoni è il Secondo Principio, "l'immagine del Perfetto Invisibile Spirito Vergine" (Apocalisse di Giovanni), che è l'emanazione più immediata dal dio supremo. La possibilità di ogni essere inferiore ad esso di avere la gnosi o conoscenza mistica del Primo Principio è fondata su questo eone, cheè chiamato "Previdenza" e, più oscuramente, "il Barbelo". Il Barbelo può essere a sua volta visto come costituito da eoni. Di solito ci sono tre di questi, definiti nascosti, primi-manifestati e auto-originati. Se lo Spirito Invisibile è la suprema fonte di umanità e di salvezza e tuttavia non può essere nominato o descritto, è allora il Barbelo la fonte più immediata di cui gli uomini possono parlare. Nel Vangelo di Giuda, Giuda dice: "Tu sei venuto dall'eone immortale del Barbelo. Ma quanto a colui che ti ha mandato, lo Spirito Invisibile, io non sono degno di pronunciare il suo nome". Dopo il Primo Principio e il Barbelo, differenti versioni del mito popolano il divino reame in modi diversi, sebbene con alcuni tratti ricorrenti, quali il numero 24. Ma tutti i sistemi condividono l'idea che esiste essenzialmente un'unica singola realtà, tuttavia la complessità e la magnificenza di tale realtà ultima si esprime in uno sfaccettato reame divino di emanazioni eoniche.

Numerosi personaggi divini o strutture appaiono in modo simile, anche in narrazioni del mito che per altri versi differiscono, suggerendo che essi si situano al centro di ciò che gli Gnostici videro come peculiare dei loro insegnamenti circa la divinità. Ad esempio, quasi tutti i miti sono caratterizzati da triadi di padre, madre e figlio ad un livello molto elevato della divinità. Nel Libro Segreto secondo Giovanni, il Barbelo concepisce per mezzo dello sguardo del primo principio e genera una scintilla, l'Auto-originato o Cristo. A differenza di altri eoni, che sono emanati tramite "disvelamento", Cristo è l'"unico generato" del Padre e del Barbelo, che sono quindi suo padre e madre (Apocalisse di Giovanni). Secondo il Primo Pensiero in Tre Forme, il "suono" del Barbelo "esiste come tre parti: Padre, Madre, Figlio, una voce che esiste impercettibilmente". Questo motivo diviene ancora più accentuato nel Libro Santo del Grande Spirito Invisibile, che contiene almeno sei triadi di padre, madre e figlio, iniziando con lo Spirito Invisibile, il Barbelo, e il loro "tre volte maschio figlio". Sebbene prenda forme differenti, una famiglia di padre, madre e figlio è al centro della concezione gnostica del divino. Anche se gli scrittori gnostici hanno una visione negativa della sessualità, essi nondimeno vedono la famiglia umana come "una immagine imperfetta della realtà divina".

In molte versioni del mito, il personaggio indicato come "Auto-originato" o "Cristo" o in entrambi i modi è una figura centrale nella Totalità, funzionando come un elemento di giunzione tra gli esseri supremi – il Supremo Spirito Invisibile e il Barbelo – e gli eoni rimanenti. Quattro eoni chiamati "luminarie" spesso servono o circondano questa figura. Per esempio, abbiamo incontrato l'Auto-originato o Cristo del Libro segreto secondo Giovanni, che è generato dal Padre e dal Barbelo. Secondo quest'opera, "L'invisibile Spirito Vergine ha stabilito l'Auto-originato come vero dio sulla Totalità, e ha subordinato ad esso ogni autorità e la verità che era nello Spirito". Nel Primo Pensiero gli eoni lodano Cristo, che è "l'unico-generato" e "il figlio perfetto" e che stabilisce quattro regni eterni con le loro luminarie. Lo Zostrianos chiama il livello più basso del Barbelo "l'eone auto-originato" e pone le quattro luminarie entro di esso. Il Vangelo di Giuda chiama l'Auto-originato come fa con molti esseri divini, "un grande angelo" e "il dio della luce"; esso è servito da quattro angeli, e fa venire ad esistenza gli eoni al disotto di sé. L'Auto-originato o Cristo serve come figura di transizione dalla prima triade formata dallo Spirito Invisibile, dal Barbelo e da se stesso, ai numerosi eoni che costituiscono la totalità del divino reame.

Le quattro luminarie che servono l'Auto-originato (insieme agli archetipi degli esseri umani che sovente le abitano) sono probabilmente le caratteristiche più peculiari del mito gnostico. Nel Libro Segreto le quattro luminarie – Harmozel, Oroiael, Daueithai, Eleth – stanno di fronte all'Auto-originato o Cristo, e ciascuna di esse è l'eone-guida di un gruppo di quattro eoni. Queste quattro luminarie, con gli stessi nomi, appaiono anche nel Primo Pensiero, dove ricevono nomi aggiuntivi e sono chiamate "i reami eterni". Anche lì sono strettamente  legati con Cristo, che li "stabilisce" mentre essi sono detti (forse erroneamente) averlo "generato". Le luminarie giocano un ruolo simile nel Sacro Libro, che attribuisce loro consorti, servitori e persino consorti ai loro servitori. Come abbiamo visto, il Vangelo di Giuda chiama l'Auto-originato "un grande angelo", e lo stesso sono i suoi servitori: "E per la sua misericordia quattro angeli vennero ad esistenza da un'altra nuvola, e vennero ad esistenza per occuparsi dell'angelo Auto-originato". Una o più delle quattro luminarie appaiono anche in altre opere. Se l'Auto-originato o Cristo serve da trait-d'union tra lo Spirito Invisibile e il Barbelo da un lato, e gli eoni successivi dall'altro, le quattro luminarie forniscono la struttura fondamentale degli eoni successivi, che nel Libro Segreto sono in numero di dodici.

Cosa ancora più importante, le quattro luminarie sono eoni chiave, perché forniscono regni o dimore per gli archetipi divini dell'umanità ideale, che sono versioni trascendenti dei primi esseri umani e dei successivi. Se, come è detto nella Genesi, gli esseri umani furono creati a "somiglianza di Dio" e se, come insegna Platone, il nostro mondo è una copia del mondo spirituale, allora ha senso pensare che la Totalità includa gli archetipi divini degli esseri umani. Questi includono Adamas, l'archetipo celeste di Adamo, che risiede con o entro Harmozel, e il suo figlio Seth, che risiede insieme o entro Oraoiael. Questi primi due archetipi sono abbastanza chiari, ma il quarto e il quinto archetipo sono enti collettivi e in qualche modo più oscuri. Il seme o posterità di Seth risiede insieme o entro Daueithai. Questo seme di Seth è probabilmente un riferimento ai discendenti di Seth che vissero durante l'era primigenia  dei primi capitoli della Genesi, perché la quarta luminaria, Eleleth, ospita gli archetipi delle persone che appaiono essere uomini salvati di periodi storici successivi, forse gli stessi Gnostici dell'epoca. Secondo il Libro Santo, "la discendenza del grande Seth riposa" in Daueithai, mentre "le anime della discendenza riposano" in Eleleth. Il Libro Segreto descrive  questo secondo gruppo come "quelli che non conoscevano la pienezza e non si pentirono immediatamente, ma resistettero per un po' e poi si pentirono". A differenza della posterità di Seth, essi erano "esseri generati" che nondimeno "resero gloria allo Spirito Invisibile". Forse queste anime sono "generate" tramite il rito del battesimo gnostico, che sarà discusso più oltre. Infine, nella Realtà dei Reggenti, è Eleleth che appare all'eroina Norea. La discendenza di Norea, le dice la luminaria, "esiste immortale nel mezzo dell'umanità peritura", ma non apparirà se non "dopo tre generazioni", quando "i veri esseri umani, in una forma modellata, riveleranno l'esistenza dello spirito di verità, che il Padre ha mandato". Questo potrebbe essere un riferimento all'incarnazione di Gesù. Tutti questi passi suggeriscono che Eleleth è la luminaria degli archetipi degli gnostici dell'epoca e di altri esseri umani che hanno ottenuto la salvezza. E così ci sono quattro archetipi divini dell'umanità: Adamo (Barmozel), Seth (Oraoiael), i discendenti originari di Seth (Daueithai), e gli gnostici, l'attuale progenitura di Seth (Eleleth).

La struttura della Totalità può essere complicata – ci sono normalmente molte più persone di quelle menzionate – ma possiede una serena stabilità, talvolta basata sulla complementarietà di genere: la maggior parte degli eoni esistono i coppie maschio-femmina che subordinano la femminilità ad una mascolinità che si pretende essere oltre il genere. Il Barbelo, per esempio, è chiamato "la madre-padre" e "il nome tre-volte-androgino". D'altra parte, in greco molti dei nomi degli eoni hanno un genere grammaticale – "verità", per esempio, è alethe, un nome femminile – e sono  menzionati con pronomi femminili. E tuttavia essi sembrano, almeno superficialmente, avere un genere, e alcune versioni del mito asseriscono o suggeriscono che gli eoni hanno "consorti" del genere opposto. Sia il Libro Segreto che il vescovo Ireneo di Lione riferiscono che Intelletto (maschile) è in coppia con Conoscenza Precedente (femminile), e Volontà (maschile) è in coppia con Vita Eterna (femminile). La disposizione a coppie e l'uso dell'androginia come termine lodativo suggeriscono una complementarità dei generi, che dà stabilità alla Totalità e, sembrerebbe, una certa misura di parità tra generi. Nondimeno, il principio ultimo sembra essere tuttavia un "padre" e il Barbelo è lodato non solo come "il nome tre volte androgino" ma anche come "triplicemente maschio", un termine di lode che appare più di una volta nei lavoro gnostici. Si potrebbe dire che nel mito gnostico il divino trascende il genere incorporando l'aspetto femminile in una mascolinità più fondamentale e dominante.

In almeno una versione del mito, è la violazione della complementarietà dei generi da parte dell'eone Saggezza (Sophia) che precipita la creazione in un mondo materiale corrotto. Secondo il Libro Segreto, Sophia è l'ultima dei ventiquattro eoni e quindi il più distante, per modo di dire, dallo Spirito Invisibile. Quando Sophia produsse un pensiero suo proprio, senza il consenso del suo consorte maschile, il risultato fu un pensiero imperfetto o pseudo-eone, il primo essere "divino" che non appartiene alla totalità degli immortali. Sophia produsse questo prodotto deforme del suo pensiero al di fuori della Totalità o Pleroma e lo chiamò Ialdabaoth. Ialdabaoth, chiamato anche Saklas e con altri nomi, è il traviato creatore e reggitore di questo universo materiale, cioè il Dio della Genesi. In modo simile, la Realtà dei Reggitori asserisce che Sophia "volle creare qualcosa, da sola e priva del suo compagno", e il risultato fu Ialdabaoth. In questo ordine di idee, quindi, Sophia distrugge l'equilibrio di generi tra gli eoni del Pleroma pensando o creando indipendentemente, senza il consenso maschile, e questo errore produce l'ordine corrotto della creazione. Qui il Pleroma  appare aver posseduto in se stesso il potenziale per la sua rovina: la progressiva distanza delle emanazioni che si erano succedute dal primo principio rende la mancanza di armonia sempre più possibile, al punto che tale disarmonia diviene effettiva quando Sophia tenta di pensare da sola. La transizione dalla totalità spirituale degli eoni beati o Pleroma al mondo materiale delle creature appare essere un errore, qualcosa che la provvidenza divina non intendeva e, come vedremo, un problema che deve essere rimediato. Sophia successivamente si pente del suo errore ed è accolta nuovamente nella comunità degli eoni, persino elevata a più alta posizione. Gli Gnostici potrebbero essersi ispirati, per la figura di Sophia, alla figura della Eva biblica descritta nella Genesi come peccatrice, penitente e madre.

Altre opere gnostiche adottano un ordine di idee più positivo sulle origini dell'universo materiale, pur se non lo considerano, neanche esse desiderabile in confronto al regno spirituale; esse non pongono Sophia in una luce negativa. Ad esempio, il Libro Santo sostiene che Eleleth inizia la produzione di un universo materiale e della sua divinità annunciando: "Facciamo in modo che qualcuno regni sul Caos e sull'Ade". Qui Sophia gioca un ruolo importante nella generazione della materia e nella emanazione dei suoi reggitori, ma non lo fa di sua sola iniziativa né come errore, ma in accordo con altri esseri immortali. Il Primo Pensiero in Tre Forme sembra comprendere elementi di entrambi questi punti di vista: da un lato, chiama Sophia "colei che è innocente", e Ialdabaoth appare solo come "il grande demone", senza alcun errore da parte di Sophia; d'altra parte però, raffigura gli eoni maggiori che concedono il perdono a Sophia per la produzione di Ialdabaoth. Il Vangelo di Giuda in modo analogo non menziona in alcun modo Sophia  quando parla della generazione di Ialdabaoth; questi sembra venire ad esistenza per mezzo di un atto di volontà divina. Qui "Saklas" è il nome di un ulteriore reggitore di dignità inferiore. Gli Gnostici, quindi, mantengono una varietà di vedute sull'origine dell'universo materiale e del suo reggitore, ma tutti concordano sul fatto che Ialdabaoth, il dio di questo mondo, è arrogante e ignorante, e il suo regno è di tenebre e corruzione.

Lo svolgersi della singola realtà divina nella complessa struttura della Totalità o Pleroma ebbe luogo prima dell'inizio dei tempi, o piuttosto avviene al difuori del tempo, prima e separatamente dai versetti iniziali della Genesi, che descrivono la creazione. Gli Gnostici, sebbene per il loro sistema di sviluppo della creazione per emanazione da Dio si ispirano anche ai primi tre capitoli di questo libro, distinguono questo mondo, in contrasto con il Pleroma spirituale, come "oscurità corporea… caos animato e desiderio femmineo" (Zostrianos). E tuttavia la persona illuminata può sperimentare la stabilità ed eternità divina attraverso un processo di contemplazione mistica. Una tale conoscenza diretta (gnosi) della realtà ultima e in verità unica, può essere solo una rara e fuggevole esperienza per quei rari intelletti capaci di trascendere la loro presente condizione di imprigionamento in un corpo materiale, che è turbato dalle passioni e reso schiavo del destino in un universo controllato da poteri demoniaci

Gli Gnostici leggono i capitoli introduttivi della Genesi come un resoconto confuso, ingarbugliato dalla mancanza di comprensione del suo autore, Mosé, di come la potenzialità divina entrò in questo mondo e di come sia sopravvissuta ai vari tentativi delle forze demoniache di impadronirsene o di eliminarla. Ialdabaoth era costituito da pensiero distorto, una biasimevole e falsa versione della divinità identificata dagli Gnostici col Demiurgo del Timeo di Platone e con il Dio della Genesi mosaica. Mentre il Demiurgo platonico crea il mondo come la migliore copia possibile delle forme eterne, Ialdabaoth formò l'universo materiale come una copia estremamente imperfetta della Totalità spirituale o Pleroma di cui aveva solo una pallida memoria. Egli esemplifica l'autoinganno  degli esseri immersi nell'ignoranza, che predicano vanamente agli incauti che prestano loro ascolto, "Da parte mia, sono un dio geloso. E non c'è altro dio oltre me" (Esodo 20:5; Deuteronomio 4:24; 6:15; Isaia 45:5). Il dio di Israele in questi passi testimonia suo malgrado  l'esistenza di un dio più alto, perché, come dice un autore gnostico, "se non esistesse nessun altro essere divino, di chi sarebbe geloso?" (Apocalisse di Giovanni).

Gli gnostici enfatizzano i passaggi della Bibbia che dipingono il Dio di Israele come ignorante e collerico. Questo Dio, entrando nel giardino dell'Eden, ignora persino dove si trovi Adamo e deve chiederlo alle creature (Genesi 3:8-9); conclude che la creazione di uomini e animali è un errore e decide di distruggere con il diluvio tutti gli esseri viventi ad eccezione di una singola famiglia e di pochi animali (Esodo 6:5-22); in seguito lo vediamo annientare intere città con piogge di zolfo e di fuoco (Esodo 19:24-25).

A dispetto della sua imperfezione, Ialdabaoth fu capace di creare l'universo, grazie al "grande potere" che ottenne da sua madre Sophia. Il potere di Sophia genererà ostilità tra gli esseri umani e Ialdabaoth, e il ritorno di tale potere al Pleroma o Totalità è lo scopo della provvidenza divina. Ialdabaoth non governa l'universo da solo, ma guida un gruppo di poteri demoniaci, chiamati Arconti o Reggitori o Autorità e simili. Gli Gnostici trovano trucemente affascinante il numero, i nomi e le caratteristiche di questi Arconti, e un autore gnostico dedica il suo trattato alla dimostrazione della "realtà degli Arconti" e del pericolo che rappresentano per gli esseri umani, lo stesso pericolo da cui l'apostolo Paolo mise in guardia i cristiani nella sua lettera agli Efesini: "La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue; ma piuttosto contro le potenze del mondo e i Principati spirituali che sono il ricettacolo del male" (Efesini, 6:12). Il Libro Segreto secondo Giovanni fornisce l'analisi più dettagliata degli Arconti ed elenca i loro nomi. In quest'opera essi sono poteri celesti, associati con le stelle e i pianeti, e il fato determinato dagli astri costituisce la parte principale del loro potere sugli esseri umani. Gli Arconti ostacolano e fanno venir meno la  nostra potenziale virtù e conoscenza di Dio controllando con gli influssi degli astri le nostre scelte. Il Libro Segreto indica, sulla scorta di fonti zoroastriane, gli Arconti che hanno creato le singole parti del corpo umano, forse allo scopo di consentire agli Gnostici di imbrigliare o invocare il potere degli Arconti quando necessitano di guarire tali parti del corpo. Conoscere i nomi e le gerarchie degli Arconti era probabilmente un mezzo con cui lo Gnostico resisteva alla loro influenza malvagia.

Il potere che Ialdabaoth prese da Sophia entrò nell'uomo quando Ialdabaoth creò Adamo e con l'inganno fu indotto a soffiare il suo spirito in lui. La conseguente statura superiore dell'umanità rispetto agli dei inferiori e la sua aspirazione alle realtà superiori, la portarono in confitto con i reggitori del cosmo materiale. L'esatta sequenza di eventi varia da un resoconto all'altro, con cui gli gnostici rettificano la storia di Adamo ed Eva, sebbene tutti si basano sulla Genesi. Tutti concordano sul fatto che il primo essere umano fu creato in due fasi, prima spiritualmente e poi materialmente. Per prima cosa, Ialdabaoth e i Reggitori crearono un essere umano spirituale, ad immagine dell'essere umano divino che appare loro dal Pleroma che li sovrasta. Questo Adamo "animato" è fatto, come dice la Genesi, "ad immagine di Dio". Ma in seguito i Reggitori consegnano questo essere umano spirituale ad un corpo materiale, e creano Eva come compagna di Adamo, o, in altre versioni, dividono l'androgino originario nel maschio (Adamo) e nella femmina (Eva).

Nel Libro Segreto secondo Giovanni l'entrata del potere di Sophia entro Adamo gli consente di stare eretto tra tutti gli animali. La stazione eretta indica l'attrazione sentita dall'uomo per le realtà spirituali e superiori, che lo porta in conflitto con Ialdabaoth e i Reggitori che l'hanno creato. Poiché Adamo vive in un corpo fisico le cui passioni ostacolano la virtù e la conoscenza di Dio, e poiché i Reggitori cercano di evitare che egli acquisisca la conoscenza del divino, Adamo chiede aiuto al Pleroma. Riceve tale aiuto nella forma del luminoso essere "Riflessione", una manifestazione di Sophia, che illumina e istruisce gli esseri umani. Questo principio femminile rivelatore delle realtà nascoste diviene attivo e manifesto quando Eva è creata e separata da Adamo. I Reggitori tentano di violentare Eva, dotata di questo potere spirituale, ma il principio spirituale abbandona il suo corpo materiale prima che essi lo facciano, e così l'atto sessuale con l'Eva puramente carnale ha come effetto la nascita di Caino e Abele. L'accoppiamento tra Adamo ed Eva genera Seth, l'antenato spirituale di coloro che hanno il dono della conoscenza. I Reggitori riescono a gettare l'umanità in uno stato di ignoranza della vera realtà spirituale, e la travagliano con il diluvio e le tentazioni del sesso, dei metalli preziosi e delle arti fabbrili. Il periodo della dimenticanza da parte degli uomini terminerà quando lo spirito di Dio terminerà per rimediare alla mancanza di conoscenza e per facilitare il ritorno al Pleroma da parte dei poteri o scintille spirituali dispersi nell'umanità.

In contrasto col Libro Segreto la Rivelazione di Adamo attribuisce la perdita della conoscenza alla separazione di Adamo ed Eva, e ricollega la sopravvivenza della scintilla spirituale alla sopravvivenza di una specifica "razza" umana. Secondo quest'ultima opera, quando Adamo ed Eva ancora esistevano inseparati come un androgino spirituale, il principio femminile, sorgente delle rivelazioni, era in grado di insegnare ad Adamo "un resoconto riguardo la conoscenza del Dio eterno". I Reggitori, però, separano il maschio dalla femmina e la luce della conoscenza si allontana da loro ed entra nel "seme  o discendenza dei grandi eoni". Adamo, mancando ora di conoscenza, riceve in compenso una rivelazione dagli esseri superiori, che condivide col figlio Seth. Questa rivelazione spiega come il diluvio e la distruzione di Sodoma e Gomorra riportate nella Genesi costituiranno tentativi falliti dei Reggitori di distruggere l'"altra razza", o "Quel Popolo", che discenderà da Seth e possiederà la possibilità di entrare in contatto col Pleroma. Adamo attente l'arrivo di un salvatore indicato come "Quell'Essere Umano", la cui apparizione condurrò alla distruzione dei Reggitori e degli esseri umani che ne sono stati irrimediabilmente traviati e la salvezza di "Quel Popolo" che ha conoscenza del dio eterno.

La Realtà dei Reggitori pone l'attrazione erotica e la violenta ostilità di tali Reggitori verso il principio femminile al centro della sua versione della Genesi. Quando gli esseri eterni inviano dall'alto una immagine luminosa di incorruttibilità, i Reggitori diventano "innamorati" di essa. Essi creano Adamo per attirare e intrappolare l'immagine, ma la forma umana che producono rimane immobile. Lo spirito che proviene dall'alto entra in Adamo e gli consente di muoversi. Quando i Reggitori creano Eva, il principio spirituale, in forma femminile, entra in lei e i Reggitori divengono tosto innamorati anche di Eva e tentano di violentarla. Ma lo spirito fugge da Eva per andare a rifugiarsi nell'albero della vita e alla fine nel serpente, il cui consiglio agli esseri umani di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male produrrà in loro la consapevolezza della propria ignoranza. L'apparizione di un personaggio femminile chiamato Norea, una sorella di Seth, produce un graduale miglioramento nelle conoscenze spirituali dell'umanità. Questo miglioramento provoca da parte dei Reggitori l'invio del diluvio e il tentativo di fare violenza a Norea, che viene salvata e riceve le rivelazioni dalla luminaria Eleleth. La Realtà dei Reggitori parla di un salvatore che deve arrivare, "il vero essere umano", che porterà finalmente la salvezza alla discendenza di Norea e la distruzione dei Reggitori.

Il Libro Segreto spiega come l'atto sessuale si sia originato dalla violazione di Eva da parte di Ialdabaoth, che "seminò in essa un seme di desiderio". Ne segue come conseguenza la riproduzione sessuale degli esseri umani, il loro ascolto allo spirito di menzogna di tale Reggitore e il loro imprigionamento nella "caverna del mondo materiale". In seguito Ialdabaoth manda i suoi angeli a sedurre altre femmine umane e per far loro conoscere i metalli preziosi e renderle in tal modo soggette alla "grande ansietà" che il desiderio per tali oggetti produce. Gli Gnostici apprendono da simili Scritture l'origine demoniaca del desiderio sessuale, della rabbia, dell'avarizia e di altre passioni, e in tal modo possono iniziare a resistere ai Reggitori, a riformare i loro costumi e ad acquisire le virtù.

La maggior parte degli scritti gnostici afferma che il ritorno finale delle scintille spirituali perdute nella materia al Pleroma e la conseguente distruzione dell'universo inferiore e dei suoi Reggitori saranno la conseguenza dell'apparizione di un salvatore, detto la "Previdenza del Pleroma" o il "Grande Seth") in forma umana. Talvolta è detto che è la terza apparizione del salvatore (non vengono date indicazioni sulle due precedenti), la quale talvolta è detta essere già avvenuta anch'essa, altre volte ancora da verificarsi. Ad esempio il Libro Segreto di Previdenza sostiene che nel suo terzo avvento ella è entrata nel mezzo della prigione degli esseri umani", cioè la prigione del corpo. Dopo tre generazioni, promette Eleleth nella Realtà dei Reggitori, la posterità Gnostica apparirà, libera dalle catene dei Reggitori. In quel tempo "i veri esseri umani in una forma modellata" arriveranno per rivelare lo spirito di verità e insegnare ogni cosa alla posterità salvata.

Non tutti i libri gnostici affermano esplicitamente che Gesù sia l'incarnazione del salvatore, ma in libri come il Primo Pensiero in Tre Forme l'eone Primo Pensiero descrive in dettaglio la sua apparizione finale in un corpo, durante la quale essa ammaestrò gli esseri umani circa le realtà spirituali, e conclude: "per parte mia, io indosso gli abiti del Cristo; l'ho estratto dal legno maledetto e l'ho fatto riposare nelle dimore dei suoi genitori. Secondo il Libro Santo del Grande Spirito Invisibile, è il Grande Seth che "indossa gli abiti" di Gesù e dunque fa cadere i Reggitori. In testi simili il salvatore incarnato, che produce segni e meraviglie e provoca la collera dei Reggenti non è altri che Gesù.

Secondo una tipica visione gnostica nota come "docetismo" Gesù non possiede un corpo materiale; egli appare solamente avere carne e sangue. Non soffre realmente, non prova il bisogno di mangiare, ma compie questi atti corporali allo scopo di sembrare un essere umano in carne ed ossa. Data la bassa opinione che gli Gnostici hanno del corpo materiale, essi non considerano il corpo di Cristo una parte essenziale del Salvatore, che "indossa" il Gesù di carne come un vestito che può agevolmente essere tolto. Una parte delle tradizioni gnostiche non negano tuttavia l'esistenza di un corpo di carne, che i Reggitori possono castigare.

La salvezza e la rivelazione, per gli Gnostici, sono già giunte col Cristo, ma la fine dei tempi che il suo arrivo ha anticipato deve ancora arrivare. I Reggitori sono ancora al potere in questo universo, e gli esseri umani necessitano ancora di essere resi consapevoli della loro vera natura e della realtà del regno dello spirito. I testi gnostici servono a rendere tale messaggio disponibile per il lettore, sebbene vi siano divergenze su quante persone siano realmente destinate a divenire Gnostici risvegliati. Secondo alcuni libri essi costituiscono solo una piccola porzione dell'umanità presente. Alla fine dei tempi la maggior parte degli esseri umani innalzerà un grido di angoscia perché ad essi è destinata la distruzione: "in verità ora sappiamo che le nostre anime stanno per perire nella morte".

Alcune opere, come Il Libro Segreto secondo Giovanni, descrivono un conflitto all'interno dell'umanità tra lo spirito della vita, che proviene dal Pleroma, e lo spirito di menzogna, creato dai Reggitori per traviare gli uomini. Coloro che ne cadono preda non muoiono per sempre, ma le loro anime si reincarnano, anche molte volte, finché non raggiungono conoscenza e salvezza. Solo gli apostati, "coloro che hanno raggiunto la conoscenza e successivamente ritornano sui propri passi" sono destinati alla punizione eterna.

Nella storia gnostica successiva alla caduta, l'eone Barbelo e altri preservano lo spirito di vita, la scintilla divina negli esseri umani, a dispetto dei continui sforzi dei Reggitori per impadronirsene distruggendo l'umanità

 

 

I sacramenti gnostici

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Una persona non deve necessariamente essere della discendenza di Seth per diventare uno degli eletti. Uno dei tratti distintivi delle sette gnostiche è il suo rituale del battesimo, che incorpora il fedele nella discendenza di Seth e facilita la sua ascesa alla contemplazione divina. Secondo la Rivelazione di Adamo, la "semenza" che sarà salvata consiste di coloro che "riceveranno il nome di Seth presso le acque". Il Primo Pensiero in Tre Forme e il Libro Santo del Grande Spirito Invisibile contengono una ricca descrizione di questo sacramento, pur se altamente stilizzate e simboliche. Altre opere si riferiscono a questo o quell'elemento di particolare importanza o indicano le divinità che presiedono al rito o enfatizzano la sua centralità per la salvezza. In un'altra opera l'eone Prudenza descrive come ha salvato gli esseri umani che erano "nella prigione del corpo", ignari delle loro origini e del loro destino divino. Esso chiama la persona dal suo "profondo sonno", la incoraggia a "cercare la propria radice, che sono io stessa, la compassionevole", e l'ammonisce contro le macchinazioni dei reggitori demoniaci. Infine proclama: "E io ho sollevato e posto il sigillo su questa persona, con la luce dell'acqua dei cinque sigilli, cosicché d'ora in avanti la morte non avrà potere su questa persona". L'"acqua dei cinque sigilli" si riferisce alla caratteristica forma gnostica di battesimo, in cui il fedele riceve appunto cinque sigilli.

Come si svolge realmente il rito del battesimo gnostico? I testi alludono ad una serie di azioni rituali, che erano seguite da un inno di risposta. In uno dei testi il Barbelo afferma che per prima cosa ha "strappato via" dal candidato il caos, l'oscurità e altri elementi del suo mondo; il fedele successivamente riceve "abiti di luce brillante" ed "è vestito di un vestito che appartiene agli indumenti della luce". Altri testi parlano di una "armatura di amore e luce" che il battezzato indossa. Come nelle altre forme di battesimo, la svestizione prima dell'immersione nell'acqua simboleggia la rimozione di un vecchio stato di esistenza e i nuovi abiti rappresentano uno stato trasformato. La persona è "lavata nella sorgente dell'acqua di vita", dopo aver indossato la veste rituale. Queste fasi di svestizione/vestizione/lavaggio sono presenziate da esseri divini chiamati rispettivamente "vestitori" e "battezzatori". Seguono altri atti rituali, sotto il controllo di altre divinità, ma i riferimenti sono poco chiari. Al battezzato è dato "un trono dal trono di gloria" dagli "intronatori" e poi i "glorificatori" esaltano il candidato "con la gloria della parentela divina". Infine, "quelli che portano in alto" portano la persona "nei luoghi luminosi della propria parentela spirituale", un riferimento alla ascesa e contemplazione mistica. Il rito termina con il riferimento ai "cinque sigilli" che vengono "dalla luce della Madre, Primo Pensiero", il Barbelo.

Gli studiosi ignorano tuttora in cosa consistano precisamente i cinque sigilli, ma vi sono ipotesi plausibili. Nel Primo Pensiero si parla di cinque fasi del battesimo, ciascuna delle quali ha un gruppo di divinità che presiedono e vestono, battezzano, intronano, glorificano e portano in luoghi luminosi, ed è possibile che i cinque sigilli siano proprio queste cinque fasi. Oppure potrebbe trattarsi di cinque separate immersioni nell'acqua battesimale. Autori cristiani alludono ai sigilli come ad una unzione con olio. L'olio tracciato sulla persona, talvolta in forma di croce, segnava il battezzato come appartenente a Cristo e lo immunizzava contro i poteri malvagi. Cinque sigilli potrebbero quindi essere cinque unzioni, forse in corrispondenza alle cinque fasi del battesimo, o ai cinque sensi con le relative parti del corpo (occhi, orecchie, mani, bocca, naso), o ai cinque organi che corrispondono alle facoltà dell'anima (due occhi, due orecchie, una bocca).

Il Libro Santo del Grande Spirito Invisibile espone, in corrispondenza del sacramento battesimale, una serie di passi che descrivono i miti gnostici che lo riguardano, e nei quali i cinque sigilli  sono riferiti ad esseri divini del reame eterno. Come nelle chiese cristiane antiche la veglia pasquale era scandita da letture alternate a canto di salmi e inni e poteva essere seguita dalla cerimonia del battesimo, così, nel Libro Santo il narratore, dopo aver messo in rapporto i cinque sigilli con la Totalità o Pleroma, interrompe più volte la sua narrazione per consentire agli esseri divini di cantare le lodi degli eoni posti più in alto di loro, mediante brevi inni e recitazione di elenchi di divinità gloriose. Probabilmente i fedeli si univano, durante la lettura, alla recitazione di questi inni. La storia della salvezza culmina con la grande incarnazione di Seth in Gesù, attraverso la quale egli "stabilì la santità e il battesimo che è più alto dei cieli". A conclusione c'è  un lungo inno di lode a Gesù e di manifestazione di gratitudine per i benefici del battesimo: "Per questa ragione, la fragranza della vita è in me: perché è stata mescolata con acqua per servire da modello a tutti i Reggitori".

Il battesimo gnostico è strettamente collegato alla crocifissione, perché ha tolto il peccato così come per gli gnostici l'immagine del Cristo inchiodato alla croce raffigura tra le altre cose i poteri degli Arconti immobilizzati e resi inattivi. La crocifissione sembra essere quindi stato per loro l'atto con cui il grande Seth, incarnato in Cristo, ha distrutto i poteri del mondo.

Alcuni studiosi pensano che il sacramento del battesimo fosse ripetuto più volte, in concomitanza con l'ascesa del fedele a gradi più alti di comprensione e di virtù. Un personaggio di un'opera gnostica, Zostrianos, intraprende un viaggio mistico, e ad ogni ascesa si bagna delle acque dell'eone che ha superato.

Ma il battesimo poteva essere, per uno gnostico, non una cerimonia vera e propria, ma una metafora per l'evento della gnosi, dell'illuminazione, della presa di contatto con il divino in noi.

Sebbene il battesimo gnostico abbia punti in comune con quello cristiano (è fatto mediante l'acqua, fu istituito da Cristo-Seth, che promette per suo tramite la "vittoria sulla morte"), tuttavia ne differisce in molti altri aspetti. Ad esempio non si parla mai di un battesimo "in nome del signore Gesù", di cui è detto negli Atti degli Apostoli o "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo", come in Matteo. La caratteristica centrale del battesimo gnostico erano i misteriosi cinque sigilli, presieduta da un gruppo di esseri divini guidati da Midkheus, Mikhar e MnesiNous. Gli gnostici affermavano che gli altri gruppi avevano deformato il battesimo, "corrompendo le acque di vita"

Gli gnostici non celebravano l'Eucaristia o altri pasti rituali in commemorazione della morte di Cristo, perché per essi non era attraverso la sua morte che l'umanità era stata salvata, ma attraverso la sua incarnazione che risveglia le persone e le rende avvertite della sua divina identità e che reca i mezzi per raggiungere la conoscenza di Dio. Nel Vangelo di Giuda l'Euraristia è descritta negativamente come una cerimonia di lode a Ialdabaoth, il dio di questo mondo. E' detto che la vittima sacrificale che gli altri cristiani offrono sui loro alteri non è il corpo e il sangue di Cristo, ma il popolo che viene condotto nell'ignoranza. "Basta sacrifici animali!" ingiunge Gesù ai suoi discepoli sconcertati.

 

 

 

Lo Gnosticismo in sintesi

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Lo gnosticismo non è un sistema monolitico. Le varie scuole si sono divi­se su molti punti importanti. Vi sono tuttavia alcuni temi generali.

 

origini

Lo gnosticismo (dal greco gnosis, "conoscenza") denomina un'ampia varietà di insegnamenti religiosi, maturati nel Vicino Oriente ellenizzato dei primi secoli dopo Cristo, il cui supposto fine era di offrire conoscen­za in merito alla verità, altrimenti nascosta, concernente la realtà totale, quale chiave indispensabile per la sal­vezza dell'uomo. La maggioranza delle scuole o sette in questione erano all' apparenza cristiane al tempo in cui i loro primi testimoni, i Padri della Chiesa, vi entrarono in contatto e, di conseguenza, l'intero movimento fu a lungo considerato essenzialmente come un'aberrazione della dottrina cristiana. Nonostante lo gnosticismo ab­bia costituito il primo capitolo nella storia delle eresie cristiane, da un lato il rivestimento di matrice cristiana proprio dei sistemi cui è assegnato questo ruolo appare spesso così sottile da risultare trasparente e, dall'altro, sono venuti alla luce anche scritti chiaramente non cri­stiani che tuttavia, in base a tutti i criteri contenutisti­ci, si sono dovuti classificare come gnostici. I dettagli tratti dalla testimonianza letteraria orientano così ver­so un' origine fortemente sincretistica, in cui tradizioni ebraiche, iraniche, babilonesi, egiziane e generalmente orientali si sono mescolate tra loro insieme a una con­cettualità di matrice greca in forma estremamente libera. I risultati potevano pertanto essere facilmente considerati come una presunta verità esoterica del messaggio cristiano, ma anche costituirne un'alternativa superiore (Mani) o addirittura ostile (Mandei)

 

fonti

Ad eccezione di quella mandea, alla letteratura gno­stica fu impedito, dopo l'eclissi delle stesse comunità gnostiche, di essere trasmessa direttamente a causa del dominio esercitato dal Cristianesimo e dall'lslam. Per­ciò, fino a tempi piuttosto recenti, la documentazione era fornita quasi esclusivamente da abbondanti fonti indi­rette. Queste erano, per lo più, le opere antieretiche dei Padri della Chiesa (greci, latini e siriaci, da Ireneo nel II secolo fino a Theodor bar Konai nell'VIII) attraverso i loro accurati resoconti, riassunti ed estratti oppure le più tardive opere storiografiche e i compendi islamici. In ogni modo, da qualche tempo, una lunga serie di scoper­te di manoscritti ha grandemente ampliato il nostro ba­gaglio di testi originali: si tratta dei codici copto-gnostici su papiro rinvenuti in Egitto - il ritrovamento del 1945 di un'intera libreria a Nag Hammadi sta rivoluzionando lo stato della documentazione in un'area fino ad allora principalmente coperta dalla testimonianza patristica -, dei frammenti manichei in persiano, turco e cinese ritrovati a Turfan in Asia centrale e in copto in Egitto e degli scritti sacri mandei provenienti dall'Iraq.

I Mandei costituiscono l'unico caso di una comunità gnostica sopravvissuta fino ad oggi con una tradizione scritta ininterrotta, testimoniata dalla loro voluminosa letteratura in aramaico; essa è giunta all'attenzione degli studiosi occidentali nel XIX secolo, dopo essere sfuggita a quella dei Padri della Chiesa nell'antichità (probabilmente per l'orientamento prevalentemente greco dei Padri stessi). In tutti gli altri casi, le nuove fonti originali di solito convalidano, arricchendola variamente, la testimonianza ricavata dalla precedente prova indiret­ta. Il seguente resoconto - basato sull'intero materiale citato, nella sua estrema varietà - è sinottico e selettivo e risulta articolato secondo uno schema che rinvia a una concezione sistematica di questo complesso.

 

primato della conoscenza

Lo gnosticismo deriva dalla parola greca "gnosis" che significa "conoscenza", Un sistema gnostico è anzitut­to caratterizzato dal primato della conoscenza su qualun­que altro mezzo di salvezza per l'uomo: la legge, il rito, l'adesione a una religione organizzata e anche, in opposizione al cristianesimo ortodosso, alla fede. La gnosi si contrappone all'"ignoranza" di coloro che rimangono im­mersi nella vita di tutti i giorni e nelle preoccupazioni "psi­chiche" o materiali, senza coltivare la loro parte di­vina.

 

dualismo

Tutti i sistemi gnostici - anche se non allo stesso modo - sono caratterizzati da un dualismo che oppone lo spirito e la materia, con un deciso "anti-cosmismo" che svaluta radicalmente il mondo visibile, ridotto a regno del male e delle tenebre. Nei sistemi classici dello gnosticismo il dualismo si risolve in un monismo, in quanto il male non è un principio originario ma il risultato di una qualche de­gradazione  del bene. Verso l'i­dea di due princìpi originari si orienterà invece il manichei­smo, che alcuni considerano una religione successiva del tutto indipendente dallo gnosticismo, mentre altri lo riten­gono piuttosto uno gnosticismo tardivo.

 

dio e il regno divino (Pleroma)

La trascendenza della divinità suprema è evidenziata al massimo grado in tutta la teologia gnostica. Da un punto di vista topologico, egli è transmondano, abitando in un regno completamente al di fuori dell'universo fi­sico, a distanza incommensurabile dalla dimora terrena dell'uomo; da un punto di vista ontologico, è acosmico, anzi anticosmico: rispetto a questo mondo e a tutto ciò che vi appartiene egli è essenzialmente "altro", è "alie­no" (Marcione), è la "Vita aliena" (Mandei), la "pro­fondità" o l' "abisso" (Valentiniani), persino il "non­essere" (Basilide). Da un punto di vista gnoseologico, a causa della trascendenza e alterità della sua essenza e poiché la natura non lo rivela e neanche ne è indice, egli è per natura sconosciuto, ineffabile, impredicabi­le, incomprensibile e assolutamente inconoscibile. Si possono tuttavia assegnargli alcuni attributi positivi e alcune metafore: Luce, Vita, Spirito, Padre, Bene - ma non Creatore, Monarca, Giudice. Significativamente, in alcuni sistemi, uno dei suoi nomi segreti è Uomo. Nel complesso il discorso su Dio deve muoversi attraverso negazioni, per cui storicamente lo gnosticismo costitui­sce una delle fonti principali della teologia negativa.

L'Assoluto non è comunque solo, ma appare circon­dato da un'aura di manifestazioni eterne e graduate della sua infinitezza, aspetti parziali della sua perfezione ipostatizzati a enti quasi personificati (eoni), dotati di nomi estremamente astratti (la maggior parte relativi a qualità mentali) e insieme costituenti la gerarchia del regno divino, il Pleroma (pienezza). L'emanazione di questa molteplicità interna a partire dal fondamento pri­mario, una specie di auto-differenziazione dell' Assolu­to è talvolta descritta in termini di sottile dialettica spi­rituale, più spesso però in forme piuttosto naturalistiche (per esempio, sessuali). Tra le tenui entità mitologiche che da ciò emergono (come Mente, Grazia, Parola, Co­noscenza, Vita) ve ne sono due più concrete, cui sono attribuiti ruoli specifici nella successiva evoluzione del dramma trascendente: l'Uomo come principio eterno, divino, precosmico (talvolta anche identificato con il Primo Essere stesso) e la Sapienza (Sophia), di solito l'ultimo e il più giovane tra gli eoni. Un'estesa specula­zione sulla differenziazione interna al Pleroma rappre­senta il segno proprio di sistemi avanzati, ma un qualche grado di molteplicità nei regni superiori dell'essere è un requisito comune a tutta la metafisica gnostica, perché esso fornisce la condizione per la fallibilità divina da cui dipende il movimento di creazione e di alienazione.

 

miti cosmologici

Tutti i sistemi gnostici propongono un mito cosmologico. I miti gnostici sono insieme ricchissimi e diversissimi da scuola a scuola, ma quasi sempre com­prendono tre fasi: 1) un'unità originaria indistinta (Pleroma) dove da un Dio originario e inconoscibile vengono emanate coppie di esseri celesti, gli Eoni; 2) la "caduta" fuori da questa unità di uno o più esseri celesti, con la successiva nascita di un dio malvagio (Demiurgo) che, direttamente o tramite i suoi collaboratori (Arconti), crea il mondo materiale; 3) la presenza nell'uomo di una scintilla divina che può essere ravvivata, permettendo ad alcuni uomini di risalire dal mondo della materia e della finitudine fino al mondo divino delle origini.

In molte mitologie gnostiche (ma non in tutte) è un eone femminile, Sophia, che esce dal limite del Pleroma per ignoranza o per curiosità, causando alla fine la nascita del mondo materiale. Il mito di Sophia è tuttavia si complica nei vari sistemi, con la distinzione tra più aspetti o persone all'interno di questo Eone, fino a distinguere una Sophia completamente divina che ritornerà nel Pleroma; una Sophia spirituale che ne resterà fuori e una incarnazione terrestre destinata a vivere un ciclo di vite in corpi di donna.

Il Demiurgo, che riceve vari nomi – Abraxas, Ialdabaoth, ecc. – è identificato col Dio vendicativo dell' Antico Testamento; da cui - talora - una curiosa rivalutazione di personaggi maledetti dal Dio vetero-testamentario (che non sarebbe altri che il Demiur­go), da Caino ad Esaù agli abitanti di Sodoma. Lo stesso episodio del paradiso terrestre viene riletto nel senso che il dio che cerca di tenere lontani gli uomini dall'albero del bene e del male è in realtà il Demiurgo.

Molto varie sono le spiegazioni relative alla presenza nell'uomo di una scintilla divina. Il Demiurgo e gli Arconti non avrebbero potuto creare che un uomo totalmente materiale e corrotto. Le mitologie gnostiche spiegano in vario modo - mediante l'intervento di esseri del mondo celeste o l'apparizione improvvisa di un model­lo divino che influenza i creatori - come, contro la volontà. delle potenze creatrici, nell'uomo entri una scintilla divina che potrà essere risvegliata.

I sistemi gnostici possiedono una sovrabbondante e complicatissima mi­tologia di esseri celesti, Eoni, angeli, Arconti, demoni, che varia da scuola a scuola.

 

natura e destino dell'uomo

L'universo materiale, ossia il dominio degli Arconti, assume la forma di una vasta prigione la cui cella più in­terna e sotterranea è la terra, la scena della vita dell'uo­mo. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci chiusi concentrici. Il loro numero è di solito pari a sette, con un ottavo livello circostante che non appartiene propriamente al regno Arconti co, ma risulta intermedio tra il cosmo e il mondo superiore del Pleroma. Si registra, comunque, una tendenza a molti­plicare le strutture e a rendere lo schema sempre più articolato: Basilide conta non meno di 365 cieli. Il si­gnificato religioso di questa architettura cosmica risiede nell'idea per cui tutto ciò che interviene tra il mondo terreno e l'aldilà serve per separare l'uomo da Dio non semplicemente attraverso la distanza spaziale, ma me­diante un'attiva forza demoniaca. Perciò la vastità e la molteplicità del sistema cosmico esprimono il grado di lontananza dell'uomo da Dio.

Le sfere sono le sedi degli Arconti, la cui serie cor­rente di sette corrisponde alle divinità planetarie del pantheon babilonese, ora significativamente rinominate con alcuni sinonimi del Dio ebraico - un altro segno della degradazione di quest'ultimo. Gli Arconti colletti­vamente governano il mondo che essi, o il loro sovrano, hanno creato e ciascuno individualmente, nella sua sfe­ra, è un guardiano della prigione cosmica. Il loro go­verno mondano tirannico, detto destino (heimarméne), coincide da un punto di vista fisico con la legge di na­tura, mentre da un punto di vista morale con la legge di giustizia, esemplificata da quella mosaica ed emanata, con la sua minaccia retributiva, dal Demiurgo o dagli angeli in direzione di quel medesimo asservimento dell'uomo che quella legge naturale esercita con la sua forza di necessità. Come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la ri­salita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio.

L'uomo, il principale soggetto di questo vasto as­setto, è composto di carne, anima e spirito. Ridotto ai suoi principi ultimi, la sua origine è duplice: mondana ed extramondana. Sia il corpo che l'anima sono prodotti delle potenze cosmiche che, da un lato, hanno formato il corpo a immagine dell'Uomo primordiale divino e, dall'altro, lo hanno animato con le loro proprie forze psichiche: queste ultime costituiscono gli appetiti e le passioni dell'uomo naturale, provenendo ciascuna in modo corrispondente da una singola sfera cosmica e formando tutte insieme l'anima astrale dell'uomo, la sua psiche. Attraverso il suo corpo e la sua anima, l'uomo è una parte del mondo ed è soggetto all' heimarméne. Rin­chiuso nell'anima vi è lo spirito o pnéuma, detto anche scintilla, una porzione della sostanza divina proveniente dall'aldilà e caduta nel mondo; gli Arconti hanno creato l'uomo con il proposito esplicito di tenerla qui prigio­niera. Perciò, come nel macrocosmo l'uomo è racchiuso nelle sette sfere, così nel microcosmo umano il pnéuma è racchiuso nei sette rivestimenti psichici originati da quelle. Questi involucri psichici sono considerati me­nomazioni e ostacoli per lo spirito transmondano e la sua incarnazione nel corpo esterno e materiale completa semplicemente questo complesso imprigionamento. La costituzione umana risultante è, quindi, paragonabile a una cipolla con molti strati, articolata sul modello del cosmo stesso, ma in ordine inverso: ciò che nel cosmo è più esterno e superiore risulta nell'uomo il più interno, mentre lo strato più interno o inferiore dell'ordinamento cosmico, la terra, rappresenta il rivestimento corporeo esterno dell'uomo. Solo l'uomo più interno o Pneumati­co è il vero uomo e questi non appartiene al mondo, così come il suo originale nell'ordinamento totale, la divi­nità, è esterna al cosmo nella sua totalità. Nel suo stato irredento, lo spirito, lontano dalla sua fonte e immerso nell'anima e nella carne, è inconsapevole di se stesso, paralizzato, addormentato o intossicato dal veleno del mondo - in breve, è ignorante. Il suo risveglio e la sua liberazione sono realizzati dalla conoscenza.

L'antropologia gnostica presenta tre tipi di uomini: gli "spirituali" o "Pneumatici", gli unici veramente in grado di accedere alla gnosi necessaria perché la scintilla divina venga rianimata; gli "psichici", che possono accostarsi alla gnosi solo parzialmente e con grande difficoltà (secondo certe scuole il loro sarebbe uno sforzo vano); e gli "ilici", gli uomini irrimediabilmente legati alla materia a cui la gnosi rimane preclusa. Lo gnosticismo è di conseguenza caratterizzato da un indubbio elitismo (gli stessi sistemi gnostici non erano certamente alla portata di cristiani analfabeti o dalle risorse intellettuali limitate) e da un marcato individualismo, in quanto ciascun uomo si occuperà della coltivazione della propria scintilla interiore più che dei problemi della comu­nità o della collettività.

 

dottrina della salvezza

Per gli gnostici la salvezza viene dalla gnosi. Tuttavia lo gnosticismo è anche una religione della redenzione, che non prevede. soltanto l'auto-redenzione attra­verso la conoscenza, ma anche l'intervento di figure di re­dentori. Nelle forme più cri­stianeggianti di gnosi, il redentore o uno dei redentori è normalmente identificato con Cristo (senza escludere che anche altri personaggi siano apparsi per aiutare gli uomini).

Caratteristica è la dottrina del "docetismo" secondo cui Cristo non ha vera­mente sofferto né è morto in croce, o perché agli uomini è apparso come immagine illusoria che i loro sensi hanno creduto di percepire, o perché ha abbandonato il suo corpo terrestre prima della passione (in certe varianti del mito è proprio un'altra persona che soffre per lui).

Con l'aiuto delle figure redentive e dell'auto-redenzione tramite la conoscenza, lo gnostico potrà al momento della morte ini­ziare il suo viaggio celeste per ricongiungersi al Pleroma. Non in tutti i si­stemi gnostici si parla di metempsicosi o di reincarnazione. Più diffusa è l'idea di un'ascesa dell'anima che deve passare attraverso una serie di prove o stazioni.

 

messianismo

Il mito. gnostico, peraltro, è essenzialmente escatologico e ci parla di una fine più o meno prossima, con la distruzione totale del mondo della materia e delle tenebre. Il risveglio della consapevolezza gnostica in alcuni uomini viene considerato il segno che le varie parcelle di luce disperse nel mondo stanno per riunirsi e che eventi apocalittici sono imminenti.

 

struttura delle comunità

Degli aspetti rituali, sociologici e morali dell'antico gno­sticismo sappiamo pochissimo. Si sa che alcuni gruppi met­tevano in comune la loro proprietà. Soltanto una minoranza dei capiscuola gnostici (fra cui Marcione) si preoccuparono di fondare una Chiesa con una struttura formale; gli accenni alla presenza di "vescovi" sono piuttosto scarsi. E' più probabile che gli gnostici si riunissero attorno capi­scuola o predicatori che si attirano un certo seguito. Alla loro morte, di solito, la scuola si divide, senza che ci si preoccupi troppo di eresie e di sco­muniche. Si parla spesso, è vero, di "Chiesa", ma senza che le preoccupazioni di disciplina e di gerarchia articolata appaiano preminenti. Vi è peraltro, in molte scuole, una certa attività missionaria.

 

culto e sacramenti

Il culto è visto, originariamente con sospetto in quan­to ha qualche cosa a che fare con il mondo materiale. Que­sto sospetto si traduce tuttavia in una grande varietà di at­teggiamenti, da un culto spiritualizzato e ridotto al minimo presso i Valentiniani fino a riti orgiastici a chiaro sfondo sessuale (con la consumazione rituale, per esempio, di sper­ma e sangue mestruale) presso i Fibioniti, e al culto di un serpente presso gli Ofiti.

Per quanto riguarda i sacramenti, le fonti attestano (ma non in tutti i gruppi) il battesimo, l'unzione con l'olio (chrisma), altre forme di unzione e un "pasto sacro" o "Eucaristia" dove accanto al pane l'acqua sostituiva spesso il vino per evitarne la funzione intossicante. È attestato anche un sacramento per i morti, accanto a sacramenti specificamente gnostici come apolytrosis o "sacramento della redenzione" – una sorta di battesimo superiore o di iniziazione – e una cerimonia della camera nuziale, che simboleggiava la riunione dell'anima con il Pleroma.

 

precetti morali

Come è avvenuto spesso nella storia, l'anti-cosmismo che portava lo gnostico a considerarsi straniero nel mondo - ed estraneo anche alla legge morale, che fa parte del mondo materiale o peggio viene dal Demiurgo - ha porta­to gruppi diversi a conseguenze radicalmente opposte: da una parte un rigoroso ascetismo, dall'altra un totale liberti­nismo soprattutto nella sfera sessuale. I testi di Nag Ham­madi attestano comunque anche la presenza di una "terza via", più moderata, dove ci si limita a ripetere qualche semplice precetto etico dalla letteratura greca e cristiana più diffusa.

 

rapporto con le autorità

Si sa molto poco - anche se si è speculato spesso - delle idee sociali degli gnostici, che potevano fa­cilmente configurarsi come un movimento di protesta e di rifiuto delle autorità costituite.

 

la posizione della donna

Le chiese gnostiche si caratterizzano per un attivi­smo delle donne maggiore rispetto ad altri gruppi religiosi. Peraltro in alcuni testi di Nag Hammadi vi è una svaluta­zione della femminilità che dovrebbe rendere prudente chi ha voluto a tutti i costi parlare di un "femminismo" ante Iitteram. In realtà quella che viene svalu­tata è la separazione, la differenza fra uomo e donna, che - come ogni differenza - fa parte del mondo delle tene­bre. La donna Pneumatica può tuttavia superare la differenza "diventando uomo", come emerge da un episodio significativo di un testo di Nag Hammadi, il Vangelo di Tommaso: Pietro pensa che Maria Maddalena debba la­sciare il gruppo dei discepoli "perché le donne non sono degne della Vita", ma Gesù dice: "In verità la guiderò fi­no a che diventi maschio, così che possa diventare anche lei uno spirito vivente come voi che siete maschi. Perché ogni donna che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli".

 

esponenti principali

Il primo caposcuola gnostico di cui ci parlano le fonti è Simon Mago, samaritano, la cui attività si colloca intorno al 50 d.C. Le fonti cristiane ne fanno un avversario degli Apostoli, da cui cerca di comprare i "poteri" (da cui la parola "simonia"), dedito alla magia e venerato dai suoi seguaci come una divinità insieme alla compagna Ele­na, una prostituta ritrovata a Tiro in cui Simone aveva "scoperto" l'incarnazione della Sophia terrestre peregri­nante sulla terra. Secondo alcuni testi cristiani Simon Ma­go avrebbe voluto sfidare san Pietro mostrando la sua ca­pacità di volare, ma sarebbe rovinosamente caduto a terra morendo in seguito alle ferite riportate. Tra i suoi discepoli sono ricordati Menandro e Saturnino. Altri gnostici antichi (Cerinto, Carpocrate e il figlio Epifanio) non possono esse­re considerati discepoli di Simone.

I primi grandi sistemi gnostici appaiono nel secondo secolo con Basilide, attivo in Alessandria negli anni 117 -161; Marcione, un contempo­raneo di Basilide venuto dall' Asia Minore a Roma, e Valentino, nato probabilmente in Egitto, attivo in Alessandria e poi a Roma fra il 140 e il 165. Le maggiori testimonianze riguardano proprio la scuola di Valentino, rappresentata da Tolomeo, Eracleone e Marco (Markos). Le tre grandi scuole di Basilide, Marcione e Valentino continuano le loro attività nel terzo secolo, e contro di loro si dirige principalmente la polemica dei Padri della Chiesa (decisiva anche per la formulazione deldogma cristiano, proprio in contrapposizione allo gnosticismo).

Sappiamo molto poco di forme piu tardive di gnosi, a cui dovrebbero appartenere gruppi estremistici o licenziosi come gli Ofiti e i Fibioniti. Agli inizi del terzo se­colo è attivo alla corte di Edessa e in Armenia il filosofo cristiano eterodosso Bardesane, anello di collegamento fra lo gnosticismo propriamente detto e il manicheismo.

 

il manicheismo e il mandeismo

L'eresia manichea venne iniziata in Persia da Mani, nato probabilmente nel 215 e morto in prigione nel 276, incarcerato dal re Bahram I che - a differenza dei suoi predeces­sori Shapur I e Ohrmuzd I - vedeva con ostilità la nuova religione. Nonostante questo il manicheismo divenne una grande religione universale e un serio rivale del Cristianesi­mo in numerose zone del mondo, diffondendosi dalla Spa­gna fino alla Cina, dove le comunità manichee (le ultime superstiti) sarebbero scomparse soltanto verso il 1300, di­strutte dall'avanzata mongola. Si discute molto se il siste­ma di Mani - che si considerava il principale "apostolo della luce", superiore ai suoi predecessori fra cui Abramo, Buddha, Zoroastro e Gesù - possa essere considerato gnostico. La struttura  di religione universale rappresenta certamente qualche cosa di diverso dallo gnosticismo classico, ma molte idee sono comuni e l'influenza è evidente.

Se il manicheismo non è sopravvissuto, un'altra religione – ancora più simile allo gnosticismo in molte caratteristiche fondamentali, tanto da essere considerata da vari specialisti una sua branca o parte – è arrivata fino ai nostri giorni. Si tratta della religione dei Mandei, che conta ancora una decfina di migliaia di seguaci in Iraq, che vivono pe­raltro in condizioni piuttosto precarie soprattutto dopo gli avvenimenti della guerra del Golfo. Considerati una "religione del libro" e quindi tollerati dall'lslam, i Mandei sono tut­tavia avvertiti come un corpo estraneo dalla società circo­stante e non hanno vita facile. Il reclutamento del loro cle­ro è particolarmente difficile (sono rimasti meno di dieci sacerdoti), così come la trasmissione alle giovani generazio­ni di un sapere mitologico spesso estremamente complica­to. Lo studio della religione mandea rimane comunque af­fascinante, e costituisce l'ultima occasione per entrare in contatto con un sistema gnostico vivente.

 

 

 

Il mistero delle origini dello gnosticismo

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Nei cento anni dall'inizio dello studio sistematico del fenomeno, a partire dalla fine del Settecento, è stata proposta praticamente ogni genealogia possibile per le idee gnostiche: le sue origini sono state ricondotte volta a volta ad una forma "patologica" di platonismo intellettualizzante; al pensiero giudaico del periodo alessandrino; alla filosofia stoica; alle religioni iraniche; alle credenze babilonesi; ai miti egiziani; alla filosofia indiana.

Ecco una carrellata significativa dei vari tentativi di tracciare le origini dello Gnosticismo

 

   Giudaismo precristiano (Friedländer)

   Religione astrale babilonese nata dal sincretismo che seguì alla conquista di Ciro (Kessler, 1882)

   Mandeismo (Brandt, 1889)

   Pensiero indiano (F.C. Bauer, 1831, Lassen, 1858)

   Siria e Fenicia (Lipsius, 1860)

   Tardo mazdeismo (Hilgenfeld, 1884)

   Filosofia platonica e misteri greci (Joel, 1880; Weingarten, 1881; Koffmane, 1881; Anrich, 1894; Wobbermin, 1896)

   Ermetismo alessandrino (Reitzenstein, 1904)

   Egitto (Amélineau, 1887; Dietrich, 1891)

   Neoplatonismo (Schmidt, 1901)

 

Facendo il punto su questa situazione paradossale agli inizi del Novecento, John Arendzen rimarcava come in realtà lo Gnosticismo, pur avendo punti di contatto con tutte le religioni e filosofie della sua epoca, continuava a rappresentare un enigma, perché il suo radicale pessimismo e acosmismo non poteva provenire da nessuno dei sistemi di pensiero a lui coevi: non da quello greco, che valorizzava la bellezza del cosmo e dell'essere umano; non da quello babilonese, che non si occupava che marginalmente della vita nell'aldilà, e proponeva un ideale di esistenza terrestre virtuosa e felice; non dall'ebraismo, nel quale non si trovano tracce di svalutazione del cosmo; non da radici iraniche zoroastriane, che consideravano la vita una prova positiva da superare. Di fronte a questo scacco della ricerca, bisognava prendere atto che il pensiero gnostico deriva da radici antropologiche, da una polarità fondamentale dell'animo umano, quella della disperazione e dell'anelito verso il nulla, che lo gnosticismo spartisce con un altro fenomeno unico nella storia del pensiero: il buddhismo hinayana del nirvana e dell'annichilazione come via di fuga da dukkha (impermanenza e sofferenza).

Questo non vuol dire ammettere una filiazione dello gnosticismo dal buddhismo, anche se indubbiamente pensatori come Mani erano venuti in contatto con le idee buddhiste (Buddha figura tra le figure che Mani considera le incarnazioni del salvatore, insieme ad Abramo e ad altri personaggi mitici). Buddhismo e Gnosticismo, provenienti dalla stessa radice di pensiero, hanno però avuto uno sviluppo molto diverso, in dipendenza dal diverso ambiente in cui sono fioriti.

Si capisce così come abbia potuto guadagnare consenso l'interpretazione "esistenzialista" di Hans Jonas, che nei suoi fondamentali lavori ha individuato nella temperie tardoantica, caratterizzata da sfiducia, stanchezza, desiderio di evasione, la radice principale dello Gnosticismo, che lo rende attuale in un'epoca così simile – fatte le dovute rettifiche – alla nostra.

Come pure è emerso l'approccio puramente filologico, che si limita a confrontare lo Gnosticismo con i sistemi della sua epoca e a rimarcarne le indubbie differenze.

Malgrado questi caveat, oggi prevale l'opinione che il pensiero gnostico si sviluppò dal giudaismo, ma fu uno sviluppo del tutto peculiare e distante dalle correnti principali. Comunque sia, dunque, esso conserva il carattere di una straordinaria originalità.

Non sono tanto i singoli elementi in sé considerati a rappresentare una novità, essendo riconosciuto che sono caratteristici dei sistemi sincretistici dell'epoca, ma il modo in cui reagiscono l'uno con l'altro, modificando profondamente il significato posseduto in origine. La combinazione di pessimismo e acosmismo da un lato, e di misticismo neoplatonico dall'altro conduce ad esiti del tutto peculiari, che non si ritrovano in nessun sincretismo dell'epoca.

 

 

 

I caratteri dello Gnosticismo in dettaglio

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La  gnosi

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La conoscenza degli gnostici non era di tipo razionale. Gnosis significò anzitutto conoscenza di Dio, e da quanto abbiamo detto circa la radicale trascendenza della divinità ne consegue che "conoscenza di Dio" è la conoscenza di qualche cosa di inconoscibile naturalmente e perciò di per sé non una condiziona naturale. Oggetto di tale conoscenza è tutto quello che appartiene al regno divino dell'essere e precisamente l'ordine e la storia dei mondi superiori e ciò che deve provenirne,  ossia la salvezza dell'uomo. Con simile contenuto la conoscenza atto mentale differisce profondamente dalla conoscenza razionale della filosofia. Da una parte è strettamente legata all'esperienza della rivelazione,  di modo che la ricezione della verità, sia attraverso la dottrina sacra e segreta o per mezzo di una illuminazione interiore, sostituisce l'argomento razionale e teorico (sebbene questa base extrarazionale possa fornire una prospettiva per una speculazione separata); dall'altra parte, poiché riguarda i segreti della salvezza, la "conoscenza" non è solo un'informazione teoretica su alcune realtà, ma ha essa stessa in quanto rappresenta una modificazione della condizione umana, la funzione di attuare la salvezza.

Per tale motivo la "conoscenza" gnostica ha  un aspetto eminentemente pratico. L'oggetto ultimo della gnosi è Dio: il suo avvento nell'anima trasforma lo gnostico facendolo partecipe della divina essenza (il che significa molto di più che l'assimilarlo all'essenza divina). Perciò nei sistemi gnostici più radiali come quello valentiniano la "conoscenza" non è solo strumento di salvezza ma è la forma stessa in cui si possiede il fine della salvezza, cioè la perfezione ultima. Tali sistemi pretendono che la conoscenza e il possesso da parte dell'anima di Colui che è conosciuto coincidano, pretesa questa di ogni reale misticismo. Tale è anche la pretesa della theoria greca, ma in un senso diverso. In questo caso l'oggetto della conoscenza è l'universale e la relazione conoscitiva è "ottica", ossia un analogo della relazione visuale con una forma oggettiva che rimane inalterata nonostante la relazione. La "conoscenza" gnostica riguarda il particolare (perché la divinità trascendente è pure sempre un particolare) e la relazione di conoscenza è mutua, cioè un conoscersi allo stesso tempo, e implica un'attiva effusione di sé da parte del "conosciuto". Là la mente è "informata" dalle forme che contempla e mentre le contempla (pensa); qui il soggetto è "trasformato" (da "anima" in "spirito") per l'unione con una realtà che in verità è essa stessa in queste condizioni il soggetto supremo e strettamente parlando non è mai un oggetto. Questo è sufficiente a delimitare il tipo gnostico di conoscenza differenziandolo dall'idea di teoria razionale secondo cui era stato sviluppato nella filosofia greca.

 

 

Il  dualismo

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Nell'ambito dello Gnosticismo possiamo distinguere due tipi di dualismo: quello della corrente siro-egiziana, cui la maggioranza dei sistemi, specialmente quelli cristia­ni, appartengono, e quello della linea specu­lativa iranica, che culmina in Mani.

Entrambe le tipologie, essendo gnostiche, erano sta­te articolate per fornire spiegazione dei medesimi fatti, relativi a una situazione metafisica turbata ed entrambe presentano una forma dualistica in riferimento al loro tema comune, ossia alla scissione esistente tra Dio e mondo, mondo e uomo, spirito e carne. Il tipo iranico, mediante un adattamento gnostico della dottrina zoroa­striana, parte però da un dualismo tra due principi oppo­sti e dovendo poi spiegare come l'Oscurità originaria giunga a inghiottire degli elementi di Luce, esso descri­ve il dramma mondano come una battaglia con alterne fortune; il destino divino, di cui quello umano rappre­senta una parte e il mondo una conseguenza non voluta, viene descritto in termini di mescolamento e scomposi­zione, di imprigionamento e liberazione. Qui la figura maschile e cavalleresca del Primo Uomo, il guerriero, assume il ruolo della parte esposta e sofferente della divinità.

La speculazione siriaca, con la Sophia femminile in questo ruolo, si impegna invece nel compito più am­bizioso di derivare il dualismo stesso, e la conseguen­te situazione problematica del divino nel sistema della creazione, dall'unica e indivisa fonte dell'essere. Essa realizza ciò per mezzo di una genealogia di stati divini personificati che, scaturendo l'uno dall'altro, descrivo­no il progressivo oscuramento della Luce originaria me­diante le categorie di colpa, errore e fallimento. Questa devoluzione all'interno dell'essere divino si conclude con la decadenza nella completa autoalienazione, ossia con questo mondo. Entrambi i drammi iniziano con un turbamento nei vertici; in entrambi l'esistenza del mon­do segna una sconfitta del divino e un mezzo necessario, ma in se stesso non desiderabile, per la sua restaurazione finale; in entrambi la salvezza dell'uomo coincide con quella della divinità stessa. La differenza risiede nell'al­ternativa per cui, in un caso, la tragedia si impone sulla divinità dall'esterno per lo sconfinamento di un'oscuri­tà indipendente, che pertanto assume per prima l'inizia­tiva (essendo la divinità stessa in perfetta tranquillità), nell'altro, il turbamento è motivato proprio dall'interno, per cui Oscurità e Materia sono i prodotti della passio­ne divina stessa, ipostatizzati come termini esterni. Alla sconfitta e al sacrificio divini presenti nel primo caso corrispondono la colpa e l'errore divini nel secondo; alla compassione per la Luce immolata, il disprezzo spiri­tuale per la cecità demiurgica; alla liberazione divina finale, la correzione mediante illuminazione.

I sistemi manicheo e valentiniano esemplificano ri­spettivamente queste due tipologie. Il tipo iranico, con la sua nobile storia di battaglia, disfatta e recupero, si presta a una drammatizzazione più concreta e avvincen­te. Al contrario, solo il più sottile sistema siriaco, accor­dando uno statuto metafisico a conoscenza e ignoranza quali modi della vita divina e quindi quali categorie universali e cosmogoniche, riesce pienamente a giu­stificare la pretesa redentiva rivendicata a favore della conoscenza in tutta la religione gnostica. La speculazio­ne valentiniana assume infatti che l'evento umano in­dividuale della conoscenza Pneumatica inverta l'evento precosmico universale dell'ignoranza divina, apparte­nendo pertanto, nel suo effetto redentore, al medesimo ordinamento ontologico. In tal modo l'attualizzazione della conoscenza nel singolo risulta, allo stesso tempo, un atto nel fondamento generale dell'essere.

 

 

Il Pleroma e il Pantheon divino

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L'Assoluto, nelle mitologie gnostiche, non è comunque solo, ma appare circon­dato da un'aura di manifestazioni eterne e graduate della sua infinitezza, aspetti parziali della sua perfezione ipostatizzati a enti quasi personificati (eoni), dotati di nomi estremamente astratti (la maggior parte relativi a qualità mentali) e insieme costituenti la gerarchia del regno divino, il Pleroma (pienezza). L'emanazione di questa molteplicità interna a partire dal fondamento pri­mario, una specie di auto-differenziazione dell' Assolu­to è talvolta descritta in termini di sottile dialettica spi­rituale, più spesso però in forme piuttosto naturalistiche (per esempio, sessuali). Tra le tenui entità mitologiche che da ciò emergono (come Mente, Grazia, Parola, Co­noscenza, Vita) ve ne sono due più concrete, cui sono attribuiti ruoli specifici nella successiva evoluzione del dramma trascendente: l'Uomo come principio eterno, divino, precosmico (talvolta anche identificato con il Primo Essere stesso) e la Sapienza (Sophia), di solito l'ultimo e il più giovane tra gli eoni. Un'estesa specula­zione sulla differenziazione interna al Pleroma rappre­senta il segno proprio di sistemi avanzati, ma un qualche grado di molteplicità nei regni superiori dell'essere è un requisito comune a tutta la metafisica gnostica, perché esso fornisce la condizione per la fallibilità divina da cui dipende il movimento di creazione e di alienazione.

Questa caratteristica distingue nettamente lo Gnosticismo dalle altre correnti del cristianesimo e soprattutto dall'ebraismo, con il suo stretto monoteismo, e lo avvicina invece al pensiero greco, dove la definizione di Dio come unità non ha niente a che fare con il monoteismo. Il neoplatonismo, che ha in comune con lo Gnosticismo il concetto di divinità suprema assolutamente trascendente, tuttavia, conformemente a tutta la tradizione ellenica, difende esplicitamente il politeismo come conseguenza necessaria della infinita potenza della divinità: "Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così molteplice come essa stessa di manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dei che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa" (Plotino, Enneadi, II, 9, 9)

Gli Gnostici sembrano qui fare un passo indietro rispetto alla conquista fondamentale del pensiero ebraico: il monoteismo. La loro lettura della Genesi è in proposito curiosamente moderna: ormai da tempo gli studiosi di storia delle religioni concordano sul fatto che il monoteismo fu uno sviluppo relativamente tardo del pensiero ebraico, corrispondente alla fase monarchica della loro storia. La critica testuale ha potuto identificare nella Genesi due diversi documenti fondamentali dell'antica tradizione religiosa ebraica, che sono stati fusi nei primi libri della Bibbia, dove talvolta si trova una doppia narrazione degli stessi miti: quello più antico, che reca tracce politeistiche, chiama la divinità Elohim e usa il plurale ("gli Elohim") e quello che usa invece la denominazione Jahvè. Gli Gnostici notarono questo fatto e vi videro una prova che secondo la Bibbia il mondo era stato governato da una pluralità di divinità: il Demiurgo e i suoi Arconti.

 

 

Il  docetismo

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Gli studiosi moderni considerano l'interpretazione "docetica" di Cristo come un tipico attributo dello Gnosticismo. Il docetismo è l'idea che Gesù non aveva un corpo umano materiale; egli "sembrava" solamente (in greco dokein) avere carne e sangue. Secondo questa teoria, Gesù non soffrì realmente né necessitava di mangiare, ma finse di farlo per sembrare un uomo tra gli uomini. Gli Gnostici certamente non avevano un'alta opinione del corpo (una "prigione") né consideravano un corpo materiale un attributo essenziale del Redentore, che nei loro racconti "indossa" il Gesù umano come un abito che può facilmente dismettere. Il docetismo ammette diverse varianti.

Cerinto propose una soluzione alternativa, che riconciliava gnostici ed ebioniti. Il figlio di Giuseppe e Maria era un uomo che era il migliore e più saggio della razza umana. Durante il battesimo del Giordano, il Cristo, il primo degli eoni, il figlio stesso di Dio, scese a abitare la sua mente e dirigere le sue azioni. Se ne tornò al Pleroma prima della passione, lasciando il Gesù terrestre ad espiare. Basilide e Valentino adottarono un sistema di questo tipo.

Il sistema di Valentino era ancora più complesso: a) sia Cristo e Gesù erano eoni, di grado differente; Cristo operava come  anima razionale, Gesù come spirito divino del salvatore; 2) Durante la passione entrambi si ritirarono e lasciarono solo un'anima sensitiva e un corpo umano; c) persino quel corpo era etereo, e forse apparente

Il docetismo, come rileva Elaine Pagels, ha a che fare con la questione della investitura apostolica. Il cristianesimo ortodosso sostiene che Cristo apparve materialmente, "in carne e sangue" agli apostoli, mentre a tutti gli altri, come per esempio sulla via di Emmaus, concesse solo delle visioni o apparizioni. Ne consegue che solo l'investitura degli apostoli, fatta non da un fantasma, ma da un essere reale, è valida, e fonda l'autorità degli apostoli e dopo di loro dei vescovi - che secondo le leggi della Chiesa ne sono i successori - sugli altri cristiani. Evidentemente questa pretesa non poteva essere accettata dagli Gnostici, perché per loro, a parte la questione del docetismo, l'incontro col Redentore è un fatto personale che avviene in tempi diversi in ciascun credente a cui è concessa la gnosi divina.

 

 

Elitismo e predestinazione

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L'elitismo è un'altra caratteristica del credo gnostico. Come si è già visto, l'umanità viene divisa in ilici, spirituali e Pneumatici, e solo questi ultimi sono destinati alla salvezza.

Gli gnostici credevano di avere informazioni negate alla massa. In molti vangeli gnostici Cristo chiama a sé un gruppo di discepoli e solo a loro rivela verità nascoste. Essi si facevano beffe dei cristiani comuni, che interpretavano letteralmente il vangelo e i sacramenti.

Clemente di Alessandria ed Origene accusavano gli Gnostici, di considerare la salvezza o la dannazione un fatto "geneticamente determinato" dalla propria ascendenza spirituale: gli gnostici, come discendenza o seme di Seth erano salvati "per natura", tutti gli altri destinati alla distruzione "per natura". Questi insegnamenti, ci fa sapere l'eresiologo del IV secolo Epifanio, erano particolarmente diffuse tra i Sethiani.

Alcuni testi, come la Rivelazione di Adamo, sembrano prendere alla lettera le genealogie della Bibbia e proporre un nozione etnica della salvezza: dopo il diluvio i discendenti di Sem rappresentano gli Ebrei; quelli di Cam e Japhet i gentili; distinta da loro esiste la "razza non assoggettata", "Il (vero) Popolo", a cui è esclusivamente riservata la salvezza.

Altre correnti gnostiche ammettevano che, come, nell'antichità, non era raro il caso di chi cambiasse appartenenza, muovendo da una nazione all'altra, ripudiando gli dei ancestrali per i nuovi e acquisendo una nuova etnia, così le persone potevano volgersi alla luce ripudiando la vita materiale e diventare popolo eletto.

 

 

Gli insegnamenti segreti

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Gli gnostici sostenevano di possedere fonti di rivelazioni divine segrete. Nel Libro Segreto il Redentore rivela l'esistenza del Pleroma e il reale significato della Genesi al discepolo Giovanni, apparendogli misticamente dopo l'ascensione. Nell'Apocalisse di Adamo Seth prende la parola per rivelare insegnamenti nascosti. Come nel caso di altre sette apocalittiche, si sostiene che rivelazioni segrete sono state tramandate tra i membri del gruppo e destinate ad essere rivelate nei tempi ultimi. In polemica con gli altri gruppi cristiani che proponevano insegnamenti diversi dai loro, gli Gnostici sostenevano di essere gli unici possessori della vera conoscenza (gnosis) di Dio, sulla base di rivelazioni ricevute.

 

 

Il Demiurgo. Acosmismo. Pessimismo.

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il demiurgo

Presto, nella serie discendente, compare - segnato da tutti gli effetti deformanti della caduta di cui è il ri­sultato - il Demiurgo, l'arconte (signore) mostruoso e ottenebrato delle potenze inferiori. Questa figura gnosti­ca assai diffusa, simbolo manifesto dell'ostilità gnostica verso il mondo, è chiaramente una caricatura polemica del Dio dell' Antico Testamento, come appare esplicito anche dal frequente trasferimento su di lui di espressio­ni e azioni notoriamente attribuite al Dio del testo bi­blico. Orgoglio, ignoranza e malevolenza del Creatore sono temi ricorrenti nei racconti gnostici, come lo sono la sua umiliazione e le astuzie delle potenze superiori decise a sventarne il disegno. Nel complesso della mito­logia gnostica, in ogni caso, l'immagine Arcontica muta e vi sono versioni più moderate in cui egli appare più fuorviato che malvagio e perciò disponibile alla corre­zione e al rimorso, anche alla redenzione finale. È però sempre una figura problematica e mai venerata.

Trovandosi nel vuoto o nel caos al di fuori del Pleroma, in possesso del potere ereditato dalla madre ma ignorante del mondo divino presente al di sopra di lui, egli crede di essere l'unico Dio e si cimenta in creazio­ni, modellate più che altro per soddisfare la sua ambi­zione, la sua vanità e il suo desiderio di dominio. Spiccano, nella schiera delle potenze inferiori che hanno da lui origine, sei ulteriori Arconti che egli pone in sei cieli susseguenti; egli occupa il settimo sopra di loro. Da ciò deriva l'ordine cosmico e il suo sistema di norme os­sia l'universo dell'astrologia babilonese con le sue sette sfere planetarie e le corrispondenti divinità onnipotenti. Un'ottava e ulteriore regione (corrispondente alla sfera delle stelle fisse) è occupata dalla madre Sophia, an­cora esiliata dal Pleroma: essa non svolge alcun ruolo nella creazione e nel governo del mondo, intervenendo piuttosto in entrambi in direzione salvifica. La versione valentiniana, la più sottile, descrive il Demiurgo come una figura che tenta invano di imitare nel mondo fisico da lui creato il perfetto ordinamento degli eoni e la loro eternità mediante il sostituto contraffatto del tempo - aggiungendo così alla parodia del creatore biblico an­che quella del demiurgo platonico. Tuttavia, l'esempio principale di imitazione illecita e maldestra riguarda la creazione dell'uomo.

La restante parte della creazione è opera congiunta dei sette Arconti. A dire il vero, i primi sistemi (come quello di Simon Mago) indicano semplicemente i set­te come i creatori del mondo, mentre la preminenza di uno di loro, disegnando i tratti di un monoteismo della divinità cosmica (inferiore), sembra essere caratteristica della fase matura della speculazione gnostica. In questo caso, un episodio, riferito in termini quasi identici nelle cosmogonie di numerose scuole diverse, celebra l'ini­zio del successivo atto nel dramma della creazione: il Primo Arconte (il Demiurgo), esultando nella sua opera con la proclamazione scritturistica, "lo sono Dio e non vi è nessun altro all'infuori di me" suscita la replica dall'alto, "Ti sbagli! Sopra di te è il Primo Uomo".

Gli gnostici enfatizzano i passaggi della Bibbia che dipingono il Dio di Israele come ignorante e collerico. Questo Dio, entrando nel giardino dell'Eden, ignora persino dove si trovi Adamo e deve chiederlo alle creature (Genesi 3:8-9); conclude che la creazione di uomini e animali è un errore e decide di distruggere con il diluvio tutti gli esseri viventi ad eccezione di una singola famiglia e di pochi animali (Esodo 6:5-22); in seguito lo vediamo annientare intere città con piogge di zolfo e di fuoco (Esodo 19:24-25). Gli Gnostici non furono i soli ad essere turbati da questi passaggi. Alcuni dotti interpreti cristiani ed ebrei sostennero che questi eventi non sono veri in senso letterale, ma hanno significati spirituali; altri attribuirono queste azioni a una manifestazione inferiore e meno perfetta del dio supremo, la sua cosiddetta "Presenza" o "Parola". Gli Gnostici adottarono il punto di vista più semplice che questa divinità è ignorante, vanesia e ostile agli esseri umani, proprio come appare nel testo biblico, dunque non può essere autenticamente divina, essere veramente Dio, ma Ialdabaoth. Mosè non si rese conto di questo fatto, e così la Genesi, che scrisse, fornisce un resoconto solo parzialmente affidabile della creazione di Adamo, Eva e della loro progenie.

Queste idee non sono peculiari degli Gnostici; piuttosto, sono congeniali al Medio Platonismo, un movimento filosofico rappresentato da figure come Filone di Alessandria, che visse nel primo secolo, e Alcino, Numenio e Giustino Martire, filosofi del secondo secolo. Filone era un ebreo; Giustino un cristiano e Alcino e Numenio seguivano le religioni tradizionali greca e romana, ma tutti concordavano che è semplicistico identificare il dio che ha creato il mondo in cui viviamo col principio divino supremo. Questi pensatori cercarono lumi sull'origine del mondo nel dialogo platonico contenuto nel Timeo, nel quale una divinità chiamata "il demiurgo" crea l'universo visibile come copia delle forme eterne. Il Demiurgo crea divinità inferiori, che lo assistono, e l'universo che crea e nel quale viviamo è la migliore immagine possibile del perfetto mondo spirituale.

 

il cosmo corrotto

L'universo materiale, ossia il dominio degli Arconti, assume la forma di una vasta prigione la cui cella più in­terna e sotterranea è la terra, la scena della vita dell'uo­mo. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci chiusi concentrici. Il loro numero è di solito pari a sette, con un ottavo livello circostante che non appartiene propriamente al regno Arconti co, ma risulta intermedio tra il cosmo e il mondo superiore del Pleroma. Si registra, comunque, una tendenza a molti­plicare le strutture e a rendere lo schema sempre più articolato: Basilide conta non meno di 365 cieli. Il si­gnificato religioso di questa architettura cosmica risiede nell'idea per cui tutto ciò che interviene tra il mondo terreno e l'aldilà serve per separare l'uomo da Dio non semplicemente attraverso la distanza spaziale, ma me­diante un'attiva forza demoniaca. Perciò la vastità e la molteplicità del sistema cosmico esprimono il grado di lontananza dell'uomo da Dio.

Valentino contrappone la natura alla grazia, la psiche umana allo spirito trascendente e il mondo a Dio.

Lo gnostico interpreta la materia come decadimento, lo spazio in termini di limitazione, il tempo in termini di morte. Tutto ciò che è nel tempo e nello spazio non è buono.

Il mondo è un posto infernale, dove siamo stati gettati e dove angoscia e miseria ci accompagnano. Fuggire dal mondo esterno vuol dire necessariamente rientrare in sé, imbarcarsi in una ricerca del proprio vero sé. L'unica altra alternativa sarebbe il suicidio. Gli gnostici approdano ad una certa forma di autarkeia, simile a quella dello stoico: per coloro che si sono rifugiati nel sé più profondo, che non può essere raggiunto dai poteri malvagi del demiurgo, le circostanze non hanno più nessun potere o valore.

 

 

Gli  Arconti

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Il Demiurgo non governa l'universo da solo, ma guida un gruppo di poteri demoniaci, chiamati Arconti o Reggitori o Autorità e simili. Gli Gnostici trovano trucemente affascinante il numero, i nomi e le caratteristiche di questi Arconti, e un autore gnostico dedica il suo trattato alla dimostrazione della "realtà degli Arconti" e del pericolo che rappresentano per gli esseri umani, lo stesso pericolo da cui l'apostolo Paolo mise in guardia i cristiani nella sua lettera agli Efesini: "La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue; ma piuttosto contro le potenze del mondo e i Principati spirituali che sono il ricettacolo del male" (Efesini, 6:12). Il Libro Segreto secondo Giovanni fornisce l'analisi più dettagliata degli Arconti ed elenca i loro nomi. In quest'opera essi sono poteri celesti, associati con le stelle e i pianeti, e il fato determinato dagli astri costituisce la parte principale del loro potere sugli esseri umani. Gli Arconti ostacolano e fanno venir meno la  nostra potenziale virtù e conoscenza di Dio controllando con gli influssi degli astri le nostre scelte. Il Libro Segreto indica, sulla scorta di fonti zoroastriane, gli Arconti che hanno creato le singole parti del corpo umano, forse allo scopo di consentire agli Gnostici di imbrigliare o invocare il potere degli Arconti quando necessitano di guarire tali parti del corpo. Conoscere i nomi e le gerarchie degli Arconti era probabilmente un mezzo con cui lo Gnostico resisteva alla loro influenza malvagia.

Gli Arconti se pur provengono da Dio non lo conoscono e ne impediscono la conoscenza al Cosmo. I nomi sono quelli del pantheon astrale babilonese o i nomi dell'antico testamento per dio (Iao, Sabaoth, Adonai, Elohim, El). Il loro governo tirannico è chiamato heimarmene.

L'universo materiale, ossia il dominio degli Arconti, assume la forma di una vasta prigione la cui cella più in­terna e sotterranea è la terra, la scena della vita dell'uo­mo. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci chiusi concentrici. Il loro numero è di solito pari a sette, con un ottavo livello circostante che non appartiene propriamente al regno Arcontico, ma risulta intermedio tra il cosmo e il mondo superiore del Pleroma. Si registra, comunque, una tendenza a molti­plicare le strutture e a rendere lo schema sempre più articolato: Basilide conta non meno di 365 cieli. Il si­gnificato religioso di questa architettura cosmica risiede nell'idea per cui tutto ciò che interviene tra il mondo terreno e l'aldilà serve per separare l'uomo da Dio non semplicemente attraverso la distanza spaziale, ma me­diante un'attiva forza demoniaca. Perciò la vastità e la molteplicità del sistema cosmico esprimono il grado di lontananza dell'uomo da Dio.

Le sfere sono le sedi degli Arconti, la cui serie cor­rente di sette corrisponde alle divinità planetarie del pantheon babilonese, ora significativamente rinominate con alcuni sinonimi del Dio ebraico - un altro segno della degradazione di quest'ultimo. Gli Arconti colletti­vamente governano il mondo che essi, o il loro sovrano, hanno creato e ciascuno individualmente, nella sua sfe­ra, è un guardiano della prigione cosmica. Il loro go­verno mondano tirannico, detto destino (heimarméne), coincide da un punto di vista fisico con la legge di na­tura, mentre da un punto di vista morale con la legge di giustizia, esemplificata da quella mosaica ed emanata, con la sua minaccia retributiva, dal Demiurgo o dagli angeli in direzione di quel medesimo asservimento dell'uomo che quella legge naturale esercita con la sua forza di necessità. Come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la ri­salita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio.

 

 

L'assoluta trascendenza della divinità

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La caratteristica basilare del pensiero gnostico è il radicale dualismo che governa il rapporto di Dio col mondo e conseguentemente quello dell'uomo col mondo. La divinità è assolutamente transmondana, la sua  natura del tutto estranea a quella dell'universo, il quale non è creato né governato, e in rapporto al quale il divino è in completa antitesi: al regno divino della luce, in sé perfetto e remoto, si contrappone il cosmo come regno delle tenebre. Il mondo è opera di potenze inferiori le quali, seppure possono prevenire mediatamente da Lui, non conoscono il vero Dio e impediscono la conoscenza di Lui nel cosmo sul quale esse governano. Il Dio stesso trascendente è nascosto a tutte le creature e non può essere conosciuto mediante concetti naturali. La conoscenza di Lui richiede rivelazione soprannaturale e illuminazione ed anche allora può difficilmente  essere espressa altrimenti che in termini negativi.

La trascendenza della divinità suprema è evidenziata al massimo grado in tutta la teologia gnostica, che mutua questo concetto dal Neoplatonismo. Plotino, il principale esponente di questa filosofia, accentua per primo sino all'estremo limite la trascendenza di Dio, sulla quale avevano già insistito i Neo-pitagorici e Filone di Alessandria. Ma mentre Filone ancora identifica Dio con l'essere, Plotino afferma che Dio è "al di là dell'essere", "al di là della sostanza", "al di là della mente", in modo che è trascendente rispetto a tutte le cose, pur producendole e tenendole in essere lui stesso. La causa dell'essere viene in qualche modo staccata dall'essere come ciò che è inafferrabile e inesprimibile da parte dell'uomo.

Da un punto di vista topologico, Dio è transmondano, abitando in un regno completamente al di fuori dell'universo fi­sico, a distanza incommensurabile dalla dimora terrena dell'uomo; da un punto di vista ontologico, è acosmico, anzi anticosmico: rispetto a questo mondo e a tutto ciò che vi appartiene egli è essenzialmente "altro", è "alie­no" (Marcione), è la "Vita aliena" (Mandei), la "pro­fondità" o l' "abisso" (Valentiniani), persino il "non­essere" (Basilide). Da un punto di vista gnoseologico, a causa della trascendenza e alterità della sua essenza e poiché la natura non lo rivela e neanche ne è indice, egli è per natura sconosciuto, ineffabile, impredicabi­le, incomprensibile e assolutamente inconoscibile. Si possono tuttavia assegnargli alcuni attributi positivi e alcune metafore: Luce, Vita, Spirito, Padre, Bene - ma non Creatore, Monarca, Giudice. Significativamente, in alcuni sistemi, uno dei suoi nomi segreti è Uomo. Nel complesso il discorso su Dio deve muoversi attraverso negazioni, per cui storicamente lo gnosticismo costitui­sce una delle fonti principali della teologia negativa.

Nel Timeo Platone non menziona un dio superiore o più astratto del Demiurgo, ma i platonici successivi conclusero che doveva esserci una tale divinità. Dopo tutto, se il demiurgo creò questo mondo a imitazione di uno più alto, chi creò il mondo più alto? Perdipiù, in un altro dialogo, il Parmenide, Platone parla di un principio divino supremo, "l'Uno", che è oltre qualsiasi descrizione e non può neanche essere definito esistente nel modo in cui normalmente pensiamo dell'esistenza. Il Demiurgo del Timeo, per quanto divino e potente, non appare remoto ed astratto quanto l'Uno. Durante il primo ed il secondo secolo d. C. gli intellettuali, specialmente gli ammiratori del pensiero platonico, divennero sempre più consapevoli della distanza tra la natura materiale e soggetta al cambiamento del nostro mondo e l'esistenza ideale e priva di cambiamento, totalmente spirituale, di cui l'Uno sarebbe il tentativo di rappresentazione. Il dio supremo è del tutto trascendente, immutabile e immateriale, come suggerivano le idee di Platone, e non entra direttamente in rapporto con il cosmo materiale.

 

 

Le emanazioni o ipostasi o eoni

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Se il dio supremo è assolutamente trascendente, immutabile e immateriale, la creazione non può essere un atto di volontà, che implicherebbe un mutamento nell'essenza divina. La creazione avviene in modo tale che Dio rimane immobile al centro di essa, sena volerla né consentirvi. Essa è un processo di emanazione, simile a quello per il quale la luce si spande intorno al corpo luminoso o il calore intorno al corpo caldo, o meglio simile al profumo che emana dal corpo odoroso. Plotino, rifacendosi alla nozione aristotelica di Dio come "pensiero del pensiero" interpreta l'emanazione come il pensiero che l'Uno pensa di sé. Nel sistema plotiniano l'uno, pensandosi, dà origine all'Intelletto, che è la sua immagine; l'Intelletto, pensandosi, dà origine all'Anima, che è l'immagine dell'Intelletto. Trascorrendo da immagine a immagine, l'emanazione è anche un processo di degradazione. Ciò che emana dall'Uno è inferiore all'Uno, proprio come la luce è meno luminosa della sorgente da cui emana e l'onda del profumo è meno intensa a misura che si allontana dal corpo odoroso. Gli esseri che emanano da Dio non possono dunque avere né la sua perfezione né la sua unità, ma procedono sempre verso l'imperfezione e la molteplicità.

Tuttavia, mentre in Plotino il mondo, dominato com'è dall'Anima universale, ha un ordine e una bellezza perfetti, che appaiono evidenti agli occhi del filosofo, per gli Gnostici esso rappresenta l'estrema degradazione e corruzione della immagine della divinità.

Il concetto di emanazione è presente anche nella filosofia orientale, in particolar modo nello Zoroastrismo, e anche per questa via è giunto ad influenzare il pensiero gnostico; tuttavia questo è maggiormente vicino alla nozione plotiniana, che presenta importanti differenze da quella orientale: a) l'e­manazionismo di tipo orientale comporterebbe un flusso e un depotenziamento di so­stanza, mentre in Plotino si ha un flusso e un depotenziamento di po­tenza; b) l'emanazione, ad esempio nello Zoroastrismo, è un processo necessario di tipo fisico, mentre. la necessità della processione, in Plotino, consegue alla libera attività dell'Uno che è autocreazione ed è di carattere squisitamente metafisica; c) la processione plotiniana si fonda sul concetto di "contemplazione creatrice", assente nell'emanazionismo orientale

Anche filosofi come Alcino e Numenio scorsero principi mediatori tra il Dio supremo e il mondo creato. Numenio distingueva tra il dio Demiurgo e creatore, che molti uomini sono in grado di riconoscere, e "il primo Dio", o "prima Mente", che non partecipa semplicemente del Bene, ma è il Bene stesso; il primo Dio è associato non con il divenire, ma con il puro essere. Come gli Gnostici, Alcino insegnava che il pensiero di Dio costituiva il regno della realtà spirituale: "Le forme sono pensieri eterni e perfetti di Dio". Anch'egli distingueva tra "il Dio primo" o "Primo Intelletto" e un dio inferiore che chiamava "l'intelletto dell'intero cielo". Alcino descriveva l'ultimo Dio in termini molto simili a quelli in cui le opere gnostiche Il Libro Segreto secondo Giovanni e Lo Straniero descrivono lo Spirito Invisibile: "Esso non è né genere, né specie, né differenza, né possiede alcun attributo", e così continuando. Perdipiù, Alcino concordò con gli Gnostici che il dio ultimo non governa direttamente l'universo in cui viviamo, ma piuttosto una molteplicità di "altre divinità, i demoni, che possiamo chiamare 'dei creati' regge il mondo al disotto del cielo".

In confronto a questi filosofi, gli Gnostici si distinguono per due ragioni: i loro principi mediatori di natura divina sono numerosi e complessi, e il loro Demiurgo è ignorante e persino malvagio. Certamente, il Pleroma o Totalità gnostico è molto più complesso e densamente popolato di quanto Filone, Numenio o Alcino immaginavano, ma i loro numerosi esseri eterni estendono solamente in modo più prossimo al Dio ultimo la molteplicità di divinità che caratterizzavano le visioni antiche del cosmo. Nessun uomo dell'antichità (persino gli ebrei o i cristiani) era monoteista nel senso oggi corrente, cioè, qualcuno che credeva nell'esistenza di uno e un solo Dio. Invece, gli antichi "monoteisti" semplicemente credevano che una singola Divinità Suprema si trovasse al disopra di una gerarchia di dei, demoni e altri esseri spirituali, Gli gnostici non erano soli nella loro moltiplicazione degli aspetti divini del dio ultimo. Cristiani come Basilide e i Valentiniani immaginavano parimenti un complesso mondo della divinità con molteplici eoni, e come gli Gnostici, concludevano che il dio che aveva creato questo mondo era più imperfetto del Demiurgo platonico. La raffigurazione gnostica di Dio era certamente peculiare, ma rientrava nell'ambito del pensiero speculativo del loro tempo. E, infine, la complessità del dio gnostico corrisponde alla complessità della mente umana, che riflette la ragione divina. Se gli esseri umani vogliono capire la loro vera natura, riformare le loro vite, e raggiungere la conoscenza di Dio per la quale furono creati, allora non possono che beneficiare di una mappa del divino intelletto dettagliata più che si può.

 

 

La creazione dell'uomo e la sua natura

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L'anima o psiche dell'uomo, come il corpo, è prodotto delle forze arcontiche, che lo hanno formato a immagine dell'uomo primigenio. Ciascun appetito o passione dell'uomo naturale corrisponde ad una sfera cosmica. Come il mondo sublunare è racchiuso nelle sfere degli Arconti, l'uomo è racchiuso negli strati dell'anima e della carne.

 L'uomo, il principale soggetto di questo vasto as­setto, è composto di carne, anima e spirito. Ridotto ai suoi principi ultimi, la sua origine è duplice: mondana ed extramondana. Sia il corpo che l'anima sono prodotti delle potenze cosmiche che, da un lato, hanno formato il corpo a immagine dell'Uomo primordiale divino e, dall'altro, lo hanno animato con le loro proprie forze psichiche: queste ultime costituiscono gli appetiti e le passioni dell'uomo naturale, provenendo ciascuna in modo corrispondente da una singola sfera cosmica e formando tutte insieme l'anima astrale dell'uomo, la sua psiche. Attraverso il suo corpo e la sua anima, l'uomo è una parte del mondo ed è soggetto all' heimarméne. Rin­chiuso nell'anima vi è lo spirito o pnéuma, detto anche scintilla, una porzione della sostanza divina proveniente dall'aldilà e caduta nel mondo; gli Arconti hanno creato l'uomo con il proposito esplicito di tenerla qui prigio­niera. Perciò, come nel macrocosmo l'uomo è racchiuso nelle sette sfere, così nel microcosmo umano il pnéuma è racchiuso nei sette rivestimenti psichici originati da quelle. Questi involucri psichici sono considerati me­nomazioni e ostacoli per lo spirito transmondano e la sua incarnazione nel corpo esterno e materiale completa semplicemente questo complesso imprigionamento. La costituzione umana risultante è, quindi, paragonabile a una cipolla con molti strati, articolata sul modello del cosmo stesso, ma in ordine inverso: ciò che nel cosmo è più esterno e superiore risulta nell'uomo il più interno, mentre lo strato più interno o inferiore dell'ordinamento cosmico, la terra, rappresenta il rivestimento corporeo esterno dell'uomo. Solo l'uomo più interno o Pneumati­co è il vero uomo e questi non appartiene al mondo, così come il suo originale nell'ordinamento totale, la divi­nità, è esterna al cosmo nella sua totalità. Nel suo stato irredento, lo spirito, lontano dalla sua fonte e immerso nell'anima e nella carne, è inconsapevole di se stesso, paralizzato, addormentato o intossicato dal veleno del mondo - in breve, è ignorante. Il suo risveglio e la sua liberazione sono realizzati dalla conoscenza.

In un tipico mito gnostico sulla creazione dell'uomo, l'apparizione dell'Adamo celeste ispira agli Arconti il piano audace di uguagliare questa perfezione supe­riore in un' opera da loro stessi realizzata, ossia nella creazione dell'uomo terreno - un effetto non previsto in quella mossa divina. Permettendo loro di affermare in quest'occasione, "Venite, facciamo un uomo secon­do l'immagine che abbiamo visto", gli gnostici si pro­pongono altresì di dar conto dello sconcertante plurale presente in Gen 1,26. Il conseguente carattere di imago Dei dell'uomo creato, lungi dall' essere un chiaro onore metafisico, assume ora un significato ambiguo, se non addirittura sinistro. Il motivo di quest'atto Arcontico può essere, in alcuni casi, di semplice invidia e ambizione oppure, in altri, quello più calcolatore diretto a rinchiu­dere la sostanza divina nel mondo inferiore mediante l'esca di un ricettacolo apparentemente congeniale, ma che invece risulterà essere la sua prigione più inviolabi­le. L'imitazione, presuntuosa e imperfetta, appare cio­nonostante efficace. Sebbene la sola creatura Arcontica – un corpo e un'anima naturale composta dalle loro sette potenze psichiche - non sia di per sé viva, lo diventa attraverso l'inserimento di un elemento spirituale pro­veniente dall'aldilà.

 

 

La  Teurgia

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vedi il paragrafo: Teurgia e magia nello Gnosticismo e nella Tarda Antichità

 

 

Il  sincretismo

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Gli Gnostici introducevano nei loro testi gli elementi di qualsiasi sistema con cui venissero in contatto: mitologie orientali, dottrine astrologiche, teologia iranica, elementi della tradizione giudaica di tipo biblico, rabbinico o esoterico. Questa caratteristica peculiare del messaggio gnostico, la capacità di rivestirsi delle forme delle tradizioni con cui veniva in contatto per veicolare le sue idee è forse unica nel pensiero antico.

 

 

L'interpretazione delle Sacre Scritture. L'allegorismo

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Il processo di trasmissione della conoscenza salvifica all'ostaggio di Luce imprigionato nel mondo inizia con Adamo stesso e percorre la storia dell'umanità in un con­tinuo gioco alterno con le potenze Arcontiche. La storia umana è perciò, fin dal principio, escatologica. Alla luce di questo schema, il resoconto scritturistico relativo al primo uomo, in particolare la storia del Paradiso, è sfac­ciatamente rimaneggiato, invertendone tutti i segni di valore. La più significativa tra queste inversioni riguarda il serpente che, quale primo portavoce di conoscenza a dispetto del comando di ignoranza del Creatore, diven­ta il simbolo generale del principio spirituale acosmico che opera per il risveglio del suo simile, prigioniero nel mondo. La linea rivelatoria, così avviata e proseguita per generazioni, termina in Cristo, oppure può continua­re anche oltre in successive rivelazioni della verità. Da qui il culto del serpente in un importante gruppo di set­te gnostiche, gli Ofiti (dal greco, ophis, serpente). Nello stesso spirito di rivalsa, Caino, Esaù e altre figure reiette dell' Antico Testamento diventano, presso determina­te sette (Cainiti, Carpocrati, Perati), titolari dell'eredità Pneumatica, formando una discendenza segreta di gnosi per questo perseguitata dal dio mondano; i loro opposi­tori, come Abele e Giacobbe, suoi preferiti, rappresentano invece la maggioranza non illuminata.

Un altro esempio di reinterpretazione si ha con il mito del diluvio, che non viene visto dagli Gnostici come la giusta punizione inviata da Dio ad un'umanità malvagia, ma come il tentativo del Demiurgo di arrestare il progresso dell'umanità in procinto di arrivare alla gnosi. La moglie di Noè, Norea, era della stirpe divina di Eva, e molto più saggia di suo marito, e tentò di impedire che egli fosse ingannato e partecipasse alle trame del Demiurgo. Questi inviò gli angeli delle tenebre per ucciderla, ma Norea fu salvata da Dio con l'invio di Eleleth ("Sagacità").

Lo spirito mondano della religione ebraica, unito a precise circostanze storiche, aveva reso, a vari gradi, l'Antico Testamento un obiettivo di rilievo per l'avver­sione gnostica. Il vertice di ostilità, persino di disprez­zo, si trova in Marcione, per il quale quella presunta rivelazione autentica del Creatore e Signore di questo mondo condivide ogni infamia con la sua fonte: essa è opposta al vangelo di salvezza come il suo autore divi­no lo è rispetto al Dio che salva e il suo mondo, la sua opera, al regno amondano dell'aldilà. Simon Mago e al­tri non sono affatto meno intransigenti. Una prospettiva più articolata è assunta invece dai Valentiniani: la legge è, quanto meno in parte, prefigurazione della verità su­periore e i profeti, sebbene nel complesso ispirati dal Demiurgo, sono talvolta - e all'insaputa di quello - usa­ti da sua madre, Sophia, per inviare i suoi messaggi e in tal modo diffonderli nella massa inferiore. Vi sono altre sfumature di opinione, ma il rifiuto dell'intero corpo della scrittura ebraica, unito al suo uso esegetico irriverente, è di gran lunga la regola; su tale questione, tra l'altro, come su quella correlata dell'identità o differenza tra il Dio di Mosé e il Padre di Gesù Cristo, fu combattuto lo scontro principale tra la Chiesa e gli eretici.

 

 

L'etica

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In questa vita gli Pneumatici, come i detentori della gnosi si denominavano, sono distinti dalla massa dell'umanità. L'illuminazione immediata, che rende eccellente il singolo nella sfera della conoscenza - da qui la grande varietà delle dottrine gnostiche -, ispira anche norme superiori di condotta. Generalmente la moralità Pneumatica è determinata dall' ostilità verso il mondo e dal disprezzo per ogni vincolo mondano. La soluzione ascetica che ne consegue deduce, dal possesso della gnosi, l'ob­bligo di evitare ogni ulteriore contaminazione da parte del mondo e perciò di ridurre al minimo il suo utilizzo; pur mirando alla purificazione o ad altri fini perfe­zionisti l'ascetismo, presenta spesso, tuttavia, l'obiettivo dichiarato di ostacolare la causa del Creatore, anche solo di irritarlo, rifiutando di usare il suo mondo, una specie di sciopero metafisi­co.

Quest'aspetto ostacolante è particolarmente chiaro nell'astensione dalle relazioni sessuali e dal matrimonio quando, come in Marcione e in Mani, il loro obiettivo è quello di non aiutare a popolare il mondo del Demiurgo e pertanto a disperdere in esso la luce prigioniera, pro­lungando in questo modo l'esilio di quest'ultima e ren­dendo la sua raccolta più difficoltosa. In effetti, secon­do Mani, lo schema riproduttivo era stato istituito dagli Arconti precisamente a questo fine. L'ascetismo diventa pertanto una questione non tanto etica, quanto di schie­ramento metafisico e il suo fondamento riguarda la scelta di non partecipare al gioco del Creatore.

 

 

Gli  angeli

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Gli Gnostici condividono con i cristiani ortodossi la credenza negli angeli, ma, a differenza di questi ultimi, pongono al disopra degli angeli una gerarchia di esseri divini, il Pleroma, popolata da esseri chiamati Eoni. Gli angeli sono messaggeri tra gli Eoni del Pleroma e la Terra, e in ultima analisi tra l'umanità e il Dio supremo.

Gli Gnostici riconoscono nove cori angelici, che includono i Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Poteri, Virtù, Principati, Arcangeli e Angeli.

I primi a parlare di angeli custodi furono i valentiniani nel II secolo. Nel loro pensiero gli angeli custodi avevano un ruolo essenziale nella economia della salvezza individuale. Nella loro letteratura gli angeli sono quasi sempre raffigurati come maschili, mentre l'anima dell'individuo o scintilla divina è raffigurata come femminile. La persona che ottiene la gnosi o esperienza divina si riunisce al suo angelo nella "camera nuziale".

Il nostro Sé spirituale, pensato come femminile, ha una controparte maschile o angelo nel mondo della luce o Pleroma. Nella Caduta, il nostro spirito è stato separato dal suo angelo. Questa separazione è responsabile del nostro essere mortali e dalla espulsione dal Pleroma nel mondo della materia.

Secondo i valentiniani, Cristo è venuto a ridare la vita ai mortali e a riunirli col loro angelo. Egli è disceso insieme agli angeli custodi, gli stessi angeli che a Betlemme annunciarono la nascita di Gesù. Secondo alcune tradizioni, essi ricevettero il battesimo insieme a lui.

Gli angeli, secondo Teodoto, hanno un ruolo attivo nella nostra salvezza: "Essi intercedono e supplicano per noi; ritardano l'ingresso nel cielo considerandoci parte di loro e non rientreranno nel Pleroma senza di noi".

Circa la riunione col proprio angelo è detto che "siamo innalzati alla loro altezza, restaurati nella natura maschile, per formare un'unità"; che "una volta riuniti formiamo un'unica vita", che è la restaurazione del nostro stato prima della Caduta. La riunione col proprio angelo rende perfette e puri, capaci di condurre una esistenza senza peccato.

L'esperienza mistica dell'unione col proprio angelo, secondo i valentiniani, poteva avvenire in privato o durante le celebrazioni. Essi credevano possibile ricevere il proprio angelo mediante imposizione delle mani da parte di una persona già riunita col suo. Nella preghiera che accompagnava l'imposizione delle mani veniva detta la seguente invocazione: "permetti che il seme di luce di prendere residenza nella tua camera nuziale. Ricevi il tuo sposo accoglilo entro di te"

 

 

Struttura delle comunità. Rapporti con gli altri gruppi cristiani.

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Già nel 1964 Arthur Darby Nock notava che se nella Corinto del III secolo un viaggiatore avesse chiesto indicazioni sulle chiese gnostiche, probabilmente non avrebbe ottenuto nessuna risposta se non sguardi perplessi. I lettori dei vangeli gnostici non erano appartenenti ad una setta nel vero senso del termine, ma un gruppo di spiriti affini con lo stesso atteggiamento verso questo mondo, l'oltremondo e lo stile ascetico. E' possibile che a parte Valentiniani, Marcioniti e Manichei, pochi gnostici vivessero separati dalle Chiese cristiane dell'epoca. Anche perché, come dice Bauer, le linee tra ortodossia e eresia non erano ancora state tirate.

 

 

 

Teurgia e magia nello Gnosticismo e nella Tarda Antichità

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Le  descrizioni gnostiche dell'ascesa attraverso le sfere

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Cosmicamente, i testi gnostici raffigurano gli intelletti degli eroi (Zoroastro, Marsane, ecc.) che lasciano i loro corpi e viaggiano verso l'alto attraverso i regni celesti, guidati e istruiti da angeli o altri esseri superiori. Qui gli gnostici mutuano elementi dall'apocalittica giudea, quale il secondo libro di Enoch che descrive appunto figure pie che sono guidate attraverso i cieli da uno o più angeli per avere infine la visione di dio stesso. Nel caso di Enoch la scrupolosità dell'eroe nel seguire la legge e nel rimanere fedele al dio di Israele lo rende degno dell'eccezionale ascesa e della visita dei cieli, ed egli ritorna dalla sua esperienza per esortare altri a vite pie e alla fedeltà a Dio. La combinazione di viaggio mistico platonico (si pensi al Sogno di Scipione descritto da Cicerone o alle estasi di Plotino) e apocalittica ebraica è un carattere peculiare del misticismo gnostico. Gli autori gnostici sostengono che l'intelletto umano ha la capacità di comprendere livelli sempre più elevati d'essere e che per innalzarsi alla visione di Dio è necessaria una rivelazione e una guida divina.

Nello Zostrianos l'eroe intraprende un percorso di studio e contemplazione e segue una serie di angeli che lo guidano in alto nei regni celesti. Zostriano stesso racconta che "per mezzo dell'intelletto" è stato capace di volgersi via dal mondo materiale, verso quello spirituale, e che questo ha comportato un programma di ascetismo, studio filosofico e insegnamento. Questo programma aiuta Zostriano a scorgere la banalità dell'ordinaria esistenza incarnata e a formulare domande circa la realtà più alta. A questo punto, l'"Angelo della conoscenza" gli appare e lo invita a passare attraverso i regni più bassi e ad ascendere al Pleroma. L'eroe abbandona il suo corpo fisico, entra in una nube luminosa e intraprende un complesso viaggio verso l'alto durante il quale parecchie figure divine gli offrono rivelazioni, è sottoposto a ripetuti battesimi e acquista una conoscenza dello stesso Spirito Invisibile.

L'avvento di un redentore e la rivelazione dall'alto non erano necessariamente in contrasto, nel pensiero gnostico, con tale misticismo, perché l'intelletto umano possiede la stessa struttura del Pleroma. La mente umana è una sorta di rappresentazione in miniatura degli eoni che sono stati emanati dalla divinità suprema, di cui spartiamo l'essenza spirituale, che in qualche modo, attraverso Iadalbaoth è passata dal Pleroma a noi. Per questa ragione gli Gnostici potevano anche contemplare Dio contemplando il proprio intelletto, come fa l'eroe de Lo Straniero. Lo Straniero, letteralmente: "quello di natura diversa" è un essere umano mitico, forse identificabile con quel Seth, che il racconto dei primi tempi considera "di altra discendenza", e cioè non dello stesso seme di Abele (Genesi 5:3). Nel quarto secolo Epifanio sosteneva di conoscere sette cristiane (gli "Arcontici") che chiamavano Seth "lo Straniero". Quale che sia la sua precisa identificazione biblica, nell'opera sopra citata egli scrive al suo discepolo Messos (la cui etimologia è forse "uomo intermedio" o "intermediario") e descrive la sua ascesa mistica fino all'eone Barbelo e la serie di rivelazioni che a ricevuto dall'essere celeste Iouel. A differenza di Zostriano, lo Straniero non viene battezzato dagli Eoni, e le rivelazioni riguardano solo l'eone più alto, in particolare Barbelo. Quando lo Straniero  raggiunge la vetta più alta della realtà, immediatamente al disotto dello Spirito Invisibile, Iouel conclude i suoi discorsi con la promessa che lo Straniero riceverà una rivelazione dell'Inconoscibile dopo un periodo di cento anni.

Senza scoraggiarsi, lo Straniero trascorre il secolo successivo a prepararsi attraverso un lavoro di progresso interiore e il suo sforzo è ricompensato quando è rapito fuori dal suo corpo e portato in un "luogo sacro", dove può scorgere gli esseri eterni e gli eoni di cui Iouel gli aveva parlato cento anni prima. Questi esseri lo istruiscono su come praticare una forma di ascesa mistica che deve essere stata più realizzabile di un viaggio celeste per un concreto Gnostico del secondo o terzo secolo. Lo Straniero impara a volgersi alla sua interiorità e a contemplare in sequenza le strutture della sua mente attraverso stadi sempre più astratti di "ritiro" interiore. Una allusione a tale pratica è fatta in Zostrianos, dove si afferma che la persona salvata può "ritirarsi all'interno. Perché una tale persona diviene dio e ha rifugio in Dio". Gli esseri umani possono realizzarlo perché nell'intelletto umano sopravvive ancora qualche impronta o traccia dell'atto iniziale di auto-conoscenza da parte dello Spirito Invisibile, che produsse l'emanazione del Pleroma. Praticando questa autocontemplazione lo Straniero ottiene la conoscenza degli aspetti dell'eone Barbelo (beatitudine, vitalità, realtà) comprendendo se stesso "come realmente sono". Egli scopre Barbelo come "colui che esisteva in me". Riceve una visione dello Spirito Invisibile in un rapimento improvviso simile a quello del Simposio platonico, ma il suo desiderio di capire o afferrare la natura del dio supremo è soddisfatto da un discorso che descrive con completezza la natura inconoscibile di tale divinità. Alla fine, lo Straniero apprende che lo Spirito Invisibile si comprende non comprendendolo. Un essere eterno gli dice: "non tentare di comprenderlo, perché è impossibile. Piuttosto, se attraverso la luce del pensiero ti avvenisse di capire, questo sarebbe non-comprenderlo". Da ultimo, lo Straniero si eleva alla conoscenza divina attraversando il proprio intelletto, e riceve la gnosi del dio supremo come dono.

Il resoconto dell'ascesa di Marsane, nell'opera dello stesso nome è molto frammentario. Come Zostriano e lo Straniero, Marsane ascende per mezzo di eoni come Barbelo ad una visione ineffabile (non-discorsiva) della divinità suprema. Avendo ottenuto la gnosi, Marsane ne fa partecipi altri Gnostici spiritualmente evoluti: "Perché sono io che ho contemplato colui che ha vera esistenza… Nono ho cessato di parlare dell'Auto-originato, perché non vi sia ignoranza dell'intera cosa". Riferimenti a "sigilli", "lavaggi", "purificazioni" suggeriscono, anche qui, che il rituale del battesimo facilita l'ascesa, ma Marsane va oltre il battesimo, suggerendo che l'astrologia e lo studio e la pronuncia di segni alfabetici prepara la persona alla contemplazione e l'ascesa. L'opera potrebbe anche riferirsi all'uso rituale di immagini fatte di cera e pietre preziose. Qui gli Gnostici appaiono integrare nella loro spiritualità la teurgia, che è una pratica rituale destinata a facilitare l'ascesa dell'animo umano verso la contemplazione del divino o a provocare la discesa di creature superiori per manifestarsi agli esseri umani. La teurgia divenne popolare tra gli intellettuali Neoplatonici alla fine del terzo e nel quarto secolo. Utilizzate dagli Gnostici, queste pratiche potevano facilitare la contemplazione consentendo la conoscenza di strutture cosmiche e fornendo la capacità di manipolare le divinità che reggono il cosmo.

E' improbabile che uno gnostico del secondo o terzo secolo fosse realmente riuscito ad anticipare in vita un viaggio per i regni celesti del Pleroma guidato da esseri eterni, ma i resoconti di Zostriano, Marsane e dello Straniero erano d'aiuto nella recezione della gnosi in molti modi. Anzitutto, gli Gnostici potevano ottenere una conoscenza teorica avanzata degli eoni del Pleroma, incluso Barbelo, attraverso le rivelazioni dettagliate che questi eroi leggendari ricevevano dalle loro guide angeliche e ciò che essi riportavano di aver visto. Che tali rivelazioni venissero da ascese celesti e da fonti divine andava a supporto delle loro posizioni religiose. In secondo luogo, gli scritti citati forniscono indicazioni circa pratiche fondamentali che potevano preparare un individuo per esperienze mistiche e rivelazioni di natura superiore, pratiche che includevano studio e ascetismo, e Marsane incoraggia la pratica teurgica per gli Gnostici più progrediti. Da ultimo, Zostriano e Marsane suggeriscono che il battesimo gnostico era uno strumento di conoscenza di dio e lo Straniero descriva un metodo di raccoglimento interiore e di contemplazione che può condurre alla conoscenza e persino ad una visione diretta dello Spirito Invisibile. I testi della mitologia gnostica mostravano come la conoscenza umana del divino era stata perduta ma che rimaneva possibile per gli esseri umani, a dispetto della opposizione demoniaca, e Zostriano, Marsane e lo Straniero descrivevano come gli Gnostici potevano sperimentare il divino qui ed ora.

 

 

Il  demone socratico

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Gli interpreti sono rimasti per lo più assai sconcertati ed hanno dato del daimonion socratico esegesi disparatissime. Qualcuno ha creduto di poter recidere la questione in tronco, mettendo interamente in conto all'ironia socratica e alla sua inventiva tutta la faccenda del daimonion; altri hanno inteso questa peculiarissima esperienza socratica in chiave, per così dire, psichiatrica, e, cioè, come un fatto di natura psico­patica; altri, più moderatamente, lo hanno ridotto alla voce della coscienza, o al sentimento del conveniente, o al senti­mento che pervade il genio; e gli esempi si potrebbero mol­tiplicare, fino a giungere alle moderne interpretazioni in chiave psicoanalitica o ispirate alla psicoanalisi. Si tratta, per la verità, di studiosi che non credono al fatto religioso e lo risolvono e dissolvono in maniera positivistica o razionali­stica o psicologistica o psicoanalitica e che, per conseguenza, travisano in maniera irreparabile quanto di peculiare c'è nel­l'esperienza del daimonion socratico.

Innanzitutto è da rilevare che daimonion è un neutro, e che quindi (e su questo hanno ragione .di insistere gli interpreti di estrazione positivistica o raziona­listica) non indica un démone-persona, ossia un essere per­sonale (una specie di angelo o di genio), bensì un fatto o evento o fenomeno divino: in effetti mai, né in Platone né in Senofonte, il daimonion è detto "démone", ma è detto "segno" e "voce divina".

Precisato questo, però, è subito da rilevare quanto segue: a) espressamente Socrate, nell'Apologia di Platone, mette in connessione il "segno divino" con i démoni, spiegando che, nella misura in cui egli crede a "cose demoniache", crede ai démoni e quindi agli Dei, da cui i démoni derivano  b) inoltre, altrettanto espressamente, egli lo mette in connes­sione con Dio stesso, dicendo senza possibilità di equivoci che il segno e la voce che sentiva dentro di sé erano segno di Dio e voce di Dio. Orbene, tutta la grecità ha ritenuto i démoni intermediari fra gli Dei e gli uomini ed è altamente proba­bile, per non dire certo, che questa fosse anche la credenza di Socrate. Per il Greco non era facilmente pensabile un con­tatto o un rapporto immediato di Dio con l'uomo, e la conce­zione pluralistica del divino, che, come abbiamo veduto, anche Socrate condivise, portava di per sé a pensare il rapporto fra Dio e uomo tramite l'intermediario dei démoni.

Il "segno divino" doveva dunque venire a Socrate tra­mite un démone, tuttavia egli evitò questa parola e non è corretto (come fanno invece molti) tradurre senz'altro dai­monion con démone, perché, così facendo, si esplicita ciò che da Socrate è volutamente lasciato nell'indeterminato: egli, infatti, ha preferito attenersi a ciò che sentiva in sé e a qua­lificare come divino questo fenomeno, senza approfondire il modo con cui esso avveniva e per quale mediazione.

 

 

Il  Teurgo

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Il "teurgo" differisce dal "teologo" perché mentre questo si limita a parlare intorno agli dei, quello evoca gli dei e agisce su di essi. Ma che cos'è, esattamente, la "teurgia"?

Essa è la "sapienza" e l'"arte" della magia utilizzata per finalità mistico-religiose. Appunto queste finalità costituiscono la nota caratteristica che distingue la teurgia dalla comune magia. Come abbiamo già veduto, Giuliano la considerava frutto di divina rivelazione. Il Dodds ha precisato molto bene che "mentre la magia volgare fa uso di nomi e formule di origine religiosa per fini profani, la teurgia adopera i proce­dimenti della magia volgare anzitutto per fini religiosi". E questi fini sono, come sappiamo, la liberazione dell'anima dal corporeo e dalla fatalità ad esso connessa e il congiungi­mento al divino.

Il Dodds ha anche cercato di mostrare come, probabil­mente, i procedimenti della teurgia si distinguessero (analo­gamente a quelli della magia comune) in due tipi: a) quelli dipendenti semplicemente dall'uso di "simboli" e b) quelli che, per dirla con linguaggio moderno, fanno uso di una forma di trance medianica.

 

  I procedimenti del primo tipo costituivano probabil­mente quella che era chiamata telestiké, la quale era la pratica che si. occupava "specialmente di consacrare ed ani­mare statue magiche per ottenerne oracoli". Si fabbricavano statuette magiche con particolari procedimenti, riempiendone le cavità con animali, erbe, pietre e profumi (o anche gemme incise e formule scritte), considerati come dotati di particolari potenze, specie se riuniti e mescolati in particolari modi. Ogni divinità, spiega sempre il Dodds, "ha il suo rappresentante "simpatico" nel mondo animale, vegetale e minerale; questo è, o contiene, un simbolo della sua divina causa, ed è quindi in relazione con essa".  A questa pratica del fabbricare statue magiche si accompagnavano, inoltre, anche invocazioni orali, in cui si pronunciavano nomi ed epiteti divini (alcuni dei quali si riteneva dovessero essere mantenuti in lingua barbara, giacché si affermava che, tradotti in greco, perdevano la loro divina efficacia). L'arte di fabbricare queste immagini magiche si diffuse largamente nel tardo paganesimo e fu addirittura difesa dagli ultimi Neoplatonici come un'arte di onorare le potenze superiori.

 

  Il secondo modo di operare della teurgia è spiegato, sempre dal Dodds, nel modo seguente: "Mentre la telestiké cercava di inserire la presenza di una divinità in un "ricetta­colo" inanimato, un altro ramo della teurgia mirava ad incarnare temporaneamente la divinità in un essere umano. Come la prima arte era basata sul concetto più ampio di una simpatia naturale e spontanea fra l'imma­gine e l'originale, così la seconda si fondava sulla credenza molto diffusa che le alterazioni spontanee della personalità fossero dovute a possessione da parte di una divinità, un demone o anche una persona defunta". In particolare, è da notare come l'ingresso di una Divinità in una persona, che avveniva nella pratica teurgica, differiva da quello degli oracoli ufficiali per il fatto che "si riteneva che la divinità pene­trasse nel corpo del medium, non per uno spontaneo atto di grazia, ma rispondendo alla chiamata dell'operatore o addirittura subendo la sua costrizione" .

Nei frammenti pervenutici degli Oracoli indubbiamente dovevano essere presenti ambedue questi rami della teurgia, come molti spunti e l'uso di termini tecnici lasciano intendere, ma non possiamo sapere fino a che punto fossero sviluppati. In questa sede non ci interessa discutere i vari problemi connessi a queste tecniche, ci interessa; invece, ribadire un punto molto importante. Queste pratiche teurgiche sono pre­sentate non solo come finalizzate alla purificazione dell'anima e all'unione col divino, ma sono altresì inquadrate nello schema filosofico di cui abbiamo sopra detto e presentate come strumento necessario da usare insieme alla facoltà più alta che è in noi, ossia insieme a quel "fiore dell'intelletto", che, da solo, non sembra bastare. L'autore degli Oracoli impone infatti, per liberare l'anima, di "congiungere l'azione [teurgica] al logos sacro". E Michele Psello (che conosceva molto bene gli Oracoli) ci spiega che il "logos sacro" o "pensiero sacro" corrisponde appunto al "fiore dell'intel­letto", e che di per sé questo è incapace a portarci fino a cogliere il divino, e che, secondo l'autore degli Oracoli, la pratica del rito teurgico è indispensabile. Psello fa poi un paragone molto interessante fra la dottrina cristiana di Gre­gorio Nazianzeno, quella puramente filosofica di Platone e quella degli Oracoli, scrivendo testualmente: "Il nostro teologo Gregorio fa salire, egli pure, l'anima verso il divino mediante la ragione e la contemplazione: mediante la ragione, in quanto essa è in noi ciò che vi è di più intellettivo e migliore; mediante la contemplazione, per l'illuminazione che è al di sopra di noi. Platone, dal canto suo, ci fa cogliere con la ragione e l'intuizione l'essenza intelligibile. Invece il Caldeo dice che noi non possiamo salire verso Dio se non fortificando il veicolo del­l'anima mediante riti materiali. Egli ritiene infatti che l'anima sia purificata da pietre, da erbe, e da incantesimi e che così si muova facilmente per la sua ascesa".

 

 

La  teurgia in Gamblico

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Nella giustificazione del politeismo Giamblico poteva avvalérsi largamente dei risultati cui era pervenuta la pre­cedente speculazione medio- e neoplatonica nonché quella neopitagorica. Ma come era possibile giustificare quella teur­gia, che, sotto certi aspetti, pareva essere l'antitesi della filosofia e le cui pretese Porfirio aveva cosi lucidamente contestato?

Vediamo di determinare, in primo luogo, quale sia esat­tamente la concezione che Giamblico aveva della teurgia 20. Nel De mysteriis veniva presentata come una pratica e anzi un'arte con cui mediante opportuni atti, simboli e formule, non compresi dalla umana ragione ma compresi dagli Dei, l'uomo poteva congiungersi con gli Dei medesimi e benefi­ciare dei loro influssi e della loro potenza. L'unione teurgica con la divinità e le relative pratiche necessarie per realizzarla erano dunque concepite come qualcosa che era decisamente meta-razionale. Il nostro filosofo scrive testualmente: "quelle cose; infatti, in tal caso, esse sarebbero effetti della nostra intelligenza e dipenderebbero da noi; ma né l'una né l'altra cosa è vera. Infatti, senza che noi esercitiamo il nostro pensiero i segni stessi operano per virtù propria, compiono l'attività che è loro peculiare, e l'ineffabile potenza degli Dei, ai quali queste cose sono rivolte, di per se stessa riconosce le proprie immagini senza essere svegliata dall'attività del nostro pensiero [ ... ]".

Il passo è per più di un aspetto indicativo in quanto, oltre a formare una perfetta definizione della teurgia, con­tiene altresì il fondamento su cui si basa, la risposta alle obiezioni di Porfirio e rivela la notevole distanza che separa la posizione di Giamblico (e dell'ultimo neoplatonismo, che seguirà Giamblico) da quella di Plotino e della sua scuola.

Le obiezioni di Porfirio cadono, secondo Giamblico, se si tiene ben fermo che la teurgia è una attività al di sopra dell'intelletto e della ragione dell'uomo e quindi al di sopra delle facoltà razionali. Nella teurgia non è l'attività dell'uomo che sale agli Dei e li raggiunge, giacché, in tal caso, verrebbe compromessa la impossibilità degli Dei medesimi, come diceva appunto Porfirio; si tratta, invece, della stessa potenza divina che scende agli uomini, o, meglio, che libera gli uomini da questo mondo e li riporta agli Dei; si tratta, insomma, di una iniziativa degli Dei più che degli uomini.

Chiarisce molto bene questi concetti l'Hadot: "Se noi potessimo ottenere l'unione perfetta con gli Dei mediante la contemplazione, allora sarebbe mediante le nostre forze che noi raggiungeremmo il divino. Gli Dei sarebbero allora mossi da esseri inferiori. Al contrario, se essi stessi scelgono le pratiche, incomprensibili agli uomini, mediante le quali si può sperare di unirsi a loro, essi restano immobili in se stessi e mantengono loro l'iniziativa".

Il costo di questa operazione tentata da Giamblico era altissimo. Essa significava esattamente la esplicita ammissione dell'incapacità della filosofia classica­mente intesa a condurre l'uomo al raggiungimento del suo fine supremo. Ancora Plotino, come abbiamo sopra rilevato, ribadiva la convinzione tutta greca nella possibilità per l'uomo di realizzare l'"unione" con il Divino me­diante le sue sole forre, mentre Giamblico nega ormai, a livello tematico, questa possibilità.

È evidente che nella teurgia e negli "atti e simboli indi­cibili" della teurgia, che la ragione umana non comprende ma che gli Dei comprendono, il Pagano cercava ciò che ormai era risultato chiaro che la ragione da sola non poteva dare e che i Cristiani indicavano nella Grazia e nei sacramenti, ma su ben diversi fondamenti e con ben diverse garanzie

 

 

Teurgia e sapienza egizia

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All'inizio del Libro dei Morti l'anima di Ani, uno scriba dell'antico Egitto, dichiara ciò che si aspetta di aver guadagnato nella vita futura dopo aver vissuto una vita santa sulla terra seguendo il sentiero indicato dagli Dei: "Garantitemi potere in cielo, potenza sulla terra e protezione quando sarò nei domini degli Dei, il viaggiare giù fino a Busiris come un'anima vivente e il viaggiare in alto fino ad Abydos come un airone; poter entrare e uscire senza impedimento dai cancelli del Duat (oltretomba)".

Questo antico testo, magnifico e pieno di immagini vivide, scritto nel secondo millennio a. C. caratterizza in una forma molto iniziale le speranze e le aspettative dell'élite religiosa: un posto privilegiato nel mondo a venire con il permesso di andare e venire a piacimento dalla terra dei viventi. Mostra anche l'importanza degli dei in questo processo e soprattutto il legame tra tali dei e il credente. In altri passaggi è chiaro che Ani è diventato un dio lui stesso, e diventa a tutti gli effetti Osiride quando raggiunge il dio nel mondo inferiore. Il sentiero verso Osiride non è facile, ed Ani deve conseguire una gran mole di conoscenza per poter attraversare senza danno il mondo infero e infine a superare la prova della pesatura del suo cure. L'intero processo è dunque caratterizzato dalla sapienza concessa ad Ani dagli dei. Questo processo coinvolgeva reciprocamente esseri umani e dei. Sebbene è probabilmente vero che gli antichi Greci a partire dal V secolo a. C. non poterono  accedere al Libro dei Morti, a tacere del fatto che nessuno era più in grado di decifrare la scrittura geroglifica, resta il fatto che le idee contenute in esso erano ancora accessibili a loro. Erodoto (484-425 a. C. circa) nel secondo libro delle sue Storie mostra come l'Egitto e i suoi misteri esercitassero un potente fascino sull'immaginazione greca e parecchie opere su questo paese e la sua religione erano disponibili a quel tempo. Dopo la morte di Alessandro il Grande nel 323 a. C., il suo generale Tolomeo assunse il controllo dell'Egitto, e la sua famiglia lo mantenne fino alla conquista romana poco dopo la morte di Cleopatra nel 30 a. C. Durante questo periodo molte altre opere del genere furono scritte, molte sulle credenze religiose dell'Egitto. L'Egitto rimaneva dunque la terra famosa per la saggezza e la magia.

Esiste dunque un percorso discernibile che dall'opera di Ani giunge fino a Giamblico (245-325 d.C. circa). La parola "teurgia" è una tra quelle utilizzate dai neoplatonici come lui per caratterizzare la relazione tra dei e mortali. E' pure evidente che Giamblico credeva che la sua versione della teurgia avesse radici antiche, che affondavano in terra egizia. Egli scrisse il suo lavoro più noto, De Mysteriis, sotto le vesti di un prete egizio. Giamblico probabilmente mutuò il termine dagli Oracoli Caldei,testi sacri composti da due autori, padre e figlio, Giuliano il Caldeo e Giuliano il Teurgo, nel secondo secolo d. C. In tempi recenti, grazie all'eccellente lavoro di J.M. Dillon, G. Shaw, E.C. Clarke e altri, si è arrivati a una migliore comprensione di cosa sia la Teurgia e ad una nuova visione di come teurgia e filosofia siano connesse nel neoplatonismo di Giamblico. Ne emerge, a sorpresa, una prospettiva simile a quella degli scritti egiziani di Ani. Giamblico stabilì la sua scuola ad Apamea, in Siria, nello stesso luogo in cui operarono i due autori degli Oracoli. Si ha qui una chiara connessione tra il tipo di Neoplatonismo di Giamblico e le correnti di pensiero orientali, e specificatamente egizie.

Giamblico ha una visione unitaria degli insegnamenti della saggezza pagana, che lo porta al tentativo di connettere il platonismo a tali più antiche tradizioni. Nel De Mysteriis egli critica la limitatezza del pensiero puramente greco di Porfirio. Afferma che Platone stesso  conosceva ed utilizzava la sapienza antica degli egizi, e scindendolo da essa non si è in grado di capirlo adeguatamente.

Il significato della parola "teurgia" è stato spesso frainteso. Letteralmente significa "lavoro di Dio" o "lavoro divino". Giamblico riconosce che, come è detto nel Simposio platonico, gli dei non interagiscono direttamente con gli esseri umani, essendo separati e superiori. L'interazione avviene, nondimeno, attraverso i demoni, semi-divinità che recano le nostre preghiere agli dei e recano a noi i doni degli dei. Questi intermediari che ci consentono il contatto con la divinità sono identificati da Giamblico come angeli, demoni ed eroi. Essi esistono nel mondo sublunare e sulla terra e possono attingere alle altezze dei corpi eterei e visibili degli dei che ne sono al disopra (stelle e pianeti). Una varietà di rituali teurgici utilizzano tali intermediari.

Ciò detto, Giamblico non esclude del tutto il contatto tra gli dei e il regno terrestre. Specialmente nel terzo libro del De Mysteriis espone la teoria della illuminazione o ellampsis: gli dei inviano un raggio della propria luce dai loro corpi eterei in modo che, sebbene separati, illuminano oggetti e persone interagendo con loro in tal modo. Questo chiama in causa a sua volta un terzo elemento fondamentale dei riti teurgici: la persona coinvolta, il teurgo, l'iniziato, l'oggetto o persona sacralizzata deve essere in condizione di ricevere il raggio divino. Per noi esseri umani questo significa che dobbiamo essere appropriatamente purificati. Per fare l'esempio più banale, se il teurgo vuole usare un fanciullo come medium in un rito, allora deve prepararlo per la ricezione dall'alto purificando il suo corpo etereo. La purificazione rituale lo rende adatto a tale ricezione. Ad un livello più alto, se i teurgi vogliono incanalare il divino attraverso il loro corpo, devono compiere una preparazione più laboriosa. Certamente devono purificarsi mediante una vita ascetica ecc., ma c'è dell'altro, perché, nel caso del fanciullo, il suo intelletto non è coinvolto nel rito in quanto egli è inconsapevole di ciò che sta avvenendo quando la luce divina giunge a pervaderlo. Ma nel caso dei teurghi viene ad essere coinvolto anche l'intelletto, ciò che significa che essi non devono purificare solo il loro corpo e la parte inferiore dell'anima, ma anche la loro mente. Ciò comporta un regime di studio che include non solo filosofia ma anche l'approfondimento di rituali sacri.  Come si vede nel caso di Ani i due tipi di studio, sebbene separato, si uniscono nel consentire l'incontro gli dei.

Se questi tre ingredienti sono presenti – un dio che agisce tramite un intermediario e che invia la sua luce nel mondo inferiore ad una persona o ad un oggetto reso idoneo a riceverla – allora il teurgo che presiede il rito stabilirà un contatto col divino. Al livello più elementare questo significa che il fanciullo o l'oggetto ricevono l'illuminazione divina. Quando è il teurgo che è coinvolto o una delle persone della sua cerchia che da lui hanno ricevuto una iniziazione avanzata, in altre parole quando la mente del ricevente è coinvolta e il ricevente ha svolto un appropriato studio e preparazione, il raggio divino innalza l'anima del teurgo o iniziato fuori dal corpo e fino ai cieli, dove avviene l'unione con il dio. In tal modo, Giamblico ha mantenuto fermo il presupposto del Simposio, il fatto che gli dei non discendono nel mondo dei mortali e tuttavia ha reso possibile l'ascesa di questi ultimi. Egli può concludere che non si tratta di riti di bassa magia che forzano gli dei a discendere, ma di rituali filosofico-teurgici in cui l'anima ascende verso gli dei non forzandoli ma sottomettendosi alla loro volontà e ai loro precetti. Nel De Mysteriis fa attenzione a distinguere la bassa magia, che affida tutto al caso e può condurre i suoi praticanti ad associarsi con la falsità e i demoni malvagi, e la magia più elevata o teurgia. Quest'ultima è un garante di verità e felicità, connessa com'è alla vita degli dei.

E così, nel rituale dell'iniziato vivente come dopo la morte, la teurgia – "opera divina" compiuta spontaneamente dagli dei a favore di coloro che si preparano appropriatamente – porta il filosofo/teurgo ad essi e perfeziona il nostro sé divino e razionale. Questo ci richiama alle parole di Ani di fronte ad Osiride. La sua preghiera era per ottenere protezione da parte degli dei e l'abilità di muoversi liberamente tra i regni dell'essere. L'obiettivo di Giamblico non è dissimile. La conoscenza che otteniamo sulla terra ci garantisce un posto in cielo (noi siamo in tal senso "divini", se non letteralmente), e avere un tale posto significa che le nostre anime razionali sono unite ai poteri universali e pertanto noi, in quanto menti, possiamo "viaggiare" tra i regni: etereo, intelligibile e quello dell'Uno. La teurgia in tal modo reca pace, appagamento, potere, protezione e uno status simile a quello delle divinità.

 

 

Le "parole di potenza"

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Nelle formule magiche e nei rituali conservatici dai papiri si incontrano quasi sempre, formule con­tenenti parole che sembrano affatto inintelligibili e segni, geometrici o non, chiamati "caratteri" o "si­gilli" di "spiriti".

Quasi tutte le parole dei rituali, sono nomina barbara, cioè parole di altre lingue - latina, greca, ebraica caldaica, egiziana - deformate rispetto all'originale perché malamente trascritte in un primo tempo, e poi storpiate da copisti igno­ranti.

Inoltre s'incontrano nei testi delle parole che, comunque si voglia, non possono essere ricondotte ad un possibile significato, sia perché composte talora di sole vocali, o di sole consonanti, oppure di aggruppamenti di tali di esse, che non si prestano ad alcuna possibilità di interpreta­zione o di derivazione filologica. Tali sarebbero le vere e proprie "parole di potenza".

Le parole di potenza, così chiamate in Egitto, ebbero vari nomi, dai vari popoli e dalle varie scuole od ordini da cui venivano usate; così per esempio furono chiamate dai Greci ασημα ονοματα. Della loro esi­stenza v'è traccia in tutte le tradizioni magiche antiche fino a noi pervenute, come suoni magici, nomina arcana, e, particolarmente, le combinazioni e permutazioni di vocali furono chiamate voces mysticae o sillabe mistiche. Dai Greci furono anche dette λογοι σπερματικοι o "parole causali", e, nella tradizione indù, bija-mantra, o nomi naturali, intendendo con questo, che tali parole apparterrebbero alla lingua originaria e per­fetta nella corrispondenza fra il termine, che conterrebbe l'essenza della cosa, e la cosa significata.

Le parole di potenza sono collegate alla dottrina del Logos o Verbo creatore che si può trovare ad esempio in Filone l'Ebreo. L'atto divino di creazione degli esseri si realizza mediante la pronuncia della parola che rappresenta il loro nome segreto. La parola, quindi, non è solamente suono, ma anche forma. Perciò ad ogni ente corrisponde il suo nome ed il suo carattere, o signatura, entrambi propri a lui solo e non ad alcun altro.

Questa dottrina si trova diffusamente esposta nel Sepher Jetzirah, libro kabbalistico per eccel­lenza, dove il concetto sonoro si mutua col concetto lu­minoso, ed i nomina arcana e le signatura rerum, in­sieme, vengono chiamati o nomi, o lettere di luce.

 

 

Il testo di un rituale teurgico del IV secolo contenuto in un papiro della Biblioteca Nazionale di Parigi

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Si riporta qui di seguito, senza commento, il testo dell'unico rituale teurgico si matrice gnostico-mithriaca che sia giunto completo fino a noi. Si noti in particolare l'uso delle vocali nelle formule invocatorie, che è riportato con irrisione nei resoconti dei Padri della Chiesa riguardo il culto degli Gnostici.

 

i. formula propiziatoria

 

Provvidenza e Fortuna, sii propizia a me che scrivo questi primi Misteri da trasmettere al solo Figlio, (cui sarà data) l'Immortalità, all'Iniziato degno di questa no­stra potenza - (Misteri) che il gran Dio Sole-Mithra mi comandò, a mezzo del (suo) stesso Arcangelo, di tra­smettere; (siimi) propizia affinché io solo, Aquila, raggiun­ga il Cielo e contempli tutte le cose.

 

ii. logos invocatorio

 

Origine prima di mia origine AEÈIOYO;  Principio del mio primo principio PPP OOO PHR;  Spirito dello spirito, del soffio primo in me M M M;  Fuoco, quello che Dio ha dato nella mescolanza delle mescolanze in me, (Fuoco) primo del fuoco in me ÈYÈIAEÈ;  Acqua del­l'acqua in me, (Acqua) prima dell'acqua in me O O O  A A A  E E E;  Essenza terrestre prima dell'essenza terrestre in me YÈYÒÈ;  Corpo Perfetto di me – di N. (nome) della N. (madre) – che Braccio onorato e De­stra Mano incorruttibile hanno formato nel mondo oscuro e trasparente, inanimato e che venne animato YÈI AYI EYÒIE!

Se a Voi sembra bene, (fate) che io, dalla mia inferio­re natura (ancora) trattenuto, sia elevato alla Nascita Immortale, affinché io, di là dall'insistente bisogno che ter­ribilmente mi piega, possa contemplare l'immortale Principio per ( virtù del) Respiro immortale ANCHREPHRENESUPHIRINCH, per (virtù del) l'Acqua immor­tale ERONOYIPARAKOYNETH, per la Terra e per l'Aria EIOAÈPSENABÒTH;  affinché io possa rinascere all'intel­ligenza KRAOCHAXRO, affinché io mi dia principio (lett. cominci) e respiri in me il Santo Respiro NECHTHEN APO TOY NECHTHINARPIÈTH, affinché io miri il Fuoco Sacro KYPHE, affinché io contempli l'abisso del­l'Oriente, Acqua orrenda NYÒ THECÒ ECHÒ OYO­CHIECHÒA, e mi ascolti l'Etere vivificante diffuso d'intor­no ARNOMÈTHPH;  poiché io – mortale nato da mortale grembo (ma ora) fatto migliorare dalla forza della Forza somma e dalla Destra mano incorruttibile – (io) voglio oggi guardare con occhio immortale, con imperituro Respiro l'immortale Eone, Signore delle Corone di Fuoco.

Essendo stato purificato da sacre cerimonie, pura in me sussistendo per breve tratto l'umana forza d'animo mia, io di nuovo la riceverò di là dalla insistente e pungente necessità che mi piega, (per la quale è) vano (ogni) la­mento: io, il N. (nome) della N. (madre) (questo voglio) secondo l'inflessibile ordine di Dio EYÈYIAEÈIA ÒEIANIYAIIEÒ.

(Ma) poiché a me, nato mortale, non sarebbe (lett.: è) possibile innalzarmi insieme all'aureo folgorìo dello splendore immortale, (a te comando) ÒÈY AEÒ ÈY A EÒÈ Y AE ÒIAE: Sii ferma, o natura dei mortali desti­nata a perire, e lasciami subito (il passo) di là dall'ine­sorabile, premente bisogno. Poiché io sono il Figlio, io respiro MOYOPROCHÒ PRÒA, io sono MOY PRÒ - respirando PRÒE (sono)!

 

iii. prima istruzione

 

Trai respiro dai raggi (solari) inalando tre volte quan­to (più profondamente) puoi, ed (ecco), ti vedrai solle­vato in alto, oltre ogni altezza, onde ti sembrerà di es­sere in mezzo allo spazio.

Non udrai (più) nessuno, né uomo, né (altro) essere vivente, (come) pure (non) vedrai più nulla, in questo tempo istesso, delle cose mortali della terra, ma tutto ciò (che) vedrai (sarà) immortale.

Vedrai anche l'ordinamento divino (proprio al) gior­no e all'ora (presente), (vedrai) gli Dèi che volgono ascen­dendo verso il cielo, gli altri discendendo, e (ti) sarà palese 1'andamento degli Dèi visibili attraverso il Disco (del) Padre mio – Dio.

(Vedrai) anche il cosiddetto Flauto, in modo analogo, il principio del Vento al servizio dell'Opera. Infatti ve­drai come (un) flauto pendente dal Disco, verso le parti dove (hanno) scaturigine (le correnti celesti e che sof­fia da) sè, (come un) infinito vento di levante; (ma) se poi venisse a mostrarsi l'altro (vento, quello volto) verso le parti di levante, similmente verso queste parti (lo) vedrai (però come) l'inverso della cosa vista.

E tu vedrai anche gli Dèi che ti guardano fisso e in atto di scagliarsi su di te. Posa allora il dito destro sulla bocca e di':

 

iv. primo logos

 

Silenzio   Silenzio   Silenzio

Simbolo dell'incorruttibile Dio vivente, proteggimi, o Silenzio NEKTHEIRTHANMELY!

Quindi sibila a lungo: S!   S! e poi soffia dicendo:

PROPROFENCÈ MORIOS PROPHYR PROPHEN­CE NEMETHlRE ARPSENTEN TITETMIMEÒYE­NARTHPHYRKEKÒPSYRIDA RIÒTYRÈPHILBA!

E allora vedrai gli Dèi guardarti benevolmente e non più in atto di scagliarsi contro di te, ma procedenti inve­ce secondo l'ordine proprio delle (loro) operazioni.

 

v. seconda istruzione

 

Quando dunque vedrai il cosmo superiore libero e tut­to rischiarato e nessuno degli Dèi ed Angeli in atto di scagliarsi, aspèttati di udire un grande fragore (come) di tuono, cosicché tu rimarrai stordito. (Ma) tu di' di nuovo:

 

vi. secondo logos

 

Silenzio!    Silenzio!

Sono un astro che procede con voi e che splende dall'abisso

OXYOXERTHUTH!

Appena che avrai detto questo, subitamente il Disco ( solare) comincerà ad espandersi.

E dopo che tu avrai pronunciato questo secondo logos – cioè due volte "Silenzio" e il resto – sibila due volte e soffia due volte, ed immediatamente dal Disco vedrai proiettarsi numerose stelle pentagrammate (che in breve) riempiranno tutto lo spazio.

(Allora) di' di nuovo:

Silenzio!    Silenzio!

e (poiché) il Disco (si) sarà dischiuso, vedrai una immen­sa ruota e delle porte di fuoco serrate.

Chiudendo gli occhi, pronuncia (allora) rapidamente il logos che segue:

 

vii. terzo logos

 

Odimi, ascolta me – N. (nome) figlio di N. (madre) – o Signore che hai chiuso allo spirito gli ignei serrami del Cielo! (Tu) dal duplice corpo, (tu) che dimori nel Fuoco PENPTERUNI, Creatore della Luce, possessore del­le Chiavi SEMESILAM, respiro ardente PSYRINEY, ani­ma di Fuoco IAÒ, soffio di Luce AOI, gioia del Fuoco AILURE, bello di Luce AZAIAIÒNACHBA; (tu) Si­gnore della Luce PEPPERPREPEMPIPI il cui corpo è Fuoco PHMUÈNIOK, datore di Luce, propagatore del Fuoco AREIEÌCHITA, sprigionatore di Fuoco GALLA­BALBA; (tu) che nella Luce hai la vita AlAIÒ (e) del Fuoco sei la potenza PYRIKIBOOSÈIA; (tu) che muovi la Luce SANKERÒB e la Folgore scateni ÒÈIÒÈIÒ, gloria di Luce BAIEGENNÈTE, accrescitore di Luce SUSINE­PHI, (tu) che dòmini la Luce empirea SUSINEPHI ARENBARAZEI MARMARENTEY, (tu) condottiero di astri!

Aprimi PROPROPHENGE EMETHElRE MORIOMO­TYREPHILBA! Poiché a causa dell'amaro, pungente bisogno che mi spinge io invoco gli immortali venerati tuoi Nomi viventi, quelli che ancor mai scesero in natura mortale, che ancor mai si articolarono in lingua d'uomo, in voce o lingua mortale!

ÈEÒ . OÈEÒ . IÒÒ . OÈ . ÈEÒ . ÈEÒ . OÈEÒ .

IÒÒ. OÈÈE . ÒÈÈ . ÒOÈ . IÈ . ÈÒ . OÒ . OÈ .

IEÒ . OÈ . ÒOÈ . IEÒOÈ . IEEÒ . EÈ . IÒ .

. IOÈ . ÒÈÒ . EOÈ . OEÒ . ÒIÈ. ÒIÈEÒ .

OI . III . ÈOÈ . ÒEÙ. ÈÒ . OÈE . EÒÈIA .

AÈAEÈA. ÈEEÈ . EEÈ . EEÈ . IEÒ . ÈEÒ .

OÈEEOÈ . ÈEÒ . EYÒ . OÈ . EIÒ . EÒ. OÈ .

ÒÈ . ÒÈ . EE . OOOYIOÈ

Di' tutto ciò con fuoco e spirito dal principio alla fine, poi una seconda volta (e così via) finché (tu) abbia realizzato i sette immortali Dèi del cosmo.

Dopo aver detto questo, udrai dei tuoni e uno sconvol­gersi di tutto ciò che (ti) circonda (e) ti sentirai, allora, intimamente scosso. Ancora una volta di': "Silenzio" con l'invocazione (che segue).

Dopo di che apri gli occhi, e vedrai le porte schiuse e il mondo degli Dèi che è all'interno di esse; e per la gioia e il diletto della visione, il tuo spirito accorre e si in­nalza.

Allora, fermo, inspira dal divino, guardando fissamen­te nel tuo spirito.

E quando la tua anima sarà ristorata, di':

 

viii. quarto logos

 

Vieni, Signore.

ARKANDARA PHOTAZA PYRIPHOT AZA BYTHIX

ETIMENNEROPHORATHÈNERIÈ

PROTHRIPHORATHI

Detto che avrai questo, i raggi solari faranno conver­genza in te. Tu sarai il centro di essi.

Quando ciò sarà compiuto in te, vedrai un giovane Iddio, bello, dalla capigliatura di fiamma, in tunica bian­ca e mantello scarlatto, con una corona di fuoco.

Immediatamente salùtalo col saluto del Fuoco:

 

ix. quinto logos

 

Salve, Signore, (tu) dalla Potenza grande, Re dall'in­fluenza grande, sommo fra gli Dèi; Sole, Signore del Cielo e della Terra, Dio degli Dèi, possente è il tuo alito, possente la tua forza.

Signore, se a te sembra bene, annunciami al supremo Dio che ti ha generato e prodotto, giacché un uomo – io, N. (nome) figlio di N. (madre), nato dal mortale grembo di N. e da succo spermàtico, oggi questo essendo stato rigenerato da te; (io.) reso immortale fra miriadi (di esseri) in questo istante per volontà di Dio, trascen­dente bene - (un uomo, dico) chiede di adorarti secondo l'umano potere.

Appena che tu abbia pronunciato ciò, Egli si porterà al Polo, e tu lo vedrai andare come sur una via. (Allo­ra) guardando(lo) fisso, emetti un prolungato muggito, a mo' di suono di corno, espelli tutto intero il soffio com­primendo (simultaneamente) le costole, bacia gli amuleti e di' dapprima verso destra:

 

x. sesto logos

 

Proteggimi PROSYMÈRI

Detto questo, vedrai le porte aperte e sorgere dalla profondità sette Vergini in bisso, con viso serpentino. Queste sono dette le Sorti dominanti, auree arbitre del Cielo. Vedendo (tutto) ciò, rendi saluto cosi:

Salve a voi, o sette Dee celesti dei Destini (ουρανου Τυχαι), Vergini buone, anguste, sacre, la cui vita ha il modo stesso di MINIMIRROPHOR; voi, santissime guar­diane delle quattro colonne:

Salve (a te), la prima KREPSENTHAES!

Salve (a te), la seconda MENESKEÈS!

Salve (a te), la terza – MEKRAN!

Salve (a te), la quarta ARARMAKÈS!

Salve (a te), la quinta EKOMMIE!

Salve (a te), la sesta – TIKNONDAÈS!

Salve (a te), la settima ERUROMBRIÈS!

 

xi. settimo logos

 

Allora si faranno innanzi ancora sette Dèi, dai visi di tori neri, cinti di lino alle reni, con sette diademi d'oro. Sono i cosiddetti Signori del Polo celeste, che tu (parimen­ti) devi accogliere (salutando) ciascuno di essi col nome suo proprio:

Salve, Guardiani del Pernio, voi sacri e forti giovani che ad un comando volgete insieme l'Asse vorticoso della Ruota celeste, e tuoni e fulmini, terremoti e saette scate­nate contro la razza degli empii. A me però, che amo il Bene e Dio venero, (accordate) salute di corpo, perfezio­ne di intelletto (lett.: di vista, cioè di visione), fermezza di sguardo, e calma, nelle presenti ore buone di questo giorno, o Signori di me e grandi Dèi possenti!

Salve (a te), il primo – AIERÒNTHI!

Salve (a te), il secondo – MERKEIMEROS!

Salve (a te), il terzo – AKRIKIUR!

Salve (a te), il quarto – MESARGILTÒ

Salve (a te), il quinto KIRRÒALITHÒ!

Salve (a te), il sesto – ERMIKTHATHÒPS!

Salve (a te), il settimo – EORASIKÈ!

Quando essi si disporranno qua e là nel loro ordine, fissa intensamente nell'aria e vedrai cadere fulmini e luci risplendenti, e la terra (sarà) scossa e un Dio discen­derà, immenso, di radiante presenza, giovane, con aurea capigliatura, in tunica bianca e corona d'oro e vesti ricaden­ti (αναξυριδες), portante nella destra la spalla d'oro del Vitello.

Questi è l'Orsa, che muove e volge il cielo, in alto e in basso secondo le stagioni.

Poi dai suoi occhi vedrai sprigionarsi dei lampeggia­menti, ed astri dal suo corpo.

Immediatamente emetti un lungo muggito premendo lo stomaco affinché tutti insieme i cinque sensi siano ec­citati; prolunga sino alla fine e, baciando di nuovo gli amuleti, di':

 

xii. ottavo logos

 

(Tu,) MOKRIMOPHERIMOPHERERIZÒN di me – N. (nome) di N. (madre) – resta con me nella mia ani­ma. Non ti dipartire da me, giacché a te comando ENTHOPHENENTHROPIÒTH.

Fissa intensamente il Dio muggendo a lungo, e cosi salutalo:

 

xiii. nono logos

 

Salve, Signore, Dominatore dell' Acqua; salve, Ori­gine della Terra; salve, Sovrano dello Spirito!

Signore, nella palingenesi io muoio integrato, e nel­l'integrazione ho raggiunto il compimento.

Nato da nascita animale, (ora) liberato, sono trasportato di là dalla generazione (mortale)

come Tu hai stabilito,

come Tu hai decretato,

e come Tu hai compiuto o Mistero!

 

 

Il resoconto di una cerimonia teurgica finita non propriamente bene

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veridica istoria di una invocazione magica fatta in roma nel giorno dell'equinozio di primavera del 1927.

 

Quella notte, a differenza del Principe di Condé pri­ma della battaglia di Rocroy, non dormii quasi affatto. Avevo bensì caricato la sveglia mettendone l'indice alle tre del mattino, ma non nutrivo soverchia fiducia in quell'antipatico impasto di molle e di ruote, sapendolo per esperienza capace di saltarsi a piè pari l'ora stabi­lita, salvo poi ad accanirsi dodici ore più tardi in una interminabile ed intempestiva suonata. Perciò, dopo due ore di sonno più volte interrotto per consultar l'orologio, mi risvegliai di mia interiore iniziativa prima della sve­glia la quale, anch'essa, è giusto riconoscerlo, fece pun­tualmente il suo dovere con mia relativa soddisfazione e con somma letizia, senza dubbio, dei miei vicini di camera. I quali, per altro, non meritavano troppi riguar­di. Difatti, avevo iniziato le operazioni preliminari con l'ultimo plenilunio; e, per quanto non ne avessi certa­mente fatto parola, i miei vicini avevano subodorato qualche cosa di strano, e nella loro incomprensione si erano, naturalmente, ingegnati di mettermi tra le ruote quanti bastoni potevano. A dire il vero, non avevano solamente subodorato, ma avevano addirittura dovuto odorare gli svariati profumi che nonostante ogni mia precauzione emanavano dalla mia stanza per i suffumigi eseguiti nelle operazioni di rito; e, specialmente pei suffumigi di zolfo, si era permesso, il volgo profano, fin anco di protestare. Una sera poi attraverso il buco della serra­tura, che dimenticai di tappare, e tra mezzo una spessa nuvolaglia di fumi e profumi, fu intravisto un pazzo od un ammattito, che, bianco incappato, faceva e diceva incomprensibili cose. E più ancora crebbe l'allarme quando il matto prese l'abitudine di uscire di casa tutte le notti verso le ore tre per ritornare a dormire verso le sei o le sette...

Quando la bufera infernale della sveglia ebbe final­mente requie, mi assorbii nelle consuete operazioni del rito ordinario, che non è ora il caso di riferire; e, termi­nate queste, fatta l'abluzione di rito, sorbito in fretta un caffè di caffè, mi vestii rapidamente per recarmi sul luogo prescelto e preparato per l'invocazione. Con co­testa razza di prossimo, difatti, non c'era neppure da pensare a proseguire le operazioni di rito nella mia camera. Come avrei potuto spiegare e giustificare gli eventuali e non occultabili fenomeni, movimenti di og­getti, rumori, voci, conversazioni? E come avrei potuto proseguire nell'intrapresa durante i giorni e le settima­ne seguenti? Meglio, molto meglio, farsi di notte tem­po una passeggiata di venti minuti e recarsi nel sotter­raneo nostro, dove per lo meno potevo esser sicuro che nessuno mi avrebbe veduto, sentito e disturbato.

In verità, l'entrata del mio sotterraneo non era trop­po comoda; bisognava discendere nel sottosuolo e poi chinarsi a terra per attraversare carponi uno stretto pas­saggio appositamente praticato in un'antica muraglia spessa tre metri; ma, una volta percorso, strofinando la pancia per le terre e la schiena sul muro, lo stretto passo, si adiva in una serie di immense, alte e solitarie sale sotterranee. Anche di giorno regnava là sotto una profonda oscurità ed un silenzio solenne. Proprio in fondo e nel bel mezzo di una vastissima sala, discen­dendo ancora con un pendio di qualche metro, si entrava in un'ampia cripta, lunga una quindicina di metri ed alta più di due, isolata doppiamente dall'esterno, perfettamente oscura e silenziosa senza altra apertura che quella di entrata.

In fondo alla cripta sin dalla sera innanzi avevo pre­disposto quanto occorreva: la lampada che piena di puro olio di oliva pendeva già dal soffitto, il braciere al suo posto, l'orientazione determinata, segnati al suolo i punti dove andavano tracciati i caratteri magici, pronto e sottomano il carbone per il braciere e pel tracciamento dei segni, la spada giacente nel suo ripostiglio. La cripta era bensì priva di porta, ma poco importava poiché nes­suno poteva entrare nel sotterraneo. Del resto, anche se un ipotetico ed inopportuno visitatore avesse potuto at­traverso il sottopassaggio e il dedalo sotterraneo giun­gere sino alla vasta sala contenente la cripta, si sarebbe sicuramente fermato, vedendo apparire d'un tratto il ri­flesso del chiarore misterioso, che la lampada magica proiettava nel buio della sala attraverso l'entrata della cripta: perché cotesto chiarore aveva un carattere così spettrale da fare impressione anche su chi ne conosceva l'origine. E chi avrebbe osato avanzare scorgendo poi, in fondo alla cripta, agitarsi in un alone di fumo un bianco fantasma armato di spada?

Sin dalla vigilia, per non dimenticare nulla, avevo preparato quanto dovevo portare con me: la chiave del sotterraneo, una lampadina elettrica, i fiammiferi, il camice di puro lino, i profumi di rito ecc. Misi nelle tasche quanto ci entrava, feci un fagotto del rimanente, ed uscii. La notte era fresca e serena; a quando a quando la luna ancor alta si faceva vedere attraverso le vie soli­tarie. Per una curiosa, rara e favorevole combinazione, la luna piena era caduta proprio tre giorni prima, i tre giorni richiesti dalle operazioni preliminari, dimodoché potevo dare inizio alla invocazione proprio quando il sole entrava nel primo punto di Ariete, per terminarla nel primo plenilunio di primavera, coincidente questa vol­ta col giorno di Pasqua.

Mi avviai di buon passo, si per vincere il fresco della notte, sì per non perder tempo giacché bisognava ope­rare prima dell'alba. Roma taceva intorno ampiamente, solo qualche automobile e più di rado il rumore del tram notturno rompevano l'alto silenzio, imminente sopra le vie solitarie, il foro, i ruderi grandi di Roma. Del resto meno gente incontravo, e tante possibili seccature di meno. Con questi lumi di luna girare alle tre di notte per le vie di Roma con un fagotto sospetto sotto il brac­cio poteva anche dare nell'occhio. La prospettiva di incappare nella ronda notturna mi teneva un po' in ap­prensione, tanto più che ero sprovvisto della carta di identità. Figurarsi! Cosa avrei mai potuto dire per spie­gare dove andavo, che facevo, e perché mai portavo in giro a quell'ora impossibile, quel pacco di arnesi stra­vaganti?! Anche per questo affrettavo il passo: ancora una piazza da traversare, poi infilo quella stradetta, svolto la cantonata, e... e vado a sbattere proprio in faccia a due agenti ed un commissario. Ma benone! Per fortuna l'abitudine inveterata di dominarsi sempre funzionò automaticamente, non trasalii menomamente, non attrassi l'attenzione. Due minuti dopo entravo nel sotterraneo; gli ostacoli miserabili erano oramai sorpassati; almeno così mi pa­reva.

La lampada, il braciere, la spada, il carbone, tutto stava al suo posto in bell'ordine. Non faceva freddo là sotto, ma l'umidità arrivava nelle ossa. I fiammiferi la­sciati la sera prima erano diventati inservibili; meno male che avevo avuto il buon senso di portarmene un'altra sca­tola. Anche gli stoppini dei beccucci della lampada ma­gica avevano sentito l'umidità e stentavano a prendere fuoco, ma poi, una volta avviate, le tre fiammelle fun­zionarono a meraviglia; non c'era e non ci poteva essere un filo di aria che le agitasse ed esse diffondevano in­torno una luce calda, tranquilla e sufficiente allo scopo.

Accesa la lampada, passo al braciere. Lo prendo e lo porto fuori della cripta in luogo più acconcio ed alla luce di due candele mi accingo ad accendere il carbone.

La faccenda si presenta piuttosto seria; il carbone in po­che ore si è talmente impregnato di umidità che non vuole saperne di accendersi; anche le sventole han risen­tito l'umidità e son marce; ma soffia e risoffia, con la sventola e coi polmoni, finalmente quest'accidente di car­bone si decide a prender fuoco; oramai non si tratta che di mantenerlo acceso. Ma intanto è trascorso più tempo di quanto avevo calcolato.

Mi svesto rapidamente, indosso il camice, e discendo nella cripta portando con me il braciere ed avendo cura ogni tanto di ravvivarlo. Prendo i profumi di rito, e ne metto una manciatina sopra i carboni roventi; dal bra­ciere si innalza immediatamente un fumo spesso e odo­roso, ma non tale da offuscare notevolmente la luce delle fiammelle che seguitano a bruciare tranquillamente. E mentre il profumo del suffumigio seguita a spandersi in­torno, prendo un carbone e traccio con esso per terra nei quattro punti cardinali i caratteri magici del rito, eppoi nel mezzo, sempre col carbone, traccio il segno dell'ope­razione. Sopra questo segno pongo il braciere da cui si eleva ancora qualche spira di fumo. Finalmente ci siamo. Non mi resta che gettare un altro po' di profumo sul fuoco e procedere alla invocazione.

Mi riconcentro un poco e ad un tratto, dinanzi alla mente sin allora assorbita dalle varie faccende e difficoltà materiali che ho riferito, si presenta netto il pensiero di quanto sto per tentare. Non tremo e non esito, ma non è forse eccessivo ardimento il mio, di alzare lo sguardo an­cora terrestre tanto in alto, verso così elevata potenza della gerarchia solare? Si, certo, l'ardire è grande, ma è una ragione di più per agire risoluto e deciso. E subito, ché questo maledetto carbone ha giurato di farmi penare. Se si spegne addio suffumigi e addio invocazione; il tempo mi mancherebbe per riaccenderlo, né del resto posso cambiare l'ordine delle operazioni. Mi chino a ter­ra, do di piglio alla sventola, soffio con tutta la forza dei polmoni: là, sia lode agli Dei, il fuoco riprende, e spri­giona luce e calore.

Butto un'altra manciata di profumo sul fuoco, prendo ritualmente la spada, inforco gli occhiali, prendo con la sinistra un rotolo di carta appositamente preparato in modo da poterlo svolgere usando una sola mano per leggere la lunga invocazione scrittavi su, mi volgo ad oriente, metto la spada in direzione del segno dell'ope­razione e ben conscio di quanto faccio comincio lenta­mente e fortemente a dire: "Potenza somma di ogni potenza ...". Constato con piacere che la luce della lampada mi permette di seguire a mio agio le parole dell'invoca­zione e che tutto sta procedendo. Ma che cosa succede? Che cosa è questo vento? Proprio ora si desta per agitar le fiammelle e disturbar la lettura!? Ed ora che accade? Non ci vedo più! Per tutti gli Dei dell'Olimpo, mi si sono appannati gli occhiali! Si capisce, ho fatto una su­data per via di quel maledetto carbone, ed ora per la traspirazione, con questa umidità, avviene una precipi­tazione del vapore acqueo, le goccioline restano attaccate ai vetri degli occhiali grazie all'adesione, la spiegazione fisica del fenomeno non fa una grinza, ed io intanto... non ci vedo più. Bisognerebbe levarsi gli occhiali per ripulirli, ma dovrei interrompere l'operazione; eppoi non ho che due mani; la spada, Dio guardi, nonché a la­sciarla, a smuoverla soltanto dalla sua direzione; e con la sinistra, impicciata dal rotolo di carta e da qualche altra coserella, impossibile. E d'altra parte come si fa a piantare' a metà, con queste potenze già scatenate? Vedi, vedi, come il vento solleva le spire del fumo ed agita le fiammellel Per tutti gli Iddii viventi, che a momenti si spegne la lampada!

In un batter d'occhio, per un miserabile piccolo osta­colo, la faccenda aveva preso una piega inquietante. Mi passò per la mente la recriminazione di Musolino (proto, attenzione): Chiddu filu, chiddu filu! E pensare che quel brav'uomo di Socrate badava a dire che gli occhi dell'ani­ma cominciano a vederci chiaro quando quelli del corpo cominciano a vederci scuro. Bella consolazione, non c'è che dire; ma intanto era meglio se non si appannavano gli occhiali. Qui la faccenda butta male. Ed ora, questa ver­tigine improvvisa? Questo malessere profondo? Attenzione, attenzione! Calma ed attenzione! E questo tre­more? Come? Son tremiti di paura?! I nervi, la carne, han paura! Ebbi ad un tratto paura della paura, paura di non saper dominar la paura; ne intravidi le conseguenze, mi vidi stecchito, disteso esanime al suolo; e reagii pron­tamente. Mi ripresi netto, con un sùbito atto d'imperio, deciso a proseguire ad ogni costo e comunque, sino alla fine. Frattanto l'appannatura si era in parte dileguata, e poiché mi bastava afferrare qualche parola dell'invoca­zione per aiutar la memoria, potei proseguire sino alla fine con qualche stento. Ma nella lotta contro le me­schine imprevedibili difficoltà materiali e con le compli­cazioni che ne erano derivate non avevo potuto concen­trare debitamente le mie energie spirituali, e, forse per questa ragione, l'invocazione non sorti tutto l'atteso effetto.

Quando alle sei della mattina fui di ritorno a casa, tra il sonno e la stanchezza, non mi reggevo in piedi. E dormii... come il Principe di Condé.

La mattina dopo, l'inconveniente degli occhiali era eliminato.

 

 

 

Varianti entro lo gnosticismo. Maestri e scuole gnostiche.

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Sono a noi noti i nomi di un certo numero di maestri e scrittori gnostici (la maggior parte dei quali indica­ti come eretici nelle confutazioni patristiche), tuttavia molta della letteratura superstite è anonima o pseu­doepigrafica, in osservanza allo stile rivelativo che la qualifica. Tra le personalità storiche, Il cui pensiero è documentato o da resoconti critici oppure da frammenti originali tratti dalle loro opere, annoveriamo il sama­ritano Simon Mago e i suoi successori spirituali Menandro Saturnino, Cerinto e Cerdone (I-II secolo); gli alessandrini Carpocrate, Basilide, suo figlio Isidoro e, soprattutto, Valentino con i suoi illustri discepoli Tolo­meo Eracleone, Teodoto e Marco (II secolo); Il pontico Marcione e il siriaco Bardesane (II secolo); il persiano-­babilonese Mani (III secolo).

Le principali sette, le cui dottrine, pur essendo ben documentate, non sono iden­tificabili con singoli autori o fondatori, comprendono, in ambito cristiano, i Barbelioti, i Sethiani, gli Ofiti (questi ultimi in realtà un gruppo di sette); in ambito greco-pagano la religione ermetica (forse soltanto frutto di un'unità letteraria e non una setta reale) e nell'Oriente semitico i Mandei, ostili al cristianesimo. Tra i pensatori a noi noti spiccano Valentino, Marcione e Mani; Valentinismo e Manicheismo rappresentano rispettivamente i vertici delle due principali alternative della speculazione gnostica.

 

 

 

Gnosticismo e Cristianesimo ortodosso

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I punti di divergenza tra Gnosticismo e Cristianesimo ortodosso

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Numerosi erano i punti di divergenza che i Padri della Chiesa dei primi secoli individuarono tra il cristianesimo di quella che sarà la Chiesa Cattolica e il cristianesimo degli Gnostici.

 

  Gli Gnostici, come già detto, divergevano in modo fondamentale dai cristiani ortodossi sul problema della successione apostolica. I vescovi cristiani sono, nell'insegnamento della Chiesa i veri successori degli Apostoli, attraverso una successione ininterrotta che risale ai primi compagni di Cristo e all'investitura che, a differenza di tutti gli altri, egli diede loro visitandoli corporealmente dopo la sua morte e resurrezione. Tutti gli altri cristiani hanno sperimentato delle visioni, che non possono legittimare il passaggio dei poteri.

 

  Gli gnostici non celebravano l'Eucaristia o altri pasti rituali in commemorazione della morte di Cristo, perché per essi non era attraverso la sua morte che l'umanità era stata salvata, ma attraverso la sua incarnazione.

 

  La visione dell'uomo come peccatore è alquanto diversa nel pensiero gnostico e in quello cristiano ortodosso: per quest'ultimo il peccato originale può essere rimosso dall'uomo, mentre per gli Gnostici l'uomo naturale è del tutto corrotte e assolutamente non redimibile

 

  I Vangeli canonici e gli insegnamenti della Chiesa riservano una particolare attenzione ai rapporti interpersonali. Il Gesù dei Sinottici e Paolo pongono l'amore per il prossimo al disopra di tutte le altre virtù, mentre agli Gnostici interessa molto di più il rapporto verticale con la divinità o il rapporto col proprio sé, e anzi, secondo la loro caratteristica visione, la salvezza non può venire dall'uomo o dai rapporti con l'uomo, che è un essere ilico e totalmente corrotto.

 

  La dottrina del sacrificio salvifico è estranea agli gnostici. La passione di cristo è dovuta all'odio degli Arconti è non ha valore redentivo. Il Messia o Salvatore agisce tramite l'illuminazione dell'anima del fedele, che è un evento atemporale, che si verifica individualmente quando la persona è pronta ed è diverso per ciascuno, perché, come dicono gli Ismailiti, è commisurato al grado di evoluzione spirituale conseguito. Gli gnostici parlano di "chiamata" per alludere a una esperienza individuale, ad uno "svegliarsi dal sonno". La chiamata si identifica con la comunicazione della gnosi, della conoscenza del proprio destino. Nelle narrazioni può avere la forma del saluto. Talvolta si dice che la chiamata è "ad Adamo", cioè al principio di luce che è in noi

 

  Nel cristianesimo ortodosso Dio è essenzialmente visto come esterno al sé. Invece la via della gnosi è una conoscenza del dio entro di sé.

 

  Oltre gli angeli, e superiore ad essi, gli Gnostici hanno una molteplicità di divinità, gli Eoni, che compongono il Pleroma. Queste tracce politeistiche sono completamente assenti nel Cristianesimo ortodosso, che si rifà più strettamente al monoteismo ebraico.

 

  La fede cristiana ortodossa è pistis, cioè un credere fiducioso in base alla testimonianza apostolica, che qualcosa è stato, è  e sarà; la rivelazione del dio dell'antico testamento si manifesta con gli atti di potenza, con cui si rivela il dio potente che ripara i torti, porta in salvo Israele, ecc. Anche nei Vangeli l'annuncio di Cristo è tramite le sue opere, i segni, le guarigioni.

La fede giudaica è emunah, fiducia nel patto.

"Islam" significa "sottomissione" alla parola di Allah, come espressa dal suo messaggero Maometto.

Ma la gnosi non è un "credere che", una "fiducia in" o una "sottomissione", quanto piuttosto una mutua conoscenza, un simultaneo essere conosciuto di Dio e da Dio.

 

  Lo gnosticismo, come nota Mircea Eliade, con il suo cosmo governato dagli astri, rimane estranea alla rivoluzione operata a proposito del destino dipendente dagli astri dal cristianesimo ortodosso, che ha distrutto il destino individuale, astrologico, per ripristinare la libertà umana e rendere l'uomo solidale con un destino collettivo, adamitico, e non magico, cosmico.

 

  Nello gnosticismo e nei sistemi di pensiero affini, non c'è una sola figura: molte divinità possono aiutare il fedele a salire, e questo è un netto punto di differenza.

 

  La natura solitaria della ricerca gnostica di dio si contrappone all'affermazione di Matteo: "là dove due o tre sono radunati in mio nome là sono io".

Un documento gnostico suona invece: "Cristo disse: là dove ci sono due essi non sono senza Dio; e dove c'è uno solo, io sono con lui. Alza la pietra e mi troverai, spacca il legno e io sono là". Lo scopo è chiaramente di legittimare la comunione privata con Dio così cara all'animo gnostico. Non c'è un reale bisogno per l'altro.

Gli gnostici fanno riferimento al detto del Cristo: "il regno dei cieli è dentro di voi". Un documento dello stesso papiro dice: "Il regno dei cieli è entro di voi: e chi conosce se stesso lo troverà"

Gli gnostici enfatizzano il rapporto verticale con Dio anziché il rapporto orizzontale con gli altri, ciò che è tipico dei mistici. Ricerca di Dio come ricerca interiore, ricerca del Sé. Il culto comunitario non riveste la posizione centrale che ha nel cristianesimo ortodosso

 

  Nel Vecchio Testamento l'uomo santo non è colui che medita sul Sé, ma colui che medita la legge di Dio o su Dio o sulle opere di Dio. La parola ebraica per la meditazione è hagah, che vuol dire "muovere le labbra". Quando il salmista medita lo fa su una legge, un gesto o un evento di Dio.

Per la Bibbia è inconcepibile che la meditazione produca una scoperta di Dio tramite la scoperta del Sé, perché il Dio di Israele è esso stesso lo scopritore. E' Dio che ha cercato Israele e l'ha eletto suo popolo, e non il contrario. E' il moto di Dio verso la creatura che viene enfatizzato nel Vecchio Testamento, non il contrario

In modo non dissimile, tutto il Corano può essere letto come meditazione sulle opere di Dio

 

  Nel Vecchio Testamento Dio convoglia i suoi messaggi attraverso i profeti o manifestandosi a Mosé e ai patriarchi, e manifesta le sue leggi e il suo volere. Non illumina le singole persone.

Quando invece gli esseri umani sono percepiti in termini individualistici, non relazionali, non dipendenti da nessun'altra creatura nella loro ricerca per Dio, ne segue che anche Dio è isolato e non-relazionale. Se noi troviamo Dio tramite autocoscienza, Dio è più o meno un riflesso di noi stessi.

Gli gnostici negano qualsiasi comunicazione tra Dio e l'uomo. Dio è inaccessibile. Dio non va verso l'uomo, ma l'uomo verso dio. Ovviamente gli gnostici rigettano la  provvidenza

 

  In nessun punto è detto in Basilide e Valentino che "dio è amore". Si enfatizza la conoscenza ma non l'amore

Viene fatta scarsa menzione all'aiuto reciproco, al missionarismo, al cristiano che guida il cristiano ("se uno dà scandalo prendetelo da parte…") e simili

All'affermazione: "ciò che farete al più piccolo di questi lo farete a me" si contrappone: "ciò che farete a voi lo farete a me"

Invece, nella teologia paolina la salvezza richiede non conoscenza, ma fede, speranza e carità. In un passo famoso, probabilmente diretto contro gli gnostici, Paolo dice: "se anche conoscessi tutti i misteri e possedessi tutta la conoscenza, ma non avessi l'amore, io sarei niente. Le lingue taceranno, la conoscenza svanirà. Perché la nostra conoscenza è imperfetta".

Dice Giovanni: "se diciamo che siamo senza peccato inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi… E saremo sicuri che lo conosciamo da questo, se osserviamo i suoi comandamenti. Colui che dice, 'Io lo conosco' ma disobbedisce ai suoi comandamenti è un bugiardo, e la verità non alberga in lui". E i comandamenti sono quelli dell'amore: l'autore prosegue a dire che colui che dice di amare dio ma non ama il suo fratello è un mentitore

 

  Il problema della salvezza è visto in modo radicalmente diverso dai cristiani ortodossi e dagli Gnostici.

Nel Vecchio Testamento viene enfatizzata la retta azione (il fas degli antichi romani), il patto comunitario di Dio, la parola di Dio convogliata a tutta Israele tramite i profeti. Dio interviene nella storia per salvare il suo popolo.

Secondo gli Gnostici, invece, la salvezza è un fenomeno atemporale che avviene all'interno di ogni individuo. Dio non era unione di umano e divino.

Gli gnostici o erano docetisti (cristo era un fantasma o corpo incorruttibile) o parlavano di eoni che avevano abitato il corpo di un Cristo terrestre. Come docetisti era per loro difficile accettare che la risurrezione dai morti e l'incorruttibilità fossero avvenuti in un dato momento storico

La salvezza gnostica, come dice Gilles Quispiel, è una questione di vivide emozioni e di esperienza personale. Laddove le Scritture canoniche parlano di un Dio che salva un popolo, che lo salva collettivamente, riscattando il peccato originale per tutti e portando la provvidenza per tutti. Dio, come Cristo, agisce potentemente nella storia, salva il popolo eletto dai pericoli, lo libera dalla schiavitù egizia, gli trova una terra promessa. Gli gnostici invece danno rilievo ai passi della Bibbia che parlano della conoscenza che Cristo porta.

Pare che alcuni gnostici, come Eraclione e Valentino, vedessero la vicenda del Cristo come allegorica di una vicenda atemporale che avviene entro di noi.

La rivelazione delle scritture sul Cristo storico e ciò che disse non aveva per gli gnostici grande ruolo, perché era il contatto personale col Cristo eonico che li salvava

Inoltre, nello gnosticismo e nei sistemi di pensiero affini, non c'è una sola figura: molte divinità possono aiutare il fedele a salire verso il cielo.

Giudaismo e cristianesimo vedevano il problema della salvezza nel peccato, nel non rispettare le leggi di Dio. Gli gnostici lo vedevano nell'ignoranza, dovuta non a loro colpa. "L'ignoranza del Padre produsse angoscia e terrore. E l'angoscia si fece solida come una nebbia che fece sì che nessuno fosse più in grado di vedere" (Vangelo della Verità)

La salvezza cristiana ha una importante dimensione collettiva. Il vescovo Leslie Newbin parla invece per gli Gnostici di "cristianesimo individualistico" ed osserva criticamente: "L'oggetto a cui la grazia di Dio è diretta è l'intera creazione e l'intera famiglia umana, non le anime umane concepite come miliardi di monadi separate, ciascuna distaccata dal suo posto nel tessuto del mondo umano e naturale"

 

  Mentre gli gnostici rifiutano qualsiasi positività delle esperienze terrene, ci sono continui accenni, nella interpretazione ortodossa, ad esempio nella tradizione paolina, alla positività delle esperienze e in particolare della sofferenza per la maturazione dell'individuo. D'altro canto, la Chiesa non ammette il suicidio: se Dio ci ha dato la vita, vuol dire che va vissuta perché ha un valore positivo, anche se al momento non possiamo vederlo.

 

  Gli gnostici hanno seri problemi ad accettare il Vecchio Testamento, come parola di Ialdabaoth, il Dio malvagio

Per la Bibbia la creazione è buona e le sue azioni giuste. Nessuno può criticare Dio. Giobbe viene rimproverato per essersi lamentato della sua sorte.

Il prologo del Vangelo di Giovanni pone uno stretto legame tra Cristo e creazione, che contraddice direttamente gli gnostici. Giovanni dice che la seconda personal il Logos, era con Dio nella creazione.

Questo è ribadito anche da Paolo nell'Epistola ai Colossesi: "Perché tutte le cose sono state create in Cristo, in cielo e sulla Terra, visibili e invisibili… tutto fu creato per lui e attraverso di lui". Gli gnostici negano invece qualsiasi rassomiglianza, la radicale assenza di contatto tra Dio e il cosmo

La Bibbia parla della Sapienza, personificandola, e facendole dire: "Io ero con Dio quando lui costruiva l'universo". Ma questo non è accettabile per gli gnostici: Pistis Sophia solo con un pervertimento ha partecipato alla creazione del mondo materiale

 

  Il matrimonio, per gli Gnostici, non è il simbolo dell'unione di Cristo e della chiesa, ma dell'anima con il Pleroma

 

  Mentre la Chiesa cristiana ortodossa è strutturata rigidamente in modo gerarchico, in conseguenza della successione apostolica dei Vescovi, che hanno preminenza sugli altri cristiani, la comunità degli gnostici è una comunità fluida di uguali, tutti illuminati dalla conoscenza personale e non dipendenti da una autorità esterna. Questa indipendenza giunge, come si vedrà altrove, a forme estreme di antinomismo o rigetto della Legge.

 

  Il punto di vista degli gnostici sulla salvezza è senza dubbio più vicino (anche se con significative differenze) alla posizione protestante sulla predestinazione che a quello cristiano ortodosso. Come già detto, alcune correnti gnostiche sembrano addirittura avere un concetto etnico di salvezza, destinata ad una sola delle razze che si sono originate dopo il diluvio.

 

  Il credo gnostico è esoterico: l'interpretazione gnostica dei Vangeli canonici e dell'Antico Testamento è una interpretazione segreta, mentre il cristianesimo ortodosso enfatizza la accessibilità a tutti del messaggio del Cristo il quale, se parla in parabole, lo fa per manifestare e spiegare il suo messaggio.

 

  La dignità dell'anima, secondo gli gnostici, è quella del più alto Pleroma. L'anima umana ha rango divino. Nell'ismailismo è addirittura la terza intelligenza emanata dalla divinità inconoscibile

 

  Gli gnostici enfatizzano una teologia apofatica o negativa: Dio è inconoscibile, la parola umana può solo dichiarare ciò che egli non è. La divinità con cui entrare in un rapporto personale, che si concede all'adorazione è (ad esempio per gli Ismailiti) la prima emanazione dell'Uno Inconoscibile.

 

 

La dottrina del Logos e la figura della Sapienza nelle Sacre Scritture

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Il concetto di logos nella filosofia greca

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Il termine ricopre in greco una vastissima gamma di significati e in nessuna lingua moderna ne esiste uno corrispondente. Esso indica, fondamentalmente, ciò che è espressione di ragione e di razionalità (dalla parola, al discorso, al pensiero, al ragionamento, al rapporto e alla proporzione numerica, alla definizione e così via).

1) In senso tecnico la dottrina del Logos compare in Eraclito.

2) Nella filosofia degli Stoici il Logos è fuoco artefice, è ragione seminale di tutte le co­se, è la forza che tutto produce e governa, è Dio, e quindi è Heimarméne e Prénoia, In quanto fondamento di tutto, il logos stoico non solo ha rilevanza ontologica, ma altresì etica, dove funge da princi­pio normativo, e in logica dove funge da principio di verità. Le tre parti del sistema stoico possono quindi essere viste come l'espressione delle tre valenze del Logos.

3) In Filone di Alessandria, il Logos si carica di significati religiosi e teologici di estrazione biblica, pur mantenendo anche alcune valenze della speculazione greca. In Filone sembra che si possano distinguere tre aspetti del Logos: a) un Logos presso Dio, identificantesi con l'Intelletto divino, b) un Logos mediatore, causa esemplare ed efficiente del mondo, e c) un Logos immanente nell'universo sensibile, interpretato come il vincolo che tiene unita la realtà, risultante dall'agire del Logos incor­poreo sul mondo corporeo. Dal Logos egli fa poi dipen­dere tutte de altre Potenze e le Idee. La riforma filoniana della clas­sica teoria delle Idee dipende appunto dal suo nuovo concetto di Logos.

4) Nell'ermetismo il Logos (probabilmente per in­flusso di Filone) designa il Figlio primogenito di Dio, consustanziale rispetto al secondogenito che è l'Intelletto demiurgico.

5) In Plotino designa fondamentalmente la forza razionale che è nell'a­nima, dalla quale e secondo la quale sono costituite tutte le cose e l'intero cosmo fisico; in conseguenza di ciò Plotino non esita a dire che tutto è Logos.

6) Nella dottrina cristiana Logos significa il Figlio di Dio, il Verbo fatto carne, Cristo medesimo. A questo proposito, il testo base è il grande prologo giovanneo.

 

La dottrina del logos in Filone di Alessandria

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Una serie di novità il concetto di creazione comporta, in primo luogo, a livello metafisica-antologico, a cominciare dalla teoria del Logos, che assume valenze veramente inedite.

Purtroppo Filone parla spesso del Logos, ma prevalente­mente per allusioni, e, per di più, in differenti contesti e da differenti punti di vista, cosicché ben si spiega come gli studiosi abbiano proposto esegesi diverse e talora opposte. In questa sede è possibile procedere solo per cenni, data la complessità della materia e la problematicità dei testi.

Dio, spiega Filone, volendo creare il mondo sensibile in modo adeguato, produce, dapprima, il mondo intelligibile, che ha la funzione di modello incorporeo secondo cui deve essere realizzato il mondo corporeo, cosi come fa l'architetto, i! quale, volendo costruire una grande città, costruisce, dapprima, il progetto di essa con la sua intelligenza e lo fissa nella sua anima, per poi tradurlo in realtà. Orbene, il Logos divino è precisamente l'attività o potenza di Dio che crea le realtà intelligibili aventi funzione di modelli e di paradigmi ideali. Ecco il celebre passo del De opificio mundi, che espone questa dottrina:

 

All'incirca questo [si intende riferito all'esempio dell'architetto che vuole costruire la città] si deve pensare che valga anche per Dio, che, avendo pensato di fondare la grande città [scii.: l'uni­verso], pensò prima i tipi e con essi formò il cosmo intelligibile per produrre poi il cosmo sensibile, servendosi di quello come modello. Dunque, come il progetto di una città forgiato dalla mente dell'architetto non occupava un luogo esteriore, ma era impresso nell'anima dell'artefice, cosi, allo stesso modo, il mondo costituito dalle Idee non poteva avere altro luogo che il Logos divino, che ha organizzato questa realtà. Quale altro luogo poteva esserci se non la Potenza di Dio, che fosse capace di accogliere e contenere non dico tutte, ma una sola Idea, quale che essa sia?

 

E poco più oltre, nella stessa opera, si legge:

 

[ ... ] Per usare termini più espliciti, si può dire 'che 'il cosmo intelligibile non è altro che il Logos di Dio nell'atto di formare il mondo, giacché la città intelligibile non è altro che il calcolo del­l'architetto che già pensa di fondare una città

 

In questi passi il Logos divino sembrerebbe coincidere con l'attività pensante di Dio, ossia con la Ragione, o, meglio, con l'Intelletto o Nous di Dio, vale a dire con qualcosa che non è distinto da Dio stesso

Ma tosto Filone distingue il Logos da Dio e ne fa quasi una ipostasi, e lo denomina addirittura "figlio primoge­nito del padre increato", "Dio secondo", "immagine di Dio". In alcuni passi ne parla addirittura come di causa strumentale ed efficiente. In altri passi ne parla, invece, come di Arcangelo, come di mediatore fra Creatore e creature (in quanto non è né increato come Dio, ma neppure creato come le creature mondane), l'Araldo della pace di Dio, il conserva­tore della pace di Dio nel mondo. Il Logos di Filone esprime, inoltre (e questo è molto importante), le valenze fondamen­tali della biblica "Sapienza", nonché della biblica "Parola di Dio", che è Parola creatrice e fattrice. Infine, il Logos esprime anche il significato etico di parola con cui Dio guida al bene, il significato di parola che salva .

In tutti questi significati il Logos indica una realtà incor­porea, ossia metasensibile, trascendente. Ma, poiché il mondo sensibile è costruito secondo il modello intelligibile, ossia secondo il Logos e, anzi, mediante lo strumento del Logos, così vi è anche un Logos immanente al mondo sensibile, o, meglio, un aspetto immanente del Logos, che sono non altro se non le azioni, e quindi i vari effetti del Logos incor­poreo sul mondo corporeo. In questo senso. immanente, il Logos è il vincolo che tiene unito il mondo, il principio che lo conserva, la regola che lo governa, e così via

Non è possibile non rilevare in questa dottrina del Logos come archetipo di tutta la realtà, ossia come pensiero che in sé racchiude l'intero cosmo intelligibile, una anticipazione della seconda ipostasi plotiniana (il Nous), senza contare, evidentemente, i nessi di questa concezione con quella del Prologo giovanneo e i germi che essa contiene di certe dot­trine che matureranno nell'ambito del pensiero cristiano.

 

La Sapienza nella filosofia greca

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Sapienza traduce propriamente il termine sophia. Nel suo signi­ficato specificatamente filosofico, corrisponde, fino a Platone, a phronesis o saggezza e da questa si distingue in un modo preci­so solo a partire da Aristotele. Senofane chiama sophia il proprio sapere, contrapponendolo alla forza fisica. Eraclito scri­ve in maniera paradigmatica: "L'essere saggi è la più grande virtù e la sophia consiste nel dire la verità e agire secondo natura dando ascolto ad essa". Non meno interessante il frammento 31 di Democrito: "La medicina è l'arte che cura le malattie del corpo, la sophia que1la che sottrae l'a­nimo dal dominio delle passioni".

Socrate chiamava la propria filo­sofia "Sapienza umana". - Platone riteneva la sophia come virtù propria dell'anima. razionale e quindi della classe dominante della Città. Nella Repubblica cosi viene de­finita:

 

"Ora, innanzi tutto qui, a me pare che sia chiara la sophia e ci vedo anche qualcosa di singolare [ ... ]. Sapiente in realtà a me pa­re che sia lo Stato che abbiamo descritto; ha infatti buoni consigli [ ... ]. E questo stesso, il buon consiglio (euboulia), è chiaro che è un sapere (epistéme): non l'ignorare, infatti, ma il sapere, fa prendere buoni consigli".

 

Questa scienza in particolare è quella che "provvede, non ad una cosa sola tra quante sono nello Stato, ma ad esso Stato tutto intero, in modo che esso con se stesso e con gli altri Stati possa meglio comportarsi". Come si vede la σοφια coincide con quello che Platone chiama anche phronesis. Aristotele, come abbiamo detto, separa nettamente i due termini, esprimendo con essi due differenti concetti. Ecco il più famoso testo aristotelico a questo riguardo:

 

"[ ... ] noi pensiamo che ci siano degli uomini sapienti in senso onnicomprensivo e non sapienti solo in un campo particolare o in una cosa determinata [ ... ] e così è chiaro che la sapienza è la più perfetta delle scienze. Per conseguenza, bisogna che il sapiente non solo conosca ciò che deriva dai principi, ma anche che colga il vero per quanto riguarda i principi stessi. Così si può dire che la sapien­za sia insieme intellezione e scienza, in quanto è scienza, con fonda­mento, delle realtà più sublimi. È assurdo, infatti, pensare che la po­litica e la saggezza siano la forma più alta di conoscenza, se è vero che l'uomo non è la realtà di maggior valore nell'universo"

(Etica Nicomachea).

 

La sapienza è dunque scienza delle cose che trascendono l'uomo, è la scienza teoretica, e, in particolare, la metafisica; la saggezza è scienza dell'uomo e delle cose umane.

 

La Sapienza nelle filosofie ellenistiche

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Nelle filosofie elleni­stiche col tramonto della metafisica va di pari passo il tramonto della sapienza e il levarsi in primo piano dell'interesse per l'uomo, e quin­di della phronesis che diviene la suprema virtù. Ecco la definizione stoica di sophia: "dicono che la filosofia è la pratica della sapienza e che la sapienza è conoscenza delle cose divine e umane"; dove, come è evidente, viene cancella­ta proprio la discriminazione aristotelica. Per contro, con il riemergere nell'età imperiale della metafisica, torna ad imporsi la superiorità della sophia, la quale, anzi, si amplifica, arricchendosi di inedite valenze.

In Filone di Alessandria la sapienza, da un lato, viene intesa come quella conoscenza del divino che si basa sulla fede e sulla rivelazione, e, dall'altro, viene addirittura intesa in modo quasi ipostatico, come un'entità che deriva da Dio e quindi come un aspetto del Logos, o addirittura come identificantesi con il Logos medesimo e quindi con tutte le funzioni proprie del Logos. Si ritrovano in Filone fondamentalmente i significati che si ritrovano nel libro bi­blico della Sapienza, di cui riportiamo uno dei passi più significativi:

 

 

"Sappi quanto è nascosto e palese; infatti la sapienza, artefice di tut­to, me lo insegnò. In essa, infatti, vi è uno spirito intelligente, san­to, unico e molteplice, sottile, celere, perspicace, senza macchia, luci­do, propizio, amante del bene, penetrante, incoercibile, benefico, aman­te degli uomini, immutabile, fermo, senza ansie, di ogni virtù, tutto vi­gile, che penetra ogni spirito intelligente, puro e più sottile. E così la sapienza è più agile di ogni moto, pervade e penetra tutto per la sua purezza. Essa è il soffio della virtù di Dio, l'effluvio puro della gloria dell'Onnipotente; perciò niente di lurido la raggiunge. Essa è lo splendore della luce eterna, lo specchio tersissimo del vigore di Dio e l'immagine della sua bontà. E poiché è unica, essa può tutto; pur rimanendo immobile, tutto rinnova, e passando, in ciascuna età, nelle anime sante, prepara gli amici di Dio e i profeti. Dio non ama che colui che abita con la sapienza; poiché essa è più fulgida del sole [ ... ]" (7, 21 sgg.).

 

 

In 8, 3 sgg., si legge ulteriormente:

 

 

"Essa mostra la no­biltà perché conversa con Dio e il Signore dell'universo la ama; essa è partecipe dei segreti della scienza di Dio e sceglie tra le opere di lui. Ora, se le ricchezze sono un bene desiderabile come possesso nella Vi­ta, che cosa c'è di più ricco della sapienza che produce tutto? E se la intelligenza opera, chi, fra tutte le cose, è più intelligente di lei?".

 

 

È evidente che il pensiero filoniano dipende da questi testi. Ma anche nel contesto del pen­siero pagano, e non solo in quello puramente mistico ma altresì in quello più propriamente speculativo come quello di Platino, la sophia assume alcune di queste dimensioni, ad esempio in una esem­plare pagina delle Enneadi che conviene leggere:

 

"Ma la vita, là (nel mondo dello Spirito), è sapienza e, per giunta, una sapienza che non s'acquistò per via di ragionamenti, perché essa è già compiuta in eterno e non viene meno in nulla, si che occorra farne ricerca; anzi, è la sapienza primordiale e inderivata; e il suo stesso essere è sapienza, non è, badate, un essere che in un secondo tempo si fa sapiente. Pro­prio per questo, nessuna sapienza le è superiore; e la scienza in sé qui siede accanto allo Spirito, poiché con Lui apparve la prima volta, co­me si dice, per immagine, che il Diritto troneggia al lato di Zeus [ ... ]. Ora, a voler misurare la grandezza e la forza di tale sapienza, basta osservare ch'essa reca con sé ed ha creato gli esseri e il tutto; che tut­to le si accompagna; che essa è, dal canto suo, gli esseri [= le Idee]; che essi ebbero comunque nascimento con lei; che entrambi sono una cosa sola; che l'essere non è poi altro che la Sapienza dello Spirito" (v, 8, 4).

 

La Sapienza nelle Sacre Scritture

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Come si è detto altrove Filone di Alessandria pensava che i nomi divini identificassero poteri o aspetti di Dio che potevano personificarsi. Il vero nome di Dio è "Io sono Colui che è" o "YWHW". Gli altri alludono a questi aspetti parziali della divinità. Ad esempio nomi come "Dio" e "Signore" si riferiscono rispettivamente alle sua facoltà creative e reggitrici. "Dio" e "Signore" non sono gli unici poteri di Dio che Filone identificò; essi sono solo i più primevi. Secondo la Genesi, Dio creò l'universo dicendo "Sia la luce", "e la luce fu" (Genesi 1:3). E' la voce di Dio che fa venire ad esistenza il mondo. Conseguentemente Filone indica come Parola di Dio (Logos) il principio divino che fa da intermediario tra la divinità suprema e il mondo creato. Il Padre di tutto pose "il suo messaggero principale", il Logos, "affinché fosse al confine e separasse le creature dal Creatore". Ebrei come Filone vedevano anche la Sapienza di Dio come una figura mediatrice e creatrice.

Nei Proverbi, la Sapienza, una figura femminile, afferma che Dio la creò prima tra tutte le cose, e fu da lei assistito nella creazione dell'universo (Proverbi 1:22-31). "Vengo dalla bocca dell'Altissimo" annuncia la Sapienza (Siracide 24:3), ponendo le basi perché gli Ebrei e i cristiani la identificassero col Logos divino.

L'insegnante cristiano Giustino Martire concordava sul fatto che un principio di rango inferiore avesse mediato tra Dio e la creazione. Egli non solo identificava la Sapienza di Dio con il Logos di Dio, ma identificava entrambi con Cristo. I cristiani avevano già compiuto questo passo: Paolo chiamava Cristo "il Potere e la Sapienza di Dio" (1 Corinzi 1:24) e uno dei suoi discepoli sostenne che "in Cristo tutte le cose in cielo e la terra sono state create" (Colossesi 1:16). Il Vangelo di Giovanni identificò Cristo come Parola di Dio, attraverso cui "tutte le cose sono state create" (Giovanni 1:1-13). Seguendo questi precedenti, Giustino concordava con gli Gnostici e con Filone sul fatto che il dio supremo, il Padre, è in realtà innominabile: nomi quali "Padre" e "Dio" e "Signore" si riferiscono solo a ciò che Dio fa, non a chi egli è. E così il Dio supremo ha un Figlio, "un altro Dio", il Logos o Parola, che ordina l'universo e rivela il dio supremo agli esseri umani. Il Padre e il Figlio sono "distinti in numero ma non in intelletto". Poiché il padre è remoto e distante da noi, è il Logos che apparve a persone come Abramo e Mosé nella Bibbia. Non solo, ma Dio ha un'altra emanazione, lo Spirito. Filone e Giustino sarebbero stati d'accordo sul fatto che non era il Dio supremo che nella Genesi appare agli uomini e veicola rivelazioni divine, ma qualche sua emanazione di rango più basso.

 

 

Influssi dello Gnosticismo sul Cristianesimo

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Esistono motivi gnostici nel cristianesimo ortodosso? Jung rispondeva affermativamente, e parlava di "presupposti giudeo-gnostici negli scritti di Paolo" e dell'immensa influenza del vangelo 'gnostico' di Giovanni"

Anche il Cristianesimo si occupò del problema del dualismo. E' significativo che Origene lasci aperta la possibilità, alla fine dei tempi, anche di Satana stesso, perché aveva colto le implicazioni dualistiche di una definitiva separazione di Satana dalla figura della divinità.

 

Il pensiero di San Paolo

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Si sono voluti vedere accenti gnostici nella Lettera agli Efesini, dove l'apostolo mette in guardia i cristiani: "La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue; ma piuttosto contro le potenze del mondo e i Principati spirituali che sono il ricettacolo del male" (Efesini, 6:12).

Questa sembra una allusione agli Arconti gnostici. Il Libro Segreto secondo Giovanni fornisce l'analisi più dettagliata degli Arconti ed elenca i loro nomi. In quest'opera essi sono poteri celesti, associati con le stelle e i pianeti, e il fato determinato dagli astri costituisce la parte principale del loro potere sugli esseri umani. Gli Arconti ostacolano e fanno venir meno la  nostra potenziale virtù e conoscenza di Dio controllando con gli influssi degli astri le nostre scelte. Il Libro Segreto indica, sulla scorta di fonti zoroastriane, gli Arconti che hanno creato le singole parti del corpo umano, forse allo scopo di consentire agli Gnostici di imbrigliare o invocare il potere degli Arconti quando necessitano di guarire tali parti del corpo. Conoscere i nomi e le gerarchie degli Arconti era probabilmente un mezzo con cui lo Gnostico resisteva alla loro influenza malvagia.

Anche la descrizione del battesimo nelle comunità paoline ha un sapore gnostico: esso era praticato ed inteso in termini grandiosi, cosmologici, suggerendo che innalzasse il cristiano fino a farlo sedere con Cristo nei luoghi celesti (Efesini 2:6). Questa descrizione è singolarmente simile a quella che fa l'eroe gnostico Zostriano del battesimo cui viene sottoposto, come mezzo e metafora della mistica ascesa per contemplare gli Eoni

Paolo considera centrale la dottrina del Logos esposta nel Vangelo di Giovanni, che è il vangelo che molti accostano, a torto o a ragione, al pensiero gnostico. Egli dice ad esempio: "Cristo è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose" (Colossesi 1,15-16)

Ma va notato che Paolo dichiara di opporsi al nascente gnosticismo: lo fa contrapponendo l'umile annuncio dell'evento fondamentale della morte e risurrezione di Cristo (kerygma) alla sapienza dei discorsi umani (sophia). Paolo spiega ché il Vangelo non è la "sapienza di un discorso". E che annunciare il vangelo come la sapienza di un discorso non è pericolo da poco: secondo lui, se si annuncia il Vangelo come un discorso sapiente si svuota la croce di Cristo, e che questo va evitato,  "perché non venga resa vana la croce di Cristo".

 

Il Vangelo di Giovanni e la controversa dottrina del Logos

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Si veda il paragrafo La Sapienza nelle Sacre Scritture

 

L'atteggiamento della Chiesa verso la sessualità

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Poiché non c'è nulla di così "terrestre" o legato alla riproduzione degli uomini sulla Terra come la sessualità non è difficile capire perché gli gnostici, in larga parte, fecero tutto il possibile per interpretare le Sacre Scritture in modo antisessuale.

Molti hanno voluto vedere nella posizione innegabilmente misogina di una parte del pensiero cristiano ortodosso una influenza gnostica, a partire dall'apocrifo paolino I Timoteo ("le donne  stiano in silenzio e non esercitino autorità sugli uomini").

L'ideale della verginità non è originariamente un ideale cri­stiano. Il taumaturgo Apollonio di Tiana (I secolo d.C.), così ri­ferisce il suo biografo Filostrato, ha fatto voto di castità e vi è sta­to fedele per tutta la vita. E lo scienziato Plinio il Vecchio, che perì durante l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., loda come esemplare l'elefante che si accoppia soltanto ogni due anni (Na­turalis historia 8,5). Plinio si riferisce qui al modello ideale, domi­nante al suo tempo. Presso i teologi cristiani e nella letteratura cristiana di edificazione il casto elefante di Plinio avrebbe goduto di grande e duratura fortuna. Così lo incontriamo nelle opere di Riccardo di San Vittore (morto nel 1173 circa), di Alano di Lilla (morto nel 1202), in una summa anonima del XIII secolo (Codex Latinus Monacensis 22233), nelle opere del domenicano Gugliel­mo Peraldo (morto prima del 1270). Il vescovo di Ginevra Fran­cesco di Sales (morto nel 1622) cita l'elefante nell'opera di spiri­tualità Introduzione alla vita devota del 1609. E l'elefante è sempre portato a modello per gli sposi.

Francesco di Sales scrive: "E solo un goffo animale, e tuttavia il più dignitoso di questa terra e il più giudizioso [ ... ] non cam­bia la sua femmina e ama teneramente quella che ha scelto e con essa si accoppia tuttavia una volta ogni tre anni e ciò solo per cinque giorni, e stupisce che mentre si accoppia non si fa vedere; si mostra poi al sesto giorno, e subito si dirige verso il fiume, in cui egli lava tutto quanto il suo corpo, e non ritorna nel branco se non si è prima purificato. Non è questo un retto e giusto com­portamento?" (3,39). L'esaltazione cristiana della castità ha spinto Francesco di Sales ad aggiungere un ulteriore anno di ca­stità all'elefante di Plinio. Nell'autore latino si legge: "Per pudo­re non si accoppiano se non di nascosto [ ... ] lo fanno soltanto ogni due anni e non più a lungo di cinque giorni, come viene ri­ferito. Nel sesto si lavano nel fiume, e solo dopo essersi lavati tor­nano nel branco. Non conoscono adulterio" (Naturalis historia 8,5).

Troviamo di nuovo l'elefante nelle Storie di Anna Caterina Emmerich sulla vita di Gesù, scritte da Clemens von Brentano, libro vendu­to bene nelle librerie cattoliche e letto volentieri da certe persone pie; l'elefante è qui presente addirittura nella predicazione di Gesù e compare in numerosi passi delle visioni; per esempio "Gesù parlò anche della grande corruzione della procreazione tra gli uomini e come dopo il concepimento bisogna contenersi; e a prova di quanto gli uomini per questo aspetto siano inferiori agli animali più nobili, citò la castità e l'astinenza degli elefanti" (dettato il 5 novembre 1820). La giovane coppia delle nozze di Cana ne resta profondamente impressionata. "Alla conclusione del banchetto lo sposo avvicinò Gesù a tu per tu e umilmente parlò di come avesse sentito morire in sé ogni desiderio carnale e volentieri avrebbe potuto vivere con la propria moglie nell'asti­nenza, se essa glielo avesse permesso, e anche la sposa, da sola, avvicinò Gesù e gli disse la stessa cosa, e Gesù chiamò entrambi e parlò con loro del matrimonio e della purezza gradita a Dio" (dettato il 2 gennaio 1822). A proposito della monaca Anna Ca­terina, morta nel 1824 dopo aver ricevuto le stigmate e le visioni, il giornale cattolico "Offertenzeitung" scrive nel settembre 1978: "Non esiste contrasto più stridente di quello che passa fra il go­dere di questo mondo da parte dei nostri contemporanei che non pregano, e l'amore, le sofferenze e l'espiazione di questa seguace di Cristo che vive completamente immersa in Dio". L'"Offerten­zeitung" spera che "presto questa grande serva di Dio possa essere beatificata".

La valutazione negativa del piacere sessuale che domina nella Stoà e caratterizza i primi due secoli dopo Cristo viene ulterior­mente rafforzata dall'irruzione del pessimismo che, poco prima dell'era cristiana, era penetrato in Occidente dall'Oriente, pro­babilmente dalla Persia, e si accingeva a diventare il più temibile concorrente del cristianesimo. Questo movimento, che si definì gnosi (conoscenza), credeva di aver riconosciuto la nullità e la malvagità di ogni essere; predicava l'astensione dal matrimonio, dalla carne e dal vino. Già il Nuovo Testamento prende posizio­ne contro la gnosi e il suo disprezzo per la vita. La prima lettera a Timoteo termina con la frase: "O Timoteo, [ ... ] evita le chiac­chiere profane e le obiezioni della cosiddetta gnosi". Per gli gno­stici il corpo è un cadavere dotato di sensibilità, il sepolcro che ci si porta appresso; il mondo non ha origine da un Dio buono, ma da demoni; solo l'anima dell'uomo, cioè il suo vero essere, il suo io, viene come una scintilla di luce da un altro mondo, un mon­do di luce; essa fu fatta prigioniera da forze demoniache ed esiliata in questo mondo di tenebre; l'anima dell'uomo si trova cosi in un paese straniero, in territorio nemico, incatenata nell'oscu­ra prigione del corpo; sedotta dallo strepito e dalle gioie del mon­do, corre il pericolo di non ritrovare più la strada verso il Dio della luce da cui ha avuto origine; i demoni infatti cercano di stordirla, perché, senza la scintilla di luce, il mondo creato da lo­ro ricade nel caos e nelle tenebre.

La gnosi rappresenta l'appassionata protesta contro l'idea che l'essere-nel-mondo sia buono. Essa è dominata da un pro­fondo pessimismo, opposto alla visione della vita della tarda an­tichità. Certo era abituale presso i greci la svalutazione della ma­teria - già Platone parla del corpo come carcere dell' anima (Gorgia) -, ma il cosmo (il cui etimo dice bellezza e ordi­ne, vedi "cosmetica"] era una struttura omogenea e ordinata, dal basso all'alto, senza frattura tra materia e spirito. La demoniz­zazione di ogni realtà corporea e materiale è sconosciuta prima dell'irruzione della gnosi. Questa irruzione della negatività fu tanto forte da trasformare l'antica visione della vita. Le ricerche sulla gnosi hanno invalidato la rappresentazione dell'antichità del classicismo tedesco. La filosofia neoplatonica (di grande im­portanza per Agostino), che si sviluppò nella prima metà del III secolo d.C. e fu caratteristica della fine del pensiero antico, è in­fluenzata dalla gnosi nella sua comprensione della vita e nel suo atteggiamento nei confronti di essa. Plotino (morto nel 270), ispiratore del neoplatonismo, ha scritto sì un'opera contro gli gnostici, ma è pur sempre rimasto contagiato in larga misura dal pessimismo gnostico e dalla sua fuga dal mondo. "Sembrava ver­gognarsi di avere un corpo", scrive il suo biografo Porfirio (Vita di Plotino). Il neoplatonismo esigeva dai suoi seguaci una vita casta e ascetica. Pressappoco come nel caso del cattolicesimo: il neoplatonismo fu viziato dall'avversione gnostica per il corpo, pur avendo inizialmente combattuto con­tro la gnosi.

L'ascesi è estranea a tutto l'ebraismo fino all'irruzione della gnosi, come accade ad esempio nella setta di Qumran. Il mondo e la materia non sono cattivi. Trascendere la realtà terrena e ne­gare la vita non è considerato dagli ebrei un'azione devota. In­fatti la fedeltà dell'ebraismo a un unico Dio buono come creatore di ogni essere ha mitigato il pessimismo e il rifiuto del mondo dell'influsso gnostico sulla setta di Qumran. Nell'ebraismo del­l'Antico Testamento non c'è ombra di pessimismo sessuale. Tuttavia molti cattolici lo vedono ancorato già nell' Antico Te­stamento, e precisamente nel libro di Tobia, scritto. intorno al 200 a.C. ,Ad aver dato questo fondamento biblico all'ascesi sessuale è stata l'opera del padre della chiesa Girolamo (morto nel 419-20). Nella sua traduzione della Bibbia in latino (Vulgata), che la chiesa cattolica considera fino ad oggi traduzione autenti­ca, manipolò il testo in funzione del suo ideale di verginità. Il di­zionario cattolico Wetzer-Welte (1899) scrive che Tobia nella sua prima notte di nozze sfuggì alla morte "per la sua castità". Già sette mariti di sua moglie Sara, infatti, erano morti uno do­po l'altro nella prima notte di nozze, e anche per Tobia era già stata scavata la fossa. Ma egli sopravvisse. Mentre nel testo ori­ginale sta scritto che la prima notte marito e moglie dormirono insieme, secondo Girolamo Tobia aspetta tre notti (più tardi chiamate •• le notti di Tobia") prima di unirsi a Sara. E quando, dopo tre notti di preghiera, le si avvicina, pronuncia le parole di Girolamo, non quelle ebraiche, quando prega in questi termini: "Ora, o Signore, tu sai che io prendo questa mia sorella in mo­glie non per lussuria ma per desiderio di una discendenza" (Tb. 8,7). Questa espressione manipolata di Tobia è stata citata fino ad oggi da tutti i teologi rigoristi per sostenere l'esclusività del fi­ne procreativo del matrimonio. La frase originaria che Tobia ci­ta da Genesi 2,18, "non è cosa buona che l'uomo resti solo", il monaco Girolamo la omette semplicemente per non confondere sull'esclusivo fine procreativo del matrimonio. Nelle più recenti traduzioni cattoliche della Bibbia le aggiunte e le omissioni di Girolamo sono state annullate. E sono ormai acqua passata i tempi in cui in Francia il vescovo di Amiens e il parroco di Abbe­ville pretendevano dai novelli sposi il pagamento di un permesso se non intendevano osservare le tre notti di Tobia, ma volevano avere rapporti sessuali già nella prima notte. Voltaire (morto nel 1778) vedeva peraltro una relazione tra la tassa per il vescovo di Amiens e il cosiddetto ius primae noctis, prerogativa del signore feudale che, in occasione del matrimonio delle sue suddite, ave­va il diritto di accoppiarsi per primo con loro nella prima notte di nozze. In effetti, tra l'astinenza per volontà di Dio del giovane sposo, come essa è descritta (dalla penna di Girolamo), l'asti­nenza del neomarito per il diritto prioritario del signore, come si manifesta nello ius primae noctis, e infine il tributo da versare al vescovo può esistere un nesso. L'idea è la stessa: il diritto della prima notte di nozze spetta in primo luogo al signore supremo, al dio signore. Per gli evangelici peraltro tutto il libro di Tobia, con o senza le notti di Tobia, non appartiene all'Antico Testa­mento, ma ai cosiddetti scritti apocrifi (non canonici).

Dopo il rinvenimento, nel 1947, dei manoscritti di Qumran sul Mar Morto, possiamo farci un'idea più precisa di questa setta che viveva nel deserto ai tempi di Gesù e che era nota fin dal­l'antichità col nome di esseni. L'influsso della gnosi e della sua ascesi in campo sessuale, dì per sé estranea all'ebraismo, si ma­nifesta chiaramente in questa setta. Non si tratta di una vera e propria comunità monastica (a questa comunità apparteneva in­fatti anche gente sposata), ma l'ampio cimitero a oriente di Qumran dimostra che i membri a pieno diritto e più influenti erano monaci. La disposizione delle tombe testimonia la supe­riorità dei non sposati e l'inferiorità delle donne e dei bambini. L'insediamento fu totalmente distrutto dai romani nel 68 d.C.

L'idea ebraica di una creazione buona da parte di un Dio creatore buono fu pesantemente compromessa dall'influsso gno­stico. Secondo Qumran il mondo è regno di Satana. Un simile modo di esprimersi lo si riscontra anche nel vangelo di Giovan­ni. Malgrado tutte le polemiche contro la gnosi, l'influsso gnosti­co è infatti significativo anche nel Nuovo Testamento, senza che in esso e nella setta ebraica di Qumran l'idea ebraica di un unico Dio buono venga meno.

Della setta di Qumran (gli esseni) lo storico ebreo Giuseppe Flavio (morto nel 100 d.C. circa) scrive: gli esseni, "giudei di na­scita [ ... ] si astengono dai piaceri come da un male e praticano la temperanza come una virtù. Disprezzano il matrimonio, adotta­no perciò i figli degli altri quando sono ancora malleabili allo stu­dio [ ... ], si difendono dalla lascivia delle donne perché sono con­vinti che nessuna di esse rimanga fedele a uno solo [ ... ]. Né gri­da né bisticci disturbano la quiete della casa [ ... ]. Il silenzio che regna là dentro dà l'impressione a quelli che sono fuori di un mi­stero che merita timore. Questo silenzio è frutto di una sobrietà costante e dell'esercizio di prendere cibo e bevande solo nella mi­sura necessaria [ ... ]. Sono fortemente persuasi che i corpi si cor­rompono e che non durano gli elementi di cui sono composti, mentre le anime sono immortali e vivono per sempre [ ... ]; a ri­guardo delle anime pensano che esse discendano da un etere molto leggero [ ... ]; quando sono liberate dai ceppi della carne si sentono come rimesse in libertà da lunga prigionia e volano ver­so l'alto con grande gioia [ ... ]. Ma vi è anche un altro gruppo di esseni [ ... ] convinti che chi non si sposa è come se amputasse la parte principale della vita, la sua propagazione; essi ritengono anzi che se tutti la pensassero a quel modo', presto il genere uma­no scomparirebbe. Essi pertanto sottopongono le loro future spose a una prova che dura tre anni, e quando queste [ ... ] hanno dimostrato la loro fecondità, si conclude il matrimonio. Con la moglie rimasta incinta si astengono dall'avere rapporti sessuali,e da ciò si deduce che non si sono sposati per il piacere, ma per avere figli" (La guerra giudaica II,8,2-13).

Mentre la setta di Qumran, per influsso gnostico non ebrai­co, rifiuta nettamente il matrimonio, troviamo in Filone di Ales­sandria, filosofo ebreo-greco e contemporaneo di Gesù, una sin­tesi del pensiero ebraico e greco. All'inizio dell'era cristiana que­sto ebreo colto getta un ponte fra il mondo ebraico e quello gre­co, fra la fede ebraica e la filosofia greca e tenta, sotto il forte in­flusso dei filosofi greci, di rendere comprensibile la Bibbia ebrai­ca ai contemporanei non ebrei. E questa mescolanza ebreo-greca (soprattutto stoica) dà l'impressione che Filone sia già il primo padre della chiesa cristiana, almeno per quanto riguarda la concezione del matrimonio. Egli rimane però ebreo nel senso che non accetta l'ideale della verginità che anda­va sviluppandosi nel primo cristianesimo.

Secondo Filone, l'egiziano Giuseppe dice alla moglie di Puti­far che lo tenta: "Noi discendenti degli ebrei abbiamo particolari costumi e leggi. Noi, concluso il matrimonio, ci presentiamo ca­sti a vergini caste e ci proponiamo come scopo non il piacere car­nale, ma la procreazione di figli legittimi" (Su Giuseppe 9,43). Nella sua spiegazione della legge mosaica sull'adulterio, Filone parla di "uomini lussuriosi, che nella loro passione esuberante praticano un rapporto sessuale troppo libidinoso non con altre donne ma con le proprie mogli" (Sulle leggi particolari 3,2,9). Filo­ne ritiene che il rapporto sessuale nel matrimonio debba avveni­re solo in vista della procreazione, non del piacere sessuale. Egli elogia perciò la poligamia di Abramo, perché questa era, cosi pensa Filone, determinata non dal desiderio del piacere ma dalla volontà di Abramo di aumentare la sua discendenza. Nella con­vinzione che il senso e lo scopo del matrimonio sia soltanto la procreazione, Filone fa poi un ulteriore passo rispetto ai greci e agli ebrei prima di lui: se qualcuno conosce la sterilità della don­na da un precedente matrimonio di lei e ciononostante la sposa, allora "egli ara una terra magra e pietrosa", lo fa soltanto per l'appetito sessuale e ciò è da condannare. Qualora la sterilità del­la donna si rivelasse una volta concluso il matrimonio, sarebbe però scusabile se l'uomo non ripudiasse la propria moglie. Le ul­time vestigia di questa concezione del matrimonio quale comu­nità per la procreazione furono abolite dal diritto canonico catto­lico solo nel 1977: neppure per l'uomo è più indispensabile la ca­pacità di generare; perché un matrimonio sia considerato valido è necessaria soltanto la capacità di avere rapporti.

Filone condanna duramente la contraccezione: "Coloro che nell' accoppiamento provocano la dispersione del seme sono sen­za ombra di dubbio nemici della natura" (Sulle leggi particolari 3,36). E per la sterilità del loro atto sessuale condanna duramen­te anche gli omosessuali: "Come un cattivo contadino, l'omoses­suale fa restare una terra fertile infruttifera e si affatica con terre da cui non si aspetta alcun frutto". Filone, che riguardo a molti problemi pensava come i greci, nella sua avversione all'omoses­sualità è completamente ebreo: "Contro questi uomini si deve procedere in maniera spietata secondo la prescrizione della Leg­ge; un effeminato che falsifica il conio della natura deve essere senz'altro ucciso e non deve restare in vita né un sol giorno né una sola ora perché disonora se stesso, la sua famiglia, la sua patria e tutto il genere umano [ ... ] perché segue il piacere con­tro natura e da parte sua mira a spopolare completamente le città [ ... ] quando disperde il proprio seme" (Sulle leggi particolari 3,37-42).

 

Teologia  apofatica

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Esiste una corrente di pensiero apofatico nel cristianesimo ortodosso, rilevabile in opere antiche molto diffuse, come La Nube dell'Inconoscenza così come nelle opere di mistici moderni come San Giovanni della Croce. Questo concorda pienamente con il punto di vista, che gli Gnostici spartiscono con i Neoplatonici, sulla inconoscibilità assoluta della divinità suprema

Molta parte della dottrina cristiana è apofatica nella sua essenza. La teologia ortodossa si è chiarita e determinata in moltissimi casi seguendo la "via media" contrassegnata dagli estremi delle eresie. Sembra quasi di sentire l'avvertimento indiano "neti! neti!" "non questo! non quello!". Non a caso il filosofo talvolta è irritato e insoddisfatto di questo modo di procedere. Guido de Ruggiero, nell'esporre il pensiero tridentino ironizza sulla "inconsistenza" di una linea di pensiero più attenta a distinguersi e a non-determinarsi nelle forme dell'eresia (in quel caso protestante) che ad approdare a formulazioni positive.

 

Ascetismo e monachesimo

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Nel suo erudito The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, Edward Gibbon riporta la lamentela del pellegrino Cassiano, che all'inizio del V secolo trova l'Egitto "infestato" di monaci, che definisce "persone dedite alla pratica pagana dell'epicureismo senza rendersene conto".

Di fatto il monachesimo orientale dei primi secoli, con il suo ideale di separazione dal mondo corrotto, le pratiche ascetiche per spossare il corpo, l'isolamento dagli altri, presenta un insieme di pratiche e credenze peculiari, la cui origine ha costituito motivo di dibattito tra gli studiosi del Cristianesimo delle origini.

Il dualismo antropologico sotteso alla pratica monastica vede nell’uomo una tensione tra anima e corpo, spirito e materia; il dualismo cosmologico vede il mondo come campo di battaglia tra un principio del bene e un principio del male.

E’ l’esperienza a far notare a Lattanzio che il principio del male opera nel mondo come un "anti-Dio, "nemico del bene e della giustizia, che vuole il contrario di ciò che vuole Dio". Questo potere perverso gioisce dell’errore umano; sua sola e perpetua occupazione è rendere le anime umane cieche alla luce, perché non sperino più nel cielo ma si mettano anzi al suo servizio. Dio gli ha affidato il mondo materiale, ma il Diavolo perverte questa legittima responsabilità. Preferisce invidiare Dio, volgere la malevolenza che procede dalla sua invidia contro Dio, contro il Verbo di Dio, il Cristo, e contro l’umanità.

Il successo del Diavolo nel tentarci è frutto del dualismo inerente al nostro carattere. Il Padre della Chiesa Lattanzio è un dualista antropologico, scorge una profonda frattura tra l’anima e il corpo degli uomini. Dio ha creato l’universo in modo tale che in ogni persona lottino due principi antagonistici. "Noi" – cioè le nostre vere personalità – siamo ben diversi dai corpi che "abbiamo indosso". Lattanzio, pur dovendo concedere che il corpo è una creazione di Dio, lo intende come appartenente al Diavolo, qualcosa di cui Dio permette l’esistenza per far da contrasto all'anima. Dio vuole che noi seguiamo le spinte della nostra anima alla generosità e all’amore. Satana vuole che seguiamo i desideri del nostro corpo: bere, sesso, ricchezza, potere, prestigio. Ogni uomo e ogni donna sono a un bivio: un sentiero conduce in cielo, l’altro all’inferno. Se prendiamo la strada in discesa le ombre dei piaceri materiali ci avvolgeranno sempre di più, distruggendo poco a poco l’armonia, la quiete, la gioia in un crescente tumulto fatto di agitazione rumore indecisione, lamento e inutilità.

Nei primi due secoli e mezzo del Cristianesimo, la lotta tra gli gnostici e le fazioni meno dualistiche non può essere storicamente letta come una lotta tra l’eresia e l’ortodossia, perché l’ortodossia non era ancora stata definita. Immaginare una lotta tra Chiesa e Antichiesa, a quel tempo, significa abusare di idee teologiche posteriori e prendere troppo sul serio le polemiche di alcuni antichi autori. Entrambi i fronti – o, per essere più precisi, i vari fronti – si consideravano cristiani. Solo gradualmente un insieme di opinioni vinse sugli altri e divenne la posizione "cattolica", accettata, ortodossa. Il Cristianesimo delle origini, rettamente inteso, comprendeva concezioni fortemente dualistiche; molti cristiani di allora, pur senza essere gnostici, mostravano forti tendenze dualistiche. Quindi il perenne apparire di concezioni ed "eresie" dualistiche in tutta la storia del Cristianesimo non è un’intrusione di idee aliene, esterne, bensì l’emergere di visioni dualistiche intrinseche al Cristianesimo sin dall’inizio.

La lotta tra il corpo e l’anima fu un tema dominante nel primo pensiero monastico cristiano. Il monachesimo, che mirava a offrire una vita di solitudine e riflessione nella quale l’individuo potesse consacrare tutto il suo tempo alla contemplazione di Dio senza essere disturbato dalle distrazioni della vita sociale, ebbe un notevole significato per la demonologia. Il primo monaco di cui si abbia conoscenza, Sant’Antonio (251-356 sono le date tradizionalmente attribuitegli) si ritirò dal suo villaggio per condurre una vita da eremita nel deserto; in uno scenario simile san Pacomio (286-346) fondò più tardi il monachesimo cenobitico (comunitario). Da un certo punto di vista il monachesimo era un surrogato del martirio.

In Egitto, ritirarsi dalla società significava lasciare la fertile valle del Nilo e andare a vivere nel deserto, ritenuto per millenni luogo di minacce sia fisiche che spirituali. I cristiani credevano inoltre che le preghiere delle comunità, nell’impero che andava sempre più cristianizzandosi, stessero scacciando dalle città i demoni, che andavano ora riunendosi nel deserto.

Il deserto era un rifugio dalle tentazioni della società, ma anche un luogo in cui le tentazioni venivano direttamente dal Diavolo. Nel deserto ci si poteva sottrarre a distrazioni meschine, piccoli vizi e piccole virtù, per prendere direttamente parte alla lotta cosmica tra Cristo e Satana… Che si interpretino i demoni come esseri esterni o forze psicologiche interne, non c’è dubbio che i monaci si sentissero oggetto di attacchi quasi incessanti da parte delle forze del male. Le loro esperienze, aumentarono di molto la paura del Diavolo… I demoni attaccavano gli eremiti più dei cenobiti, perché più ci si eleva nella vita spirituale, più violenti si fanno gli attacchi del demonio

Tra le immagini di maggior impatto che il monachesimo diffuse per tutta la comunità cristiana ci fu quella del monaco guerriero contro il diavolo.

Secondo Atanasio, vescovo di Alessandria ed autore, nel 360, di una Vita di Sant’Antonio, cadendo, diavolo e demoni s’erano separati dal resto del cosmo, condannandosi ad una vita di nulla, tenebre, mostruosità e non essere. Intrinsecamente mera negatività – tumulto, turbamento e disordine – i demoni possono assumere forme visibili e quindi produrre nelle menti delle loro vittime immagini e fantasie. Fanno grande affidamento su questo potere per sopraffare i monaci.

Più il monaco si eleva nella sua ricerca di Dio, con maggior odio il Diavolo lo attacca. Poiché la solitudine è una grande virtù, ogni volta che Antonio decide di passare ad una solitudine più completa, si espone ad attacchi particolarmente virulenti.

Gli assalti sono in genere opera di demoni secondari, ma se il monaco oppone troppa resistenza interviene il Diavolo stesso. Le loro tecniche sono varie e ricche di espedienti.

Per combattere gli assalti diabolici, i monaci disponevano delle stesse armi degli altri cristiani: la fede in Cristo, il segno della croce, il nome di Gesù. I demoni li temono in modo particolare; ne vengono dolorosamente bruciati, a conferma del castigo che li aspetta nell’inferno. A questi strumenti i monaci potevano aggiungere, di loro, acume ed esperienza spirituali, sempre con l’aiuto della grazia di Dio. La vita ascetica di Antonio, i suoi digiuni, le sue veglie, smussavano gli attacchi del nemico. Altre armi monastiche erano l’esorcismo, il disprezzo ostentato verso i demoni ignorandoli o soffiando su di loro (forse ad imitazione dell’alito o Verbo salvifico di Dio; a questo si riferiva Giuliano l’Apostata beffandosi dei monaci perché fischiavano ai demoni), e la semplice mancanza di paura. Quando uno spirito si avvicina, bisogna affrontarlo coraggiosamente e chiedergli chi sia. Se è un angelo si rivelerà; se è un demone rifuggirà un simile atteggiamento di coraggio balbettando di paura.

La più importante di tutte le difese è il discernimento degli spiriti. Lo si riceve in dono da Dio; usandolo con sapienza si può diventare un grande monaco. La dottrina del discernimento divenne veicolo d’una sofisticata psicologia. Siamo tutti consapevoli della nostra mutevolezza di pulsioni e di umori, e sappiamo che quanto ci sembra giusto un giorno può sembrarci sbagliato il giorno dopo. Fuorviati da impulsi passeggeri, rischiamo di commettere gravi errori. Attraverso l’esercizio del discernimento i monaci potevano dire se un impulso veniva in ultima istanza da Dio o dal Diavolo, se era vantaggioso o nocivo. Lo imparavano sia per sé che per gli altri, cosicché venivano spesso visitati da persone normali bisognose di consiglio. Il discernimento degli spiriti metteva il monaco in grado di interpretare i sogni e quella che Freud avrebbe chiamato, secoli dopo, la psicopatologia della vita quotidiana.

Ogni vittoriosa resistenza al Diavolo ha le sue radici nella grazia di Cristo, senza la quale nulla sarebbe efficace.

 

Infiltrazioni di elementi astrali nell'iconografia cristiana

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La stella dei Magi, la raffigurazione della Vergine con la falce di luna crescente nell'Apocalisse di Giovanni, la data del 25 dicembre (solstizio di inverno) per la nascita di Cristo, sono altrettanti elementi infiltratisi nel cristianesimo ortodosso che, secondo Fritz Saxl, stanno a dimostrare la forza dell'astrologia al tempo dell'ascesa del Cristianesimo, e anche la capacità della giovane fede di assorbire elementi più antichi al punto di renderli del tutto inoffensivi.

 

 

 

Particolari sistemi gnostici

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Il sistema di Marcione

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Gli gnostici marcioniti erano i seguaci di Marcione, un famoso teologo e predicatore del secondo secolo proveniente dall'asia minore, che spese qualche anno a Roma prima di venire espulso dalla chiesa e tornare in Asia Minore, dove stabilì numerose chiese in parecchie città.

Marcione a differenza degli gnostici che fanno emanare il demiurgo, professa una separazione assoluta tra il creatore del mondo materiale e Dio. I Marcioniti non giunsero alla identificazione, tipica di altre sette gnostiche del dio creatore con Satana, il principe delle tenebre, ma lo ritenevano comunque diverso dal dio di amore e perdono.

A differenza degli Ebioniti, Marcione interpretava Paolo come il grande eroe della fede, l'unico apostolo che effettivamente aveva compreso Gesù e la sua relazione con la legge ebraica. Paolo tracciava una netta distinzione tra la legge data da Mosé, che poteva non dare salvezza, e il Vangelo di Gesù, che poteva. Marcione pensava che questa distinzione fosse assoluta: la legge giudaica e il Vangelo di Gesù non avevano nulla in commune. La legge era una cosa (per i giudei), il Vangelo era un'altra (per i cristiani).

Marcione scrisse un libro, chiamato l'Anthiseses (letteralmente "Le affermazioni contrarie") che mostrava l'assoluta dicotomia tra il Dio dell'Antico Testamento e il Dio di Gesù. Il dio dell'Antico Testamento era un il dio collerico e vendicativo del giudizio; il dio di Gesù era un dio amorevole e del perdono e della salvezza. Marcione trasse la conclusione logica che si trattasse di due dei differenti. Il dio dell'antico testamento aveva creato questo mondo, scelto Israele come suo popolo, dato ad esso la sua legge e poi aveva condannato loro e qualsiasi altro alla punizione eterna quando disobbedirono. Il dio di Gesù non aveva niente a che fare con questa creazione, Israele o la legge, e venne tra noi per salvare la gente dall'ira del dio dell'antico testamento. Ha compiuto questo permettendo che cristo fosse crocifisso sulla croce e prendesse la vendetta dell'altro dio su di sé. Coloro che hanno fede in Gesù possono pertanto sfuggire dalle mani del Dio vendicativo degli Ebrei.

In questa interpretazione, Gesù non era e non poteva essere un essere umano. Questo lo avrebbe reso parte della creazione fisica, una creatura del demiurgo inferiore. Secondo Marcione, Gesù sembrava solamente un essere umano ma era effettivamente un essere divino puro. Gli oppositori di Marcione chiamarono questo punto di vista "docetismo", dalla parola greca dokeo ("sembrare", "apparire"). Gesù appariva nelle sembianze umane, come dice Paolo in Romani 8:3; di conseguenza non si è fatto carne.

Pertanto, per Marcione, i seguaci di Gesù non dovevano associarsi con gli Ebrei o l'ebraismo in nessun modo. Essi dovevano essere seguaci di Gesù e Paolo, l'unico apostolo che ne avesse compreso il messaggio.

Marcione aveva la sua lista di libri sacri, ma il suo canone consisteva nelle dieci lettere di Paolo che conosceva e una versione del Vangelo di Luca. Tutti questi libri, tuttavia, sono supporti testuali alquanto problematici delle tesi di Marcione, dal momento che citano il Vecchio Testamento, e cioè il libro dell'"altro Dio e sembrano ritenere che la creazione sia stata fatta ad opera del vero dio. Marcione credeva che tutti questi libri fossero stati alterati dagli scribi che li copiarono, e che non conoscevano la verità del vangelo. E così produsse le sue proprie versioni dei suoi undici libri (ovviamente non includeva nel suo canone il Vecchio Testamento), una versione espurgata che eliminava le modifiche dei copisti che legavano Gesù al Dio creatore e malvagio.

 

 

Il sistema di Mani

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Il Manicheismo è la religione fondata da Mani (215-277), predicatore e teologo nato nel regno dei Parti e vissuto nell'impero Sasanide.

Il manicheismo fonde in modo originale elementi cristiani di derivazione giudaico-cristiana (Elcesaiti) e gnostica, in particolare di Bardesane e di Marcione, assieme ad una riformulazione del dualismo zoroastriano e di elementi della morale e dell'organizzazione buddhisti.

Esso si diffuse molto rapidamente nell'impero Sasanide e, grazie allo spirito missionario dei suoi seguaci, si diffuse sia a Occidente nell'Impero Romano, a cominciare dalla Siria e dall'Egitto, per poi diffondersi a Roma, nel Nord Africa e poi in tutto l'Impero, sia a Oriente nelle regioni dell'Asia centrale, popolate da tribù turche, fino all'India, alla Cina e alla Siberia.

Trovò raramente supporto e tolleranza dai governi e fu frequentemente e duramente perseguitato in ogni dove dalle autorità e dalle altre religioni. In Occidente scomparve verso il V secolo, nel Medio Oriente verso il X secolo, mentre sopravvisse più a lungo in Estremo Oriente (XIV secolo) anche per la sua capacità di adattarsi e mascherarsi con le credenze locali.

Secondo i Manichei l'universo è diviso tra forze del bene e del male, in guerra eterna. La ierostoria manichea si divide in tre periodi. Dapprima bene e male, luce e tenebra erano completamente separata. Il principio della luce era divino e spirituale; quello della tenebra era malvagio e materiale. Essi erano personificati come Padre della Grandezza e Principe dell'Oscurità. Nel tempo presente il mondo del caos e della materia è mescolato e in conflitto con quello dell'ordine e della luce. Per battere il male cosmico, Il Padre della Grandezza ha manifestato la Madre della Vita, che a sua volta ha partorito l'Uomo Primordiale. Una seconda divinità, lo Spirito Vivente, ha combattuto le forze delle tenebre con l'Uomo Primordiale. Nella battaglia il Principe delle Tenebre ha sconfitto l'uomo primordiale e ha divorato i sui cinque figli, sebbene una parte della luce che fuggì da loro divenne le sfere celesti. Lo Spirito Vivente salvò l'Uomo Primordiale e creò la terra fisica dai corpi dei demoni uccisi. Alla fine, tutte le particelle di luce imprigionate nella materia saranno riunite con la loro sorgente. Il Terzo Messaggero, un'altra emanazione del Padre della Grandezza, è stata mandata a catturare la luce rimasta nella creazione. Ogni mese, l'accrescersi della luca rappresenta l'aggiunga di particelle di luce. Come la luna cala, queste particelle vanno nel sole, e finalmente nei cieli supremi.

Gli esseri umani sono la progenie dei demoni che hanno inghiottito particelle di luce. Il primo uomo, Adamo, è stato risvegliato dal Figlio di Dio e ha capito di contenere tale scintilla. Quando Gesù ritornerà il mondo collasserà nel fuoco e brucerà per 1468 anni fino a che non sarà completamente distrutto e le anime non pentite e i demoni saranno incarcerati per sempre. Attraverso il Terzo Messaggero e Gesù, il Padre riprende le particelle di luce perdute, che ora costituiscono anime umane ad un superiore livello spirituale, il Nuovo Uomo.

Alla morte l'animo di un eletto manicheo è purificata ritualmente e viene portata  direttamente al regno della luce. Gli uditori, che non hanno fatto i voti finali, normalmente si reincarnano. La morte aveva una valenza positiva, e quindi il lutto e i lamenti erano superflui e banditi.

Secondo la dottrina manichea, Satana è da identificare con Jahveh, il dio dell'An­tico Testamento; perciò sono diaboliche tutte le sue manifestazioni: la Legge mo­saica, i suoi profeti (in particolare Elia, Enoch e Giovanni Battista), il suo culto. Come si negano i sacramenti del matrimonio e del battesimo, cosi si nega l'Eucaristia (ma il passo relativo nell'apocrifo è mutilo). Gli unici punti dottrinali che concor­dano con l'ortodossia della Chiesa sono: la caduta di Lucifero, la tentazione di Eva e il giudizio universale, con la salvezza dei giusti. Fa stupire che il Libro di Giovan­ni evangelista concluda con la sconfitta definitiva di Satana da parte di Dio, perché è noto che, secondo la dottrina manichea, il conflitto tra il Dio del bene e il Dio del male è eterno e insolubile. Per tale motivo qualcuno pensa che il finale dell'apocrifo sia un'aggiunta posteriore, proveniente da altra fonte '. Ma poiché le varie sette ma­nichee dei secoli X-XIV (bogomili, catari, albigesi, patarini) erano animate, oltre che da vivi motivi di protesta contro la corruzione della Chiesa ufficiale, anche e soprat­tutto da motivi di protesta sociale, può darsi che questa interpretazione del giudizio universale venisse accettata come conforto dei diseredati, nella speranza, almeno, di una giustizia nell'oltretomba, con un premio per i buoni. I quali, naturalmente, non sono i seguaci della Chiesa cattolica o ortodossa, ma i catari (la parola significa « puri »).

Non appena l'anima dell'eletto lascia il corpo, incontra il suo gemello, il redentore e salvatore, che già dimorava in lui, anche se sconosciuto, e tre angeli accompagnatori. Insieme, essi ascendono in una colonna di luce sulla luna, dove compaiono di fronte al Giudice della Verità. L'anima viene esortata da ottanta angeli a salire al Paradiso di Luce e a sperimentare la beatitudine. Gli uditori perfetti potevano ricevere la salvezza definitiva, ma gli altri uditori meno spiritualmente evoluti erano "riforgiati" e reincarnati nel corpo degli eletti prima di poter ottenere l'ingresso nel Paradiso. Coloro che erano giudicati "non risvegliati" ritornavano sulla terra sotto forma di animali.

I Manichei si dividevano in Puri o Eletti e Uditori. Agli eletti era affidato il compito di riscattare gli elementi di luce dai vincoli della materia e conducevano una vita missionaria e di stretto ascetismo. Unti con olio e vincolati dalle regole dei Tre Sigilli Morali, il Sigillo della Bocca, quello delle Mani e quello del Petto, non potevano avere proprietà, potevano accettare cibo solo per un giorno e vestiti per un anno. Non potevano avere rapporti sessuali, bestemmiare, bere vino, mangiare carne o dedicarsi a lavori che danneggiassero gli elementi di luce (lo stesso Mani, da giovane, rifiutò il lavoro nei campi per paura di danneggiare le particelle di luce contenute negli organismi viventi). Essi pregavano sette volte al giorno.

Una persona che non era in grado di aderire a questo esigente codice di condotta poteva diventare Uditore, riconoscere i Quattro Sigilli Brillanti: amore per la divinità, fede nel Sole e nella Luna, reverenza per l'Uomo Primordiale e fede nell'esistenza di messaggeri divini che recano al mondo ispirazioni e conoscenza. I laici dovevano osservare i dieci comandamenti di Mani, che proibivano l'idolatria, la menzogna, l'avarizia, l'assassinio, l'adulterio, il furto, la falsa dottrina, la magia, il dubbio e la pigrizia. Essi dovevano fornire supporto agli eletti, in tal modo accumulando meriti per le loro anime. Dovevano vivere in monogamia, evitare la "procreazione demoniaca"; osservare i digiuni; pregare da quattro a sei volte al giorno; partecipare alle feste dei giorni sacri e confessarsi regolarmente.

Corrispondentemente ai cinque mondi di luce c'erano cinque gradi nella gerarchia manichea: Maestri o Figli della Gentilezza; Illuminati dal Sole o Figli della Conoscenza; Presbiteri o Figli dell'Intelligenza; Proferitori di parola vera o Figli della discrezione; e uditori o figli della Ricerca.

La chiesa manichea della luce era guidata da un Archegos; al disotto di lui c'erano dodici apostoli, seguito da settantadue vescovi o diaconi e poi da trecentosessanta anziani. Non si può non notare le corrispondenze astrologiche dei numeri.

 

 

 

I principali testi gnostici

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Il  Vangelo di Tommaso

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Fra i testi copti scoperti nel 1945 a Khenoboskion l, si è subito rivelato di ec­cezionale interesse quello contenente il Vangelo di Tommaso, di cui si conosceva l'esistenza soltanto attraverso allusioni e qualche citazione nella letteratura patristi­ca. Sebbene scarse, tali notizie avevano creato negli studiosi l'impressione che do­vesse trattarsi di un documento assai importante, e grande era quindi il rammarico di esserne all'oscuro. La scoperta ha confermato le opinioni che si avevano al riguar­do, tanto che non si è esitato a considerare il Vangelo di Tommaso come il «quinto Vangelo» e a ritenerlo degno di essere incorporato ai sinottici.

Il manoscritto copto di Khenoboskion appartiene al IV secolo, ma è ormai opinione comune che l'originale debba risalire alla prima metà del II secolo. Questo fatto colloca il Vangelo di Tommaso tra i primi documenti cristiani, molto vicino alle date di composizione dei Vangeli canonici, e solleva la questione delle recipro­che influenze e dell'ambiente religioso di cui esso esprimeva il pensiero.

Il Vangelo di Tommaso, infatti (che non ha nulla a che vedere con il Vangelo dell'infanzia dello Pseudo-Tommaso, con cui veniva confuso prima della scoperta di Khenoboskion), presenta una serie di oltre cento logia (brevi discorsi) di Gesù, che in gran parte banno forma identica o molto simile a quella di versetti contenuti nei quattro Van­geli canonici - soprattutto di Matteo e di Luca - o che, pur differenti nella formula" zione, hanno uno stretto rapporto concettuale con passi neo testamentari. Ma molti di essi, per la loro collocazione o per l'aggiunta di qualche particolare, risultano dif­ferenti nel significato. Altri hanno una struttura e un significato che ben si accorda con lo spirito dei testi canonici, ma un contenuto assolutamente nuovo. Infine, un terzo circa dei paragrafi di cui è composto il Vangelo non ha alcuna corrispondenza, né come forma né come contenuto, con i testi canonici. Proprio questi paragrafi co­stituiscono l'aspetto più interessante del Vangelo di Tommaso ed anzi dànno la chiave per una interpretazione diversa, non solo delle parti che si differenziano dai testi noti, ma spesso anche di versetti formalmente identici. Essi, infatti, sono tutti chiaramente ispirati alla dottrina gnostica.

Questa constatazione propone agli studiosi un grave quesito: ci troviamo di fronte ad una modificazione, in senso gnostico, del kerygma tramandato dai Vangeli canonici o ad un'interpretazione gnostica di una fonte comune, interpretazione con­temporanea e indipendente dalla redazione dei Vangeli canonici? Se il Vangelo di Tommaso come è indubitabilmente accertato, pur presentando notevoli legami con i canonici, non deriva da essi, come ha scritto uno studioso recentemente, "si deve senz'altro supporre una fonte comune (o una collezione scritta di detti o una tradizione orale) da cui abbiano preso le mosse tan­to i Vangeli canonici quanto il Vangelo di Tommaso".

A scagionarlo dalla grave accusa di "eresia", dovrebbe bastare il fatto che molte affermazioni di esso, ispirate allo gnosticismo, trovano esatta rispondenza in passi di Giovanni e delle lettere paoline. La conclusione può essere che, al momento della primitiva stesura dei Vangeli di Tommaso e di Giovanni e delle lettere di Paolo, la tendenza all'interpretazione gnostica era ancora perfettamente legittima, ma che in Giovanni c in Paolo essa è rimasta in parte soverchiata da altri motivi, mentre in Tommaso essa appare prevalente, anzi esclusiva.

Difficile da stabilire se la comunità da cui è sorto il Vangelo di Tommaso fosse quella dei Naasseni o dei Basilidiani, per la scarsa conoscenza che abbiamo della vita di questi gruppi.

E vero che, per il suo carattere di collezione di logia, di parabole e, raramente, di dialoghi tra Gesù e i discepoli, il Vangelo di Tommaso ha un aspetto assai meno affascinante dei Vangeli canonici, con la loro cornice narrativa, e appare frammen­tario e disordinato; ma in realtà - a parte alcune ripetizioni e riprese - esso segue una certa linea logica riunendo a gruppi esortazioni alla gnosi, parabole ed esposi­zioni dottrinali.

Qualunque sia la disposizione di chi legge ad accettare l'interpretazione del cri­stianesimo in chiave gnostica, non si può rimanere insensibili di fronte al fascino di un così ardente misticismo.

 

 

Il Vangelo di Filippo

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Nello stesso volume della biblioteca gnostica di Nag Hammadi che contiene il Vangelo di Tommaso, anzi proprio in continuazione ad esso si trova il Vangelo di Filippo.

Meno noto dell'altro, non era mai stato menzionato dai Padri della Chiesa, i quali tuttavia non ne dovevano ignorare l'esistenza, se Epifanio attribuisce a Filippo un passo che in realtà si trova nel Vangelo degli Egiziani. La scoperta del testo co­stituisce quindi un avvenimento di grande importanza, recando un contributo no­tevolissimo alla conoscenza diretta del pensiero e della letteratura gnostica, di cui, fino ai ritrovamenti di Nag Hammadi, eravamo quasi completamente all'oscuro.

Il manoscritto su cui si trovano il Vangelo di Filippo e quello di Tommaso, co­me già si è detto nella presentazione a quest'ultimo, appartiene al IV secolo, ma l'o­riginale, probabilmente in greco, doveva essere certamente anteriore di circa due se­coli. In particolare, confrontando le sentenze del Vangelo di Filippo con il poco che sappiamo - dagli scritti patristici - circa le dottrine delle varie correnti gnostiche, si può con una certa sicurezza affermare che il Vangelo è da ascrivere ai valentiniani, cosi chiamati dal fondatore della scuola, Valentino, vissuto ad Alessandria d'Egitto in pieno II secolo.

A parte, infatti, la consueta terminologia gnostica, comune anche a Tommaso, e naturalmente la concezione generale della gnosi, come attività intellettiva e razionale, intimamente combinata però con elementi di natura esoterica, il Vangelo di Filip­po rivela una più ampia accettazione del mito e un più stretto legame con l'ebraismo e, soprattutto, modifica la dottrina squisitamente gnostica del ritorno delle anime perfette allo stato di pura «idea» (concezione platonica) nell'iperuranio, per dare invece notevole sviluppo alla dottrina valentiniana della «camera nuziale», cioè del Pleroma concepito come il «luogo» dei perfetti accoppiamenti delle sizigie emanate da Dio. Alla dottrina gnostica dell'emanazione pura e semplice si sovrappone quella della generazione e procreazione. Si dà particolare rilievo ai sacramenti del battesi­mo, dell'unzione (che appare strettamente legato al primo), della eucaristia e del matrimonio.

I legami con la letteratura neotestamentaria canonica sono ancora più effimeri che quelli di Tommaso. Qualche espressione del Vangelo di Filippo ricorda versetti dei sinottici e, più spesso, di Giovanni o delle lettere di Paolo, ma in un contesto e con una accezione che non hanno più nulla a che vedere con i passi in cui siamo sa­liti leggerli. Questo fa pensare, come giustamente osserva il Ménard, ad una fonte comune da cui sia Filippo che gli evangelisti canonici e Paolo hanno ricavato le sen­tenze, utilizzandole ciascuno in modo differente.

Per questo, sebbene in misura assai minore che Tommaso, anche Filippo ci dà un contributo per l'importante problema della ricostruzione, più remota possibile, del kerygma cristiano.

 

 

Il Vangelo della Verità

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Non è propriamente un Vangelo, ma piuttosto una dissertazione su di alcuni punti fondamentali della dottrina gnostica: l'emanazionismo, la caduta delle anime nelle tenebre della materia, il predominio dell'Errore e della dimenticanza di Dio, quindi l'ignoranza di se stessi come eoni aventi radice nella Luce di Dio, la necessità della conoscenza (gnosi) per recuperare la salvezza con il ritorno in Dio, origine e fine di ogni cosa. Questa è la Verità, rivelata da Gesù Cristo, per la misericordia del Padre.

L'appellativo di "Vangelo" è desunto dalle parole con cui ha inizio il testo stes­so, ma non sappiamo se tale impropria denominazione sia dovuta all'autore o se lo scritto intendesse essere, come è in effetti, introduzione e commento ad un vero Vangelo della Verità a noi tuttora ignoto. Due sole testimonianze patristiche, una di Ireneo ed una di Tertulliano, accennano ad un Vangelo della Verità apparte­nente alla setta gnostica dei valentiniani, la stessa che usava anche il Vangelo di Fi­lippo, ma - per quanto vagamente - Ireneo e Tertulliano sembrano alludere ad un vero e proprio Vangelo, nel significato corrente della parola, anche se, come dice ap­punto Ireneo, "dissimile illis, quae ab Apostolis tradita sunt".

In passato si sono fatte molte congetture intorno a tale scritto, che venne per­sino attribuito a Valentino in persona, il caposcuola della corrente gnostica che da lui prese nome. Oggi, la scoperta della biblioteca copta di Nag Hammadi, la stessa che ha portato alla luce i Vangeli di Tommaso e di Filippo, ci ha permesso di cono­scere questo testo che, come abbiamo già detto, può essere anche solo il commento di un'altra opera più completa.

La parte del Codice contenente il Vangelo della Verità, è della metà circa del IV secolo, come i manoscritti contenenti i Vangeli di Tommaso e di Filippo, ma l'originale greco di questa traduzione copta è senza dubbio anteriore di almeno due secoli. La stessa testimonianza di Ireneo, sopra citata, che dichiara il Vangelo della Verità abbastanza recente ("non olim conscriptum"), è non posteriore all'anno 180.

La composizione del Vangelo della Verità è quindi molto vicina a quella alme­no del Vangelo canonico di Giovanni. Ma le concomitanze di espressioni tra il no­stro apocrifo ed i Vangeli canonici sono assai rare e puramente casuali. Non si può dire che l'autore abbia presente la letteratura neotestamentaria canonica.

La teologia e la cristologia del Vangelo della Verità sono rigorosamente gnosti­che: Dio è il «Luogo» che comprende il Tutto, è il centro di irradiazione (« Luce») degli eoni e nello stesso tempo è il «Riposo» a cui questi tendono, ritornando dal basso verso l'alto; Cristo è una ipostasi di Dio, che non con la morte ha riscattato l'umanità dal peccato, ma facendosi maestro di verità, stimolando alla gnosi, che è attività razionale, introspezione, meditazione, più ancora che ascesi mistica.

Alcune interessanti dissertazioni sulla non-esistenza reale dell'errore, dell'ignoranza, dell'oblio, della deficienza, e l'identificazione del buono con il sapiente ci indi­cano un'influenza della filosofia greca prevalente sulla teologia giudaica.

Certo anche per colpa della povertà della lingua copta, il testo si presenta mol­te volte involuto e astruso, ma una volta rotto l'involucro, forse involontariamente ermetico, l'opera offre una lettura non priva di fascino, per la scoperta sincerità e convinzione dell'autore nelle proprie idee, ed è essa pure un utile documento, tra i pochi che possediamo, per la conoscenza di quell'importante movimento religioso e culturale che è lo gnosticismo.

 

 

Il Libro di Giovanni Evangelista

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Il Libro di Giovanni evangelista è un secretum, cioè una rivelazione di misteri religiosi che Gesù avrebbe fatto personalmente a Giovanni, l'apostolo prediletto, durante l'ultima cena .

L'attribuzione dell'opera a Giovanni Evangelista è dovuta ad una certa analogia tra la dottrina pseudognostica di Gesù, apparente nel quarto Vangelo, e la dottrina professata dagli stessi catari. Questi, però, si spingono anche oltre, negando ogni partecipazione di Gesù alla natura umana, in quanto Maria non è creatura terrena, ma un angelo, preventivamente inviato in terra da Dio per accogliere il Figlio; e il concepimento non è avvenuto nel ventre, ma Gesù è entrato nel corpo di Maria at­traverso un orecchio e ne è uscito attraverso l'altro.

Ma l'interesse dell'apocrifo non è costituito da stranezze di tale genere (per al­tro dichiarate anche nel secolo IV da Padri della Chiesa): il Libro ha lo scopo soprat­tutto di sostenere che l'uomo non è creazione di Dio, ma del Diavolo, prodotto di seduzione e di lussuria, e che le anime sono angeli decaduti, i quali entrano nella ma­teria e continuano la loro opera di diabolica corruzione. Ne consegue che i Catari ammoniscono i fedeli di eliminare la procreazione e di praticare una vita casta e ascetica .

 

 

Il Vangelo di Giuda

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Dopo aver restituito, negli anni, innumerevoli tesori e meraviglie archeologiche, ora le sabbie d'Egitto nel 2000 hanno offerto un altro spettacolare ritrovamento: il Vangelo di Giuda. Già dal titolo - il Vangelo di Giuda, appunto, Giuda Isca­riota - il testo è scioccante. Nei Vangeli del Nuovo Testa­mento e nella maggior parte della tradizione cristiana, Giuda Iscariota è ritratto come la quintessenza del traditore, il tra­ditore di Gesù, colui che consegna il suo maestro alle autorità romane; c'è poco, in lui, che riesca a porlo in relazione con il Vangelo stesso, ossia con la "Buona Novella" di Gesù. Nel Vangelo di Luca si dice che Satana entra in Giuda e lo spinge alla sua deprecabile azione, mentre in quello di Giovanni, Ge­sù stesso si rivolge ai dodici discepoli e dice che uno di loro, appunto Giuda, è un demonio. La fine di Giuda, secondo il Nuovo Testamento, è ignominiosa quanto le sue azioni. Ac­cetta danaro insanguinato dalle autorità per tradire Gesù, quindi finisce con l'impiccarsi (in Luca), o con il ventre squar­ciato, andando incontro a una morte agghiacciante (negli At­ti). Nell'arte cristiana Giuda è caratteristicamente illustrato mentre compie l'azione che gli ha valso un posto nell'infamia: tradisce Gesù con un bacio, il bacio di Giuda.

Eppure, persino nel Nuovo Testamento Giuda Iscariota ha qualcosa di accattivante. La narrazione del suo tradimen­to resta una storia di grande potenza e intensità: Gesù è tra­dito da uno dei suoi amici più intimi. Nei Vangeli del Nuo­vo Testamento, Giuda fa parte della cerchia dei discepoli più vicina a Gesù e, secondo Giovanni, ha la funzione di tesorie­re del gruppo, al quale sono affidati tutti gli eventuali fon­di appartenuti a Gesù e ai discepoli. Durante l'Ultima Cena, poi, non è forse lo stesso Gesù a dire a Giuda di fare quel che deve, e di farlo in fretta? Tutto ciò non era forse parte del piano divino, ossia del fatto che Gesù dovesse morire per i peccati dell'uomo e resuscitare il terzo giorno? Senza Giuda e il suo bacio, la Crocifissione avrebbe mai avuto luogo?

L'enigma di Giuda Iscariota, discepolo e traditore di Ge­sù, è stato esaminato da molti di coloro che si sono interro­gati sul suo personaggio e sulle sue motivazioni. La letteratura su di lui è ricca e comprende ben note opere accademi­che e di letteratura moderna: le Tre visioni di Giuda di Jorge Luis Borges, Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov, Ju­das: Ein junger des Herrn di Hans-Josef Klauck, Judas: Be­trayer or Friend of Jesus di William Klassen, Judas Iscariot and the Myth of Jewish Evil di Hyam Maccoby e la pièce teatrale Judas di Marcel Pagnol. Nel musical rock Jesus Christ Super­star, addirittura, Giuda Iscariota arriva quasi a rubare la sce­na; qui la sua presenza e la musica offrono una visione più indulgente circa la profondità della sua devozione verso Ge­sù. Nel brano With God on Our Side, Bob Dylan canta di lui:

 

Dovrete decidere

Se Giuda Iscariota Aveva Dio al fianco

 

Il Giuda Iscariota del Vangelo di Giuda è bensì il tradi­tore di Gesù, ma è al contempo l'eroe del Vangelo stesso. Egli dice a Gesù: "So chi tu sei e d'onde tu vieni. Tu giungi dal reame immortale di Barbelo. E io non son degno di pro­nunciare il nome di colui che ti ha inviato". Nel cosmo spi­rituale del Vangelo di Giuda, il confessare che Gesù provie­ne "dal reame immortale di Barbelo" equivale ad ammette­re che è un essere divino, così come dichiarare l'ineffabilità del nome di colui che l'ha inviato è come professare che il Dio vero è lo spirito infinito dell'universo. A differenza degli altri discepoli, che fraintendono Gesù e non riescono a re­sistere di fronte al suo volto, Giuda capisce chi Gesù è, pren­de posto di fronte a lui, apprende da lui.

Alla fine del suo vangelo Giuda tradisce il Maestro, ma lo fa consapevolmente, oltreché dietro una sua diretta richiesta. Gesù, riferendosi agli altri discepoli, gli dice: "Tu sarai mag­giore tra loro. Poiché sacrificherai l'uomo che mi riveste". Nel Vangelo di Giuda Gesù è un salvatore non per la carne mor­tale che porta su di sé, ma perché può rivelare l'anima o la persona spirituale che sta all'interno; la vera dimora di Gesù non è questo mondo terreno, imperfetto, ma il mondo divino della luce e della vita. Per Gesù, nel Vangelo di Giuda, la morte non è una tragedia, né è un male necessario per guada­gnare il perdono dei peccati. Qui, diversamente dal Nuovo Testamento, Gesù ride spesso. Ride delle debolezze dei disce­poli e delle assurdità della vita umana. La morte, in quanto abbandono di questa insensata esistenza fisica, non deve esse­re motivo di paura né di timore. Lungi dall'essere un'occasio­ne di tristezza, la morte è il mezzo attraverso il quale Gesù viene liberato dalla carne, al fine di poter fare ritorno alla sua dimora celeste e Giuda, tradendolo, aiuta l'amico a sbarazzar­si del corpo e a liberare l'intimo se stesso, il sé divino.

Tale prospettiva del Vangelo di Giuda differisce per mol­ti aspetti da quella dei vangeli del Nuovo Testamento. Du­rante il periodo formativo della Chiesa cristiana, oltre alle narrazioni neotestamentarie "canoniche" di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, furono composte molte altre "Buone No­velle". Tra quelle superstiti, interamente o in parte, si con­tano i vangeli della Verità, di Tommaso, di Pietro, di Filip­po, di Maria, degli Ebioniti, dei Nazorei, degli Ebrei e de­gli Egiziani, per citarne solo alcuni, e tutti dimostrano l'am­pia differenza di vedute all'interno della prima cristianità. Quello di Giuda fu uno dei tanti vangeli che i primi cristia­ni scrissero nel tentativo di esprimere chiaramente, in un modo o nell'altro, chi Gesù fosse e come lo si debba seguire.

Il Vangelo di Giuda può essere classificato come uno di quelli che si sogliono definire "vangeli gnostici". Composto probabilmente verso la metà del II secolo, molto verosimil­mente sulla base d'idee e fonti precedenti, il testo è rappre­sentativo di una forma primitiva di spiritualità che enfatizza la gnosis, ossia la "conoscenza", la conoscenza mistica, quella di Dio e dell'essenziale unicità del sé con Dio. Tale spiritua­lità viene comunemente definita appunto "gnostica", ma nel mondo antico l'uso di questo termine fu dibattuto e, tra gli studiosi, lo è tuttora. Un approccio così diretto a Dio, come quello che si ritrova nella spiritualità gnostica, non richiede intermediari di sorta - Dio, dopo tutto, è lo spirito e la luce interiore -, sicché non sorprende venire a sapere, dalla Chie­sa primitiva e dagli eresiologi (i "cacciatori di eresie") in se­no alla Chiesa stessa, che sacerdoti e vescovi non vedessero di buon occhio dei liberi pensatori come gli gnostici. Gli scrit­ti degli eresiologi accusano continuamente gli gnostici di nutrire cattivi pensieri e di immischiarsi in attività illecite. Ma la polemica non è un buon approccio e i documenti con in­tenti polemici, come quelli degli eresiologi, tentano spesso di screditare gli oppositori, sollevando sospetti sul loro pensie­ro e sulla loro vita. E il vangelo gnostico di Giuda restituisce il colpo, accusando i capi e i membri della nascente Chiesa ortodossa di ogni genere di comportamenti ripugnanti. Per il Vangelo di Giuda, questi cristiani rivali non sono altro che lacchè del Dio che governa il mondo terreno, servi la cui esi­stenza rispecchia i loro modi disgustosi.

Il Vangelo di Giuda fa menzione di Seth, personaggio ben noto dal libro biblico della Genesi, e conclude che gli esseri umani con la nozione di Dio appartengono alla sua ge­nerazione. Questa forma particolare di pensiero gnostico è spesso definita dagli studiosi come "sethiana". Nella narra­zione della Genesi, Seth, terzo figlio di Adamo ed Eva, nac­que dopo la tragica violenza che aveva afflitto la prima, di­fettosa famiglia, lasciando Abele morto e Caino bandito. Seth, si suggerisce, rappresenta un nuovo inizio per l'uma­nità. Il fatto di appartenere alla sua generazione, dunque, nel Vangelo di Giuda e in libri sethiani dello stesso tipo equi­vale a far parte dell'umanità illuminata. Tale è la Buona No­vella di salvezza nei testi sethiani come il Vangelo di Giuda.

Nella parte centrale del testo, Gesù insegna a Giuda i mi­steri dell'universo. Nel suo vangelo, come in altri vangeli gnostici, Gesù è prima di tutto un maestro e un rivelatore di sapienza e conoscenza, non un salvatore che muore per i pec­cati del mondo. Per gli gnostici, il problema fondamentale della vita umana non è il peccato, ma l'ignoranza, e la via migliore per affrontarlo non è quella della fede, ma quella della conoscenza. Nel Vangelo di Giuda, Gesù impartisce a quest'ultimo - e al lettore - la nozione che può sradicare l'i­gnoranza e condurre alla coscienza di sé e di Dio.

Questa parte rivelatoria del testo, d'altra parte, può riser­vare delle difficoltà per il lettore moderno. Il problema sor­ge soprattutto perché il punto di vista della rivelazione gno­stica sethiana differisce sostanzialmente dalla filosofia, dalla teologia e dalla cosmologia che abbiamo ereditato in seno al­la tradizione occidentale. Roma e la cristianità ortodossa fi­nirono con il vincere la disputa; tuttavia, come notò Borges una volta a proposito delle narrazioni gnostiche di cui stava trattando, "Se Alessandria, e non Roma, avesse vinto, le sto­rie stravaganti e confuse che ho raccolto qui sarebbero coe­renti, grandiose, e perfettamente normali". Nelle guerre teo­logiche che infuriarono nel II, III e IV secolo, tuttavia, gli gnostici di Alessandria e d'Egitto non trionfarono, né lo fe­ce il Vangelo di Giuda: di conseguenza, i testi come quello che leggerete, con i loro diversi punti di vista, contengono idee oggi inaudite.

Cionondimeno, la rivelazione che Gesù impartisce a Giu­da in questo vangelo illustra una teologia e una cosmologia ancora piuttosto complesse. La rivelazione in sé contiene pochi elementi cristiani. E se l'idea che gli studiosi hanno cir­ca lo sviluppo delle tradizioni gnostiche è nel giusto, le ra­dici di tali idee potrebbero risalire al I secolo o anche a pri­ma, nate in seno a quei circoli filosofici e gnostici ebraici, che erano aperti alle idee greco-romane. Gesù dice a Giuda che all'inizio v'era una divinità infinita e completamente trascendente e che, attraverso una serie complessa di emana­zioni e creazioni, i cieli si sono colmati di luce e gloria divi­ne. Questa divinità infinita è elevata al punto che nessun ter­mine finito la può descrivere adeguatamente; persino la pa­rola "Dio", si avverte, è inadeguata e inappropriata per far­lo. Il mondo terreno, invece, è dominio di un governante in­feriore, di un dio creatore chiamato Nebro ("Ribelle") o Yal­dabaoth, maligno e abietto ... di qui i problemi del nostro mondo, e di qui la necessità di ascoltare parole di sapienza, diventando consci della divina luce interiore. Per questi cre­denti, il mistero più profondo dell'universo sta nel fatto che, nel cuore di alcuni esseri umani, alberghi lo spirito del divi­no. Per quanto viviamo in un mondo imperfetto, che è trop­po spesso dominio di tenebra e morte, possiamo trascendere l'oscurità e abbracciare la vita. Siamo migliori di questo mondo, spiega Gesù, perché apparteniamo al mondo del di­vino. Se Gesù è il figlio del divino, allora anche tutti noi ne siamo figli. Tutto quel che dobbiamo fare è vivere basando­ci su questa cognizione del divino, e saremo illuminati.

In contrasto con i vangeli del Nuovo Testamento, Giuda Iscariota è qui presentato come una figura interamente posi­tiva, un modello di comportamento per tutti coloro che aspirano a essere discepoli di Gesù. È probabilmente per questo motivo che il Vangelo di Giuda finisce con la narra­zione del tradimento di Gesù e non con la sua crocifissione. Il punto, qui, è la facoltà di comprensione e la lealtà di Giu­da, visto come paradigma della condizione di discepolo. Al­la fin fine, egli compie esattamente ciò che Gesù vuole. Nel­la tradizione biblica, invece, Giuda - il cui nome è stato col­legato ai termini "Giudeo" e "Giudaismo" - è spesso dipin­to come il cattivo giudeo che consegnò Gesù all'arresto e al­la morte: ecco perché la figura biblica di Giuda il Traditore ha alimentato la fiamma dell'antisemitismo. In questo van­gelo, Giuda può controbilanciare questa tendenza. Non fa nulla che Gesù non gli chieda, lo ascolta e gli resta fedele. Qui si rivela amato discepolo e caro amico di Gesù. In più, i misteri che ascolta da lui sono impregnati d'erudizione gnostica ebraica e l'estensore di tali misteri, Gesù, è il mae­stro, è il rabbi. Il vangelo cristiano di Giuda è perfettamen­te il linea con l'ottica ebraica - un'ottica alternativa, natu­ralmente - del pensiero gnostico ... e il pensiero gnostico ebraico ha ricevuto il nome di pensiero gnostico cristiano .

In questo libro, Giuda riecheggia la convinzione platoni­ca secondo la quale ogni persona ha la sua stella e che il de­stino di ciascuno è legato al proprio astro. Anche Giuda, di­ce Gesù, ha la sua. Verso la fine del testo, poco prima che  Giuda si trasfiguri e riceva l'illuminazione in un nembo lu­cente, Gesù gli chiede di guardare al cielo, osservando le stelle e la disposizione delle loro luci. Lassù se ne contano molte, ma la sua è speciale: come Gesù gli dice, "La stella che indica la via è la tua stella".

 

 

La storia di Pistis Sophia

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L'opera proviene dall'ambiente di Tebe-Luxor tra la seconda metà del II secolo e la prima metà del III secolo, e probabilmente apparteneva ad una delle comunità gnostiche presenti in quella zona. Il manoscritto copto contenente la storia di Pistis Sophia, nome che vuol dire "Fede-Sapienza", è misteriosamente comparso in Inghilterra alla fine del Settecento ed è stato pubblicato nel 1812.

Si tratta della esposizione più completa e affascinante del pensiero gnostico cristiano, in forma romanzata. Sophia è la scintilla della sapienza divina, emanazione dell'Altissimo, che discende nel mondo e si trova intrappolata nel cosmo inferiore, e viene implacabilmente perseguitata dagli Arconti o servi del Demiurgo. L'opera è piena di momenti di pathos, di inni e invocazioni che Sophia eleva al padre celeste perché la salvi da situazioni particolarmente pericolose. Alla fine ella riconquista, per sé e per gli uomini, il regno divino, a cui ritorna. La narrazione è messa in bocca al Cristo risorto, che parla ad una ristretta cerchia di discepoli e discepole, tra cui ha una posizione preminente Maria Maddalena, che interviene, in una maniera sempre importante, molte volte nella narrazione, e di cui Gesù fa le più ampie lodi. E' lei che intercede presso di lui perché chiarisca agli altri discepoli passi che essi, a differenza sua, non hanno capito per la loro difficoltà.

 

 

Il Libro di Enoch, il Libro dei Vigilanti, il Libro dei Giubilei

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Il Libro di Enoch, il Libro dei Vigilanti e il Libro dei Giubilei non fanno in realtà parte della letteratura gnostica, ma di quella legata alla corrente apocalittica-essena del giudaismo. Molti tuttavia confondono i due tipi di apocrifi, e quindi è parso opportuno chiarire l'equivoco parlando brevemente di queste opere.

Nella letteratura ebraica dei tempi immediatamente precedenti la nascita di Cristo il fervore pro­fetico non era affatto scomparso, benché dovesse adottare lo schermo degli pseudonimi per farsi ascoltare. Del massimo interesse, sotto questo aspetto, è il Libro di Enoch, opera complessa, dovuta a vari autori, il più antico dei quali è di poco precedente all'epoca dei Mac­cabei, ed il più recente è del 64 a.C. circa. Il libro vuol riferire, per lo più, le visioni apocalittiche del patriarca Enoch. f: molto importante per la comprensione di quel lato del giudaismo che dette origine al Cristianesimo. Gli autori del Nuovo Testamento hanno familiarità con questo libro; Giuda il Santo lo considera effettivamente opera di Enoch. I primi Padri cristiani, per esempio Clemente di Alessandria e Tertulliano, lo trattano come un libro canonico, ma Girolamo e Ago­stino lo respingono. Poi cadde nell'oblio, e andò disperso, finché, al principio del XIX secolo, ne furono trovati in Abissinia tre mano­scritti in lingua etiopica. Più tardi, manoscritti di alcune parti del li­bro sono stati trovati in versioni greche e latine. Sembra che sia stato scritto originariamente parte in ebraico e parte in aramaico. I suoi autori erano membri dell'Hasidim o farisei, loro successori. Nel libro si denunciano re e prìncipi, riferendosi alla dinastia asmodea e ai sad­ducei. Ne fu influenzata la dottrina del Nuovo Testamento, in parti­colare per quel che riguarda il Messia, l'inferno e la demonologia.

Il libro è composto principalmente di « parabole », di carattere cosmi­co più marcato rispetto a quelle del N uovo Testamento. Ci sono visioni del Paradiso, dell'Inferno, del Giudizio Universale e così via; tornano alla mente i primi due libri del Paradiso Perduto, là dove la qualità letteraria è buona, e i Libri Profetici di Blake, là dove è inferiore.

C'è un curioso ampliamento della Genesi (VI, 2, 4) che ricorda il mito di Prometeo. Gli angeli, che erano anche cannibali, insegnarono agli uomini la metallurgia e furono puniti per aver rivelato «eterni segreti ». Gli angeli che avevano peccato divennero dèi pagani e le loro donne sirene; ma infine furono puniti con eterni tormenti.

Ci sono delle descrizioni del Paradiso e dell'Inferno di notevole va­lore letterario. Il Giudizio Finale è tenuto dal « Figlio dell'Uomo, che fu giusto », il quale siede sul trono della sua gloria. Alcuni gentili, all'ultimo momento, si pentiranno e saranno perdonati; ma la maggior parte dei gentili e tutti gli ebrei ellenizzati subiranno la dannazione eterna, perché i giusti chiederanno vendetta e le loro preghiere saran­no ascoltate .

C'è un capitolo sull'astronomia, dove impariamo che il sole e la luna sono carri guidati dal vento, che l'anno consiste di 364 giorni, che il peccato dell'uomo fa sì che i corpi celesti si allontanino dalla loro orbita, e che soltanto il virtuoso può conoscere l'astronomia. Le stelle cadenti sono angeli che cadono, puniti dai sette Arcangeli.

Viene poi la storia sacra. Fino ai Maccabei, questa segue la narrazione già nota attraverso i precedenti libri della Bibbia e, nelle parti più recenti, attraverso la storia. Poi l'autore procede verso il futuro: la Nuova Gerusalemme, la conversione dei gentili, la resurrezione dei giusti, il Messia.

Un lungo brano è dedicato alla punizione dei peccatori e alla ricom­pensa dei giusti, che non mostrano mai, a dire il vero, un atteggia­mento di .perdono cristiano verso i peccatori. «Che cosa farete, o peccatori, e quanto piangerete nel giorno del giudizio, quando udrete la voce della preghiera dei giusti? » « Il peccato non è stato mandato sulla terra, ma l'uomo stesso lo ha creato ». I peccati vengono segnati io cielo. « Voi peccatori sarete perseguitati per sempre e non avrete pace ». I peccatori possono esser felici per tutta la loro vita e anche alla morte, ma le loro anime discenderanno nell'inferno dove soffriran­no « buio, catene e fiamme ardenti ». Quanto ai giusti, « io e mio figlio saremo uniti a loro per sempre »,

Le ultime parole del libro sono: «Ai fedeli mostrerà la sua fede, nelle abitazioni celesti. Ed essi vedranno coloro che sono nati nel buio finire nel buio, mentre i giusti risplenderanno. E i peccatori gri­deranno forte a vederli risplendere, ed andranno dove i giorni e le stagioni sono adatti a loro ».

Le storie apocrife e pseudoepigrafiche sugli angeli caduti esercitarono una notevole influenza negli ambienti ebraici e cristia­ni del I secolo, e meritano di essere riprese in dettaglio. Come il Libro di Enoch, che è una di esse, narrano che la concupiscenza fece precipitare a terra gli angelici «figli di Dio». Tali storie si basano sull'affermazione criptica all'inizio di Genesi 6: «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle ... », Alcuni di questi angeli, violando i limiti che Dio aveva stabilito tra cielo e terra, si unirono a donne umane e generarono figli che erano metà angeli, metà uomini. Secondo il Genesi, tali ibridi divennero «i giganti ... sono questi gli eroi dell'antichità, uomini famosi» (Gen 6,4). Altri narratori, probabilmente più tardi, affermano che da tale progenie mostruosa derivarono i demoni che scon­volsero la terra e la deturparono.

Infine, una versione apocrifa della vita di Adamo ed Eva fornisce una terza descrizione della ribellione angeli­ca. In principio, Dio, dopo aver creato Adamo, chiamò gli angeli a raccolta perché ammirassero la sua opera, e or­dinò loro di prostrarsi davanti al giovane fratello umano. Michele obbedì, mentre Satana si rifiutò di farlo, dicendo: «Perché mi costringi? Non adorerò uno inferiore a me, perché vengo prima di ogni creatura e prima ch' egli fosse creato io ero già stato creato; è lui che deve adorare me, e non vìceversa»." Dunque il problema del male comincia con una rivalità tra fratelli.

A prima vista può sembrare che queste storie su Satana abbiano poco in comune. Tuttavia collimano su un fatto: che il nemico peggiore e più pericoloso, in origine, non è, come ci si potrebbe aspettare, un estraneo, un forestiero, uno straniero. Satana non è il nemico distante, ma quello vicino: il collega fidato di ciascuno, il socio, il fratello. È il genere di persona dalla cui lealtà e buona volontà dipen­de il benessere della famiglia e della società, ma che di­venta all'improvviso gelosa e ostile. Qualsiasi versione si scelga sulla sua genesi - e ce ne sono molte - si scopre sempre che Satana è un nemico vicino, attributo in virtù del quale esso riesce a esprimere assai bene il conflitto tra fazioni ebraiche. Quelli che domandavano: «Come po­trebbe un angelo di Dio diventare suo nemico?», chiede­vano in realtà: «Come potrebbe uno di noi diventare uno di loro!». Storie di Satana e di altri angeli caduti prolifera­rono in questi tempi turbolenti, soprattutto all'interno di quei gruppi radicali che si erano volti contro il resto della comunità ebraica e, di conseguenza, concludevano che gli altri si erano posti contro di loro, o (come essi interpreta­vano) contro Dio.

All'epoca della guerra dei Maccabei, un autore anoni­mo, sconvolto dai conflitti intestini tra gruppi ebraici, rac­colse e rielaborò alcune storie sugli angeli caduti. Nel Li­bro dei Vigilanti, uno dei testi apocrifi destinati a diventare famosi e a esercitare grande influenza, soprattutto tra i cristiani, perché introduceva l'idea di una divisione nei cieli, egli adombrava la divisione in fazioni che si era avu­ta nella sua realtà storica. Il Libro dei Vigilanti, un'antolo­gia di storie visionarie, è in realtà inserito, a sua volta, proprio nel Libro di Enoch, e racconta come gli angeli custodi, «vigilanti», che Dio prepose a sorvegliare l'universo, caddero dai cieli. Prendendo spunto dall'epi­sodio di Genesi 6, in cui i «figli di Dio» erano attratti dalle donne umane, questo autore fonde due differenti versioni sul modo in cui i vigilanti persero la gloria celeste. In ba­se alla prima, Semeyaza, capo dei vigilanti, costrinse altri duecento angeli a stringere con lui un patto per violare l'ordine divino, unendosi a donne umane. Questi cattivi matrimoni produssero «una razza di bastardi, i giganti, conosciuti come i Nefilim [«i caduti»] da cui dovevano di­scendere spiriti demoniaci», che portarono violenza sulla terra e uccisero degli uomini. Intrecciata con questa storia, c'è una versione alternativa, secondo la quale l'arcangelo Azazel peccò svelando agli esseri umani i segreti della metallurgia, una dannosa rivelazione che spinse gli uomi­ni a fabbricare armi e le donne a ornarsi con oro, argento e cosmetici: così gli angeli caduti e i demoni, loro progenie, stimolarono in entrambi i sessi violenza, cupidigia e concupiscenza.

Siccome queste vicende sottintendono una satira sociopolitica legata alle polemiche religiose, di recente alcu­ni storici si sono domandati a quali specifiche circostanze storiche si riferiscano. Sono dunque gli ebrei a colorire l'episodio degli angeli che si unirono a esseri umani met­tendo velatamente in ridicolo le pretese dei loro domina­tori ellenistici? George Nickelsburg precisa che a partire dall' epoca di Alessandro Magno i sovrani greci avevano affermato di discendere da divinità e da donne umane; e i greci chiamavano «eroi» questi esseri ibridi. Con la favola ironica di Semeyaza, i loro sudditi ebrei possono quindi aver utilizzato simili asserzioni sulla loro ascendenza di­vina contro gli usurpa tori stranieri. Nel Libro dei Vigilanti si dice esplicitamente che questi avidi mostri «mangiava­no tutto il frutto della fatica degli uomini fino a non poter­li, gli uomini, più sostentare»; allora essi si volsero diretta­mente a "mangiare gli uomini".

Oppure la storia esprime il disprezzo di un popolo pio verso un particolare gruppo di nemici ebrei, ad esempio verso determinati membri della classe sacerdotale di Ge­rusalemme? David Suter sostiene invece che è mirata a certi sacerdoti che, come i «figli di Dio» nella favola, tradi­scono la condizione e le responsabilità che hanno ricevuto dal Signore poiché consentono che la concupiscenza li tra­scini nell'impurità, in particolare sposando donne estra­nee alloro mondo, gentili.

Entrambe le interpretazioni sono possibili. Come rileva John Collins, l'autore del Libro dei Vigilanti, scegliendo di raccontare la storia degli angeli anziché quella degli effet­tivi dominatori greci o dei sacerdoti corrotti, offre «un esempio che non è limitato a un'unica circostanza storica, ma può essere utilizzato ogni volta che si presenta una si­tuazione analoga" e La medesima cosa vale per tutta la letteratura apocalittica e giustifica in larga misura la sua suggestione. Ancora oggi molti lettori si stupiscono da­vanti a libri che basano la propria autorità sulla rivelazio­ne angelica, dal biblico Daniele agli stessi Vangeli del Nuovo Testamento, perché trovano nelle circostanze che essi stessi vivono nuove applicazioni per questi testi evo­cativi ed enigmatici.

Il principale interrogativo apocalittico è: qual è il popo­lo di Dio? Per la maggior parte dei lettori del Libro dei Vi­gilanti la risposta sarà stata ovvia: Israele. Ma l'autore del Libro dei Vigilanti, senza tralasciare l'identità etnica, insiste su quella etica. Non è sufficiente essere ebrei. Si deve an­che essere ebrei che agiscono moralmente. Qui si profila con chiarezza una svolta storica, svolta che i cristiani se­guiranno e porteranno ancora più avanti e che, da allora in poi, li distinguerà dagli altri gruppi ebraici.

L'autore del Libro dei Vigilanti non intendeva prendere una posizione radicale come quella assunta dai seguaci di Gesù quando abbandonarono Israele per formare la loro tradizione religiosa. Egli dà per scontata la superiorità di Israele sul resto delle nazioni, poiché cita sempre Israele per primo. Tuttavia compie un passo decisivo, distin­guendo l'identità etnica da quella morale e affermando che tra esse sussiste un contrasto. Questo autore prende spunto dai capitoli iniziali del Genesi, ma sceglie come proprio portavoce l'uomo santo Enoch, che visse molto prima di Abramo e dell' elezione di Israele e che, secondo il primo libro della Bibbia, non appartiene a Israele ma al­la storia primordiale della razza umana. Egli non fa alcun accenno alla legge consegnata a Mosè sul Sinai, ma loda quella universale che Dio scrisse al momento della creazione dell'universo e diede a tutto il genere umano senza differenze: la legge che governa i mari, la terra e le stelle. Rivolgendo il suo messaggio «agli eletti e ai giusti» in tut­to il genere umano, dimostra non solamente, come osser­va George Nickelsburg, «un'insolita apertura ai gentili», ma anche una visione singolarmente negativa di Israele o, con maggior precisione, di molta - forse della maggioran­za - della gente di Israele.

Il Libro dei Vigilanti presenta la storia di Semeyaza e Azazel quale avvertimento morale: se persino gli arcange­li, «figli del cielo», sono soggetti a peccare e possono esse­re fatti cadere, quanto più di loro sono suscettibili di pec­cato e di dannazione i semplici esseri umani, anche quelli che appartengono al popolo eletto da Dio! Nel Libro dei Vi­gilanti, quando Enoch, mosso a compassione per i vigilan­ti caduti, tenta di intercedere per loro presso Dio, uno de­gli angeli gli ordina invece di riferire loro il giudizio del Signore: «Voi stavate in cielo, spiriti dotati di vita eterna; ma ora vi siete macchiati». Simili brani inducono a pen­sare che il Libro dei Vigilanti esprima l'opinione che deter­minati ebrei avevano di altri, e in particolare di alcuni che occupavano posizioni che in genere conferiscono grande autorità.

Nel 160 a.C., dopo la vittoria dei Maccabei, un gruppo che si considerava moderato riconquistò le cariche sacer­dotali al Tempio e, temporaneamente, cacciò il partito dei Maccabei. Richiamandosi a tale avvenimento, uno dei Maccabei aggiunge alla raccolta intitolata Libro di Enoch un' altra versione della storia dei vigilanti, rivolta contro coloro che avevano usurpato il controllo del Tempio. Egli afferma che, cadendo come stelle dal cielo, i vigilanti ge­nerarono i nemici stranieri di Israele - qui descritti nelle sembianze di predatori feroci, leoni, leopardi, lupi e ser­penti -, determinati a distruggere Israele, rappresentato invece come un gregge di pecore. Ma, continua, la nazio­ne eletta da Dio è divisa; alcuni sono «pecore cieche», mentre altri hanno gli occhi aperti. Quando arriverà il giorno del giudizio, egli avverte, Dio sterminerà gli ebrei che sono in errore, queste «pecore cieche», insieme ai tra­dizionali antagonisti di Israele. Inoltre, il Signore alla fine radunerà nella sua dimora eterna non solamente i giusti di Israele, ma anche quelli delle altre nazioni (tuttavia co­storo rimarranno sempre inferiori rispetto al popolo pre­diletto).

Un terzo autore anonimo, la cui opera è compresa nel Libro di Enoch, è talmente preoccupato dai conflitti intesti­ni che praticamente ignora i nemici esterni di Israele. Egli fa profetizzare a Enoch l'ascesa di «una generazione per­versa» e avverte che «tutte le sue azioni saranno perver­sità». Accusando molti - forse la maggior parte - dei suoi contemporanei, come sottolinea George Nickelsburg, analogamente a numerosi profeti biblici, egli parla a no­me dei poveri, denuncia i ricchi e i potenti e predice la lo­ro distruzione. Inoltre sostiene che la schiavitù, insieme ad altre iniquità sociali ed economiche, non è decretata da Dio, come affermano alcuni, ma «nasce dall' oppressione», cioè dal peccato umano.

La storia dei vigilanti, poi, in alcune delle sue molte versioni, rivelava uno spostamento del tradizionale discri­men che distingueva gli ebrei dai gentili. L'ultima parte del Libro di Enoch, composta circa all'epoca di Gesù, con­trappone nettamente coloro che sono giusti, che stanno dalla parte degli angeli, a quelli, sia ebrei sia gentili, che vengono sedotti dai satana. Testi come questo avrebbero aperto la strada ai cristiani nel processo di abbandono dell'identità etnica e di ridefinizione, invece, della comu­nità umana in termini di qualità morale, o di appartenen­za alla comunità degli eletti, di ciascun individuo.

Un altro patriota devoto, che operò intorno al 160 a.C. e si schierò con il primo partito dei Maccabei, scrisse uno strano libro apocrifo intitolato Libro dei Giubilei per esorta­re la sua gente a mantenersi lontana dai luoghi frequenta­ti dai gentili. Ciò che preoccupa questo autore è: come è possibile che tanti israeliti, popolo di Dio, siano diventati apostati? Come possono tanti ebrei «andare appresso ai gentili?». Se pure egli dà per scontata la tradizionale contrapposizione tra gli israeliti e i «loro nemici, i gentili», anche qui tale conflitto ha un'importanza solo marginale. L'autore del Libro dei Giubilei è interessato invece ai con­flitti per l'assimilazione che spaccano internamente le co­munità ebraiche, e li attribuisce al più intimo dei nemici, che chiama con molti nomi, ma più frequentemente Ma­stema ("Odio"), Satana o Belial.

La storia della caduta degli angeli nel Libro dei Giubilei, come quella nel Libro di Enoch, esprime un avvertimento morale: se persino gli angeli, quando peccano, si trascina­no addosso la collera e la devastante punizione di Dio, co­me possono i semplici esseri umani aspettarsi di venire ri­sparmiati? Nel Libro dei Giubilei viene sottolineato che tutte le creature, sia angeli sia uomini, sia israeliti sia gen­tili, saranno giudicate in base alle loro azioni, cioè in base a un criterio etico.

Secondo il Libro dei Giubilei, la caduta degli angeli ge­nerò i giganti, che seminano violenza e male, e gli spiriti maligni che «sono malvagi, e sono stati creati per corrom­pere». Da allora, la loro presenza ha dominato il nostro mondo come un' ombra scura ed esprime l'ambivalenza morale e la vulnerabilità di ogni essere umano. Come al­cuni profeti, l'autore di questo libro ammonisce che l'ele­zione non porta con sé la salvezza e certamente non l'im­munità; il destino di Israele non dipende soltanto dal fatto di essere stato eletto, ma dalla sua condotta morale o, in mancanza di essa, dal pentimento e dal perdono divino.

Tuttavia, ebrei e gentili non affrontano la malevolenza demoniaca ad armi pari. Secondo il Libro dei Giubilei Dio assegnò a ciascuna nazione un angelo o uno spirito guida così che «Egli dette agli spiriti il potere di farli errare da dietro a lui»; è per questo motivo che le nazioni venera­no i demoni (che il Libro dei Giubilei identifica con le divi­nità straniere). Ma su Israele predomina Dio stesso con una falange di angeli e di spiriti deputati a sorvegliarlo e a benedirlo.

Che cosa significa, allora, che Dio ha scelto il suo popo­lo? L'autore del Libro dei Giubilei, echeggiando gli ammo­nimenti di Isaia e di altri profeti, sostiene che l'apparte­nenza al popolo di Israele non garantisce la liberazione dal male. Trasmette in eredità un impegno di lotta morale, lotta in cui però assicura l'aiuto divino.

Nel Libro dei Giubilei viene descritto Mastema, mentre sottopone Abramo alla prova estrema. Infatti, secondo questo autore revisionista, è Mastema - non il Signore - che ordina ad Abramo di uccidere il figlio Isacco. Più tardi Abramo manifesta la sua inquietudine per il timore di es­sere fatto schiavo dagli spiriti maligni «che dominano i pensieri dei cuori umani»; e implora Dio: «Salvami dalle mani degli spiriti malvagi che dominano nel pensiero del­la mente dell'uomo e che essi non mi facciano errare da dietro a Te». Anche Mosè sa che lui stesso e il suo popo­lo sono vulnerabili. Quando prega che Dio liberi Israele dai nemici esterni, «i gentili», nel contempo prega anche che lo liberi dal nemico interno che minaccia di prenderne il controllo dal suo stesso seno e di sterminarlo: «Non ab­bia lo spirito di Beliar su di esso il potere». Nel Libro dei Giubilei questo senso di pericolo inquietante e onnipresen­te mostra in quale misura l'autore consideri il suo popolo corruttibile e, entro ampi limiti, già corrotto. Come il Libro dei Vigilanti, quello dei Giubilei avverte che coloro che non rispettano il patto con Dio sono esseri sedotti dalle forze del male, angeli caduti.

 

 

 

Immagini e simboli gnostici

 

lo "straniero"

 

"Nel nome della grande, originaria Vita straniera dei mondi della luce, il sublime che sta al di sopra di tutte le opere": questo è l'inizio tipico delle composizioni mandee, e "straniero" è un attributo co­stante della "Vita" che per sua natura è straniera rispetto a questo mondo e secondo certe considerazioni straniera all'interno di esso. La formula citata parla di "originaria" Vita "che sta al di sopra di tutte le opere" [da supplirvi: "di creazione"] ossia "al di sopra del mon­do". Il concetto di Vita straniera è una delle parole-simbolo maggior­mente espressive che si incontrano nel linguaggio gnostico, ed è nuo­va nella storia del linguaggio umano in generale. Ha equivalenti in tutta la letteratura gnostica, per esempio nel concetto di Marcione del "Dio straniero" o soltanto dello "Straniero", "1' Altro", "lo Scono­sciuto", "l'Innominabile", "il Nascosto"; o il "Padre sconosciuto" di parecchi scritti gnostico-cristiani. Il suo corrispondente filosofico è "l'assoluta trascendenza" del pensiero neoplatonico. Ma anche al di fuori di questi usi teologici in cui è uno dei predicati di Dio o dell'Es­sere supremo, la parola "straniero" (e i suoi equivalenti) ha il suo proprio significato simbolico come espressione di una elementare esperienza umana, e questo è il fondamento dei differenti significati della parola in parecchi contesti teoretici. Rispetto a questa fonda­mentale esperienza, la combinazione "vita straniera" è particolar­mente istruttiva.

Straniero è ciò che proviene da altro luogo e non appartiene a questo qui. A coloro che sono di qui appare strano, non familiare e incomprensibile; ma il loro mondo dal canto suo è altrettanto incom­prensibile allo straniero che viene ad abitarvi e simile ad una terra straniera dove si trova lontano da casa. Soffre perciò il destino dello straniero che è solitario, senza protezione, incompreso e incapace a comprendere, in una situazione piena di pericoli .. Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino dello straniero. Egli che non cono­sce le strade del nuovo paese girovaga sperduto; se impara a conoscerle troppo bene, dimentica di essere uno straniero e si perde in un senso diverso, soccombendo all' attrattiva del mondo straniero e diventando estraneo alla sua propria origine. Diviene così un "figlio della casa", ed anche ciò fa parte del fato del forestiero. Nell' alienazione da se stesso l'angoscia è sparita, ma questo stesso fatto è il culmine della tra­gedia dello straniero. La reminiscenza della sua origine, il riconosci­mento del suo posto di esilio per quello che è, è il primo passo indie­tro; il risveglio del desiderio della patria è l'inizio del ritorno. Tutto ciò appartiene al lato di "sofferenza" dell'estraneità; tuttavia in rela­zione alla sua origine è allo stesso tempo _un segno di eccellenza, una fonte di potere e di vita segreta, sconosciuta all' ambiente circostante, e in ultima analisi impermeabile per esso, perché è incomprensibile alle creature di questo mondo. In questa superiorità dello straniero, che lo distingue anche quaggiù, sebbene segretamente, sta la sua gloria mani­festa nel regno nativo, che è al di fuori di questo mondo. In tale situa­zione lo straniero è il remoto, l'inaccessibile, e la sua singolarità signi­fica maestà. Perciò lo straniero preso assolutamente è il totalmente trascendente, l'"al di là", e un attributo eminente di Dio.

Entrambi gli aspetti dell'idea dello "straniero", il positivo e il ne­gativo, l'estraneità come superiorità e sofferenza, come prerogativa di distanza e fato di essere coinvolto nel mondo, si alternano come le ca­ratteristiche di un unico e medesimo soggetto: la "Vita". In quanto è la "grande Vita originaria", partecipa soltanto dell' aspetto positivo: è "al di là", "al di sopra del mondo", "nei mondi di luce", "nei frutti di splendore, nelle corti di luce, nella casa di perfezione".' e così via. Nella sua suddivisa esistenza in questo mondo essa partecipa In modo tragico all'interpenetrazione di entrambi gli aspetti; e l'attualizzazio­ne di tutte le caratteristiche delineate sopra, in una drammatica suc­cessione che è governata dal tema della salvezza, compone la storia metafisica della luce esiliata dalla Luce, della vita esiliata dalla Vita e coinvolta nel mondo: la storia della sua alienazione e del suo ritrova­mento la sua "via" giù e attraverso il basso mondo e su di nuovo. Secondo i vari stadi di questa storia, il termine "straniero" o i suoi equivalenti possono entrare in molteplici combinazioni: "!a mia ~ni­ma straniera" "il mio cuore oppresso dal mondo", "la vigna solita­ria", si applicano alla condizione umana, mentre "l'uomo straniero" e "l'estraneo" si applicano al messaggero del mondo della Luce, seb­bene questi possa applicare a se stesso anche i termini precedenti, co­me vedremo meglio quando considereremo "il redentore redento".

Quindi per la sua implicanza il concetto stesso di "straniero" rac­chiude nel suo significato tutti gli aspetti che la "via" esplica in for­ma di fasi temporali ben distinte. Nello stesso tempo esso più diretta­mente esprime l'esperienza fondamentale che per prima condusse a questa concezione della "via" di esistenza: l'esperienza elementare di estraneità e trascendenza. Possiamo perciò considerare la figura della "Vita straniera" come un simbolo primario dello gnosticismo.

 

"al di là", "fuori", "questo mondo" e "l'altro mondo"

 

A questo concetto centrale altri termini e immagini sono organica­mente collegati. Se la "Vita" è per sua origine straniera, allora la sua patria è "al di fuori" o "al di là" di questo mondo. "Al di là" signi­fica al di là di tutto quello che è del cosmo, cielo e stelle comprese. E "comprese" letteralmente: l'idea di un assoluto "al di fuori" limita il mondo ad un sistema chiuso e limitato, terrificante nella sua ampiez­za e inclusività per coloro che sono persi in esso, eppure finito dentro il campo totale dell'essere. È un sistema di potenza, un'entità demo­niaca carica di tendenze personali e di forze coercitive. La limitazione derivante dall'idea dell'"al di là" priva il "mondo" della sua pretesa di totalità. In quanto il "mondo" significa "il Tutto", la somma to­tale di realtà, c'è soltanto "il" mondo e ogni ulteriore specificazione sarebbe senza senso: se il cosmo cessa di essere il Tutto, se è limitato da qualche cosa radicalmente "altro", eppure eminentemente reale, allora deve essere designato come "questo" mondo. Tutte le relazioni dell'esistenza terrestre dell'uomo sono "in questo mondo", "di que­sto mondo", che è in contrasto con "l'altro mondo", l'abitazione della "Vita". Visto dall' al di là, tuttavia, e agli occhi degli abitanti del mondo della Luce e della Vita, è il nostro mondo che appare come "quel mondo". L'aggettivo dimostrativo è diventato perciò un' ag­giunta rilevante al termine "mondo"; e la combinazione è di nuovo un simbolo linguistico fondamentale dello gnosticismo, strettamente collegato al concetto primario dello "straniero",

 

mondi di eoni

 

È nella linea di tale visione delle realtà che "mondo" viene ad es­sere usato al plurale. L'espressione "i mondi" denota la lunga catena di questi domini chiusi di potere, divisioni del vasto sistema cosmico, attraverso cui la Vita deve passare nel suo cammino, tutti ugualmente estranei ad essa. Soltanto perdendo il suo stato di totalità, divenendo particolarizzato e nello stesso tempo demonizzato, il concetto "mon­do" poté ammettere una pluralità. Si potrebbe anche dire che "mon­do" denota un collettivo piuttosto che un'unità, una famiglia demo­niaca piuttosto che una sola entità. La pluralità indica anche l'aspetto labirintico del mondo: nei mondi l'anima perde la sua via e vagabon­da, e ovunque cerca una fuga non fa che passare da un mondo all' al­tro, che è pur sempre mondo. Questa moltiplicazione di sistemi de­moniaci attraverso i quali è bandita la vita non redenta è un tema di molte dottrine gnostiche. Ai "mondi" dei Mandei corrispondono gli "eoni" dello gnosticismo ellenistico. Di solito ve ne sono sette o do­dici (corrispondenti al numero dei pianeti o ai segni dello zodiaco), ma in qualche sistema la pluralità aumenta fino a proporzioni vertigi­nose e terrificanti, fino ai 365 "cieli" o agli innumerevoli "spazi", "misteri" (qui usati topologicamente) ed "eoni" della Pistis Sophia. Attraverso tutti questi, che rappresentano altrettanti gradi di separa­zione dalla luce, la "Vita" deve passare per sfuggirne.

 

"Vedi, o figlio, attraverso quanti corpi [elementi?], quanti ordini di demoni, quante concatenazioni e rivoluzioni di stelle, dobbiamo aprirci il cammino per affrettarci verso l'unico e solo Dio" (Corpus Hermeticum IV, 8).

 

Anche se non espressamente affermato è da intendersi che la fun­zione di queste forze che si frappongono è ostile e ostruttiva: con la distesa spaziale esse simbolizzano nello stesso tempo il potere antidi­vino e imprigionante di questo mondo. "La via che dobbiamo percor­rere è lunga e senza termine" (Ginza 433); "Quanto vasti sono i confini di questi mondi di tenebre!" (Ginza 155);

 

"Avendo una volta vagabondato nei labirinti delle malvagità, la misera [Anima] non trova la via di uscita ...

Essa cerca di sfuggire all' amaro caos,

e non sa come potrà liberarsene",

(Salmo naasseno, Hippol. V,lO, 2)

 

A parte ogni personificazione, la totalità dello spazio in cui la vita si trova ha un carattere spirituale malevolo, e i "demoni" stessi sono sia regni spaziali che persone. Vincerli è lo stesso che attraversarli, e aprirsi un passaggio attraverso i loro confini ne spezza al tempo stesso il potere e compie la liberazione dalla magia della loro sfera. Perciò negli scritti mandei la Vita anche nella sua funzione di redentore dice di se stessa che "ha errato attraverso i mondi", o, come è detto di Gesù nel Salmo naasseno: "Viaggerò attraverso tutti i mondi, di­schiuderò tutti i misteri".

Questo è l'aspetto spaziale della concezione. Non meno demoniz­zata è la dimensione temporale dell' esistenza cosmica della vita, rap­presentata anch'essa come un ordine di potenze quasi-personali (per es. gli "eoni"). Le loro qualità, similmente a quelle dello spazio del mondo, riflettono l'esperienza basilare di estraneità ed esilio. Anche qui osserviamo la pluralità notata là: intere serie delle età si stendono tra l'anima e il suo fine, e il loro semplice numero esprime l'influenza che il cosmo, come principio, esercita sui suoi prigionieri. Anche qui la liberazione è raggiunta soltanto passando attraverso tutte queste. Perciò la via di salvezza conduce attraverso l'ordine temporale delle "generazioni": attraverso catene di innumerevoli generazioni la Vita trascendente entra nel mondo, soggiorna in esso, ne sopporta la dura­ta apparentemente senza fine, e soltanto attraverso questa lunga e fa­ticosa via, perdendo e riacquistando la memoria, può compiere il suo destino. Ciò spiega la formula espressiva "mondi e generazioni" che ricorre costantemente negli scritti rnandei: "Ho girovagato attraverso mondi e generazioni", dice il redentore. Per l'anima non ancora re­denta (che può anche essere quella del redentore stesso) questa pro­spettiva temporale è fonte di angoscia. Il terrore della vastità degli spazi cosmici è uguagliato dal terrore dei tempi che devono essere sopportati: "Quanto a lungo ho già sopportato e ho dimorato nel mondo!" (Ginza 458).

Questo duplice aspetto del terrore cosmico, lo spazi aie e il tempo­rale, è espresso bene nel significato complesso del concetto ellenistico di "eone", adattato a loro uso dagli Gnostici. Originariamente un concetto puramente temporale (durata della vita, lunghezza del tempo cosmico, quindi eternità) subì una personificazione nella religione el­lenistica pregnostica - probabilmente un adattamento del dio persia­no Zervan - e divenne oggetto di adorazione, anche allora associato ad un certo timore. Nello gnosticismo ha assunto un senso mitologico più accentuato ed è diventato un nome di classe per tutte le categorie di esseri, sia divini che semidivini, che demoniaci. In quest'ultimo senso "gli eoni" rappresentano il potere demoniaco dell'universo con implicazioni sia temporali che spaziali, oppure (come nella Pistis Sophia) il potere demoniaco del regno delle tenebre nella sua immensità. La loro estrema personificazione può talvolta far dimenticare l'origi­nale aspetto temporale, ma la frequente uguaglianza di "eoni" e "mondi" mantiene vivo quell' aspetto come parte di un significato di­venuto piuttosto mutevole per la quantità di immagini mitiche."

Il sentimento ispirato dall'aspetto tempo dell'esilio cosmico trova commovente espressione in parole come le seguenti:

 

"In quel mondo [di tenebre] ho dimorato migliaia di miriadi di anni e nes­suno sapeva che io ero quaggiù ... Per anni ed anni, per generazioni e generazioni io ero là ed essi non sapevano che io dimoravo nel loro mondo" (Ginza 153 s.)

 

oppure (da un testo manicheo turco):

 

"Ora, o nostro Padre benigno, sono passati innumerevoli miriadi di anni da quando siamo separati da te. Siamo desiderosi di vedere il tuo aspetto amato, ri­splendente e vivente ..." (Abb. d. Pr. Akad. 1912, p. 10).

 

L'incommensurabile durata cosmica significa separazione da Dio, come pure la scala immensa di spazi cosmici e la qualità demoniaca di entrambe consiste nel mantenere tale separazione.

 

l'abitazione cosmica e il soggiorno dello straniero

 

Per il mondo come un tutto, vasto come sembra ai suoi abitanti, abbiamo perciò l'immagine visiva di una cella circoscritta - ciò che Marcione chiamava sdegnosamente haec cellula creatoris - nella quale o fuori della quale la Vita può muoversi. "Venire dal di fuori" o "andare fuori" sono frasi tipiche nella letteratura gnostica. Perciò la Vita o la Luce "è venuta in questo mondo", "ha viaggiato quaggiù"; essa "parte per il mondo", può fermarsi "al margine esterno dei mondi" e di lì, "dal di fuori", "far visite nel" mondo. Ci soffermeremo più avanti sul significato religioso di queste espressioni: per il momento ci occuperemo della topologia simbolica e della diretta eloquenza delle immagini.

Il soggiorno "nel mondo" è chiamato "dimora", il mondo stes­so una "dimora" o "casa", e, in contrasto con le dimore risplen­denti, l'"oscura" o la "bassa" dimora, "la casa mortale". L'idea di "dimora" ha due aspetti: da una parte implica uno stato tempora­neo, qualche cosa di contingente e perciò revocabile - una dimora può essere scambiata con un'altra, può essere abbandonata ed anche lasciata andare in rovina -; dall' altra implica la dipendenza della vi­ta dagli ambienti circostanti - il luogo dove si dimora non è indiffe­rente per l'abitatore e ne determina tutta la condizione. Egli può perciò soltanto cambiare una dimora con un'altra, e l'esistenza ex­tramondana è anche chiamata "dimora", questa volta nelle sedi del­la Luce e della Vita, che per quanto infinite hanno il loro proprio ordine di regioni limitate. -Quando la Vita si stabilisce nel mondo, la temporanea appartenenza così fissata può condurre al suo divenire "un figlio della casa" e rende necessario il ricordare: "Tu non eri di qui, e la tua radice non era di questo mondo" (G 379). Se l'accento è posto sulla natura temporanea e transeunte del soggiorno terreno e sulla condizione di essere straniero, il mondo è anche chiamato "l'albergo" nel quale "si alloggia"; e "stare in albergo" è una for­mula per "essere nel mondo" o "nel corpo". Le creature di questo mondo sono "abitanti dell' albergo", sebbene la loro relazione con esso non sia quella di ospiti: "Poiché ero uno e mi tenevo in dispar­te, ero straniero ai miei compagni d'albergo" ("Inno della Perla" in Acta Thomae).

La stessa espressione può riferirsi al corpo, che è eminentemente la "casa" di vita e lo strumento del potere del mondo sulla Vita, che è racchiusa in esso. Più particolarmente "tenda" e "vestito" denotano il corpo come forma terrena transeunte includente l'anima; anche questi termini tuttavia possono essere applicati al mondo. Un vestito è indossato, smesso e cambiato, il vestito terreno per quello di luce. Separata dalla sua origine, la Vita langue nella veste corporale:

 

 

"lo sono un Mana della grande Vita. Chi mi ha fatto vivere nel Tibil (mondo terreno), chi mi ha gettato nel ceppo del corpo?" (Ginza 454).

 

 

"Sono un Mana della grande Vita. Chi mi ha gettato nella sofferenza dei mondi, chi mi ha trasportate nella malvagia oscurità? Così a lungo ho sopportato e ho dimorato nel mondo, così a lungo ho dimorato tra le opere delle mie mani" (Ginza 457 s.).

 

 

"Afflizione e dolore io soffro nel vestito corporale nel quale essi mi hanno trasportato e gettato. Quante volte devo smetterlo, quante volte devo indossar­lo, sempre di nuovo devo definire la mia lotta 6 e non guardare la Vita nella sua sh'kina (abitazione degli esseri della luce)" (Ginza 461).

 

 

Da tutto ciò sorge la domanda rivolta alla grande Vita: "Perché hai creato questo mondo, perché hai costretto le tribù [di Vita] a chiudersi in esso, fuori dal tuo centro?" (Ginza 437). La risposta a tali quesiti varia da sistema a sistema: le questioni stesse sono più fonda­mentali di ogni particolare dottrina e riflettono immediatamente la sottostante condizione umana.

 

"luce" e "tenebre", "vita" e "morte"

 

Dobbiamo aggiungere qualche parola circa l'antitesi di luce e te­nebre che è una caratteristica così costante in questo contesto. Ritro­viamo il suo simbolismo un po' dappertutto nella letteratura gnostica, ma, per ragioni che discuteremo in seguito, il suo uso più enfatico e dottrinalmente più importante va ricercato in quella che chiameremo la corrente iranica dello gnosticismo, la quale è anche una componen­te del pensiero mandeo. La maggior parte degli esempi seguenti sono presi da esso e implicano perciò la versione iranica del dualismo gno­stico. Il simbolismo, pur astraendo dal contesto teoretico, riflette tut­tavia un universale atteggiamento gnostico. L'originaria Vita forestie­ra è il "Re di Luce", il cui mondo è "un mondo di splendore e di lu­ce senza tenebre", "un mondo di indulgenza senza ribellione, un mondo di giustizia senza turbolenza, un mondo di vita eterna senza decadenza e morte, un mondo di bontà senza peccato ... Un mondo puro non mescolato al male" (Ginza 10). In opposizione ad esso è il "mondo delle tenebre, interamente pieno di male ... pieno di fuoco divorante ... pieno di falsità e inganno ... Un mondo di turbolenza sen­za fermezza, un mondo di tenebre senza luce ... un mondo di morte senza vita eterna, un mondo nel quale le cose buone e i progetti fini­scono in niente" (Ginza 14).

Mani, che adottò più completamente la versione iranica del duali­smo, inizia la sua dottrina delle origini come è riportata nel Fihrist, una fonte araba, nel modo seguente: "Due esseri erano al principio del mondo, uno Luce, l'altro Tenebre". Secondo tale concezione il mondo esistente, "questo" mondo, è una mescolanza di luce e tene­bre, con una preponderanza tuttavia di tenebre: la sua sostanza prin­cipale è tenebre, l'immissione estranea, luce. Nello stato attuale delle cose, la dualità di tenebre e luce coincide con quella di "questo mon­do" e "l'altro mondo", poiché le tenebre hanno incorporato tutta la loro essenza e potere in questo mondo che è ora perciò il mondo delle tenebre." L'equazione "mondo (cosmos) = tenebre" è di fatto indipen­dente e più fondamentale di quella particolare teoria delle origini del­la quale abbiamo or ora dato un esempio, e come espressione di una data condizione ammette tipi grandemente divergenti di derivazione, come vedremo in seguito. L'equazione come tale è simbolicamente valida per lo gnosticismo in generale. Nel Corpus Hermeticum trovia­mo l'esortazione: "Allontanati dalla luce tenebrosa" (Corpus Hermeticum I, 28), do­ve la combinazione paradossale manifesta chiaramente che persino la cosiddetta luce in questo mondo, in realtà è tenebre. "Perché il co­smo è la pienezza del male, Dio la pienezza del bene" (Corpus Hermeticum VI, 4); e come "tenebre" e "male", così anche "morte" è un simbolo del mondo come tale. "Colui che è nato da madre è portato nella morte e nel cosmo; colui che è rinato da Cristo è trasportato nella vita e negli Otto [ossia, sottratto al potere dei Sette]" (Excerpta Theodoti 80,1). Così comprendiamo l'affermazione ermetica citata in Macrobio (in Somnium Scipionis I, Il) che l'anima "per altrettante morti quante sfere essa attra­versa, discende a ciò che nel mondo è chiamata vita".

 

"mescolanza", "dispersione", "l'uno" e i "molti"

 

Per tornare ancora una volta alla concezione iranica, l'ideale di due entità primarie ed opposte conduce alla metafora di "mescolan­za" per l'origine e la composizione di questo mondo. La mescolanza tuttavia è ineguale e il termine denota essenzialmente la tragedia delle particelle di Luce separate dal loro corpo originario e immerse in un elemento estraneo.

 

 

"lo sono io, il figlio dei pacifici [ossia degli esseri di Luce]. Sono stato me­scolato e vedo pianto. Conducimi fuori dall'abbraccio di morte" (Frammento di Turfan, M 7).

 

 

"Essi portarono acque vive 9 e le versarono nelle acque torbide;" essi porta­rono luce splendente e la gettarono nelle spesse tenebre. Essi portarono il vento rinfrescante e lo gettarono nel vento ardente. Essi portarono il fuoco vivente e lo gettarono nel fuoco divoratore. Essi portarono l'anima, il puro Mana, e la get­tarono nel corpo senza valore" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 56).

 

 

Il mescolamento è espresso qui nei termini dei cinque elementi fondamentali dello schema manicheo, che ovviamente sta alla base di questo testo mandeo.

 

 

"Tu hai preso il tesoro di Vita e lo hai gettato nella terra senza valore. Tu hai preso il mondo di Vita e lo hai gettato nel mondo della mortalità" (Ginza 362).

 

 

"Non appena è entrata nell'acqua torbida, l'acqua vivente si è lamentata e ha pianto ... Non appena egli ha mescolato l'acqua viva con quella torbida, le te­nebre sono penetrate nella luce" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 216).

 

 

Persino il messaggero è soggetto al destino della mescolanza: "Allora il fuoco vivente subì un cambiamento in lui... Il suo splendore fu diminuito e offuscato ... Guarda come lo splendore dell'Uomo forestiero è dimi­nuito!" (Ginza 98 s.).

 

 

Nel manicheismo la dottrina di mescolamento, con la sua parte opposta di non mescolamento, forma la base di tutto il sistema co­smologico e soteriologico.  

Strettamente connessa all'idea di "mescolanza" è quella di "di­spersione". Se particelle della Luce o della Vita originaria sono state separate da essa e mescolate con le tenebre, allora si è perduta un'uni­tà originaria per dar luogo alla pluralità: le schegge sono le scintille di­sperse nella creazione. "Chi ha preso il canto di lode, l'ha diviso in due parti e l'ha gettato di qua e di là?" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 13). La stessa creazione di Eva e lo schema di riproduzione iniziato da essa asseconda l'indefini­ta ulteriore dispersione delle particelle di luce, che il potere delle te­nebre è riuscito ad assorbire e con tal mezzo cerca di trattenere più sicuramente. Di conseguenza la salvezza implica un processo di rac­colta, di ri-collezione di ciò che era andato disperso, e la salvezza mi­ra al ristabilimento dell'unità primitiva.

 

 

"lo sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e in tutte le cose sono dispero so. E da ovunque tu vuoi, tu mi raccogli; ma raccogliendomi, tu raccogli te steso so" (Vangelo di Eva)

 

 

Questa raccolta di sé viene considerata come procedente pari pas­su con il progresso della "conoscenza", e il suo adempimento come una condizione per la definitiva liberazione dal mondo:

 

 

"Colui che raggiunge tale gnosi e raccoglie se stesso dal cosmo ... non è più trattenuto quaggiù, ma sale al di sopra degli Arconti" (Vangelo di Eva)

 

e proclamando questo stesso fatto l'anima che ascende risponde alla sfida dei guardiani celesti:

 

 

"Sono giunto a conoscere me stesso ed ho raccolto me stesso da ogni par­te ..." (Vangelo di Eva)

 

 

È facile vedere da queste citazioni che il concetto di unità e unifi­cazione, come quello di pluralità, diversità e dispersione, ha un aspet­to interiore e un aspetto metafisico, cioè si applica al sé individuale come pure all'essere universale. È segno di una più alta, o più filosofi­ca, forma di gnosi il fatto che questi due aspetti, complementari fin dall'inizio, siano arrivati a coincidere sempre più completamente; e che la crescente comprensione dell' aspetto interiore purifichi quello metafisico dalle significazioni mitologiche più imperfette che aveva al principio. Per i Valentiniani, il cui simbolismo spiritualizzato segna un passo importante sulla via della demitizzazione, "unificazione" è la definizione stessa di ciò che "la conoscenza del Padre" compirà per "ciascuno":

 

 

"È per mezzo dell'Unità che ognuno riceverà se stesso di nuovo. Tramite la conoscenza purificherà se stesso dalla diversità con la visione dell'Unità, assor­bendo (divorando) la Materia in se stesso come una fiamma, le Tenebre per mez­zo della Luce e la Morte per mezzo della Vita" (Vangelo della Verità 25, 10-19).

 

 

Va osservato che nel sistema valentiniano la medesima realizzazio­ne è attribuita alla gnosis sul piano dell' essere universale, dove la "re­staurazione dell'Unità" e "l'assorbimento della Materia" significano niente di meno che l'attuale dissoluzione di tutto il basso mondo, os­sia della natura sensibile come tale, non per mezzo di un atto di forza esterna ma solamente per mezzo di un avvenimento interno alla men­te: la "conoscenza" su scala trascendentale. La speculazione dei Valentiniani stabilì questa efficacia oggettiva e ontologica di ciò che a prima vista sembra essere un atto puramente privato e soggettivo; e la loro dottrina giustifica la coincidenza dell'unificazione individuale con la riunione dell'universo in Dio.

Sia l'aspetto universale (metafisico) che quello individuale (misti­co) dell'idea di unità e i loro opposti divennero temi accolti dalla suc­cessiva speculazione man mano che s'allontanavano di più dalla mito­logia. Origene, la cui vicinanza al pensiero gnostico è evidente nel suo sistema (giustamente condannato dalla Chiesa), considerava il movi­mento totale della realtà secondo le categorie di perdita e riacquisto dell'Unità metafisica." Ma fu Plotino che nella sua speculazione tras­se le conclusioni mistiche più complete dalla metafisica di "Unità contro Pluralità". Dispersione e raccolta, categorie ontologiche della realtà totale, sono ad un tempo schemi d'azione dell'esperienza po­tenziale di ciascun'anima, e unificazione che internamente è unione con l'Uno. Emerge così lo schema neoplatonico dell'ascesa interiore dai Molti all'Uno che nei primi gradini della scala è etica, quindi teo­retica, e nello stadio culminante è mistica.

 

 

"Sforzati di ascendere in te stesso, raccogliendo dal corpo tutte le tue mem­bra, che sono state disperse e sparpagliate nella molteplicità dall'unità che una volta sovrabbondava nella grandezza del suo potere. Metti d'accordo e unifica le idee innate e cerca di articolare quelle che sono confuse e di portare nella luce quelle che sono oscure" (Porfirio, Ad Marcellum X).

 

 

Fu probabilmente attraverso gli scritti di Porfirio che questa con­cezione neoplatonica dell'unificazione come principio di vita personale giunse fino ad Agostino, che nella sua maniera estremamente soggetti­va spostò alla fine l'accento dall' aspetto metafisico a quello morale.

 

"Da quando mediante l'iniquità dell'empietà ci siamo separati e abbiamo dissentito e siamo caduti dalla fedeltà all'Unico Vero e Altissimo Dio, e ci siamo dissipati nei molti, separati dai molti e rimanendo fedeli ai molti: fu necesario che ... i molti fossero riuniti acclamando per la venuta dell'Uno (Cristo) ... e che noi, liberati dall'ingombro dei molti, venissimo all'Uno ... e, giustificati nella giu­stizia di Uno, diventassimo Uno" (De Trinitate IV, 11).

 

 

"Mediante la continenza siamo riuniti nell'Uno dal quale ci siamo allontana­ti per i molti" (Confessioni X, 14; cfr. Ord. I, 3).

 

 

La "dispersione" ha infine ricevuto ciò che ai nostri giorni po­tremmo chiamare un significato esistenzialista: quello della "distra­zione" dell' anima, provocata dai molteplici interessi e attrattive del mondo che agiscono attraverso i sensi del corpo; ossia, è stata trasfor­mata in un concetto psicologico ed etico all'interno dello schema della salvezza individuale.

 

"caduta", "affondamento", "cattura"

 

Ci sono una quantità di espressioni per indicare la maniera in cui la vita è giunta alla sua attuale condizione: alcune di esse descrivono il processo come puramente passivo, altre gli attribuiscono un anda­mento più attivo. "La tribù di anime 14 fu trasportata quaggiù dalla casa di Vita" (G 24); "il tesoro di Vita che fu strappato di là" (G 96), o "che fu portato qui". Ancora più drastica è l'immagine della cadu­ta: l'anima o spirito, parte della Vita originaria o della Luce, cadde nel mondo o nel corpo. È questo uno dei simboli fondamentali dello gnosticismo: una caduta precosmica di una parte del principio divino soggiace alla genesi del mondo e dell' esistenza umana nella maggio­ranza dei sistemi gnostici. "La Luce cadde nelle tenebre" significa una fase precedente del medesimo dramma divino, in cui "la Luce brillò nelle tenebre" può dirsi significhi una fase posteriore.

In che modo tale caduta ebbe origine e attraverso quali stadi pro­cedette è materia di speculazione grandemente divergenti. Tranne nel manicheismo e nei tipi iraniani affini, dove l'intero processo viene iniziato dai poteri delle tenebre, c'è un elemento volontario nel movi­mento discendente del divino: una colpevole "inclinazione" dell' Ani­ma (come entità mitica) verso i regni più bassi, con motivazioni varie quali la curiosità, la vanità, il desiderio sensuale, che sono l'equivalen­te gnostico del peccato originale. La caduta è precosmica e una delle sue conseguenze è il mondo stesso, un'altra la condizione e il destino delle anime individuali nel mondo.

 

 

"L'Anima si volse una volta verso la materia, se ne innamorò, e ardendo dal desiderio di sperimentare i piaceri del corpo, non volle più liberarsi da essa. Cosi nacque il mondo. Da quel momento l'Anima dimenticò se stessa. Dimenticò la sua abitazione originaria, il suo vero centro, il suo essere eterno" (El Chatibi, commentatore arabo, a proposito degli Harraniti)

 

 

Una volta separata dal regno divino e immersa in un mezzo estra­neo, il movimento dell' Anima continua nella direzione discendente in cui ebbe inizio e tale movimento è descritto come "affondamento": "Fino a quando affonderò in tutti i mondi?" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 196). Spesso tuttavia viene aggiunto un elemento di violenza a questa descrizione della ca­duta, come nelle metafore relative alla cattività delle quali parleremo più a lungo studiando il sistema manicheo. Qui ci limiteremo ad alcu­ni esempi mandei. "Chi mi ha trascinato in cattività lontano dal mio posto e dalla mia abitazione, dalla casa dei miei genitori che mi hanno allevato?" (Ginza 323). "Perché mi hai portato via dalla mia abitazione nella cattività e gettato nel vile corpo?" (Ginza 388).

Il termine "gettare" che ricorre nell'ultima citazione, richiede un commento. Il suo uso, come abbiamo visto precedentemente, non è limitato alla metafora di cattività: è un'immagine a sé e di vastissima applicazione: la vita è stata gettata nel mondo e nel corpo. Abbiamo incontrato l'espressione collegata al simbolismo di "mescolanza", do­ve è usata per l'origine del cosmo come pure per quella dell'uomo: "Ptahil " gettò la forma che la Seconda [Vita] aveva formato nel mondo delle tenebre. Egli fece delle creazioni e formò delle tribù al di fuori della Vita" (Ginza 242). Questo passo si riferisce all' attività co­smogonica del demiurgo: nell'antropogonia l'immagine è ripetuta ed è li che ha il suo significato principale. "Ptahil prese un Mana nascosto che gli era stato dato dalla casa di Vita, lo portò di qua e lo gettò in Adamo ed Eva" (ibid.). Questa è l'espressione che ricorre costante­mente per indicare l'animazione dell'uomo da parte del suo creatore non autorizzato. Che questo non fosse un evento contemplato nello schema della Vita, ma una violenza fatta ad essa e all'ordine divino è evidente dal rimorso che il demiurgo prova in seguito. "Chi mi ha re­so stolto, tanto da essere un pazzo e gettare l'anima nel corpo?" (Ginza 393).18 Persino nella formula valentiniana citata prima (p. 65), sebbe­ne essa appartenga ad un ramo dello gnosticismo più incline a catego­rie di motivi interni piuttosto che di forza esterna nell'esposizione della preistoria dell' Anima, incontriamo l'espressione "dove siamo stati gettati". Certamente è intenzionale la nota stridente che questo termine concreto introduce nella serie di verbi astratti e neutri che lo precedono nella formula (forme di "essere" e "divenire"). L'urto dell'immagine ha esso stesso un valore simbolico nella considerazione gnostica dell'esistenza umana. Sarebbe di grande interesse paragonar­ne l'uso nello gnosticismo con l'uso fattone in una recente analisi filo­sofica dell'esistenza, quella di Martin Heidegger." Tutto quello che possiamo dire qui è che in entrambi i casi "essere stati gettati" non è semplicemente una descrizione del passato, ma un attributo che quali­fica la situazione esistenziale attuale quale è stata determinata da quel passato. Dall'esperienza gnostica della presente situazione di vita que­sta drammatica immagine della sua genesi è stata proiettata nel passa­to, ed è parte dell'espressione mitologica di tale esperienza. "Chi mi ha gettato nell' afflizione dei mondi, chi mi ha trasportato nelle tene­bre perverse?" (Ginza 457), domanda la Vita; e implora: "Salvaci dalle tenebre di questo mondo nel quale siamo gettati" (Ginza 254). Alla do­manda la Grande Vita replica: "Non è secondo la volontà della Gran­de Vita che tu sei andato là" (Ginza 329); "Quella casa nella quale dimo­ri non l'ha costruita la Vita" (Ginza 379); "Questo mondo non è stato creato per la volontà della Vita" (Ginza 247). Apprenderemo in seguito quale sia il significato di queste risposte negative in termini di una mitologia positiva. Il mito gnostico ha appunto cercato di tradurre la realtà bruta, sperimentata nella visione gnostica dell'esistenza e diret­tamente espressa in queste domande con le relative risposte negative, secondo uno schema esplicativo che, pur derivando lo stato attuale dalle sue origini, ne offrisse la promessa del superamento.

La Vita così "gettata" nel mondo esprime la sua condizione e il suo modo di essere quaggiù in un gruppo di metafore che ora conside­reremo. Per la maggior parte queste si riferiscono, nelle fonti gnosti­che, non all'"uomo" nel senso ordinario, ma ad un essere simbolico­mitologico, ad un personaggio divino, abitante nel mondo, investito di una funzione particolare e tragica, quale vittima e salvatore insie­me. Poiché tuttavia questa figura, secondo il significato del sistema, è il prototipo dell'uomo, il cui destino egli soffre nella sua persona in tutta la sua pienezza (spesso il suo nome è Uomo, benché la figura possa anche essere femminile), ci sembra di essere giustificati nel con­siderare le affermazioni della sua sofferenza fatte in prima persona, come proiezioni dell'esperienza di coloro che lo fanno parlare in tal modo, anche se tali asserzioni si riferiscono ad eventi precosmici. Di conseguenza nel commento seguente non faremo distinzione e ci at­terremo all'esistenza dell'uomo nel mondo, qualunque sia la fase o il personaggio del dramma mitico a cui si riferisce 1'affermazione.

 

abbandono, paura, nostalgia

 

Tutte le implicazioni emotive che la nostra analisi iniziale aveva rivelato nel concetto di "straniero" come tale trovano formulazione esplicita nel mito e nella poesia gnostica. Le narrazioni e gli inni man­dei, le fantasie valentiniane circa le avventure della Sophia errante, le lamentazioni lungamente estese della Pistis Sophia, abbondano di espressioni sullo stato pauroso e nostalgico dell' anima abbandonata nel mondo. Ne scegliamo pochi esempi.

 

 

" "Conoscenza della Vita" (il salvatore mandeo) parlò ad Anosh.:" "Non temere e non essere spaventato e non dire: 'Essi mi hanno lasciato solo in questo mondo di malvagi'. Perché presto verrò da te" ... [Anosh, lasciato solo nel mondo, medita sul mondo creato, specialmente sui pianeti e sui loro vari doni e influenze: egli è sopraffatto dal timore e dalla desolazione della solitudine:] "l malvagi cospirano cancro di me ... Essi dicono gli uni con gli altri: 'Nel nostro mondo la chiamata della Vita non sarà udita, esso [il mondo] sarà nostro' ... Ogni giorno cerco di sfuggire loro, poi­ché sono solo in questo mondo. Alzo gli occhi a "Conoscenza della Vita" che mi ha det­to: 'Presto vengo da te' ... Ogni giorno alzo gli occhi alla via nella quale cammi­nano i miei fratelli, al sentiero per il quale verrà "Conoscenza della Vita" ... "Conoscenza della Vita" venne, mi chiamò e mi disse: Piccolo Anosh, perché sei spaventato, perché hai tremato? ... Da quando il terrore ti ha sopraffatto in questo mondo, io sono venuto ad illuminarti. Non temere i poteri malvagi di questo mondo" " (Ginza 261 ss.).

 

 

Pregustando la sua liberazione, l'Anima abbandonata dice:

 

 

"O quanto mi rallegrerò allora, io che sono ora afflitta e paurosa nell' abita­zione dei malvagi! O quanto si rallegrerà il mio cuore fuori delle opere che ho fatto in questo mondo! Per quanto tempo sarò vagabonda e per quanto tempo affonderò in tutti i mondi?" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 196).

 

 

L'abbandono della Vita che dall'aldilà è venuta a soggiornare nel mondo è espresso in maniera toccante:

 

 

"Sono una vite, una vite solitaria che sta nel mondo. Non ho un sublime piantatore, non ho un coltivatore, non un mite aiuto che venga ad istruirmi su tutte le cose" (Ginza 346).

 

 

Il sentimento di essere stata dimenticata in terra straniera da quelli dell'altro mondo ritorna continuamente:

 

 

"l Sette mi hanno oppressa e i Dodici sono diventati la mia persecuzione. La Prima [Vita] mi ha dimenticato e la Seconda non si dà pensiero di me" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 62).

 

 

La forma interrogativa che così abbonda in misura cospicua nella letteratura mandea riflette con particolare vividezza il brancolare e l'incapacità della Vita perduta nel mondo forestiero. Alcuni passi del­le seguenti citazioni sono stati riportati precedentemente:

 

 

"Rifletto in che modo questo è avvenuto. Chi mi ha trasportato in prigionia lontano dal mio luogo e dalla mia dimora, dalla casa dei miei genitori che mi hanno allevato? Chi mi ha portato tra i malvagi, i figli della vana dimora? Chi mi ha portato tra i ribelli che ogni giorno fanno guerra?" (Ginza 328).

 

 

"Sono un Mana della grande Vita. Sono un Mana della potente Vita. Chi mi ha costretto a vivere nel Mondo Terrestre, chi mi ha gettato in questo ceppo del corpo? ... I miei occhi, che erano aperti dalla dimora di luce, appartengono ora al ceppo. Il mio cuore, che aspira alla Vita, venne qui e divenne parte del ceppo. E' il cammi­no del ceppo, i Sette non mi lasceranno andare per la mia strada. Come devo ob­bedire, come sopportare, come posso calmare la mia mente! Come devo temere i sette e i dodici misteri, come devo gemere! Come può la Parola del mio mite Pa­dre dimorare tra le creature delle tenebre!" (Ginza 454 s.).

 

 

Come esempi di letteratura mandea questi saranno sufficienti. Facciamo notare il tono di lamento che è caratteristico delle fonti orientali.

Abbiamo citato più su alcuni versetti dal "Salmo dell'Anima" naasseno. Tra tutte le fonti greche è quella che descrive in modo più drammatico lo stato dell'Anima nel labirinto del mondo ostile. II te­sto è irrimediabilmente corrotto, e qualsiasi traduzione di esso può essere soltanto un tentativo: il contenuto generale tuttavia è suffi­cientemente chiaro. L'anima, un terzo principio posto in certo modo tra i primi due, Spirito e Caos, è stata immersa in quest'ultimo. Nella forma indegna della quale è stata rivestita, essa si agita e si affanna. Preda della Morte, di quando in quando ha potere regale e contempla la luce oppure è immersa nella miseria e nel pianto. Compianta 21 essa si rallegra, lamentandosi è condannata, condannata muore, per rina­scere incessantemente. Così essa si aggira in un labirinto di mali e non trova via di uscita. È per lei che Gesù domanda al Padre di esse­re inviato con i sigilli che lo mettono in grado di passare attraverso gli eoni e dischiudere i loro misteri (Ippolito, Adversus Haereses, V, 10,2). Infine aggiungiamo una breve citazione delle lamentazioni della Pistis Sophia, cap. 32:

 

"O Luce delle Luci, nella quale ho avuto fede fin dal principio, ascolta ora il mio pentimento! Liberami, o Luce, perché pensieri malvagi sono entrati in me ... Sono venuta e mi sono trovata nelle tenebre che sono nel caos di sotto, ed ero impotente ad allontanarmene in fretta e ritornare al mio posto, perché ero afflitta da tutte le Emanazioni dell'Authades [l'Arrogante] ... Ed invocavo aiuto, ma la mia voce non uscì fuori dalle tenebre, e guardavo in alto perché la Luce nella quale ho avuto fede venisse in mio aiuto ... Ed ero in quel luogo, piangendo e cercando la Luce che avevo visto in alto. E i guardiani delle porte degli Eoni mi cercarono e tutti coloro che stanno nei loro misteri mi deridevano ... Ora, o Luce delle Luci, sono afflitta nelle tenebre del caos ... Liberami dalla materia di queste tenebre, che io non sia sommersa in essa ... La mia forza ha guardato in alto dal centro del caos e dal centro delle tenebre, e attendevo il mio sposo, che venisse e combattesse per me, ma egli non venne",

 

torpore, sonno, ebbrezza

 

Si può dire che le categorie emotive espresse nell'ultima parte ri­flettano una generale esperienza umana che può sorgere e trovare espressione ovunque, sebbene raramente in forma così enfatica. Un' altra serie di metafore che si riferiscono alla condizione umana nel mondo è più esclusivamente gnostica e ricorre con grande regolarità attraverso tutto l'ordine di formulazioni gnostiche, senza considera­zione per i confini linguistici. L'esistenza terrena, come abbiamo vi­sto, è caratterizzata, da una parte, dai sentimenti di abbandono, pau­ra, nostalgia, dall' altra è descritta anche come "torpore", "sonno", "ubriachezza" e "oblio": cioè ha assunto (ad eccezione dell'ubria­chezza) tutte le caratteristiche che un periodo precedente attribuiva allo stato di morte nel mondo sotterraneo. In realtà, troveremo che nel pensiero gnostico il mondo prende il posto del tradizionale mondo sotterraneo ed è esso stesso già il regno della morte, cioè di coloro che devono essere chiamati di nuovo alla vita. Sotto certi aspetti que­sta serie di metafore contraddice la precedente: l'incoscienza esclude il timore. Il che non è trascurato nella narrativa particolareggiata dei miti: è soltanto il risveglio dallo stato di incoscienza ("ignoranza"), effettuato dal di fuori, che rivela all'uomo la sua condizione, prece­dentemente a lui nascosta, e provoca uno scoppio di paura e dispera­zione; tuttavia queste in certo modo dovevano essere all'opera già nello stato precedente di ignoranza, al quale la vita mostra una ten­denza ad aggrapparsi e a resistere al risveglio.

In che modo sopraggiunse lo stato di incoscienza e in quali termi­ni concreti lo si descrive? Il "gettare" come tale potrebbe spiegare il torpore dell' anima caduta: ma il mezzo estraneo stesso, il mondo co­me entità demoniaca, vi ha una parte attiva. Nella cosmogonia mani­che a riferita da Teodoro bar Konai leggiamo:

 

 

"Come i Figli delle Tenebre li ebbero divorati, i cinque Dei Luminosi [i fi­gli dell'Uomo Primordiale, e la sostanza di tutte le anime disperse in seguito nel mondo] vennero privati di intelletto e per mezzo del veleno dei Figli delle Tene­bre divennero simili ad un uomo che è stato morso da un cane arrabbiato o da un serpente"

 

 

L'incoscienza è perciò una vera infezione portata dal veleno delle tenebre. Si tratta qui, come in tutto il gruppo delle metafore del son­no, non di un particolare mitologico, semplice episodio nella narrati­va, ma di una caratteristica fondamentale dell'esistenza nel mondo al­la quale si collega tutta l'attività redentiva della divinità extramonda­na. Il mondo da parte sua fa ogni sforzo per creare e mantenere tale stato nelle sue vittime e contrastare l'operazione di risveglio: il suo potere e persino la sua esistenza è in gioco.

 

 

"Nella loro astuzia mi versarono una bevanda e mi diedero da gustare della loro carne. Dimenticai che ero figlio di re e servii il loro re. Dimenticai la Perla per la quale i miei genitori mi avevano inviato. Per la pesantezza del loro nutri­mento caddi in un sonno profondo" ("Inno della Perla" in Acta Thomae).

 

 

L'immagine di "sonno" è probabilmente quella di uso più costan­te e più ampio. L'Anima è assopita nella Materia. Adamo, il "capo" della razza e nello stesso tempo simbolo dell'umanità, giace in sonno profondo, di un genere molto diverso da quello dell'Adamo biblico: gli uomini in genere sono "addormentati" nel mondo. La metafora esprime il totale abbandono dell'uomo al mondo. Talune figure del linguaggio sottolineano questo aspetto spirituale e morale. Gli uomini non sono soltanto addormentati, ma "amano" il sonno ["Perché amate il sonno e peccate con coloro che peccano?" (Ginza 181); essi si abbandonano al sonno come pure all'ubriachezza (Corpus Hermeticum I, 27). Pur comprendendo che il sonno è il più grande pericolo dell' esistenza nel mondo, ciò non basta a tener sveglio, ma suggerisce la preghiera:

 

 

"Secondo quello che tu, Grande Vita, mi hai detto, mi giunge ogni giorno una voce per tenermi desto, perché io non inciampi. Se tu mi chiami, i mondi malvagi non mi inganneranno e non cadrò preda degli Eoni" (Ginza 485).

 

 

La metafora del sonno può servire ugualmente a far deprezzare le sensazioni di "vita qui" come pure illusioni e sogni, sebbene pieni di incubi, che noi siamo impotenti a controllare; e le similitudini di "sonno" si uniscono a quelle di "traviamento" e "paura":

 

"Che cosa, allora, Egli desidera che l'uomo pensi? Questo: "Sono come le ombre e i fantasmi della Notte". Quando appare la luce dell' alba, allora l'uomo comprende che il Terrore che lo ha investito, non era niente ... Finché l'Ignoran­za ispirava in loro terrore e confusione, e li lasciava incerti, tormentati e divisi, vi erano molte illusioni dalle quali essi erano molestati, e vuote finzioni, come se fossero sprofondati nel sonno e si ritrovassero preda di sogni affannosi. O essi fuggono da qualche parte, oppure sono trascinati inutilmente ad inseguire altri; o si trovano coinvolti in risse, dando o ricevendo colpi; oppure cadono da grandi altezze ... [ecc., ecc.]: fino al momento in cui coloro che stanno attraversando tutte queste cose, si svegliano. Allora quelli che avevano sperimentato tutte que­ste confusioni, improvvisamente non vedono niente. Perché esse non sono nien­te, cioè una fantasmagoria" (Vangelo della Verità 28,24 - 29, 32).

 

 

Siccome il messaggio gnostico si considera un movimento in dire­zione opposta al disegno del mondo, in quanto chiamata intesa a rom­perne l'incanto, la metafora del sonno, o i suoi equivalenti, sono una componente costante dei caratteristici appelli gnostici all'uomo, che di conseguenza si presentano come chiamate di "risveglio". Ritrovere­mo perciò di continuo queste metafore quando tratteremo della "chia­mata".

La metafora dell'ubriachezza richiede un particolare commento. L'"ubriachezza" del mondo è un fenomeno caratteristico dell' aspetto spirituale di ciò che gli Gnostici intendevano col termine "mondo", Essa è portata dal "vino dell'ignoranza" (Corpus Hermeticum VII, 1), che il mondo offre all'uomo ovunque. La metafora mette in evidenza che l'ignoran­za non è uno stato neutro, la semplice assenza di conoscenza, ma è una positiva condizione contrastante con quella di conoscenza, attiva­mente provocata e mantenuta per impedire quest'ultima. L'ignoranza da ubriachezza è l'ignoranza dell' anima, dimentica di se stessa, della sua origine e della sua condizione nel mondo forestiero: è precisamen­te la consapevolezza di estraneità che l'intossicazione tende a soppri­mere; l'uomo attirato nel vortice e fatto dimentico del suo vero essere può diventare uno dei figli del mondo. Tale è lo scopo confessato dei poteri del mondo nell' offrire il loro vino e nel tenere il loro "ban­chetto". All'ubriachezza di ignoranza si oppone la "sobrietà" di co­noscenza, formula religiosa spinta talvolta fino al paradosso di "so­bria ebbrezza". Così nelle Odi di Salomone leggiamo:

 

 

"Dalla sorgente del Signore venne in abbondanza alle mie labbra un'acqua parlante. lo bevvi e fui ebbro con l'acqua di vita eterna, tuttavia la mia ebbrezza non era quella di ignoranza, ma abbandonai ogni vanità" (Ode XI, 6-8).

 

 

"Colui che così possiede conoscenza ... [è come] una persona che, essendo stata inebriata, diventa sobria e tornata in se stessa riafferma quello che è essen­zialmente suo proprio" (Vangelo della Verità 22, 13-20).

 

 

Negli scritti mandei ci sono scene molto estese nelle quali viene descritto con frequenza il banchetto orgiastico preparato dal mondo per la seduzione dell'uomo, o più generalmente della Vita straniera dell'al di là. L'esempio seguente occupa molte pagine nell'originale ed è stato qui notevolmente abbreviato. Per il lettore che non sia fami­liare con la mitologia mandea è necessario spiegare che Ruha è la ma­dre demoniaca dei Pianeti e, come spirito malvagio, è il principale av­versario dei figli della luce.

 

 

"Ruha e i Pianeti incominciarono a formare piani e dissero: "Inganneremo Adamo e lo prenderemo e lo tratterremo con noi nel Tibil. Mentre egli mangia e beve, noi inganneremo il mondo. Ci daremo agli abbracci nel mondo e fondere­mo una comunità nel mondo. Lo inganneremo con corni e flauti, in modo che non possa allontanarsi da noi... Sedurremo la tribù della Vita e la intercetteremo con noi nel mondo ... (Ginza 13 s.). Sorgi, facciamo una celebrazione: sorgi, facciamo un banchetto. Pratichiamo i misteri di amore e seduciamo il mondo intero!. .. Fa­remo tacere il richiamo della Vita, porteremo contese nella casa, che non si cal­meranno per tutta l'eternità. Uccideremo lo Straniero. Renderemo Adamo no­stro complice e vedremo chi sarà allora il suo liberatore ... Distruggeremo la sua fazione, la fazione che lo Straniero ha fondato, cosicché non abbia più alcuna parte nel mondo. Tuttavia la casa sarà soltanto nostra ... Che cosa ha fatto lo Straniero nella casa, da potervi fondare una fazione?". Essi presero l'acqua viva e vi versarono [acque] torbide. Presero il capo della tribù e consumarono su di lui il mistero di amore e di concupiscenza, per il quale tutti i mondi sono infiam­mati. Esercitarono su di lui la seduzione, dalla quale tutti i mondi sono sedotti. Esercitarono su di lui il mistero dell'ebbrezza, del quale tutti i mondi sono fatti ebbri... I mondi sono fatti ebbri da esso e voltarono le loro facce al Mar Rosso" (Ginza 120 ss.).

 

Non abbiamo che poche osservazioni da aggiungere a questa scena così efficace. La principale arma del mondo nella sua grande seduzio­ne è "amore". Troviamo qui un tema generale del pensiero gnostico: la diffidenza nei riguardi dell' amore sessuale e del piacere sensuale in genere. È considerato come la forma principale per prendere l'uomo allaccio per mezzo del mondo: "L'uomo spirituale si riconoscerà co­me immortale, e l'amore come causa di morte" (Corpus Hermeticum I, 17); "Colui che ha accarezzato il suo corpo, sorto dall'errore di amore, rimane nelle tenebre errando e soffrendo nei suoi sensi i servizi di morte" (ibid. 19). Più che di amore sessuale si tratta qui di eros come princi­pio di mortalità (per Platone esso era invece il principio della ricerca dell'immortalità). La concupiscenza per le cose di questo mondo può assumere in genere molte forme e da tutte queste l'anima è distolta dal suo vero fine e trattenuta sotto l'incanto della sua dimora fore­stiera.

 

 

"Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se qualcuno ama il mondo, la carità del Padre non è in lui, perché tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita, le quali cose non sono dal Padre, ma dal mondo" (1 lo. 2, 15-16).

 

 

Le tre inclinazioni qui ricordate, "la concupiscenza della carne", "la concupiscenza degli occhi" e "la superbia della vita" sono riprese più tardi da Agostino come categorie principali della tentazione eser­citata dal mondo (cfr. Confesso X, 41 ss.). Il "mistero di amore" nel testo mandeo è la versione mitologica della stessa idea.

 

il rumore del mondo

 

La scena mandea della cospirazione del mondo suggerisce un'ulte­riore osservazione. Il banchetto orgiastico, che ha lo scopo di trasci­nare l'uomo nel suo turbine ubriacatore, ha un altro aspetto oltre quello di ubriachezza: il suo rumore impedisce di udire il "richiamo della Vita" e rende l'uomo sordo alla voce dell'Uomo forestiero.

 

"Essi non udiranno le parole dell'Uomo forestiero che è venuto qui ... Dal momento che abbiamo creato Adamo, egli verrà e obbedirà a noi e a nostro Pa­dre Ptahil" (Ginza 244).

 

 

"Orsù, facciamo in modo che egli oda un grande frastuono, perché possa dimenticare le voci celesti" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 62).

 

 

Tuttavia, come ci si può aspettare in ragione della follia essenziale delle potenze del mondo, lo strepito ha anche un effetto molto diver­so e in ultima analisi controproducente:

 

 

"Come il loro rumore venne alle orecchie di Adamo, egli si svegliò dal suo sonno e alzò gli occhi al luogo della luce. Egli chiamò i suoi aiutanti, chiamò il benefico fedele Uthras. Parlò a Hibil-Uthra [qui invece di Manda d'Hayye], l'uomo che gli aveva fatto ascoltare la sua voce: "Che cosa è avvenuto nella casa perché il suono dello strepito è salito al cielo?". Come Adamo ebbe così parlato, una lagrima si raccolse nei suoi occhi ... Venni vicino a lui, gli presi la mano de­stra, e feci di nuovo riposare il suo cuore sul suo sostegno" (Ginza 126).

 

 

Così l'arma stessa del mondo si volge contro di esso: intesa a ren­dere sordi e confondere, essa atterrisce Adamo e lo fa guardare verso lo straniero, gli fa porgere orecchio all' altra voce.

 

la"chiamata dal di fuori"

 

"Un Uthra (essere angelico di luce) chiama dal di fuori e istruisce Adamo, l'uomo" (Ginza 387, Il Libro Mandeo di Giovanni, 225); "Al cancello dei mondi sta Kushta (Verità) e fa una chia­mata al mondo" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 4); "È la chiamata di "Conoscenza della Vita" (il Salvatore) ... Egli sta al margine eterno dei mondi e chiama il suo eletto" (Ginza 397). L'oltre­mondano penetra la cerchia del mondo e si fa udire qui come un ri­chiamo. È la stessa e identica chiamata dell'altro mondo: "Una chia­mata viene e istruisce su tutte le chiamate" (Ginza 90); è la "chiamata della Vita" o "della grande Vita", che è equivalente all'irrompere della luce nelle tenebre: "Essi (gli Uthras o esseri di luce) faranno sentire il richiamo della Vita e illumineranno la casa mortale" (Ginza 91). Tale richiamo è diretto al mondo: "Ho mandato una chiamata nel mondo" (Ginza 58); nel suo strepito si può percepire qualche cosa di profondamente di­verso: "Egli chiamò nel tumulto dei mondi con voce celeste" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 58).

Il simbolo della chiamata come forma in cui l' oltremondano fa la sua apparizione nel mondo, è così fondamentale per lo gnosticismo orientale che possiamo persino designare le religioni mandea e mani­chea come le "religioni della chiamata". Si ricorderà la stret­ta connessione che si trova nel Nuovo Testamento tra udito e fede. Troviamo molti esempi di ciò negli scritti mandei: la fede è la risposta alla chiamata dell' aldilà che non può essere vista ma deve essere udi­ta. Il simbolismo manicheo è giunto al punto di ipostatizzare "Chia­mata" e "Risposta" in due diverse figure divine. Nell'"Inno della Perla" la "lettera" che i celesti inviano ai loro simili esiliati nel mondo si trasforma al suo arrivo in "voce":

 

 

"Come un messaggero era la lettera che il Re aveva sigillato con la mano de­stra ... Egli volò come un'aquila e atterrò vicino a me e divenne tutto discorso. AI suono della sua voce mi svegliai e sorsi dal sonno ... e indirizzai i miei passi in modo da poter giungere alla luce della nostra casa. La lettera che mi aveva sve­gliato, la trovai dinanzi a me sulla via, la lettera che con la sua voce mi aveva svegliato dal sonno ...".

 

 

Nell'elaborazione valentiniana la chiamata è in modo specifico la chiamata per "nome", ossia il nome mistico spirituale della persona, "scritto" dall' eternità presso Dio "nel libro dei viventi":

 

 

"Coloro i cui nomi Egli conobbe in precedenza, furono chiamati alla fine, cosicché colui che conosce è colui il cui nome è stato pronunziato dal Padre. Per­ché colui il cui nome non è stato pronunziato, è ignorante. In verità, come po­trebbe una persona udire, se il suo nome non è stato chiamato? Perché colui che rimane ignorante sino alla fine, è una creatura dell'" Oblio" e sarà distrutto con essa. Se non è così, perché questi miserabili non hanno ricevuto nome, perché non odono la chiamata?" (Vangelo della Verità 21,25 - 22, 2).

 

 

Infine la chiamata può anche essere la chiamata apocalittica che annunzia la fine del mondo:

 

 

"Una chiamata risuonò intorno a tutto il mondo, lo splendore sparl da ogni città. Manda d'Hayye si è rivelato a tutti i figli degli uomini e li ha redenti dalle tenebre nella luce" (Ginza 182).

 

l' "uomo straniero"

 

La chiamata è stata proferita da colui che è stato mandato nel mondo a tale scopo e nella cui persona la Vita trascendente ha preso ancora una volta su di sé il destino dello straniero: egli è il Messagge­ro o l'Inviato - in relazione al mondo, egli è l'Uomo Straniero. Ruha, la Madre dei Sette Pianeti, lo spirito completamente malvagio, dice ad essi:

 

 

"L'uomo non appartiene a noi, e il suo parlare non è il vostro parlare. Egli non ha nessun rapporto con voi ... Il suo parlare viene dal di fuori" (Ginza 258).

 

 

Il nome "lo Straniero" indica i vari generi di accoglienza che egli trova quaggiù: l'esultante "benvenuto" di coloro che si sentono fore­stieri ed esiliati quaggiù ("Adamo provò amore per l'Uomo Straniero la cui parola è straniera, estraniata dal mondo", Ginza 244); la malevola sorpresa delle potenze cosmiche che non comprendono ciò che succe­de in mezzo a loro ("Che cosa ha fatto lo Straniero nella casa, perché possa trovare adesione là dentro?",  Ginza 122); infine la banda ostile dei figli della casa contro l'intruso ("Uccideremo lo Straniero ... Distrug­geremo i suoi aderenti, cosicché non possa avere alcuna parte nel mondo. Tutta la casa sarà soltanto nostra", Ginza 121 s.). L'effetto im­mediato della sua apparizione quaggiù è potentemente descritto nel­ Vangelo della Verità:

 

 

"Quando la Parola apparve, la Parola che è nei cuori di coloro che La pro­nunziano - ed Essa non era soltanto un suono, ma aveva anche assunto un cor­po - una grande confusione regnò tra i vasi perché alcuni erano stati svuotati, altri riempiti; alcuni furono riforniti, altri rovesciati; alcuni furono santificati, altri ridotti in pezzi. Tutti gli spazi (?) furono scossi e confusi, perché non ave­vano fissità né stabilità. "Errore" si agitò, non sapendo che cosa fare. Era afflit­to e si lamentava e si tormentava perché non sapeva nulla. Dal momento che la Gnosi, che è la rovina di "Errore" e di tutte le sue Emanazioni, gli si avvicinò, Errore divenne vuoto, perché non vi era più niente in lui" (Vangelo della Verità 26,4-27).

 

Così la Vita, per ricuperare ciò che è suo, intraprende ancora una volta nella persona di un suo membro non decaduto la discesa nella prigione del mondo, "per rivestirsi delle afflizioni del mondo" e per assumersi il destino dell'esilio lontano dal regno della luce. Questa può essere chiamata la seconda discesa del divino, distinta da quella precedente, tragica, che ha portato alla condizione che deve appunto essere redenta. Mentre in passato la Vita, ora impigliata nel mondo, vi giunse per via di "caduta", di "affondamento", "gettata", "presa prigioniera", questa volta il suo ingresso è di natura diversa: mandato dalla Grande Vita e investito di autorità, l'Uomo Straniero non è ca­duto, ma si è portato nel mondo.

 

 

"Una chiamata viene per istruire su tutte le chiamate. Una parola viene per istruire su tutte le parole. Un Figlio viene, che era stato formato dalla matrice dello splendore ... La sua immagine è conservata intatta al suo posto. Egli viene con l'illuminazione della vita, con il comando che suo Padre impartisce. Egli vie­ne rivestito di fuoco vivo e si porta nel tuo [di Ruha] mondo" (Ginza 90).

 

 

"Sono Yokabar-Kushta, uscita dalla casa di mio Padre e venuto qua. Sono venuto qua con splendore nascosto e con luce senza fine" (Ginza 318).

 

 

L'uscir fuori e il venire qua devono essere presi letteralmente nel loro significato spaziale: essi conducono realmente, nel senso di una "via" vera, dal di fuori nella cerchia del mondo, e nel passaggio biso­gna penetrare attraverso tutte le orbite concentriche, ossia le molte­plici sfere e eoni o mondi, per giungere allo spazio più interno dove l'uomo è imprigionato.

 

 

"Per la sua salvezza mandami, Padre.

In possesso dei sigilli io scenderò,

attraverso gli Eoni mi aprirò la via,

aprirò tutti i misteri,

renderò manifeste le forme degli dèi,

i segreti della Via sacra,

conosciuti come Conoscenza, io trasmetterò".

(Salmo dell'Anima, naasseno)

 

 

Questo passaggio attraverso il sistema cosmico ha il carattere di un irrompere ed è perciò già una vittoria sulle potenze cosmiche stesse.

 

 

"Nel nome di colui che è venuto, nel nome di colui che viene, nel nome di colui che sta per nascere. Nel nome di quell'Uomo Straniero che si è aperto un passaggio attraverso i mondi, è venuto, ha scisso il firmamento ed ha rivelato se stesso" (Ginza 197).

 

 

Abbiamo qui la ragione del perché una semplice chiamata di risve­glio dall'esterno non è sufficiente: gli uomini non soltanto devono es­sere risvegliati e chiamati a ritornare, ma se le loro anime debbono sfuggire al mondo, una vera breccia deve essere aperta nel "muro di ferro" del firmamento, il quale sbarra il passaggio sia verso l'esterno che verso l'interno. Solamente un atto della divinità stessa, penetran­te il sistema, può operare tale breccia: "Egli ruppe le loro torri di guardia e fece una breccia nella loro compattezza" (Il Libro Mandeo di Giovanni, 69). "Essendo penetrato negli spazi vuoti del terrore, Egli mise Se stesso alla testa di coloro che furono spogliati dall'Oblio" (Vangelo della Verità, p. 20, 34-38). Così già col semplice fatto della sua discesa il Messaggero prepara la via per le anime che ascendono.

Tuttavia, a seconda del grado di spiritualizzazione nei differenti sistemi, l'accento può spostarsi sempre di più da questa funzione mi­tologica a quella puramente religiosa, racchiusa nella chiamata come tale e nell'insegnamento che essa deve trasmettere, e quindi anche alla risposta individuale alla chiamata come contributo umano alla salvezza. Tale è la funzione di Gesù nell'Evangelium Veritatis valenti­niano:

 

 

"Per mezzo di Lui Egli illuminò coloro che erano nelle tenebre a causa del­l'''Oblio''. Egli li illuminò e indicò loro un cammino; e quel cammino è la Veri­tà che Egli insegnò loro. Fu a causa di ciò che "Errore" si adirò con Lui, Lo perseguitò, Lo oppresse e Lo annientò" (Vangelo della Verità 18, 16-24).

 

 

Troviamo qui, incidentalmente, l'interpretazione che gli Gnostici cristiani possono dare alla Passione di Cristo e della ragione di essa: essa è dovuta all'inimicizia delle potenze della erezione inferiore (il principio cosmico "Errore", generalmente personificato negli Arconti), minacciate nel loro dominio e nella stessa esistenza dalla sua missione; e molto spesso la sofferenza e la morte che esse gli infliggono non sono affatto reali.

Ora in ultima analisi colui che viene è identico a colui dal quale egli va: la Vita Salvatrice è identica alla vita che deve essere salvata. Lo Straniero viene dal di fuori a colui che è straniero nel mondo, e gli stessi termini descrittivi possono essere attribuiti alternativamente, in una maniera che colpisce, sia all'uno che all'altro. Nella sofferenza come nel trionfo è spesso impossibile distinguere quale dei due stia parlando o a quale dei due un' affermazione si riferisca. Il prigioniero è qui chiamato anche lui "l'uomo straniero" (in altri testi il no­me è riferito all'uomo che deve essere salvato), ed egli riacquista, per così dire, tale qualità per mezzo dell'incontro con lo Straniero manda­to dal di fuori:

 

 

"lo sono un uomo straniero ... Guardai la Vita e la Vita guardò me. Le mie provviste per il viaggio vengono dall'Uomo Straniero che la Vita ha voluto e piantato. Verrò in mezzo al bene che l'Uomo Straniero ha amato" (Ginza 273).

 

 

C'è un inconfondibile accenno ad una doppia funzione, attiva e passiva, dell'unica e medesima entità. In ultima analisi, lo Straniero che discende redime se stesso, cioè quella parte di sé (l'Anima) persa un tempo nel mondo e per lei egli stesso diviene straniero nella terra delle tenebre ed è infine un "salvatore salvato". "La Vita ha sostenuto la Vita, la Vita ha trovato ciò che era suo" (Liturgia Mandea, p. 111).

Tale ricerca, ritrovamento e raccolta di ciò che era proprio è un processo a lunga scadenza, in quanto è legato alla forma spazio-tem­porale dell'esistenza cosmica. "Ho girovagato attraverso mondi e ge­nerazioni finché sono giunto alla porta di Gerusalemme" (J 243). Ciò conduce all'idea che il salvatore non viene una sola volta nel mondo, ma che dall'inizio del tempo egli si aggira in forme differenti attraver­so la storia, egli stesso esiliato nel mondo, che sempre di nuovo rivela se stesso finché, quando la raccolta sarà completata, egli potrà essere liberato dalla sua missione cosmica (la dottrina è presentata in modo più completo nelle Omelie pseudo-clementine: cfr. Ome­lia III, 20, p. 246).

Prescindendo dalle incarnazioni umane mutevoli, la forma costan­te della sua presenza è precisamente la chiamata dell' altro mondo, che risuona nel mondo e rappresenta ciò che è forestiero in mezzo ad es­so; e tra una manifestazione e l'altra egli cammina invisibile attraver­so il tempo.

 

 

"Dal luogo della luce sono uscito,

da te, abitazione luminosa.

Vengo a esaminare i cuori,

a misurare e provare tutte le menti,

a vedere in quale cuore dimoro,

in quale mente riposo.

Chi pensa a me, io penso a lui;

chi invoca il mio nome, io lo chiamo.

Chi prega la mia preghiera da laggiù,

io prego la sua preghiera dal luogo della luce ...

Sono venuto e ho trovato

i cuori sinceri e credenti.

Quando non dimoravo in mezzo ad essi,

pure il mio nome era sulle loro labbra.

Li ho presi e Ii ho guidati su nel mondo della luce"

(Ginza 389 s.).

 

il contenuto della chiamata

 

Che cosa è venuta a comunicare agli uomini la chiamata? Il suo contenuto è determinato dallo scopo che essa ha di "risvegliare", e talvolta l'intero messaggio può essere semplicemente l'avvertimento del risveglio; quasi sempre ne è l'apertura. "Sono la chiamata del ri­sveglio dal sonno nell'Eone della notte", comincia un estratto dalla scrittura dei Perati in Ippolito (Re/ut. V, 14, 1). Qui la chiamata come tale è il contenuto proprio, poiché afferma semplicemente che quello che il suo essere ha detto, effettuerà: il risveglio dal sonno. Tale risve­glio è costantemente designato come l'essenza della sua missione, sia da parte del messaggero che da parte di coloro che lo mandano.

 

 

"Sono una parola, un figlio di parole, che è venuto nel nome di ]awar. La grande Vita mi ha chiamato, incaricato e preparato, me, Anosh [Uomo], il gran­de Uthra figlio dei potenti... Mi ha mandato a sorvegliare questa èra, a scuotere dal loro sonno e far alzare coloro che dormono. Essa mi ha detto: "Va', raccogli­ti dei seguaci dal Tibil ... Scegli, e trascina l'eletto fuori del mondo ... Istruisci le anime, che non muoiano e periscano, e non siano trattenute dalla tenebra den­sa ... Quando tu vieni nella terra Tibil, i malvagi non sapranno niente di te ... Non temere e non spaventarti, e non dire 'Sono qui solo'. Quando il timore ti sopraffà, noi tutti saremo al tuo fianco ... "" (Ginza 295 s.).

 

 

"Essi profusero sui guardiani una chiamata sublime, per scuotere e far alza­re coloro che dormono. Essi dovevano risvegliare le anime che avevano errato fuori del luogo della luce. Essi dovevano svegliarle e scuoterle, perché potessero alzare la faccia al luogo della luce" (Ginza 308).

 

 

Pertanto, il primo effetto della chiamata è sempre descritto come "risveglio", come nelle versioni gnostiche della storia di Adamo. Spesso l'esortazione semplicemente formale: "Sveglia­ti dal sonno" (o "dall'ebbrezza", o meno frequentemente "dalla morte"), con elaborazione metaforica e con frasario differente, costi­tuisce il solo contenuto del richiamo gnostico alla salvezza. Tuttavia questo imperativo formale racchiude implicitamente tutto lo schema speculativo nell' ambito del quale le idee di sonno, ebbrezza, risveglio, assumono il loro significato specifico; e di regola la chiamata rende esplicito tale schema come parte del suo contenuto, cioè collega il co­mando del risveglio con i seguenti elementi dottrinali: il ricordo del­l'origine celeste e della storia trascendente dell'uomo; la promessa del­la redenzione, in cui è compresa anche la ragione della missione del redentore e della sua discesa nel mondo; e infine l'istruzione pratica sul come vivere d'ora in avanti nel mondo, in conformità della "co­noscenza" recentemente acquisita e in preparazione dell' eventuale ascesa.

Ora, questi tre elementi contengono in nuce il completo mito gnostico, perciò la chiamata gnostica di risveglio è una specie di sunto della dottrina gnostica in generale. La gnosi trasmessa dal messaggio e compressa in esso in pochi termini simbolici costituisce tutto il mito cosmogonico-soteriologico, la cui narrazione presenta l'evento di tale messaggio come una fase, di fatto la svolta che imprime al movimento totale una direzione opposta. Questa "conoscenza" compendiosa del­l'insieme teoretico ha il complemento pratico nella conoscenza della retta "via" verso la liberazione dalla schiavitù del mondo. Nelle nu­merose versioni letterarie della chiamata, l'uno o l'altro di tali aspetti può predominare o essere espresso in maniera esclusiva: il ricordo del­l'origine, la promessa della salvezza, l'istruzione morale.

Citeremo dalla letteratura gnostica alcune di queste chiamate di risveglio, iniziando con esempi manichei. La prima di tali chiamate nel dramma del mondo, narrato dal sistema manicheo con rigida rap­presentazione, avviene prima dell'inizio del nostro mondo ed è rivolta all'Uomo Primordiale, che giace incosciente nelle profondità dopo es­sere stato vinto e assorbito nell'iniziale lotta precosmica di luce e tenebre. La scena seguente è tratta dal racconto siriaco di Teodoro bar Konai:

 

 

"Allora lo Spirito Vivente chiamò ad alta voce; e la voce dello Spirito Vi­vente divenne come una spada acuminata e mise a nudo la forma dell'Uomo Pri­mordiale. E gli disse:

 

"Sia pace a te, buono tra i cattivi,

essere luminoso tra le tenebre,

Dio che dimori tra i bruti di collera

i quali non conoscono il suo onore".

 

Perciò l'Uomo Primordiale gli rispose e disse:

 

"Vieni per la pace di colui che è morto,

vieni, o tesoro di serenità e di pace!"

 

e disse inoltre a lui:

 

"Come stanno i nostri Padri,

i Figli di Luce nella loro città?".

 

E la Chiamata gli disse: "Stanno bene". E Chiamata e Risposta si unirono uno all'altro e salirono alla Madre di Vita e allo Spirito Vivente. Lo Spirito Vi­vente assunse la Chiamata e la Madre di Vita assunse la Risposta, il suo amato figlio".

 

 

Qui in apparenza la chiamata ha la forma di un semplice saluto. Come tale, tuttavia, include il ricordo dell' origine divina di colui che è salutato, ossia il risveglio della conoscenza di se stesso, persa nel ve­leno delle tenebre, e nello stesso tempo la promessa della sua salvezza: l'apostrofe "essere buono tra i cattivi", ecc., rappresenta il ricordo; il saluto "sia pace a te" rappresenta la promessa. La commovente ri­chiesta dell'Uomo Primordiale circa i Figli di Luce nella loro città può essere intesa in rapporto al fatto che egli è andato incontro al suo de­stino per la loro protezione. Svegliato dal suo stupore, egli desidera sapere se il sacrificio ha raggiunto il suo scopo. Un'altra versione di tale scena è venuta alla luce nel frammento di Turfan:

 

 

"Scuoti di dosso l'ebbrezza nella quale ti sei addormentato,

svegliati e guardami!

Buone nuove a te dal mondo della gioia

dal quale sono mandato per causa tua".

 

 

Ed egli rispose a colui che è senza sofferenza:

 

 

"Sono io, il figlio di coloro che sono benevoli.

Sono confuso e vedo lamentazione.

Guidami fuori dall' abbraccio della morte".

 

[Il messaggero dice:]

 

"Potenza e prosperità del Vivente

su di te dalla tua casa!

Seguimi, figlio della benevolenza,

metti sul tuo capo la corona di luce"

 

 

In un altro testo di Turfan, la cosiddetta "Messa breve dei mor­ti", troviamo la chiamata indirizzata all' anima in modo generico, di­staccata dal contesto mitologico:

 

 

"Anima mia, o splendidissima, dove te ne sei andata? Ritorna di nuovo. Svegliati, anima di splendore, dal sonno dell'ebbrezza nel quale sei caduta ... , se­guimi al luogo della terra sublime dove tu da principio dimori ..."

 

 

Nella letteratura mandea abbondano le versioni della chiamata di risveglio, indirizzata sia ad Adamo (non identico al­l'Uomo Primordiale), sia all'infinito numero di credenti del mondo. Il simbolismo collegato ad Adamo verrà preso in considerazione più sot­to; qui diremo soltanto che il motivo biblico del suo sonno nel Giar­dino è trasformato in un simbolo della condizione umana nel mondo. Il seguente passo presenta uno stretto parallelismo con le versioni ma­nichee:

 

 

"Essi crearono il messaggero e lo mandarono al capo delle generazioni. Egli chiamò con voce celeste nel tumulto dei mondi. Alla chiamata del messaggero, Adamo, che giaceva là, si svegliò ... e venne incontro al messaggero: "Vieni in pace, tu messaggero, inviato della Vita, che sei venuto dalla casa del Padre. Co­me sta salda nei suoi luoghi la cara splendida Vita! E come sta qui in lamento la mia forma tenebrosa!". Allora il messaggero replicò: "Tutti ti ricordano con amore e ... mi hanno mandato da te. Sono venuto e ti istruirò, Adamo, e ti libe­rerò da questo mondo. Porgi orecchio e ascolta e sii istruito, e sali vittorioso al luogo della luce" " (Il Libro Mandeo di Giovanni, 57).

 

 

L'istruzione menzionata qui è spesso inclusa nella chiamata come spiegazione del comando "Non dormire", e talvolta si prolunga in lunghe omelie morali che assorbono l'intero contenuto della chiamata e per la loro lunghezza fanno della situazione di base una semplice finzione letteraria.

 

 

"Un Uthra chiama dal di fuori e istruisce Adamo, l'uomo. Egli parla ad Adamo: "Non riposare e non dormire e non dimenticare quello di cui il Signore ti ha incaricato. Non essere un figlio della casa e non essere chiamato un pecca­tore nel TibiI. Non amare ghirlande dal piacevole profumo e non prendere piace­re in una donna avvenente ... Non amare la concupiscenza né le ombre inganna­trici ... Nel tuo andare e venire, guarda di non dimenticare il tuo Signore [ecc. ecc.]. .. Adamo, osserva il mondo, che è cosa del tutto senza sostanza, ... nel qua­le non devi riporre alcuna fiducia. Le bilance sono preparate, e tra migliaia essi scelgono una [sola anima] ... Le ghirlande profumate appassiscono, e la bellezza della donna diventa come se non fosse mai stata ... Tutte le opere passano, hanno la loro fine e sono come se non fossero mai state" "

 

 

Talvolta la chiamata di risveglio è immediatamente connessa con l'ingiunzione di lasciare il mondo: è al tempo stesso il messaggio di morte ed è quindi seguito dall'ascesa dell'anima, come nell'esempio seguente.

 

 

"Il Salvatore si avvicinò, stette al capezzale di Adamo, e lo svegliò dal suo sonno. "Sorgi, sorgi, Adamo, metti via il tuo corpo vile, il tuo vestito di creta, i ceppi, la catena ... , perché è giunto il tuo tempo, la tua misura è piena, per parti­re da questo mondo ... " " (Ginza 430).

 

Talvolta l'intero contenuto della chiamata è concentrato nella sola ammonizione di essere vigilante su se stesso:

 

 

"Ho mandato una chiamata nel mondo: ogni uomo sia vigilante su se stesso. Chiunque è vigilante su di sé sarà salvato dal fuoco divoratore" (Ginza 58).

 

 

La formula tipica di risveglio è passata anche nel Nuovo Testa­mento, dove si ritrova in Efesini. 5, 14 come citazione anonima:

 

 

"Perciò dice: "Sorgi tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà"

 

 

Per concludere citiamo dal Poimandres a versione ellenistica della chiamata di risveglio, che è stata distaccata dal mito ed è usata come mezzo stilistico di esortazione etico-religiosa.

 

 

"O popoli, uomini terrestri, che vi siete abbandonati all'ebbrezza e al sonno e all'ignoranza di Dio, diventate sobri, mettete fine alla vostra ubriachezza, al­l'incanto del sonno irrazionale!. .. Perché, o uomini terrestri, vi siete dati alla morte, voi che eravate investiti del potere di condividere l'immortalità? Cambia­te le vostre vie, voi compagni di viaggio dell'errore e compagni dell'ignoranza; abbandonate la luce tenebrosa [cioè il cosmo], prendete parte all'immortalità e lasciate la corruzione" (Corpus Hermeticum I, 27 S.).35

 

la risposta alla chiamata

 

Come risponde alla chiamata e al suo contenuto colui che è chia­mato? Il primo effetto della chiamata è naturalmente il risveglio dal sonno profondo del mondo. In seguito, tuttavia, la reazione di colui che è risvegliato alla sua condizione come è rivelata nella chiamata e la reazione alle richieste presentategli può essere di vario genere, e ne possono scaturire dialoghi significativi tra colui che è chiamato e colui che chiama. Nella cosmogonia manichea secondo Teodoro bar Konai, per esempio, la prima reazione di Adamo al suo risveglio e all'infor­mazione che egli riceve intorno a se stesso è uno scoppio di acuto ter­rore per la sua condizione:

 

 

"Gesù Luminoso si avvicinò all'innocente Adamo. Lo svegliò dal sonno del­la morte, perché potesse venir liberato dai molti demoni. E come un uomo che è giusto e trova un uomo posseduto da un demonio potente e lo calma col suo po­tere, cosi era Adamo perché quell'Amico lo trovò sprofondato in un sonno pro­fondissimo, lo svegliò, fece che si scuotesse, lo rese vigilante, condusse via da lui il Demonio seducente e allontanò da lui l'Arconte potente [qui al femminile] che mise in ceppi. E Adamo si esaminò e scopri chi egli era. Gesù gli mostrò nell'al­to i Padri e il suo proprio lo 36 gettato in tutte le cose, ai denti di pantere ed ele­fanti, divorato da coloro che divorano, consumato da coloro che consumano, mangiato dai cani, mescolato e legato in tutto quello che è, imprigionato nel fe­tore delle tenebre. Egli lo fece alzare e gli fece mangiare dall' albero della vita. Allora Adamo pianse e si lamentò: alzò la voce in modo terribile come un leone ruggente, strappò [il suo vestito], si percosse il petto e disse: "Guai, guai a colui che ha formato il mio corpo, a coloro che hanno incatenato la mia anima, e ai ri­belli che mi hanno reso schiavo!"

 

 

Un tono di lamento somigliante a questo, sebbene più smorzato, abbiamo potuto riscontrarlo neI paragrafo precedente, come prima ri­sposta alla chiamata (nel frammento di Turfan e nel passo man­deo del Libro Mandeo di Giovanni, 57).

Umana, ma in maniera più primitiva, è la reazione di Adamo nel te­sto mandeo G 430 s., di cui abbiamo citato l'inizio a p. 102. Qui, come abbiamo visto, la chiamata di risveglio coincide col messaggio di mor­te, e il seguito mostra l'anima legata alla terra, atterrita alla prospettiva di dover partire e aggrappata disperatamente alle cose di questo mondo:

 

 

"Quando Adamo udì questo, si lamentò del suo fato e pianse. [Cerca di di­mostrare di essere indispensabile nel mondo:] "Padre! Se vengo con te, chi sarà il guardiano in questo vasto Tibil? .. Chi aggiogherà i buoi all' aratro e chi gette­rà il seme nella terra? .. Chi vestirà l'ignudo ... Chi comporrà la contesa nel vil­laggio?". [Il messaggero della Vita:] "Non aver rimpianti, Adamo, per questo posto nel quale dimori, perché questo posto è desolato ... I lavori saranno total­mente abbandonati, e non saranno più ripresi ... " [Allora Adamo implora che sua moglie Eva, i suoi figli e le sue figlie possano accompagnarlo nella via. Il messaggero lo informa che nella casa della Vita non vi è corpo né parentela. Quindi lo istruisce sul cammino:] "La via che dobbiamo percorrere è lunga e senza fine ... Sovrintendenti vi sono installati, e guardiani e collettori del pedaggio siedono lungo essa ... Le bilance sono preparate, e tra migliaia essi scelgono una sola ani­ma che è buona e illuminata". Con che Adamo partì dal suo corpo [egli si volta indietro ancora una volta e rimpiange il corpo], quindi cominciò il suo viaggio attraverso l'etere. [Anche qui il dialogo continua; di nuovo Adamo rimpiange il corpo, ancora una volta chiede di Eva, sebbene abbia saputo che egli" deve par­tire da solo, deve comporre da solo la sua lotta". Infine gli viene detto:] "Cal­mati e taci, Adamo, e la pace dei buoni ti avvolge. Tu vai e sali al tuo luogo, e tua moglie Eva salirà dopo di te. Poi tutte le generazioni giungeranno al termine e tutte le creature periranno"

 

 

Così la chiamata al singolo è legata all' escatologia generale del ri­torno di tutte le anime.

Ai differenti significati del lamento col quale l'anima risvegliata risponde inizialmente alla chiamata dobbiamo aggiungere il suo ram­marico, persino la sua accusa alla Grande Vita stessa, che è chiamata a rendere conto della condizione innaturale appena rivelata all' anima. Leggiamo perciò nella versione della chiamata in (Ginza 387 s.):

 

 

"Appena Adamo udì ciò, si lamentò e pianse su se stesso. Disse all'Uthra della Vita: "Se voi sapete che le cose stanno così, perché mi avete portato via dalla mia casa in prigionia e gettato nel vile corpo ... ?". Allora egli rispose a lui: "Taci, Adamo, tu capo di tutta la tribù. Il mondo che sarà non possiamo soppri­merlo. Sorgi, sorgi, adora la Grande [Vita] e sottomettiti, perché la Vita possa essere il tuo salvatore. La Vita sia il tuo salvatore, e tu ascendi e guarda il luogo della Vita"",

 

Alla fine l'anima domanda alla Grande Vita di rendere ragione del­l'esistenza del mondo come tale e del suo proprio esilio quaggiù: ossia chiede il grande "Perché", il quale non è affatto quietato dal risveglio e dal ricordo della propria origine, ma ne è anzi fortemente eccitato e diviene il principale interesse della gnosi appena iniziata. Codesto interrogativo è anche chiamato "il processo riguardo al mondo", che Adamo presenta direttamente alla Vita Primordiale stessa.

 

 

"Tu ascendi, Adamo, e presenti la tua causa alla Grande Vita Primordiale, la tua causa concernente il mondo nel quale tu dimori. Di' alla Grande Vita: "Perché ha creato questo mondo, perché hai fatto andare le tribù là, fuori dal tuo centro, perché hai gettato la contesa nel Tibil? Perché domandi ora di me e di tutta la mia tribù?"" (Ginza 437).

 

 

La risposta a questo tipo di domanda è l'oggetto principale delle varie speculazioni gnostiche sugli inizi. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, la risposta alla chiamata non è di genere problematico, ma di accettazione gioiosa e riconoscente. "Il V angelo di Verità è gioia per coloro che hanno ricevuto dal Padre di Ve­rità la grazia di conoscerlo" (parole con cui si apre il Vangelo di Verità):

 

 

"Se una persona ha la gnosi, è un essere dall'alto. Se egli è chiamato, ode, replica, e si volge a Colui che lo chiama, per riascendere a Lui. Ed egli sa perché è chiamato. In possesso della gnosi, egli compie la volontà di Colui che lo ha chiamato. Desidera fare ciò che piace a Lui, e riceve riposo. Il nome di ciascuno giunge a lui. Chi in tal modo possiede la gnosi, sa da dove viene e dove va" (Vangelo della Verità 22,3-15).

 

 

"Gioia all'uomo che ha riscoperto se stesso e si è svegliato!" (Vangelo della Verità 30, 13 s.).

 

 

Si incontra spesso in tale contesto la relazione di "udire" e "cre­dere", così familiare nel Nuovo Testamento:

 

 

"Adamo udì e credette ... Adamo ricevette la Verità ... Adamo guardò in alto pieno di speranza e ascese ..." (Il Libro Mandeo di Giovanni, 57).

 

 

Abbiamo qui la triade fede, conoscenza e speranza come risposta all' ascolto della chiamata. Altrove amore è menzionato nello stesso contesto: "Adamo sentì amore per l'Uomo Straniero il cui parlare è forestiero ed estraniato dal mondo" (G 244). "Ognuno ama la Veri­tà, perché la Verità è la Bocca del Padre; la Sua Lingua è lo Spirito Santo ..." (Vangelo della Verità, p. 26, 33-36). Il lettore cristiano ha ben presente la triade paolina di fede, speranza e carità (1 Corinzi 13, 13), dove san Pao­lo, non senza ragione e con intenzione (cfr. 1 Corinzi 1,22 ss.; 8, 1), omette la conoscenza ed esalta l'amore come il più grande di tutti. La poesia mandea esprime in modo splendido l'accettazione in fe­de e riconoscenza del messaggio, la conseguente conversione del cuore e il rinnovamento della vita. Alcuni esempi possono concludere que­sta esposizione.

 

 

"Dal giorno in cui ti abbiamo contemplato,

i nostri cuori furono colmi di pace.

Noi abbiamo creduto in Te, Unico Buono,

abbiamo contemplato la tua luce e non ti dimenticheremo.

In tutti i nostri giorni non ti dimenticheremo,

nemmeno per un'ora ti lasceremo fuori dai nostri cuori.

Perché i nostri cuori non si accecheranno,

le nostre anime non saranno trattenute lontano".

(Ginza 60)

 

 

"Dal luogo della luce è la mia provenienza,

da te, abitazione luminosa ...

Un Uthra mi ha accompagnato dalla casa della Vita.

L'Uthra che mi ha accompagnato dalla casa della Grande Vita

aveva in mano una verga fluente acqua viva.

La verga che aveva in mano era fronzuta e

le foglie erano di un genere eccellente.

Egli mi offrì delle sue foglie,

e da ciò scaturirono preghiere e rituali perfetti.

Un'altra volta mi offrì di esse

e il mio cuore ammalato trovò guarigione

e la mia anima forestiera trovò conforto.

Una terza volta mi offrì di esse,

e volse gli occhi su al mio capo

cosicché io contemplai mio Padre e lo conobbi.

Contemplai mio Padre e lo conobbi

e gli rivolsi tre richieste.

Gli chiesi bontà senza ribellione,

gli chiesi un cuore forte

per sopportare grandi e piccole cose.

Gli chiesi cammini agevoli

per ascendere e contemplare il luogo della luce"

(Ginza 377 s.)

 

 

"Dal giorno in cui cominciai ad amare la Vita,

dal giorno in cui il mio cuore cominciò ad amare la Verità,

non ho più fiducia in alcuna cosa nel mondo.

Nel padre e nella madre

non ho più fiducia in questo mondo.

Nei fratelli e nelle sorelle

non ho fiducia in questo mondo ...

In ciò che è fatto e creato

non ho fiducia in questo mondo.

Nell'intero mondo e nelle sue opere

non ho fiducia in questo mondo.

Vado alla ricerca soltanto della mia anima,

che per me vale generazioni e mondi.

Sono andato e ho trovato la mia anima:

che cosa contano per me tutti i mondi? ..

Sono andato e ho trovato la Verità

perché essa sta al margine esterno dei mondi. .."

(Ginza 390 s.)

 

allegoria gnostica

 

La nostra descrizione dell'immaginativa gnostica e del linguaggio simbolico sarebbe incompleta se omettessimo alcune osservazioni sul­l'uso peculiare dell'allegoria negli scritti gnostici. L'allegoria, che probabilmente è stata inventata dai filosofi, era largamente usata nella letteratura greca come un mezzo per rendere conformi ad un pensiero "illuminato" racconti e figure del materiale mitico. Considerando le entità concrete e gli episodi del mito classico come espressioni simbo­liche di idee astratte, tali antichi elementi della tradizione e della fede popolare furono così concettualizzati che un generico concorso di ve­rità sembrò unire l'intuizione intellettuale più avanzata con la sapien­za del passato. Così Zeus fu equiparato alla "ragione" cosmica degli Stoici, e altri dèi dell'Olimpo a manifestazioni particolari del princi­pio universale. Per quanto tale metodo fosse arbitrario, aveva il van­taggio di mettere in luce il reale significato dell' antico patrimonio e nella traduzione concettuale di presentarlo spogliato dalla veste sim­bolica. Nello stesso tempo forniva alle idee contemporanee il prestigio di una veneranda antichità. La tendenza fu perciò quella di mettere tutto in armonia e, nonostante l'arditezza dell'interpretazione, essa rimase nei casi individuali conservatrici ed essenzialmente rispettosa della tradizione: un'eredità omogenea di conoscenza circa le realtà più alte veniva a comprendere il vecchio e il nuovo e a dare gli stessi inse­gnamenti sotto forme diverse. Di conseguenza il mito, per quanto li­beramente elaborato, non veniva contraddetto, né i suoi giudizi erano messi in discussione. Nel I secolo d.C., ossia al tempo in cui il movi­mento gnostico si diffondeva, Filone di Alessandria mise l'allegoria, che fino ad allora era soprattutto strumento di adattamento del mito alla filosofia, al servizio della religione nello sforzo di mettere d'ac­cordo la sua fede giudaica con la filosofia platonizzante. Il sistema di allegoria scritturistica sviluppato si nella sua scuola rimane in eredità ai primi Padri della Chiesa come un modello. Anche in questo caso lo scopo fu quello di integrazione e di sintesi.

L'allegoria gnostica, sebbene spesso di questo tipo convenzionale, negli esempi più espressivi è di natura del tutto diversa. Invece di adottare il sistema di valori del mito tradizionale, cerca di sperimen­tare una "conoscenza" più profonda rovesciando le parti trovate nel­l'originale di buono e cattivo, sublime e vile, benedetto e maledetto. Non tenta di dimostrare consenso, ma, sovvertendo in modo clamoro­so, tenta di scuotere il significato degli elementi della tradizione più saldamente stabiliti e di preferenza maggiormente venerati. Non può passare inosservato il tono ribelle di questo tipo di allegoria, ed essa perciò esprime la posizione rivoluzionaria che lo gnosticismo occupa nella tarda cultura classica.

Dei tre esempi che prenderemo in esame, due riguardano argo­menti presi dall'Antico Testamento, il quale fornisce il materiale pre­ferito per i travisamenti gnostici di significato, e il terzo si serve di un motivo tratto dalla mitologia greca.

 

eva e il serpente

 

Abbiamo già incontrato sopra (par. i, n, pp. 91; 103) l'interpreta­zione gnostica del sonno di Adamo nell'Eden, la quale implica una concezione molto poco ortodossa dell'autore circa questo sonno e il giardino nel quale ha luogo la scena. L'Apocrifo di Giovanni dà forma esplicita a questa revisione comprensiva del racconto della Genesi, in cui si afferma che esso è una rivelazione del Signore al discepolo Giovanni. A proposito del giardino:

 

 

"Il primo Arconte (Ialdabaoth) portò Adamo (creato dagli Arconti) nel pa­radiso che gli disse essere una "delizia" 38 per lui; cioè, aveva intenzione di in­gannarlo. Perché la loro (degli Arconti) delizia è amara e la loro bellezza è illeci­ta. Lo loro delizia è inganno e il loro albero era inimicizia. Il loro frutto è veleno contro il quale non vi è rimedio, e la loro promessa è morte per lui. Tuttavia il loro albero fu piantato come "albero della vita"; ti svelerò il mistero della loro "vita": è il loro Spirito contraffatto, che ha origine da essi per tenere Adamo lontano" cosicché egli non conosca la sua perfezione" (Apocrifo di Giovanni  55,18 - 56,17)

 

 

A proposito del sonno:

 

 

"Non come disse Mosè "Lo fece dormire", ma egli coprì la sua percezione con un velo e lo rese pesante per l'incapacità di percezione, perché egli disse a se stesso per bocca del profeta (Isaia 6,10): "Renderò sorde le orecchie dei loro cuori, affinché non possano comprendere e non possano vedere" (Apocrifo di Giovanni 58,16-59,5).

 

 

Nella stessa vena di opposizione è la concezione gnostica del serpen­te e la sua funzione nell'indurre Eva a mangiare il frutto. Per più di una ragione, tra le quali una non di poco conto è la menzione della "co­noscenza", il racconto biblico esercitò grande attrazione sugli Gnosti­ci. Essendo il serpente a persuadere Adamo ed Eva a mangiare del frutto della conoscenza e quindi a disubbidire alloro Creatore, esso venne a rappresentare in tutto un gruppo di sistemi il principio "Pneumatico" che contrasta dall'aldilà i disegni del Demiurgo, e così tanto più in grado di diventare un simbolo dei poteri di redenzione, quanto il Dio biblico era stato degradato a simbolo di oppressione cosmica.

In realtà, più di una setta gnostica ha derivato il nome dal culto del serpente ("Ofiti" dal greco ophis; "Naasseni" dall'ebraico nahas – il gruppo nel suo insieme è chiamato "ofitico"); e tale posizione del serpente è basata su un' audace interpretazione allegorica del testo bi­blico. Ecco la versione data da Ireneo nella sua esposizione riassunti­va della concezione ofitica (I, 30, 7): la Madre oltremondana, Sophia­ Prunikos, che cerca di contrastare l'attività demiurgica del figlio apo­stata Ialdabaoth, manda il serpente a "sedurre Adamo ed Eva e in­durIi a disobbedire al comando di Ialdabaoth". Il piano riesce, en­trambi mangiano dell' albero "del quale Dio [cioè il Demiurgo] aveva proibito loro di mangiare. Ma dopo che essi ebbero mangiato, conob­bero il potere dell' al di là e si allontanarono dai loro creatori", È il primo successo del principio trascendente contro il principio del mon­do, il quale è vitalmente interessato ad impedire la conoscenza nel­l'uomo, come ostaggio della Luce all'interno del mondo: l'azione del serpente segna l'inizio della gnosi sulla terra, che perciò per la sua stessa origine è segnata come opposizione al mondo e al suo Dio, e in­vero come una forma di ribellione.

I Perati, di un'estrema coerenza, non hanno esitato a considerare il Gesù storico come una particolare incarnazione del "serpente uni­versale", ossia il serpente del Paradiso inteso come principio. Nell'Apocrifo di Giovanni, gnostico-barbeliota (non-ofitico), tale identificazione, che diviene inevitabile nello svolgimento dell' ar­gomentazione, è evitata di stretta misura giocando sulla differenza tra "albero della vita" e "albero della conoscenza del bene e del male": Cristo infatti invita l'uomo a mangiare di quest'ultimo contro il co­mando degli Arconti, mentre il serpente, identificato con Ialdabaoth, spingendo l'uomo verso l'altro albero, è lasciato al suo compito tradi­zionale di corruttore (questo, in maniera non troppo convincente, in risposta alla domanda allarmata dei discepoli: "Cristo, non è stato il serpente che l'ammaestrò?"). Perciò, evitando così l'identificazione delle due figure simboliche, solo una parte della funzione del serpente è stata attribuita a Cristo. I Valentiniani d'altra parte, sebbene non abbiano coinvolto Gesù nell' azione svoltasi in Paradiso, tracciarono un parallelo allegorico tra lui e il frutto dell' albero: essendo stato ap­peso ad un "legno", egli "divenne un Frutto della Conoscenza del Padre, che tuttavia non portò rovina a coloro che ne mangiarono" (Evangelium Veritatis 18,25 s.). Non si può decidere con certezza dall'esempio citato se la negazione mette semplicemente in contrasto il nuovo avvenimento e il vecchio (secondo la maniera di san Paolo), oppure se intende rettificare il racconto stesso della Ge­nesi. Ma questa seconda ipotesi si verifica chiaramente in altri passi ed è certa­mente secondo la maniera gnostica (cfr. il ripetuto, brusco "non come Mosè dis­se" nell'Apocrifo di Giovanni).

Al tempo di Mani (III secolo) l'interpretazione gnostica della sto­ria del Paradiso e la connessione di Gesù con essa era così fermamen­te stabilita, che egli poté mettere semplicemente Gesù al posto del serpente senza neanche menzionare quest'ultimo: "Egli fece alzare (Adamo) e gli fece mangiare dell'albero della vita" (cfr. sopra, par. n, p. 102). Ciò che una volta era stato una cosciente arditezza di allegoria era diventato un mito indipendente che poteva essere sfruttato senza alcun riferimento al modello. originale (e forse nemmeno un ricordo di esso). La genesi rivoluzionaria di codesto motivo a quest'epoca era probabilmente del tutto dimenticata. Il che mostra che l'allegoria gnostica, a differenza di quella degli Stoici o della letteratura sincreti­stica in genere, era essa stessa la fonte di una nuova mitologia: questa è il veicolo rivoluzionario del suo emergere nei confronti di una tradi­zione inveterata; e poiché cerca di sopraffare quest'ultima, il principio di tale allegoria deve essere il paradosso e non la coerenza.

 

caino e il creatore

 

Appartiene ugualmente al circolo ofitico l'esempio seguente, trat­to dalla relazione di Ippolito sui Perati (Refutationes V, 16,9 s.):

 

 

"Questo Serpente universale è anche la Parola sapiente di Eva. Questo è il mistero dell'Eden: questo è il fiume che scorre dall'Eden. Questo è anche il se­gno con cui è stato marcato Caino, il cui sacrificio non fu accettato dal dio del mondo, mentre egli accettò il sacrificio sanguinoso di Abele: perché il signore di questo mondo si diletta del sangue. Questo Serpente è quello che apparve in for­ma umana negli ultimi giorni al tempo di Erode ...".

 

 

L'elevazione di Caino a simbolo Pneumatico e ad una posizione onorata nella linea che porta a Cristo, Caino che è il prototipo del reietto, condannato da Dio ad essere "fuggitivo e vagabondo" sulla terra, è senza dubbio una sfida intenzionale a valutazioni inveterate. Questo optare per l'"altra" parte, per ciò che è tradizionalmente in­fame, è un metodo eretico, molto più serio di una presa di posizione puramente sentimentale per la parte più debole, senza considerare il puro indulgere alla libertà speculativa. È evidente che l'allegoria, mezzo di per sé rispettabile per armonizzare, è diventata in questo caso una bravata di non-conformismo. Forse si dovrebbe parlare qui non di allegoria, ma di una forma di polemica, cioè non di esegesi del testo originale, ma di una tendenziosa rielaborazione del testo. In realtà, gli Gnostici in tali casi non avevano la pretesa di chiarire il ve­ro significato dell'originale, se con "vero" si vuol significare il senso inteso dall' autore, visto che questo autore, direttamente o indiretta­mente, era il loro grande avversario, l'ignorante dio-creatore. La loro inconfessata pretesa era piuttosto quella di ritenere che l'autore di scarsa vista avesse involontariamente immesso qualche cosa della veri­tà nella sua visione partigiana della realtà, e che questa verità potesse essere portata in luce sovvertendo completamente il senso inteso dal­l'autore.

La figura di Caino, da cui una setta gnostica ha preso il nome (a proposito dei Cainiti, cfr. Ireneo, Adversus Haereses I, 31,2), è soltanto l'esempio più evi­dente della messa in opera del metodo. Nella costruzione di una serie completa di tali controfigure, che si prolunga per secoli, una visione da ribelli della storia come un tutto viene deliberatamente opposta a quella ufficiale.

Codesto parteggiare per Caino viene esteso in modo coerente a tut­te le figure scritturistiche di "reietti": il passo citato prima continua con un' analoga elevazione di Esaù, il quale "non ricevette una benedi­zione cieca, ma divenne ricco di fuori senza accettare nulla dal cieco" (loc. cit. 9); e Marcione, che l'odio per il dio-creatore dell' Antico Testa­mento aveva portato alle conclusioni più radicali sotto tutti gli aspetti, insegnò che Cristo era disceso all'inferno al solo scopo di redimere Cai­no e Korah, Dathan e Abiram, Esaù e tutte le nazioni che non avevano riconosciuto il Dio degli Ebrei, mentre Abele, Enoch, Noè, Abramo, ecc., i quali avevano servito il creatore e la sua legge e avevano ignorato il vero Dio, erano stati lasciati giù.

 

prometeo e zeus

 

Il terzo esempio viene aggiunto soprattutto per mostrare che si tratta qui di un principio generale dell' allegoria gnostica e non soltan­to di un atteggiamento particolare verso l'Antico Testamento. E pur vero che la degradazione blasfema dell' Altissimo, della religione ante­riore, fino al punto di farne un principio demoniaco con la conseguente revisione della posizione dei suoi amici e nemici, trova il suo materiale preferito nella tradizione giudaica: solamente là il prestigio dell'originale sacro, l'importanza delle sue pretese, la devozione dei suoi fedeli, diedero al rovesciamento gnostico il sapore di provocazio­ne e scandalo, che era proprio l'effetto desiderato dal nuovo messag­gio. Con gli dèi dell'Olimpo l'immaginativa letteraria poteva sbizzar­rirsi più liberamente senza recare oltraggio ai sentimenti di pietà. Essi non erano presi troppo sul serio, anche dai loro seguaci più formalisti, e nell'insieme furono ignorati dagli Gnostici: tuttavia la posizione di Zeus come il più eccelso degli dèi del pantheon era abbastanza degna di riverenza da rendere la sua degradazione una faccenda grave, per­ciò anch'egli fu sottoposto occasionalmente allo stesso trattamento ri­servato al Signore biblico della Creazione.

L'alchimista Zosimo nel suo trattato Omega divide il genere umano tra coloro che sono "sotto" e coloro che sono "sopra" l'heimarméne, e chiama gli ultimi la "tribù dei filosofi": costoro, egli dice, sono "sopra l'heimarméne in quanto né sono rallegrati dalle sue fortune, perché dominano i loro piaceri, né sono depressi dalle sue disgrazie ... e nemmeno accettano gli splendidi doni che essa offre". Degli altri egli dice che "seguono nel corteo dell' heimarméne" e sono "sotto tutti gli aspetti i suoi acco­liti". Quindi continua con un' allegoria: per questo motivo Prometeo consiglia Epimeteo, in Esiodo (Erga, I, 86 s.), ""di non accettare un dono da Zeus Olimpico, ma di restituirlo", così egli insegna a suo fratello per mezzo della filosofia a rifiutare i doni di Zeus, ossia del­l'heimarméne". È l'identificazione di Zeus con l'heimarméne che fa della citazione di Esiodo un' allegoria gnostica. L'identificazione im­plica quella parallela di Prometeo, suo sfidante e vittima, con il tipo dell'uomo "spirituale" la cui lealtà non è per il dio di questo mondo, ma per il dio trascendente.

Così in modo paradossale la condizione di Zeus come principio più alto del cosmo è presa dalla tradizione, ma con valori rovesciati: poiché l'oppositore di Prometeo è il governatore cosmico, il commen­tatore prende le parti del ribelle e fa di quest'ultimo l'incarnazione di un principio superiore a tutto l'universo. La vittima dell' antica mitologia diventa il portatore del messaggio della nuova. Qui di nuovo l'allegoria urta deliberatamente la pietà di un'intera cultura religiosa radicata nell' ambiente ellenistico. E opportuno notare che identifica­re lo Iupiter Summus Exsuperantissimus della religione imperiale con l'heimarméne non significa in realtà sottovalutarlo, perché la necessità del destino cosmico è un aspetto legittimo del suo potere divino. Il punto è che la nuova valutazione gnostica del cosmo come tale (per cui heimarméne ha preso il significato di un simbolo repulsivo) ha por­tato con sé lo scadimento della sua eccelsa divinità, ed è appunto per il suo potere cosmico che Zeus è divenuto oggetto di disprezzo. Se volessimo parlare anche noi in termini di mitologia, potremmo dire che Zeus subisce ora il destino a cui ha condannato i suoi predecesso­ri e che la rivolta dei Titani contro la sua legge consegue una vittoria ritardata.

 

 

 

Gnosi, catarsi, salvezza misterica, estasi nell'antichità e nel cristianesimo delle origini

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Definizioni di gnosi

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Il termine gnosi vuol dire, alla lettera, conoscenza, ma è diven­tato tecnico per indicare quella particolare forma di conoscenza misti­ca che fu propria sia di alcune correnti religioso-filosofiche del tardo paganesimo, sia di alcune sette eretiche ispiratesi al Cristianesimo. Ecco La definizione che ne dà il Festugière (Hermétisme et mystique paienne, Paris 1967, p. 48): "gnosi indica una nuova maniera di co­noscere Dio, una Conoscenza non più fondata sulla ragione, ma che è una sorta di illuminazione diretta, in cui si entra in contatto con Dio, e quindi una sorta di rivelazione", Il Festugière precisa, ulte­riormente, che, secondo questo modo di conoscenza, "Dio, essenzial­mente inconoscibile per natura, non può essere conosciuto se non perché si rivela e perché si dà a vedere. Ora, non si può ottenere que­sta visione se non mediante la preghiera e il culto: donde la formula novit qui coluit, È a forza di adorare Dio, che si finisce con il cono­scerlo. Or dunque, la conoscenza non viene più al termine di un sillogismo, essa non coincide più con l'esercizio di ragione. Essa non si ot­tiene se non con una attitudine di preghiera, con uno spirito costante di preghiera che porta, in ogni occasione, a rivolgersi verso Dio"

Il termine "gnosi" significa "conoscenza" o, più propriamente, la conoscenza di sé, e deriva dall'antica etimologia indo-europea jñā, da cui deriva anche il sostantivo sanscrito jñana. Si tratta di una conoscenza immediata, integrale, salvifica, distinta dalla conoscenza parziale e debole di sé che deriva dalla percezione dei sensi o dal ragionamento. Coloro che accedono a questa conoscenza sanno cosa sia e sono quindi in grado di integrarla nel suo vero statuto ontologico; nel Vangelo della Verità si legge: "Dunque, se uno possiede la conoscenza è un essere dall'alto […] Sa per quale scopo è chiamato. Poiché possiede la conoscenza, egli compie la volontà […] Può conoscere il nome di ogni cosa. Chi possiede la conoscenza sa da dove viene e dove va. Egli sa, allo stesso modo di uno che essendo stato ubriaco si è liberato dell'ubriachezza ed essendo tornato in sé mette in ordine le cose che gli appartengono"

L'epifania divina, vale a dire la manifestazione del divino, e la nascita spirituale sono due facce della stessa medaglia… Le visioni teofaniche si presentano come eventi dell'anima; questa esperienza ha carattere "docetista", è lo stesso essere a conoscersi; il docetismo ruota attorno all'idea di un'"apparizione reale", vale a dire di una realtà che si presenta nei modi in cui può essere compresa dall'anima. Per Jung ciò che interessa della storia di Cristo non è la sua vita ma cosa produce in chi ne contempla il mistero. E' un grossolano riduzionismo intendere una tale affermazione in modo esclusivamente soggettivo o psicologista.

In tutti i casi la nascita avviene attraverso la conoscenza di sé, vale a dire dell'anima, dal momento che chi conosce se stesso conosce Dio. ma tale conoscenza prevede dei gradi. Col termine hadd ("limite", "orizzonte") l'ismailismo si riferisce al massimo livello di comprensione a cui può accedere la conoscenza di sé per ciascuno dei gradi. Lo hadd il limite corrisponde al mahdud, il limitato, è il signore, il Sé del proprio mahdud

E' una conoscenza che si alza di orizzonte in orizzonte, di angelo in angelo; una conoscenza del cuore o gnosi perfetta, conoscenza salvifica che redime attraverso l'autosvelamento e un'ascensione ontologica che conduce a ciò che supera ogni forma e ogni limite. Religione della resurrezione che penetra nel significato nascosto della parola e trascende la religione positiva, possibile solo quando i testi della religione positiva vengano riletti esotericamente, vale a dire come evento dell'anima. E' suggestiva la modifica del testo evangelico: "Se dunque presenti la tua offerta all'altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, e va prima a riconciliarti con il tuo fratello; poi torna a offrire il tuo dono" (Mt 5, 23-24). Carpocrate lo interpreta sottolineando chela rima riconciliazione è con se stessi e può essere raggiunta solo attraverso una gnosi. E' una risposta alla "Morte di dio". Dio è morto perché gli uomini lo hanno rarefatto fino a una mera astrazione o una mera concretezza. L'uomo occidentale, lasciando l'esilio, cesserà di vagabondare e, in quanto pellegrino consapevole, ritroverà la ierostoria di cui l'anima è la protagonista e anche lo spazio di riconduzione.

 

 

I vangeli gnostici fanno riferimento ad espressioni dei vangeli canonici che adombrano l'esistenza di insegnamenti segreti

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la sapienza nell'oriente antico e la sapienza personificata nell'antico testamento

 

La ricerca della sapienza è comune a tutte le civiltà dell'oriente antico. Quando Israele si apre alla riflessione sapienziale già da molto tempo i popoli circostanti conoscono questa riflessione e la praticano.

Ma si tratta di una sapienza non gnostica, ottenuta mediante riflessione e una sofferta esperienza di vita, come si può vedere dalla nutrita letteratura sapienziale egizia. Nella Bibbia la sapienza ha in gran parte questo significato: sapienza sul destino dell'uomo e sul suo rapporto con dio rivelata da dio; sapienza sulle leggi di dio; contemplazione della grandezza delle opere di Dio; sapienza di vita (Ecclesiaste). La sapienza inizia ad avvicinarsi alla gnosi nel momento in cui, dagli scribi post-esilici, viene personificata come sapienza eterna, esistente da prima della creazione, che ha assistito Dio nella creazione con "peso, numero e misura". Questa sapienza, che si identifica col logos o parola creatrice di Dio, chiaramente non è comunicabile  se non per gnosi. Essa continua a governare l'universo. E' ugualmente la provvidenza che dirige la storia e assicura agli uomini la salvezza. Questa sapienza personificata è tuttavia, ancora in gran parte una sapienza mondana, "posseduta dai re e dai giusti", "che dona prudenza e successo".

 

i passi evangelici in cui si parla della "sapienza"

 

 

"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5, 1-16)

 

 

"Allora alcuni Scribi e Farisei lo interrogarono: 'Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno'. Ed egli rispose: 'una generazione perversa ed adultera pretende un segno!' […] La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!" (Mt 12, 38-42)

 

 

"Gesù disse: "Ecco, il seminatore uscì a seminare […] Una parte dei semi cadde sulla terra buona e diede frutto […] Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta la parabola del regno e non la comprende viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore […] Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta" (Mt 13, 18-23)

 

 

"Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabola e non parlava a essa se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: "Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo" (Mt 13, 24-52)

 

"Chi ha orecchie intenda!" (Mt. 13, 24-52)

 

 

"In principio era il Verbo / e il Verbo era  presso Dio: / tutto è stato fatto per mezzo di lui, / e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. / In lui era la vita / e la vita era la luce degli uomini; / la luce splende nelle tenebre, / ma le tenebre non l'hanno accolta. / Venne un uomo mandato da Dio / e il suo nome era Giovanni. / Egli venne come testimone / per rendere testimonianza alla luce, / perché tutti credessero per mezzo di lui. / Egli non era la luce, / ma doveva rendere testimonianza alla luce. / Veniva nel mondo / la luce vera, / quella che illumina ogni uomo. / Egli era nel mondo, / e il mondo fu fatto per mezzo di lui, / eppure i mondo non lo riconobbe. / Venne fra la sua gente, / ma i suoi non l'hanno accolto. / A quanti però l'hanno accolto, / ha dato potere di diventare  figli di Dio: / a quelli che credono nel suo nome, / i quali non da sangue, / né da volere di carne, / né da volere di uomo, / ma da Dio sono stati generati. / E il verbo si fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi; / e noi vedemmo la sua gloria, / gloria come di unigenito dal Padre, / pieno di grazia e di verità" (Gv 1, 1-14)

 

 

"Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Gv 14, 1-6)

 

 

 

"In quel tempo Gesù disse: 'Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11, 25-27)

 

 

"Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta non avrebbero crocefisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: 'quelle cose che ovvio non vide né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano'. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. […] Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L'uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello spirito. L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. 'Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?'. Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo. (1 Corinzi 2, 1-16)

 

 

"Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, come anch'io sono conosciuto" (1 Corinzi 13, 1-13)

 

 

"Egli è immagine del dio vivente, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelli nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati, Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del Corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli (Colossesi 1, 15-20).

 

"La sapienza che viene dall'alto […] è innanzi tutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia" (Giacomo 3, 13-18)

 

 

"Sono anch'io convinto per quel che vi riguarda che siete colmi di ogni conoscenza (gnoseos)" (Lettera ai Romani, 15,14)

 

 

Socrate e la conoscenza di sé

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Seguendo la linea di sviluppo del pensiero sofistico greco si vede che tutte le con­traddizioni, le aporie, le incertezze dei Sofisti, e infine lo scacco matto cui andarono incontro tutti i tentativi da essi esperiti, dipendevano sostanzialmente dall'aver parlato dei problemi dell'uomo senza aver indagato in modo adeguato la natura o essenza dell'uomo, ovvero dall'averla determinata in maniera del tutto inadeguata. Ebbene, diversamente dai Sofisti, Socrate riuscì a far questo, e vi riuscì in una misura tale da poter dare alla problematica dell'uomo un significato decisamente nuovo.

Che cos'è dunque l'uomo? La risposta socratica è final­mente inequivoca: l'uomo è la sua anima, dal momento che è l'anima che distingue l'uomo da qualsiasi altra cosa.

Si obietterà che la letteratura e la filosofia greca avevano da secoli parlato di psyché: ne aveva parlato Omero, ne ave­vano parlato gli Orfici, ne avevano parlato i Fisici e ne avevano parlato altresì i poeti lirici e tragici. Ma, come è stato di recente messo in luce, nessuno prima di Socrate ave­va inteso per anima ciò che invece intese Socrate e, dopo So­crate, tutto l'Occidente. Per Omero l'anima era lo spirito nel senso di "fantasma" che abbandonava l'uomo alla sua morte, per andarsene come larva vana e inconsapevole a vagolare senza scopo nell'Ade; per gli Orfici era invece il demone che espiava in noi la colpa, e che era tanto più se stesso quanto più si staccava dall'io consapevole, ed era tanto più attivo quanto più si affievoliva e scompariva la nostra coscienza (quindi nel sonno, nello svenimento e nella morte); per i Fisici era invece il principio o un momento del princi­pio (quindi acqua, aria, fuoco): infine, per i poeti essa restava qualcosa di assai indeterminato e comunque mai teoreticamen­te definito 16. Per contro, l'anima per Socrate vien fatta coincidere con la nostra coscienza pensante e operante, con la nostra ragione e con la sede della nostra attività pensante e eticamente operante. In breve: per Socrate l'anima è l'io consapevole, è la personalità intellettuale e morale.

E, con questo, è già detto tutto quanto occorre per capire la rivoluzione operata da questa intuizione socratica: la vita dell'uomo acquista il suo giusto senso solo ora, perché la stessa "vita orfica" e la stessa "vita pitagorica" con la loro dottrina della "purificazione", in sostanza tendevano a puri­ficare un'anima-demone che era altro dall'io, dalla coscienza, dal soggetto, scindendo cosi e lacerando l'unità dell'uomo. Ha detto molto bene il Taylor: "Evidentemente, quel che occorre per lo sviluppo di una moralità e di una religione "spirituali" è che l'insistenza orfica sulla suprema importanza del "preoccuparsi degli interessi della psyché" sia congiunta con la identificazione di questa psyché supremamente pre­ziosa con la sede della normale intelligenza e carattere indi­viduale. Questo è precisamente il passo avanti che si realizza nella dottrina dell'anima professata da Socrate, sia in Platone che in Senofonte, ed è non meno per questa rottura con la tradizione orfica che per l'aver dato alla condotta della vita il posto centrale che i pensatori precedenti avevano dato alla astronomia e alla' biologia, che Socrate, secondo l'abusa­tissima frase ciceroniana "portò la filosofia dal cielo giù sulla terra". In altre parole, ciò che egli fece fu di creare precisa­mente la filosofia come qualche cosa di distinto insieme dalla scienza naturale [dei Fisiologi] e dalla teosofia [degli Orfico-­pitagorici], o da un qualsiasi amalgama delle due, e di ottenere questo risultato una volta per sempre". Per cui ben si può dire che "Socrate ha creato la tradizione morale e intellettuale della quale l'Europa ha sempre vissuto da allora"

 

 

I  misteri antichi

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Orfismo

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Le dottrine orfiche fanno l'ingresso in Grecia nel sesto secolo avanti cristo. La maggior parte dei frammenti di dottrina orfica (circa 600) è tramandata dalla tarda antichità

Le opere di Pindaro sono imbevute di orfismo. Gli orfici ritenevano che l'anima fosse una scintilla divina imprigionata nel corpo, e che con il corpo che dorme si risvegli.

L'orfismo è una credenza rivoluzionaria per la Grecia, elemento di un nuovo schema di civiltà. Si incomincia a parlare della presenza nell'uomo di qualcosa di divino e non mortale, che proviene dagli dei ed alberga nel corpo stesso, di natura antitetica a quella del corpo, di guisa che esso è veramente se stesso quando il corpo dorme o addirittura si appresta a morire, e dunque quando allenta i vincoli con esso e lo lascia in libertà

La concezione orfica dell'uomo è dualistica, contrappone l'anima immortale al corpo mortale e considera la prima come il vero uomo o meglio ciò che nell'uomo veramente conta come tale. Questa è una concezione di genesi squisitamente orfica.

Il corpo è la tomba dell'anima, mentre L'anima è divina e in alcune laminette auree si legge "sarai dio anziché mortale"

Gli orfici credevano nella metempsicosi e nel suo valore morale della metempsicosi: se fai qualcosa di male ti sarà fatto altrettanto in una vita successiva, perché tu impari ad astenertene.

La letteratura greca anteriore al VI secolo parla di castighi e e premi nell'aldilà ma solo in un senso molto ristretto: si tratta di castighi per alcune colpe eccezionalmente gravi e premi per meriti eccezionali e soprattutto di destini che toccano pochissimi individui. In Omero agli uomini del presente non tocca né premio né castigo.

Un importante mito orfico è quello di Dioniso e dei Titani. I titani sbranano Dioniso per vendicarsi di Zeus e questi li incenerisce e dalla loro cenere nacquero gli uomini. I titani sono il corpo, Dioniso è la scintilla divina

Le cerimonie consistevano nel rivivere il mito di Dioniso, ma si compivano anche riti e pronunciavano formule di carattere magico. Si seguivano anche in seguire regole morali, come non mangiare carne

 

Oracoli Caldaici

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Opera in esametri di cui ci sono pervenuti numerosi frammenti. L'autore indicato dalle fonti antiche è Giuliano il Teurgo, figlio di Giuliano detto "il caldaico", vissuto all'epoca di Marco Aurelio (II sec). Giuliano dichiara di averli ricevuti dagli dei. Il Dodds dice che questi discorsi confusi sembrano quasi discorsi prodotti da un medium ispirato da "spiriti guida".

Anziché alla sapienza egizia si ricollegano a quella babilonese. Il culto del sole e del fuoco caldaico vi gioca un ruolo fondamentale. Sono affini al Corpus Hermeticum. Al vertice c'è il Padre che pare identificarsi col primo intelletto e identificano le idee platoniche con i suoi pensieri. O forse padre e intelletto paterno sono distinti. Non è l'intelletto primo l'artefice del mondo ma un secondo intelletto che deriva dal primo. Terza nell'ordine viene l'anima identificata con Ecate. E' di origine divina, può ritornare a dio quando perfettamente purificata. Nella discesa si rivestono di una sorta di veicolo o materia Pneumatica. Esistono anche frammenti di tipo neopitagorico che parlano di triadi; il padre è anche detto monade triadica; l'organizzazione triadica si riflette sulla realtà

Gli Oracoli Caldaici sono una fonte importante di conoscenza delle pratiche Teurgiche della tarda antichità.

 

Mithraismo

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Mithra è un dio solare dell'area indo-iranica, anello di congiunzione tra la civiltà e religione avestico-zoroastriana e quella vedico-induista. Già nell'Avesta, il testo sacro mazdeista, Mitra è strettamente associato al sole, un dio guerriero e un giudice infernale, ha mille orecchie e diecimila occhi. Persino nei territori dell'Impero Romano, attorno al I sec. a. C., si diffuse un culto misterico associato alla figura di Mitra. Negli antichi inni vedici appare raramente (una sola volta nel Rigveda) quale dio singolo. Solitamente è associato a Varuna (nella figura di Mitravaruna): insieme, i due dei  detengono la sovranità  dell'universo e ne garantiscono l'ordine. Mentre Varuna rappresenta la notte e la forza ed è giudice severo e terribile, Mitra, il cui nome significa "amico", rappresenta il giorno e l'aspetto benevolo della divinità, veglia sugli accordi e sui contratti e garantisce la concordia tra gli esseri umani.

Il Mitraismo, che si identifica col culto del Sole, deriva una grande forza morale dall'antico principio persiano dell'eterno combattimento  del bene contro il male. Grazie a Mitra l'iniziato passa attraverso le sette sfere planetarie (i sette gradi di iniziazione) in ognuna delle quali depone una passione umana per arrivare puro in cielo.

 

Neopitagorismo

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La revivescenza della filosofia pitagorica che si manifestò nel I secolo a. C. sia con la com­parsa di scritti pitagorici di falsa attribuzione (Detti Aurei, Simboli, Lettere, attribuiti a Pitagora), e di altri scritti attribuiti al lucano Ocello e ad Ermete Trismegisto sia con una fioritura di filosofi che dichiaravano di ispirarsi alle dottrine del pitago­rismo antico. Fra essi; Nigidio Figulo, Apollonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa e soprattutto Numenio di Apamea (I sec. d. C.). Le dottrine di questi scrit­tori non hanno nulla di originale ma presentano tratti che divennero propri del neoplatonismo.

I tratti peculiari del "mediopitagorismo" sono i seguenti.

1) Gli autori mediopitagorici tendono a far credere sco­perte di antichi Pitagorici dottrine posteriori, producendo una serie di scritti apocrifi contenenti quelle dottrine ed attri­buendoli ad antichi Pitagorici.

2) Essi dimostrano una assai scarsa coscienza della propria identità filosofica e appunto per questo sentono il bisogno di nascondersi dietro una maschera. Nei loro scritti manca un baricentro. Essi si limitano, spesso, a riprendere dottrine di Platone e di Aristotele, talora quasi di peso.

3) La dottrina dei supremi principi della Monade e della Diade o non è presente o è scarsamente sfruttata, e, soprat­tutto, non è ontologicamente approfondita.

4) Si riscontrano infiltrazioni materialistiche e immanenti­stiche; oppure, quando vengono agitate tematiche metafisiche, si nota che gli autori mancano del senso specifico della pro­spettiva ontologica e metafisica.

5) Alla mentalità del pitagorismo medio sono forse col­legati anche quei tentativi, che, rispetto a quelli degli pseu­doepigrafi, sembrano più evoluti e in parte più consape­voli, come ad esempio quello dell'Anonimo di Alessandro Poliistore, in cui la dottrina della Monade e della Diade e la conseguente dottrina dei numeri vengono esplicitamente svolte, ma vengono ad un tempo combinate con il materia­lismo stoico. Il motivo per cui siamo propensi ad assegnare a tale tipo di pitagorismo tali documenti sta nel fatto che i Pitagorici più recenti, i "neoteroi", sono antimaterialisti e sono in serrata polemica sia con l'atomismo epicureo, sia con il corporeismo e l'immanentismo della Stoa, in piena sintonia con il parallelo movimento medioplatonico .

Quali sono, allora, i caratteri di quello che solo, propria­mente, può denominarsi "neopitagorismo", ossia del pitago­rismo sicuramente databile fra la fine dell'era pagana e i primi due secoli dell'era cristiana?

1) I Neopitagorici veri e propri tendono, come s'è visto, a gettare la maschera e a presentarsi col loro nome e con il loro volto. Ma questo accade ormai in epoca imperiale. Naturalmente, questo non dovette avvenire di colpo, né in modo esclusivo. Alcuni degli stessi pseudoepigrafi, ad esempio, possono risalire a quest'epoca, in quanto recepiscono alcuni dei caratteri del pitagorismo di quest'epoca medesima, pur mantenendo anche i vecchi connotati.

2) I Neopitagorici hanno la precisa coscienza della loro identità, nella misura in cui la loro dottrina rivela un preciso baricentro. Si noti come, parallelamente alla progressiva acqui­sizione di questa coscienza, muti l'atteggiamento nei confronti di Platone e di Aristotele, nonché dei filosofi dell'età elleni­stica: mentre i più antichi autori di pseudoepigrafi si limitano ingenuamente a riferire ad antichi Pitagorici dottrine di Pla­tone e di Aristotele, l'Anonimo di Fozio ha già stabilito una regolare "diadochia", ossia una "successione", in cui Platone e Aristotele figurano come membri della scuola pitagorica:

 

 

Il nono successore di Pitagora [. .. ] fu Platone, il quale fu allievo di Archita il Vecchio; il decimo successore fu Aristotele.

 

 

Moderato di Gades e i Pitagorici più recenti rincarano la dose. Essi giungono addirittura ad accusare Platone, Aristotele e gli Accademici di mistificazione, ossia di essersi appropriati delle dottrine di Pitagora con poche modificazioni, ma senza dichiararlo e, anzi, citando la filosofia di Pitagora solo nei suoi aspetti più superficiali e deboli, al fine di screditarla. Riferisce Porfirio, attingendo da Moderato:

 

 

[. .. ] Platone, Aristotele, Speusippo e Aristosseno e Senocrate, al dire dei Pitagorici, si appropriarono con leggere modificazioni di quanto vi era di buono in quella filosofia; e riunirono le parti volgari e mal ferme e quanto fu escogitato successivamente dagli invidiosi calunniatori al fine di abbattere e irridere quella scuola e le lasciarono da un canto come proprie esclusivamente di tal setta.

 

 

Numenio, che pure, come vedremo, cerca di fondere pita­gorismo e platonismo, ritiene Pitagora non solo non inferiore, ma, sotto certi rispetti, addirittura superiore a Platone, e afferma che lo stesso Socrate fu discepolo di Pitagora.

Per quanto concerne, invece, il rapporto con le scuole ellenistiche, i Neopitagorici hanno piena consapevolezza di ciò che irrimediabilmente li divide da esse. Gli Anonimi di Sesto polemizzano espressamente, come sappiamo, contro il materia­lismo di Epicuro, mentre Numenio polemizza esplicitamente contro quello della Stoa.

3) Abbiamo cosi toccato uno dei caratteri più qualificanti del neopitagorismo, vale a dire La riscoperta e La riafferma­zione dell'"incorporeo" e dell'"immateriale", ossia il ricu­pero di quell'orizzonte che era stato perduto con i sistemi dell' età ellenistica. È questo uno dei principali meriti storici di questa corrente, la quale, insieme al medioplatonismo, ha preparato le basi della grande sintesi neoplatonica.

4) L'incorporeo non viene inteso dai Neopitagorici allo stesso modo dei Medioplatonici, ossia prevalentemente sulla base della metafisica del Nous di estrazione aristotelica e di quella delle Idee di estrazione squisitamente platonica, bensì sulla base della dottrina della Monade, della Diade e dei numeri. Tale dottrina è solo indirettamente pitagorica e si aggancia piuttosto alle speculazioni dell'antica Accademia di Speusippo e di Senocrate, che, partendo dalle dottrine del Platone esoterico, come abbiamo già più volte rilevato, avevano dato una piega accentuatamente matematica alla metafisica (già Aristotele lamentava che la filosofia dei suoi tempi era diventata appunto matematica). Tuttavia, la dot­trina dei numeri viene ripresa in una chiave che, rispetto all' Accademia, accentua maggiormente il loro carattere sim­bolico. I numeri esprimono, cioè, qualcosa di metanumerico, ossia principi più profondi, che, per la loro difficoltà, mal si prestano ad essere di per se stessi rappresentati, e che, invece, per mezzo dei numeri possono essere chiariti, nel senso che meglio vedremo più avanti.

5) La dottrina della Monade e della Diade viene. sotto­posta ad approfondimenti di un certo rilievo. A partire da una originaria formulazione che vedeva nella Monade e nella Diade la suprema coppia di contrari, si delinea una tendenza sempre più accentuata a porre la Monade in posizione di assoluto privilegio, distinguendo una prima da una seconda Monade e contrapponendo solo quest'ultima alla Diade, e anche cercando di dedurre tutta quanta la realtà dalla Monade suprema, compresa la stessa Diade (su questo punto, peraltro, la terminologia è oscillante: mentre alcuni chiamano Uno la prima Monade, altri chiamano invece Uno la seconda).

6) Alla dottrina delle Idee viene dato scarso rilievo e solo subordinatamente alla dottrina dei numeri, i quali, oltre­ché nel modo sopra accennato, vengono intesi in modo teolo­gico, anzi teosofico: si sviluppa, cioè, una vera e propria aritmologia o aritmosofia.

7) Per quanto concerne la concezione dell'uomo, i Neopi­tagorici richiamano in auge la dottrina della spiritualità del­l'anima e della sua immortalità (e, di conseguenza, anche la dottrina della metempsicosi viene ripresa e riaffermata). Il fine dell'uomo viene additato nel distacco dal sensibile e nell'unione col divino.

8) L'etica neopitagorica assume forti tinte mistiche; la stessa filosofia viene intesa come rivelazione divina e la figura ideale del filosofo, identificata in maniera paradigmatica in Pitagora, più che quella di un uomo perfetto diventa quella di un essere prossimo ad un Demone o ad un Dio, o, comun­que, quella di un profeta o di un uomo superiore che ha commercio con gli Dei.

Prima di passare all'illustrazione di questi singoli punti, dobbiamo chiarire un'ultima questione. Non è certamente esatto considerare Numenio un Medioplatonico, come molti fanno, ma non è neppure corretto considerarlo alla stregua degli altri Neopitagorici. Infatti, come vedremo, Numenio fonde insieme le due correnti di pensiero, e, per tale motivo, va trattato a parte, in quanto, con questo suo tentativo, anti­cipa, in una certa misura, il neoplatonismo.

 

Neoplatonismo

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La scuola filosofica fondata in Alessandria da Am­monio Sacca nel n secolo d. C. e che ha come suoi maggiori rappresentanti Plotino, Giamblico e Proclo, Il Neoplatonismo è una scolastica: è cioè l'utilizzazione della filosofia platonica (filtrata attraverso il neo­pitagorismo, il platonismo medio e Filone) per la difesa di verità religiose cioè di verità che si rite­nevano rivelate all'uomo ab antiquo e da lui ri­scopri bili nell'intimità della coscienza. I capisaldi del Neoplatonismo sono i seguenti:

1 ° il carattere rivelativo della verità, che perciò è di natura religiosa e si manifesta nelle istituzioni religiose esistenti e nella riflessione dell'uomo su se stesso;

2° il carattere assoluto della trascendenza di­vina, per il quale Dio, considerato come il Bene, è posto al di là di ogni determinazione conoscibile e ritenuto ineffabile;

3° la teoria dell'emanazione cioè della deriva­zione necessaria da Dio di tutte le cose esistenti, che diventano sempre meno perfette a misura che si allontanano da Lui; e la conseguente distinzione tra il mondo intelligibile (Dio, Intelletto e Anima del mondo) e il mondo sensibile (o materiale) che è un'immagine o parvenza dell'altro;

4° il ritorno del mondo a Dio attraverso l'uomo e la sua progressiva interiorizzazione. sino al punto dell'estasi cioè dell'unione con Dio.

Nel Neoplatonismo si sogliono distinguere: la Scuola Siriaca fondata da Giamblico; la Scuola di Pergamo alla quale appartenne fra gli altri l'imperatore Giuliano detto l'Apostata; e la Scuola di Atene il cui maggiore rappresentante fu Proclo. Ma le dottrine fonda­mentali del N. hanno avuto, e continuano ad avere, un 'influenza profonda su molti indirizzi del pen­siero filosofico.

Il "platonismo. del Rinascimento è in realtà un N. che ripete, con alcune variazioni, le tesi su esposte. Le variazioni che caratterizzano il N. ri­nascimentale (quello di Cusano, Pico e Ficino) sono relative alla maggiore importanza attribuita all'uomo e alla sua funzione nel mondo, conformemente a quello che è lo spirito generale del Rinasci­mento.

Una forma di razionalismo religioso è invece il Neoplatonismo inglese che fiorì nella scuola di Cambridge nel sec. XVII (Cudworth, Moore, Whichcote, Smith, Culverwel); che da un lato si oppone al materia­lismo di Hobbes e dall'altro sostiene che le idee fondamentali della religione sono state stampate direttamente da Dio nella ragione e nell'intelletto dell'uomo e perciò precedono la conoscenza empi­rica delle cose naturali. Ma anche nel N. inglese ritornano molti temi del N. rinascimentale, special­mente di Ficino.

 

Giamblico

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Nella giustificazione del politeismo Giamblico poteva avvalersi largamente dei risultati cui era pervenuta la pre­cedente speculazione medio- e neoplatonica nonché quella neopitagorica. Ma come era possibile giustificare quella teur­gia, che, sotto certi aspetti, pareva essere l'antitesi della filosofia e le cui pretese Porfirio aveva cosi lucidamente contestato?

Vediamo di determinare, in primo luogo, quale sia esat­tamente la concezione che Giamb1ico aveva della teurgia. Nel De Mysteriis veniva presentata come una pratica e anzi un'arte con cui mediante opportuni atti, simboli e formule, non compresi dalla umana ragione ma compresi dagli Dei, l'uomo poteva congiungersi con gli Dei medesimi e benefi­ciare dei loro influssi e della loro potenza. L'unione teurgica con la divinità e le relative pratiche necessarie per realizzarla erano dunque concepite come qualcosa che era decisamente meta-razionale. Il nostro filosofo scrive testualmente:

 

 

"quelle cose; infatti, in tal caso, esse sarebbero effetti della nostra intelligenza e dipenderebbero da noi; ma né l'una né l'altra cosa è vera. Infatti, senza che noi esercitiamo il nostro pensiero i segni stessi operano per virtù propria, compiono l'attività che è loro peculiare, e l'ineffabile potenza degli Dei, ai quali queste cose sono rivolte, di per se stessa riconosce le proprie immagini senza essere svegliata dall'attività del nostro pensiero [ ... ]".

 

 

Le obiezioni di Porfirio cadono, secondo Giamblico, se si tiene ben fermo che la teurgia è una attività al di sopra dell'intelletto e della ragione dell'uomo e quindi al di sopra delle facoltà razionali. Nella teurgia non è l'attività dell'uomo che sale agli Dei e li raggiunge, giacché, in tal caso, verrebbe compromessa la impossibilità degli Dei medesimi, come diceva appunto Porfirio; si tratta, invece, della stessa potenza divina che scende agli uomini, o, meglio, che libera gli uomini da questo mondo e li riporta agli Dei; si tratta, insomma, di una iniziativa degli Dei più che degli uomini.

Chiarisce molto bene questi concetti l'Hadot: "Se noi potessimo ottenere l'unione perfetta con gli Dei mediante la contemplazione, allora sarebbe mediante le nostre forze che noi raggiungeremmo il divino. Gli Dei sarebbero allora mossi da esseri inferiori. Al contrario, se essi stessi scelgono le pratiche, incomprensibili agli uomini, mediante le quali si può sperare di unirsi a loro, essi restano immobili in se stessi e mantengono loro l'iniziativa".

Chiunque ci abbia seguito fino a questo punto potrà facilmente comprendere che il costo di questa operazione tentata da Giamblico era altissimo. Essa significava esattamente la esplicita ammissione dell'incapacità della filosofia classica­mente intesa a condurre l'uomo al raggiungimento del suo fine supremo. Ancora Plotino, come abbiamo sopra rilevato, ribadiva la convinzione tutta greca nella possibilità per l'uomo di realizzare l'"unione" con il Divino me­diante le sue sole forze, mentre Giamblico nega ormai, a livello tematico, questa possibilità.

È evidente che nella teurgia e negli "atti e simboli indi­cibili" della teurgia, che la ragione umana non comprende ma che gli Dei comprendono, il Pagano cercava ciò che ormai era risultato chiaro che la ragione da sola non poteva dare e che i Cristiani indicavano nella Grazia e nei sacramenti, ma su ben diversi fondamenti e con ben diverse garanzie.

 

Rapporti tra la gnosi cristiana e la dottrina di Plotino

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Per comprendere il complesso quadro delle diverse com­ponenti culturali che concorsero alla formazione del pensiero plotiniano, resta ancora da dire, sia pure in breve, del pro­blema degli influssi della sapienza orientale, della filosofia mosaica di Filone di Alessandria, della Gnosi e del Cristia­nesimo. In che misura Plotino attinse a queste fonti?

Il preteso influsso dell'Oriente su Plotino è stato ampia­mente ridimensionato dagli studiosi moderni. D'altra parte, sappiamo che Plotino desiderò ardentemente avere diretta esperienza della filosofia quale era praticata dai Persiani e dagli Indiani, ma che, per le ragioni già dette, egli non poté venire a contatto con quelle fonti. Inoltre, il cosiddetto "emanazionismo" plotiniano non ha nulla a che vedere con il vero e proprio emanazionismo della sapienza orientale. Vedremo, anzi, che, propriamente parlando, la dottrina ploti­niana non è una forma di emanazionismo. Le fonti orientali di PIo tino si riducono a quelle largamente ellenizzate nel­l'ambiente alessandrino. Più che di contenuti specifici, si tratta di quello spirito mistico e religioso, frutto già di una mediazione e di una sintesi fra categorie orientali e occiden­tali: si tratta, insomma, di quello spirito da cui avevano tratto alimento tutte le correnti di pensiero esaminate, fiorite ad Alessandria a partire dal I secolo a.C.

Invece, non solo è probabile, ma è pressoché certo l'in­flusso di Filone Ebreo su Plotino. I libri di Filone, ad Ales­sandria, città cui egli aveva operato, erano certamente acces­sibili con facilità. In ogni caso, mediatamente, ossia tramite Numenio, Plotino dovette conoscere Filone. Di fatto, le analogie fra il pensiero filoniano e quello plotiniano sono notevoli. Lo stesso Zeller riconobbe, già a suo tempo, che, fra tutti i precursori di Plotino, Filone è addirittura quello che presenta le analogie più consistenti con il pensiero delle Enneadi. La concezione filoniana di Dio presenta numerose affinità con la concezione plotiniana dell' Assoluto. La dottrina del Logos e delle Potenze ha corrispondenze con la dottrina plotiniana della seconda ipostasi non solo nel contenuto con­cettuale, ma perfino in certe espressioni lessicali (l'espressione "cosmo intelligibile" coniata da Filone ritorna con le stesse valenze in Plotino). L'attività divina, creatrice di tutte le realtà intelligibili e dello stesso cosmo sensibile, intesa dina­micamente come manifestazione della potenza divina e come produzione di effetti da parte delle medesime, prefigura, sia pure in direzione parallela e non convergente, la processione plotiniana. La metafisica fìloniana dell'interiorità e la conce­zione del fine supremo dell'uomo posto nell'unione mistico­-estatica con Dio hanno, poi, piena corrispondenza nelle pagine delle Enneadi.

I rapporti di PIotino con la Gnosi furono di contrappo­sizione polemica. Naturalmente, dal confronto dialettico Plo­tino trasse un chiarimento delle proprie posizioni. Tuttavia, è da rilevare che i piani su cui si muovono gli Gnostici e Plotino sono diversissimi e che i positivi influssi dei primi sul secondo sono stati da alcuni studiosi indebitamente esal­tati, tanto più che non conosciamo con esattezza gli Gnostici cui Plotino si riferisce. Invece, ci sembra aver messo molto bene a fuoco il problema, di recente, uno studioso italiano, il Cilento, il quale ha precisato quanto segue:

 

 

"[ ... ] gli Gnostici e Plotino si muovono in contrastanti mondi di pensiero: la dottrina plotiniana è un serio tentativo di risolvere l'antico problema dell'Uno-Tutto, come cioè porre il supremo Princi­pio in relazione con l'Universo. Se pur si possa usare la parola emanazione, per Plotino , essa non ha proprio nulla in comune con le emanazioni gnostiche, le quali sono uno dei pochi esempi, nel pensiero europeo, di quella curiosa applicazione dell'immaginazione, in quanto essa ha di più sregolato e irrazionale, a problemi filosofici e teologici: il che è caratte­ristico di quella decadente trasposizione europea del pensiero indiano alla quale diamo il nome teosofia. Vi sono alcune tracce di questa contaminazione tra fantasia e ragione nel tardo neoplatonismo con la sua indiscriminata accettazione di ogni fittizia entità della astrologia caldea, sebbene persino qui il nativo razionalismo ellenico tenti, ingenuamente, le sue sistemazioni. Nulla di tale irrazionalità è in Plotino, neppure nel più alto ed estatico Plotino; poiché anche la sua mistica è, ellenicamente, dialettizzata. I sistemi gnostici, se pure meritano tal nome, sembrano essere ispirati in parte dal sincretismo dell'epoca, dal desiderio di trovare un posto nel loro mondo spirituale ad ogni sorta di essere occorrente nelle religioni soteriologiche o filosofiche delle quali essi avevano una qualche conoscenza; e, in parte, dalla passione orientale per la personificazione di idee astratte, caratteristica dell'età scolasticizzata, a cui i nomi barbarici degli Eoni portano testi­monianza [ ... ]. Altri tratti discriminanti la Gnosi da Plotino è che la produzione degli Eoni non è necessaria o eterna ma dipende dalla volontà del Primo Principio; e poi la sessualità, il "transfert" erotico sublimato al mondo spirituale, caratte­ristico della gnosi simoniana e valentiniana. Tra i Simoniani, una gran parte è affidata alla gran Madre, magna peccatrix, Elena terrestre, oscillante tra l'epos antico e il secondo Faust; mentre il Valentiniacesimo è una vera orgia di προυνιχια, di brame e di coppie. Da tutto ciò Plotino è lontano"

 

 

Ciono­nostante, dalla polemica antignostica Plotino trasse soprat­tutto la piena coscienza della positività del cosmo, che per la Gnosi è, invece, malvagio. Forse egli, da certe istanze della dottrina gnostica, fu indotto a porsi un problema, estraneo alla: precedente speculazione greca, che investe l'Assoluto stesso, ossia il problema del perché c'è il principio stesso e quale è la ragione del suo esserci. Ma la risposta che egli seppe dare, come vedremo, va ben oltre gli orizzonti della Gnosi e raggiunge le più alte vette cui il pensiero occidentale è pervenuto.

Plotino dovette avere rapporti anche con i Cristiani veri e propri. Porfirio parla della frequenza di numerosi Cristiani alle lezioni di Plotino, i. quali "inducevano molti in errore" nel sostenere che "Platone non aveva scandagliato la pro­fondità dell'essenza intelligibile", cosicché Plotino interve­niva spesso a confutarli. Ma questi Cristiani sono mescolati da Porfirio con gli Gnostici, o addirittura identificati in toto con essi. È certo, comunque, che Plotino prese espressa­mente posizione contro il dogma fondamentale della resurre­zione della carne. Lo stesso principio cardine del cristiane­simo del Dio che si fa carne, restando vero Dio e divenendo, insieme, vero uomo, non poteva essere da Plotino accolto né nel suo significato rivoluzionario di evento storico, né nel suo significato metafisico e teologico. Né poteva essere accolta la dottrina della Grazia soprannaturale. Plotino voleva piut­tosto portare l'uomo ad essere Dio. Inoltre, egli restava fer­mamente convinto che le forze dell'uomo sono a ciò suffi­cienti: l'unione mistica con Dio, ossia il raggiungimento del supremo telos dell'uomo, non avviene, come vedremo, tramite una grazia soprannaturale, ma per una naturale energia spiri­tuale, che rientra nella circolare dialettica della processione e del ritorno all'Assoluto.

 

La conoscenza immediata di Dio in Filone

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Il procedimento di conoscenza di Dio a posteriori, o, come dice Filone, "dal basso all'alto", consiste in una inferenza della ragione, che parte dalle cose, e, giudicandole incapaci di giustificare se medesime, risale a quella causa che sola può spiegarle, ossia consiste in un complesso lavoro di mediazione. Ma Filone ritiene che ci sia anche un altro modo di pervenire alla conoscenza dell'esistenza di Dio. Si tratta di un tipo di conoscenza che non sale dal basso all'alto, ma che proviene direttamente e immediatamente dall'alto. Tale conoscenza è riservata però agli eletti, e, precisamente, a coloro che sono "veri servi tori e amanti di Dio", ed è una conoscenza che, di sua iniziativa, Dio concede come dono a chi lo prega e se ne rende degno, come avvenne, in modo paradigmatico, a Mosè. Ecco un passo molto significativo:

 

 

Esiste anche una intelligenza più perfetta e maggiormente purificata, iniziata ai grandi misteri, la quale conosce la Causa non partendo dalle cose create, come si conosce dall'ombra l'og­getto che la produce, ma, sorpassato il creato, riceve una chiara manifestazione dell'Increato, di guisa che, a partire da quello, essa comprende e Lui e la sua ombra, ossia il Logos e questo cosmo. È Mosè che dice: "Manifestati a me, che ti veda chiaramente" (Esodo, 33, 13); non manifestarti a me attraverso il cielo, la terra, l'acqua, l'aria o, in genere, attraverso una creatura; che io possa vedere la tua Idea non in altro ma in Te, o Dio, giacché le manifestazioni negli esseri creati si disperdono, mentre nell'essere Increato permangono durevoli, stabili ed eterne. Per questo Dio chiamò Mosè e parlò con lui.

 

Ed ecco come, ulteriormente, Filone spiega questo tipo di conoscenza immediata:

 

 

Come possa avvenire questa visione diretta, mette conto chia­rirlo con un'immagine. Questo sole sensibile forse che non lo vediamo con nient'altro se non col sole stesso? E gli astri non li vediamo forse con nient'altro se non con gli astri stessi? E, in generale, la luce non si vede forse con la luce? Nello stesso modo, anche Dio, che è luce di se stesso, è contemplato mediante Lui solo, senza che null'altro cooperi o che sia in grado di cooperare alla chiara comprensione della sua esistenza. Orbene, i ricercatori che si sforzano di conoscere l'Increato e il Creatore di tutte le cose, partendo dalle cose create, fanno qualcosa di simile a coloro che ricercano l'unità partendo dalla dualità, e poi devono di nuovo considerare la dualità partendo dall'unità, perché questa è il prin­cipio; perseguono invece la verità coloro che si rappresentano Dio con Dio, la luce con la luce.

 

In questa conoscenza privilegiata dell'esistenza di Dio non è, propriamente, l'uomo che vede Dio, ma, piuttosto, è "Dio che si dà a vedere all'uomo". Insomma, si tratta di una iniziativa di Dio che viene all'uomo e gli fa "dono", come dicevamo, della visione di sé. Siamo, qui, di fronte ad un'idea completamente sconosciuta al pensiero filosofico greco: quella del dono gratuito che Dio può fare agli uomini per amore di essi. La conoscenza immediata, che Dio può donare all'uomo "dandosi a vedere", riguarda - si badi bene - soltanto la sua esistenza e non la sua natura o essenza, che, come già abbiamo ricordato, resta in-comprensibile all'uomo, giac­ché lo trascende infinitamente. Alla preghiera di Mosè, che invoca Dio affinché gli manifesti la sua natura, Dio risponde:

 

 

La tua sollecitudine è degna di lode e io l'approvo, ma la tua richiesta non è adeguata a nessuna delle cose che sono state create. lo concedo cose adeguate a chi le deve ricevere: infatti, non tutte le cose che per me son facili da donare è altresì possibile che l'uomo le riceva. Quindi, a colui che è degno della mia grazia io concedo tutti quei doni che è in grado di accogliere. Ma la com­prensione della mia essenza non solo la natura umana) ma neppure il cielo e il mondo intero potrebbero contenerla.

 

 

È chiaro, da questo testo, che la natura di Dio non può essere compresa dall'uomo a motivo della sua assoluta tra­scendenza: Egli trascende non solo la natura umana, ma altresì la natura del cielo e dell'universo tutto. Dio è il totalmente altro rispetto a tutto ciò che è a noi noto, o, per dirla con la stessa terminologia filoniana, "non c'è niente che sia simile a Dio". Anzi, Filone dice, addirittura, che Dio è al di sopra dello stesso Uno o Monade, che è al di sopra della vita, al di sopra della virtù, al di sopra della scienza, al di sopra dello stesso Bene. Le ripetute asserzioni del nostro filosofo, che Dio è "senza qualità" (apoios), vogliono dire appunto questo: che Egli è al di sopra di tutte le possibili determinazioni qualitative (Dio è al di là di qual­siasi forma e qualità). Dio trascende non solo l'essere e il mondo sensibile, ma anche gli enti e il mondo intelligibile, nella misura in cui come vedremo - è il creatore dell'uno e dell'altro. Pertanto, Dio è fonte di tutta la realtà; non è da nessuna parte e, ad un tempo, è dovunque, tutto riempie di sé e tutto contiene. La trascendenza ontologica di Dio comporta, necessariamente, anche la sua trascendenza gnoseologica, rendendolo inconoscibile all'uomo, e, per conseguenza, rendendolo altresì ineffabile, ossia non esprimibile e non designabile con nomi.

Questa dottrina, di cui ci sono tracce nella precedente speculazione, ma senza ile adeguate motivazioni e senza i relativi sviluppi, può considerarsi una novità di Filone, almeno nella precisa formulazione che egli le ha dato (la assoluta trascendenza dipende, in ultima analisi, dal concetto di creazione, assente nella precedente speculazione), e costi­tuisce la fondazione di quella che più tardi, nell'ambito della speculazione cristiana, verrà detta "teologia negativa". Essa non restò, tuttavia, senza influssi nell'ambito della filosofia pagana: la ritroviamo, infatti, nel Didaskalikos di Albino e, soprattutto, nelle Enneadi di Plotino. È interessante notare, tuttavia, il fatto che Filone racco­mandi di proseguire costantemente nella ricerca dell'essenza di Dio; infatti, anche se questa resta strutturalmente in­comprensibile, nondimeno, egli dice, l'uomo può giungere a cogliere alcune proprietà che ad essa si riferiscono, proprio come avviene per gli occhi, i quali, pur essendo incapaci di vedere il sole in sé, riescono tuttavia a cogliere' i suoi riflessi sulla terra e il tratto estremo dello splendore dei suoi raggi. In effetti, le varie proprietà di Dio cui Filone nei suoi scritti fa riferimento, o esprimono, in vario modo, la differenza radicale di Lui rispetto a tutte le altre cose, oppure esprimono alcuni aspetti della sua attività: in tal senso Dio è detto incorporeo, unico, semplice, autosufficiente, perfetto, immobile, immutabile, eterno, onnipresente, onnisciente, onnipotente (e dunque infinito), creatore e padre di tutte le cose, provvidente, rivelatore della legge, e cosi via 27. Vi è tuttavia un nome che, secondo Filone, designa Dio in maniera privilegiata, nel senso che non esprime semplice­mente una delle sue attività, o una delle sue potenze, ma, in qualche modo, ci avvicina alla scaturigine stessa delle sue attività e potenze. Questo nome è l'Essere o l'Ente o l'Essente. Il celebre passo dell'Esodo, in cui Dio risponde a Mosè che voleva sapere il suo nome, nella traduzione dei Settanta suona: "lo sono Colui che È", "lo sono l'Essente". Filone non sfrutta a fondo la valenza meta­fisica dell'espressione; tuttavia, non solo egli usa questo nome in modo sistematico, ma qua e là sembra ritenere che Dio si autodefinisca come l'Essere per eccellenza, in quanto è quell'Essere che è e sarà sempre, ed inoltre è quell'Essere che, per sua stessa natura, fa essere anche le altre cose, l'Essere che, essendo pienamente essere, è fonte di ogni altro essere.

 

 

Dio rispose a Mosè: "Di a loro che lo sono Colui che È (YHVH), affinché, conoscendo la differenza fra ciò che è e ciò che non è, imparino anche che non c'è assolutamente alcun nome che possa essere usato per designare me, io che sono il solo cui com­peta l'essere.

Quando Mosè domandò se c'è un nome per Colui che È, seppe chiaramente che Egli non ha un nome proprio (Esodo, 6, 3) e che se gli si dà un nome, ciò si fa commettendo un abuso. Colui che È non può per sua natura essere detto, ma solamente essere. Lo testimonia anche il sacro oracolo reso a Mosè (il quale cercava di sapere se Egli ha un nome) il quale dice: "lo sono Colui che È" (Esodo, 3, 14), affinché, dal momento che non ci sono proprietà di Dio che l'uomo possa comprendere, potesse conoscere la sua esistenza 29.

"Mosè prese la tenda e la piantò fuori dal campo" (Esodo, 33, 7): egli la collocò lontano dall'accampamento del corpo, spe­rando di poter essere solo in questo modo un .supplicante e un servitore perfetto di Dio. Egli dice che questa tenda si chiama tenda della Testimonianza e con tutta precisione: la tenda di Colui che È esiste e non solo è denominata. Fra le virtù, infatti, quella propria di Dio esiste veramente, perché Dio solo sussiste nell'essere; per questo motivo di necessità Mosè dirà in Lui: "lo sono Colui che È" (Esodo, 3, 14), in quanto le cose che vengono dopo di Lui non sono secondo l'essere, ma sono ritenute sussistere solo per opinione.

 

 

Il Corpus Hermeticum

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I caratteri del pensiero ermetico sono i seguenti: a) Si presenta come dottrina esoterica; b) pretende di essere una divina rivelazione; c) la divinità rivelante è Ermete; d) L'ermetismo non comunica i suoi messaggi mediante dimostrazioni razionali e deduzioni logiche, ma tramite una sorta di "iniziazione" misteriosa

la ragione umana non è in grado di raggiungere la verità. Neanche nella natura, ritenuta sinallora, oggetto privilegiato di indagine scientifica, perché essa ha carattere magico

Rispetto al medioplatonismo e al neopitagorismo ad esso coevi, viene essperato il dualismo dio-mondo, viene accentuato il carattere della trascendenza inconoscibilità di Dio. Si impone un nuovo modo di conoscere Dio, caratterizzato dalla gnosi

Esistono degli intermediari tra Dio e il mondo. Sotto il dio inconoscibile è il Logos; da esso deriva un intelletto demiurgico. Segue l'anthropos, l'uomo incorporeo, immagine di dio. Segue l'intelletto che viene dato all'uomo terreno (distinto dall'anima).

Il mondo è creato dal logos e dall'intelletto demiurgico. Essi agiscono in diverso modo sulla oscurità che originariamente dsi distacca e dualisticamente si oppone al dio-luce e costruiscono un mondo ordinato. Vengono prodotte le sette sfere e messe in movimento. Dal movimento di queste sfere vengono prodotti gli esseri viventi privi di ragione.

L'uomo terrestre è generato come segue. L'anthropos o uomo incorporeo, terzogenito del Dio supremo, vuole imitare l'intelletto demiurgico e creare egli pure qualcosa. Ottenuto il consenso del padre, attraversa le sfere fino alla luna, ricevendo le potenze di ciascuna e si affaccia e vede la natura sublunare. Tosto si innamora di questa natura, e viceversa, la natura si innamora dell'uomo. L'uomo si innamora della propria immagine riflessa nella natura, viene colto dal desiderio di unirsi ad essa e così, congiungendosi ad essa, cade. Nasce un uomo terrestre con una duplice natura, spirituale e corporea

La liberazione si ottiene con la conoscenza (gnosi), mentre l'ignoranza mantiene l'uomo incatenato alla materia

Ma cos'è questa gnosi ermetica? Innanzitutto l'uomo deve conoscere se stesso, convincersi che la sua vera natura consiste nell'intelletto, e di conseguenza, deve cercare di distaccarsi da tutto ciò che in lui è legato alla materia, che è tenebra e male. Ma poiché, come sappiamo, l'intelletto è parte di Dio (Dio in noi), riconoscere se stesso in questo modo, significa riconoscere Dio. Ecco un passo significativo del Poimadres: "Ma perché colui che ha conosciuto se stesso si dirige verso Dio, secondo il discorso di Dio? Perché di luce e di vita è costituito il padre di tutti gli esseri, dal quale nacque l'uomo. Luce e vita, questo è il Dio e padre, dal quale fu generato l'uomo. Se dunque tu riconosci lui nella sua vera natura, cioè costituito di luce e vita, e comprendi che tu derivi da tali elementi, tu ritornerai alla vita". In questa gnosi sono riconoscibili idee filoniane, sia pure trasformate nel nuovo contesto. Ma anche la connessa concezione dell'intelletto, interpretato quasi come dono divino che l'uomo riceve in grazia della sua vita morale, o come frutto di una scelta etica di fondo, ricorda la concezione filoniana dello spirito divino, che viene dato all'uomo per divina grazia.

Il Corpus Hermeticum concepisce l'intelletto come il divino nell'uomo, quasi come se si trattasse di una facoltà strutturalmente presente in tutti gli uomini, come ad esempio in questi passi: "L'intelletto è nella ragione discorsiva, la ragione nell'anima, l'anima nel soffio vitale; il soffio vitale passando attraverso vene arterie e sangue mette in movimento l'essere vivente". In altri passi si dice che l'intelletto non è proprio di tutti gli uomini, ma solo di quanti onorano dio. Le due concezioni possono essere mediate: tutti quanti gli uomini posseggono l'intelletto, ma come allo stato potenziale; dipende però da ciascun metterlo in atto e dunque possederlo veramente, oppure non metterlo in atto e perderlo. Se l'intelletto abbandona l'uomo è solo a motivo della vita malvagia che conduce, e, quindi, è per colpa dell'uomo medesimo: "Spesso l'intelletto vola via dall'anima e in quel momento questa non è più capace né di vedere né di udire ma diviene simile a un essere senza ragione: anta è la potenza dell'intelletto! D'altra parte l'intelletto non può sopportare un'anima torbida, ma l'abbandona al corpo, che la opprime quaggiù in terra. Una tale anima, figlio mio, non possiede l'intelletto; quindi non si deve chiamare uomo un tale essere". L'uomo non deve aspettare la morte fisica per raggiungere il suo telos, per "indiarsi". Può rigenerarsi, liberandosi delle potenze negative e malvagie e dai tormenti delle tenebre mediante le divine potenze del bene, fino ad ottenere un distacco dal corpo, purificando così il suo intelletto, e, in tal modo, estaticamente congiungendosi all'intelletto divino per divina grazia. Con la morte fisica prima si spoglia del suo corpo, che ritorna agli elementi del cosmo. Anche le forse irrazionali dell'anima ritornano alla natura priva di ragione. Quindi l'anima, salendo attraverso le sfere celesti, si spoglia via delle facoltà che da esse aveva ricevuto giunge all'ottavo cielo, che è di puro etere, e qui mantiene solo le sue potenze pure. Successivamente, si unisce alle potenze divine e divenuta essa stessa potenza divina da ultimo "entra in Dio"

 

 

 

Lo Gnosticismo e le principali correnti di pensiero dell'epoca

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L'ellenismo. Alessandria d'Egitto.

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Nel 334 a.C., dopo aver pacificato la Grecia, all'indomani della battaglia di Cheronea (338 d.C.) Filippo il macedone si propone come stratega pantocratore a capo della ripresa della lotta contro i persiani. Morto Filippo per una congiura di palazzo, è Alessandro che nel 334 muove con gli eserciti panellenici contro il regno di Dario III Codomanno. Nel 332, dopo aver conquistato l'Asia Minore, Alessandro libera l'Egitto dal dominio persiano, che durava dal 525 a.C. conquistandolo senza l'uso delle armi. Giunto al Gange Alessandro è costretto a tornare dal rifiuto dei suoi soldati di proseguire, e muore nel 323 a. C. mentre stava progettando l'invasione dell'Arabia. L'impero di Alessandro si frantuma e viene spartito tra i Grandi dell'Impero (Diadochi). Nascono i regni ellenistici: il regno d'Egitto va ai Tolomei, quello di Siria ai Seleucidi, quello di Pergamo agli Attalidi, quello di Macedonia, compresa la Grecia e l'Epiro, agli Antigonidi

La fisionomia dei regni ellenistici è quella di un monarca assoluto illuminato. Non esiste più una aristocrazia politicamente potente, ma si sviluppa la corte del sovrano. Gli elementi greco-macedoni costituiscono la classe privilegiata dei funzionari, dei diplomatici, dei burocrati e dei quadri militari. Le conquiste di Alessandro aprono le porte dell'Oriente e fanno delle terre attorno al mediterraneo orientale un unico grande mercato. I Tolomei hanno il controllo economico dell'entroterra africano fino al Corno d'Africa e di tutto il bacino del Mediterraneo; i Seleucidi quello delle aree orientali, dall'Anatolia all'Indo, con salde basi lungo la via della seta e sbocco marittimo sul golfo persico. L'Egitto diventa il maggiore esportatore di cereali, mentre la Siria controlla la produzione di metalli pregiati. Il regno di pergamo, erede della intraprendenza artigiana e industriale delle città ioniche gode di una solida economia.

Il centro della vita economica si sposta verso oriente, e la Grecia si trova tagliata fuori. E' Alessandria d'Egitto il più grande e vivace emporio commerciale e fa decadere il Pireo a scalo secondario. Da queste nuove correnti di traffico traggono vantaggio isole come Delo e Rodi, che servono da ponte tra le capitali ellenistiche di Alessandria d'Egitto, Antiochia di Siria e Pergamo in Asia minore.

I greci, abituati ai diversi culti delle loro poleis, sono tolleranti rispetto alle religioni orientali. La polis è ormai decaduta e la religione cittadina, ufficiale e corale, cede sempre più spazio alla religione personale che si manifesta nei culti misterici. Dall'Egitto si diffonde il culto antichissimo di Osiride e Iside (identificati dagli elleni con Dioniso e Demetra) e quello più recente di Serapide (dio dell'oltretomba) istituito ad Alessandria da Tolomeo I. Dalla Siria ginge la coppia divina Astarte-Adone, e dall'Asia minore la dea madre Cibele. Grande fortuna gode, soprattutto fra la classe militare il culto misterico del dio persiano Mitra che giunge fino a Roma.

Col termine ellenismo si intende la consapevole diffusione della civiltà greca nel mondo orientale, seguita alle imprese di Alessandro e la sua fusione con gli elementi delle diverse civiltà locali.  In realtà i due mondi rimangono abbastanza separati e la civiltà ellenistica (detta anche alessandrina, dato che Alessandria è il centro culturale più importante) continua la civiltà greca classica.

Il pensiero filosofico perde la spinta verso i vasti e rigorosi sistemi e tende a concentrarsi sui problemi etici dell'individuo che deve cercare in se stesso la guida per la felicità interiore: nascono la scuola di Epicuro (342-270 a.C.), Stoica di Zenone (332-264), la scuola scettica di Pirrone (360-270). In un clima di ricerca erudita si sviluppano la storiografia, la filologia. Alessandria ha due biblioteche con 700.000 e il Museo, una università dove i dotti vivono in comune a spese dello stato e conducono ricerche specializzate secondo le linee tracciate da Aristotele.  Teofrasto (372-287) succede ad Aristotele a capo del Liceo, Eratostene (280-200), Aristarco di Samo (320-250), Ipparco di Nicea (190-120) sviluppano studi astronomici. Euclide (III a.C:.), Archimede (m. 212) si occupano di geometria. Erone (I sec. a. C.) fa studi di ingegneria. Erofilo di Calcedonia (III sec.), Erasistrato III sec), studiano la medicina.

L'oriente, durante la prima fase dell'ellenismo, divenne silenzioso per molti secoli e fu quasi invisibile nella luce predominante del giorno ellenico. Possiamo distinguere l'ellenismo in due periodi: il periodo di manifesta predominanza greca e sommersione orientale e il periodo di reazione di un oriente rinascente che riformò la cultura universale. Questo processo ebbe termine nel 300 d.C.

Durante il primo periodo l'Oriente non dette contributi nella cultura, ma nel culto. Il sincretismo religioso, che divenne il carattere distintivo dell'ultima fase, cominciò a prendere forma  in questo periodo. Fu l'estensione sempre maggiore e la profondità di questo processo che causò il passaggio dal primo al secondo periodo dell'ellenismo, quello religioso-orientale.

La prima metà dell'ellenismo, che durò fino al tempo di Cristo, è caratterizzata dalla cultura greca secolare. Il pensiero orientale rimase mitologico, ma aveva imparato dalla Grecia a manifestare le sue idee sotto forma idi teorie e ad usare concetti razionali, anziché impiegare solo immagini sensibili. In tal modo si ebbe la definitiva formulazione dei sistemi dualistici.

Nella tarda antichità l'universalismo indiscusso dei primi secoli ellenistici fu sostituito da un'epoca di nuova differenziazione, fondata principalmente su questioni spirituali e solo secondariamente di carattere nazionale, regionale e linguistico. La cultura secolare fu sempre più influenzata da un atteggiamento mentale che si esprimeva in termini religiosi, fino al punto che si arrivò allo spezzamento della primitiva unità in tanti campi esclusivi. In queste nuove condizioni, "ellenico", termine usato come contrassegno  all'interno di un mondo già fortemente ellenizzato, distingueva una causa avversata dai suoi oppositori cristiani o gnostici, i quali per lingua e forma letteraria facevano non meno parte dell'ambiente greco.

Dobbiamo ora enumerare brevemente i fenomeni nei quali l'ondata orientale si è manifestata nel mondo ellenistico dall'inizio circa dell'era cristiana in poi. Ecco i principali: l'espansione del giudaismo ellenisti­co, e in modo particolare il sorgere della filosofia giudaico-alessandri­na; la diffusione dell' astrologia babilonese e della magia, che coincise con un generale aumento del fatalismo nel mondo occidentale; la dif­fusione di differenti culti misterici orientali in tutto il mondo elleni­stico-romano e la loro evoluzione in religioni misteriche spirituali; il sorgere del cristianesimo; la fioritura di movimenti gnostici, con i lo­ro grandi sistemi, all'interno e all' esterno della struttura cristiana; e le filosofie trascendentali della tarda antichità, a cominciare dal neopita­gorismo fino alla scuola neoplatonica.

Tutti questi fenomeni, per quanto distinti, si possono dire in sen­so Iato collegati tra loro. I loro insegnamenti hanno importanti punti in comune e persino nelle loro divergenze partecipano di uno stesso clima di pensiero; la letteratura di ognuno può completare la nostra conoscenza degli altri. Più evidente dell' affinità della sostanza spiri­tuale è la ricorrenza di modelli tipici di espressione, di immagini spe­cifiche e formule, in tutta la letteratura dell'intero gruppo. In Filone di Alessandria oltre gli elementi platonici e stoici che rivestono il nu­cleo giudaico, troviamo anche il linguaggio dei culti misterici e la na­scente terminologia di un nuovo misticismo.

Le religioni misteriche da parte loro hanno profonde relazioni col complesso astrale di idee. Il neoplatonismo è largamente aperto a ogni dottrina religiosa pagana, specialmente orientale, con una pretesa di antichità ed un alone di spiritualità. Il cristianesimo, persino nelle sue formulazioni "ortodosse", ha avuto fin dal principio (certamente dal tempo di san Paolo) aspetti sincretistici, sorpassato tuttavia di molto sotto questo aspetto dalle sue ramificazioni eretiche; i sistemi gnostici racchiudevano tutto: mitologie orientali, dottrine astrologiche, teolo­gia iranica, elementi della tradizione giudaica, sia biblici, rabbinici o occulti, escatologia cristiana della salvezza, termini e concetti platoni­ci. Il sincretismo raggiunse in questo periodo la sua maggiore efficien­za; non era più confinato a culti specifici e non riguardava soltanto i loro sacerdoti, ma aveva pervaso tutto il pensiero dell' epoca e appari­va in tutte le sfere di espressione letteraria. Perciò nessuno dei feno­meni che abbiamo enumerato, può essere considerato separatamente da tutto il resto.

Eppure il sincretismo, il frammischiarsi di date idee e immagini, ossia delle correnti formate dalle molteplici tradizioni, è naturalmente un fatto puramente formale che lascia aperta la questione circa il con­tenuto intellettuale la cui apparenza esteriore viene da tale fatto de­terminata. Vi è un'unità nella molteplicità, e qual è? ci si chiede di fronte a tale complesso fenomeno. Qual è la forza organizzatrice nella materia sincretistica? Abbiamo detto precedentemente, come affer­mazione preliminare, che nonostante il suo aspetto "sintetico" il nuovo spirito non era un eclettismo amorfo. Quale fu dunque il prin­cipio direttivo e quale la direzione?

Per avere una risposta a tale questione bisogna fissare la propria at­tenzione su alcuni atteggiamenti mentali caratteristici che si mostrano più o meno distintamente in tutto il gruppo, astraendo dalla grandis­sima diversità dei contenuti e livelli intellettuali. Se in questi linea­menti comuni riconosciamo un principio spirituale operante che non era presente nei singoli elementi del composto, possiamo identificare questo come il vero fattore della composizione. Ora è possibile sco­prire di fatto un nuovo principio in tutta la letteratura che abbiamo ricordato, sebbene in gradi diversi di determinazione. Esso appare ovunque nei movimenti provenienti dall'Oriente e più particolarmen­te in quel gruppo di movimenti spirituali che sono compresi sotto il nome di "gnostici", Possiamo perciò assumerlo come il più radicale e totale rappresentante di un nuovo spirito e possiamo di conseguenza chiamare in modo analogico questo principio generale, che in alcune inequivocabili manifestazioni si estende al di là del campo della lette­ratura gnostica propriamente detta, il "principio gnostico". Qualun­que possa essere l'utilità di tale estensione del significato del nome, certamente lo studio di questo particolare gruppo è di grande interesse non soltanto in se stesso, ma anche perché può fornire, se non la chiave di tutta l'epoca, almeno un contributo vitale alla sua compren­sione.

 

 

Zoroastrismo

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Lo zoroastrismo è un movimento religioso fondato da Zoroastro (Zarathustra) attorno all'VIII-VII sec. a.C., che ha domi­nato l'area persiana dall'età dei sovrani Achemenidi (558-330 a.C.) fino alla con­quista da parte degli Arabi (651 d.C.). È noto anche col nome di mazdeismo, dal nome di _ Ahura Mazdah, che ne è il dio supremo. La connessione del nome del dio e della religione mazdeista stessa con Zarathustra è stata recentemente messa in discussione da alcuni studiosi che par­lano di un mazdeismo prezoroastriano: sembra certo infatti che l'opera di Zara­thustra abbia accentuato e indirizzato uno sviluppo anteriore.

Il mazdeismo si basa sulla convinzione che il male del mondo non può essere stato creato da Ahura Mazdah. Esso è pertanto l'opera di un dio malvagio, Angra Mainyu, il quale, tuttavia, alla fine dei tempi perde­rà ogni potere: il dualismo è quindi sol­tanto provvisorio. Accanto al dio del be­ne esistono sei figure di arcangeli (ame­sha spenta, «santi immortali») che, da un lato, con il loro nome sembrano indicare concetti astratti; dall'altra sono tradizio­nalmente connessi con elementi cosmici:  Vohu Manah (buon pensiero-bestiame), Asha (rettitudine-fuoco), Khshathra (regno-metallo), Armaiti (docilità-terra), Haurvatat (integrità-acque), Ameretat (immortalità-piante). A questi si aggiun­gono vari yazata ("venerabili"), dèi-an­geli subordinati, che formano un Pleroma intermedio fra il Dio supremo e il mondo visibile: essi sono Mithra, Anahi­ta, Hvara Khshaeta (il sole), Mah (la lu­na), Zam (la terra), Atar (il fuoco), Apam Napat (le acque), Vayu (il vento).

Esiste un dualismo metafisico fra la creazione menok (invisibile, emblematica) e quella getik (materiale), ambedue positive e buone dove la prima costituisce il seme attivo della seconda. La creazione non pare concepita come creazione «dal nul­la», anche se qualche testo sembra accen­nare al contrario. Vivissima è l'idea del ciclo cosmico: dalla creazione prime va fino alla fine del mondo corrono dodici­mila anni di tempo «limitato» o materia­le, dopodiché il tempo sarà fuso con l'illi­mitatezza.

Altra concezione centrale del­lo zoroastrismo è il dualismo che oppone lo asha, cioè la verità, l'ordine rituale, cosmico e sociale, alla drug, cioè la men­zogna, l'ignoranza delle cause reali, il di­sordine cosmico e sociale. Sta alla libertà e alla volontà dell'individuo scegliere tra le due componenti asha e drug.

Una psi­cologia complessa distingue nell'uomo cinque parti: corpo, anima, spirito, «pro­totipo», fravashi. La fravashi è una sorta di doppio angelico dell'uomo (origina­riamente forse considerato prerogativa dei soli aristocratici, poi estesa anche al­le fasce meno abbienti), diretta emana­zione di Ahura Mazdah. L'uomo e il suo corpo hanno parte positiva e importante nella lotta contro il male, che si svolge nel periodo della miscela di elementi ahri­manici (maligni) nella buona creazione di Ahura Mazdah e che terminerà con la vittoria del bene. Alla fine della lotta la «miscela» verrà di nuovo dissolta, gli eroi dei primordi ritorneranno come eroi della fine, e avrà luogo la frashokere­ti, cioè l'apocatastasi (giudizio finale) e la resurrezione dei corpi. Concetti e miti come quello dei giudici celesti, della bi­lancia per pesare le azioni degli uomini, del ponte sottile teso sull'inferno su cui passeranno le anime (il ponte Cinvat), delle buone e cattive azioni che nell'aldi­là seguiranno la legge del contrappasso, sono passate dall'Iran anche in altre reli­gioni. Il rito centrale dello zoroastrismo è lo yasna, specie di sacrificio incruento in onore di Ahura Mazdah e degli arcan­geli-dèi, con libagioni di haoma (pianta medicinale corrispondente al vedico ....• soma) e venerazione del fuoco, conside­rato forza purificatrice. Alla casta sacer­dotale ereditaria dei magi venivano affi­date le funzioni rituali. Anche attual­mente, presso i Parsi, il sa­cerdozio risulta ereditario. Tutto questo complesso religioso si sviluppò storica­mente in varie fasi, i cui limiti cronologi­ci sono assai controversi. A una fase anti­ca, prezoroastriana, deve esserne seguita una zoroastriana, che tuttavia influenzò solo una parte dell'Iran antico (gli Ache­menidi, 550-330 a.c., conoscono concet­ti mazdeisti, ma sembrerebbero ignorare Zarathustra). A un periodo di decadenza sincretistica in epoca ellenistica e partica (secc. IV a.C.-III d.C.) sarebbe seguita una restaurazione in epoca sassanide (secc. III-VII d.C.); con la conquista islamica, gli zoroastriani superstiti, che in buona par­te si erano trasferiti in India, modificaro­no in senso ancor più monoteistico il mazdeismo sassanide. Il testo sacro dello zoroastrismo è l'Avesta, di cui alcune parti, le Gatha, sono tradizionalmente attribuite a Zarathustra.

 

 

I Parsi

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Due decreti Abbasidi stabilirono che: a) uno schiavo di un non-musulmano sarebbe stato libero convertendosi all'islam; b) Un familiare islamico ereditava tutto il patrimonio di famiglia rispetto a quelli non-islamici. Questo provocò un aumento delle conversioni

Questi nuovi convertiti tormentarono crudelmente gli zoroastriano per centinaia di anni

Lo zoroastrismo sopravvisse ostinatamente in regioni periferiche (attuale Uzbekistan), ma furono mandati generali che procedettero alla conversione forzata, distruggendo templi e sostituendoli con moschee

Gli zoroastriani migrarono verso regioni zoroastriane o città con amministratori non arabi. Le città ai margini dei grandi deserti salati, in particolare Yazd e Kerman sono ancor oggi centri attivi di zoroastrismo

Importantissima fu la migrazione dal Khorasan nell'india sud-occidentale, a Gujarat. I discendenti di questi gruppi sono chiamati Parsi, che formano il più cospicuo dei due gruppi di zoroastriani

Nel 10° e 11° secolo la lotta zoroastriana divenne meno accesa. Emersero dinastie locali iraniane tutte fortemente musulmane come vassalli largamente indipendenti del califfato. Tuttavia lettere del 16° secolo da Yazd, in persia ai correligionari indiani dicono che "nessun periodo della storia, neanche quello di Alessandro, è stato più penoso per gli zoroastriani fedeli di "questo millennio del demone dell'ira" ".

 

 

Zurvanismo

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Presso gli imperatori dei medi (Iran pre-Ciro il Grande) ebbe grande influenza lo zoroastrismo nella sua forma influenzata dalla cultura mesopotamica, lo Zurvanismo

Di fronte al dualismo mazdeo zoroastriano, secondo il quale Ahriman è una potenza completamente esteriore ad Ormazd, secondo la visione zervanita propriamente detta o "integrale", l'antagonismo tra i due principi nasce da un dramma all'interno della stessa persona di Zervan, il tempo eterno. Con l'emergere dello zervanismo, il mazdeismo, pur non accettando di subordinare i due principi a uno stesso livello, farà sì che Zervan – nello zervanismo puro l'essere stesso di Ormazd – si separi dal suo essere come una figura antecedente.

Esistono forme miste: il "mazdeismo zervanizzato" e lo "zervanismo mazdeizzato"

Nel mazdeismo zervanizzato la subordinazione di Ormazd è attenuata rispetto allo zervanismo mazdeizzato, dove la preponderanza di Zervan si presenta senza alcuna riserva.

Nello zervanismo mazdeizzato l'opposizione tra Ohrmazd e Ahriman avviene all'interno della stessa divinità in cui si verificano  periodi  di predominanza di una o dell'altra, fasi di luce o di tenebre.

 

Nazirei

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 Dal Talmud sappiamo che era sempre esistita una tradizione ebraica di eremiti, detta dei "reclusi di Dio", cioè di gente che abbandonava la città per ritirarsi a pregare nelle grotte: così fecero i grandi profeti e i loro discepoli, che dedicavano la propria vita a Dio. Tra questi i Nazirei, ben noti nella storia ebraica. Amavano la solitudine: Rabbi Simone visse tredici anni in una grotta. Quando gli esseni vollero darsi una regola non fecero altro che prendere le regole dei Nazirei, e i famosi tre voti: non bere assolutamente bevande alcoliche (l'angelo lo impone alla madre di Giovanni Battista); non radersi mai capelli e barba; non aver contatto con cadaveri (proibizione quindi di mangiare carne e pesce e tutto ciò che possiede una circolazione sanguigna).

 

 

Esseni

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La questione degli Esseni è diventata di attualità dopo la scoperta dei manoscritti di Qumran e sono state avanzate diverse ipotesi: forse Giovanni Battista apparteneva a tale gruppo, Gesù Cristo stesso si era forse preparato in questa comunità, forse Giovanni Evangelista ne aveva fatto parte. I manoscritti son serviti a chiarire molti problemi e a farci capire che, anche tra gli Ebrei, c'era veramente una grande attesa del Messia. I profeti ebraici hanno parlato del Messia,

Gli esseni erano stanziati vicino al Mar Morto. Flavio Giuseppe li nomina e li chiama Pitagorici ebraici. Il Talmud parla spesso di loro, ma solo recentemente si sono potuti conoscere un po' meglio. Nel 1910 viene pubblicato il manoscritto di Damasco, che apre uno spiraglio su quella strana setta. Era stato trovato ad Ezra, vicino al Cairo, nel 1896. E' un documento del XII secolo, che richiama un documento molto più antico di cui è copia (104-163 a.C.). Parla di questo "resto" di Israele, che lo stesso Paolo ha ricordato, fedelissimo di Dio che conservano fedelmente la sua parola. Israele, 390 anni dopo la prigionia di Babilonia, si sarebbe ravveduto e per 20 anni avrebbe fatto penitenza in comunità; 20 anni di ricerche al buio, finché avrebbe trovato il cosiddetto "Maestro di giustizia", che avrebbe preparato la sua gente a vedere "la luce del suo popolo". Facendo il computo esatto degli anni, si arriva a Giovanni Battista e si può supporre ch'egli fosse vicino agli Esseni e partecipasse alla loro attesa.

Morto Alessandro Magno, il suo impero viene diviso tra i Diadochi: la Siria ai Seleucidi, l'Egitto ai Tolomei. I due Regni lottano assiduamente per il possesso del territorio palestinese. Antioco III, infine, saputo del tesoro del Tempio di Gerusalemme, per pagare i Romani che lo avevano vinto a Magnesia, cerca invano di impadronirsene. Ci riesce il figlio, con la connivenza del Sommo Sacerdote; nel 168 d.C. conquista Gerusalemme, depreda il Tempio, al suo posto erige un tempio a Giove Olimpo, e tenta la sistematica ellenizzazione degli Ebrei. Nel 166 Mattatia ammazza un luogotenente siriano e si ritira in montagna con i suoi cinque figli, i famosi Maccabei, per iniziare una guerriglia che li porterà nel 164 a riconquistare Gerusalemme, approfittando della decadenza dell'impero siriano.

Il figlio Gionata Maccabeo riesce addirittura a farsi riconoscer dal pretendente al trono di Siria come governatore della Giudea e Sommo Sacerdote. Elezione impropria e sicuramente illegittima, anche se egli poteva vantare origini di casta sacerdotale. Voleva essere n politico, e non poteva conciliare questa sua attività con il sacerdozio, anche perché il legittimo discendente dei sacerdoti doveva appartenere, in quell'epoca, alla dinastia di Sadoc. Quando, nel 142, Simone Maccabeo succede a Gionata e viene riconosciuto Re di Giudea e Sommo Sacerdote, un gruppo di Ebrei si stacca da lui, proclamando di avere già il Sommo Sacerdote e di non riconoscerne altri. Approfittando poi del fatto che un Sommo Sacerdote, appoggiato dai Tolomei, deve fuggire in Egitto dove fonda, a Leontopoli, il Tempio nuovo del dio degli Ebrei, gli esseni si staccano sia dal legittimo Sommo Sacerdote che da quello illegittimo e fondano una comunità in cui il seme di Sadoc viene conservato in attesa dei tempi messianici.

Si capisce bene allora la ragione di questa comunità, sorta a difesa di sacrosanti diritti, che affermava di attendere il Messia. Incominciano così i predetti venti anni di ricerca a tentoni, finché arriva tra loro il "maestro di giustizia". Chi esso sia è difficile appurare per la scarsità dei documenti. Certamente è un personaggio reale, vissuto e morto prima di Cristo, che in trent'anni di attività ha preparato quella comunità ad attendere il Messia per gli altri 40 anni successivi alla sua morte. Era certamente un precursore dell'opera messianica; forse preparò indirettamente alcuni dei discepoli, per salvarli dalla crisi finale e tenerli pronti a riconoscere colui che essi aspettavano.

Dovette combattere contro nemici esterni e interni; il peggiore è chiamato da lui "uomo di menzogna", e forse si tratta di Ircano, uno dei successori dei Maccabei, che, tentando di conquistarsi quella comunità, introdusse discordie all'interno di essa. Attaccati, dovettero fuggire e disperdersi. Questa forse è l'origine del documento di Damasco. Rientrati al tempo di Pompeo Magno, che riuscì a pacificare la zona libano-palestinese, ricostruirono il loro convento, vivendo in una pace relativa, in attesa del Messia.

Il Maestro di giustizia aveva tutte le caratteristiche dei profeti: era l'interprete ufficiale della parola di Dio, era colui che doveva portare la luce di Dio agli Esseni. Fu però più un organizzatore, un legislatore, che un grande maestro spirituale.

Il maestro di giustizia è chiamato "medicina di salvezza" per chi si converte. Possiede la vera conoscenza, può guidare attraverso un retto insegnamento; "tutto ciò che lo riguarda è grazia di Dio". E' quindi proprio l'uomo di Dio. Però nei suoi inni, riportati nei rotoli ritrovati, c'è un grande odio per il nemico, c'è molto messianismo terreno, e questo impedisce con sicurezza di identificarlo con il Cristo. Il Moraldi conclude il suo studio affermando che "tutti i tentativi compiuti nella ricerca  di analogie tra il Maestro e Gesù si risolvono in un nulla di fatto. Così come non approdano a risultati concreti i tentativi di congiungere Gesù a Qumran". Il messianismo di Gesù era di altra natura, Voleva che i suoi fossero nel mondo ma non del mondo.

L'esistenza di una mistica essenica permette un confronto con la mistica Kabbalistica. Si tratta forse di quel filone nascosto cui si riferisce Scholem e che egli presuppone quale causa dello stupendo fiorire di mistica medioevale dei Chassidin e della Cabala.

"Esseni" deriva da "asshia", "guaritore", tanto che la comunità essenica di Alessandria d'Egitto era chiamata addirittura dei "taumaturghi". Gli esseni erano depositari di una terapia umana e divina, indicavano insieme salute e consolazione spirituale, virtù naturali e poteri angelici, perché erano in contatto con il Sommo Taumaturgo, che protegge il suo popolo dai disastri dell'angelo punitore (Esodo, 11,7)

Dal Talmud sappiamo che era sempre esistita una tradizione ebraica di eremiti, detta dei "reclusi di Dio", cioè di gente che abbandonava la città per ritirarsi a pregare nelle grotte: così fecero i grandi profeti e i loro discepoli, che dedicavano la propria vita a Dio. Tra questi i Nazirei, ben noti nella storia ebraica. Amavano la solitudine: Rabbi Simone visse tredici anni in una grotta. Quando gli esseni vollero darsi una regola non fecero altro che prendere le regole dei Nazirei, e i famosi tre voti: non bere assolutamente bevande alcoliche (l'angelo lo impone alla madre di Giovanni Battista); non radersi mai capelli e barba; non aver contatto con cadaveri (proibizione quindi di mangiare carne e pesce e tutto ciò che possiede una circolazione sanguigna). Sappiamo che gli esseni mangiavano legumi e radici, vestivano sempre di bianco come i sacerdoti, i più fervorosi portavano il mantello e abitavano in comunità a Qumran e altrove (Gerico, Masada) e avevano scelto la zona della depressione del mar Morto e del Giordano perché moto adatta al raccoglimento e alla meditazione.

Gesù mangiava carne e pesce, e anche per questo è difficile metterlo in relazione con gli esseni.

Gli esseni erano divisi in due categorie: dopo il noviziato potevano diventare monaci pratici, che dovevano lavorare per gli altri ma potevano sposarsi e portarsi in convento le mogli e i figli; oppure diventare Hassidim, cioè contemplativi, dediti unicamente alla preghiera e allo studio.

La preghiera era veramente impegnativa; pregavano tre volte al giorno per tre ore: un'ora di meditazione con un'ora di preparazione, che consisteva in letture e canti, e un'ora di congedo, in cui commentavano i risultati della preghiera e si scambiavano le esperienze con metodi esoterici, particolarmente interessanti. Dato il loro impegno liturgico, venivano dispensati da ogni altro lavoro.

 Chi entrava in noviziato doveva sottoporsi a una prova triennale, divenuta particolarmente dura Chi entrava in noviziato doveva sottoporsi a una prova trien­nale, divenuta particolarmente dura dopo il periodo delle perse­cuzioni. Nel primo anno il novizio doveva dare prova di continen­za e temperanza; nel secondo e terzo doveva dimostrare un carat­tere tale da garantire una retta condotta, senza alti e bassi. Il rito di ammissione alla grande sala dei raduni concludeva il noviziato. Questa sala era il refettorio, vasta come una chiesa, addobbato, in cui si mangiava una sola volta al giorno, e si parlava di cose di Dio. Per essere ammessi alla vita comunitaria bisognava pro­mettere sotto giuramento di osservare sei precetti: 1 ° onorare e adorare Dio, e per questo usare giustizia e carità verso tutte le crea­ture (sensibilità alle piante e agli animali); 2° non nuocere a chic­chessia, sia per propria volontà che per ordine altrui (potevano di­subbidire a qualunque autorità, se si trattava di ammazzare ani­mali, ecc.), quindi non fabbricare e non maneggiare armi; 3° ub­bidire alla voce di Dio, alla voce della coscienza e a quella dei su­periori, se fossero stati miti e clementi; 4° amare sempre la verità e denunciare pubblicamente i bugiardi; 5° serbare le mani pure da ogni illecito lucro (proibizione dei commerci e, per i "pratici", ob­bligo di lavorare la terra e allevare bestiame per ottenere i prodot­ti in latte e formaggi); 6° non serbare segreti per i fratelli, ma aprire a chi ne è degno tutti i segreti nascosti.

Il giuramento veniva fatto in segreto, lontano dagli occhi dei curiosi, degli indegni e dei profani. Si trattava certamente di un'i­niziazione esoterica, di cui vedremo i caratteri. La vita comune degli Esseni era praticamente una vita di carità, di lavoro, di contem­plazione: una specie di monachesimo, sorto in seno alla religione ebraica. Tutti i beni dovevano essere messi in comune; non sap­piamo quali potessero essere i diritti delle famiglie. Per fare qual­che guadagno, vendevano erbe medicinali, e praticavano l'arte me­dica conservandone il segreto. Accanto al convento dovevano avere una specie di ospedale per curare con i loro metodi i malati che ricorrevano a loro.

La mensa comune teneva praticamente il posto del sacrificio, era allietata da danze, tutti dovevano presentarsi vestiti di bianco, e lavarsi prima con acqua fredda. Il salone conservava sempre l'a­spetto di un tempio e il pranzo aveva l'andamento di una liturgia. Il pasto era unico nella giornata e perciò abbondante.

Nei loro studi puntavano all'essenziale: non apprezzavano la logica, la ritualistica. Studiavano la Bibbia e lo facevano in senso esoterico, valorizzandone i simboli, il che era del tutto contrario alla tradizione ebraica, che difendeva il commento religioso. Va­lorizzando il simbolo si corre il pericolo di passare dal simbolo al mito, e il mito si collega sempre a un'immagine, e l'immagine era severamente vietata agli ebrei dalla legge di Dio.

Anche i capisaldi della loro teologia erano biblici: vivevano il dramma dell'"esodo", in marcia verso i tempi nuovi. Vivevano nel "deserto" come luogo spirituale, separato dai luoghi profani, per prepararsi all'incontro con il Messia. Si sentivano "fermen­to" per la ricostituzione del popolo eletto, e in continua lotta con le tenebre, quali degni figli della luce.

Ecco come graduavano la scala della perfezione: l'osservanza delle regole era il primo gradino (stile Farisei), il secondo era la purezza legale e il terzo l'umiltà con la quale si entrava in campo prettamente spirituale. Seguiva la compassione eroica verso gli al­tri, quindi la sopportazione eroica delle debolezze altrui, il timore di Dio e il dono dello Spirito Santo. Qua e là dai documenti emer­gono particolari che sono, da un punto di vista esoterico, molto interessanti. Il celibato, ad esempio, non era obbligatorio per tut­ti, però era esaltato. Amavano il silenzio e temevano di essere di­sturbati in preghiera. Osservavano il digiuno il giorno prima del plenilunio ogni mese. Passavano in canti e preghiera la vigilia del­le grandi feste, durante le quali prima della mezzanotte facevano atti di penitenza, dopo mezzanotte canti e danze. Per meditare si volgevano a mezzogiorno. Profetavano e lo facevano in partico­lare nelle grandi feste e soprattutto alla nascita dei bambini, pre­dicendo il loro futuro (Simeone al tempio predice per Gesù). Preferivano profetare lungo le rive di un fiume, di un lago, del mare o almeno vicino a un pozzo d'acqua come insegnano anche i mae­stri indiani). Quando Gesù insegnava sulle rive del lago, seguiva esattamente la tradizione .

In conclusione, constatiamo che gli Esseni, da ottimi ebrei, spe­ravano nella finale giustizia di un Regno di Dio, credevano negli angeli e nel loro efficace aiuto. Cercavano la purezza interiore nel­l'osservanza della legge. Credevano al valore del celibato e della verginità, ma non obbligatori. Sapevano trasformare la vita di la­voro in una continua preghiera. Vivevano nell'attesa del Messia, ma con prospettive molto terrene, che troveremo anche negli apo­stoli di Gesù, prima della Passione.

Ritroviamo alcune pratiche tradizionali degli Esseni presso i cabalisti medievali, e questo potrebbe far pensare che anche altre pra­tiche della cabala esoterica abbiano lontana radice nella comunità essenica.

Il buon cabalista sognava di giungere, con la pratica ascetica e mistica, fino alla statura di Metatron, il prototipo dell'uomo, assoluto intermediario tra Dio e la creazione. Metatron è il mo­dello del primo perfetto uomo, su cui è stato modellato Adamo e sul quale devono modellarsi tutti gli uomini. Per questo scopo è assicurata a tutti la grazia, che opera all'interno delle coscienze. La stessa provvidenza che pensa a tutti, diventa grazia per l'uo­mo, identificata con il carro interiore che si nasconde e dimora nel suo cuore. L'uomo deve collaborare con tutte le sue forze, tuf­fandosi nella luce di Dio, che è il dono della meditazione. Il rag­gio spirituale, che collega la creazione con Dio, attraversa la co­lonna spinale dell'uomo redento, che diventa così il nuovo Adamo perfetto, il quale ha la capacità, se la grazia lo aiuta, di ab­bracciare la somma delle realtà celesti, come il suo corpo è la somma della realtà terrestre, essendo il frutto più bello di tutta l'evoluzio­ne. Così l'uomo diventa mediatore universale. Come è capace di costruire, è capace anche di distruggere, avendo la capacità men­tale che, lasciata libera a giocare sui concetti, può giungere fino a negare Dio. Accogliendo invece nel suo cuore la luce di Dio, si può espandere all'infinito: questo è il segreto del grande sforzo della meditazione quotidiana, che gli Esseni conoscevano e prati­cavano.

Sappiamo poco sui riti iniziatici degli Esseni, ma possono forse essere illuminati dalla iniziazione di certi circoli cabalistici.

L'iniziazione aveva due parti: la prima era la trasmissione del nome di Dio. A ciascuno degli adepti veniva assegnato uno dei dieci appellativi di Dio, dato che il nome Iahvè non poteva mai essere pronunciato e in suo luogo si usava una circonlocuzione. Quando si pronunciava il nome di Dio bisognava essere digiuni, in veste bianca e vicino all'acqua. Nella seconda parte la persona iniziata doveva "indossare" il suo nome di Dio, scrivendolo in grande su una tunica di pergamena di cervo, tagliata a vestito, senza maniche.

In questa tenuta, a mezzanotte, dopo sette giorni di digiuno e dopo aver abituato il corpo a una dieta strettamente vegetariana, l'iniziando si avvicinava a un corso d'acqua e si doveva urlare il nome di Dio. Se tutto andava bene, non appariva un essere verde chiaro, ad annunciare che occorreva iniziare tutto daccapo, ma una luce invadeva la persona e dava garanzia al maestro del buon pro­cedere delle cose.

Sappiamo che erano tre i modi di invocare il nome di Dio. 1) Proferire il Nome: essendo questo il nome di una realtà che non può avere altri riferimenti, il nome di Dio è la presenza stessa di Dio. Nominare questo nome è come sentire, avere presente Dio stesso. Il nome di Dio diventa il santuario in cui Dio dimora. 2) Contemplare il Nome: sforzarsi di capire il profondo significato: il che importa uno sforzo che può durare anche degli anni, per giun­gere a comprendere la forza e i collegamenti con gli altri appellati­vi e quindi la loro unità strettissima. Approfondendo i significati dei nomi divini, contemplandoli nell' Albero, si giungeva al pos­sesso di un "mandala" della totalità, che poteva veramente riem­pire il cuore e aprirlo all'infinito. 3) Contemplare il carro: si fa scendere la mente nel cuore. Quanto più si riesce ad andare in pro­fondità con la meditazione, tanto più si aprono i livelli di coscien­za. La stessa cosa si ritrova nella Kabbala: per ascendere da un cielo all'altro bisogna scendere sempre di più nel carro del cuore.

L'invocazione del Nome Divino riesce meglio di notte, meglio ancora verso la mezzanotte. Ed ecco la risposta di un documento trovato a Qumran: "È l'ora in cui Dio entrava nel giardino del­l'Eden per parlare con gli uomini, è il tempo migliore per studiare la Torah. Dopo mezzanotte la severa giustizia che domina il mon­do di sera non ha più poteri, dopo il canto del gallo spiriti e Ange­li non hanno più potere". Si aspetta quindi la mezzanotte con atti di penitenza e di meditazione, e dopo la mezzanotte si fa festa con canti, danze e dolciumi.

 

 

Gnosticismo e pensiero indiano ortodosso

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Come notato da Jung, alcune espressioni gnostiche ricordano molto da vicino le idee indiane di Brahman e Atman. Le filosofie Yoga e Samkhya, due dei sette darshana o sistemi di conoscenza ortodossi asseriscono che la materia più sottile del corpo, forma la buddhi, che potremmo chiamare l'anima dell'individuo. La buddhi, per la sua purezza, è in grado di riflettere l'Atman, esattamente come, secondo la bellissima immagine contenuta negli Aforismi di Patanjali, una rosa, pur rimanendo separata e immutata, si riflette in un prezioso cristallo.

Si confronti il seguente passo dello gnostico Monoimos:

 

 

"Cercalo da fuori te stesso, e impara chiè che prende possesso di qualsiasi cosa in te, dicendo: il mio dio, il mio spirito, la mia comprensioine, la mia anima, il mio corpo, e apprendi da dove giunge la tristezza e la gioia, l'amore e l'odio e lo svegliarsi malgrado uno non voglia svegliarsi, e l'adirarsi malgrado uno non voglia adirarsi, e l'innamorarsi malgrado uno non voglia innamorarsi. E se esaminerai attentamente queste cose, Lo troverai in te, l'Uno e i Molti, perché è in te che ha la sua origine e la sua liberazione"

 

 

con un passo ad esempio della Kena Upanishad:

 

 

"Diretta e dominata da chi la mente procede? Da chi è comandato il primo movimento del respiro? Chi manda i discorsi che proferiamo? Quale dio percuote l'orecchio e l'occhio? L'udito dell'orecchio, il pensiero della mente, il discorso della nostra facoltà di parola… Ciò che la parola non può esprimere, da cui la parola è espressa… ciò che la mente non può pensare, ma per mezzo del quale la mente pensa, conoscilo come Brahman"

 

 

Nella Brihandaranyaka Upanishad Yajñyavalkya definisce questo principio in forma indiretta:

 

 

"Colui che dimora in tutti gli esseri, e tuttavia è separato da tutti gli esseri, che nessun essere conosce, il cui corpo è tutti gli esseri, che  controlla dall'interno tutti gli esseri, questi è il tuo Sé, il reggitore interiore, l'immortale… Non c'è altri che lui che vede in noi, che sente in noi, che percepisce in noi, che conosce in noi. Egli è il tuo Sé, il reggitore interiore, l'immortale. Tutto il resto è tristezza"

 

Lo gnostico Monoimos veniva chiamato "l'arabo" e non è impossibile che abbia subito influenze indiane.

 

Veda, Vedanta e Upanishad

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veda

 

Termine sanscrito che significa «scienza, dottrina sacra»; designa la più antica produzione letteraria in lingua sanscrita, composta tra il 1500 e 1'800 a.c. Comprende le quattro raccolte (samhita) di testi: Rigveda, Samaveda, Yajurveda e Atharvaveda.

Il Rigveda, «Veda degli inni», la cui stesura fu con­clusa attorno all'anno 1000 a.C., è costi­tuito dalla raccolta di 1028 inni dedicati alle numerose divinità induiste; essi ri­sultano suddivisi in dieci libri di epoca e derivazione diverse: quelli dal II al VII, con elementi risalenti al 1500 a.C. e ol­tre, costituiscono complessivamente la parte più antica di tutta l'opera e si rifan­no alla tradizione di antichissime fami­glie sacerdotali, che andavano acqui­stando sempre più potere e prestigio nel­la nascente società indiana (brahmani); l'VIII comprende inni in gran parte attri­buiti a cantori della famiglia Kanva; il IX è dedicato al solo dio Soma, personifica­zione della bevanda sacra usata nei sacri­fici, mentre il I e il X sono più recenti e di carattere antologico.

Il Samaveda, «Ve­da dei canti», raccoglie 1800 strofe, qua­si tutte tratte dal Rigveda, accompagnate da indicazioni musicali e disposte in mo­do da costituire canti liturgici per la cele­brazione dei grandi sacrifici.

L'Atharva­veda, da Atharvan, mistico sacerdote del fuoco, è il «Veda delle formule magi­che», più recente del Rigveda, e com­prende 731 inni suddivisi in venti libri: contiene formule magiche e per incante­simi amorosi, preghiere da recitare nelle situazioni della vita comune; in altri inni di carattere filosofico, improntati su una concezione panteistica della realtà. si avvicina al pensiero delle Upanishad.

Lo Yajurveda, «Veda delle formule sacrificali», infine, suddiviso in 40 sezioni. è una raccolta di preghiere, per la massima parte composte con versi tratti dal Rigveda, riadattati agli scopi delle grandi cerimonie, durante le quali essi venivano pronunciati dall'adhvaryu, il sacerdote officiante. Il complesso di queste opere ritenute insieme a Brahmana, Aranyaka, Upanishad, frutto della rivelazione divina di Brahma (shruti), ha influenzato in maniera determinante l'evoluzione della storia e della religione indiane.

 

vedanta

 

In sanscrito «la fine dei Ve­da», è uno dei sei sistemi filosofici orto­dossi dell'induismo. Viene così denomi­nato perché si fonda, accettandone l'au­torità, su concezioni espresse in testi co­me le Upanishad, che costituiscono la parte finale dei Veda. Lo sviluppo del Ve­danta è assai complesso e ricopre un pe­riodo lunghissimo: dalle Upanishad più antiche (secc. IX-VI a.C.) a Shankara (secc. VIII-IX d.C.), considerato il massi­mo filosofo indiano di ogni tempo, a Ramanuja, fino ai commentatori moder­ni. La caratteristica che ha sempre con­traddistinto il Vedanta nei secoli, è stato il rigoroso monismo, inteso a dimostrare la verità di un essere unico da cui tutto dipende; ma all'interno di questo indi­rizzo il Vedanta accoglie diverse soluzio­ni al problema centrale del rapporto fra l'Uno (brahman) e il molteplice, fra l'ani­ma universale e le anime individuali. Mentre, ad esempio, per Shankara la vita fenomenica è mera illusione (maya) ri­spetto all'unica realtà del brahman, per Ramanuja essa ne costituisce un aspetto essenziale e coeterno. Ma al di là delle di­vergenze dottrinali, proprio la continua tensione verso la realtà unica fanno del Vedanta uno dei percorsi spirituali privi­legiati dagli induisti, per ottenere l'iden­tificazione del Sé individuale con l'es­senza universale.

 

upanishad

 

Dal termine sanscrito che indica l'atto di sedersi ai piedi del mae­stro e attesta il carattere di dottrina se­greta rivelata esclusivamente al discepo­lo idoneo a riceverla. Con Upanishad si designano un gruppo di testi sacri indui­sti, che costituiscono la parte finale dei Veda e sono stati redatti tra il IX e il VI sec. a.C. Le Upanishad forniscono la ba­se dottrinale alla corrente filosofico-reli­giosa del Vedanta, che si ispira ad esse soprattutto per quanto riguarda l'analisi delle realtà dell'atman e del brahman, che sfociano nella metafisica del moni­smo assoluto. In alcune Upanishad viene delineata la legge del karma e la conse­guente teoria del samsara. Sul piano eti­co insegnano, da un lato, la rinuncia al mondo in vista dei beni superiori della contemplazione, ma, dall'altro, non escludono la morale tipica della vita fa­miliare e sociale, che comporta l'adem­pimento dei doveri quotidiani e degli ob­blighi cultuali. Sono note 108 Upanishad fra maggiori e minori. In Europa esse in­fluenzarono fortemente il pensiero del fi­losofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860).

 

 

Agostinismo e Gnosticismo

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Ci sono brani, esortazioni, come l'ambula ab intra di Agostino, che hanno un suono decisamente gnostico. Ma mentre Agostino, nella sua interiorità, avrebbe trovato un Dio buono, creatore e salvifico, gli gnostici ritrovavano la scintilla sepolta nel corpo creato dall'Arconte corrotto.

 

 

Astrologia tardoantica. Teurgia.

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Cosmologia mesopotamica

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Nella cosmologia mesopotamica esisteva una omologia totale tra cielo e mondo: quanto esiste sulla terra esiste pure, in qualche modo, in cielo; a ogni cosa presente sulla terra corrisponde una identica in cielo sul cui modello ideale è stata realizzata. I paesi, i fiumi, le città, i templi (che sono l'immagine stessa del Cosmo) esistono tutti realmente a determinati livelli cosmici. La pianta di Ninive fu disegnata sulla base della scrittura celeste. Il Tigri si trovava nella stella Anunit, l'Eufrate nella stella della Rondine, la città di Sippar nella costellazione del cancro, quella di Nippur nell'orsa maggiore. Tutte esistevano realmente a questi livelli siderali: la terra non ospitava che la loro immagine, pallida e imperfetta.

La carta geografica del mondo era il riflesso dei ondi celesti. La Sumeria è in una regione circolare circondata dai fiumi del paradiso

La Gerusalemme terrestre è stata fatta a immagine della Gerusalemme celeste composta da pietre preziose, come Babilonia

Il tempio rappresenta il cosmo. Le ziqqurat, i templi, con i loro piani simboleggiavano il mondo infero, materiale, supero;  erano l'immagine della montagna cosmica rappresentazione dell'universo, e anche trono, perché sopra la montagna c'era il dio supremo. Il tempio è posto al centro del mondo, in cui è il trono della divinità e da cui tutto si è originato

Non sapremmo dire se nelle epoche più remote delle culture mesopotamiche questa cosmologia fondata sull'omologia cielo-terra includesse già in modo preciso la nozione di subordinazione del destino umano agli astri. Questa nozione, presente a partire dal periodo centrale della storia della Mesopotamia, era una conseguenza diretta della cosmologia.

Sottolineiamo l'importanza del ruolo che rivestì la visione magica nella nascita dell'astrologia mesopotamica e la sua influenza capitale nel Sudest asiatico e nel Mediterraneo. La nozione di destino implacabile fu fondata da questa visione magica. L'idea di libertà aveva tutt'altro valore in un cosmo chiuso, pervaso dalla forza magica degli astri. Tutto ciò che rientrava nel campo dell'esperienza umana era imbevuto di un'energia magica, invisibile, che modificava la volontà dell'uomo. Nato sotto il segno di una determinata stella e partecipe volente o nolente di un determinato destino cosmico, l'uomo doveva risolver il problema della sua redenzione e quindi della sua libertà per vie che oggi, a una coscienza europea e cristiana, sembrano decisamente assurde. Non si è ancora mostrata nella sua vera luce la rivoluzione provocata a questo proposito dal cristianesimo, che ha distrutto il destino individuale, astrologico, per ripristinare la libertà umana e rendere l'uomo solidale con un destino collettivo, adamitico e non magico, cosmico.

Dall'idea delle corrispondenze viene l'idea dell'uomo specchio del cosmo. Perché tutto ciò che esiste sulla terra esiste anche in cielo, foss'anche sotto un'altra forma, e poiché la vita terrena riflette la struttura d la dinamica siderali, era fatale che pure il corpo umano fosse considerato uno specchio del Cosmo.

Tutti i gesti dell'uomo hanno archetipi celesti (e questo fonda anche il rito) Se è consentito parlare di legge  allora bisogna cercarla in una concezione dell'omologia, delle corrispondenze cosmiche, della magia universale. I fatti e i gesti dell'uomo, poiché si ricollegano a oggetti saturi d'energia o che partecipano di certi valori sovrumani, saranno diretti da leggi sacre, precise. Affinché i suoi atti non lo "modifichino" l'uomo li trasformerà in riti.

Il rito rende l'individuo solidale con la collettività, con la vita organizzata e infine con un Cosmo vivo. Tutti gli atti dell'uomo, anche se totalmente profani (camminare, respirare, nutrirsi, fare l'amore ecc.) sono trasformati in rituali: cioè in strumenti disindividualizzanti e solidarizzanti con le "norme". In una società tradizionale l'uomo non è più solo, perché tutto ciò che fa ha un significato ecumenico accessibile all'insieme della comunità

 

 

L'astrologia tardoantica

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Le conoscenze propriamente astronomiche vengono assimilate prestissimo dai greci, e già Talete a la filosofia ionica mostrano di possedere nozioni astronomiche relativamente avanzate (su cui si basano i primi tentativi di previsione delle eclissi), forse derivate anch'esse dall'Oriente. Intorno ad esse si organizzano numerose e intense attività di osservazione del cielo, tese soprattutto a individuare i cicli calendariali secondo i quali è strutturato il moto degli astri. Coi Fenomeni di Eudossio di Cnido, composti verso il 370 a.C. i greci ebbero la prima descrizione "completa" e organica della sfera celeste, con la posizione relativa degli astri e delle costellazioni , e l'indicazione delle singole stelle che compongono ciascuna costellazione. Non si trattava tuttavia di un modello immobile, ma da una sfera armillare (costituita da armillae, anelli): gli anelli corrispondevano ai movimenti di rotazione del cielo – per esempio l'anello dell'eclittica "situa" il percorso dello zodiaco – e perciò trasformavano la sfera di eudosso in un modello geometrico-cinematico pronto a includere (modificandosi) i risultati di nuove osservazioni, e che si prestava all'applicazione di calcoli matematici.

Parte di qui uno sviluppo ricchissimo che è senza dubbio una delle glorie maggiori della scienza greca: lo stesso Eudosso arricchisce il modello con la teoria delle sfere omocentriche, elaborata per spiegare il modo dei pianeti, dominato da leggi diverse da quelle delle stelle fisse; Aristarco di Samo (terzo secolo a.C.) giunge a proporre con grande scandalo un modello eliocentrico che gli antichi finirono per scartare e che trionferà solo con Copernico; e mentre Apollonio di Perca (II sec. a. C.) introduceva nell'astronomia matematica modelli più complessi, nello stesso secolo Ipparco di Nicea (attivo ad Alessandria e Rodi) e quasi trecento anni dopo Tolomeo di Alessandria intorno al 127 rappresentano il punto culminante dell'astronomia antica, secondo una prassi operativa che assorbendo profondamente i modelli geometrici già elaborati, vi applicava sistematicamente avanzate procedure di calcolo aritmetico e trigonometrico, allo scopo di sviluppare recuperandola dall'antica astronomia "calendariale" la capacità predittiva dell'astronomo. L'opera di Tolomeo che è ancora nota col nome arabo di Almagesto (Megiste Syntaxis, "composizione matematica massima) rappresenta il culmine dell'astronomia antica, ma ne è al tempo stesso la pietra terminale. I secoli successivi non vedranno ormai più che commenti.

Nel 275 inizia lo sviluppo dell'astrologia col poema di Arato di Soli che traspose in termini mitologici le costellazioni della sfera di Eudossio

Con Arato ed Eratostene, contemporaneo dell'astronomia matematica greca di Aristarco e Ipparco, a partire dal terzo secolo a.C. c'era l'immissione nella cultura greca dell'astrologia orientale. Il Tetrabiblos di Tolomeo è il culmine di questo processo (secondo secolo d.C.), si contrappone alla Syntaxis o Almagesto dello stesso autore, che presentava una carta del cielo e usava il calcolo numerico e la geometria degli epicicli per descrivere e prevedere il corso degli astri.

Il cristianesimo negava naturalmente l'astrologia mitologica per il suo intimo legame con l'antico paganesimo, e i Padri della Chiesa avevano fatto ogni sforzo per denigrare e rimuovere. Ma questa astrologia tornava grazie al prestigio della cultura araba.

Fritz Saxl ha mostrato che invece delle figure degli dei greci, abbiamo delle figure che risalgono all'antica astrologia babilonese, cioè alle originarie divinità babilonesi dei pianeti, che gli arabi hanno potuto recuperare in un angolo della Mesopotamia dove i sabei di Harran avevano conservato forme arcaicissime di astrolatria che includevano credenze e iconografie che furono inglobate in un trattato composto in arabo verso il 1050 col titolo di Il fine del saggio e poi tradotto in latino e conosciuto come Picatrix. quindi la rinascita dell'astrologia tardoantica e la sua riscoperta in epoche recenti riportano alla luce antichissimi culti angelici e credenze gnostiche dualistiche della setta dei mandei.

L'astrologia svolse un ruolo decisivo alla fine dell'antichità classica, quando il suo potere era così schiacciante da sconfiggere anche gli dei dell'Olimpo. Saturno e Venere non apparivano più come divinità dell'Atene periclea, ma nelle vesti di divinità astrali, demoni dotati di tutti quei poteri che erano stati attribuiti agli dei della religione pagana. Saturno, vinto dal proprio figlio e relegato in una regione inferiore, faceva sì ce i nati sotto il suo segno vivessero in condizioni miserevoli e soffrissero per ano dei propri figli. Giove presiedeva ai governanti, Marte ai guerrieri, venere agli amanti e così via. Come divinità astrali gli dei pagani mantengono dunque il loro antico potere, e anzi il loro verdetto è ancora più inesorabile, essendo esse a un tempo antropomorfi e legati a un corso cosmico rigoroso. La naturale conseguenza di tutto ciò fu che ili cristianesimo dovette impegnarsi in una difficile lotta contro l'astrologia; ma Cristo detronizzò i pianeti e fatta eccezione per i giorni della settimana l'astrologia fu definitivamente debellata e scomparve.

 

 

La rinascita culturale europea a contatto con le fonti arabe

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La rinascita della scienza greca nel basso medioevo si configurò in definitiva come la riscoperta non solo del vero Aristotele e del vero Tolomeo, ma anche i quella ricca letteratura ellenistica nata dalla fusione del pensiero semireligioso e semiscientifico europeo con quello orientale. Viene ripresa la Sphaera barbarica.

Spagna, Italia meridionale e Bisanzio furono i canali più importanti

La rinascita dell'antichità a partire dal dodicesimo secolo non si limitò al sapere greco e latino. In età ellenistica, fin dal tempo di Alessandro, la cultura e la religione greche si diffusero in oriente, e nello stesso tempo attraverso gli stessi canali arrivarono in Occidente credente orientali che si mescolarono con quelle elleniche. Dopo uno sviluppo autonomo dell'astronomia greca, l'influsso delle culture orientali, dalla mentalità così diversa, costrinse lo scienziato ellenistico a rivedere il proprio atteggiamento. Esistevano altre carte stellari, fatte dai popoli dell'Oriente, in cui gli astri erano indicati con nomi molto diversi. Non sappiamo chi abbia affrontato per primo il problema di raffrontare le due carte, ma sappiamo che alla fine dell'antichità, accanto alla sfera greca, esisteva la Sphaera barbarica che dava alle costellazioni nomi presi in parte dai cataloghi stellari babilonesi ed egizi. Gli astronomi suddivisero la sfera celeste in trecentosessanta sezioni, una per ogni giorno dell'anno, e attribuirono alle stelle comprese in ciascuna sezione la sovranità su quei giorni. Le stelle erano divenute i geroglifici astronomici del destino.

 

 

La ripresa dell'astrologia pagana nei secoli dodicesimo e tredicesimo

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Fritz Saxl ha attirato l'attenzione, in una serie di conferenze a partire dal 1930, su un fatto poco noto: la rinascita delle credenze tardoantiche sui poteri degli astri nell'Europa del dodicesimo secolo.

Nel 1903 l'insigne filologo e storico delle credenze tardoantiche Heinrich Boll pubblica Sphaera, un libro che rivela una scoperta stupefacente: una carta stellare babilonese, diversa da quella che ci aveva tramandato l'astronomia greca classica, piena di nomi astrali di origine babilonese ed egiziana, la cosiddetta Sphaera barbarica. Boll, con pazientissimo lavoro, ne tracciò le origini nel lavoro di compilazione dell'astrologo Teucro, e rivelò l'esistenza di una astronomia e astrologia tardoellenistica le cui credenze erano andate da lungo tempo perdute nelle biblioteche europee. In questo catalogo stellare, alle immagini classiche dei pianeti, ai nomi e divinità di origine greco-romana, venivano sostituiti i nomi e gli dei babilonesi. Da sempre la Sphaera barbarica era utilizzata per gli oroscopi e l'astrologia predittiva. Essa possedeva, oltre alle costellazioni e ai pianeti anche i Decani e la suddivisione della volta celeste in trecentosessanta gradi, ciascuno dei quali aveva influenza su un giorno dell'anno.

La grande ripresa dell'astrologia e della demonologia pagane avvenne nei secoli dodicesimo e tredicesimo che videro al contempo culminare la rinascita della "vera" scienza e della "vera" logica aristotelica. Fu solo nel Settecento e Ottocento che il ritorno all'antichità classica non comportò un parallelo ritorno alla religione pagana, con le sue potenze demoniache e l'influsso da esse esercitato sulla vita terrena. L'inizio del novecento sembra aver segnato un cambiamento di rotta.

Dopo mille anni di silenzio, dal tardo medioevo al sedicesimo secolo l'astrologia fu forza vitale in tutto il mondo cristiano. Il mantello dell'imperatore Enrico II conservato a Bamberga all'atto dell'incoronazione era una raffigurazione del firmamento. Torna ad esprimersi l'idea antica del potere cosmico del sovrano. Un vasto scompiglio si propagò in Inghilterra per l'annuncio di una catastrofe mondiale  predetta per l'anno 1186 da astrologi della spagna e dell'Italia meridionale

In che modo una dottrina bollata da Tertulliano come l'insegnamento degli angeli caduti, e per quasi mille anni respinta dai cristiani perché incompatibile con la loro fede, poté all'improvviso conquistare il mondo nel giro di pochi decenni? Nel dodicesimo secolo c'erano due scuole di pensiero: quella di chi nei classici cerava un ausilio per far luce su questioni di teologia cristiana, e considerava perciò l'astrologia una terra di confine in cui non era lecito aventurarsi, e quella di chi viceversa faceva anzitutto professione di fede astrologica e attribuiva quindi al problema cristiano un'importanza secondaria.

Non è facile rintracciare le radici psicologiche di un tale cambiamento di mentalità - giacché di questo appunto si tratta - e spiegare in che modo una dottrina bollata da Tertulliano come l'insegnamento degli angeli caduti, e per quasi mille anni respinta dai cristiani perché incom­patibile con la loro fede poté all'improvviso conquistare il mondo nel giro di pochi decenni. Ci dobbiamo chiedere quali mutamenti nella vita religiosa del dodicesimo secolo abbiano potuto indurre uomini e donne di fede cristiana ad accettare ciò che le generazioni precedenti avevano condannato. Almeno un fatto sembra chiaro, l'esistenza cioè, nel dodicesimo secolo, di due scuole di pensiero: quella di chi nei classici cercava un ausilio per far luce su questioni di teologia cristiana, e considerava perciò l'astrologia una terra di confine in cui non era lecito avventurarsi, e quella di chi viceversa faceva anzitutto professione di fede astrologica e attribuiva quindi al problema cristiano un'importanza secondaria.

Massimo tra i teologi fu probabilmente Pietro Abelardo. Gli storici ottocenteschi hanno voluto vedere in lui un razionalista intento a stu­diare gli autori classici per arrivare a una comprensione ragionata della fede, ma questo è un modo moderno, e perciò inadeguato, di valutare l'opera di un pensatore del dodicesimo secolo. Abelardo aveva una concezione quasi gnostica dell'illuminazione divina che sarebbe arrivata agli iniziati dell'antichità. Agli occhi di Abelardo, la comprensione dei misteri per cui lottava era una questione di grazia, e la conoscenza un'ispirazione divina proveniente dall'esterno.

È peral­tro vero che gli autori classici, specialmente i filosofi, avevano per Abe­lardo un significato che sembrava essere sfuggito ai suoi predecessori. Secondo lui, Platone aveva avuto conoscenza della Trinità e la Sibilla aveva predetto l'avvento di Gesù in termini più chiari dell'Antico Testa­mento. Una rivelazione, ispirata da Dio, del miracolo cristiano era stata concessa non solo ili profeti ebraici, ma anche ai filosofi classici, che, fedeli alloro appellativo di filosofi, avevano mostrato di amare la sapienza di Dio, quella Sophia che noi chiamiamo Cristo. Erano stati conside­rati degni di questa rivelazione per la purezza davvero cristiana delle loro anime e delle loro vite, poiché non la paura dei castighi o l'attesa di una ricompensa terrena, ma lo stesso amore di Dio aveva ispirato le loro azioni. Possedevano la fede, la speranza e la carità, mancavano solo della fede nella risurrezione, nell'incarnazione e nei sacramenti." Naturalmente, dall'attribuire a Platone una prescienza della Trinità a interpretarla in termini platonici il passo era breve. Così il Verbo è per Abelardo il Nous e lo Spirito Santo è l'Anima cosmica." Da qui sem­bra aprirsi una via per ammettere l'esistenza di un legame tra il mondo superiore e quello inferiore; e se questo legame è costituito dalle stelle - così prosegue l'argomentazione di Abelardo - esse sono una sorta di emissari di Dio incaricati di trasmettere la sua volontà dal cielo alla Terra. Di fatto, Abelardo ritiene condizionati dalle stelle solo alcuni feno­meni naturali, come il tempo atmosferico, e altri di interesse medico, come il carattere, ma non arriva a coinvolgere la volontà e le azioni umane. In altre parole, il corso della vita dell'uomo, la sua professione, le sue amicizie, i suoi amori, tutte quelle cose cioè che gli astrologi riten­gono prevedibili e che ai più preme di sapere, rimangono per lui escluse dall'influsso delle stelle. In certi punti la dottrina di Abelardo adombra tesi astrologiche, ma egli era troppo teologo per svilupparle.

Diverso è il caso degli astrologi veri e propri che, come Adelardo di Bath, s'ispirano a fonti arabe. Per Adelardo le stelle, benché immu­tabili come le sfere superiori, sono esseri viventi bisognosi di cibo, anche se non cibo umano, e possiedono una volontà quasi umana." In che modo l'esistenza di questi esseri demonici si conciliasse col dogma della Trinità era problema che egli non si poneva, come non se lo poneva Bernardo Silvestre, l'esponente più noto di questa scuola di pensiero. Anche per Bernardo le stelle sono immortali, ma allo stesso tempo par­tecipano della natura dell'uomo, perché, come l'uomo, sono soggette alle passioni." La sua opera, di tono così paganeggiante da rendere quasi incredibile la sua ampia diffusione come libro di testo cristiano fino al tredicesimo secolo inoltrato, tratta della creazione dell'uomo e riferisce ampiamente come Natura andò alla ricerca di Urania, la dea delle sfere, perché, per creare l'uomo, aveva bisogno anzitutto delle stelle. Bernardo non era il solo a collegare le stelle con l'origine dell'uomo. Guglielmo di Conches, ad esempio, insegnava che Dio creò gli spiriti e le stelle, e che queste crearono a loro volta il corpo umano; ma inse­gnava altresì che l'anima umana è un dono di Dio, evitando in tal modo una conclusione scopertamente astrologica.

Bernardo, tuttavia, non si fermò a mezza strada e arrivò ad attri­buire all'influsso degli astri tutti gli eventi del mondo conosciuto: la saggezza dei greci, la potenza di Roma, le fatiche d'Ercole. Le stelle ave­vano inviato Cristo, e sempre le stelle avevano inviato, quando i tempi erano maturi, anche il rappresentante di san Pietro, papa Eugenio A Bernardo si deve inoltre uno dei pochi esempi medievali a noi noti di dramma classico, o meglio di epica classica." Ecco la storia: una donna apprende da un astrologo che per decreto delle stelle il bambino che porta in grembo è destinato a uccidere il proprio padre. Viene dun­que deciso di esporre il neonato, ma la madre riesce a salvarlo. Il figlio cresce e diventa un giovane bello e brillante, che a tempo debito riesce a liberare Roma, sua città natale, dal nemico. Ritorna trionfante e viene incoronato re. Durante i festeggiamenti, la madre, non potendo più trat­tenersi, rivela il segreto al marito, che si rassegna al suo destino. Il figlio, però, allo scopo di spezzare l'incantesimo delle stelle, si appella al senato della città per ottenere il permesso di uccidersi, chiedendo solo che gli sia concesso un funerale onorevole. Qui la storia si interrompe, e rima­niamo nel dubbio se Bernardo intendesse far prevalere il decreto delle stelle o l'inclinazione cristiana al sacrificio. Una cosa però è chiara: Ber­nardo, che del resto non è un teologo, si situa al polo opposto di Abe­lardo: è tutto preso dalle nuove dottrine ed è pienamente consapevole delle conclusioni a cui portano.

È affascinante per uno storico osservare il gioco di queste nuove forze, la loro comparsa, il loro equilibrio instabile e la loro lotta per il predo­minio. Fino al secolo seguente non vi è alcun segno di sistemazione teorica; che cosa abbia reso gli uomini e le donne del dodicesimo secolo così ricettivi alle dottrine astrologiche rimane un enigma. Non possiamo fare altro che ricostruire la forma in cui la tradizione fu accolta e misu­rare la forza del suo impatto attraverso l'effetto che essa ebbe su pensa­tori come Abelardo e Bernardo .

Una nuova distanza, incommensurabilmente maggiore di prima, si era aperta tra l'uomo e il Dio delle Scritture. Possiamo forse dire che fino al dodicesimo secolo gli uomini avevano inviato le loro preghiere oltre i cieli direttamente alla Trinità; adesso la preghiera sale lentamente attraverso le sfere, e i demoni governatori dei cicli planetari sono più vicini al supplicante della divinità, e gli appaiono come i veri signori della sua vita di ogni giorno. Nessuna meraviglia, dunque, se le vecchie preghiere ai pianeti, come quelle che conosciamo dai papiri magici, ven­gono di nuovo studiate e copiate," e non doveva essere raro, per un uomo in difficoltà, rivolgersi al proprio pianeta invece che a Cristo."

Conseguenza della nuova fede fu perciò un forte stimolo a inda­gare le leggi dei corpi celesti. La curiosità dello studioso scaturiva da un movente di carattere personale, il timore dei demoni. La storia del­l'astronomia dal dodicesimo secolo fino all'epoca di Keplero non può essere separata dalla storia dell'astrologia, e non è un caso che persino Keplero abbia iniziato la sua carriera come astrologo. Oggi non ci occu­piamo più di astrologia: non guardiamo più il cielo, poiché le stelle hanno perso il loro significato religioso insieme alla loro natura demonica. Ma chi voglia comprendere la religiosità del Medioevo o cerchi di scrivere la storia dell'astrologia, troverà la strada bloccata se si accosterà all'ar­gomento con idee moderne. Quando la fede negli astri trovò posto nella tradizione cristiana, la religiosità medievale ne fu sconvolta, e solo acco­gliendo questo dato di fatto possiamo sperare di comprendere i carat­teri peculiari che separano il dodicesimo secolo dal millennio precedente.

Senza dubbio, dovette ritornare in uso anche l'antico sacrificio pagano alle divinità planetarie: a confermarlo è il numero considerevole di illustrazioni che in un manoscritto astrologico proveniente dalla cerchia di Alfonso il saggio di Castiglia che mostrano io fedele davanti all'altere su cui arde il fuoco sacrificale e, dietro l'altare, la vittima. Le preghiere che l'orante indirizza alle divinità astrali consistono, oltre che nell'invocazione del dio con tutti i suoi nomi, in una specie di litania e infine nell'espressione dei propri desideri. Sulla realtà di questi sacrifici non possono esservi dubbi, né deve meravigliare che in un sol giorno dell'anno 1335 sessantatré persone siano state citate in giudizio a Tolosa con l'accusa di pratiche magiche, e che otto di esse siano state condannate a morte, undici al carcere a vita, quarantaquattro a vent'anni di prigione. Questi dati si possono leggere da documenti ancora esistenti.

Il dodicesimo secolo che per primo vide l'astrologia pagana riprendere quota, dovette essere un'epoca per più versi affine alla nostra: l'età delle crociate fu percorsa da inquietudini simili a quelle odierne; lo strepitoso sviluppo della scienza dovette alimentare allora come oggi, attese miracolistiche nei confronti degli scienziati; anche allora infine la religione cristiana sembrò non soddisfare più completamente i bisogni spirituali dell'uomo e si aprì un varco alla revivescenza del paganesimo. Grazie agli sforzi dei pensatori ebrei e cristiani la monumentale opera scientifica di Aristotele fu tradotta dall'arabo in ebraico e in latino e l'Europa poté così riscoprire le grandi conquiste della scienza e della logica greche.

 

 

La teoria del microcosmo è alla base della astrologia

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In un mito cosmogonico di origine iranica si narra la creazione del primo uomo, "Vita Mortale", a somiglianza dell'universo: risplendente come il Sole, di larghezza pari all'altezza, Vita Mortale ha per pelle il cielo, per carne la terra, le montagne per ossa, per vene i fiumi; il sangue del suo corpo è come l'acqua dei mari, il suo ventre come l'Oceano, i suoi capelli come le piante, il midollo delle sue ossa come i minerali; "la sua testa è il più alto dei cieli, i suoi occhi il sole e la luna, i suoi denti le stelle, le sue orecchie le finestre del cielo, le sue narici la brezza del paradiso cui dà accesso la bocca". Di questa grandiosa concezione del microcosmo esistono tracce nell'India antica e nelle mitologie delle altre razze. Essa raggiunse il pensiero ermetico e gnostico della tarda antichità. In epoca ellenistica fu tradotto in linguaggio astrologico e assunse così un carattere particolare. Si disse che il corpo umano mortale, fatto a somiglianza di quello del Primo Uomo fosse interamente costituito dagli elementi del cielo stellato: i segni dello zodiaco formavano il tronco e gli arti, i denti corrispondevano alle stelle fisse, il naso alla brezza celeste, le sette aperture della testa ai sette pianeti. Attraverso questi collegamenti l'immagine acquista un significato nuovo: quella che era una semplice metafora diviene la cifra della condizione e del destino umani, dell'uomo come specchio dell'universo.

 

 

La lotta della chiesa contro le religioni astrali

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I Padri della Chiesa, come Tertulliano, che condanna l'astrologia come dottrina degli angeli caduti, non potevano accettare che il potere di Cristo fosse soppiantato da quello delle divinità planetarie.

 La definizione dell'astrologia data da Tertulliano come dottrina degli angeli caduti dimostra che fin da principio la posizione cristiana fu in netto contrasto con quella di tutte le altre religioni tardoantiche, compreso lo gnosticismo. Si potrebbe dire che ciò che distingue il tardo paganesimo dalle sue fasi precedenti è la trasformazione degli dei in divinità astrali. Il Giove ellenistico-romano non è più libero di agire come lo Zeus Olimpio; il suo corso nel cielo è immutabile e, benché sia un essere animato il cui volere può essere buono o cattivo, la sua libertà d'azione è limitata dal potere delle altre divinità astrali, esseri animati come lui e in grado di influenzarlo. A Giove, divinità astrale positiva, si contrappone il perfido Sturno. Come Olimpio, Zeus aveva sconfitto e ridotto all'impotenza il padre Crono, ma nella tarda antichità l'influsso benefico di Giove come divinità astrale è contrastato dall'azione nociva di Saturno, a un tempo suo padre e suo prigioniero.

Fu un'impresa storica memorabile quella compiuta dalla Chiesa dissociandosi dallo gnosticismo, il cui carattere distintivo consisterebbe, secondo alcuni studiosi (Anz, Zur Frage nach dem Ursprung des Gnostizismus, Lipsia 1897) nel ruolo determinante attribuito alle sette divinità planetarie. Lo gnosticismo, come il mitraismo ( altra forma di religione astrale) fu spazzato via dalla Chiesa, e per mille anni non vi furono astrologi in Europa. Non possiamo discutere qui le ragioni pe cui la Chiesa prese una posizione così decisa contro la fede negli astri. Certo, era inevitabile che i cristiani di discendenza ebraica vi si opponessero con un'ostilità totale: il Dio dell'Antico Testamento  non tollera altre divinità accanto a sé e la dottrina paolina del peccato originale non lascia spazio a colpe che possano venire attribuite all'influsso delle stelle.

 

 

Il giudaismo ellenizzante. Filone di Alessandria.

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Vedi Gnosi, catarsi, salvezza misterica, estasi nell'antichità e nel Cristianesimo delle origini

 

 

Il Neoplatonismo

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L'ermetismo

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La fine dello gnosticismo e i suoi prolungamenti in epoca medievale

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I Mandei

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I Mandei costituiscono l'unico caso di una comunità gnostica sopravvissuta fino ad oggi con una tradizione scritta ininterrotta, testimoniata dalla loro voluminosa letteratura in aramaico; essa è giunta all'attenzione de­gli studiosi occidentali nel XIX secolo, dopo essere sfug­gita a quella dei Padri della Chiesa nell'antichità (pro­babilmente per l'orientamento prevalentemente greco dei Padri stessi). In tutti gli altri casi, le nuove fonti ori­ginali di solito convalidano, arricchendola variamente, la testimonianza ricavata dalla precedente prova indiret­ta. Il seguente resoconto - basato sull'intero materiale citato, nella sua estrema varietà - è sinottico e selettivo e risulta articolato secondo uno schema che rinvia a una concezione sistematica di questo complesso.

 

 

Ismailiti e Sciiti

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La setta degli assassini

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Fino a poco tempo fa, in Occidente, gli Ismailiti erano conosciuti come la famosa Setta degli Assassini, di cui le prime notizie giunsero con le cronache delle Crociate, creando attorno a loro un alone di fosca leggenda. La parola "assassini" deriva da "hashashin", cioè "consumatori di hashish". Leggiamo quanto ancora scrive negli anni Settanta uno storico delle religioni del calibro di Ambrogio Donini:

"L'uso dell'hashish o "canapa indiana" (Cannabis indica) è attestato sin dai tempi più antichi, tanto che Erodoto ne attribuiva l'invenzione e la consumazione agli Sciti (Storie, IV, 75). Le sue foglie, essiccate e masticate, hanno dato origine alla droga caratteristica dei paesi a religione musulmana, con effetti simili a quelli dell'oppio. I primi consumatori arabi di hashish si organizzarono in Siria, verso gli inizi del secolo XI, come un gruppo dissidente ed estremistico dell'islamismo, nel suo ramo sciita, gli Ismailiti; essi presidiarono castelli e fortezze e diedero molto filo da torcere ai Crociati, anche se i loto temutissimi attentati terroristici non risparmiarono né i califfi né i sultani, che li combatterono con non minore ferocia, fino al loro sterminio totale ad opera degli invasori mongoli nel 1256. Tra loro si chiamavano Fida'is i "devoti"; ma sono passati alla storia, attraverso il francese, e poi in italiano, come gli "assassini", gli hashashin, cioè i drogati dell'hashish. Il termine, nel senso di "omicida", è già noto a Dante (Inferno, XIX, 50: "lo perfido assessin"). Per essere pronti ad eseguire fedelmente gli ordini dei loro capi, diretti quasi sempre all'uccisionie dei loro avversari, i membri di questa setta religiosa si inebriavano della droga di canapa prima di attaccare il nemico, quasi sempre con colpi di mano individuali. Si ricordi l'episodio del "Vecchio della montagna" e dei suoi spietati seguaci nel Milione di Marco Polo".

Oggi gli storici del pensiero islamico, con Corbin in testa, considerano questo ritratto poco più di una "leggenda noir", grossolana e ingiustificata, e mettono invece in evidenza l'altissima spiritualità di questo gruppo religioso.

 

 

Premesse storiche

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Nel 224 d.C. i Sassanidi salirono al potere e promossero aggressivamente la forma zurvanita dello zoroastrismo. Giunsero a persecuzioni di cristiani. I cristiani a partire da Costantino furono guardati con sospetto per le connessioni con l'impero romano. Per questo la chiesa persiana (c.d. chiesa d'oriente) ruppe con la cristianità romana e fu tollerata e talvolta favorita dai sassanidi.

Una forma di zoroastrismo dominò anche in regioni del Caucaso pre-cristiano (odierno Azerbaijan). Durante il periodo di sovranità suo Caucaso i sassanidi tentarono di promuovere lo zurvanismo

Nel VII secolo l'impero sassanide fu distrutto dagli arabi e rimpiazzato dal califfato Umayyade. Tuttavia non furono fatti seri tentativi di forzare la conversione all'Islam. Dato l'elevato numero e l'impossibilità di convertirli fu loro esteso lo stato di dhimmi (sebbene i giuristi islamici abbiano sempre dibattuto questo)

Una forte pressione sociale ed economica portò però dapprima alla conversione della nobiltà e degli abitanti delle città, mentre più lenta fu la penetrazione nelle campagne e tra la nobiltà agraria.

Si originò una tradizione che mostrava l'Islam come una religione in parte iraniana. Husayn, quarto figlio del califfo Ali e nipote di Maometto, avrebbe sposato una principessa sassanide prigioniera, Shahrbanu. Il figlio di questa unione era il quarto imam sciita. Queste tradizioni fecero accettare l'islam a un certo numero di iraniani. Ora anche i musulmani sciiti venivano visti come patrioti che contrastavano l'arroganza Umayyade, esattamente come gli zoroastriani autentici.

Nel 750, con l'aiuto dei persiani, gli abbasidi rovesciarono gli Umayyadi e governarono fino al 1258.

 

 

Il patto eterno di fedeltà, il ciclo della profezia e il ciclo dell'imamato

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La coscienza religiosa dell'Islam è centrata su un fatto metastorico. Nel Corano (Cor. 7/171) è narrato che Dio domanda agli spiriti degli esseri umani preesistenti al mondo terrestre: "Non sono forse il vostro Signore"? L'acclamazione di gioia che risponde a questa domanda suggella un patto eterno di fedeltà ed è la fedeltà a questo patto che i profeti sono venuti di periodo in periodo a ricordare agli uomini; la loro successione forma il "ciclo della profezia". Da ciò che hanno enunciato i profeti risulta la lettera delle religioni positive: la legge divina, la shari'a. Al di là della lettera c'è il senso vero, spirituale (haqiqat). La religione positiva è l'aspetto essoterico dell'Idea. La haqiqat non può essere definita al modo dei dogmi da un Magistero. Dopo Maometto non vi saranno più profeti, ma la haqiqat esige però delle Guide, degli Iniziatori che conducano ad essa.

Il senso del Corano da solo non basta, perché contiene sensi nascosti, profondità esoteriche, contraddizioni apparenti. La scienza di questo libro non può essere perseguita dalla comune filosofia. Bisogna "ricondurre" (tawil)I il testo al piano in cui il suo senso è vero. Questo non si può ottenere con la sola dialettica (kalam).

Per lo sciismo la fine del ciclo della profezia (nobowwat) è stata inizio di un nuovo ciclo, il ciclo della walayat o imamato, che deve portare alla "fruttificazione" della profezia.

Tanzil  designa propriamente la religione positiva, la lettera della rivelazione. Ta'wil significa al contrario far ritornare, ricondurre all'origine, e perciò ritrovare il senso vero e originale

Per la gnosi ismailita la realizzazione del ta'wil è inseparabile da una nuova nascita spirituale.

Zahir è l'essoterico, batin l'esoterico. Abbiamo quindi sharia e haqiqat, zahir e batin, tanzil e tawil

Il più antico commento spirituale del Corano è costituito dagli insegnamenti impartiti dagli Imam sciiti durante i loro colloqui con i discepoli.

Le regole dell'ermeneutica mistica furono formulate dagli Imam dello sciismo. I grandi temi della gnosi sciita si sono formati soprattutto attorno all'insegnamento del quarto, quindo e sesto imam.

Sarà la parusia del dodicesimo imam, il Mahdi, l'Imam nascosto) che, alla fine del nostro Eone, porterà la piena rivelazione divina.

A queste idee fanno riferimento anche i mistici (sufi) che molti filosofi islamici

 

 

Definizione  e distinzioni tra sciismo duodecimano, ismailismo fatimida, ismailismo di Alamut

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Il termine sciismo (shi'a, gruppo di discepoli ) designa l'insieme di coloro che accettano l'idea dell'imamato, nella persona di Ali ibn Abi Talib (cugino e genero del Profeta, del quale sposò la figlia Fatima) e dei suoi successori, inaugurante il ciclo  della walayat, succeduto a quello della profezia. La parola Imam designa colui che sta o che cammina avanti. E' la guida. Nell'uso corrente essa designa colui che guida la preghiera nella moschea; spesso viene usata per designare il capo di una scuola (Platone è ad es. l'Imam della filosofia). Ma per gli sciiti il termine è riservato a quei membri della casa del Profeta designati come "impeccabili"; per gli sciiti duodecimani essi sono i "quattordici purissimi", cioè il profeta, la figlia Fatima e i dodici imam.

A differenza degli altri profeti, Maometto ha in sé anche la luce dell'anthropos, il libro divino prima che divenga parola udita. Lui e il suo walayat sono la stessa cosa.

Il punto in cui inizia il ciclo della profezia sulla terra è l'esistenza dell'Adamo terrestre, che si è manifestato per la prima volta nell'isola di Ceylon. Ci sono vari tipi di nabi (profeti). Ce ne sono stati 124.000. Ma solo sei o sette profeti maggiori, capaci di enunciare una nuova sharia (profezia legislatrice). Quelli prima di Mohammad, incluso Gesù, hanno rivelato solo aspetti parziali dell'anthropos celeste. Ciascuno, compreso Maometto, è stato seguito da 12 imam (per cristo non corrispondono esattamente ai 12 apostoli)

L'undicesimo imam, Hasan al-askari, tenuto prigioniero degli abbasidi morì a 28 anni nell'873. Lo stesso giorno scompariva suo figlio che aveva cinque anni ed ebbe inizio la occultazione minore. Essa durò 70 anni, nel corso dei quali l'imam nascosto ebbe quattro rappresentanti o naib mediante i quali i fedeli potevano comunicare con lui. Al'ultimo di costoro, Ali Samarri, egli ordinò in un'ultima lettera di non scegliersi alcun successore perché era venuto il tempo dell'ultima occultazione, l'occultazione maggiore (ghaybat kobra). Da questo momento ha inizio la storia segreta del dodicesimo imam. L'imam nascosto è presente nel cuore dei suoi fedeli, è l'imam della resurrezione. La storia segreta di tale imam domina la coscienza sciita da dieci secoli. Non sarà visibile finno al momento della parusia altro che in sogno o manifestazioni personali. E' come un Cristo spirituale. Dipende dagli uomini che appaia loro o no. La sua apparizione è il senso stesso del loro rinnovamento. Sono gli uomini che hanno velato a se stessi l'imam, perché hanno perduto la capacità di conoscere col cuore. La parusia è un evento che si verifica di giorno in giorno nella coscienza degli sciiti fedeli. L'imam nascosto finché tutti non saranno in grado di comprendere i segreti del tahwid persino con i lacci dei sandali. Viene da alcuni pensatori sciiti identificato col paracleto la cui venuta è annunziata da Giovanni.

Abbiamo due forme di sciismo: quello duodecimano e quello settimano o ismailismo. Come già detto, ognuno dei sette profeti ha avuto i suoi dodici imam. Per l'imamismo duodecimano il "Pleroma dei Dodici" è ora concluso. L'ultimo di essi è stato e resta il dodicesimo imam l'imam di questo tempo; è l'Ima, "celato ai sensi, ma presente al cuore", presente nello stesso tempo al passato e al futuro.

Fino al sesto Imam, Ja'far al-Sadiq (m. 765), sciiti duodecimani e ismailiti veneravano la stessa discendenza di imam. I grandi temi della gnosi sciita si sono formati soprattutto attorno all'insegnamento del quarto, quindo e sesto imam.La causa occasionale della loro separazione  fu la morte prematura del giovane Imam Ismail, che aveva già ricevuto l'investitura dal padre Jafar al-Sadiq. Gli adepti entusiasti che, raccolti attorno a Ismail tendevano ad accentuare quello che è stato chiamato lo Sciismo estremo, si raccolsero attorno al primogenito di Jafar, che era  Ismail. Ismail morì prima di Jafar. Alla morte di Jafar la successione sarebbe dovuta andare al figlio di Ismail, ma Jafar indicò un fratello di Ismail, Musa Karzem. Altri, invece, sostennero il nuovo settimo imam investito dall'Imam Jafar, Musa Kazem, fratello di Ismail. Da un imam all'altro portarono la loro obbedienza fino al dodicesimo, Mohammad al-Mahdi, figlio dell'imam Hasan al-Askari, misteriosamente scomparso il giorno stesso della morte del suo giovane padre. Sono gli sciiti duodecimani. Si parla di "grande occultazione" del dodicesimo imam. In quella data muore anche il suo ultimo naib o rappresentante, Ali al Samarri, il quale aveva ricevuto dall'imam l'ordine di non designare alcun successore.

Tra la morte di Mohammad, figlio di Ismail e il fondatore dei Fatimidi del Cairo ci sono tre imam nascosti. La dinastia fatimide è il periodo trionfale, durante il quale sembra che si possa rivelare la speranza ismailita di un regno di Dio. Nascono grandi opere sistematiche.

La morte dell'ottavo califfo fatimida Al-Mostansir billah (1094) provocò a causa delle decisioni da lui prese in merito  al proprio successore, la scissione della comunità ismailita in due branche: da una parte gli ismailiti orientali, cioè di persia, con centro Alamut, nelle montagne a sud ovest del Caspio. Essi riconoscono come capo l'Aga-Khan. Dall'altra gli ismailiti occidentali (Egitto e Yemen), che riconobbero l'imamato di al-Mostali, secondo figlio di al-Monstansir e che continuarono l'antica tradizione fatimida. Essi riconoscono come ultimo Imam fatimida Abul-Qasim al-Tayyb, figlio del decimo califfo fatimida (m. 1130). Egli scomparve bambino e gli ismailiti occidentali professano come gli sciiti duodecimani la necessità dell'occultamento. Essi ubbidiscono a un dai o grande sacerdote, che ne è il rappresentante.

Seguono tre grandi periodi di approfondimento dottrinale e di importanti scritti; il secondo periodo va fino al 1273; il terzo fino al 1631; il quarto va da Mir Damad (m. 1631) e Molla Sadra Shirazi (m. 1640) in avanti

Lo sciismo è la religione ufficiale dell'Iran da quasi cinque secoli

 

 

Caratteri  distintivi dell'ismailismo rispetto allo shiismo

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L'ismailismo pone l'accento sulla resurrezione spirituale a detrimento dell'osservanza della shari'a (legge, rituale): le scissioni all'interno dello sciismo si produrranno sui rapporti tra zahir (essoterico) e batin (esoterico). Secondo che si conservi l'equilibrio fra sharia e haqiqat, la profezia e l'imamato, senza dissociare il batin dallo zahir si ha la forma dello sciismo duodecimano, e in certa misura quella dell'ismailismo fatimida; se invece il batin prevale al punto da cancellare lo zahir e di conseguenza l'imamato acquista la precedenza sulla profezia si ha l'ismailismo riformato di Alamut.

 

 

Le tradizioni sul senso segreto delle scritture cui si rifà lo sciismo

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L'esistenza del senso segreto delle scritture si basa su alcune tradizioni: a) Abdallah ibn Abbas, primo imam e uno dei più celebri compagni del profeta, trovandosi un giorno in mezzo a una folla riunitasi a poche miglia dalla Mecca esclamò, facendo allusione ad un versetto coranico sulla creazione della terra e dei cieli: "O uomini!  se commentassi davanti a voi questo versetto come l'ho udito commentare dal Profeta, voi mi lapidereste"; b) In una hadith il Profeta afferma: "Il Corano ha un'apparenza esteriore e una profondità nascosta, un senso essoterico e un senso esoterico; questo senso esoterico nasconde a sua volta un senso esoterico, al modo in cui le sfere celesti sono racchiuse le une nelle altre; così di seguito fino a sette sensi esoterici". Quest'ultima hadith è fondamentale per lo sciismo

La tradizione riporta anche che chi sentiva Ali (il primo Imam) commentare il Corano rimaneva profondamente colpito

Lo stesso primo Imam è riportato affermare: "Non v'è stato versetto disceso sull'inviato di dio che egli non mi abbia dettato subito dopo, facendomelo poi recitare. Io lo scrivevo di mia mano ed egli me ne insegnava il tafsir (spiegazione letterale) e il tawil (esegesi spirituale). Egli pregava dio di riempire il mio cuore di conoscenza e di comprensione, di giudizio e di luce".

 

 

Intelletto attivo e intelletto passivo in Aristotele e nei commentatori successivi

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Quella di intelletto attivo è una nozione di origine aristotelica che ha dato luogo ad un pro­blema a lungo dibattuto dai commentatori antichi di Aristotele, dalla Scolastica araba, dalla Scola­stica cristiana e dall' Aristotelismo rinascimentale. Per l'importanza che avrà questa nozione nella filosofia islamica, ne facciamo qui una breve esposizione.

Il problema nasce dalla distinzione aristotelica tra intelletto potenziale e intelletto attuale. "Come in tutta la na­tura, dice Aristotele, c'è qualcosa che fa da materia a ciascun genere e qualcosa invece che è causalità e attività, anche nell'anima devono necessariamente esserci queste due cose diverse. Difatti da un lato c'è l'intelletto che ha la potenzialità di essere tutti gli og­getti, dall'altro c'è l'intelletto che li produce, il quale ul­timo si comporta come la luce: anche questa infatti fa passare all'atto i colori che sono solo in potenza. Questo intelletto è separato e impassibile e senza mescolanza, perché la sua sostanza è l'atto stesso". (De Anima). Aristotele ag­giunge che soltanto questo intelletto attuale e attivo è "immortale ed eterno". Di qui il problema: ap­partiene tale intelletto all'anima umana o fa parte, per la sua incorruttibilità, eternità e attualità perfetta, della stessa divinità? Tre sono state le soluzioni principali di questo problema, e precisamente le seguenti:

 

 

  La separazione dell'I. attivo dall'anima umana. È questa la soluzione difesa nell'antichità dal commentatore di Aristotele, Alessandro di Afro­disia (sec. Il) che identificò l'intelletto attivo con la causa prima cioè con Dio; e ritenne proprio dell'anima umana: a) l'intelletto fisico o materiale (ilico) che è l'intelletto po­tenziale, simile all'uomo che è capace di apprendere un'arte ma non è ancora in possesso di essa; b) l'intelletto acquisito, che è il perfeziona­mento o il compimento del precedente cioè l'insieme delle abilità proprie nell'uomo educato ed è simile all'artista che è giunto a possedere la sua arte. Questa solu­zione, negando all'anima umana il solo intelletto immor­tale ed eterno che è quello attivo, da un lato nega l'immortalità dell'anima stessa. dall'altra accentua la dipendenza dell'attività intellettuale umana dai sensi. Essa ricorre frequentemente nella storia della filosofia. La riprende infatti il neoplatonismo arabo con Al Kindi (sec. IX). Al Farabi (sec. IX) e Avi­cenna (sec. XI). Avicenna tuttavia non riteneva questa soluzione contraria all'immortalità dell'anima giacché ammetteva che la dipendenza dell'anima dall'intelletto attivo e quindi da Dio si conservasse anche dopo la separazione dell'anima dal corpo e bastasse a dare all'anima l'immortalità. Ammet­tevano egualmente questa dottrina Avempace (se­colo XII) e Mosé Ben Maimon (sec. XII) il più fa­moso dei filosofi giudaici del Medioevo. L 'ammetteva pure Ruggero Bacone. Nel Rinascimento. la stessa soluzione veniva difesa da Pietro Pomponazzi: che insisteva sulle condizioni sensibili del funzionamento dell'I, umano e riteneva impossibile la dimostrazione dell'immortalità.

 

 

  La separazione dell'intelletto attivo e dell'intelletto pas­sivo dall'anima umana. Questa fu la soluzione proposta da Averroè. L'intelletto materiale o ilico, che i sostenitori della precedente soluzione attribuivano all'uomo, viene anch'esso ritenuto da Averroè se­parato dall'anima umana. Nell'anima umana. l'intelletto materiale non è che una semplice disposizione comunicata dall'intelletto attivo; e precisamente una dispo­sizione ad astrarre dalle immagini sensibili i concetti e le verità universali. All'uomo non rimane per­tanto. che l'intelletto acquisito, che Averroè chiama pure speculativo e consiste nella conoscenza delle verità universali (De Anima). Questa dottrina di­venne tipica dell'averroismo medievale: fu difesa da Sigieri di Brabante (sec. XIII) nello scritto De anima intellectiva. Numerosi seguaci ebbe questa soluzione nell'aristotelismo del Rinascimento.

 

 

  L'unità dell'intelletto attivo e passivo con l'anima umana. Questa tesi fu sostenuta nel sec. IV dal com­mentatore di Aristotele Temistio in polemica con Alessandro e più tardi (sec. VI) dall'altro commentatore Sim­plìcìo, anch'egli neoplatonico. Essa fu ripresa nel sec. XIII. durante la polemica contro l'averroismo che si svolse nella scolastica latina di quel tempo. Alberto Magno e S. Tommaso polemizzano contro la separazione averroistica e alessandristica dell'intelletto dall'anima umana. Essi ammettono bensì che c'è al di sopra dell'anima umana l'intelletto separato di Dio; ma ritengono che l'uomo partecipa di questo intelletto e che l'intelletto attivo fa parte della sua anima come una luce che è accesa in questa dall'intelletto divino. Contro uno scritto di Sigieri era probabilmente diretto il De unitate intellectus contra Averroistas di S. Tommaso; al quale è a sua volta una risposta lo scritto De anima intellectiva di Sigieri. La principale obiezione di S. Tommaso è che. se l'intelletto fosse una sostanza separata. non sa­rebbe l'uomo stesso a intendere ma tale sostanza; al che Sigieri risponde che l'intelletto agisce nell'uomo, non come un motore ma operans in operando cioè come principio direttivo della sua attività. Nel Ri­nascimento. fu soprattutto Marsilio Ficino a di­fendere l'unità dell'intelletto con l'anima umana (Theologia platonica, XV, 14).

 

 

La gnosi ismailita e la teoria dell'intelletto  agente

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Sciismo e ismailismo hanno in comune l'idea della conoscenza come epifania il cui organo di percezione ha sede nel cuore. Viene richiamata  la teoria dell'intelletto agente di Avicenna: senza questo angelo-intelligenza l'intelletto umano non può conoscere. Quindi nello sciismo tra la gnosi e la conoscenza ordinaria non c'è differenza di qualità, ma di grado. Si tratta di una manifestazione con differenti gradi di eminenza, il cu limite è costituito dalla visione dell'angelo che proietta le conoscenze nel cuore in stato di veglia (i gradi minori sono: a) avere visioni e sentire la voce dell'angelo in sogno; b) avere visioni e vedre l'angelo in stato di veglia; c) capacità di apprendere non solo il significato di una sharia già data ma di enunciare una sharia nuova).

Filosofia e ierognosi hanno la stessa fonte.

Lo Sciismo identifica l'intelletto agente con l'angelo della conoscenza e con l'angelo della rivelazione (Gabriele); secondo gli Sciiti la sapienza degli antichi sapienti greci viene anch'essa dalla "Nicchia delle luci della profezia" (intelletto agente).

 

 

Il corpus dottrinale sciita e ismailita

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Gli Imam sciiti hanno lasciato un enorme corpus contenente il loro insegnamento, che come la sunna fa parte dell'islam sunnita, fa parte dell'Islam sciita. Quando gli sciiti parlano di Sunna, includono anche questa tradizione (26 tomi in 14 volumi in folio)

Tre grandi periodi di approfondimento dottrinale si sono susseguiti, dal 1130 (scomparsa dell'ultimo imam fatimida) al 1273 e dal 1273 al 1631 e dal 1631 ancora con pensatori come Mir Damad e Molla Sadra Shirazi.

 

 

Legami dell'ismailismo con la gnosi antica

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La imamologia è l'omologo di una cristologia gnostica. Il più antico testo ismailita (intitolato Archetipo del Libro) contiene echi dei Vangeli dell'infanzia. Nell'Archetipo si ritrovano idee gnostiche:

 

  Nell'Archetipo ritroviamo la scienza mistica delle lettere della scuola di Marco lo gnostico. Per costui il corpo della Aletheia (verità) si componeva delle lettere dell'alfabeto. Per i più antichi degli gnostici sciiti le lettere sono gli elementi di cui è fatto il corpo stesso di Dio.

 

 

  Nell'Archetipo abbiamo i gruppi di cinque (pentatdismo) e in genere una cosmologia con tracce nette di manicheismo

 

 

  Nell'Archetipo c'è un catenoteismo di estremo interesse (un dio solo per volta governa il mondo, mentre le altre divinità aspettano il loro turno)

 

 

  Nell'Archetipo c'è il tema dei "sette combattimenti di Salman" (Salman raccoglie  i tratti dell'arcangelo Michele e dell'anthropos celeste degli gnostici), che sono omologhi agli sforzi dell'anima dello gnostico per superare la barriera rappresentata dal settenario.

 

 

  Come gli antichi gnostici, gli ismailiti utilizzavano definizioni negative di dio: Mistero dei misteri, Originatore, ecc.

 

 

  Gli ismailiti avevano una cosmogonia emanatista omologabile a quella gnostica

 

 

  Il tema della "nostalgia" compare anche nell'ismailismo

 

 

  Le intelligenze emanate, nell'ismailismo, sono a due a due in rapporto, come hadd e mahdud, ciò che richiama le sigizie o gemellaggi gnostici. Il fatto che l'essere in posizione superiore è la luce che consente all'essere inferiore di elevarsi richiama il tema delle fravarti zoroastriane, che sono state recepite nel manicheismo.

 

 

  Le intelligenze emanate formano, anche nell'ismailismo, un mondo di luce e pienezza, un Pleroma.

 

 

  Il ruolo della prima intelligenza emanata come deus revelatus accanto al deus absconditus, è lo stesso che nello gnosticismo.

 

●  Il cosmo fisico è creato da un demiurgo inferiore alla divinità, nel caso ismailita il terzo angelo, l'Adamo celeste

 

  Il cosmo fisico è creato per consentire alle anime di ritrovare la libertà perduta (questa è una variante che risente di influenze manichee e zoroastriane-zervanite)

 

 

I miti ismailiti sull'origine del Cosmo omologhi ai miti gnostici

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Tawhid (il "ritorno") è conoscere l'unico, ma un unico che non è il dio monoteista conoscibile, perché l'Originatore è non-essere e non-non-essere, etc.

Dall'Originatore inconoscibile emana la Prima Intelligenza, Primo Essere, con la quale gli esseri inferiori, tra cui l'uomo possono instaurare un rapporto personale di conoscenza e di amore. Questa Prima Intelligenza è la prima forma che ha essere. Occorre un tawhid di tutte le forme che si originano verso il proprio hadd o grado per prendere coscienza definitiva del proprio essere, essere (re)integrate nel proprio essere. Si tratta di incontrare il proprio sé. La prima intelligenza fu la prima a compiere il tawhid e chiamò le altre forme a fare lo stesso. Nel suo tawhid si compie la sua delimitazione che fa di essa il primo hadd. Tawhid è l'intellezione tramite la quale essa riconosce il suo principio. L'ipseità della prima intelligenza, dell'arcangelo-logos, è in realtà  una non-conoscenza, il sapere di on poter giungere all'essenza del principio. La prima intelligenza è il Deus revelatus. La sua sostanza è desiderio e nostalgia nel sentire l'impotenza di cogliere la divinità che lo crea. Essa diventa per tutti coloro che da lui procedono oggetto di desiderio e nostalgia. E' il sentimento di queste lontananze che trascina la comunità degli esseri (da'wat) in un moto ascensionale. Una intelligenza e la successiva sono tra loro hadd (limite) e mahdud (che io traduco limitato).

Ogni intelligenza arcangelica del Pleroma contiene a sua volta in sé un Pleroma di innumerevoli forme di luce.

La terza intelligenza è identificata con lo spirito santo, l'arcangelo Gabriele, l'angelo della conoscenza e della rivelazione, che dettò a Maometto il Corano.

 

la caduta della terza intelligenza

 

La prima intelligenza invita tutte le forme del Pleroma da essa generate a fare tawhid. La seconda intelligenza acconsente. La terza intelligenza, che procede dalla diade delle prime due, rifiuta. Questa terza intelligenza è l'Adamo spirituale celeste, l'angelo-archetipo dell'umanità. Rimane immobile in una vertigine di stordimento di fronte a se stesso; rifiuta il "limite" (hadd) che lo precede (la seconda intelligenza) perché non capisce che quel hadd se "limita" il suo campo di orizzonte, conduce anche al di là di esso. L'Adamo spirituale crede di poter raggiungere il principio inaccessibile senza bisogno di questo limite intermedio perché, disconoscendo il mistero del deus revelatus nella prima intelligenza, pensa che ciò significherebbe identificarla con la deità assoluta. Per scongiurare il pericolo di questa idolatria, egli erige se stesso ad assoluto, soccombendo alla peggiore idolatria metafisica. Quando infine emerge da questo stordimento, un po' come un arcangelo Michele che riporta la vittoria su se stesso,  respinge lontano da sé l'ombra demoniaca di Iblis (Satana, Ahriman) nel mondo inferiore, dove essa riapparirà di ciclo in ciclo di occultazione.

Ma a questo punto egli si vede "superato", "ritardato", ricaduto dietro a se stesso. Da terza che era è divenuto decima intelligenza. Questo intervallo misura il tempo dello stordimento che egli dovrà riscattare. Esso corrisponde all'emanazione di sette altre intelligenze, che sono chiamate i "sette cherubini" o i "sette verbi divini", i quali aiutano l'angelo-Adamo a ritornare a se stesso. Ecco perché sette periodi ritmano il ciclo della profezia, sette imam ritmano ogni periodo del ciclo.

E' come se il precipitare stesso produca i gradi cherubici dell'ascesa. Tipica è la personificazione: ogni grado è un angelo, una forma di luce che è nostro paredro, che ci attrae e ci fa salire

Il terzo angelo deve riconquistare per i suoi e con l'aiuto dei suoi l'eternità del Pleroma. Ma il suo appello al tawhil (da'wat) diretto alle forme di luce che si sono suo malgrado generate viene respinto da esse. Non gli resta che farsi demiurgo e costruire il cosmo fisico, strumento tramite il quale le forme un tempo di luce possano ritrovare la loro salvezza.

 

i cicli di epifania e di occultazione

 

A partire dal primo Adamo, che si è manifestato sulla terra con i suoi compagni beati nell'isola di Ceylon, si succedono cicli di epifania e di occultazione. Alla fine di ciascun ciclo di epifania succedono dei torbidi che richiedono l'occultazione della verità; le scienze spirituali rientrano nel silenzio; l'umanità diventa indegna della divulgazione dei misteri.  E' necessario instaurare una legge religiosa il cui Ta'wil libererà solo coloro che condurrà alla risurrezione. Per "ciclo di occultazione" si intende un ciclo iniziato da un Adamo investito dall'Adamo precedente. Ci sono più cicli di profezia, con (di solito) 7 profeti principali seguiti da (una o più eptadi) di imam. L'ultimo profeta è il suggello che conclude il ciclo della profezia. Nel nostro ciclo di occultazione è Maometto.

Un ciclo di profeti inizia con un natiq (manifestazione terrena della Prima Intelligenza), un wasi (manifestazione della seconda intelligenza), seguiti da una serie di imam intermedi (intelligenze cherubiche precedenti la terza intelligenza degradata), e poi dall'imam finale (manifestazione della terza intelligenza degradata). Ogni natiq ha come suscitatore l'imam che conclude il ciclo anteriore al suo. Questo avviene anche da ciclo di epifania a ciclo di occultazione. Il nostro Adamo è stato suscitato dal padre, Honayn, ultimo imam del ciclo di epifania precedente il nostro ciclo di occultazione. 360.000 volte 360.000 anni: è quanto durerà il susseguirsi dei cicli; è il Grande Ciclo, che concluderà la restaurazione dell'umanità e del suo angelo nel suo stato iniziale. Il primo Adamo, dopo aver investito il successore fu trasferito nel Pleroma al posto del decimo angelo, che avanza di un qualche grado verso il terzo posto che gli compete. Ad ogni passaggio in cielo dell'ultimo personaggio di un ciclo epifanico o di occultazione una serie di intelligenze sale al Pleroma, e quelle che vi erano si innalzano di un grado.

 

l'Adamo Reale, Anthropos celeste e i profeti e imam che ne sono manifestazione terrestre

 

Gli sciiti parlano dell'Adamo reale, Anthropos celeste, chiamato anche Spirito supremo, Prima Intelligenza. Egli è il detentore della profezia. Egli è il logos mohammadico, creato da Dio a immagine della propria forma. Il profeta ed Ali, l'imam, sono epifanie terrestri di tale anthropos. E' il libro di Dio, il libro della creazione, secondo la corrispondenza macrocosmo-microcosmo, qui posta in altra forma, "E' la riunione delle forme di tutti gli universi".

Esiste una profezia assoluta, incarnata dall'Anthropos celeste, primordiale, preeterna. Ed esistono le epifanie particolari, parziali, della profezia che sono stati i Nabi o profeti, di cui Maometto fu il sigillo. Anche per la walayat, l'esoterico della profezia, esiste una walayat assoluta di cui la manifestazione parziale sono gli imam. Ma in realtà profeti e imam provengono da una sola essenza.

I profeti vengono chiamati Awliya. Gli sciiti distinguono una profezia legislatrice, tipica degli awliya e una profezia docente, gnostica, tipica degli Imam.

Gli Imam sono epifanie divine, teofanie; sono i nomi di Dio. Sono entità precosmiche, preesistono come Pleroma di esseri di luce. Nel Sermone della grande Dichiarazione il primo Imam dichiara: "Io sono  il Segno dell'Onnipotente. Io sono la gnosi dei misteri. Io sono la Soglia delle soglie. Io sono l'intimo dello splendore della maestà divina. Io sono il Primo e l'Ultimo, il Manifestato e il Nascosto. Io sono il Volto di Dio. Io sono lo specchio di Dio, il Calamo supremo, la Tabula secreta. Io sono colui che nel vangelo è chiamato Elia. Io sono colui che detiene il segreto dell'Inviato di Dio. Io sono il Custode del Corano".

 

 

 

I Bogomili

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La prima testimonianza sui bogomili risale alla fine del X secolo, quando un tale Cosma, convenzionalmente detto Presbitero, descrisse una nuova eresia che si stava diffondendo ai suoi tempi in Bulgaria, introdotta da un prete chiamato "Bogomil" (nome corrispondente grossomodo al greco Teofilo, "amico di Dio"). Gli adepti (che da lui prendevano il nome di bogomili) ritenevano che Dio avesse due figli: il maggiore era Cristo e il minore il diavolo, che aveva creato l'universo sensibile imprigionandovi le anime degli uomini. Questa credenza è stata accostata allo zurvanismo, una corrente dello zoroastrismo per la quale il dio supremo, Zurvan, aveva come figli Ahura Mazda, il dio del bene, e Ahriman, il dio del male. I Bulgari potrebbero essere entrati in contatto con simili credenze durante la loro permanenza nelle steppe russe, che li esponeva a un contatto con la Persia sassanide. Il nostro mondo, dunque, in realtà era il regno del demonio: pertanto, tutto ciò che era connesso alla materia andava completamente evitato, se si voleva affrancarsi dal dominio di Satana. I bogomili dunque non accettavano né il Vecchio Testamento (Il Creatore della Genesi, infatti, veniva identificato col diavolo) né l'autorità ecclesiastica (troppo compromessa con il mondo), e praticavano uno stile di vita particolarmente ascetico. Soprattutto nel periodo successivo, questo fece sì che talora risultasse molto difficile distinguerli da normali monaci ortodossi di tendenze assai austere: forse è il caso anche dei vescovi Leonzio e Clemente.

Tra la fine del X secolo e gli inizi dell'XI la Bulgaria e Bisanzio furono contrapposte da una serie di scontri notevolmente cruenti finché nel 1018 l'imperatore Basilio II riuscì finalmente ad annettere lo Stato rivale. L'eresia bogomila, che aveva prosperato nel clima di grande incertezza che regnava in patria, a questo punto incominciò a espandersi anche nello stesso territorio bizantino. Già intorno al 1045 si parlava, con tono molto allarmato, della diffusione degli eretici nell'Asia Minore nordoccidentale e anche nella stessa capitale bizantina; però fu solo sotto Cosma I, patriarca di Costantinopoli dal 1075 al 1081, che le autorità cominciarono a lanciare pubblici anatemi contro i nuovi eretici. In particolare Cosma, scrivendo  al metropolita di Larissa in Tessaglia, notò come i bogomili, oltre a ritenere che il mondo materiale fosse una creazione di Satana, attribuissero a quest'ultimo i tuoni, la grandine e altri rovinosi fenomeni atmosferici: un indizio, secondo alcuni, della diffusione di simili credenze in ambito contadino.

Gli strali del patriarca rimasero però inascoltati per una ventina di anni, fino a quando nel 1098 circa, l'imperatore Alessio I Comneno, allarmato dalla crescente diffusione del fenomeno, attirò con l'inganno a palazzo il capo dei bogomili di Costantinopoli, Basilio, che si spacciava per un devoto monaco ortodosso. Basilio, dotato di agganci anche tra le famiglie altolocate, credette che l'imperatore fosse ansioso di ricevere da lui insegnamenti teologici, e, lusingato, gli espose per filo e per segno le credenze dualistiche della setta. Lo attendeva un'amara sorpresa: dietro un tendaggio della sala era nascosto un notaio che aveva stenografato tutto. L'eretico era caduto in trappola e venne immediatamente processato, per essere ben presto seguito dai suoi compagni. Di questo caso si interessò molto l'eresiologo di corte, Eutimio Zigabeno, che poté attingere agli atti dei processi per arricchire, qualche anno dopo, la sua monumentale enciclopedia delle eresie, la Panoplia dogmatica: proprio uno stralcio di quest'opera, un'autentica miniera di informazioni sul bogomilismo, si rivela di particolare interesse.

 

 

 

I Catari

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le origini dei catari

 

Le prime notizie di movimenti dualisti nell'Europa occidentale datano dalla metà del 12° secolo con il nome di Pauliciani. Un certo numero di comunità dualiste in occidente adottarono nomi come Bulgari o Sclavini in onore dell'origine balcanica della loro fede.

Il primo riconoscimento pubblico del movimento dualista è in una lettera di Ebervino di Steinfeld a S. Bernardo di Clairvaux nel 11433. Egli scrisse che i crociati tedeschi ritornati dalla seconda crociata avevano fatto risorgere l'eresia dualistica nella regione del Reno. Nel 1160 l'abate Egberto di Schonauge descrisse il credo dei Catari di Colonia che sostenevano di avere anche altre comunità in numerosi paesi. Apprendiamo che avevano propri vescovi e testi sacri che giustificavano la loro chiesa apostolica contro la chiesa cattolica di Roma. Insegnavano che la vera fede in Cristo esisteva solo nelle loro assemblee, che tenevano in cantine, negozi e in luoghi sotterranei. Essi dicevano che solo loro conducevano la vita degli apostoli con un sacerdozio autentico che era stato perso dalla chiesa Cattolica. Rigettavano la credenza nel purgatorio e il battesimo dei neonati, perché non potevano fare professione di fede. Solo la loro cerimonia del battesimo adulto mediante spirito santo e fuoco poteva salvare gli uomini.

I catari di Colonia furono bruciati con i loro vescovi perché rifiutarono di convertirsi, ma questo non fermò l'eresia catara. Ad Oxford nel 1162, furono condannati dei Pauliciani che erano arrivati in Inghilterra a fare proseliti. Negli stessi anni a Vezelay, in Francia, un gruppo di Pubblicani fu soggetto ad inquisizione e condannato a morte. Nel 1179 gli insegnamenti dei Catari furono condannati dal Terzo Concilio Laterano, e venne riconosciuta la loro stretta associazione con i Catari della Linguadoca e i Patarini e i Valdesi italiani. I centri di diffusione dell'eresia vennero individuati nella Linguadoca e nella Guascogna.

Ma le radici del dualismo cataro vanno rintracciate, secondo quanto ormai riconoscono tutti gli studiosi, nell'influenza delle sette neomanichee, in particolare i Bogomili, che dall'Asia Minore, attraverso l'impero bizantino, si diffusero dapprima in Serbia, Bosnia e Bulgaria, e poi in tutto il centro-Europa.

Il bogomilismo, a partire dal XII secolo, aveva avuto una notevole diffusione anche in Occidente, dove come ormai si riconosce, dette direttamente origine all'eresia catara, mantenendovi per giunta stretti contatti. Nel 1167, nel corso di un concilio dei catari, fu riconosciuta l'esistenza di cinque Chiese bogomile in Oriente: quella di Roma (ovvero di Costantinopoli), quella di Bulgaria (la fonte originaria del catarismo), quella di Dragovizia (la regione di Filippopoli, esponente di un dualismo più accentuato e probabilmente influenzato dal paulicianesimo), quella di Melenguia (il nome rimanda agli insediamenti slavi del Peloponneso), quella di Dalmazia (La Bosnia, dove i bogomili patarini avrebbero conosciuto una straordinaria diffusione fino alla conquista turca).

L'eresia albigese fu eradicata da una crociata lanciata dal papato nella prima metà del 1200 e che si concluse con l'assedio, nel maggio del 1243 di Montségur, l'ultima roccaforte catara, che fu conquistata l'anno successivo.

 

la dottrina catara e i suoi precetti

 

La fede catara aveva profondi elementi manichei. Essi celebravano Mani in una delle loro festività, i loro perfetti erano vegetariani e celibi ed essi dicevano che cristo aveva solo l'apparenza umana e aveva solo finto di morire e risorgere nella carne.

Nelle fonti cattoliche ci sono opinabili riferimenti alla pratica dell'endura come mezzo rituale di suicidio mediante rinuncia prolungata al cibo. Altri metodi riferiti  includevano l'uso del veleno, il taglio delle vene, il salto da un precipizio o in acque gelide dopo un bagno caldo, che provocava una congestione polmonare fatale. In questo modo, il fedele non avrebbe potuto commettere altri peccati. Certe volte l'endura era solo un rito di digiuno prolungato, interrotto da preghiere e pasti e non conduceva alla morte. Fu specialmente durante i tempi della persecuzione che i catari, dopo aver ricevuto il consolamentum sceglievano di porre termine volontariamente alle loro vite, ritenendo in tal modo di sconfiggere Satana con l'interrompere il ciclo della trasmigrazione e dell'imprigionamento nel mondo materiale.

Otto Rahn, autore di un libro divenuto famoso, La Crociata contro il Graal, notava come "la dottrina catara ammetteva il suicidio, ma richiedeva che si ponesse fine alla propria vita per disgusto, paura o dolore, ma in un perfetto discioglimento dalla materia. Questo tipo di Endura era permesso quando aveva luogo in un momento di visione mistica della bellezza e dell'amore divino. C'è solo un passo dal digiuno al suicidio. Digiunare richiede coraggio ma l'atto di ascesi definitiva richiede eroismo. La conseguenza non è crudele come potrebbe sembrare".

 

organizzazione della chiesa catara

 

I catari erano divisi in tre gradi, Ascoltatori, Credenti e Eletti o Perfetti. Attraverso il rito del Consolamentum, l'imposizione delle mani, un Ascoltatore poteva entrare nei ranghi dei Credenti. Dopo un periodo di prova i Credenti entravano tra gli eletti con una cerimonia di iniziazione consistente in un battesimo dello spirito e del fuoco. Anche le donne entravano nei ranghi degli iniziati con uguale posizione, una anomalia nell'Europa medievale. Il matrimonio era condannato come fornicazione tranne che tra persone vergini.

 

i sacramenti catari

 

Nell'opera gnostica Kephalaia, o I Capitoli di Mani, scoperta nel 1930 a Fayum, in Egitto, il decimo capitolo spiega come un Eletto che ha rinunciato al mondo riceve l'imposizione delle mani e è ordinati nello Spirito della Luce. Al momento della sua morte, la Forma di Luce, che è il suo spirito, offre la sua mano destra e saluta l'Eletto con il Bacio dell'Amore. A sua volta l'eletto venera la sua Forma di Luce, un salvatore in sembianze femminili.

Una versione di questo rituale gnostico riemerse nella Linguadoca come Consolamentum cataro. Nel corso di un anno di istruzione dopo una prova di tre anni terminata con successo venivano insegnate al candidato le tecniche di recitazione della Padre Nostro in multipli di due o sei, accompagnata da prostrazioni. Le parole della preghiera catara differiscono da quella ortodossa solo in un punto, dove "dacci oggi il nostro pane soprasustanziale" sostituisce "dacci oggi il nostro pane quotidiano", perché i Catari credevano nella interpretazione metafisica del pane come amore di Dio.

L'iniziato prometteva di non uccidere, mentire, bestemmiare, giudicare; di non rinnegare mai la fede catara, persino sotto minaccia di essere bruciato vivo; di praticare il celibato e di assoggettarsi ad uno stretto regime vegano perché carne, formaggio e uova erano il frutto di un rapporto sessuale o procreativo che rafforzava i poteri di Satana. L'iniziato faceva voto di praticare questi insegnamenti per il resto della sua vita. L'iniziato e l'istruttore si ponevano di fronte ad un Perfetto, che chiedeva chi era che desiderava ricevere il battesimo spirituale per mezzo del quale lo Spirito Santo è concesso nella Chiesa di Dio, insieme con la Santa Preghiera e l'imposizione delle mani da un sant'uomo. Ricevendo una risposta affermativa, il Perfetto e l'iniziato allora si scambiavano il Melioramentem, una richiesta di benedizione accompagnata da tre genuflessioni. Poi il Padre Nostro era recitato nel momento in cui il Perfetto poneva il Vangelo di Giovanni sulla testa del postulante e imponeva le mani.

L'imposizione delle mani, un atto apparentemente semplice, era in realtà un battesimo, un trasferimento di energia intelligente, usato come culmine dell'iniziazione del Perfetto o al momento della morte, sia per Perfetti che per laici. Sembra essere stato importante, per coloro che conferivano il consolamentum tanto per coloro che lo ricevevano rimanere puri. Poiché i Catari rifiutavano la gerarchia ecclesiastica, ritenevano che se il Perfetto che conferiva il Consolamentum cadeva dal suo stato di purezza, tutti quelli che aveva consolato cadevano anch'essi. Ma si poteva essere "riconciliati" da un altro Perfetto. Il Consolamentum terminava con la lettura del prologo di San Giovanni, "In origine c'era la Parola…"

Da questo punto in poi il postulante era considerato un Perfetto e poteva essere chiamato Revetu, non solo per l'abito completamente nero o blu scuro che lo distingueva da un semplice fedele, ma anche perché il perfetto aveva gettato via la sua vecchia personalità. Il Consolamentum liberava colui che lo riceveva sia dai peccati personali sia dal "peccato commesso al momento della Caduta". Questo lo metteva in grado di cercare la liberazione dall'esistenza terrena e dalla reincarnazione.

Il solenne compito di condurre una vita di austerità esemplare era dato non a coloro che erano già stati messi alla prova. I credenti che desideravano ricevere il Consolamentum, ma erano ancora troppo impegnati nella vita quotidiana e nelle sue esigenze, dovevano accontentarsi della Convivenza, un rito che si svolgeva di fronte a un Perfetto come dichiarazione di intenti. Questo dava loro il diritto di farsi amministrare il Consolamentum al momento della loro morte.

 

l'affermarsi del dualismo radicale nell'ultimo periodo del catarismo

 

A St. Felix-de-Caraman, vicino Tolosa, fu tenuto, tra il 1166 e il 1176, un concilio cataro di capitale importanza, durante il quale fu deciso di stabilire una gerarchia di vescovi elettivi e di tracciare i confini  tra le varie sedi vescovili. Il concilio, presieduto da Niceta, capo della chiesa Catara di Costantinopoli, riconsacrò i vescovi del Nord della Francia, della Lombardia e della regione di Albi e ne elesse di nuovi per le diocesi di Carcassonne, Agen e Tolosa. I Perfetti furono "riconciliati" (vedi più oltre) mediante la ricezione del Consolamentum da Niceta.

Queste consacrazioni e consolamenti erano essenzialmente rituali di conversione tramite i quali i Perfetti abbandonavano la fede nello stato subordinato del principio del male nel quadro di un dualismo attenuato, ereditato dai Bogomili, per abbracciare la dottrina del dualismo assoluto: le opposte energie del bene e del male erano presenti sin dall'inizio del mondo e saranno ancora presenti alla sua fine. Il dualismo assoluto caratterizzò da allora la fede catara fino alla sua estinzione.

Nonostante i tentativi di alcuni vescovi tradizionalisti, in anni successivi alla Crociata contro gli Albigesi, di riguadagnare i fedeli della Linguadoca al dualismo attenuato i tentativi fallirono, e i Perfetti di Montsegur erano dei seguaci del dualismo radicale.

E' difficile determinare la ragione dell'improvvisa ripresa del dualismo radicale, specialmente visto che Niceta dichiarò al Concilio che tutti i Bogomili operavano in perfetto accordo dottrinale

Una spiegazione potrebbe essere costituita dal fatto che i Pauliciani della Tracia, che comprendevano i Bogomili Druguntiani, diffusero questo cambiamento dottrinale. Ovviamente l'Inquisizione trovava questo sviluppo una eresia più grave del dualismo moderato, secondo il quale il dio malvagio del mondo materiale era subordinato alla sublimità del Padre divino.

 

la crociata contro gli albigesi

 

Sotto il regno di Raimondo V conte di Tolosa (m. 1194) il catarismo entrò nelle terre della Linguadoca

Innocenzo III, un papa risoluto a lottare contro ogni mezzo contro le eresie che si stavano diffondendo in Occidente, fu eletto nel 1198, all'età di 38 anni.

L'assassinio del suo legato locale, Pierre de Castelnau, nel 1208, lo indusse a lanciare una crociata contro "le terre dell'eresia del conte di Tolosa" contro gli Albigesi (così chiamati perché particolarmente numerosi nella zona della città di Albi), che sotto forma di una guerra contro il Conte di Tolosa e i suoi vassalli sarebbe durata per vent'anni. Il papa offrì le terre dei Catari a chiunque volesse prendere le armi contro di loro, e dichiarò che tutti gli Albigesi "dovevano essere imprigionati e i loro possedimenti confiscati". La crociata fu condotta da Simon de Montfort, signore di Yvelines e conte di Leicester e Arnaud-Amaury, abate di Citeaux.

Il Vescovo di Tolosa Folquet de Marseille, diede il suo pieno appoggio a Simon de Montfort, contro l'opposto parere dei cristiani locali

I crociati saccheggiarono Bezieres, feudo di Ramon-Roger Trencaval, alleato di Raimondo di Tolosa, e ne massacrarono gli abitanti. Successivamente posero d'assedio Carcassonne, imprigionarono con l'inganno e uccisero Trencaval che si era offerto di negoziare e successivamente si impadronirono delle città di Minerve, Termes, Cabaret e Lavaur. Il 3 maggio 1211 conquistarono quest'ultima città, affogarono in un pozzo l'eroica organizzatrice della resistenza Guiraude de Laurac e bruciarono quattrocento Catari.

I conti di Foix furono fedeli alleati del conte di Tolosa. Esclarmonde de Foix, sorella del conte Ramon-Roger de Foix, si era convertita al catarismo molto giovane, e presiedette ai famosi dibattiti pubblici tra Catari e Cattolici. Rimasta vedova, ricevette il consolamentum dei perfetti e diresse una enclave catara a Pamiers.

Verso la fine della crociata i conti di Foix abbandonarono i conti di Tolosa e si unirono alla corona francese.

Privato delle sue terre dalla crociata contro di lui, Raimondo VI chiese aiuto a Pietro d'Aragona, ma entrambi vennero sconfitti da Simon de Montfort a Muret, nel settembre del 1213

Morto Raimondo VI nel 1222 gli successe il figlio, l'energico Raimondo VII, che uccise Simon de Montfort e Amaury de Montfort perse tutte le terre conquistate nel giro di un decennio.

Raimondo VII fu allora scomunicato e le sue terre furono offerte alla Corona di Francia e il Re Luigi VIII fu autorizzato ad iniziare una nuova "crociata reale".

La Corona di Francia accolse prontamente l'invito, avendo interesse ad annettere la Linguadoca e ad indebolire l'influenza del suo avversario, il Re di Aragona.

Luigi morì pochi mesi dopo la presa di Avignone, Bianca di Castiglia, la sua vedova, presso la cui corte era molto ascoltato il Cardinale Romain de Saint-Ange, risolutamente antieretico, proseguì le ostilità contro Raimondo VII, che fu costretto ad accettare i termini della resa stabiliti nel Decreto di Meaux. Raimondo VII concluse a Parigi la pace con Luigi IX nel 1229 con la chiusura ufficiale della Crociata contro gli Albigesi. Una clausola del trattato lo obbligava a prestare assistenza all'inquisizione papale nelle sue terre. Un'altra a dare in sposa una figlia allora di nove anni di età ad un fratello del Re, che riuscì ad annettere la Linguadoca nel 1271.

Le ostilità ripresero per breve tempo nel 1240 quando Raymond Trencavel e altri nobili occitani spossessati ritornarono dall'esilio con un piccolo esercito e posero d'assedio Carcassonne. L'invio di rinforzi da parte del Re di Francia fece però fallire la loro campagna e Raymond trovò rifugio a Montreal da dove si ritirò in esilio in Catalogna.

Il suo figliastro Pierre-Roger de Mirepoix stabilì la sua base a Montsegur, dove si acquartierò una guarnigione di nobili locali ai suoi ordini. La roccaforte di Montsegur era stata fortificata nel 1204 e sin dall'inizio della Crociata aveva dato rifugio ai catari perseguitati

L'uccisione di due inquisitori di Tolosa, Guillaume Arnaud e Emile de Saint-Thibery mandati a Montsegur scatenò l'assedio da parte di Bianca di Castiglia. 500 persone furono assediate nel 1243 da 10.000 al comando di Hugues d'Arcis, senescalco reale di Carcassonne. A Montsegur si erano asserragliati il signore del luogo, Raymond de Perella, sua moglie Corba, tre sue figlie e un giovane figlio, Jordan. Sua madre, che aveva preso i voti come Perfetta, viveva in una piccola capanna in città. Esclarmonde de Foix e la sua nipote disabile risiedevano pure al castello, come anche un vescovo cataro, Bertrand Marty, successore del vescovo Guilhabert.

Dopo nove mesi d'assedio, furono intavolati negoziati e furono stabiliti quindici giorni di cessate-il-fuoco. Un gruppo di catari ne approfittò per fuggire col tesoro di Montsegur e le sacre scritture della setta. Nonostante li avrebbe condannati a morte certa, diciassette persone, in occasione della Pasqua catara, accettarono il Consolamentum e diventarono puri.

I termini della tregua consentivano alla guarnigione di allontanarsi con armi e bagagli. Coloro che avessero abiurato sarebbero stati sottoposti a lievi pene; gli altri sarebbero stati arsi vivi. Il 16 Marzo 1244 Montsegur cadde e 210 Catari condannati a morte marciarono tra le fiamme di un'enorme pira che gli assedianti avevano allestito sotto le mura. Il luogo del loro supplizio è segnato da una stele con la scritta: "Als catars, als martir del pure amor crestian".

 

la nascita dell'inquisizione

 

I catari, anche dopo la Crociata contro gli Albigesi rimasero una seria minaccia. Episodi come la riconquista della Contea da parte dei Conti di Tolosa e il ritorno dei rifugiati catari dalla Catalogna, l'Aragona e la Lombardia resero necessario insediare stabilmente l'inquisizione per proseguire le attività contro gli eretici.

Nel 1216 Domenico de Guzman, il futuro San Domenico, aveva fondato l'ordine domenicano, approvato nel 1216 da papa Onorio III

Dopo il Concilio di Narbona del 1227 il papa Gregorio IX aveva stabilito nuove e più severe pene per l'eresia. Nel 1233 istituì l'Inquisizione in Linguadoca

Sebbene questo e altri concili precedenti avessero autorizzato la persecuzione degli eretici, l'inizio ufficiale dell'inquisizione data dal 1231, quando Gregorio IX decretò che gli eretici pentiti fossero incarcerati a vita e quelli che non lo facevano dovevano essere passati al braccio secolare per l'esecuzione.

Una bolla di Innocenzo IV divise l'Europa tra Francescani e Domenicani, con questi ultimi responsabili della caccia ai catari nel sud-ovest della Francia. L'inquisizione domenicana, che aveva sede a Carcassonne e Tolosa incontrò sin da subito una forte opposizione popolare. nel 1234 Raimondo VII si lamentò dei loro abusi con Gregorio IX e li espulse nel 1235.

Scomunicato Raimondo, i Domenicani ritornarono nel 1236 e dal 1243, con la Pace di Parigi, i Conti di Tolosa furono obbligati a collaborare con loro nella lotta contro l'eresia.

 

 

Rinascita dell'astrologia tardoantica nel medioevo

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Vedi Gnosticismo e riscoperta del pensiero tardoantico

 

 

 

I percorsi di emersione dello gnosticismo in epoca moderna e contemporanea

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Gnosticismo e radici dell'Europa, con un intervento di Umberto Eco

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Il recente dibattito sulle "radici dell'Europa" che ha circondato la redazione della bozza della Costituzione Europea del 2005, con la polemica sulla proposta di inserire un riferimento alle "radici cristiane" chiama in causa anche lo gnosticismo, come una delle correnti che a lungo è stata presente e operante nello sviluppo della civiltà occidentale.

Ne è risultato un accesissimo dibattito tra intellettuali laici e di orientamento cristiano. In particolare, la discussione sulle presunte colpe del Cristianesimo contro il progresso (caccia alle streghe, processo a Galileo, ecc.), è stato contrassegnato da interventi di notevole interesse e spessore. Oltre che Umberto Eco, di cui qui riportiamo un articolo, Rodney Stark, sociologo delle religioni della Baylor University ha scritto un libro ottimamente documentato e dal titolo eloquentemente polemico: A gloria di Dio: come il cristianesimo ha prodotto le eresie, la scienza, la caccia alle streghe e la fine della schiavitù.

A commento dell'articolo di Umberto Eco potrebbe dirsi che, vista la varietà di forme con cui il pensiero gnostico è riemerso nella modernità,  "radici cristiane" può anche essere allargato a significare anche "radici gnostiche" dell'Europa.

 

"le radici dell'europa", articolo di umberto eco su l'espresso del 5 aprile 2007

 

Su questo argomento ave­vo già scritto una Bustina nel settembre 2003 ma non sono io che mi ripeto, è la vita. Mi viene in men­te la storia di quel mio amico che un giorno rientra a casa, tro­va in studio il quotidiano che riceve in abbonamento, se lo legge con grande interesse dalla prima all'ultima pagina, e poi si accorge che era quello di cinque anni prima, riemerso per caso sulla scri­vania. Da quel giorno ha disdetto l'ab­bonamento, ma non era colpa del quo­tidiano, era ed è (specie a casa nostra) la monotona ripetitività di certi dibat­titi, crisi, omicidi, concussioni, scanda­li, polemiche, promesse e debiti. Basta leggere oggi articoli sul delitto di Cogne uguali a quelli di cinque anni fa, e chi ha la mia età è colpito dalle analogie im­pressionanti tra Vallettopoli e il caso Montesi (1953) - non la morte di Wil­ma ma le orge di Capocotta, una carrie­ra politica distrutta, ricatti e l'ombra di una faida tra potenti.

Torniamo al dunque. Ritrovo sui giorna­li l'urgenza di mettere da qualche parte un richiamo alle radici cristiane dell'Eu­ropa. Rispetto al 2003 però è stato fatto un passo avanti, e proprio sulla linea di osservazioni che in molti avevamo fatto allora: e cioè che le radici dell'Europa so­no non solo cristiane bensì giudaico-cri­stiane. A parte il fatto che Gesù non era vichingo, non si può dimenticare il ruolo che ha avuto la Bibbia nello sviluppo del­la civiltà europea (a proposito, ho recen­temente aderito a una petizione perché la Bibbia venga studiata nelle scuole; non si tratta di un fatto religioso, è che non si vede perché dei giovani debbano cono­scere Catullo e non Geremia, Priamo e non Salomone).

Tuttavia proprio il fatto che a scuola si studino Priamo e Catullo ci ricorda che l'Europa nasce- su radici che non sono soltanto giudaico-cristiane ma anche greco-romane. A parre la storia dell'ar­te o la funzione dell'immaginario mitologico in tutta la poesia europea, senza Platone e Aristotele non ci sarebbe sta­ta neppure la teologia cristiana, non c'è bisogno di ricordare la presenza del di­ritto romano nelle istituzioni europee, e il latino che si vorrebbe reintrodurre nella messa l'hanno inventato i pagani ed è diventato cristiano solo per diritto ereditario. Ma forse queste cose si di­menticano perché le radici cristiane hanno una lobby potentissima che le sostiene, mentre quelle greco-roma­ne interessano solo qualche professore di liceo. Naturalmente qual­cuno potrebbe os­servare che occor­rerebbe citare an­che l'influenza dei popoli germanici e la mitologia nordi­ca (che investe per­sino le celebrazioni del Natale), ma la cosa è diventata pa­trimonio di neona­zisti dalla testa rapata e quindi. se pur con rammarico, la­sciamola stare.

Infine ci sarebbe da chiedersi perché le ra­dici giudaico-cristiane caratterizzerebbe­ro proprio l'Europa. Non caratterizzano anche le due Americhe, dal Canada al­l'Argentina, l'Australia e la Nuova Ze­landa, l'Etiopia e l'Eritrea, l'Armenia, le Filippine? E quanto alle radici greco-ro­mane, i modelli di Atene e di Roma era­no ben presenti alla mente dei Padri del­la rivoluzione americana - e si pensi quan­to la tradizione classica trionfi nelle ar­chitetture di Washington.

Sono allora proprio queste radici che rendono unica l'Europa come tale e non, per esempio, la compresenza di una pluralità di lingue e culture - carat­teristica che manca ad altre civiltà cri­stiane come quelle extraeuropee? È proprio su questa pluralità che l'Europa si è un tempo sanguinosissimamente divisa, e ora ritrova criteri di conviven­za e mutuo rispetto. Si potrebbe aggiun­gere il senso del giusto equilibrio tra sviluppo verso il futuro e culto del pas­sato, che rende l'Europa così gelosa del­le sue tradizioni e delle sue vestigia. È vero che questa coabitazione tra novità e tradizione è comune anche, per esem­pio, alla cultura giapponese, ma il Giappone moderno conserva solo il Giappone antico, mentre l'Europa con­serva non solo le rovi­ne greche e romane e le sue cattedrali cri­stiane (peraltro ricche di figure che proven­gono da bestiari orientali), ma anche l'Alhambra musulma­na, sinagoghe e reper­ti pre-europei, da Al­tamira a Stonehenge. E infine c'è un altro aspetto tipico della cultura europea: la cu­riosità per le altre culture e gli altri paesi, che è stata all'origine sia dei viaggi di Marco Polo che di mode discutibili co­me l'orientalismo - per non dire del gu­sto colonialista di ficcare il naso in casa d'altri. È vero che la curiosità (dico cu­riosità scientifica e non turistica) per i paesi lontani è stata anche caratteristica della civiltà islamica medievale, ma cer­tamente non lo è di popoli cristiani di al­tri continenti. Una sera un consulente del Pentagono, a una cena nel corso di un congresso, mentre lo informavano sul pesce che stava mangiando, ha chie­sto se il Mediterraneo fosse un lago sa­lato. Nessun europeo colto domande­rebbe mai a un americano se il Gran La­go Salara sia un mare.

Insomma, o di questa Europa mettiamo in luce tutte le radici e tutte le caratteri­stiche che la rendono unica, oppure non riusciamo a capire che cosa sia.

 

 

Omens of millennium: la "nuova religione americana" secondo Harold Bloom. Il nuovo "gnosticismo protestante"

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Nel 1987 un pastore americano di New Brunswick pubblica Against the Protestant Gnostics, lanciando l'allarme. Egli ritiene ad esempio che gli attacchi al terzo mondo che l'america ha ripetutamente portato, a partire dal Vietnam, sono dovuti alla mentalità gnostica che porta "gli eletti" a compiere atrocità contro "i profani". Cita il Vietnam, Grenada, Panama, Iraq

I caratteri principali e più allarmanti del nuovo gnosticismo protestante sarebbero: a) promessa di salvezza mediante conoscenza  piuttosto che per fede; b) enfasi su una rivelazione nascosta contro quella rivelata ed accessibile a tutti; c) svalutazione della natura a fatore del puro spirito; d) concentrazione sull'individualità radicale del sé.

Concordando con lui, sia pure su un versante ottimistico, Harold Bloom, nel suo libro The American Religion Bloom defisce lo gnosticismo come religione dell'America.

Sia Lee che Bloom notano (l'uno con allarme, l'altro con approvazione) una "spiritualizzazione" ("over-spiritualization" per Lee) che passa attraverso una rilettura degli insegnamenti di cristo che sta venendo portata avanti negli ambienti protestanti. Lee lo vede come un ulteriore sviluppo dell'"individualismo radicale" nordamericano e un "elitismo" tipico dell'America

 

 

Il channeling

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Assai più propriamente si può parlare di neo-gnostici­smo a proposito del neo-spiritismo diffuso soprattutto ne­gli Stati Uniti e chiamato channeling; dove il medium si fa strumento di un gran numero di diverse "entità" che non sono soltanto spiriti dei defunti, ma anche Dio, il Cristo, fate, spiriti, angeli e anche "entità multi personali" o ag­glomerati di "frammenti" di anime che vagano nel cosmo. Nel channeling contemporaneo possiamo distinguere due diversi fenomeni: le attività più o meno spettacolari di "ca­nali" (come quelli resi popolari dai libri e dai programmi televisivi dell'attrice Shirley MacLaine) che entrano in con­tatto con un certo numero di spiriti diversi senza proporre sistemi dottrinali o miti di origine organizzati, e i nuovi te­sti sacri - che invece presentano spesso un notevole grado di elaborazione teorica - "ricevuti" tramite "canali" par­ticolari.

Già nel primo caso i frammenti di ideologia che emergo­no dall'esperienza del channeling non mancano di presen­tarsi come candidati credibili a un'inclusione nel neo-gno­sticismo. Se esaminiamo il volume del professor Jon Klimo che è stato definito "la fonte stessa per comprendere il fe­nomeno chiamato channeling" troveremo questa spiega­zione di come i fenomeni si producono:

 

 

Ognuno di noi è una individuazione che nasce dall'unico cam­po fisico universale dell'energia dell'Essere (se si vuole fisicizzare il mentale) o dell'unica Mente Universale-Spirito (se si vuole mentalizzare il fisico), secondo la prospettiva di ciascuno [ ... ]. Ognuno di noi è un episodio di individuazione temporanea che si concentra sul nostro essere locale, apparentemente separato [ ... ]. [Ma] questa separatezza ultimamente non dovrebbe essere ve­ra [ ... ]. Noi siamo tutti sotto-personalità o altero-personalità al­l'interno dell'unica Mente Universale, o Divinità. Le sotto-personalità [ ... ] credono di solito di possedere un'identità separata dalla mente che le origina e che le ospita.

Nel channeling le sotto-personalità "comunicano l'una con l'altra" giacché tutte fanno parte della stessa Mente/ Spirito Universale:

La sotto-personalità che è costituita da "me" parla con la sot­to-personalità che è costituita da "te". Nessuno di noi due forse comprende che siamo, in effetti, sotto-personalità della stessa Mente unificatrice. Non siamo abbastanza lucidi per rendercene conto. Oppure, puoi fungere da "canale" per qualche altra sot­to-personalità per presentarla alla tua sotto-personalità. La sot­to-personalità per cui io fungo da canale può risiedere in uno qualunque di un numero dato di livelli di realtà all'interno dell'u­nica Mente/Cervello.

Dalla nostra prospettiva, ci può sembrare che l'unico Essere Universale sia, pertanto, schi­zofrenico in ragione della sua apparente dissociazione da se stes­so. Ma dalla prospettiva del nostro stesso Sé più profondo, per non parlare della prospettiva della stessa Grande Mente origina­trice, la dissociazione che viene sperimentata è soltanto la funzio­ne di uno specifico stato di consapevolezza, meno desto o di li­vello più basso.

Riassumendo, il channeling è la consapevolezza crescente di ciascuna parte del­l'unico Essere di poter accedere al resto di Se stesso [ ... ]. Tutte le prospettive ci portano, attraverso una sorta di animazione dif­fusa all'interno dell'unica Mente/Cervello, verso il ritorno alla verità delle verità: che noi siamo frammenti dello stesso Essere Universale; o, come alcuni dicono, che noi siamo Dio. 76

 

 

Anche qui il linguaggio strizza certamente l'occhio alla psicologia e alla fisica, ma il ritorno al grande Essere Uni­versale di cui tutti non siamo che "sotto-personalità" non manca di risonanze gnostiche.

Ma i casi più evidenti sono costituiti dai "nuovi vangeli" ricevuti dai "canali", Caratteristiche neo-gnostiche so­no state rilevate, a ragione, già in un testo che funge da antenato ai "nuovi vangeli" del channeling; il Libro di Urantia dettato da angeli e spiriti celesti negli anni 1920 a un gruppo raccolto intorno allo psichiatra di Chicago W.S. Sadler e pubblicato nel 1955.77 Il parallelo con i miti gno­stici antichi - riletti alla luce della psicologia moderna - diventa quasi irresistibile in uno dei testi sacri del channeling contemporaneo, A Course in Miracles, dettato da una "voce", che solo più tardi avrebbe rivelato di essere Gesù Cristo, dal 1965 al 1972 alla psichiatra del Presbyterian Hospital di New York (un'istituzione collegata alla Colum­bia University) Helen Schucman (1909-1981). L'anonimato di Helen Schucman - per lunghi anni scettica di fronte al­l~ sua stessa esperienza - sarà conservato nella prima edizione del Corso nel 1975 e sino alla sua morte. Giacché, nell'ambito del channeling, il Corso rappresenta il materia­le in assoluto più rilevante per quanto riguarda la possibili­tà di un parallelo con lo gnosticismo, vale la pena di riassu­merne brevemente il contenuto.

Il testo offre anzitutto una nozione di Dio: ma si tratta di una realtà impersonale e indifferenziata chiamata "men­te" (Mind). Si esclude peraltro assolutamente che Dio ab­bia creato il mondo. Dio ha creato (o piuttosto emanato giacché si tratta di una "estensione" del suo essere) soltan­to il Figlio di Dio. Ogni uomo è una parte o frammento del Figlio di Dio, da cui è derivato anche il mondo così co­me lo conosciamo, ma secondo una tipica mitologia della caduta. Per una ragione che il Corso lascia oscura, il Figlio di dio, a un certo punto, si è addormentato e ha sognato di voler diventare Creatore come Dio. Questo sogno era già di per sé, una trasgressione contro Dio, l'unico Creato­re, con la conseguente nascita di una individualità che cre­de di essere separata da Dio. Dal canto suo, Dio si era ac­corto che il Figlio si era addormentato e sognava, ma non conosceva Il contenuto del suo sogno. Dio, pertanto, ema­nò lo Spirito Santo e lo incaricò di svegliare il Figlio. Il Fi­glio addormentato percepì la venuta dello Spirito, ma lo ritenne un inviato di Dio venuto a punirlo per la sua tra­sgressione. Questo equivoco ebbe come conseguenza la na­scita del nostro mondo fisico: assalito da sensi di colpa, il Figlio frammentò la sua individualità separata da Dio (che era soltanto frutto del sogno) in migliaia di altre individua­lità illusorie che si identificano con la fisicità (che è an­ch'essa solo un prodotto del sogno) dei loro corpi, e credo­no di essere anch'esse separate ciascuna dall'altra e tutte da Dio. Anziché svegliarsi alla venuta dello Spirito, il Figlio sprofondò ancora di più nel suo sogno di separazione. Le individualità del mondo "esistono": ma soltanto nel senso che credono di essere separate da Dio (si sentono, quindi, colpevoli proiettando il loro senso di colpa nel mondo). Lo Spirito, tuttavia, continua la sua azione proponendo a cia­scun frammento del Figlio di Dio - cioè a ciascuno di noi - il risveglio dal sogno.

Per risvegliarsi dal sogno occorre praticare "il perdono", che tuttavia non significa affatto perdonare le colpe o i "peccati" degli altri. Questo signifi­cherebbe soltanto perpetuare la parte psicologicamente più dannosa del sogno, che proietta sugli altri e sul mondo il senso di colpa delle individualità che credono di essere se­parate da Dio. Il perdono, invece, "riconosce che quello che hai pensato che il tuo fratello ti abbia fatto non è suc­cesso. Non perdona i peccati e li rende reali. Vede, sempli­cemente, che non c'è nessun peccato. E in questa visione tutti i vostri peccati sono perdonati". L'esempio più chiaro di questo atteggiamento, secondo il Corso, è la cro­cifissione di Gesù Cristo, che non è l'unico Figlio di Dio (tutti siamo frammenti dell'unico Figlio di Dio) ma solo il primo che si è ricordato di esserlo. Il Gesù del Corso (che assomiglia molto a un Cristo gnostico) non è affatto morto per i nostri peccati (giacché non esistono peccati). "Il signi­ficato reale della crocefissione sta nell'apparente intensità dell'assalto di alcuni dei Figli di Dio contro un altro" e nella dimostrazione che "l'assalto che, giudicato dal punto di vista dell'ego, sembra il più oltraggioso, in realtà non conta". "Non conta" perché in realtà il male e l'aggressio­ne - anche nella forma più violenta mostrata dalla crocifissione - sono soltanto apparenti, non esistono. Già nel suo primo messaggio la "Voce" che detta il Corso aveva affermato: "Questo corso può essere riassunto molto sem­plicemente in questo modo: nulla di reale può essere mi­nacciato. Nulla di irreale esiste. Qui si trova la pace di Dio".

A Course in Miracles è stato "ricevuto" in un ambiente di professori di psicologia; per la sua stesura Helen Schuc­man ha collaborato con il suo superiore accademico, il professor William Thetford, docente di psicologia medica alla Columbia University e interessato alle rivelazioni del veggente americano Edgar Cayce. Non è questo l'unico ca­so in cui i "canali" del channeling lavorano fianco a fian­co con professori di psicologia: il channeling può essere de­finito lo spiritismo dopo Jung, un autore frequentemente citato nella sua letteratura e, forse, un'ulteriore fonte di spunti neo-gnostici.

 

 

Gnosticismo e riscoperta del pensiero tardoantico

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Quando parliamo di rinascita dello gnosticismo, dovremmo parlare di rinascita del pensiero tardoantico, di un paganesimo dimenticato dai secoli diciottesimo e diciannovesimo, che è stato riscoperto solo a partire dall'inizio del novecento. Si legga in proposito quanto dice Fritz Saxl:

 

 

Gli strumenti astronomici tardo medievali che troviamo nei nostri musei di storia della scienza ci affascinano come reliquie del nostro pas­sato scientifico, ma se essi non prendono vita davanti ai nostri occhi non è solo perché sono chiusi dietro a un vetro: lo scopo pratico a cui erano destinati era la previsione del futuro, e questo scopo presuppo­neva una fede. I nostri musei non si preoccupano di mettere in luce il significato religioso di quegli strumenti, e una bacheca piena dei più begli astrolabi del dodicesimo secolo, usati per determinare la posizione delle stelle, rimane priva di senso se non si fa comprendere al visitatore che la loro perfezione tecnica era il risultato di un profondo mutamento avvenuto nella fede cristiana (fig. 112). Non è questa la sede per per­derci in particolari. Mi riterrò soddisfatto se sarò riuscito a convincervi che certe credenze, bollate dal sapere ottocentesco come idee infantili, meritano invece tutta l'attenzione degli storici.

 

 

Nell'Europa inquieta di inizio secolo, percorsa da venti di guerra, che andava armandosi sempre più, si diffuse la moda delle profezie e degli oroscopi. L'interesse per la predizione dell'avvenire che cominciò a manifestarsi intorno al 1910 fu considerato uno dei segni premonitori della Grande guerra, e in seguito aumentò sempre di più. Comparvero in gran numero periodici interamente dedicati all'astrologia e si sono dati alle stampe una quantità di libri: manuali, raccolte di profezie, riedizioni di classici astrologici ecc. Al più che naturale desiderio di sentirsi parte del cosmo, le cui leggi venivano formulate ogni giorno con più precisione, si associava il timore dei pericoli della guerra e del caos. Sotto lo stimolo di questo duplice sentimento, la gente ha cominciato a pensare che, se l'astronomia aveva compiuto progressi così straordinari, i tempi erano maturi per previsioni relative non solo ai moti dei corpi celesti ma anche agli eventi della nostra vita futura.

Gli astri, notava Fritz Saxl, nei periodi di crisi, venivano visti come potenze che trascinavano l'umanità, contro la sua volontà. Marte, dio della guerra, reclamava il sangue, mentre Saturno, divinità ctonia, irradiava il suo influsso melanconico e una sorta di disperazione tipica dei periodi di crisi. Saxl traccia paralleli con il dodicesimo secolo, quando, improvvisamente e a sorpresa, l'Europa, probabilmente attraverso canali arabi, venne a conoscenza delle teorie tardoantiche sul destino, sul ruolo degli astri nella vita umana, sulle divinità astrali e il culto di tali divinità. Esistono documenti incontrovertibili di processi ecclesiastici in Germania e Svizzera, circa la diffusione allarmante del culto e dei sacrifici animali agli astri, visti come divinità dispotiche, che dominavano la vita degli uomini, annullandone il libero arbitrio. Nella tarda antichità i pianeti vennero identificati con i demoni del paganesimo, divinità capricciose e malvage, dipinte esattamente come gli Arconti astrali degli gnostici dei primi secoli, che tenevano la creazione sotto il loro giogo e costituivano le forze che muovevano il mondo materiale, il nostro corpo e la nostra mente, in una visione tipicamente gnostica e negativa del cosmo sensibile.

L'astrologia e le credenze tardoantiche avevano subito il doppio ostracismo dell'illuminismo e del positivismo e della religione ortodossa. La riscoperta del pensiero classico nel Settecento e Ottocento aveva lasciato da parte il pensiero tardoantico considerandolo come superstizione puerile. Poco si sapeva dell'astrologia tardoantica alla metà del diciannovesimo secolo. Veniva riscoperto quel fondo oscuro e inconscio della rappresentazione mitico-religiosa dal quale provengono, ugualmente, forme e procedure del sapere scientifico da un lato e dall'altro riti e credenze magiche, acta religionis e il pensiero propriamente mitico. L'uomo moderno è abituato a separare e contrapporre rigidamente  l'uno all'altro versante, ma in realtà logica e magia fioriscono dallo stesso stelo. Nell'uno e nell'altro caso  c'è lo stesso sforzo di comprensione, dominio e (se possibile) previsione e controllo dei fatti naturali. Inoltre l'origine comune di logica e magia produce interferenze reciproche: alchimia e chimica, astronomia e astrologia, psicologia e demonologia, stregoneria e conoscenza medica.  Dall'osservazione si passa, forse per ragioni mnemoniche, a dare ad astri e costellazioni nomi di divinità. Poi si dà agli astri il potere di quelle divinità

 

 

 

Gnosticismo e nichilismo contemporaneo. Il motivo dello gnosticismo nelle filosofie contemporanee della crisi, da Carl Schmitt a Martin Heidegger

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Il nichilismo nell'Ottocento

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Il nichilismo è diventato tema generale di discussione nella seconda metà dell'Ottocento, ma è emerso come problema, in tutta la sua virulenza e vastità, solo nel pensiero del Novecento. Nietzsche lo definiva come «il più inquietante» fra tutti gli ospiti.

Il nichilismo è la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al «perché?» e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo. Come nota acutamente Nietzsche, il nichilismo subentra quando l'uomo, nella sua storia, ha esaurito i valori, e giunge ad una critica dei valori in generale.

Possiamo ricondurre le lontane avvisaglie di questo smarrimento metafisico all'angoscia dell'uomo del Seicento nello scoprirsi perduto in un cosmo non più geocentrico, indifferente e meccanicistico. All’inizio dell’età nuova una raggelante constatazione di Pascal dà la misura di quale profonda trasformazione la cosmologia materialistica abbia causato nella posizione metafisica dell’uomo nell’universo. «Inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano – annota Pascal – io mi spavento» (Pascal, 1962: 94). Questo preoccupato lamento segnala che con la nuova cosmologia cambia la situazione spirituale dell’uomo. Nell’universo fisico della cosmologia moderna egli non può più abitare e sentirsi a casa propria come nel cosmo antico e medievale. L’universo è ora percepito come estraneo al suo destino individuale: gli appare come una angusta cella in cui la sua anima si sente prigioniera oppure come una spaesante infinità che lo inquieta. Di fronte all’eterno silenzio delle stelle e agli spazi infiniti che gli rimangono indifferenti, l’uomo sta solo con se stesso. È senza patria.

Nell'Ottocento, il nichilismo romantico ripeterà con accenti altrettanto toccanti questo tema. Nel Discorso del Cristo morto, dall’alto dell’universo, sulla non esistenza di Dio scritto nel 1796, lo scrittore tedesco Jean Paul propone una visione del nulla radicale:

 

 

"Nulla immobile e muto! Fredda, eterna necessità! Folle caso! Conoscete voi ciò che dominate? Quando abbatterete l’edificio e me? – Caso, sai tu quello che fai quando avanzi coi tuoi uragani nel nevischio delle stelle, spegnendo un sole dopo l’altro col tuo soffio, e quando la rugiada luminosa delle costellazioni cessa di scintillare al tuo passaggio? – Come ciascuno è solo nell’immensa tomba dell’universo! Accanto a me ci sono solo io – O padre! o padre! dov’è il tuo seno infinito perché mi possa riposare su di esso?

 

 

Non si può non notare l'affinità tra lo smarrimento dell'uomo moderno in un cosmo privo di anima e indifferente e la visione gnostica di un mondo materiale come prigione dello spirito, tenebra priva di scintilla divina e governata dalle leggi astrali.

Da De Maistre a Juan Donoso Cortés gli scrittori cattolici tradizionali denunciano allarmati gli effetti disgregatori del "nichilismo scientifico" che deriva dall'incipiente positivismo. A dar corpo alle loro paure è, nella Francia dell'illuminismo e della Rivoluzione, il pensiero del marchese de Sade, che si presenta come una delle forme più radicali di nichilismo ateo e materialista. Nelle sue opere, che comprendono anche dialoghi filosofici, (Dialogue entre un prêtre et un moribond, 1782 e La Philosophie dans le boudoir, 1795), Sade inscena con dissoluta fantasia tutte le corrosive e nefaste conseguenze che la sua visione nichilista della Natura e della Ragione comporta per il costume e per la società.

 

 

Nietzsche e il nichilismo

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Ma è nell’opera di Nietzsche – specialmente nella riflessione degli anni Ottanta e nelle pagine de La volontà di potenza (Der Wille zur Macht), pubblicata in prima edizione nel 1901 e in una seconda, più che raddoppiata, nel 1906 – che il nichilismo è fatto oggetto di una esplicita riflessione filosofica. Con lui l’analisi del fenomeno raggiunge il suo culmine, maturando una consapevolezza storica circa le sue più lontane radici, nel platonismo e nel cristianesimo, e alimentando nel contempo l’esigenza critica di un superamento dei mali in esso proliferatisi. Non è dunque una iperbole considerare Nietzsche come il massimo profeta e teorico del nichilismo, come colui che diagnostica per tempo la «malattia» che affliggerà il secolo e di cui egli offre una terapia.

Decisiva è l'influenza del pensiero di Arthur Schopenhauer e di Philipp Mainländer sul problema del noumeno kantiano. Per Schopenhauer esso è da identificare con "volontà di vita", principio universale, superindividuale oltre il tempo e lo spazio che lo rifrangono nella molteplicità degli individui. La volontà è, negli esseri essenzialmente dolore, perché volere è desiderare, e, come spiega la filosofia indiana, il desiderio è la radice della sofferenza. La missione del saggio è di eradicare in sé questa radice di sofferenza karmica. Con ciò l'uomo diviene libero, si rigenera ed entra in quello stato che i cristiani chiamano stato di grazia. Il termine, nel quale egli può allora posarsi e quietarsi, è il nulla, il puro nulla, l'eliminazione totale di tutto ciò che è, in quanto è vita e volontà di vita. "Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà, dice Schopenhauer alla fine della sua opera, è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla".

A Mainländer si deve la famosa espressione "Dio è morto", che sarà resa famosa da Nietzsche.

Egli non identifica la «cosa in sé» con la schopenhaueriana «volontà di vita» bensì con la "volontà di morte" che ha indotto un dio assolutamente trascendente, che sta "oltre l'essere", come quello degli Gnostici, a passare super-essere (Über-Sein) al nulla (Nicht-Sein) dell'immanenza. Il mondo è generato quindi da una "volontà di autoannullamento", da una "autocadaverizzazione di Dio", e ciascuna creatura reca in sé traccia di questo impulso di morte. La sua etica sostiene la massima gnostica della verginità e raccomanda il suicidio come radicale negazione della volontà.

Nella sua analisi, Nietzsche esordirà insistendo sul medesimo tema: "Il più grande avvenimento recente – che 'Dio è morto', che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa". La morte di Dio, immagine che simboleggia il venire meno dei valori tradizionali, diventa il filo conduttore per interpretare la storia occidentale come decadenza e fornire una diagnosi critica del presente.

Secondo Nietzsche il processo della svalutazione dei valori è il tratto più profondo che caratterizza lo svolgimento della storia del pensiero europeo, che è quindi la storia di una decadenza: l’atto originario di tale decadenza è già presente nella dottrina platonica, che ponendo un mondo ideale e perfetto al disopra del mondo materiale che ne è il puro riflesso, getta le basi del nichilismo: "il nichilista è colui che, del mondo qual è, giudica che non dovrebbe essere e, del mondo quale dovrebbe essere, giudica che non esiste".

Nel Crepuscolo degli idoli (1888) Nietzsche offre un celebre compendio della storia del nichilismo-platonismo in sei capitoli. Vediamoli concisamente.

1. Nella prima fase del platonismo si afferma che il sapiente è ancora in grado di raggiungere con l'intelletto il mondo ideale, che quindi per gli uomini illuminati ha ancora una effettiva realtà

2. Il platonismo si trasforma in "platonismo per il popolo", ovvero in cristianesimo: il soprasensibile comincia ad allontanarsi irrimediabilmente dall'uomo: ora non è più sperimentabile durante la vita, ma per il saggio rimane ancora una possibilità oltremondana.

3. Il pensiero di Kant sbarra la via al mondo vero, soprasensibile e noumenico, che viene dichiarato al di là di ogni possibile esperienza. Ormai sopravvive solo nella ragion pratica, come un mero postulato volontaristico della morale kantiana: "devo comportarmi come se esistesse un Dio, come se esistesse un aldilà, un'anima"

4. Il positivismo segna l'avvento della definitiva incredulità metafisica. "Incredulità" significa dichiarazione che non si può arrivare ad alcuna conclusione, con il che viene liquidata la rilevanza morale-religiosa che il soprasensibile aveva ancora in quanto postulato della ragion pratica.

5. Il filosofo (qui Nietzsche pensa a se stesso) riconosce l'assoluta inutilità del concetto di "mondo vero" platonico, e lo abolisce definitivamente

6. All'abolizione del mondo vero deve seguire, ad opera del filosofo dell'epoca nuova, l'abolizione del mondo apparente come tale, del mondo sensibile pensato immancabilmente in riferimento ad una realtà trascendente. Con ciò siamo all'incipit di Così parlò Zarathustra: all'accettazione da parte della volontà dell'uomo superiore del mondo, dell'unica realtà del suo fluire e divenire che non mira a nulla se non al suo eterno ripetersi e riaffermarsi. Il mondo dello Zarathustra nietzschiano non ha un senso, una meta, sia essa l'"ordine morale" o l'"accrescimento dell'amore e dell'armonia" o l'"avvicinamento ad uno stato universale di felicità". La tragicità dell'esistenza risiede nel fatto che l'uomo "non sopporta questo mondo che pure non vuole più negare", perché è ai suoi occhi privo di senso.

Nietzsche rivendica a se stesso il titolo di "primo perfetto nichilista d'Europa", che professa un nichilismo che non è passivo e paralizzante, ma l'atteggiamento di chi pensa l'esistenza così com’è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: il compimento del nichilismo richiede il pensiero dell’eterno ritorno. Ciò significa che non dobbiamo pensare soltanto che la vita non si prefigga nulla e che, come il volgere dei pianeti, nulla insegua nella sua corsa se non se stessa Ma dobbiamo pensare inoltre che tutto questo ritorni eternamente. Il carattere complessivo del mondo è caos per tutta l’eternità (parole di Nietzsche).

Ma chi è in grado di sopportare questo terribile pensiero che sembra rendere insostenibile l’esistenza? È il "superuomo". Questa figura – come è stato spiegato da Heidegger, non va intesa nel senso di un essere prodigioso che abbia potenziato a dismisura le facoltà dell’uomo normale, ma come colui che "supera" l’uomo tradizionale in quanto smette gli atteggiamenti, le credenze e i valori propri di quest’ultimo e ha la forza per crearne di nuovi. La trasvalutazione di tutti i valori è il movimento che si oppone al nichilismo e che lo supera: essa alleva il "super-uomo" come colui che esprime la massima concentrazione di volontà di potenza e che accetta l’eterno ritorno delle cose.

Merita qui di essere riportato il brano, divenuto giustamente famoso, con cui egli esprime in forma potentemente immaginativa questa dottrina:

 

 

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: "Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo chiaro di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterno orologio a polvere dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolto – e tu con esso, granello di polvere dalla polvere venuto!» (...) Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti volere bene a te stesso e alla vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? (La Gaia Scienza, V, ii, 236-37).

 

 

Il dopo-Nietzsche e Heidegger

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A cavallo tra i due secoli e nei primi decenni del Novecento la diagnosi della decadenza e della crisi dei valori, cioè la teorizzazione del nichilismo e la lungimirante previsione delle conseguenze che esso avrebbe innescato, fu l’aspetto dell’opera di Nietzsche che lo fece diventare un autore così letto da portarlo ad occupare nell’anima tedesca il posto che prima di lui era stato di Schopenhauer. Dopo di lui e grazie anche a lui la marea nichilistica iniziò in europa la sua fase montante. Schiere di artisti e letterati continuarono a guardare a lui come a un mito da emulare: Gide, Strindberg, von Hofmannsthal, George, Musil, Broch, Klages, Thomas e Heinrich Mann, Benn, Jünger sono i nomi che spiccano fra tanti altri. Anche in campo strettamente filosofico pensatori dalle provenienze più diverse recepirono le sue dottrine: Vaihinger, Simmel, Spengler, Scheler, Jaspers, Heidegger e altri ancora.

La piena nichilistica si ebbe soprattutto quando le influenze del pensiero nietzscheano confluirono con gli esiti relativistici dello storicismo, ad opera soprattutto di Oswald Spengler. Secondo tale dottrina, le unità (civiltà o epoche) di cui la storia costituisce la successione sono unità organiche i cui elementi, necessariamente connessi, possono vivere solo nell'insieme; da cui la relatività dei valori, che sono collegati al periodo storico cui appartengono e perdono di senso al di fuori di esso.

Spengler mostra, sulle tracce di Nietzsche, una pronunciata inclinazione per la visione tragica del mondo. Tutto diviene, tutto trapassa, tutto è relativo: la massima che Spengler dichiarava di seguire è quella di considerare "il mondo come storia". Nella sua opera capitale Il tramonto dell’Occidente (1918-22), che ebbe subito un vasto successo di pubblico, la successione delle diverse civiltà, è determinata non da disegni e finalità razionali, ma dal ritmo vitale che le contraddistingue e che è analogo a quello dell’individuo: nascita, crescita, declino e morte. Le civiltà non si sviluppano e non si succedono edificandosi l’una sull’altra, ma ciascuna in forza del suo impulso iniziale e seguendo il proprio ritmo energetico, avendo in se stessa il principio e il compimento del suo ciclo vitale. Se è così, la storia universale non può avere uno sviluppo lineare, ma avrà piuttosto un carattere ciclico. Dietro questa visione sta la convinzione, di provenienza nietzscheana, che alla vita, in quanto carattere comune di tutto ciò che diviene, si contrapponga lo spirito, cioè il principio stabilizzante della forma e della razionalità. Ora, secondo la prognosi spengleriana, la forza vitale della civiltà occidentale, soffocata dalle forme della cultura, della civilizzazione e della tecnica, sarebbe entrata nella fase del suo tramonto. Non per caso, ma per una ineluttabile necessità che sta scritta nei ritmi vitali della storia. E poiché ciò che è frutto di necessità non concede la libertà di scegliere o rifiutare, a chi è preso nella ruota della storia universale non resta che accettare questo destino, perché, come Spengler si compiace di rammentare con Seneca: ducunt fata volentem, nolentem trahunt. Anziché a una scienza della storia Spengler aveva dato vita in tal modo a una metafisica del divenire dai toni cupi e apocalittici, che alimentò l’atmosfera di crisi in cui la cultura tedesca era effettivamente piombata dopo la prima guerra mondiale.

Anche Max Weber nel suo Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5), sebbene salutava con favore il nuovo spirito della modernità, avvertiva però che la razionalizzazione scientifica aveva prodotto un irreversibile «disincanto», secolarizzando le vecchie visioni del mondo di origine mitologico-religiosa e rimpiazzandole con una immagine «oggettiva». Egli appariva altresì consapevole del duro destino che la modernità riservava. Perduta l’innocenza delle origini, l’umanità che ha mangiato all’albero della conoscenza paga le sue conquiste con l’incapacità di fondare razionalmente valori ultimi e scelte di vita, con il "politeismo dei valori", il cui antagonismo è razionalmente indecidibile e porta alla loro svalutazione e infine all’indifferenza nei loro confronti. Di fronte a questa situazione egli faceva appello al senso di responsabilità dell’intellettuale e dello scienziato, e invitava a vivere virilmente, senza profeti né redentori, il destino del relativismo e nichilismo della nostra epoca. A chi di questo non fosse stato capace, non rimaneva che il sacrificio dell’intelletto, e con esso il ritorno nelle braccia sempre misericordiosamente aperte delle sètte e dei profeti che spuntavano ovunque.

L'esistenzialismo è caratterizzato da tematiche collegate in vario modo al tema del nichilismo, a quello della crisi di valori e del disagio dell'uomo contemporaneo. Una categoria fondamentale del pensiero esistenziale è quella della finitudine, della limitazione dei poteri e delle capacità realizzative dell'uomo, del suo essere condizionato da determinismi esterni, propri del mondo in cui è gettato, si connette con la crisi dell'ottimistica fiducia nei grandi sistemi di valori dell'Ottocento (progresso, idea assoluta, utopismo politico). La categoria della possibilità è intesa dagli esistenzialisti soprattutto nel suo carattere minaccioso e paralizzante, che si può ricollegare alla dissoluzione nichilista di ogni sistema di valori che possa fornire all'uomo una guida nella scelta. La categoria del negativo, dello scacco, l'analisi degli aspetti negativi e distruttivi dell'esistenza umana nel mondo, presente nella riflessione filosofica come aspetto negativo delle possibilità esistenziali.

La prima grande figura dell'esistenzialismo contemporaneo è quella di Martin Heidegger (1889-1976). Nella sua filosofia il tema del nulla e il tema del nichilismo compaiono entrambi, ma vanno distinti.

Non ci occuperemo qui del nulla, una categoria dell'esistenzialismo che sviluppa accenni della filosofia precedente, (la definizione hegeliana di divenire come unione di essere e nulla; la indicibilità del noumeno kantiano; il mondo della natura come non-io nell'idealismo dell'Ottocento) in un discorso molto difficile e complesso sul rapporto tra essenza ed esistenza, tra un progettare che trascende continuamente la realtà e la realtà stessa in cui gli esiti di tale progettare finiscono per ricadere e su altro ancora.

Fra tutti coloro che nel Novecento si sono cimentati con Nietzsche, Martin Heidegger è certamente colui che ha ingaggiato il confronto filosofico più serrato e profondo. Nel saggio La dottrina platonica della verità (1942), Nietzsche è considerato come colui che porta a compimento la tradizione metafisica iniziatasi con Platone concludendo la lunga interrogazione metafisica dell'Occidente su cosa sia l'ente con l'affermazione che «l’ente è volontà di potenza ed eterno ritorno dell’uguale».

L'incontro con Nietzsche segna l'ingresso nel pensiero di Heidegger del tema del nichilismo. L’interesse per Nietzsche si combina con l’attenzione per la negatività che contrassegna l’epoca moderna, e in generale la storia della metafisica e la storia stessa dell’essere. Nel corso su Schelling dell’estate 1936 Heidegger approfondisce il fenomeno del nichilismo e il problema del suo superamento, riconoscendo a Nietzsche il merito di averlo sperimentato ed esplorato a fondo e di avere dato avvio al contromovimento destinato a sbloccare l'impasse del pensiero occidentale.

Per quanto riguarda le soluzioni, Heidegger è vigile e guardingo: non vi sono punti archimedei su cui appoggiarsi, non ricette né strategie da seguire. Ai pelagiani del ventesimo secolo, convinti che la salvezza stia nelle loro mani, Heidegger oppone la sentenza: «Ormai soltanto un dio ci può salvare». Se mai un punto d’appoggio è possibile, esso sta in quell’eroismo del pensiero capace di pazientare, in attesa dell’«altro inizio», nella sola disposizione in grado di corrispondere al destino epocale del nichilismo e della tecnica, cioè dell’epoca degli dèi fuggiti e del dio nuovo di là da venire: la Gelassenheit, l’atteggiamento pacato dell’«abbandono».

In questa posizione sembrano toccarsi e convivere due estremi incompatibili: un nichilismo radicale, da un lato, e l’abbandono alla visione ispirata, se non al misticismo, dall’altro. La radicalizzazione del domandare filosofico, che tutto investe e tutto consuma, produce da un lato una accelerazione della dissoluzione, un potenziamento del nichilismo. Dall’altro, nel compiersi di tale dissoluzione il pensiero si apre all’aspettativa del totalmente altro, a ciò che sta radicalmente al di là di quanto è stato dissolto. La decostruzione dei concetti e dei teoremi della filosofia tradizionale ha come risultato l’apertura alla problematica del sacro e del divino. Il domandare che Heidegger considera «la pietà del pensare» implica la messa in questione e la dissoluzione, ma al tempo stesso anche la ricerca e l’attesa: conduce a quel Nulla che è la purificazione estrema della finitudine e la spoglia di tutto per consentirle di accedere al divino; porta a quel punto estremo che Meister Eckhart chiamava con le parole quasi blasfeme ricordate all’inizio il punto «dove l’angelo, la mosca e l’anima sono la stessa cosa». È un domandare che rade al suolo la metafisica per preparare l’avvento del «nuovo inizio».

 

 

Nichilismo e "gnosi"

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La chiave di lettura che meglio di ogni altra ha portato alla luce questa possibilità di convivenza tra nichilismo e misticismo è quella dell’accostamento del pensiero heideggeriano alla gnosi. Questo raffronto è una variazione dalla più generale ripresa del paradigma gnostico – scorporato dalla sua collocazione storica nella tarda antichità – come palinsesto per una interpretazione della modernità. Una strada che era già stata battuta nell’Ottocento da Ferdinand Christian Baur. Nel secolo scorso, il merito della riscoperta della gnosi va ascritto a Carl Gustav Jung e agli incontri da lui promossi a partire dagli anni Trenta ad Ascona, di cui l’«Eranos Jahrbuch» fornisce la documentazione. Ma fu soprattutto negli anni Cinquanta che la fruttuosità ermeneutica del paradigma gnostico venne alla luce e fu discussa su scala più vasta. Il dibattito si accese intorno alle tesi sostenute rispettivamente da Eric Voegelin e Hans Blumenberg.

Il primo attaccò frontalmente la legittimità dell’epoca moderna, sostenendo che il suo sviluppo andava interpretato come il trionfo della gnosi. Filosofi decisivi per la modernità come Hegel, Marx e Nietzsche sarebbero da considerare «gnostici» in quanto nel loro pensiero sarebbe operante uno schema speculativo di derivazione gnostica. In Hegel, il processo nel corso del quale da una situazione di alienazione lo spirito giunge a ritrovare se stesso è per Voegelin analogo alla peregrinazione attraverso la quale la scintilla alienata (Pneuma) degli gnostici fa ritorno dal suo esilio nel cosmo fino alla pienezza originaria (Pleroma). In Marx il processo dialettico della storia, che il materialismo storico-dialettico permette di riconoscere, libera l’uomo dall’alienazione e lo trasporta nella pienezza di un’esistenza umana integrale. In Nietzsche il principio naturale della volontà di potenza trasforma l’uomo, soffocato dai valori ostili alla vita e ormai esangue, nel superuomo. In tutti e tre i casi è operante l’idea di una autosalvazione dell’uomo mediante la «conoscenza» della propria condizione di cattività e alienazione, la quale diventa lo strumento del riscatto. In virtù di tale «gnosi», quindi in forza di se stesso, l’essere degradato ripristina la propria pienezza originaria. Il trionfo moderno della gnosi significa per Voegelin l’immanentizzazione dell’escatologia cristiana, che alla fine sfocia nel nichilismo: Dio e la vita spirituale dell’uomo vengono sacrificati alla civiltà con la consacrazione di tutte le energie umane all’impresa della salvezza mediante l’azione immanente nel mondo.

A queste tesi si oppose fermamente Blumenberg. Egli prese le difese della modernità, sostenendo che essa non è tanto la secolarizzazione del cristianesimo, bensì il processo dell’affermazione autonoma dell’uomo nel mondo. Con la sua assolutizzazione della dimensione terrena la modernità nega il dualismo gnostico, ancora presente nella speculazione teologica tardomedievale che separa radicalmente Dio e il mondo. La modernità, dunque, non è il trionfo, ma la seconda, definitiva sconfitta della gnosi.

Ciò che qui interessa – al di là delle metamorfosi moderne della gnosi – è che il paradigma dualistico gnostico consente di vedere il nichilismo contemporaneo da una prospettiva diversa, più ampia e illuminante. Se la gnosi, considerata non come fenomeno storico ma come modello di pensiero, può essere interpretata alla stregua di un nichilismo esistenzialistico ante litteram, che mediante la annihilatio mundi opera un radicale isolamento dell’anima al fine di ottenerne la salvezza e il ricongiungimento con Dio, allora il nichilismo contemporaneo può essere letto a sua volta come un moderno gnosticismo ateo: cieco a ogni trascendenza, esso si concentra in una tragica descrizione dello sradicamento e della spaesatezza dell’esistenza mortale. Nella sua solitudine cosmica, l’esistenza ripete l’interrogazione gnostica, sapendo che rimarrà senza risposta: chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

È stato merito soprattutto di Hans Jonas, allievo di Heidegger e Bultmann a Marburgo, avere portato alla luce le connessioni strutturali tra la gnosi antica e l’esistenzialismo e il nichilismo contemporanei, e avere utilizzato il modello di pensiero gnostico come chiave interpretativa per capire la crisi esistenzialistica e nichilistica dell’uomo d’oggi. Dalla sua approfondita ricostruzione storica della gnosi antica Jonas ha ricavato un profilo tipologico per mostrare come il raffronto con il paradigma gnostico liberi le questioni poste dal nichilismo e dall’esistenzialismo dalla gabbia dell’assurdo e le illumini di un senso più ampio.

Ma anche Jaspers ed Émil Bréhier avevano notato l’importante analogia che sussiste tra l’esistenzialismo e il nichilismo, da un lato, e lo gnosticismo dall’altro. In particolare Bréhier ha fatto osservazioni molto penetranti sulla corrispondenza che sussiste tra l’analitica esistenziale di Essere e tempo e la struttura del romanzo gnostico. In Heidegger si racconterebbe la caduta dell’esistenza individuale nella finitudine, così come nella gnosi si racconta la caduta dell’anima nell’abisso del mondo. Soltanto che in Essere e tempo la narrazione è priva dell’inizio e della fine, ed è proprio questa ignoranza circa la sua provenienza e la sua destinazione ciò che conferisce alla vita romanzata la sua tensione drammatica – come in una tragedia di cui non si conoscessero l’origine e la soluzione. Semplificando, lo svolgimento del romanzo gnostico si articola nei seguenti episodi: 1) v’è anzitutto l’Unità originaria; 2) da essa si staccano alcune ipostasi che vogliono rendersi indipendenti – qui stanno il peccato e la colpa – e cadono nel mondo, nel quale, dimentiche della loro origine e inclini alla curiositas, si perdono (il che corrisponde secondo Bréhier alla «cura» heideggeriana); 3) mediante la conoscenza (gnosi) alcune esistenze riescono a superare la dimenticanza e a riacquisire la reminiscenza della loro origine, facendovi ritorno.

Ebbene, se del racconto si oscurano l’inizio e la fine, si ottiene esattamente la sequenza temporale dell’esistenza finita nella dinamica di inautenticità e autenticità così come Heidegger la descrive. L’analitica esistenziale sarebbe dunque l’espressione di un atteggiamento gnostico e nichilista che non conosce più l’unità divina originaria né crede in un ritorno, ma si consuma tutto nell’orizzonte vuoto e drammatico della finitudine.

Questo paradigma di lettura lumeggia da una nuova angolatura non solo l’opera di Heidegger, ma anche due sviluppi opposti del pensiero contemporaneo che vi si sono ispirati: quello in direzione della teologia e della filosofia della religione, e quello in direzione dell’esistenzialismo ateo e nichilista. Nel primo caso si è saggiata la possibilità di pensare il sacro e il divino nell’epoca del disincanto, ostile alle trascendenze, mettendo in questione le categorie filosofiche impiegate dalle teologie tradizionali e affinandone gli strumenti concettuali. Ciò ha condotto a rivalutare quei modi di pensare il divino, come la teologia apofatica, nei quali è attuata ante litteram, per ragioni e in modalità diverse, una vigilanza critica nei confronti delle determinazioni positive di Dio (Weischedel, Garaventa). In tal senso si è potuto perfino sostenere – comparando il monoteismo ebraico, cristiano e islamico – che la causa del nichilismo culturale dell’Occidente è una conseguenza della determinazione di Dio come persona e dell’uomo come individuo. Andrebbero dunque messi in questione il primato metafisico che l’Occidente accorda al principio di individualità e il dualismo cosmoteologico che ne scaturisce (Corbin, Guénon).

Nell’altra direzione, quella dell’esistenzialismo ateo e nichilistico, si è tentato di pensare la fatticità e la finitudine dell’esistenza, e precisamente nell’assurdità che le deriva per la mancanza di princìpi che la spieghino e le diano un senso. In questa prospettiva, il fondersi di esistenzialismo e nichilismo – ad esempio nell’opera di pensatori come Jean-Paul Sartre e Albert Camus – ha apportato un contributo decisivo alla tematizzazione e alla chiarificazione dell’esistenza umana.

Negli scritti di Sartre, per esempio, senza che il concetto di nichilismo sia impiegato come tale, si avverte ovunque la presenza di un atteggiamento nichilistico esplicito, a volte quasi ostentato. Ciò vale soprattutto per gli scritti del periodo esistenzialista. In L’être et le néant (1943) – le cui intuizioni sono preparate e accompagnate da una copiosa produzione letteraria, nella quale spicca per l’atmosfera nichilistica evocata il romanzo filosofico La nausée (1938) – il nulla e la negatività campeggiano al centro della trattazione e hanno una funzione determinante nello sforzo di definire il carattere radicalmente libero dell’esistenza umana. Quest’ultima, in quanto è libertà, non può essere condizionata da nessuna determinazione, nessun concetto, nessuna definizione; essa è per essenza ciò che sceglierà di essere e ciò che diventerà con la sua scelta. L’uomo è l’essere in cui l’esistenza precede l’essenza e la determina. Esistenza e libertà, pensate coerentemente insieme, impongono da un lato la negazione di Dio – giacché, se lo si ammettesse, si avrebbe eo ipso un principio che determinerebbe l’essenza dell’uomo prima della sua esistenza – e dall’altro costringono l’uomo, abbandonato a se stesso, a inventare ognora la sua esistenza decidendo che farne. Sennonché, la libertà cosciente, il «per-sé», che espone l’uomo all’inevitabile incombenza di un continuo progettarsi, non è una libertà astratta, ma è sempre calata in una situazione, gettata in una condizione, inserita nel mondo delle cose, dell’«in-sé». L’esistenza è coscienza e libertà che trascende il mondo, ma non può trascenderlo se non riferendovisi continuamente. In quanto poi l’esistenza è corpo, diventa cosa tra cose, contingenza assurda fra contingenze. Il corpo «è la forma contingente assunta dalla necessità della mia contingenza». La libertà del per-sé ha nella contingenza dell’in-sé il proprio termine di riferimento: l’esistenza, in quanto coscienza e libertà, non si riduce alla gratuità opaca dell’essere del corpo o delle cose, ma costantemente lo nega e lo trascende. Essa si esplica, tutta, nella libertà che la costituisce come per-sé e con cui, negando ogni preventivo condizionamento e ogni fatticità, si proietta dal nulla nel nulla. La libertà dell’esistere umano, per essere affermata nella radicalità delle sue conseguenze, implica una «nientificazione» (néantisation) che priva l’uomo di qualsiasi riferimento esterno a cui appoggiarsi e lo costringe a ripiegarsi su se stesso, a essere la propria libertà e il proprio nulla. La libertà è quel peculiare modo d’essere che si fa mancanza d’essere, cioè nulla. La conclusione di Sartre è coerente: l’uomo è una passione inutile. Ricompare qui, benché non esplicitato, il motivo del nichilismo gnostico.

Chi invece ha pienamente presente la struttura gnostica sottesa alla propria riflessione esistenzialistica e nichilistica è Camus. Questa consapevolezza non stupisce se si considera che nella tesi di laurea Métaphysique chrétienne et néoplatonisme (1936), in cui al centro della trattazione stanno le figure di Plotino e Agostino, Camus si era occupato della gnosi e le aveva dedicato l’intero secondo capitolo del lavoro. Benché qui egli non raggiunga ancora né la prospettiva né l’originalità degli scritti che lo resero famoso, e non sia quindi possibile stabilire connessioni precise, si può tuttavia mettere in evidenza come la sua trattazione della gnosi proceda per «temi» e «soluzioni», e segua un approccio problematico interessato a cogliere la struttura di tale pensiero. Ciò segnala un interesse non meramente storico ma tipologico, alla luce del quale non si può liquidare come una semplice coincidenza il fatto che Camus scelga come titoli di alcune sue opere altrettante metafore gnostiche: L’étranger, La chute, L’exile et le royaume. Da tale prospettiva appare inoltre assai più chiaro l’orizzonte metafisico del nichilismo che Camus tratta e svolge lungo il filo conduttore dei due motivi che lo ossessionano, cioè l’assurdo e la rivolta della finitudine. Il primo motivo sta al centro di Le mythe de Sisyphe (1942), dove la gratuità dell’esistere – una volta tacitati o morti gli dèi – è rivendicata come una faccenda umana che va vissuta senza ragioni e senza spiegazioni. Il secondo motivo sostanzia di sé quello che va considerato uno tra gli studi più illuminanti e profondi sul problema del nichilismo, L’homme revolté (1951). Forte del suo invidiabile talento letterario Camus ricostruisce in una suggestiva rassegna la storia del nichilismo, e alla fine presenta l’attitudine della rivolta come l’unica virtù praticabile per strappare un senso all’assurdità della condizione umana.

Ma per dare un’idea immediatamente convincente della presenza delle tematiche nichilistiche nella cultura francese basterà ricordare Georges Bataille ed Emil Cioran.

L'opera di Bataille è attraversata da cima a fondo dalla lucida consapevolezza che il nichilismo è un’ombra costante che inevitabilmente ci accompagna quando pensiamo in assenza di dèi o quando ci picchiamo di portare al linguaggio la negatività, il limite, l’alterità. Ed è proprio quanto avviene nei tre volumi della «summa atheologica» con cui Bataille esordì da filosofo: L’expérience intérieure (1943), Le coupable (1944), Sur Nietzsche (1945).

Quanto a Cioran, la sua opera somministra, pagina dopo pagina, un concentrato di pessimismo che avvelena mortalmente tutti gli ideali, le speranze e gli slanci metafisici della filosofia, cioè tutti i tentativi di ancorare l’esistenza a un senso che la rassicuri di fronte all’abisso dell’assurdità che in ogni momento la minaccia. Le meditazioni di Cioran ci sospingono fino a quel punto in cui ciascuno di noi sta nudo di fronte al suo nudo destino. In La chute dans le temps (1964) – un titolo di chiara provenienza gnostica – si dice: "Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità".

L’uomo è insomma un nulla conscio di sé, è «colui che non è»: così asserisce Cioran rovesciando la definizione veterotestamentaria di Dio come «colui che è». La sua costellazione di pensiero non va confusa con quella delle speranzose filosofie dell’esistenza. È piuttosto quella dello gnostico che – consapevole di essere caduto nel tempo e nella finitudine, di essere libero ma al tempo stesso prigioniero nell’angusta cella dell’universo – vuole salvarsi in forza di se stesso e nega disperatamente ogni valore positivo del mondo, incendiando con furore iconoclastico tutte le immagini, i fantasmi e gli dèi che lo popolano, pur sapendo che gli altari abbandonati verranno abitati da demoni. Un’aura palesemente gnostico-nichilistica emana così dagli scritti di questo mistico senza Dio e si condensa, come un’ossessione, nella sequela dei suoi taglienti aforismi e delle sue peregrinazioni saggistiche. Il nichilismo con cui si ha qui a che fare è più evocato con immagini ed effetti letterari che non svolto ed esposto nei giri ampi e rigorosi del ragionamento filosofico. Ma proprio così vengono alla luce in maniera quasi abbagliante la disperazione e insieme la lucidità che lo sostengono, la malinconia e l’accanimento di cui si nutre, l’empietà che lo attrae verso la fosforescenza del male e al tempo stesso la devozione con cui Cioran si slancia verso quella «versione più pura di Dio» che è per lui il Nulla.

 

 

Gnosticismo e periodi di crisi: l'interpretazione esistenziale di Hans Jonas

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Nella sua famosa interpretazione "esistenziale" della genesi dello gnosticismo antico il filosofo Hans Jonas, allievo di Husserl e Heidegger, identifica le sue radici nell'atteggiamento di radicale pessimismo e di evasione mistica tipico dei periodi di crisi delle civiltà giunte alla decadenza.

L'impero bizantino, con la sua oppressiva burocrazia, la sua spietata tassazione, la persecuzione implacabile dei nestoriani e degli altri cristiani non ortodossi, che favorì persino la conquista araba, era l'esempio di un mondo stagnante, dove le forze intellettuali erano represse. Un mondo delle compilazioni giustinianee e dell'erudizione dotta (Psello ecc.) che era incapace di produrre pensiero nuovo. Un mondo stremato dalle guerre con l'impero Sassanide, che sarebbe stato destinato a stremare anche l'impero Ottomano.

Questo autore traccia suggestivi paralleli tra le inquietudini della tarda antichità e l'inquietudine nichilista della nostra epoca.

 

 

Gnosticismo e ricerca neotestamentaria odierna

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Come abbiamo già detto, la scoperta degli antichi testi apocrifi e gnostici ha contribuito a portare a conoscenza del grande pubblico l'esistenza di cristianesimi alternativi. Nei paesi di lingua anglosassone il dibattito sulle origini del cristianesimo è arrivato a risultati estremamente interessanti, perlopiù sconosciuti al pubblico europeo. Si riportano qui di seguito alcuni brani in proposito dello studioso del Testamento Bart Ehrman

 

Rudolf Bultmann e la "demitizzazione". Elementi mitologici nel Cristianesimo.

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rudolf bultmann e la "demitizzazione"

 

L'utilizzazione di un'autentica forma di esistenzialismo per gli scopi di un' apologetica religiosa si ha invece m quella che si può chiamare la teologia della demitizzazione di Rudolf Bultmann. Nato. nel 1884 e morto nel 1976, Bultmann è stato per molti anni professore di teologia all'Università di Marburg ed è l'autore di nume­rosi scrlttl dì cntica neo-testamentaria. In una serie di scritti destinati a diventare famosi, egli tratta del problema della "demitizzazione": Fede e comprensione (1933); Rivelazione ed evento salutare (1941), L'Evan­gelo di Giovanni (1941), Storia della salvezza e storia (1948), Teologia del Nuo­vo Testamento (1948), Il problema della demitizzazione (1954), Storia ed escatologia (1958), Il problema della demitizzazione (1961).

Già Karl Barth (1886-1968) aveva posto al centro della teologia e della filosofia l'analisi del rapporto personale tra l'uomo e Dio, e aveva utilizzato alcuni concetti della filosofia esistenziale di Kierkegaard. Allo scopo di proseguire questa analisi, e per chiarire la vera natura della caratterizzazione cristiana del rapporto con Dio, Bultmann sente indispensabile una reinterpretazione del messaggio cristiano al fine di libe­rarlo dalla forma mitica di cui è rivestito e ricondurlo alla realtà antropologi­ca o esistenziale che ne costituisce il nucleo. Non c'è dubbio secondo Bult­mann, che l'immagine del mondo data nel Nuovo Testamento sia di caratte­re mitico, derivata com'è dalla apocalittica giudaica e dal mito gnostico; co­me .non c'è dubbio che l'annunzio (kerygma) che esso contiene ha una verità indipendente dalla cosmologia mitica. La predicazione cristiana moderna non può perciò, mentre domanda agli uomini la fede, chiedere ad essi di ricono­scere anche la verità del vecchio mito cosmologico. E se questo è impossibile, la predicazione cristiana si trova di fronte al problema di demitologizzare ("entmythologisieren") l'annunzio cristiano (Kerygma und Mythos). Secondo Bultmann, ciò che emerge infine eliminando sovrastrutture mitologiche e metafisiche, è che il mito non fa che esprimere una forma di moderno straordinariamente moderna, una visione esistenzialista la cui formulazione in termini concettuali è espressa da pensatori moderni come Martin Heidegger.

 

il mito della corrispondenza tra corruzione fisica e peccato

 

In tutte le culture primitive gli antropologi hanno riscontrato una connessione tra malattia e peccato (peccato contro il sacro, l'armonia, le leggi) un legame talmente organico che in molte di esse la malattia rivelava l'esistenza di un peccato. Le malattie erano la personificazione dell'anarchia, dello spirito del male, dei demoni.

Echi di questa concezione si ritrovano nel concetto del peccato originale biblico, che combina in una unità inscindibile esistenza fisica soggetta a malattie e dolore e peccato.

 

il mito del parricidio e della detronizzazione

 

L'episodio della strage degli innocenti ordinata da Erode per non far avverare la profezia della sua detronizzazione ad opera di un nato della casa di Davide, con la sua improbabilità storica (nessun sovrano, per quanto assoluto, dell'antichità poteva aspettarsi che l'ordine di uccidere i primogeniti dei suoi sudditi venisse realisticamente eseguito) riecheggia miti analoghi, come ad esempio quello del parto di Zeus ad opera di Era, che per evitare che Crono divorasse il neonato si era nascosta nel Monte Ida e aveva ordinato ai Coribanti di agitare i loro cimbali per coprire le sue grida durante il parto.

 

il mito del parto del salvatore ad opera di una vergine

 

Nello Zoroastrismo il salvatore finale del mondo, Saoshyant, nascerà da una vergine ingravidata dal seme di Zoroastro. Saoshyant farà risorgere i morti per il giudizio finale.

 

il mito dell'autosacrificio salvifico

 

Il sacrificio di Cristo a Gerusalemme, città sacra degli Ebrei, e per questo posta in relazione verticale con la Gerusalemme celeste, che produce effetti salvifici per l'umanità riecheggia i miti semitici dell'autosacrificio rigeneratore della divinità presso il centro della terra.

Presso i babilonesi, la ziggurat rappresenta il Cosmo. La sua vetta è il "cen­tro" supremo, assimilato più tardi al Polo. Quando sale i piani di una ziggurat, il re giunge al centro dell'Universo identificandosi così con il dio che abita il Polo. La città sacra, che ospita il tempio dietro i suoi bastioni merla­ti, diventa a sua volta un centro, la vetta della montagna cosmica (in altri termini, del Mondo). I suoi abitanti sono assimilati magicamente ai padroni divini del "centro", agli dèi. È così in alcune città indiane e in moltissime metropoli orientali.

Tutte le lingue hanno conservato l'espressione popolare del centro: "l'ombelico della terra". In alcune tradizioni semitiche ciò significa non solo che là si trova l'effettivo centro del mondo, ma anche che là ha inizio la creazione del mondo. "Il Santissimo ha creato il Mondo simile a un embrione. Proprio come l'embrione si sviluppa dall'ombeli­co verso l'esterno, così Dio ha iniziato a creare il Mondo dall'ombelico e di là esso si è espanso in tutte le direzioni". Per gli Ebrei il "centro della terra" è Gerusalemme e, più in generale, la terra santa. È per questo che Yoma afferma: "Il mondo è stato creato cominciando da Sion". Siccome è Il centro della creazione, l'ombelico della terra, la Palestina si trova sulla vetta della montagna cosmica. Del resto, secondo un testo rabbinico, "il paese d'Israele non fu sommerso dal diluvio". Le tradizioni islamiche hanno conservato la stessa cosmologia mistica e conferito alla Mecca e alla Kaaba le virtù di Gerusalemme. Nel Kisà'i si afferma: "La tradizione dice: la stella polare attesta che il luogo più alto è la Kaaba perché si trova proprio di fronte al centro del Cielo".

In tutte le tradizioni semitiche, il centro (l'ombelico della terra) era immaginato come la vetta della montagna cosmi­ca. Di qui l'importanza delle montagne nella cosmologia e nella metafisica semitiche. Esse furono create prestissimo, subito dopo le acque primordiali (Tehom); sono le fondamenta della Terra o, nella tradizione araba, "i pilastri della Terra"; uniscono il mondo di sopra a quello di sotto; è dalle montagne che nascono i corsi d'acqua che rendono la terra fertile ed è al di sopra di esse che si formano le nubi porta­trici di pioggia. Erano le montagne i luoghi sacri per eccel­lenza: il Sinai per gli Ebrei, il Garizim e l'Ebal per i Samaritani; la Mecca si trova tra due montagne. La tradi­zione siriana colloca il paradiso, "ombelico della terra", su una montagna più alta di tutte le altre. Ricordiamo che si riscontrano idee analoghe tra i Babilonesi, gli Egiziani e in alcune tradizioni indiane. La strada del Paradiso, quella che conduce al regno dei morti (presso gli Egiziani e i Caldei) o alla dimora del dio, si assomigliano tutte: è il medesimo cammino verso la montagna, la stessa "ascensione" - che il più delle volte si compie simbolicamente - salendo i piani di una ziggurat o di un tempio indiano". Non è difficile decifra­re il significato di tutte queste formule: il cammino verso la montagna evoca il sacro, il reale, l'assoluto; in una parola, è una consacrazione (il re è investito delle virtù divine via via che s'inerpica sui gradini del trono o sui piani della ziggurat, cioè la montagna cosmica; gli itinerari delle anime dei morti e degli eroi alla ricerca d'immortalità - Gilgamesh, Eracle, ecc. - passano per numerose montagne da scalare). "L'ombelico della terra", la montagna cosmica, è la sola zona sacra in tutti gli spazi che circondano l'uomo; ecco per­ché è là che ebbe inizio la Creazione, è di là che il Caos fu scacciato per la prima volta. Le acque del diluvio (ritorno del Caos, l'oceano primordiale, Apsu) non poterono som­mergere la cima del monte, il centro statico, a partire dal quale ebbe inizio la seconda Creazione.

Secondo un libro siriano, La Caverna dei Tesori, Adamo è stato creato al centro della terra, proprio nel medesimo punto in cui successivamente fu drizzata la croce del Cristo. Questa tradizione è estremamente preziosa. Da un lato, vi si decifra un significato nascosto della creazione dell'uomo che viene identificato con il microcosmo (Adamo e il Mon­do sono generati entrambi dall' "ombelico della terra"). Dall'altro, si afferma esplicitamente che la redenzione dell'uomo - mediante la Passione del Cristo - è stata possi­bile grazie a un ritorno al "centro", esattamente quello che indicano tutte le tradizioni. Soffrendo sulla cima della mon­tagna cosmica, là dove fu creato Adamo, al centro dell'esi­stenza, Gesù riscatta con il Suo sangue tutti i peccati del genere umano e ne determina la salvezza. La Passione di Gesù Cristo si è dispiegata su tutta la terra perché, essendo la cima della montagna cosmica, il Golgota ingloba magica­mente l'intero pianeta. L'agonia ha avuto inizio ed è termi­nata nella realtà assoluta, al centro dell'esistenza (una zona del tutto diversa, per il fatto di essere profana, non consa­crata, partecipa del divenire non significativo, della "storia" e non dell'ontologia, dell'evento. e non della categoria). Affrontare il tema del simbolismo della croce darebbe com­pletezza a queste idee, ma qui abbiamo deciso di occuparci esclusivamente dei motivi arcaici e di non spiegare un sim­bolo tradizionale con forme recenti",

La questione è che, nel mondo semita, ritroviamo dovun­que questo legame tra "il centro", "la realtà assoluta", "il primo uomo", "la morte". Gerusalemme non è solo il punto di congiunzione tra la Terra e il Cielo. Essa è altresì il luogo attraverso cui si può penetrare nell'altro mondo. Una tradi­zione siriana ci dice che dopo il diluvio Adamo fu sepolto "alle porte della terra", cioè là dove ha inizio la dimora dei morti. L'Islam ha assimilato la credenza ebraica secondo cui la tomba di Adamo si trova a Gerusalemme. E, secondo le tradizioni islamiche, tutti i profeti sono sepolti a Gerusalemme. Ancor oggi c'è alla Mecca un pozzo presso il quale vengono deposte offerte per i morti. Non si tratta della superstizione assai diffusa secondo la quale, dato che i morti abitano sotto terra, si possono inviare loro delle offer­te attraverso buche o pozzi, ma di un'idea tradizionale: essendo il centro della terra, la Mecca è il solo punto di congiunzione tra il Cielo e l'aldilà.

L'asse dell'Uni­verso passa per il centro del mondo, ed è là che svetta l'Albero della Vita. I ritmi cosmici e la vita si dispiegano a partire dal "centro". Ecco perché si dice che Gerusalemme è "ricca di acque" e che è a partire dalla città sacra che le nubi gravide di pioggia si dirigono verso i quattro angoli del mondo. Le piogge portano fertilità e ricchezza, rendono possibile la vita e l'armonia, regolano le stagioni. "Le acque" sono fruttuose unicamente se il loro ritmo è regolato da un "centro". L'Islam ha conservato tradizioni analoghe. Nuwayri scrive: "basandosi sull'autorità del Profeta, Abu Hurayra ha detto: tutti i corsi d'acqua e le nuvole e le nebbie e i venti provengono dalla roccia sacra di Gerusalemme". Kazwini riporta la stessa tradizione a proposito della Mecca: "se la pioggia colpisce la Kaaba da un certo lato, quell'anno la fertilità si estenderà in quella direzione; se la pioggia la colpisce da tutti i lati, la fertilità sarà universale". In India il "luogo del sacrificio", è denominato spesso "ombelico della terra" perché è grazie al "sacrificio" che l'Universo è sorretto, che esistono i ritmi, la vita, l'armonia. L'altare, "luogo del sacrificio", è definito anche "ventre (matrice) dell'ordine cosmico". Fin dall'epoca vedica, gli Indiani identificavano l'altare sacrificale con l'ombelico". Si ritrova la stessa teoria in Clemente Alessandrino: "l'altare su cui brucia l'incenso è un simbolo della terra che giace al centro dell'Universo".

Una tradizione semitica assai diffusa vuole che Adamo abiti sotto una tenda là dove sorge la "Casa di Allah", cioè nell'"ombelico della terra". Anche Agni, dio indiano del fuoco, sta nell'ombelico della terra". L'omologia Cielo-­Terra non è meno rigorosa in India. Il "centro" della terra viene identificato magicamente con il "centro" del Cielo. Un inno dei Rigveda recita: "Il sacerdote che prepara il sacrifi­cio si è posto nell'ombelico del cielo". Il simbolo del centro spiega tutte queste formule: "L'ombelico del cielo" significa "l'ombelico del sacrificio" in quanto solo la zona consacrata dell'altare esiste realmente, in modo assoluto, come esiste il "Cielo". L'integrazione dell'uomo nella realtà avviene con il suo ritorno al "centro". Il rituale consacra l'uomo, lo rende "simile agli dèi. perché lo riporta al "centro", nella realtà, nell'assoluto.

La mistica indiana si basa su questa restaurazione dell'uomo nel suo centro.

Le tecniche ascetiche indiane attribuiscono grande importanza all' "ombelico": il soffio (aria, "fluido vitale") deve andare dall'ombelìco" al cuore; la concentrazione dello yogin avviene il più delle volte nell'ombelico". Ci si imbatte in pratiche analoghe, che presuppongono una tradi­zione mistica estremamente antica, in alcune forme di mistica cristiana, per esempio nell'esicasmo. La medesima identità ombelico-centro è presente in culture assai lonta­ne le une dalle altre. In gaelico, imleag o iomlag (ombelico) ha anche il significato di centro. La capitale degli Inca, Cuzco, era chiamata "ombelico". Stando ad alcune leggen­de europee studiate da Hartland, Gesù fu concepito con l'orecchio; quest'ultimo è una forma del simbolismo della spirale, che ha il medesimo significato metafisico di centro.

L'ombelico" viene iden­tificato con il "trono" su cui siede l'ordinatore dell'Universo. Generalmente, nelle mitologie e nell'architettura semitiche, un serpente si attorciglia attorno al "trono": per esempio è così per il trono di Salomone.

Nelle leggende di tutti i popoli, il serpente è il guardia­no dei tesori e delle tombe. Se il trono è un simbolo del centro del mondo e quindi della Terra, lui, il serpente, sim­boleggia qui l'Oceano, il vasto caos delle acque che, secondo gli antichi, circondano da ogni parte la Terra cercando d'inghiottirla.

 

 

Gesù come apocalittico ebraico (Bart D. Ehrman)

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Nel passo che segue Bart D. Ehrman, uno dei più autorevoli studiosi attuali delle origini del cristianesimo, a capo del dipartimento di Sudi religiosi dell’Università del North Carolina, con numerose pubblicazioni all’attivo, alcune per i tipi dalla prestigiosa Oxford University Press, dimostra come le fonti più attendibili sulla figura di Cristo conducono a considerarlo un profeta apocalittico ebraico, e che solo successivamente la sua figura è stata divinizzata e il senso del suo messaggio (l’avvento del Regno di Dio) non è stato inteso come evento imminente ma in senso spirituale.

 

Senza dubbio, quello dei Rotoli del Mar Morto è stato il ritrovamento di manoscritti più importante dell’epoca moderna. All’inizio del 1947 un pastore beduino, un ragazzo di nome Muhammed edh-Dhib portò un gregge di pecore e capre ad abbeverarsi a una sorgente nel deserto di Giudea, vicino alle antiche rovine note con il nome di Qumran, sulla costa nord-occidentale del Mar Morto, circa quindici chilometri a sud di Gerico e venticinque a est di Gerusalemme. Uno dei suoi animali si era allontanato e il ragazzo si mise a cercarlo. Avendo notato l’apertura di  una grotta nella parete di roccia sopra di lui, ci lanciò un sasso e sentì che aveva colpito qualcosa. Il giorno successivo tornò con un amico per indagare e all’interno della grotta i due trovarono delle grosse giare di terracotta contenenti rotoli intatti, avvolti in teli di lino. Le giare contenevano sette rotoli completi. Ai beduini non sfuggì che, come quella, anche le altre grotte della zona potevano custodire antichi tesori. Nelle immediate vicinanze ci sono infatti circa trecento tra grotte e aperture. Negli anni Cinquanta sia beduini che archeologi professionisti le esplorarono minuziosamente. In undici di esse furono trovati resti di manoscritti, la maggior parte dei quali non intatti, a differenza dei primi sette, ma in forma di frammenti. Una delle grotte, chiamata Grotta 4 (poiché era la quarta grotta in cui erano stati ritrovati dei reperti), era piena di pezzetti di  manoscritti deteriorati dal tempo: circa quindicimila frammenti per un totale di seicento testi. Ricomporli fu un compito piuttosto arduo, paragonabile a un puzzle di cui la maggior parte delle tessere siano mancanti e quelle rimaste siano state rivoltate a casaccio.

Ma ne valeva davvero la pena, perché i documenti – sia i primi sette sia i manoscritti e i frammenti rinvenuti nelle altre grotte – sono antichissimi. Molti contenevano documenti sull’ebraismo antico per cui non c’erano altre fonti: i manoscritti infatti risalgono a circa duemila anni fa. Furono compilati e utilizzati da una setta di ebrei vissuti più o meno all’epoca di Gesù, in un insediamento oggi noto come le rovine di Qumran, non lontano dalle grotte.

Il ritrovamento è molto significativo perché ci fornisce informazioni fondamentali sui mutamenti in corso all’interno dell’ebraismo nei secoli a cavallo dell’inizio dell’era cristiana. E’ inoltre utile per capire il cristianesimo non perché si tratti di vangeli, ma perché i documenti raccontano dell’ebraismo ai tempi di Gesù.

Tra i documenti più significativi dobbiamo ricordare le copie dei libri della Bibbia ebraica. La maggior parte dei libri scoperti nelle altre grotte vicino a Qumran non ci erano noti. Si tratta insomma di una vera e propria biblioteca di testi ebraici che fino ad allora non si conoscevano. Sono scritti soprattutto in ebraico (la lingua delle Scritture), in qualche caso in aramaico (la lingua quotidiana dell’epoca) e più raramente in greco (il linguaggio dei commerci e della cultura internazionale). Si tratta di commentari ai testi biblici, che i compilatori interpretavano e di cui spiegavano il significato per la vita della comunità loro contemporanea. Gli scritti non miravano tanto a dimostrare che cosa l’autore del testo biblico avesse voluto dire alla comunità dei suoi tempi; cercavano piuttosto di dimostrare come gli autori biblici avessero riferito profezie che stavano avverandosi molti secoli dopo proprio nella comunità di Qumran.

Tra i documenti di Qumran sono presenti altri libri che gli studiosi hanno chiamato “settari”, a significare che riguardano la vita della comunità: regole  di comportamento, requisiti di ammissione, punizioni per la violazione della politica comune e così via. Gli esperti sono concordi nel sostenere che la comunità fosse costituita da un gruppo di ebrei noti da altri fonti antiche come Esseni. La lettura dei libri “settari” chiarisce  che la comunità degli Esseni era caratterizzata dalla massiccia presenza di uomini celibi che avevano dedicato la propria vita alla purezza, nella convinzione che la fine del mondo fosse vicina. Credevano che presto Dio sarebbe intervenuto nella storia per rovesciare le forze del male e per premiare i giusti.

Alcuni libri. sono visionari e descrivono cosa succederà alla fine del mondo, quando le forze del bene (schierate con i membri della comunità) daranno battaglia alle forze del male (il diavolo e i suoi rappresentanti terreni, come per esempio gli eserciti romani), rovesciandole per preparare la venuta del regno di Dio sulla terra.

Senza dubbio l’aspetto più importante dei Rotoli del Mar Morto è il fatto che evidenzino la centralità dell’apocalittica ebraica nell’ambiente di Gesù.

Apocalittica è un termine che gli studiosi moderni utilizzano per indicare una visione del mondo antica. Deriva dal greco apokalypsis, che significa “rivelazione”. I sostenitori di questa visione del mondo credevano che Dio avesse “rivelato” loro quei segreti celesti che potevano aiutarli a dare un senso alle realtà terrene; in particolare, credevano che Dio avesse rivelato loro che cosa sarebbe accaduto nel prossimo futuro, quando sarebbe intervenuto per distruggere il male neo mondo e fondare il suo regno del bene.

All’epoca di Gesù, gli apocalittici appartenevano a tutti i ceti. Alcuni erano membri di sette come gli Esseni, altri erano farisei, altri erano figure profetiche (come Giovanni Battista) e i loro seguaci, e altri ancora non erano legati a nessuna fazione, ma condividevano semplicemente questa visione del mondo (proprio come oggi ci sono cristiani che non appartengono a nessuna confessione).

Dai Rotoli del Mar Morto e da altri documenti ebraici antichi si deduce con chiarezza che, qualunque fosse il partito di appartenenza, gli apocalittici sottoscrivevano quattro principi fondamentali:

1. Dualismo. L’apocalittica ebraica sostiene che ci sono due componenti essenziali nella realtà: le forze del bene e le forze del male. Dalla parte del bene, naturalmente, c’è Dio. Ma Dio ha un nemico personale: il diavolo (prima dell’apocalittica non ci sono riferimenti a questa figura nei testi ebraici, come del resto nella maggior parti della Bibbia). Dio ha i suoi agenti, gli angeli, e il diavolo pure, i demoni. Con Dio si schierano i poteri sovrumani della giustizia e della vita; con il diavolo si schierano il peccato e la morte. Gli apocalittici ritenevano che fossero forze reali operanti nel mondo. Il peccato non è solo qualcosa di male che capita di fare ogni tanto: è una forza cosmica, schierata contro Dio, che cerca di ingannare l’uomo per spingerlo ad agire contro il volere divino. Perché ci sono persone che “non riescono a trattenersi” dal fare ciò che sanno essere sbagliato? Perché il peccato le ha soggiogate. Anche la morte non è spiegabile solo come ciò che accade quando si esala l’ultimo respiro o la mente smette di funzionare; è una forza cosmica operante nel mondo, che cerca di catturare l’uomo e che, quando ci riesce lo annienta.

Per gli apocalittici ebraici, tutte le cose e tutte le persone del mondo sono schierate con le forze del bene o con quelle del male. Non esiste un terreno neutrale e tutti debbono scegliere da che parte stare.

Inoltre per loro questo dualismo cosmico si declina all’interno di uno scenario storico in cui c’è una radicale scissione tra l’età presente e quella futura. Il presente è in mano alle forze del male, ecco perché nel mondo c’è tanto dolore e tanta sofferenza, carestie, malattie, guerre e calamità naturali, per non parlare  delle esperienze più comuni di odio, solitudine e morte. Ma in futuro tutto ciò che è male sarà distrutto e rimarrà solo il bene; non ci saranno più fame, pena, sofferenza, dolore o morte, ma solo il volere di Dio, che regnerà sovrano sulla Terra.

2. Pessimismo. Poiché la dottrina degli apocalittici sostiene che l’epoca presente è malvagia, non nutre alcuna speranza di poter migliorare la sorte degli uomini hic et nunc. Le cose vanno male e possono solo andare peggio, man mano che il diavolo e i suoi scagnozzi acquisiscono un potere sempre maggiore. Non si può cambiare in meglio la situazione migliorando l’assistenza sociale, aumentando il numero degli insegnanti o dei tutori dell’ordine: il potere delle forze del male è in aumento e continuerà a crescere fino al termine di quell’epoca, quando, letteralmente, scoppierà l’inferno.

3. Vendetta. Ma la fine di quell’epoca non rappresenterà la fine della storia. Perché quando la situazione sarà definitivamente compromessa, Dio in persona interverrà a beneficio di chi si è schierato con lui. Rovescerà con il suo giudizio apocalittico le forze del male, distruggendo il diavolo e tutti i suoi poteri e portando sulla terra il suo regno benigno.

Nella vendetta di Dio rientra anche la resurrezione dei morti. Il giudizio di Dio, quindi, non riguarderà solo i vivi ma tutti, anche i morti, che risorgeranno fisicamente per affrontarlo. Quindi nessuno deve penare di potersi schierare in vita con le forze del male per ottenere prosperità e potere e poi farla franca dopo la morte. Ciò non è possibile perché Dio resusciterà tutti e li condannerà alla punizione eterna per il male compiuto, senza possibilità di attenuarla in nessun modo.

D’altro canto, chi si è schierato con Dio e ha sofferto di conseguenza sarà resuscitato dai morti per ricevere la ricompensa eterna (non può esserci che sofferenza per chi si schiera con il bene, perché sono le forze del male a controllare il mondo). Quindi chi soffre nel presente può sperare nella futura vendetta, nel regno ormai imminente. Ma quando verrà?

4. Imminenza. L’apocalittica ebraica sostiene che il giudizio finale verrà molto presto. Prestissimo. Le cose non possono andare peggio di come vanno e quanto prima Dio interverrà per rovesciare le forze del male e fondare il suo regno. Ma quando succederà? “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza.” Sono parole di Gesù (Mc 9, 1). Dunque lo stesso Gesù era un apocalittico e professava un punto di vista simile a quello degli Esseni della comunità del Mar Morto, anche se con tutta probabilità non ne faceva parte né ebbe mai contatti con loro. In un altro passo Gesù afferma: “In verità vi dico: non passerò questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute” (Mc 13, 30).

Quindi Gesù ha in comune con gli Esseni di Qumran una visione apocalittica. Ma le differenze sono numerose e per questa ragione gli studiosi affermano unanimi che non apparteneva alla comunità. Gli Esseni di Qumran, per esempio, volevano preservarsi puri isolandosi dalle influenze inquinanti del mondo; Gesù invece si circondava continuamente di “esattori delle tasse e peccatori” e non si interessava della sua purezza personale né del rispetto rigoroso della legge mosaica a cui esortavano gli Esseni. Semmai il contrario: spesso era accusato di lassismo nei confronti della legge (per esempio, di quella che prescriveva di rispettare il sabato). Ma un tratto fondamentale lo accomuna alla comunità del Mar Morto: è un dualista, crede nelle forze del bene e del male (lo si vede spesso combattere contro il demonio, per esempio), nell’imminenza della venuta del regno di Dio (Mc 1, 15; 9, 1; 13, 30), nella futura risurrezione dai morti e così via.

Per sapere qualcosa di Gesù, o di qualsiasi altro personaggio del passato, dobbiamo ricorrere alle fonti di cui disponiamo.  Le principali fonti su Gesù sono i vangeli del Nuovo Testamento, cui si aggiungono forse un paio di vangeli non canonici in grado di fornire informazioni utili sulla sua vita. Tali fonti, però, non possono essere usate in modo acritico, poiché, come abbiamo visto, anche le fonti più antiche (per esempio, Marco e l’ipotetico documento Q1) sono state scritte decenni dopo gli eventi che descrivono e sono basate su tradizioni orali che rimasero in circolazione per anni; le persone che raccontarono più e più volte le storie sulla vita di Gesù finirono quindi per modificarle. Questo significa che tutte le nostre fonti devono essere prese cum grano salis. Dobbiamo accostarci a esse in modo cauto, prudente e metodico se vogliamo ricavarne informazioni storicamente attendibili, perché non siamo alla ricerca dei racconti modificati sulla vita di Gesù, ma delle informazioni originali, per sapere che cosa disse, fece e sperimentò realmente.

Come possiamo acquisire tali informazioni? Alcuni studiosi hanno dedicato la vita intera al problema di come sapere cosa accadde realmente nella vita di Gesù. Si tratta di storici dell’antichità estremamente preparati, che, oltre a leggere tutte le fonti in lingua originale (greco, ebraico, latino, ecc.) e conoscere ogni minimo riferimento a Gesù negli antichi resoconti, hanno inventato dei metodi per filtrare il materiale a disposizione allo scopo di stabilire cosa è storicamente attendibile e cosa non lo è. La stragrande maggioranza della produzione di questi esperti è tutt’altro che eclatante: si tratta di materiale incisivo, rigoroso, dettagliato e ricchissimo di sfumature, di utilità e interesse soprattutto per altri studiosi del settore. Le conclusioni cui sono giunti gli storici, però, possono essere affascinanti anche per i non addetti ai lavori. Ora cercherò di spiegare in modo semplice e accessibile i metodi elaborati dagli studiosi per ricostruire la vita di Gesù, consapevole del fatto che dietro a questa presentazione alquanto semplificata ci sono tanto sangue, tanto sudore, tanto duro lavoro.

Nel complesso gli studiosi concordano sui vari criteri da utilizzare con le fonti tuttora esistenti è per capire che cosa accadde realmente nella vita di Gesù. I quattro esposti qui di seguito sono i più importanti.

1. Più antico è meglio è

Le storie su Gesù, anche quelle che gli attribuiscono qualche tipo di legame, come con Maria Maddalena, sono state raccontate più e più volte, subendo nel tempo varie modifiche alla luce delle credenze, della visione del mondo e del punto di vista del narratore. Nel complesso, quindi, le fonti più antiche avranno una probabilità inferiore di contenere informazioni modificate radicalmente rispetto alle fonti successive. La ragione è ovvia: nel caso delle primissime fonti, ci sarà stato meno tempo a disposizione per modificare le storie. Ecco perché gli studiosi che si danno da fare per scoprire che cosa accadde realmente nella vita di Gesù tendono a usare di più, per esempio, Marco e Q rispetto al vangelo di Giovanni e al vangelo di Tommaso2. Questi ultimi furono scritti a decenni di distanza dai primi due, quindi la probabilità che conservino informazioni storicamente attendibili è minore.

Tuttavia, dato che le fonti a nostra disposizione sono tutte relativamente recenti (non risalgono ai tempi di Gesù), non basterà accettare  come storicamente attendibili le informazioni fornite dalle più antiche. Anch’esse contengono storie modificate durante il processo di rinarrazione, quindi sono necessari altri criteri.

2. Sommare le testimonianze

Il fatto di trovare fonti antiche indipendenti che forniscono le stesse informazioni su Gesù facilita notevolmente il compito degli studiosi che cercano di ricostruire la sua vita. Se due o più fonti indipendenti forniscono lo stesso racconto di un episodio della vita di Gesù, nessuna di queste può averlo inventato; le informazioni devono essere state ricavate da una fonte ancora più antica, magari da un vero e proprio dato storico della vita di Gesù. Bisogna comunque sottolineare che questo criterio vale solo se le fonti sono indipendenti tra loro. Una storia presente in Matteo, Marco e Luca, per esempio non sarebbe attestata da tre fonti indipendenti, perché Matteo e Luca l’avrebbero presa da Marco. In questo caso, la fonte della storia è solo una. Se però una storia è presente in Marco, Q e Tommaso, che sono fonti indipendenti tra loro, deve essere stata ricavata da una fonte ancora più antica a disposizione di tutti e tre gli autori.

3. Quello che contrasta aiuta

Dato che le storie su Gesù sono state ovviamente modificate in base al punto di vista, alla visione del mondo e agli interessi di chi le ha raccontate, come la mettiamo con le informazioni su di lui contenute nelle nostre fonti e contrarie al punto di vista, alla visione del mondo e agli interessi di questi narratori? E’ ovvio che tradizioni di questo tipo, in apparente contrasto con ciò che i cristiani avrebbero voluto dire di Gesù, non possono essere tradizioni inventate; di conseguenza, sono particolarmente preziose, poiché sembrano descrivere eventi realmente accaduti nella vita di Gesù.

Per esempio fonti indipendenti (Marco e Giovanni) attestano che Gesù era originario di Nazaret. Questo contrasta con ciò che i cristiani avrebbero voluto dire di lui, poiché il messia sarebbe dovuto venire da Betlemme (ecco perché, secondo alcune storie nacque là). Perché mai, quindi, avrebbero dovuto dire che era originario di Nazaret? Prima dell’avvento del cristianesimo, Nazaret era un paesino minuscolo che la quasi totalità delle persone non aveva mai sentito nominare. I cristiani che narravano le storie di Gesù non traevano alcun vantaggio dall’affermare che veniva da un villaggio tanto minuscolo, sconosciuto e infausto, sperduto in Galilea. Le storie che collocano Gesù a Nazaret, quindi, sono probabilmente autentiche. quello era davvero il suo luogo d’origine. Prendiamo in considerazione il battesimo di Cristo da parte di Giovanni: i primi cristiani si rendevano conto che, nel rito del battesimo, chi battezza è spiritualmente superiore a chi viene battezzato. Perché mai un cristiano avrebbe dovuto inventarsi che Gesù fu battezzato da un altro? Questo non avrebbe dato adito all’interpretazione che Giovanni fosse superiore a Gesù? I cristiani che lo riverivano non avrebbero inventato una storia simile, quindi è probabile che sia successo veramente.

3. Il contesto è (quasi) tutto

Gli esperti, infine, prendono molto seriamente la conclusione cui sono ormai giunti tutti quelli che studiano la figura storica di Gesù: Gesù era un ebreo e visse in Palestina nel I secolo. Quasi certamente, le storie su ciò che disse e fece non compatibili con quel contesto non sono esatte dal punto di vista storico. Le parole di Gesù che risultano più sensate in un contesto diverso probabilmente derivano da quel contesto, non dalla vita vera di Gesù.

Certi detti contenuti nel Vangelo di Tommaso e in altri scritti della biblioteca di Nag Hammadi, per esempio, hanno un tono chiaramente gnostico. IL problema è che non abbiamo prove che lo gnosticismo esistesse già nei primi due decenni del I secolo, soprattutto in una regione rurale come la Galilea. Questi detti gnostici devono quindi appartenere a tradizioni successive, mese in bocca a Gesù in qualche altro contesto (nel II secolo, per esempio, in un luogo come l’Egitto o la Siria). Con questo non voglio dire che tutti i detti contenuti in Tommaso debbano essere ritenuti inammissibili. Si è visto che in questo vangelo, per esempio, Gesù racconta la parabola del granellino di senape, riportata (in modo indipendente) anche da Marco. La storia non ha niente di particolarmente gnostico ed è attestata da due fonti indipendenti, una delle quali è molto antica. Conclusione? Può darsi che Gesù l’abbia raccontata.

Questi, quindi, sono alcuni dei principali criteri usati dagli studiosi per analizzare le primissime fonti sulla vita di Gesù. Scoprire ciò che disse e fece non significa semplicemente “credere a qualcuno sulla parola” o accettare ogni cosa (o qualsiasi cosa) si dica su di lui nei vangeli. Ogni detto di Gesù, tutto quello che, secondo le fonti, fece e sperimentò deve essere analizzato in base a questi criteri per vedere se può essere attribuito con una certa plausibilità alle circostanze storiche della sua vita. Le parole e le opere di Gesù che non soddisfano tali criteri non possono essere accettate come storiche. In breve, saperne di più su Gesù non è questione di pure congetture, fantasia o pii desideri. E’ questione di esaminare le fonti a nostra disposizione con occhio critico per stabilire che cosa accadde realmente nella sua vita.

Il Nuovo Testamento non ritrae Gesù nel solo suo aspetto divino; in molti passaggi, infatti, è descritto anche qui come un mortale. Tuttavia già secoli prima di Costantino si era diffusa l’idea che, accanto all’aspetto umano, Gesù avesse anche un lato divino. Ma le fonti più antiche nonché le migliori di cui disponiamo vedono Gesù come un profeta mortale. IN realtà, lo vedono più che altro come l’autore di una serie di profezie dettagliate. Come gli Esseni, la comunità che produsse i manoscritti del Mar Morto, Gesù era un ebreo apocalittico, convinto che Dio sarebbe ben presto intervenuto nel corso della storia per sconfiggere le forze del male in questo mondo e fondare un nuovo regno sulla terra, dove non ci sarebbe più stato spazio per dolore e sofferenza. Questa immagine di Gesù come un apocalittico deriva da un’analisi approfondita delle prime fonti a nostra disposizione.

Abbiamo visto  alcuni aspetti della visione del mondo degli ebrei apocalittici, secondo i quali esistevano due componenti  fondamentali della realtà, le forze del bene e le forze del male, con Dio e i suoi angeli da una parte e il Maligno e i suoi demoni dall’altra. Questo dualismo era inserito in uno schema in cui all’attuale epoca dominata dal male ne sarebbe seguita una dominata dal bene, in cui sarebbe venuto il regno di Dio ed egli avrebbe regnato sovrano. All’avvento di questo regno sarebbe scoppiato un cataclisma durante il quale Dio avrebbe sconfitto le forze del male e giudicato gli uomini in base al loro schieramento – con Dio o con le forze del male – durante quest’epoca malvagia. Per di più, gli ebrei apocalittici credevano che tutto questo sarebbe successo molto presto.

Fin dall’inizio del XX secolo, molti studiosi hanno riconosciuto che questa visione era condivisa anche dal Gesù storico. Prove a sostegno di questa tesi emergono dalle prime fonti sulla sua vita (i vangeli cristiani sopravvissuti) a mano a mano che vengono analizzate in base ai criteri sopra esposti. Tradizioni che ritraggono Gesù come un apocalittico sono presenti nei primissimi resoconti a nostra disposizione, tra cui Marco, Q, M, L3, tutte fonti indipendenti tra loro (non sono invece presenti nei resoconti successivi, come Giovanni e Tommaso). In queste tradizioni, Gesù predice che Dio invierà presto un giudice celeste, per il quale usa l’enigmatica definizione “Figlio dell’uomo”, che seminerà distruzione tra le forze del male, sconfiggendo chiunque si opponga a Dio e portando il suo regno per coloro che si sono schierati al suo fianco durante quest’epoca malvagia. Ecco, per esempio, che cosa dice Gesù nelle nostre fonti più antiche (e indipendenti):

 

 

Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi... In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza (Mc 8,38-9,1).

In quei giorni, dopo quella tribolazione, e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo... In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute (Mc 13, 24-27.30).

Perché come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno.. Come avvenne al tempo di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, si ammogliavano e si maritavano, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece perire tutti... Così sarà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si rivelerà (Q via Lc 17, 24; 17, 26-27.30; cfr. Mt 24, 27.37-39).

Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate (Lc 12, 40; cfr Mt 24, 44).

Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrò alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno da suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro (M via Mt 13, 40-43).

State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni , ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia della terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo (L via Lc 21, 34-36).

 

 

Le nostre tradizioni contengono numerosi detti del genere: questi sono solo alcuni esempi. Va sottolineato che tali detti apocalittici sono tratti dalle primissime fonti di cui disponiamo (perché più antico è meglio è), sono indipendenti tra loro e del tutto credibili dal punto di vista del contesto (come ricorderete, idee simili erano presenti nei manoscritti del Mar Morto, risalenti ai tempi dello stesso Gesù). Inoltre, alcuni di questi detti apocalittici contrastano con quelli che i primi cristiani avrebbero scelto di dire se fossero stati loro a mettere le parole in bocca a Gesù. Prendiamo il seguente passo tratto da Q:

 

 

In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi [discepoli] su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele (Mt 19, 28; cfr Lc 22,30).

 

 

Perché un cristiano non si sarebbe inventato questo detto? Da notare che Gesù si sta rivolgendo a tutti e dodici i suoi discepoli e dice che, con la venuta del nuovo regno, siederanno tutti in trono. E’ difficile credere che dei cristiani vissuti in epoca successiva avrebbero affermato una cosa simile a proposito dei dodici discepoli dopo la morte di Gesù sapendo che proprio uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva tradito. Giuda siederà in trono con gli altri nel regno che verrà? Di sicuro, i cristiani non la pensavano così. Allora, perché conservarono questo detto secondo cui anche Giuda avrebbe regnato? Evidentemente, Gesù lo disse davvero e i cristiani conservarono il detto così com’era, senza modificarlo alla luce delle loro idee.

Ora vorrei vedere un po’ in dettaglio che cosa hanno stabilito gli studiosi a proposito della sua predicazione. Ci tengo a ricordare che non sto semplicemente riassumendo quello che i vangeli dicono di Gesù Gli autori dei vangeli più recenti avevano un’idea di lui un po’ diversa, poiché si basavano su tradizioni orali rimaste in circolazione per decenni prima che loro stessi le mettessero per iscritto. A me interessa quello che il Gesù storico disse e fece realmente, cosa che richiede un’analisi critica delle primissime fonti in base ai criteri sopra esposti. Le tradizioni presenti nelle fonti più recenti – per esempio le affermazioni contenute nel Vangelo di Giovanni secondo cui Gesù si definì divino – non sono presenti nelle prime fonti e non contrastano affatto con quelli che i primi cristiani avrebbero voluto dire di lui. Di conseguenza, non sono storicamente attendibili. Le nostre tradizioni, però, contengono anche materiale attendibile, ed è proprio questo materiale che voglio riassumere.

E’ chiaro che il Gesù storico parlò della venuta del regno di Dio. Il suo insegnamento è riassunto nel più antico dei vangeli sopravvissuti, quello di Marco:

 

 

Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo (Mc 1, 15).

 

 

Quando Gesù parla dell’imminente regno di Dio, in questo versetto come in altri detti che possono tranquillamente essere attribuiti a lui, l’impressione è che stia parlando non di un regno spirituale (o dell’ascesa al cielo dopo la morte), ma di una vera e propria presenza fisica di Dio qui sulla terra. Come dice in Q:

 

 

Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidene, da settentrione e ma mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio (Q via Lc 13, 28-29; cfr 8, 11-12).

 

 

Simili riferimenti ad un regno di Dio fisico, reale sono presenti in tutte le fonti più antiche. Come altri apocalittici vissuti prima e dopo di lui, Gesù evidentemente pensava che Dio avrebbe esteso il suo dominio dal regno dei cieli, dove risiede, alla terra. Sarebbe stato un regno fisico, reale; un mondo paradisiaco in cui Dio stesso avrebbe regnato sui fedeli, dove si sarebbe mangiato, bevuto e parlato e dove degli uomini (i dodici discepoli) avrebbero regnato, seduti in trono, mentre gli altri banchettavano.

La venuta di questo regno avrebbe comportato un giudizio universale, come Gesù afferma in molte sue parabole, tra cui la seguente, che compare con qualche piccola differenza, sia in Matteo che in Tommaso:

 

 

Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti (Mt 13, 47-50).

 

 

Oppure in M, la fonte speciale di Matteo:

 

 

Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro (M via Mt 13, 40-43).

 

 

Come abbiamo visto, questo giudizio imminente sarà un evento cosmico, scatenato da quello che Gesù definisce il Figlio dell’uomo:

 

 

In quei giorni, dopo quella tribolazione, e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo (Mc 13, 24-27).

 

 

Ma chi sono questi eletti che sopravvivranno e saranno ammessi nel regno di Dio? Dato che l’epoca in cui viviamo è dominata dalle forze del male, saranno i grandi e i potenti di oggi a essere giudicati quando verrà il Figlio dell’uomo. Gli umili, i perseguitati e gli oppressi, invece, erediteranno il nuovo regno dominato dal bene. Dio è infatti dalla parte di coloro che lo difendono e perciò sono oppressi dalle forze del male che regnano in questo mondo. Come dice Gesù:

 

 

E verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi (Lc 13, 29-30; può essere Q, si veda Mt 20, 16).

 

 

Ecco perché Gesù si schierò con gli emarginati durante il suo ministero. Sarebbero stati loro a ereditare il regno di Dio; tale regno non sarebbe venuto per i ricchi e i potenti, ma per i poveri e gli umili. Per questo Gesù esortò i suoi seguaci a non inseguire ricchezza e prestigio, ma a dedicare la vita agli altri, perché gli umili sarebbero stati i primi nel nuovo regno. Secondo la nostra fonte più antica, Gesù disse:

 

 

Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti (Mc 9, 35).

 

 

E anche:

 

 

Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti (Mc 10, 42-44).

 

 

Il tema del capovolgimento viene sviluppato in alcuni degli insegnamenti più conosciuti di Gesù, le cosiddette Beatitudini, che tendono purtroppo ad essere estrapolate dal loro originale contesto apocalittico da coloro che le citano. Le Beatitudini sono detti attribuiti a Gesù in varie fonti, in cui egli benedice certi gruppi di persone (il termine deriva infatti dal latino beatus, “benedetto”). I più famosi sono contenuti nel Discorso della montagna di Matteo, che comincia così:

 

 

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5, 3-6)

 

 

Quello a cui molti lettori non hanno fatto caso sono i tempi verbali. Essi descrivono quello che certi gruppi di persone stanno vivendo nel presente e quello che vivranno in futuro. In futuro? Quando? Non in qualche vago, remoto e imprecisato momento, un giorno o l’altro, in cielo. Accadrà con la venuta del regno di Dio, quando gli umili, i poveri e gli oppressi saranno ricompensati.

Molti di questi detti presenti in Matteo sono di fatto tratti da Q. E’ interessante notare che nella versione di Luca tendono a sottolineare più le privazioni fisiche che le lotte interiori. Per esempio, invece di benedire i “poveri in spirito”, in Luca Gesù dice “Beati voi poveri” (nel senso letterale del termine). Invece di parlare di coloro che “hanno fame e sete della giustizia”, dice “Beati voi che ora avete fame”. Ci sono fondati motivi per ritenere che, in questi casi, la versione di Luca sia più vicina alla realtà. IN primo luogo, una versione molto simile di questi detti è contenuta nel Vangelo di Tommaso, una fonte indipendente:

 

 

Gesù disse: “Beati i poveri perché vostro è il Regno dei Cieli!” (Vangelo di Tommaso 59)

Beati coloro che sono affamati, perché il loro ventre sarà saziato a volontà (Vangelo di Tommaso 76)

Gesù disse: “Beati voi quando siete odiati e perseguitati, perché non si troverà il Luogo dove perseguitarvi (Vangelo di Tommaso 74).

 

 

E’ interessante notare che nella versione di Luca delle Beatitudini le varie benedizioni apocalittiche sono seguite da una serie di maledizioni apocalittiche:

 

 

Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti (Lc 6, 24-26).

 

 

Questi particolari giudizi apocalittici non sono attestati da altre fonti indipendenti, ma di certo sono in linea con i temi principiali già visti in questo capitolo. Gesù predicava che il giorno del giudizio era vicino; sarebbe arrivato con il Figlio dell’uomo, che avrebbe portato un capovolgimento radicale: i ricchi sarebbero stati condannati e i sofferenti benedetti. Questo messaggio apocalittico racchiudeva un avvertimento di imminente distruzione per tutti coloro che non tenevano conto delle parole di Gesù e non si convertivano a Dio come egli desiderava.

Quando avrebbe avuto luogo tutto questo? Quando sarebbe giunto il Figlio dell’uomo? Quando sarebbe venuto il regno di Dio? Nel lontano futuro, a distanza di anni, decenni, secoli o millenni? Al contrario. Come la maggior parte degli ebrei apocalittici del suo tempo, Gesù sembrava convinto che la venuta del regno di Dio fosse imminente. Come afferma nel più antico dei vangeli sopravvissuti:

 

 

“Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi”. E diceva loro: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (Mc 8, 38; 9, 1; corsivo dell’autore).

In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute (Mc 13, 30; corsivo dell’autore).

State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. E’ come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate! (Mc 13, 33-37).

 

 

Oppure, come dice in Q:

 

 

Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate (Lc 12, 39-40; cfr. Mt 24, 43-44).

 

 

In breve, da un’analisi critica delle fonti più antiche risulta che, come i membri della comunità dei manoscritti del Mar Morto prima di lui (e come Giovanni Battista, di cui non abbiamo parlato, ma che fu a sua volta uno dei primi apocalittici) e come molti suoi seguaci di prima generazione dopo di lui (per esempio, l’apostolo Paolo), Gesù fu un profeta apocalittico e predisse che Dio sarebbe presto intervenuto nel corso della storia per sconfiggere le forze del male e portare sulla terra il suo regno utopico.

 

 

(1)     Si tratterebbe di un vangelo ormai perduto, ipotizzato dagli studiosi del Nuovo Testamento e denominato “Q” come l’iniziale della parola tedesca Quelle (Fonte). Si sarebbe trattata di una fonte consultata sia da Matteo che da Luca, ma non a disposizione di Marco e Giovanni, contenente molti degli insegnamenti più memorabili di Gesù.

(2)     Vangelo ritrovato nella biblioteca gnostica di Nag Hammadi, risalente alla seconda metà del IV secolo.

(3)     Matteo e Luca, oltre ad attingere dalla fonte Q, mostrano di aver attinto ciascuno ad un’altra fonte; queste due ulteriori fonti, specifiche di Marco e Luca, sono chiamate rispettivamente M ed L.

 

 

 

Walter Bauer sul concetto di “ortodossia” ed “eresia” nel mondo cristiano delle origini

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In questo brano viene descritta l’opera e il pensiero di Walter Bauer, uno dei maggiori studiosi del cristianesimo delle origini nel XX secolo, in particolare il suo sforzo di mostrare che “ortodossia” ed “eresia” come concepite nella tradizione cattolica (la prima formata dagli insegnamenti originali di Cristo, trasmessi incorrotti con la tradizione apostolica, la seconda derivante da pervertimenti successivi operati da gruppi minoritari) non sono in realtà categorie applicabili ad un credo, come quello cristiano, che si sviluppò – verrebbe da dire, prendendo in prestito una espressione delle scienze sperimentali – per “tentativi ed errori”.

Oggi le idee di Bauer sono divenute “communis opinio” tra gli studiosi del cristianesimo delle origini.

 

C’è stato un tempo, non molto lontano, in cui ortodossia ed eresia non erano termini problematici, e la loro relazione non era complicata. Ortodossia era la corretta credenza, insegnata da Gesù ai suoi discepoli e passata da questi ai capi delle chiese cristiane. Nella sua forma più basilare, questa ortodossia venne ad essere espressa nelle parole del famoso credo Niceno, come emerse dai grandi concili del quarto secolo e fu successivamente trasfuso in parole familiari a molti cristiani di oggi:

 

 

Crediamo in un solo Dio, Padre, Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili.

Crediamo in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre. Attraverso di lui sono state create tutte le cose. Per noi e per la nostra salvezza discese dal cielo: per il potere dello Spirito santo si incarnò nella Vergine Maria e fu fatto uomo. Per la nostra salvezza fu crocifisso sotto Ponzio Pilato; morì e fu sepolto. IL terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture; ascese al cielo ed è seduto alla destra del Padre. Verrà di nuovo per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.

Crediamo nello Spirito santo, signore e datore di vita, che procede dal padre e dal Figlio. Col Padre e il Figlio è adorato e glorificato. Ha parlato per mezzo dei Profeti. Crediamo in una Chiesa, cattolica, apostolica. Riconosciamo il battesimo per il perdono dei peccati. Attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

 

 

Eresia era ogni deviazione da questo corretto credo. Evidentemente eretico era ad esempio il credo di coloro che sostenevano che invece di un unico dio ve ne fossero due, o dodici o trenta. O di coloro che negavano che Cristo fosse vero Dio o che egli divenne un essere umano in tutto e per tutto, o che egli nacque da una vergine, o che egli risuscitò dai morti. O di coloro che negavano la futura risurrezione.

Secondo questo modo di vedere, ogni dottrina falsificata necessariamente esisteva prima della sua falsificazione, e ogni eretico che ha corrotto la verità deve avere avuto accesso ad una verità per corromperla. Per questa ragione, l’ortodossia era vista come precedente l’eresia e i credenti ortodossi come precedenti quelli eretici. Per definizione, quindi, l’ortodossia era la forma originale del credo cristiano, accettato dalla maggioranza dei credenti sin dall’inizio, e l’eresia era una perversione di essa, creata scientemente da individui con un piccolo e nefasto seguito. Secondo questo modo di vedere, ortodossia significa realmente ciò che la sua etimologia suggerisce: “retta credenza”. Perdipiù, implica sia sussistenza sin dalle origini sia opinione maggioritaria. Eresia, dalla parola greca per “scelta”, si riferisce a decisioni intenzionali di discostarsi dal credo corretto; implica una corruzione della fede che si riscontra solo presso delle minoranze.

Queste vedute circa la relazione tra ortodossia ed eresia fu dominante nella cultura cristiana per molti secoli. La loro classica espressione può trovarsi nel primo resoconto sulla storia della Chiesa – inclusi i conflitti interni – scritto dal “padre della storia della chiesa”, Eusebio di Cesarea. In dieci volumi, la Storia della Chiesa di Eusebio narra le vicende della Cristianità dagli inizi alla sua epoca (l’edizione finale data 324/25).

Il resoconto inizia prima della nascita di Cristo con una affermazione sulla sua duplice natura, umana e divina, e una discussione della sua preesistenza. E’ un modo inconsueto di iniziare una narrazione storica, e serve a mostrare la teologia sottesa. Non si tratta di una cronaca disinteressata di nomi e date. E’ una storia guidata da una visione teologica dall’inizio alla fine, una visione che è legata al modo in cui Eusebio concepisce  Dio, Cristo, le Scritture, la chiesa, Ebrei, pagani ed eretici. L’orientamento è chiaramente quello che divenne poi l’ortodossia, con Eusebio che si oppone a chiunque propone una concezione diversa della fede. Questa opposizione determina ciò che Eusebio dice e come lo dice.

Eusebio scorge la mano di Dio dietro la scena ad ogni stadio della evoluzione della chiesa, che ne dirige il destino e la missione. I credenti, influenzati e sostenuti da Dio, sostennero senza paura le persecuzioni, e la chiesa crebbe nonostante le opposizioni. E l’“eresia” fu prontamente ed efficacemente vinta dagli insegnamenti apostolici originali accolti dalla stragrande maggioranza nella Chiesa, insegnamenti che, per Eusebio, erano per definizione ortodossi.

Il punto di vista “classico” circa le relazioni tra ortodossia ed eresia rimase quasi incontestato fino all’epoca moderna.

Nel 1774-1778 furono pubblicati postumi una serie di studi eruditi di Hermann Reimarus (1694-1768), secondo cui Gesù proclamò l’imminente regno di Dio, che per lui e gli ebrei dei suoi tempi era una entità politica, un “regno” reale sulla terra. Gesù asseriva che ci sarebbe stata una insurrezione vittoriosa degli ebrei contro il giogo romano e la creazione di un nuovo stato politico di Israele. Gesù stesso sarebbe stato alla sua testa come Messia. Sfortunatamente, quando le autorità romane ebbero notizia della predicazione rivoluzionaria di Gesù lo tolsero di mezzo efficacemente e senza pietà dalla scena pubblica e lo crocifissero.

I discepoli, comunque, si erano abituati a girare come seguaci itineranti di Gesù. Per perpetuare la loro causa, decisero di fondare una religione in nome di Gesù. Vennero fuori con l’idea che Gesù fosse il Messia, non il messia politico atteso da tutti, ma un messia spirituale che era morto per i peccati e era risorto dai morti. Per impedire di essere contraddetti, fecero sparire il corpo di Gesù dalla tomba.

Pochi studiosi oggi sarebbero d’accordo con questa ricostruzione, ma più di chiunque altro Reimarius iniziò la ricerca critica per stabilire cosa realmente avvenne nella vita di Gesù, partendo dal presupposto che i Vangeli non sono resoconti accurati ma cronache tarde scritte da seguaci interessati a far prevalere la loro visione delle cose.

Un altro momento chiave di questo processo di revisione giunse circa sessant’anni dopo la pubblicazione del lavoro di Reimarus. F. C. Baur, un altro studioso tedesco, sostenne che il cristianesimo primitivo, prima che i libri del Nuovo Testamento fossero completati, era caratterizzato da un conflitto tra i cristiani di razza ebrea, che volevano mantenere i legami col Giudaismo e i cristiani gentili, che volevano liberarsi di questi legami per dar vita a una religione universalista. Il conflitto era incarnato dalle due figure di Pietro, capo della fazione ebreo-cristiana e Paolo, capo della fazione dei cristiani gentili. Secondo Baur, non ci fu una chiara vittoria dell’una né dell’altra parte; invece emerse un compromesso storico, nel quale sia aspetti del cristianesimo giudeo-cristiano, che voleva mantenere le leggi giudaiche, sia l’enfasi dei cristiani gentili sulla salvezza offerta a tutti furono fusi per creare quella che infine divenne la Chiesa cattolica.

Nel corso degli anni successivi alla pubblicazione dei lavori di Baur, anche per la scoperta di nuove fonti testuali, gli studiosi si spinsero oltre, e cominciarono a pensare che la narrazione di Eusebio di Cesarea fosse poco veridica e teologicamente influenzata. Ma occorrerà aspettare l’inizio del XX secolo perché il resoconto di Eusebio venga sottoposta a una indagine serrata, ad un attacco devastante del ritratto che Eusebio fa della unità del cristianesimo delle origini e della diversità delle vedute teologiche all’interno di esso.

Lo studio più importante fu publicato da un altro studioso tedesco, Walter Bauer (1877-1960), uno studioso di altissimo livello e di imponente erudizione; il suo lessico greco rimane uno strumento essenziale per tutti gli studenti del Nuovo Testamento greco. Il suo libro più controverso e influente fu uno studio dei conflitti teologici nella chiesa delle origini. Ortodossia ed Eresia nel Cristianesimo primitivo fu indubbiamente il più importante libro di storia del cristianesimo delle origini del XX secolo. Il suo scopo è chiaro: tagliare alla base il modello Eusebiano della relazione tra ortodossia ed eresia. Le argomentazioni sono incisive ed autorevoli, fatte da un autore che padroneggia tutta la letteratura esistente sul cristianesimo delle origini. Alcuni studiosi respinsero con orrore le opinioni di Bauer, altri le abbracciarono fervidamente; nessuno studioso nel suo campo di studi ne rimase comunque immune, in un senso o nell’altro. Le ripercussioni sono avvertite ai nostri giorni, giorni in cui l’analisi di Bauer ha cambiato per sempre il modo in cui si guarda alle controversie teologiche anteriori al IV secolo.

Bauer sostenne che la chiesa cristiana delle origini  non aveva una singola ortodossia da cui prese origine una varietà di eresie minoritarie. In realtà il cristianesimo più antico, per quanto le fonti ci consentono di spingerci indietro, si presenta in una molteplicità di forme, il seguito di nessuna delle quali costituì una chiara e soverchiante maggioranza rispetto agli altri fedeli. In alcune regioni della cristianità antica ciò che successivamente venne etichettato come “eresia” era di fatto la più antica e principale forma di cristianesimo. In altre regioni, punti di vista successivamente bollati come eretici coesistevano con punti di vista che furono infine accettati dall’intera chiesa, con molti fedeli che non tiravano per molto tempo una precisa linea di discrimine tra essi. L’”ortodossia”, nel senso di un gruppo compatto che professava una dottrina apostolica accettata dalla maggioranza dei cristiani dovunque semplicemente non esisteva nel secondo e terzo secolo. Quanto all’”eresia”, non è vero che essa fu un prodotto di minore importanza tratto da un insegnamento originale attraverso una contaminazione con idee appartenenti al giudaismo o alla filosofia pagana. Credenze che successivamente furono accettate come ortodosse o eretiche erano interpretazioni in competizione all’interno della Cristianità, e i gruppi che le sostenevano erano sparsi in tutto l’Impero. Alla fine uno di questi gruppi si affermò come dominante, facendo più proseliti degli altri, soverchiando gli oppositori e dichiarando sé stesso il gruppo della vera fede. Una volta che la sua vittoria fu assicurata, potè autoproclamarsi “ortodosso” ed emarginare i gruppi oppositori come eretici. Esso riscrisse la storia del conflitto, facendo apparire le sue idee e i cristiani che le professavano come la maggioranza sin dai tempi degli apostoli.

Per Bauer gli storici non possono usare i termini ortodossia nel senso di retta credenza ed eresia nel senso di credenza erronea. Questi sono giudizi di valore riguardo argomenti teologici. Ma lo storico non è autorizzato a proclamare la verità teologica ultima più di quanto lo sia un qualunque altro soggetto. In altre parole, gli storici non possono finire per decidere questioni come quella se esista un unico dio o ne esistano due; essi possono solo mostrare ciò che persone differenti hanno pensato in tempi differenti. Soprattutto Bauer criticò le implicazioni del termine ortodossia nel senso di posizione originaria e maggioritaria e del termine eresia come se si trattasse di una corruzione successiva. Gran parte del suo libro è dedicato a dimostrare  che queste implicazioni sono completamente errate.

Il suo libro è sostanziato di dettagliate analisi di tutte le fonti rilevanti che erano note ai suoi tempi. Settant’anni dopo la sua pubblicazione esso è ancora una lettura essenziale per gli studiosi dell’argomento. Bauer procede a considerare le regioni della cristianità delle origini per cui abbiamo documentazione storica significativa – in particolare la città di Edessa nella Siria orientale, Antiochia nella Siria occidentale, l’Egitto, l’Asia minore, la Macedonia e Roma. Per ogni luogo, considera le fonti cristiane disponibili e le sottopone ad un serrato esame, dimostrando che diversamente ai resoconti di Eusebio, la prima e/o predominante forma di cristianesimo  in molte di esse era eretica (cioè successivamente condannata come tale dalle chiese vittoriose). Le comunità di Edessa, per esempio, città che in tempi successivi divenne un importante centro della cristianità ortodossa, erano marcionite; le prime comunità cristiane dell’Egitto erano gruppi caratterizzati da variegate vedute gnostiche, e così via. I cristiani ortodossi dei tempi successivi, dopo che si furono assicurati la vittoria, cercarono di mettere in ombra la reale storia del conflitto. Ma non vi riuscirono del tutto: lasciarono tracce che possono essere sottoposte ad esame e condurre alla verità.

Ma come riuscì questa unica forma di cristianesimo, che è alle origini di tutte le forme più importanti di dottrine fino ai giorni nostri, ad acquisire il predominio? Per Bauer, questa era la forma di cristianesimo predominante, anche se non esclusiva nella chiesa di Roma, la capitale dell’impero, destinata a diventare il centro della cristianità. Ci si può sorprendere che il cristianesimo romano sia divenuto il credo cristiano di tutto l’impero?

Bauer non rileva semplicemente che Roma era il posto più logico da cui una ortodossia potesse irradiarsi alla conquista del mondo cristiano; egli, di nuovo, fornisce evidenze e costruisce argomentazioni. Il primo scritto non canonico che abbiamo, 1 Clemente, è una lettera inviata dai cristiani di Roma nel tentativo di influenzare gli affari interni della chiesa di Corinto, esortando con tutta l’enfasi possibile che i presbiteri di Corinto siano reintegrati nella loro carica. Ma che interesse potevano avere i cristiani di Roma riguardo le vicende della chiesa di Corinto? Forse perché i presbiteri, che erano stati deposti da una “giunta militare” ora al potere, aderivano alle vedute della chiesa di Roma? E’ possibile che si sia trattato di cristiani “proto-ortodossi” (termine di rigore per indicare una linea di pensiero che diverrà maggioritaria ma che non aveva ancora chiarito a se stessa tutti i dettagli teologici) di fronte a cristiani che non lo erano?

Si dà il caso che abbiamo notizia di “falsi maestri” in competizione per acquisire autorità in Corinto sin dai primordi – i “sedicenti apostoli” di cui si fa menzione nella lettera di Paolo a Corinto (2 Cor. 11:5), che a quanto pare pensavano che non ci sarebbe stata una resurrezione della carne per i veri credenti. Essi potrebbero essere degli antesignani del cristianesimo gnostico, che svalutavano caratteristicamente la esistenza della carne. Al tempo di 1 Clemente, circa trent’anni dopo la lettera di Paolo, è possibile che questo gruppo abbia finalmente prevalso con un’azione di forza? E che i cristiani romani stessero passando all’azione per correggere la situazione?

Sembra, in ogni modo, che la lettera proto-ortodossa di 1 Clemente abbia avuto il suo effetto. Lo stesso libro acquisì uno stato di sacra autorità tra i cristiani di Corinto ed era letto come sacra scrittura nei loro servizi liturgici circa settant’anni dopo, secondo il vescovo proto-ortodosso Dionysius. Questo sarebbe difficilmente stato possibile se gli usurpatori gnostici fossero riusciti a mantenere il predominio.

E’ abbastanza chiaro che per Bauer i conflitti interni della Chiesa erano battaglie per il potere, non solo teologiche. E la parte che seppe utilizzare il potere fu quella che vinse. Più precisamente, Bauer notò che la comunità cristiana di Roma era tra tutte la più vasta e benestante. Perdipiù, posta nella capitale dell’impero, aveva ereditato una tradizione di capacità amministrative dall’apparato civile attraverso una sorta di effetto osmotico. Usando le capacità amministrative dei suoi leaders e le sue ampie risorse materiali, la chiesa di Roma riuscì ad esercitare una influenza  sulle altre comunità cristiane. Tra le altre cose, i cristiani di Roma promossero una struttura gerarchica, insistendo che ogni chiesa dovesse avere un solo vescovo. Con il vescovo giusto, naturalmente, certe vedute teologiche potevano essere propagandate e imposte. Perdipiù, l’influenza romana, per Bauer, era economica: pagando per l’affrancamento degli schiavi e acquistando la libertà di prigionieri la chiesa di Roma attirò a sé un gran numero di convertiti riconoscenti, mentre l’uso accorto di doni e contributi offerti alle altre chiese produsse una favorevole udienza alle vedute dei cristiani romani. Come diceva Dionysius vescovo di Corinto a Soter, vescovo di Roma:

 

 

Sin dall’inizio è stata vostra abitudine di mandare contributi a molte chiese in ogni città, talvolta alleviando le sofferenze dei bisognosi, altre volte provvedendo per i vostri fratelli schiavi nelle miniere attraverso le somme inviate.

 

 

Nel corso del tempo, le vedute proto-ortodosse della comunità romana divennero sempre più predominanti nelle città collegate in un modo o l’altro con la capitale e dal momento che tutte le strade portano a Roma, alla fin fine questo voleva dire nella maggior parte delle città nell’Impero. Per la fine del terzo secolo il cristianesimo romano aveva stabilito la propria prevalenza. Tutto ciò che si dovette fare allora fu disporre di un uomo come Eusebio per scrivere il resoconto, e in tal modo non solo la teologia, ma anche il punto di vista romano riguardo la storia del cristianesimo fu stabilita per le epoche a seguire.

Alcune delle conclusioni di Bauer sono state ridimensionate: probabilmente sottostimò la diffusione del cristianesimo proto-ortodosso nell’Impero, come pure sovrastimò l’influenza della chiesa di Roma nei conflitti dottrinali. Ma il nucleo delle sue affermazioni è ritenuto valido. Oggi vi è un vasto consenso sul fatto che la proto-ortodossia è semplicemente una delle molte interpretazioni in conflitto del messaggio cristiano, in seno alla chiesa delle origini. Non esistette una autoevidente interpretazione di tale messaggio né una veduta apostolica originaria. Gli apostoli ad esempio non insegnarono il Credo Niceno né qualcosa di remotamente simile ad esso. Per quanto possiamo risalire indietro nel tempo il cristianesimo appare notevolmente variegato nelle sue espressioni teologiche.

Probabilmente il primo elemento di evidenza per questa diffusa varietà viene dalle stesse fonti proto-ortodosse, e il modo non è privo di ironia. Eusebio e i suoi successori citano tali fonti estesamente, inclusi i libri del Nuovo Testamento, per mostrare che  ad ogni passo i loro predecessori proto-ortodossi ebbero successo nel deporre i falsi maestri e i loro eretici seguaci. Ma ciò che trascurarono di notare è che questi “successi” presupponevano una estesa, addirittura pervasiva, influenza di falsi maestri nel cristianesimo delle origini.

Prendiamo, ad esempio, le lettere di Paolo. In praticamente tutte le chiese che lui stesso fondò ci sono pericolosi “falsi maestri” che propongono interpretazioni dei Vangeli che Paolo trova reprensibili ed addirittura condannabili. In molti casi, i suoi oppositori risultano vincitori, cosicché Paolo è costretto a intervenire per ribaltare la situazione. Nella sua lettera ai Galati, per esempio, egli polemizza con missionari cristiani “giudaizzanti” che istruiscono i convertiti di Paolo che per essere autentici membri del popolo di Dio devono adottare i costumi del giudaismo,inclusa la circoncisione per gli uomini. Il successo di questi missionari è evidente dall’irata risposta di Paolo; egli ha un genuino timore che l’intera comunità sia corrotta (Gal. 1:6, 3:1-5).

Nelle sue lettere ai Corinzi egli si misura nuovamente con cristiani provenienti dai ranghi della sua stessa chiesa, che credono di aver già sperimentato i benefici effetti della salvazione e sono già con la legge di Cristo come uomini superspirituali. Alcune delle loro idee suonano genuinamente gnostiche; Paolo ha affrontato faccia a faccia alcuni dei suoi avversari a Corinto e pare aver subito una pubblica umiliazione, il che suggerisce che abbia perso la disputa (vedi 2 Cor. 2:5-11, 13:2). Egli minaccia un’altra visita in cui, preannuncia, le cose andranno in modo diverso.

La sua lettera ai Romani è ad una chiesa non fondata da lui, ed è scritta per convincerli che il suo messaggio evangelico è legittimo, in modo che essi lo sostengano nei suoi sforzi missionari più ad ovest, in Spagna (Romani 1:8-15, 15:22-24). ma perché ha la necessità di convincerli? Evidentemente perché è sospettato da loro di insegnare un falso vangelo. Qualcun altro deve averlo detto loro.

Le lettere più tarde scritte in nome di Paolo presuppongono tensioni interne nelle sue ultime chiese: qualche strano tipo di misticismo giudaico che influenza i Colossesi (Col. 2:8-23), una sorta di fervente millenarismo in 2 Tessalonicesi, dove le persone hanno abbandonato il proprio lavoro nell’attesa dell’arrivo imminente della fine (2 Tess. 2:1-12, 3:6-15), qualche tipo di proto-Gnosticismo in 1 Timoteo (1 Tim. 1:3-7).

Problemi con false interpretazioni  della fede appaiono parimenti in libri non-paolini del Nuovo Testamento. Giacomo avversa fieramente i cristiani che avevano inteso la dottrina paolina della giustificazione per fede nel senso che le buone azioni sono irrilevanti per la salvezza. La Rivelazione attacca i gruppi degli antinomisti per trascinare nell’errore i fedeli. Giuda e 2 Pietro  castigano i falsi maestri che si sono infiltrati nelle chiese con i loro insensati insegnamenti.

Non si metterà sufficientemente in evidenza l’importanza del fatto che tutti costoro si identificavano come seguaci di Cristo. I filogiudei in Galazia, i protognostici di Corinto, i cristiani diffidenti verso Paolo a Roma, i mistici ebraizzanti di Colosso, i millennaristi  di 2 Tessalonicesi, i seguaci estremisti di Paolo in Giacomo, i libertini di Rivelazione, e i disprezzati cristiani senza nome di giuda e 2 Pietro – cosa avevano da dire? Non lo sapremo mai per certo. Ma sappiamo che tali gruppi esistevano nelle chiese, si consideravano cristiani, dando per scontato che le loro idee erano non solo accettabili ma anche giuste. E stavano acquisendo un largo numero di seguaci. In qualche caso, probabilmente nella maggior parte dei casi, essi affermarono di rappresentare i punti di vista degli Apostoli, le idee cristiane originarie. Si può pensare che i cristiani giudaizzanti della Galazia potevano a buon diritto fare tali affermazioni.

Perfino dopo che i libri del Nuovo Testamento furono scritti, questo andazzo continuò. Ci sono chiese note ad Ignazio in Asia Minore, tutte quanti danneggiate da falsi maestri, giudaizzanti o docetisti o di entrambi gli orientamenti. Ci sono gli eretici conosciuti da Ireneo in Gallia, così numerosi che egli non può neanche contare tutte le sette, tanto meno stimare il loro numero, così perniciosi che egli deve dedicare cinque libri per confutare le loro idee. Ci sono gli eretici noti a Tertulliano in nord Africa, che rampognano i loro correligionari proto-ortodossi per essere “scandalizzati per il fatto che le eresie hanno una tale prevalenza” (Presctiption 1), ammettendo di malavoglia, quindi, che gli eretici si trovavano virtualmente dovunque. Ci sono quelli noti ad Ippolito di Roma, così influenti che le loro false dottrine hanno raggiunto i più alti ranghi della amministrazione ecclesiastica, influenzando le stesse  idee del vescovo di Roma e minacciando dunque di impadronirsi dell’intera chiesa. E così via, per i decenni a venire.

Non solo la diffusa diversità del cristianesimo delle origini ma anche i confusi confini tra ciò che era considerabile ortodossia ed eresia – un’altra delle tesi di Bauer – è confermata dalla evidenza storica. Per la verità esistevano certe chiare linee di conflitto, specialmente per i proto-ortodossi. Chiunque affermasse che esistevano  trenta divinità o che negasse che Gesù era solo un uomo di carne non sarebbe sfuggito agli elaborati attacchi di Ireneo o all’affilata intelligenza di Tertulliano. Ma c’erano numerosi punti che rimanevano vaghi e irrisolti nel secondo e perfino nel terzo secolo.

Persino questioni basilari come la natura dell’esistenza di Cristo non erano ancora ben definite. Parleremo altrove del patripassionismo: Zefirino e Callisto, vescovi di Roma, prendendo troppo alla lettera la identità di sostanza tra Dio padre e Cristo, sostennero che Dio Padre realmente soffrì sulla croce, incorrendo nel dileggio di Teodoto e dei proto-ortodossi delle chiese diverse da Roma. Ma su punti persino più basilari vi fu di tanto in tanto mancanza di chiarezza. Le cristologie docetiche, naturalmente erano strettamente verboten tra i proto-ortodossi. Ma lo erano realmente? Sia Origene che il suo predecessore, Clemente di Alessandria, campioni della proto-ortodossia dei loro giorni, espressero alcune idee molti peculiari sul corpo di Gesù, peculiari quantomeno per i teologi successivi. Entrambi sostennero ad esempio che il corpo di Gesù poteva facilmente cambiare apparenza a volontà (vedi ad es. Origene, Serm. Mont. 100). Clemente si spinge addirittura oltre:

 

 

Ma nel caso del Salvatore, sarebbe indecente [supporre] che il corpo, come tipico dei corpi, richiedesse le cure necessarie per la sua preservazione. Poiché egli mangiava, non per le necessità del corpo, che era tenuto insieme da una mistica energia, ma perché non passasse per la mente di coloro che erano con Lui di avere una opinione differente di Lui, alla maniera di coloro che successivamente ipotizzarono che Egli apparve nella forma di illusione. Ma egli era completamente impassibile; inaccessibile ad ogni movimento o sentimento – sia di piacere che di dolore (Miscellanea 6.71.2)

 

 

In altre parole, Gesù mangiava semplicemente per impedire  alle persone di abbracciare idee docetiste al suo riguardo anche se di fatto non necessitava di cibo e non poteva sentire piacere o dolore. E’ difficile immaginare come ciò sia la stessa cosa che avere un corpo di carne e sangue. Ed è ancora più difficile immaginare che una qualsiasi affermazione di questo genere sarebbe stata accettabile per gli ortodossi del periodo successivo. Ma questo è quello che abbiamo sotto gli occhi: Clemente, un eminente portavoce proto-ortodosso, con una Cristologia che presentava lati ambigui, ma completamente accettabile per altri proto-ortodossi cristiani dei suoi tempi.

Un ultimo rilievo va fatto a favore della tesi fondamentale di Bauer circa la relazione tra ortodossia ed eresia. Egli lavorò, naturalmente solo col materiale disponibile nei primi anni ’30 del XX secolo. Da allora ci sono state ulteriori scoperte, compresi interi documenti che hanno brillantemente e sostanzialmente confermato la sua posizione, specialmente quelli della biblioteca di Nag Hammadi: una collezione di testi tenuti in grande considerazione da almeno un gruppo di Cristiani, probabilmente più di un gruppo, testi che rappresentano un vasto spettro di cristianesimi alternativi, da autori che naturalmente ritengono che le loro idee siano corrette e che quelle degli altri siano errate. Alcuni di questi testi attaccano i cristiani proto-ortodossi per le loro false vedute.

La cristianità era di gran lunga più differenziata, le linee di conflitto molto più confuse, le lotte intestine molto più violente di quel che avremmo potuto sapere sulla scorta di Eusebio e della opinione tradizionale degli studiosi in materia di ortodossia ed eresia.

Noi siamo ancora di fronte alla questione che ha sconcertato Bauer e molti altri dopo di lui. Posto che il cristianesimo delle origini era così ampiamente differenziato, come riuscì il gruppo che abbiamo identificato come proto-ortodosso a stabilire il suo predominio. Parecchi fattori contribuirono a questa vittoria finale:

 

 

(1)    I proto-ortodossi sostenevano che la loro religione avesse radici antiche – a differenza dei Marcioniti – professando aderenza alle Scritture del Giudaismo che, essi insistevano, predissero Cristo e la religione che fu stabilita in suo nome. [Nel mondo antico sussisteva una grande diffidenza per tutto ciò che fosse nuovo e non fondato sulla tradizione o la autorità ancestrale, e questo fu fatale per le chiese Marcionite, che incontrarono inizialmente uno strepitoso successo di conversioni n.d.r.]

 

(2)    Nel medesimo tempo i proto-ortodossi rigettarono le pratiche del Giudaismo contemporaneo come insegnate in tali Scritture – a differenza ad esempio degli Ebioniti – in tal modo consentendo alla loro forma di cristianesimo di essere una fede universale ed attraente per la maggioranza delle persone del mondo antico [che invece avevano difficoltà ad accettare in toto una religione straniera di un popolo come gli Ebrei n.d.r.]

 

(3)    I proto-ortodossi si batterono per una gerarchia ecclesiastica – a differenza ad esempio di alcune chiese gnostiche, che ritenevano che dal momento che tutti (nelle comunità gnostiche) avevano eguale accesso alla conoscenza segreta e salvifica, ogni persona avesse un eguale rango. La gerarchia ecclesiastica fu investita di una autorità che fu usata per determinare ciò che si doveva credere, come le attività della chiesa (incluso il culto e la liturgia) andassero condotte e quali libri dovevano essere accettati come autorità scritturali. [Così facendo i proto-ortodossi evitarono la anarchia profetica che vide il proliferare di apocalissi e vangeli non canonici in altri gruppi e furono in grado di ancorarsi ad un canone testuale e di tracciare una teologia più precisa dei loro avversari n.d.r.]

 

(4)    I proto-ortodossi erano in costante comunicazione gli uni con gli altri, determinati a creare una comunità universale. Lo testimoniano i cristiani con lui solidali che incontrarono Ignazio nel suo tragitto verso Roma e il martirio e le lettere che egli scrisse loro, la lettera scritta dalla chiesa di Roma alla chiesa di Corinto, e i resoconti della morte dei martiri inviati dalla chiesa di Smirne in occasione della morte del suo amato pastore Policarpo. I proto-ortodossi erano interessati non solo a ciò che accadeva a livello locale, nella loro comunità, ma anche in quanto stava accadendo in altre comunità affini alla loro. Ed erano interessati a diffondere le loro concezioni per tutto il mondo conosciuto.

 

 

Ci furono altri fattori, ma essi si ricollegano in un modo o nell’altro a quelli sopra indicati. E’ notevole che i quattro fattori accennati hanno una cosa in comune: tutti coinvolgono testi scritti. Appare evidente che la maggior parte, forse tutti i gruppi del cristianesimo delle origini davano una grande importanza ai testi, utilizzando la letteratura religiosa come un elemento chiave nei conflitti che divampavano, dal momento che membri dei vari gruppi  scrissero trattati polemici che attaccavano i loro avversari, falsificarono documenti nel nome degli apostoli per fornire legittimazione al loro punto di vista, fansificarono scritti che erano in circolazione per renderli più consoni ai loro scopi, e riunirono gruppi di scritti come dotati di sacra autorità a supporto delle loro prospettive. la battaglia per le conversioni fu, in qualche modo, la battaglia per i testi, e il partito dei proto-ortodossi vinse la prima battaglia vincendo la seconda. Uno dei risultati fu la canonizzazione dei ventisette libri che ora chiamiamo il Nuovo Testamento. Un gruppo emerse vittorioso e stabilì, di conseguenza, le caratteristiche del cristianesimo come esso è stato fino ai nostri giorni.

Le strategie degli eresiologi proto-ortodossi sono chiaramente individuabili. Esse furono ripetute ancora e ancora nella letteratura, fino a che divennero praticamente degli stereotipi. Ne diamo qui di seguito un cenno.

I martiri proto-ortodossi come testimoni attendibili della verità. Ignazio di Antiochia fu mandato a Roma per subire il martirio e in una delle sue lettere esorta i cristiani di Roma a non intervenire per evitargli il martirio, perché egli è ansioso di essere divorato dalle  belve: soffrendo quella morte egli “raggiungerà Dio”. Alle orecchie dei moderni la sua passione per una morte violenta rasenta il patologico:

 

 

Consentitemi di diventare cibo per le belve; attraverso di esse io divento capace di arrivare a Dio. Sono la farina di Dio e sono macinato dalle zanne delle bestie in modo che possa essere il pane puro di Cristo. Piuttosto, incitate le belve, perché esse divengano per me una tomba e non lascino traccia del mio corpo, in modo che nessuno debba penare con i miei resti una volta che io sia morto.

Che io possa godere appieno del piacere delle belve preparate per me; prego perché esse siano pronte per me. Invero, le inciterò a divorarmi rapidamente... E anche se non vorranno farlo di loro volontà, le costringerò... Che niente di visibile o invisibile mostri invidia nei confronti di me, in modo che possa arrivare a Cristo. Fuoco, croce, moltitudini di bestie selvagge, mutilazioni e smembramenti dislocazione delle ossa, scempio degli arti, maciullamento dell’intero corpo, il maligno tormento del diavolo – lasciate che mi investano, che solo possa arrivare a Gesù Cristo.

 

 

La patologia di uno è il senso comune degli altri. Perché Ignazio e gli altri martiri che lo seguirono nel desiderio di una morte violenta per fede non erano del tutto irrazionali. Era un modo di imitare il Figlio di Dio e mostrare che né i dolori né i piaceri di questa vita erano qualcosa di paragonabile con le glorie della salvezza che attendevano quelli che si davano non a questo mondo ma al regno dei cieli.

Gli autori proto-ortodossi consideravano questa prontezza a morire per la fede come uno dei marchi di garanzia del loro credo religioso, e di fatto lo intesero come una linea di confine che separava i veri credenti (cioè coloro che concordavano con le loro vedute teologiche) dai falsi “eretici” che costituivano la loro grande preoccupazione.

Dopo Ignazio i martirologi – cioè resoconti scritti dei supplizi dei martiri – divennero comuni nei circoli proto-ortodossi.

I dettagli leggendari del resoconto hanno lo scopo di mostrare l’approvazione del martirio da parte di Dio: Policarpo riceve soccorso divino ad un punto tale che sembra non provare terrore o angoscia. Quando viene bruciato al palo non ha bisogno di esservi inchiodato, ma vi è solo legato, e vi rimane di sua spontanea volontà. Quando inizia il fuoco avviene un miracolo: le fiamme non toccano il suo corpo ma piuttosto lo avviluppano come un lenzuolo. E piuttosto che emettere puzzo di carne bruciata il suo corpo sembra emettere una fragranza profumata. Quando il fuoco fallisce il suo compito i carnefici gli somministrano il colpo di grazia con un pugnale, ciò che ha l’effetto di far volare una colomba dal suo fianco, insieme ad una tale quantità di sangue che le fiamme ne sono estinte.

Nessuno è più insistente di Tertulliano nell’affermare che il martirio è un segno rivelatore della verità. Non è un caso che Tertulliano utilizzi i martiri dei proto-ortodossi per marcare una differenza  tra i veri e i falsi credenti. Come egli denuncia, gli “eretici” rifiutano di pagare l’estremo prezzo per la loro fede. Nel suo saggio Il Rimedio per la puntura dello scorpione Tertulliano mostra gli Gnostici nell’atto di evitare il martirio col ragionamento pretestuoso che Cristo è morto precisamente per evitare che essi si debbano sacrificare e che è preferibile abiurare Cristo e pentirsi successivamente che pagare il prezzo estremo.

In realtà non abbiamo modo di sapere quanti cristiani proto-ortodossi furono effettivamente martirizzati e quanti scelsero di abiurare piuttosto che cadere nelle mani di carnefici rinomati per la loro creatività nella tecnica della tortura. Nè, se è per questo, conosciamo quanti Gnostici, Marcioniti, Ebioniti o altri decisero di sfidare la morte per affermare ciò che ritenevano vero. Ma è chiaro che uno dei tratti distintivi dei proto-ortodossi, almeno nella loro mente, era la loro pretesa non solo di rappresentare la verità ma anche di essere disposti a morire per essa.

Unità e diversità. Parte della strategia proto-ortodossa era basata sull’enfatizzare la nozione di “unità” a tutti i livelli. I proto-ortodossi enfatizzarono l’unità di Dio con la sua creazione: c’è un solo dio e ha creato il mondo. Essi enfatizzarono l’unità di Dio padre e di Gesù: Gesù è l’unico figlio del Dio unico. Essi enfatizzarono l’unità della Chiesa: le divisioni sono causate da eretici. Infine, enfatizzarono l’unità della verità: la verità non contraddice se stessa.

Perdipiù i proto-ortodossi sostenevano, come abbiamo visto, che le loro concezioni furono tramandate sin dagli inizi: c’era una continuità nella storia delle loro credenze, fondata  nella unità di Gesù con i suoi apostoli e degli apostoli con i loro successori, i vescovi delle chiese.

Senso e nonsenso. Non erano solo le contraddizioni interne del pensiero eretico che venivano attaccate; erano anche le loro contraddizioni con ciò che i proto-ortodossi consideravano principi di buon senso e logica. Molte di queste contraddizioni erano individuate nella complicata mitologia che sottendeva le concezioni di molti gruppi gnostici. Alcuni studiosi hanno cominciato a sospettare che gli Gnostici non intendessero i loro miti come una descrizione letterale degli eventi passati, esattamente come oggi un cristiano non interpreterebbe alla lettera la storia della creazione del mondo in sei giorni. Ma gli eresiologi proto-ortodossi, comunque, interpretavano i miti gnostici in modo letterale, mostrando ciò che in loro c’era di ridicolo.

Verità ed errore. Un argomento molto efficace è contenuto nella pretesa proto-ortodossa che la verità precede sempre l’errore. Questo argomento è utilizzato in molte forme. Al livello più basilare, gli eresiologi notano che il punto di vista caratteristico di ogni eresia fu creato dai loro fondatori: per esempio Marcione, il fondatore dei Marcioniti, Valentino, il fondatore dei Valentiniani, ecc. Ma se questi insegnanti erano i primi a proporre quella che secondo loro era la corretta interpretazione della verità dei vangeli, cosa si doveva pensare dei cristiani che erano vissuti prima di loro? Erano semplicemente nell’errore? Questo, secondo i proto-ortodossi, non avrebbe senso. Per loro “la verità precede la sua copia, la somiglianza precede la realtà” (Tertulliano Prascr. 29).

L’argomento fu usato in un altro modo, che coinvolgeva una sorta di teoria della “contaminazione” che riecheggia ripetutamente negli scritti proto-ortodossi. Secondo questo modo di vedere, la verità originale del messaggio cristiano venne ad essere corrotta da elementi estranei, che furono aggiungi in un secondo tempo in essa per alterarla, talvolta al di là di ogni possibilità di riconoscimento. In particolare questi autori si scagliavano contro gli eretici che utilizzavano la filosofia greca per esplicare la vera fede. Tertulliano rigetta completamente la infusione della filosofia nella verità del vangelo cristiano; è sua la famosa domanda, “Cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme? Che concordanza vi può essere tra l’Accademia e la Chiesa? Quale tra eretici e cristiani?” (Praescr. 7)

Gli eresiologi proto-ortodossi utilizzarono un altro aspetto della teoria della “contaminazione”: l’idea che, col tempo, un eretico corrompe la verità già corrotta dal suo predecessore, cosicché nei circoli eretici le modifiche divengono fuori controllo e la verità diviene più lontana col passare del tempo.

La successione apostolica. La pretesa del collegamento apostolico con la verità  giocò un ruolo centrale nelle controversie ereticali. I proto-ortodossi avevano una varietà di strategie per legare i loro punti di vista con quelli degli apostoli. L’argomento basilare aveva a che fare con la “successione apostolica”, che già compare in 1 Clemente. In tale testo la chiesa romana insiste che i Corinzi debbano reintegrare i presbiteri deposti perché i capi delle chiese (inclusi tali presbiteri) erano stati nominati dai vescovi, che erano stati scelti dagli apostoli, che erano stati scelti da Cristo, che era stato mandato da Dio. Opporsi ai capi della propria chiesa, dunque, significava opporsi a Dio (1 Clemente 42-44).

Nelle mani di Tertulliano, la nozione di successione apostolica fu sviluppata in un modo alquanto differente, venendo riferita non semplicemente alla autorizzazione  ad esercitare uffici ecclesiastici, ma anche alla autorizzazione all’insegnamento. Secondo tale elaborazione di Tertulliano, Cristo, dopo la risurrezione, comandò agli apostoli di predicare il suo vangelo a tutte le nazioni; essi lo fecero, fondando le chiese più importanti in tutto il mondo conosciuto sulla base della predicazione dello stesso vangelo in ogni luogo. Queste chiese che gli apostoli fondarono mandarono a loro volta dei missionari per fondare altre chiese. “Dunque tutte le chiese, sebbene siano così numerose e così grandi, non formano che l’unica chiesa primitiva, fondata dagli apostoli, da cui esse tutte hanno avuto origine. In tal modo esse sono tutte primitive e tutte apostoliche” (Praescr. 20). La conclusione di Tertulliano è che:

 

 

Da questo, dunque traiamo la nostra regola. Dal momento che il Signore Gesù Cristo mandò gli apostoli a predicare, la nostra regola è che nessun altro deve essere accettato come predicatore rispetto a coloro che Cristo investì del potere... Se, dunque, le cose stanno così, è parimenti manifesto che le dottrine che concordano con le chiese apostoliche... devono essere giudicate vere, in quanto incontestabilmente contengono quella verità che tali chiese ricevettero dagli apostoli, che essi ricevettero da Cristo, che Cristo ricevette da Dio. (Praescr. 21)

 

 

Tertulliano prosegue ad indicare le chiese che possono rivendicare una discendenza apostolica, ma è forse sorprendente e probabilmente molto significativo che ne menziona solo due: Smirne (il cui vescovo Policarpo fu nominato dall’apostolo Giacomo) e Roma (il cui vescovo Clemente fu nominato da Pietro). Egli sfida gli “eretici”  a presentare loro chiese di cui possa essere detto altrettanto, e appare sicuro che nessuno di loro sarà capace di raccogliere la sfida (capitolo 32).

Sembra un argomento efficace. Ma va notato che altri gruppi oltre i proto-ortodossi  possono vantare una diretta discendenza dei loro insegnamenti direttamente indietro fino agli apostoli. Sappiamo per esempio da Clemente di Alessandria che Valentino era un discepolo di Theuda, che era considerato un seguace di Paolo; e lo gnostico Basilide studiò con Glaukia, un presunto discepolo di Pietro (Miscellanies, 7,17,106). Perlopiù, queste connessioni erano semplicemente sminuite dai proto-ortodossi.

Il ruolo della fede e del credo. I proto-ortodossi sostenevano di rappresentare l’insegnamento apostolico che si risolveva in un insieme di affermazioni dottrinali che esprimevano ai loro occhi la vera natura della religione. Nel secondo secolo, prima che comparissero affermazioni universali di fede recitate dai  cristiani di tutte le chiese, questi corpi di credenze venivano chiamati regula fidei (letteralmente regola della fede). La regula includeva le credenze basilari e fondamentali che, secondo i proto-ortodossi, tutti i cristiani dovevano sottoscrivere, dal momento che erano state insegnate dagli apostoli stessi. Vi furono vari proto-ortodossi che proposero una loro regula fidei, inclusi Ireneo e Tertulliano, ed essa non raggiunse mai una forma definita. Ma era chiaramente e sempre diretta contro quelli che si opponevano all’uno o all’altro aspetto di essa. Tipicamente incluse nelle sue varie formulazioni  c’era la fede in un unico Dio, creatore dell’universo, che creò tutto dal nulla; la fede nel suo figlio, Gesù Cristo, preannunciato dai profeti e nato dalla Vergine Maria; la fede nella sua miracolosa vita, morte, resurrezione e ascensione al celo; la fede nello Spirito Santo, che è presente in terra fino alla fine, quando ci sarà il giudizio finale in cui i giusti saranno ricompensati e i malvagi condannati all’eterno tormento (così ad esempio Tertulliano, Praescr. 13).

Alla fine, in aggiunta alla regula fidei furono scritti delle professioni cristiane da recitarsi, probabilmente, fin dall’inizio, dai convertiti che erano stati sottoposti ad una catechesi, nel momento del battesimo.

L’interpretazione delle Scritture. Un aspetto significativo della polemica proto-ortodossa contro le varie eresie riguardava non solo le rette dottrine, ma anche l’interpretazione dei testi sacri su cui queste dottrine erano basate. La questione di come interpretare questi testi era sorta sin dall’inizio, dal momento che Cristo e i suoi seguaci, come Paolo, citavano largamente le Scritture e le interpretavano nei loro insegnamenti.

Nel mondo antico non vi era più unanimità nella interpretazione di un testo di quanta ve ne sia oggi. Se il significato dei testi fosse autoevidente, non avremmo bisogno costante di commentari, esperti legali, critici letterari o teorie dell’interpretazione. La cosa non era differente nell’antichità. Presto, nel corso delle controversie, ci si rese conto che avere un testo sacro non è la stessa cosa che averne l’interpretazione. Per raggiungere il consenso  circa il significato di un testo, era necessario imporre certi vincoli dall’esterno, regole per leggere, pratiche accettate di interpretazione, modi di legittimare e simili. L’argomento divenne sempre più importante visto che maestri differenti convinzioni  interpretavano gli stessi testi in modi differenti, e si rifacevano agli stessi testi a supporto per i loro punti di vista.

Marcione insisteva per una interpretazione letterale dell’Antico Testamento, che lo conduceva alla conclusione  che il Dio dell’Antico Testamento era inferiore al Dio del Nuovo Testamento. L’avversario proto-ortodosso di Marcione, Tertulliano, dal canto suo, insisteva che i passaggi che parlano dell’ignoranza di Dio e delle sue emozioni non dovevano essere presi alla lettera ma figuratamente. Dal momento che Dio non poteva veramente ignorare qualcosa, o indeciso o malevolo, questi passaggi richiedevano una interpretazione alla luce della piena conoscenza della reale natura di Dio. Tertulliano di fatto interpretò un gran numero di passaggi  in modo figurativo, per illustrare il suo modo di comprendere Dio e Cristo. Per fare un solo esempio: c’è un passaggio importante in Levitico 16 che descrive due caproni che sono presentati dai sacerdoti degli Ebrei il giorno dell’espiazione (Yom Kippur). Secondo il testo, uno dei caproni deve essere lasciato libero nelle regioni selvagge e l’altro  deve essere offerto in sacrificio. I due caproni, ci dice Tertulliano, si riferiscono alle due venute di Cristo in terra – la prima volta come uno che è vilipeso (gettato nelle regioni selvagge), la seconda portando la salvezza a coloro che appartengono al suo tempio spirituale (Contro Marcione 3.7)

Preferendo una interpretazione figurata Tertulliano e Ireneo seguivano solidi precedenti tra i loro predecessori proto-ortodossi. Già Barnaba, nella sua lettera, fa un ampio uso della interpretazione figurale per attaccare l’aderenza letterale degli Ebrei alle loro leggi.

In altre occasioni, tuttavia, quando gli scrittori proto-ortodossi si trovavano di fronte ad avversari come certi Gnostici, che interpretavano le Scritture figuratamente, essi insistevano con forza sul fatto che solo una interpretazione letterale del testo avrebbe condotto alla verità. Ireneo in particolare obietta al modo in cui gli Gnostici legittimano le loro credenze con una interpretazione figurata e fa specifici esempi.

E’ probabilmente vero che per tali autori proto-ortodossi l’interpretazione letterale dei testo aveva pur sempre la supremazia, e che la interpretazione figurativa  doveva essere usata per convalidare punti di vista ricavati da una interpretazione letterale.

In ogni caso, se anche gli Gnostici non furono convinti dall’argomento della preminenza della interpretazione letterale, esso possedeva una forza probante agli occhi degli altri nelle controversie, specialmente per i simpatizzanti dei proto-ortodossi.

Accuse di attività riprovevoli e dissolute. Di tutte le armi dell’arsenale letterario proto-ortodosso una era particolarmente sferzante. Gli eretici, ci è costantemente detto da tali autori, non solo corrompono le Scritture, ma corrompono le altre persone e sono essi stessi corrotti. Gli eresiologi insistono  sostengono costantemente che i loro avversari sono moralmente reprensibili e sessualmente perversi. E le loro orribili pratiche sono una minaccia per la Chiesa, considerato che essi prendono gli innocenti e li corrompono.

Falsificazioni e fabbricazioni di testi. Uno dei tratti distintivi del cristianesimo primitivo, in tutte le sue forme fu il suo carattere letterario. I testi servirono per fornire sacra autorità per le credenze e le pratiche cristiane, per difendere la religione contro il disprezzo dei pagani colti dell’epoca, per unire le comunità locali in una chiesa universale, per incoraggiare i fedeli nel tempo della prova, per istruirli su come vivere, per edificarli con resoconti degli eroi della fede, e per metterli in guardia contro i nemici interni, per promuovere alcune forme di fede e denunciare altre. Con la parziale eccezione del Giudaismo, nessun’altra religione dell’Impero Romano era così radicata nei testi.

Data questa natura letteraria, non sorprende che una parte notevole delle dispute e dei conflitti tra interpretazioni in competizione tra loro avvenne attraverso testi scritti, per mezzo di trattati polemici, testi sacri, resoconti leggendari, documenti contraffatti, resoconti inventati, ciascuno designato per uno specifico scopo polemico.

I cristiani proto-ortodossi accusavano normalmente i gruppi eretici di aver prodotto scritti (effettivamente riconosciuti falsi dagli studiosi odierni) in nome di apostoli o loro compagni: per esempio il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Pietro, il Vangelo di Filippo, il Vangelo di Maria, l’Apocalisse copta di Pietro, la lettera di Pietro a Giacomo, e la letteratura Pseudo-Clementina.

Possiamo verosimilmente immaginare che i rappresentanti dei gruppi accusati a loro volta ritorsero l’accusa, denunciando i proto-ortodossi per aver creato propri documenti falsi. Sfortunatamente la grande maggioranza delle repliche polemiche di questi gruppi sono andate perse. Le loro accuse sarebbero però risultate fondate, visto che la pratica della falsificazione era diffusissima da entrambe le parti e non meno tra i proto-ortodossi che tra i loro avversari.

Come esempi di falsificazioni proto-ortodosse possiamo citare i cosiddetti Vangeli dell’infanzia di Gesù (sebbene Ireneo sostenga che uno di essi, il Vangelo di Tommaso, sia stato prodotto dalla setta eretica dei Marcosiani); il carteggio tra San Paolo e il filosofo pagano Seneca; il proto-vangelo di Giacomo, che fu un importante testo devozionale per tutto il Medioevo; una falsa lettera di Paolo ai Corinzi (3 Corinzi), creata allo scopo di contrastare le vedute teologiche di chi, in tale chiesa, ancora riteneva che non vi sarebbe stata resurrezione della carne. E ancora, tra gli altri, un resoconto della sfida tra Pietro e Simon Mago, in cui quest’ultimo, dipinto come campione dello Gnosticismo, subisce una sonora sconfitta e una lettera di Paolo alla chiesa di Laodicea.

Alterazioni dei testi sacri canonici. La alterazione di scritti che erano già stati prodotti, di documenti considerati sacri e canonici  per far sì che essi si opponessero più decisamente ai “falsi” insegnamenti e fornissero un appoggio più consistente ai “corretti” insegnamenti fu una strategia disponibile per tutte le parti in conflitto ed esiste una consistente evidenza storica a sostegno della tesi che tutte le parti di fatto se ne servirono. Fatta questa premessa, ci concentreremo qui sulle alterazioni riconducibili ai proto-ortodossi.

Un elevatissimo numero di alterazioni deriva dal semplice fatto che noi non possediamo gli originali di nessuno dei libri che formano il canone neotestamentario, e neanche, se è per questo, di alcun libro cristiano dell’antichità. Ciò che possediamo sono copie degli originali o, per essere più precisi, copie fatte da copie delle copie delle copie degli originali. Molte delle copie sono separate dagli originali da centinaia di anni. Come risultato, delle 5.400 copie di brani del Nuovo Testamento greco o dell’intero Nuovo Testamento greco nessuna coincide con alcun altra riguardo tutte le parole. Stime attendibili di tutte le varianti parlano di non meno di 200.000 e forse di più di 300.000 varianti del Nuovo Testamento greco, alcune poco importanti, altre della massima importanza. C’è da dire che gli studiosi ritengono che sia possibile, dal confronto di tali varianti, ricostruire il testo greco originale, anche se non con una accuratezza del 100%.

La domanda che viene spontanea è: di fronte a questo enorme numero di variazioni nei nostri manoscritti del Nuovo Testamento, esistono evidenze che alcune modifiche siano state apportate non per errore ma in relazione alle controversie dottrinali del secondo e del terzo secolo? La risposta è affermativa: l’evidenza è abbondante, ma ancora più interessante è il fatto che quasi tutte le evidenze sono riconducibili a falsificazioni proto-ortodosse.

Ecco un esempio di alterazione motivata dalla controversia contro le cristologie adozioniste, come quelle degli Ebioniti o dei seguaci romani di Teodoto, che sostenevano che Gesù era completamente umano, non divino, nato dall’unione sessuale di Giuseppe e Maria.

Dopo la nascita di Gesù, nel vangelo di Luca, i suoi genitori lo portano al Tempio “per presentarlo al Signore” (Lc 2:22). Lì incontrano un profeta, Simeone, che riconosce Gesù come “l’unto del Signore”, e lo celebra come colui che sarà “una luce per la rivelazione ai Gentili e per la gloria del popolo di Israele” (2:32). Queste altissime lodi provocano la reazione che ci si poteva aspettare: “E suo padre e sua madre si meravigliarono di ciò che era stato detto di lui”. (Lc 2:33). Ma la risposta dovette causare alquanta costernazione  tra gli scribi proto-ortodossi, perché  Giuseppe appare essere il padre di Gesù. Che è quanto gli adozionisti  sostenevano al riguardo – Giuseppe e Maria erano effettivamente i genitori di Gesù. Resisi conto del problema, alcuni scribi hanno cambiato il testo. Nei manoscritti alterati ci viene detto che “Giuseppe e Maria si meravigliarono di ciò che era stato detto di lui”. Ora non sussiste più alcun problema: Giuseppe  non è chiamato “padre di Gesù”. E nessuno di coloro che lo pensa può utilizzare il testo per provarlo. Si tratta di una “correzione” proto-ortodossa che ha implicato una alterazione testuale.

 

 

 

Le difficoltà logiche del dogma trinitario e della doppia natura del Cristo (Bart D. Ehrman)

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In questo brano Bart D. Ehrman, esponendo le controversie trinitarie dei primi secoli, si sofferma sulle difficoltà logiche della dottrina che poi diverrà ortodossa, della duplice natura – umana e divina – del Cristo e della sua consustanzialità col Padre e lo Spirito Santo.

Egli mostra di fatto come le vedute diventate prevalenti nella Chiesa e presentate dalla letteratura patristica come ragionevoli, equilibrate e tradizionali a fronte delle bizzarrie delle teologie gnostiche, manichee ecc. siano in realtà non meno bizzarre e irrazionali delle loro antagoniste.

Dal suo resoconto della evoluzione teologica dei primi secoli emerge incontestabilmente la inesistenza di una teologia ortodossa già formata e trasmessa dalle origini, come pure emerge la nota in qualche modo umoristica di teologi ortodossi per i loro tempi che in tempi successivi furono sconfessati come eretici corruttori della verità unica e immutabile.

 

Come esempio del fatto che neanche i “proto-ortodossi” avevano le idee chiare sin da principio sulle vedute teologiche da adottare, e che un tratto umoristico della storia della chiesa delle origini fu la dichiarazione successiva di eresia a carico di non pochi di coloro che a loro volta avevano combattuto gli eretici in nome della visione ortodossa (celebre il caso di Origene, che la storiografia ecclesiastica fa passare per un apologista zelante che ha abbandonato la vera fede per troppo zelo, come se la vera fede esistesse già in quel momento), possiamo prendere il caso del patripassionismo. Zefirino e Callisto, vescovi di Roma, prendendo troppo alla lettera la identità di sostanza tra Dio padre e Cristo, sostennero che Dio Padre realmente soffrì sulla croce.

Il loro punto di vista fu alla fine considerato eretico quando altri pensatori proto-ortodossi presero a considerare più approfonditamente la relazione tra Dio Padre e Dio Figlio, e le attribuirono un grado di complicazione maggiore di quello di una esatta identificazione, cui erano giunti Zefirino e Callisto.

 

 

Cristo può ben essere considerato eguale al padre, ma non è identico al Padre. E questa è una grande differenza agli occhi di tali pensatori. Ma come può avere il Figlio un eguale rango rispetto al Padre, essere anch’egli Dio, se esiste un solo Dio?

 

 

I teologi che iniziarono a lavorare su questo problema furono quelli che svilupparono la dottrina tradizionale della Trinità. Non solo Cristo e il Padre erano persone separate ed egualmente divine; c’era anche la questione dello Spirito Santo, di cui Gesù parla come di un “altro Consolatore” che doveva venire al suo posto (Giovanni 14:16-17, 16:7-14) e che era considerato lo Spirito di Dio già all’inizio del Genesi, dove “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Genesi 1:2). I passaggi scritturali riguardanti Cristo, suo Padre e lo Spirito furono esaminati con cura, combinati, amalgamati – il tutto allo scopo di dare un senso al mistero trinitario. E così, come affermavano le Scritture, Cristo e il Padre erano “uno” (Giovanni 10:30), cosicché “chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14:9). E tuttavia il Padre era “in” Cristo esattamente come Cristo era “nel” Padre (Giovanni 14:11), e il Padre “mandò” Cristo esattamente come più tardi avrebbe “mandato” lo Spirito (Giovanni 14:26). In un modo o un un altro vi sono tre esseri – non solo uno o due – tutti quanti  strettamente collegati e tuttavia distinti. Eguali ma non identici.

Come può funzionare una cosa del genere? I primi cristiani proto-ortodossi svilupparono modelli per capire la natura divina che apparvero ai loro discendenti intellettuali come aventi la giusta direzione, ma completamente privi delle necessarie sfumature teologiche. Ignazio, ad esempio, non pare sia mai riuscito ad elaborare una comprensione precisa di come Cristo possa essere sia divino che umano. Probabilmente non aveva i necessari requisiti intellettuali, tenuto conto che si tratta di un difficile enigma filosofico. Ad ogni modo, la sua formulazione paradossale deve essere apparsa disperatamente grezza alle generazioni successive dei proto-ortodossi:

 

 

Perché c’è uno solo che dà conforto, in pari tempo carnale e spirituale, nato e non nato, Dio venne in forma corporale, vera vita nella morte, parimenti da Maria e da Dio, dapprima soggetto alla sofferenza e poi al di là della sofferenza. Gesù Cristo nostro Signore.

 

 

Il periodo successivo vide in qualche modo vari tentativi di risolvere il problema, alcuni del tutto accettabili agli occhi dei proto-ortodossi contemporanei, solo per essere in seguito condannati dai teologi ortodossi dei secoli successivi. Il migliore esempio viene dal più colto, prolifico e famoso teologo dei primi tre secoli dell’era cristiana, Origene di Alessandria. Origene era un vero genio, la cui ampia erudizione e straordinarie abilità furono riconosciute da un ricco cristiano di Alessandria , Ambrogio, che divenne il suo patrono, fornendogli vaste risorse per consentirgli di portare avanti i suoi sforzi teologici. Origene scrisse ponderosi commentari alle Scritture del Nuovo come del Vecchio Testamento, numerose omelie su specifici testi, una ampia “apologia” che difende la fede contro i suoi denigratori intellettuali, opere antieretiche contro coloro che propugnarono false dottrine ed eruditi trattati teologici sulle questioni più attuali dei suoi tempi. Pare abbia scritto qualcosa come mille libri – assistito da Ambrogio, che gli forniva un piccolo esercito di stenografi cui dettare le sue riflessioni e calligrafi per prepararle per la pubblicazione. Molti di tali libri, purtroppo, sono andati persi o distrutti. Sebbene Origene fosse il campione dell’ortodossia dei suoi giorni, fu in tempi successivi condannato come eretico, e le sue opere furono bandite. Cosa che non deve sorprendere nel caso di chi tentava per la prima volta di elaborare i misteri dell’universo su una nuova base teologica.

La teologia di Origene era basata sulla Bibbia dall’inizio alla fine. Egli concordava con l’idea che Dio fosse il creatore di tutte le cose. E credeva che questo significava che aveva anche creato Cristo. L’essenza di Cristo  venne ad esistenza in un qualche momento della eternità del passato.  Di fatto  essa venne ad esistenza quando vennero ad esistenza tutte le creature intelligenti del regno divino – angeli, arcangeli, demoni, il diavolo, le anime umane. Tutte queste creature di Dio erano originalmente menti disincarnate, create per adorare Dio per sempre e tuttavia fu loro dato il libero arbitrio per poter scegliere di fare altrimenti. Alcune menti scelsero di separarsi da Dio – per esempio il diavolo e i suoi demoni, il cui desiderio di potere li condusse alla “caduta”. Altri semplicemente non potevano tollerare di adorare Dio per l’eternità; anche questi caddero dalla loro sede divina e divennero anime poste in corpi umani per correzione e punizione, prima della loro redenzione. Una mente, tuttavia era in contatto diretto e intensamente focalizzato con Dio, dall’eterno passato. Così connessa con dio da divenire una sola cosa con Dio. Esattamente come il ferro posto un gran fuoco alla fine prende tutte le caratteristiche del fuoco, questa mente prese tutte le caratteristiche di Dio, divenne così compenetrata della sapienza divina che divenne la sapienza di Dio, così penetrata della parola di Dio che divenne la parola di Dio. In un senso molto reale, quindi, sotto ogni rispetto esteriore e anche nelle profondità del suo essere, questa mente era Dio. Questa mente poi divenne un’anima che si incarnò in forma umana e camminò tra noi nella forma di un uomo. Cristo è l’incarnazione di questo essere divino che venne ad esistenza in qualche momento dell’eternità passata; Cristo è la parola di Dio fatta carne; Cristo è Dio, una sola cosa col Padre, distinta nella persona, ma eguale nella sostanza, colui attraverso il quale Dio fece il mondo (Origene, Sui Principi Primi 2:6). Ma – questo è un punto chiave – egli è eguale a Dio per il trasferimento dell’essere di Dio; in ultima analisi è subordinato a Dio ed è “meno del Padre” (Sui Principi Primi 1:3).

Origene venne alla fine condannato per la sua soluzione innovativa della questione della relazione tra Dio e Cristo quando i pensatori ortodossi dei secoli successivi raffinarono le loro categorie e rigettarono ogni nozione di subordinazione di Cristo a Dio, che necessariamente, per loro, significava che nella sua essenza egli non era eguale a Dio. Origene venne parimenti condannato per altre idee, specialmente per la convinzione che le anime preesistevano e che tutta la creazione, incluso il diavolo, sarà infine guadagnata alla sovranità di Dio e in tal modo salvata.

Origene mostra quantomeno che nel secondo e terzo secolo, non solo esistevano confini ben definiti tra “proto-ortodossi” ed “eretici”; esistevano anche vachi confini tra ciò che ha valore di ortodossia e ciò che non lo ha. L’ortodossia di un periodo  può divenire l’eresia del successivo. Gli ebioniti furono probabilmente i primi ad imparare sulla loro pelle questa massima teologica, come coloro che rappresentavano una forma molto antica di Cristianesimo, probabilmente basata sulle credenze degli stessi apostoli ebrei di Cristo. Gli ebioniti ebbero numerosi sfortunati successori nelle epoche successive, paladini di vedute inizialmente accettate, destinate ad essere condannate in tempi successivi come eretiche.

Entro i vasti confini della proto-ortodossia possiamo quindi vedere sviluppo e varietà. Col passare del tempo i teologi furono più attratti dal mistero della Trinità e svilupparono un vocabolario più sofisticato per trattare la questione. Ma ciò avvenne molto dopo che le questioni più importanti furono definite, se Cristo fosse uomo ma non Dio (Ebioniti, Teodotiani), Dio ma non uomo (Marcioniti, alcuni Gnostici), o due esseri, uno umano e uno divino (la maggior parte degli Gnostici). I proto-ortodossi optarono per respingere tutte le precedenti soluzioni. Cristo era Dio e uomo, tuttavia egli era un solo essere, non due.

Una volta riconosciuto questo, dovevano ancora essere elaborati i dettagli. E lo furono per secoli. Se fosse stato facile, non sarebbe stato un mistero della fede. I teologi iniziarono a sviluppare una ossessione circa il modo in cui Cristo  potesse essere sia umano che divino, completamente entrambi. Aveva un animo umano ma uno spirito divino? Aveva un animo divino invece che un animo umano? Il suo corpo era realmente come quello di qualsiasi altra persona? Come poteva Dio avere un corpo? Era subordinato al Padre, come in Origene? Se non era subordinato al Padre, perché fu lui  che fu mandato, e non il Padre? E così via, quasi all’infinito.

Entro il quarto secolo le professioni di fede familiari ai cristiani ancora oggi erano state sviluppate in forma embrionale, principalmente il Credo degli Apostoli e il Credo Niceno. E’ degno di nota il fatto che essi sono formulati contro specifiche vedute eretiche. Si prenda ad esempio l’apertura del Credo di Nicea: “Crediamo in un unico Dio, il Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Crediamo in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio”. Attraverso la storia del pensiero cristiano, queste parole sono state non solo piene di significato, ma hanno anche promosso importanti riflessioni teologiche. Nello stesso tempo  dovremmo riconoscere che rappresentano reazioni contro affermazioni dottrinali fatte da gruppi di cristiani che erano in disaccordo con essi, cristiani, per esempio, che credevano che ci fosse più di un Dio, o che il vero Dio non era il creatore, o che Gesù non era il figlio del creatore, o che Gesù Cristo non era un unico essere ma due. E’ in particolare degno di nota il fatto che, come risultato del contesto in cui furono formulate, molte delle vedute esposte in queste professioni di fede sono profondamente paradossali. Cristo è Dio o uomo? Entrambe le cose. Se è sia Dio che uomo, consiste di due persone? No, egli è l’”unico” Signore Gesù Cristo. Se Cristo è Dio e suo Padre è Dio, ci sono due divinità? No, “noi crediamo in un solo Dio”.

La ragione dei paradossi dovrebbe essere evidente da tutto ciò che abbiamo visto. I cristiani proto-ortodossi furono costretti a combattere da un lato gli adozionisti, e dall’altro i docetisti, Marcione da un lato e vari tipi di gnostici dall’altro. Quando si afferma che Gesù è divino, contro gli adozionisti, c’è il problema di poter apparire un docetista. E così si deve affermare che Gesù è umano, contro i docetisti. Ma questo potrebbe far apparire come adozionista. L’unica soluzione, allora, è di affermare entrambe le posizioni contemporaneamente: Gesù è divino e Gesù è umano. E si deve anche negare le implicazioni potenzialmente eretiche di entrambe le affermazioni: Gesù è divino, ma ciò non vuol dire che non sia anche umano; Gesù è umano, ma questo non vuol dire che non è anche divino. E così egli è divino e umano allo stesso tempo.

E parimenti le paradossali affermazioni proto-ortodosse contenute nelle professioni di fede riguardo Dio che è il creatore di tutte le cose ma non del male e della sofferenza che si trova nella sua creazione; circa Gesù che è sia completamente umano che completamente divino e non metà umano o metà divino ma entrambe le cose contemporaneamente, e che nondimeno è un unico essere e non due; riguardo il Padre, il Figlio e lo Spirito come tre persone separate e tuttavia costituenti un unico Dio.

 

 

 

Jung gnostico

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La psicologia di Jung

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Carl Jung (1875-1961) è uno dei maggiori psicologi contemporanei. Inizialmente influenzato dai lavori di Freud, se ne distaccò ed è famoso per aver fondato la scuola di psicologia analitica. Jung riteneva che il mondo della psiche avesse una realtà non inferiore a quella del mondo esterno. Egli riteneva di avere due personalità, che esemplificano le sue descrizioni della condizione dell'uomo moderno: una analitica, l'altra intuitiva. Egli realizzò che l'integrazione di aspetti differenti della persona come questi è un compito fondamentale nella vita dell'individuo e ne fece lo scopo della psicologia analitica.

Jung studiò medicina in Svizzera e fu presto interessato alla psichiatria. Il suo lavoro con i pazienti psicotici internati in manicomio gli ispirò un interesse per lo sviluppo della personalità umana. Egli si rese conto che i sintomi di un individuo acquistano un senso chiaro quando vengono interpretati alla luce della sua storia individuale e non di teorie generali e preconcette. Divenne amico di Freud, la cui influenza fu notevole, ma, come detto, alla fine le differenze del loro pensiero, specialmente sul ruolo e la natura dell'inconscio, produssero una profonda divisione tra loro.

Dopo la sua separazione da Freud, Jung attraversò un lungo periodo di depressione e di ritiro nel suo mondo interiore. Giunse infine a capire che i suoi travagliati sogni e visioni erano in qualche modo collegati alle idee espresse nei miti delle varie culture umane. Questa intuizione lo condusse a sviluppare le sue teorie sull'inconscio collettivo: egli chiama così lo strato più profondo dell'inconscio, che si estende oltre l'inconscio freudiano e la psiche individuale. Esso è tra l'altro la sede degli archetipi, immagini o schemi ricorrenti di pensiero che rappresentano esperienze umane tipiche.

Jung fu sempre dell'idea che fosse importante anche lo studio dell'inconscio collettivo per comprendere la psiche umana. Freud vedeva l'inconscio semplicemente come la parte repressa della mente dove vengono gettati pensieri ed idee inaccettabili. Per Jung l'inconscio era invece la base stessa della psiche umana, da cui era emersa la consapevolezza.

Durante la sua crisi egli scoprì anche il valore del gioco creativo, come mezzo per svelare l'inconscio. Esso diverrà un aspetto importante dell'analisi junghiana. Era affascinato dai mandala, simbolici disegni circolari del cosmo diffusi nelle culture orientali, che vedeva tracciare ai suoi pazienti e che egli stesso utilizzò per disegnare i suoi progressi verso l'integrazione del sé. Egli analizzò i sogni, le visioni, le fantasie, sue e dei suoi pazienti, come mezzi per guadagnare accesso al proprio mondo interiore.

Jung riteneva di vitale importanza per la psiche l'equilibrio tra le sue varie parti e manifestazioni, ad esempio tra l'ego (ciò che noi pensiamo di essere), e l'ombra (gli aspetti non riconosciuti e negati di noi stessi).

Con il termine libido egli non intese indicare, a differenza dei freudiani, la sola energia sessuale, né riteneva particolarmente produttivo separare alcuni istinti ed analizzarli a preferenza degli altri. In Jung il termine libido designa l'energia psichica in generale.

Ciò che colpì particolarmente Jung, e che egli riteneva i suoi predecessori non avessero notato è che, anche nei soggetti malati, la psiche individuale è in continua evoluzione, spinta da una dinamica interna che tende a conseguire crescita e completezza attraverso la realizzazione del proprio vero sé.

L'attività della psiche segue alcune importanti "leggi naturali" che Jung individua ed illustra:

Principio di opposizione: ogni aspetto della psiche ha immancabilmente un aspetto opposto (maschile e femminile, bontà e malvagità, estroversione e introversione, ecc.)

Principio di equivalenza: in ciascuno degli opposti è investita una carica eguale di energia psichica. Ne deriva che se neghiamo certi aspetti del nostro sé, questa energia può rimanere bloccata e generare sintomi patologici

Principio di entropia: esso descrive la tendenza di tutti i sistemi a "degradarsi" mano a mano che l'energia viene distribuita sempre più diffusamente e uniformemente. Questo implica anche che gli opposti tenderanno alla fine a congiungersi.

L'importanza degli archetipi risiede fra l'altro nel fatto che il viaggio della psiche e l'evoluzione dell'essere umano nei vari stadi della vita riflette schemi archetipici, come nascita, matrimonio e morte. Nelle civiltà primitive essi sono rappresentati da veri e propri riti di passaggio. Questo movimento, scandito dagli archetipi, ci consente di passare a stadi successivi di evoluzione spirituale verso una più piena realizzazione di sé.

I sogni hanno una parte fondamentale nella psicologia analitica. Jung ne indicò le molteplici funzioni. Essi rappresentano una compensazione per aree della mente conscia che sono deficitarie o distorte in qualche modo; ci recano arcaiche memorie archetipiche dall'inconscio collettivo; attirano la nostra attenzione su importanti aspetti della nostra vita di cui non siamo consapevoli. Un sogno ha sempre un significato legato alla persona che lo riceve, e può aiutare il processo di individuazione. I sogni possono riflettere molti aspetti differenti della psiche individuale e i simboli onirici possono avere rilevanza anche per l'intera società. L'analista deve possedere una buona conoscenza della mitologia in modo che i sogni possano essere situati in un contesto collettivo. E' spesso utile ricondurre i sogni ad un tema conduttore, che può fornire preziosi indizi sulle dinamiche psichiche.

Nella sua analisi, per guadagnare accesso alla parte nascosta della psiche dei pazienti Jung utilizzava non solo i metodi psicanalitici tipici dell'associazione libera, nella cui pratica era molto abile, e dell'analisi dei sogni, ma ampliava l'esame dei simboli riportati dal paziente esplorandone le connessioni archetipiche. Utilizzava anche il metodo dell'immaginazione attiva, espressa attraverso il disegno, la pittura, la drammatizzazione o la scrittura.

Gli scopi del lavoro terapeutico erano tra gli altri quello di far prendere coscienza di contenuti inconsci e di integrare ed equilibrare gli opposti in tal modo rivelati nel seno della nostra psiche.

Jung identificò due atteggiamenti opposti, due equilibri che possono caratterizzare la personalità umana: l'introversione, in cui l'energia psichica è volta verso il mondo interiore e l'estroversione, in cui l'energia psichica è volta al difuori, verso il mondo esterno.

Perdipiù, una persona può funzionare in quattro modalità fondamentali, guidate rispettivamente dal pensiero, dal sentimento, dalla sensazione e dall'intuizione. Nel caso del pensiero la persona si rapporta al mondo con i canali della logica e dell'intelletto discorsivo. Nel caso del sentimento la persona elabora giudizi di valore riguardo il mondo. Nel caso della sensazione la persona rimane al livello delle impressioni sensorie. Nel caso della intuizione la persona percepisce il mondo attraverso il suo inconscio.

Dalla combinazione di queste due classificazioni si generano otto differenti tipi psicologici. Il tipo psicologico caratteristico di ciascuno di noi influenza i suoi rapporti e il suo comportamento. La maggior parte delle persone non rappresenta un tipo puro, ma la combinazione di uno o più di essi.

Jung si dedicò a studi sull'esoterismo e il paranormale, sempre spinto, come nel caso della mitologia e della storia delle religioni, dal proposito di rinvenire temi universali nella spiritualità umana che validassero le sue teorie sull'inconscio collettivo. Studiò in particolare lo Gnosticismo e l'alchimia, e in entrambi scorse un simbolismo archetipico e mitologico che rispecchiava i contenuti dei sogni, delle visioni e delle fantasie dei suoi pazienti e provava che i contenuti dell'inconscio collettivo erano universali e atemporali.

I suoi studi astrologici e la sperimentazione dell'uso dell'I Ching, un antico sistema cinese di divinazione, lo condussero a suggerire l'esistenza di un'altra importante legge naturale, quella di sincronicità, che si aggiungeva a quella di causalità nel governare gli eventi. Egli credeva che avvenimenti del mondo esterno e materiale erano spesso rispecchiati dal corso indipendente della psiche e viceversa. Le sue teorie attirarono l'attenzione del fisico Wolfgang Pauli, e secondo alcuni troverebbero corrispondenza nelle teorie della fisica quantistica.

Jung enfatizzò l'importanza dell'esperienza individuale nella crescita spirituale e trovò di poco aiuto le religioni dogmatiche e fondamentaliste tradizionali, che conducevano, a suo avviso, a conflitti teologici e di altro genere e a stagnazione della vita spirituale. Egli riteneva che le religioni orientali fossero decisamente "introvertite" e orientate all'interiorità, mentre quelle occidentali fossero "estrovertite" e volte verso il mondo esterno. Riteneva necessaria una loro evoluzione verso una posizione intermedia che secondo lui rispecchiava meglio la verità delle cose e poteva fornire una migliore risposta ai bisogni spirituali dell'umanità.

Per tutta la sua vita egli si confrontò col problema del male. Egli riteneva tra l'altro che l'idea di un Dio perfettamente buono ed esente da qualsiasi traccia di malvagità era sbilanciata, perché rappresentava una totale negazione degli aspetti oscuri e inconfessabili o "ombra", come egli la chiamava, della nostra personalità. Egli riteneva inevitabile la prossima venuta di un riflusso catastrofico della civiltà occidentale verso la polarità negata.

Nella psicologia junghiana lo stato ideale di realizzazione del sé comporta l'accettazione degli opposti morali: gli esseriumani devono accettare la parte buona come la parte malvagia della propria personalità. Jung identifica il lato malvagio con l'archetipo dell'ombra. Il diavolo, l'anticristo sono l'ombra rispettivamente dell'archetipo di Dio Padre e di Cristo.

Lo stato ideale di Jung comporta l'accettazione degli opposti sessuali tanto quanto di quelli morali. L'anima è il nome dato da Jung all'archetipo femminile presente nell'uomo, e l'animus è quello dell'archetipo maschile presente nella donna. Jung ritrovava questo simbolo di completezza nella concezione gnostica della divinità suprema e dell'Adamo primordiale come androgini, un motivo che ritroverà anche nell'alchimia medievale. Il mito gnostico della caduta provocata dalla perdita dello stato androginico si attaglia all'analisi psicologica di Jung che identifica lo status deminutus dell'ego come caratterizzato appunto dalla mancata integrazione degli opposti.

Tuttavia una differenza fondamentale rispetto agli gnostici è che Jung parla di accettazione anche della parte fisica della sessualità, del corpo come parte del Sé, mentre il corpo e la sessualità sono negati dagli gnostici.

L'inconscio contiene in Jung, esattamente come la figura androgina della suprema divinità gnostica, tutti gli opposti, ma la piena realizzazione si ottiene solo quando questi opposti sono riconosciuti come tali e integrati nella psiche conscia: anche qui un'immagine gnostica viene in aiuto a Jung: quella dell'Adamo primordiale androgino, che molti gnostici identificano col Cristo

 Lo psicologo cerca di superare la nevrosi aggiungendo contenuti inconsci al conscio, fino a creare una personalità più ampia, il cui centro di gravità non coincide con l'ego e che, con l'aumentare della consapevolezza, può giungere a superare le tendenze egoistiche.

L'"ombra" dell'individuo è definita da Jung "la parte inferiore della sua personalità", un aspetto represso perché spesso non coincide con la nostra autoimmagine. Esso non consiste solo delle caratteristiche inferiori, ma dell'intero inconscio. E' la parte di cui si è occupato quasi esclusivamente Freud. Ma dietro di essa Jung scoprì altri strati più profondi, che consistono in "schemi di comportamento "archetipici, talvolta istintivi. Sotto l'influenza di situazioni psichiche fuori dell'ordinario, quali specialmente crisi, queste forme archetipiche o immagini possono invadere spontaneamente la coscienza, sia nel caso di malati mentali che di persone sane.

Lo stato ideale di Jung comporta l'accettazione degli opposti sessuali tanto quanto di quelli morali. L'anima è il nome dato da Jung all'archetipo femminile presente nell'uomo, e l'animus è quello dell'archetipo maschile presente nella donna. Secondo Jung l'inconscio di un uomo ha una polarità femminile, mentre quello di una donna ha una polarità maschile.

Tuttavia una differenza fondamentale rispetto agli gnostici è che Jung parla di accettazione anche della parte fisica della sessualità, del corpo come parte del Sé, mentre il corpo e la sessualità sono negati dagli gnostici.

Jung vide nel Rebis o androgino alchemico uno straordinario simbolo del processo di integrazione nel sé degli opposti della personalità. Nella simbologia alchemica il Rebis è non di rado identificato con Cristo, nel suo stato più perfetto di pietra filosofale, o con Adamo, nel suo stato intermedio di pietra dei filosofi.

Le conquiste della civiltà razionalista sono per Jung notevoli e non possono essere rigettate, ma è proprio la potenza che ha acquisito grazie ad essa l'uomo che rende tanto più pericoloso trascurare il suo lato oscuro, rimuoverlo e rifiutarne l'integrazione nella coscienza. Odi, paure razziali, proiezione del proprio lato oscuro sull'altro possono provocare guerre e altre catastrofi sociali: exempla sunt odiosa, dice eloquentemente Jung. Poiché inoltre, come dice Jung, i fanciulli sono educati non tanto da ciò che l'educatore dice, ma da ciò che fa, la presenza di aree irrazionali di comportamento negli adulti compromette il messaggio positivo che si vorrebbe veicolare alle nuove generazioni.

Le nostre aree inconsce e irrazionali emergono particolarmente nella psicologia delle masse, un tema molto dibattuto nella prima metà del Novecento.

Occorre impedire che gli opposti si facciano una guerra distruttiva. Lo stato del sé realizzato è uno stato di pace e armonia tra di essi che richiama alla mente le raffigurazioni di Blake dell'eden ritrovato, dove il leone sarà accanto all'agnello.

 

 

Jung e lo gnosticismo

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Jung studiò lo gnosticismo approfonditamente dal 1918 al 1926. Egli vedeva la psicologia analitica come una scienza empirica e riteneva della massima importanza rimanere ancorato ai dati di fatto. La credibilità delle sue teorie era legata alla possibilità di mostrare l'esistenza di paralleli tra le sue teorie della psiche e le mitologie degli Gnostici. Secondo lui gli Gnostici si erano trovati di fronte il mondo archetipico dell'inconscio e avevano cercato di interpretarne i contenuti, come aveva fatto lui. Il mito gnostico della creazione era per Jung una allegoria inconsapevole, prodotta dall'inconscio, del processo di individuazione.

Sebbene Jung volesse trovare nel pensiero antico immagini dell'inconscio collettivo e del Sé ricollegabili a quelle sperimentate dagli uomini moderni e dai suoi pazienti, le mitologie gnostiche gli apparvero a prima vista troppo lontane e confuse, le loro fonti letterarie troppo scarse o perdute. Ma successivamente, studiando i simboli alchemici, che avevano diretti riscontri con esperienze sue e dei suoi pazienti, egli giunse a ritenere che l'alchimia medievale era una continuazione dello gnosticismo, e che quindi era dimostrabile una continuità tra le esperienze dello spirito antico e di quello contemporaneo.

Secondo lui, l'eresia gnostica continuò nel medioevo sotto le forme dell'alchimia: il processo alchemico di estrazione dell'oro dai metalli vili era la continuazione in altra forma della ricerca gnostica della liberazione della scintilla divina caduta nella materia. Entrambe esemplificavano il suo processo di individuazione, il percorso di autorealizzazione del Sé tramite l'integrazione dei contenuti inconsci o conflittuali.

Secondo Jung, la mente primitiva non opera una netta separazione tra sé e il mondo esterno. Essa proietta drammi ed archetipi interiori nel mondo, oggettivizza i sogni sotto forma di comunicazioni della divinità, sperimenta più facilmente un senso di comunione con l'universo, con l'animale totemico, con la divinità, con gli altri Sé del gruppo. Gli antichi hanno un ego più solido, ma tuttavia proiettano ancora se stessi sul mondo esterno sotto forma di dei ed avvenimenti mitici. Il moderno pone invece una netta linea di demarcazione tra il mondo esterno e il mondo interiore, ma compie l'errore di ritenere che la psiche consista solo nel proprio ego conscio. Questa separazione viene occasionalmente meno quando l'irrazionale irrompe nel nostro pensiero: le credenze nei dischi volanti, le superstizioni, la proiezione delle nostre paure e dei nostri impulsi sugli altri sono momenti in cui si ha una proiezione del nostro inconscio simile a quella operata dalla psiche primitiva.

La malattia mentale, la nevrosi, è una forma patologica di rottura delle barriere troppo rigide che impediscono all'inconscio di raggiungere la mente conscia e che egli cerca di forzare.

Secondo Jung, i razionalisti del settecento e i positivisti dell'Ottocento hanno liquidato la religione come superstizione, sostituendola con la ragione, e negando così esistenza ed espressione a potenti forze dela psiche, negandosi la possibilità di un percorso di integrazione superiore che una volta veniva cercato in ambito religioso. Secondo Jung l'esito catastrofico delle Guerre Mondiali, il diffondersi dell'interesse per i processi psichici rivela che ci aspettiamo dalla Psiche qualcosa che il dominio del mondo esterno non ci ha ancora dato.

L'uomo "contemporaneo", che per Jung è succeduto all'uomo "moderno" e razionalista, invece, è conscio di questo stato di cose, di questa evoluzione non conclusa che richiede di andare oltre il puro razionalismo. Come l'uomo moderno, l'uomo contemporaneo è separato dal suo inconscio, ma a differenza di quello non rimuove i segnali che gli giungono dalla sua psiche, sperimenta, piuttosto che una nevrosi da negazione, uno spleen, un malessere interiore, una acuta percezione della mancanza di senso e del vuoto della loro vita, che li spinge a rivolgersi ai terapeuti.

Come gli antichi gnostici distinguevano l'umanità in ilici, spirituali, Pneumatici, così Jung avvicina questa distinzione a quella tra uomini "antichi" (individui senza nessuna evoluzione interiore, che vivono le superstizioni degli antichi), "moderni" (uomini (super) razionali) e "contemporanei", che sono assimilabili agli gnostici per la consapevolezza di un profondo bisogno interiore insoddisfatto.

Teosofia e Antroposofia sono considerati da Jung movimenti "gnostici", nella misura in cui cercano la via per arrivare alla Psiche in modo "eretico", al difuori dei percorsi della spiritualità ortodossa.

Esattamente come gli gnostici, i contemporanei, secondo l'esperienza di terapeuta di Jung, si sentono privati delle loro radici, in uno stato di alienazione. A differenza degli gnostici, che secondo Jung proiettavano la loro alienazione sul cosmo e la loro salvezza al di fuori di sé, i contemporanei hanno compreso l'errore e hanno imboccato il sentiero del ritorno al proprio Sé. E' per questo che Jung afferma che la sua psicologia e l'uomo a cui si rivolge non sono "gnostiche" nel senso delle antiche credenze, ma sono la "controparte" degli gnostici antichi. Quello che gli gnostici esprimevano come alienazione dalla propria essenza immateriale e divina, i contemporanei lo vivono come alienazione dal proprio sé più profondo e realizzato.

I miti gnostici interpretati in senso junghiano si riferiscono alla psiche. Il mito della creazione ci presenta una entità inconoscibile, primeva, autosufficiente, che adombra il nostro inconscio, prima che da esso emanasse l'ego. L'inconscio junghiano, esattamente come il Dio supremo degli Gnostici è androgino, e incorpora sia l'aspetto maschile che quello femminile dell'individuo. Esattamente come nei miti gnostici lo stato caduto è uno stato di separazione: per gli gnostici dal Dio superiore, per Jung tra conscio e inconscio.

Per Jung la scintilla gnostica è l'inconscio, mentre l'ego può al più essere visto come l'uomo ordinario, che, pur capace di pensiero razionale e pur racchiudendo il principio superiore, non è ancora risvegliato.

L'esperienza di incontro con la propria psiche è una autentica "gnosi" che trasforma profondamente l'uomo.

La psicologia junghiana non predica però, a differenza degli gnostici, un ritorno all'inconscio e alla sua totalità indifferenziata, che sarebbe distruttivo, quanto piuttosto un bilanciamento del conscio con l'inconscio. Occorre, dice Jung, illuminare con la presa di coscienza l'inconscio e i suoi complessi, ma poi operare una sintesi nel quadro della nostra vita conscia e razionale in senso superiore. L'immagine più adeguata, secondo lui, non è quella gnostica della scintilla di luce che torna ad annullarsi nella Totalità o Pleroma, ma quella alchemica del processo di dissoluzione o putrefazione: una "discesa agli inferi" seguita da un ritorno al conscio, ad una rigenerazione del nostro io.

Mentre per gli gnostici l'immagine del Dio supremo come di una totalità indivisa che incorpora gli opposti si attaglia allo stato iniziale, Jung usa più spesso la parola "dio" e "divino" come metafora dello stato finale della psiche, lo stato di integrazione e bilanciamento di conscio e inconscio, dei nostri aspetti opposti, a cominciare dal maschile e dal femminile.

Jung si richiama ai miti gnostici che distinguono il salvatore, l'oggetto immediato della gnosi salvifica, dal dio inconoscibile, e lo identificano, in alcune varianti, con l'Adamo primordiale, o Uomo ideale. I simboli del Cristo e dell'uomo ideale o primordiale simboleggiano per Jung la nostra psiche che ha raggiunto la pienezza del processo di integrazione.

Per quanto rivaluti la simbologia gnostica, Jung è critico verso gli gnostici, nel senso che li riteneva inconsapevoli di proiettare le loro percezioni interiori in un sistema cosmogonico le cui figure essi credevano realmente esistenti. E' solo in questo senso che secondo lui essi furono i primi scopritori dei contenuti inconsci, una sorta di psicologi del profondo ante litteram. Quantomeno essi rappresentavano una minoranza dalla elevata sensibilità psichica, che li spinse ad elaborare miti per cercare di raggiungere un obiettivo di pienezza che nessun sistema filosofico della loro epoca era in grado di dare. La loro mitologia mostra un riconoscimento della realtà del male e del potere del lato femminile; una ricerca di esperienza e non solo di fede.

La espressione più straordinaria dell'attrazione di Jung per lo gnosticismo sono i Sette sermoni ai morti, scritti in circostanze molto particolari. Nel 1912 Jung aveva rotto con Freud, ed iniziò per lui un periodo di confronto con il suo inconscio, o meglio con l'inconscio collettivo, sotto forma di sogni, visioni, fantasie e vicende paranormali. Come avrà poi a dire molto tempo dopo, "tutti i miei lavori, tutta la mia attività creativa proviene da quei sogni e da quelle fantasie iniziali, del 1912, quasi cinquant'anni fa. Tutto ciò che ho conseguito nella mia esistenza successiva era già contenuto in quelle esperienze, ancora sotto forma di emozioni e di immagini".

Come egli racconta, l'occasione della composizione dei sermoni fu una vera e propria invasione psichica di casa sua, con fenomeni di poltergeist testimoniati da tutti i suoi familiari. Intorno alle cinque di pomeriggio di una domenica del 1916 il campanello della porta cominciò a suonare senza interruzione. Era un brillante pomeriggio estivo. Le domestiche erano in cucina, da cui si poteva vedere attraverso la porta di ingresso aperta lo spiazzo antistante la casa. Tutti guardarono per vedere chi fosse l'ospite, ma non videro nessuno. Jung era seduto vicino alla porta e non solo sentì suonare, ma la vide anche muoversi. L'aria era come affollata di presenze psichiche, nell'intera casa si verificavano fenomeni inspiegabili, come se fosse stata invasa da una folla di spiriti. Nella sua mente Jung li sentì gridare: "siamo venuti da Gerusalemme dove non abbiamo trovato ciò che cercavamo!". Questo fu l'inizio dei Sette sermoni, in cui Jung trascrisse, nel corso di tre giorni, il suo dialogo con le presenze che infestavano la sua casa, che nel testo sono dei morti irrequieti che da Gerusalemme si recano ad Alessandria d'Egitto presso il grande maestro gnostico Basilide per avere da lui la verità loro promessa dopo la morte.

Durante quegli anni Jung avrebbe avuto delle conversazioni immaginarie con una entità archetipica che si presentava nelle vesti di un saggio alessandrino, Filemone. Ciò che egli mise in bocca a Basilide erano insegnamenti molto simili a quelli che gli sarebbero stati impartiti da Filemone.

Nel racconto scritto da Jung il tumulto dei morti deriva dal fatto che essi hanno trascorso tutta la vita nella fede cristiana ortodossa e ora scoprono che essa non è in grado di offrire risposte agli interrogativi ultimi. Questi morti possono anche essere visti come forze dell'inconscio di Jung che vogliono ricevere ascolto dal suo io conscio. Il simbolo dell'inconscio collettivo come la terra dei morti, dei nostri antenati, diverrà ricorrente in Jung. Inoltre, Jung avrebbe in seguito considerato se stesso al modo di Basilide: un innovatore che è destinato ad additare alla propria epoca vie alternative a quelle che è incapace di fornire la religiosità ortodossa.

Mentre i morti vivevano a Gerusalemme, il centro della cristianità ortodossa, Basilide viveva ad Alessandria d'Egitto, "dove l'oriente tocca l'occidente": un chiaro simbolo, in Jung, dell'inconscio che incontra il conscio.

A differenza di Freud e della sua scuola, che avevano liquidato il misticismo come nevrosi acuta, Jung ne riconosce la estrema ricchezza e potenzialità positiva.

Il mito che racconta Basilide è quello del Pleroma (l'inconscio) che genera "Creatura", che a sua volta genera gli uomini ordinari (altrettante immagini dell'ego). Con una originale interpretazione del mito gnostico che vede nell'uomo "mescolanza", Jung vede nell'ego come il luogo della "distinzione" e "differenziazione": tra sé e il mondo esterno; tra conscio e inconscio; tra maschile e femminile e in genere tra gli aspetti confliggenti della personalità che giacevano latenti nella psiche inconscia.

Nello gnosticismo reinventato nei Sermoni sia il dio "Creatura" che il Diavolo sono manifestazioni del Pleroma che non devono essere cancellate in esso, ma "andare mano nella mano", essere bilanciate. "Guai al monoteismo che vuole cancellare la diversità dei molti dei" fa dire Jung a Basilide alludendo agli aspetti della personalità che vanno integrati ma non eliminati o coltivati uno a scapito dell'altro.

Peculiare è negli scritti di Jung sullo gnosticismo il fraintendimento della figura del Demiurgo Abraxas, che, invece di essere la divinità totalmente malvagia degli gnostici, viene talora identificato con Cristo-Adamo. Nel secondo Sermone Abraxas, che in Basilide è il Demiurgo, indica per Jung la divinità suprema che è passata dallo stato indifferenziato e inconscio di Pleroma ad uno stato in cui gli opposti sono distinti ma armonizzati.

Estranea al pensiero gnostico è anche la affermazione dei Sermoni che gli dei esistono indipendentemente e al disopra degli uomini, lungi dall'avere la stessa natura divina: con questo Jung allude al fatto che in qualche modo gli archetipi dell'inconscio collettivo non si identificano con i contenuti dell'inconscio strettamente personale.

Nel quinto Sermone viene fatta un'altra affermazione estranea allo gnosticismo: il mondo divino si manifesta attraverso la spiritualità ma anche attraverso la sessualità, che stranamente e a differenza che in altri lavori, Jung considera rispettivamente femminile e maschile.

L'ultimo Sermone espone la storia dell'anima, che psicologicamente è la psiche. L'anima vive dapprima separata, poi si incarna nel corpo, successivamente si separa e poi ricerca altri corpi. La psiche che durante la vita riesce ad incontrare armoniosamente il proprio inconscio raggiunge il suo obiettivo e diviene Abraxas; l'ego dei morti di Basilide non è riuscito ad incontrare l'inconscio, e quindi alla loro morte ripiombano in uno stato incompiuto. Il loro destino non è chiarito nei Sermoni.

Jung ha sempre comunque rifiutato l'appellativo di "gnostico" per sé e il suo sistema: egli, come non si stancò mai di dire, non si considera né un filosofo né un metafisico né tantomeno un teologo, quanto piuttosto un empirista e uno scienziato.

Il fatto che Jung sia stato volta volta dipinto dai suoi detrattori come ateo e teista, gnostico e anti-gnostico, mistico e materialista deriva dal fatto che come scienziato si rifiutò di escludere a priori l'esistenza di un regno psichico non-materiale da cui provengono i miti, gli archetipi e i sogni; ma preferì sempre limitarsi a questa affermazione riguardo ciò che descriveva nelle sue opere. Egli affermava che Dio, Satana, angeli, demoni, sono reali psicologicamente come manifestazioni dell'inconscio dell'uomo, ma era altrettanto fermo nell'asserire che il loro status metafisico è al di là del campo della sua indagine scientifica: “Se dunque parliamo di 'Dio' come un archetipo, non affermiamo niente sulla sua reale natura, ma rendiamo noto che 'Dio' è già in quella parte della nostra psiche che è preesistente alla coscienza e che dunque non può essere considerata una 'invenzione' dell'io conscio".

L'appellativo di "gnostico" dato a Jung da numerose parti ha rivestito nelle intenzioni di queste significati diversi. Martin Buber lo considera tale perché, come gli antichi gnostici, localizzando il divino nell'umano ha cancellato, come loro, la distanza tra loro. Buber critica questa posizione come "atea".

Maurice Friedman lo considera uno gnostico moderno, perché, pur essendo un empirista, predica la salvezza mediante auto-conoscenza e il cambiamento di direzione dal mondo esterno al Sé. Per questa enfasi sull'auto-conoscenza come obiettivo supremo egli è stato bollato come "narcisista".

Il teosofo Stephan Hoeller, fondatore della Ecclesia Gnostica, non pone una netta separazione tra lo gnosticismo junghiano e quello antico; per lui Jung fa parte di una linea ininterrotta: "La tradizione Pan-sofica o Teo-sofica è vista da Jung come manifestatasi in molte forme attraverso i secoli, ma è stata particolarmente evidente tra diciannovesimo e ventesimo secolo nel movimento teosofico iniziato dalla nobile russa Helena Petrovna Blavatsky. Jung ha esplicitamente riconosciuto la moderna Teosofia come una importante manifestazione contemporanea dello Gnosticismo… Le intuizioni junghiane sono da considerare una delle ultime e maggiori manifestazioni della corrente di spiritualità alternativa che fa capo agli Gnostici".

Secondo Hoeller, Jung offre non l'equivalente psicologico dell'antico Gnosticismo, ma l'aggiornamento psiciolgico di esso: Jung "sapeva che nella sua psicologia stava enunciando una disciplina essenzialmente gnostica di trasformazione in forme contemporanee". Hoeller sostiene che di fatto Jung assorbe lo Gnosticismo con le sue intuizioni metafisiche – intuizioni in qualche modo traducibili in termini psicologici senza essere private della loro valenza metafisica.

L'appropriazione di Jung da parte di Hoeller è giudicata da molti discutibile. Non solo, come detto, Jung afferma di essere un puro psicologo, ma l'aspetto che Hoeller considera  teosofico e dunque Gnostico è di fatto teosofico piuttosto che gnostico. Allo stesso modo in cui Jung legge  lo Gnosticismo con gli occhi dell'alchimia e dunque capovolge il suo ethos di rifiuto del mondo, Hoeller legge lo Gnosticismo con occhi teosofici e dunque anch'egli ne capovolge il caposaldo antimondano. Per lui, come per Jung, la Totalità gnostica significa la riconciliazione dell'immateriale con la materia: "Lo sforzo gnostico… è diretto all'individuazione, alla reintegrazione di un conscio alienato e differenziato con l'inconscio… I pittori del Rinascimento potettero gioiosamente dipingere le amanti dei papi e cortigiane aristocratiche nel ruolo di madonne non perché avessero perso la loro devozione religiosa, ma perché avevano ritrovato un orientamento spirituale che trovava la sua grandezza nella convergenza degli opposti, e celebrava l'intersezione del tempo e dell'eternità nella natura umana. Purtroppo, questa emersione relativamente breve della Gnosi durante il Rinascimento fu seguita da lunghi secoli di crescente materialismo e banalizzazione della vita". Non c'è bisogno di dire che la totalità gnostica  non significa la riunioine dell'immaterialità con la materia. Né la totalità gnostica significa in senso psicologico l'integrazione, né tantomeno la fusione dell'inconscio col l'ego conscio. Poiché Jung legge lo Gnosticismo nella stessa visione positiva del mondo di Hoeller, Hoeller dovrebbe piuttosto concludere che Jung è un Teosofo piuttosto che uno Gnostico. Invece, Hoeller considera la rivalutazione del mondo come coincidente con la nozione di Gnosticismo sua e di Jung: "Come un vero Gnostico, Carl Jung riconobbe che, nel migliore dei casi, la sola divinità non è un sostituto per la totalità o integrità; ha frequentemente dichiarato che alla lunga ciò che conta non è la bontà o l'obbedienza a leggi morali, ma solo e semplicemente la pienezza dell'essere. La psicologia gnostica ha sempre riconosciuto che la divisione artificiale della pienezza dell'essere nelle due metà di bene e male era un raggiro delle forze tiranniche volte a tenere l'umanità in catene… Jung, nella sua conoscenza intuitiva della Gnosi, riconobbe che non il dualismo, ma il riconoscimento della necessità ultima della riunione degli opposti costituiva il cuore dell'atteggiamento gnostico".

Lo "gnosticismo" di Jung, secondo Robert A. Segal, risiede nella suo sforzo di riallacciarsi all'essenza perduta della natura umana e nel considerare tale riallacciamento come una forma di salvezza. Per Jung, come per gli Gnostici antichi, il ricongiungimento è un processo che dura l'intera vita e tipicamente richiede la guida di una persona che lo ha già intrapreso: il terapeuta che funge da rivelatore. La conoscenza, per Jung e per gli Gnostici è la chiave di tale impresa, e per entrambi significa soprattutto auto-conoscenza. Da questo punto di vista Jung può legittimamente essere classficato come gnostico. Ma è uno gnostico contemporaneo, perché l'essenza cercata è interamente umana, non divina, e risiede interamente entro di sé, non anche in una divinità.

Gilles Quispiel, illustre studioso ed eminente docente di cristianesimo antico all'Università di Utrecht, divenne amico di Jung e fece regolarmente delle conferenze allo Jung Institute di Zurigo. Oltre ad essere uno dei maggiori sostenitori, con Gershom Scholem e Erik Peterson, dell'origine giudaica dello Gnosticismo, ne dà una interpretazione molto originale che lo avvicina al pensiero di Jung. Per Quispiel, l'affermazione degli Gnostici che la nostra anima è un "essere di natura divina" non è una mera affermazione riguardante l'origine superiore dell'anima, ma significa proprio che l'anima è Dio, un Dio che risiede entro di noi. Il Dio esterno con cui i cristiani ortodossi cercano di venire in contatto non è altro che una proiezione del sé umano in quanto sostanza divina. Valentino descrive come l'angelo guardiano, che è il sé, dona la gnosi alla persona, ed il suo fato è connesso con quello della persona, perché solo quando l'Io (umano) e il Sé (divino) sono interconnessi in un rapporto duale, , possono attingere perfezione ed eternità.

Quispiel afferma che per Basilide il mondo e la storia sono puri simboli che si riferiscono ad un processo interiore, il ritorno interiore dell'anima a Dio. Questa interpretazione junghiana è metafisica, e non a caso Quispiel deride coloro che vogliono ridurre la divinità ad una proiezione della nostra umanità. Egli cita il sincronismo junghiano come esempio di una "proiezione" che non è spiegabile in senso psicologico, ma piuttosto in base ad una affinità quasi identificativa tra il nostro io divino e il cosmo. Per Quispiel si dovrebbe concordare con gli gnostici, e pensare non che Dio è una proiezione dell'uomo, ma che uomo e cosmo sono proiezioni di Dio e torneranno a lui alla fine della storia umana.

Oltre che nei Sette Sermoni, Jung si occupò specificamente del rapporto tra psicologia e gnosticismo nel saggio "Simboli gnostici del Sé". Esso offre l'interpretazione di simboli ricorrenti nella letteratura gnostica come quello del magnete, dell'acqua, del pesce, del serpente, del Logos, del cerchio, della quaternità, dell'androgine e del matrimonio. Ancora più importante è l'interpretazione che viene data dei miti gnostici e dei loro protagonisti. La divinità irraggiungibile simboizza l'inconscio nel suo stato primordiale e indifferenziato. Il Demiurgo, insieme con la materia differenziata su cui governa, simboleggia l'ego, Anthropos (Uomo Primordiale o Uomo Originale), Cristo, il Figlio e Dio simboleggiano tutti il sé. La cosmogonia gnostia, secondo la quale il Demiurgo è creato dalla divinità suprema, regna sul mondo materiale e solo in seguito scopre che esiste un dio più alto di sé, simboleggia l'emergere dell'ego dall'inconscio, la dimenticanza dell'inconscio da parte dell'ego, e l'eventuale ricongiungimento dell'ego con l'inconscio per formare il sé.

In altri lavori, come ad es. in "Archetipi dell'inconscio collettivo", là dove commenta l'inno gnostico della perla, Jung cambia la sua interpretazione: qui la materia è uno stato grezzo anziché differenziato, come in "Simboli gnostici del Sé", dove essa simboleggiava l'ego e la sua consapevolezza. La divinità suprema simboleggia qui l'ego. In questa ottica, la discesa nella materia di cui parla l'Inno della Perla è un ritorno allo stato indifferenziato dell'inconscio anziché la nascita del conscio.

L'interpretazione di Jung dello gnosticismo è doppiamente psicologica in quanto non solo egli psicologizza i simboli gnostici riconducendoli al sé individuale, ma considera gli gnostici degli eminenti psicologi, tra i primi "medici dell'anima".

Jung aveva da fare interessanti considerazioni anche sulla genesi del pensiero gnostico, che per lui appartiene alla categoria dei "fenomeni di assimilazione", in considerazione del suo scopo: assimilare e rendere in termini del pensiero egiziano-ellenistico il fenomeno per esso strano e difficilmente comprensibile del cristianesimo, che già Paolo dichiarò provocatoriamente "follia agli occhi dei greci" (1 Corinzi 1:23). L'impatto del messaggio cristiano col pensiero pagano produsse una fioritura che il moderno può trovare frastornante di simboli (pesce, colomba, serpente, ecc.), parabole e miti, che provengono dalla psiche inconscia dell'uomo antico che cerca di chiarificare a se stessa le corde inconsce che il la parola evangelica fa vibrare. Come rileva Jung, sotto l'influenza di situazioni psichiche straordinarie, specialmente in casi di crisi, le forme o immagini archetipiche possono invadere spontaneamente la coscienza, sia nel caso di persone malate che di persone sane.

Secondo lui, cercare di spiegare le idee gnostiche e la loro origine in termini della loro origine storica è futile, perché le si riconduce a stadi precedenti di sviluppo spirituale, perdendo di vista proprio ciò che hanno di più vitale: la connessione con la psiche profonda. Per Jung, la fonte delle idee gnostiche sono i motivi archetipici dell'inconscio

Per Jung gnosticismo ed alchimia erano collegati storicamente e tematicamente. L'alchimia medievale è per lui la continuazione dell'antico gnosticismo: il processo alchemico di estrazione dei metalli preziosi da quelli vili prosegue il processo gnostico di liberare la scintilla divina dalla materia. Entrambi i processi sono apparentemente fisici o metafisici, ma in realtà entrambi simboleggiano lo sviluppo del sé individuale.

Jung avvicina lo stato dei "contemporanei" con quello degli antichi Gnostici. Essi fronteggiano lo stesso "problema spirituale" degli antichi: la perdita delle vie tradizionali di sperimentare l'inconscio e il bisogno di creare nuove vie di accesso. Parlando del "moderno gnosticismo" Jung si riferisce non alle chiese neognostiche, ma a questo atteggiamento moderno che è simile, ma non identico a quello dello gnostico antico. La differenza centrale tra i due risiede nel fatto che i contemporanei sperimentano l'inconscio principalmente in modo non-proiettivo, a differenza degli Gnostici. Essi lo sperimentano psicologicamente, attraverso le teorie di Freud, Adler e Jung stesso, piuttosto che in forma teologica. Laddove gli gnostici incontrano dio entro di sé i contemporanei incontrano sé come dio. E tuttavia, poco coerentemente, Jung estende la definizione di "gnostici contemporanei" anche a moderni movimenti metafisici, come la Teosofia da un lato, e caratterizza gli gnostici come psicologi dall'altro.

Per quanto entusiasticamente Jung tracci paralleli tra la sua psicologia e lo Gnosticismo, egli nega risolutamente a sé il titolo di Gnostico. Così facendo non è qualche particolare idea della dottrina gnostica che rigetta, quanto piuttosto la caratterizzazione di sé come metafisico anziché come scienziato. Lo gnosticismo è una forma di metafisica mentre la psicologia è una scienza naturale. Questa distinzione segna una divisione fondamentale tra lo gnosticismo antico e quello moderno.

Per Jung era particolarmente significativa l'enfasi degli gnostici sul proprio sé interiore, in quanto lo trovava molto simile al messaggio del pensiero orientale, specialmente indiano.

L'antinomismo gnostico potrebbe essere avvicinato alla idea di Jung del superamento del bene e del male nell'io realizzato

Mentre Jung certamente riconosce l'esistenza di varianti non-cristiane di gnosticismo, egli però fa riferimento allo gnosticismo cristiano utilizzandolo per valutare il cristianesimo ortodosso. Secondo Jung, lo Gnosticismo si occupa in pieno del problema del femminile e del male, laddove questi argomenti sono trattati in modo insoddisfacente dal cristianesimo ortodosso. Mentre entrambi i cristianesimi hanno il simbolo della croce, solo lo gnosticismo, che vi vede il simbolo del Sé realizzato, aspira allo stato di completezza e realizzazione rappresentato dalla quaternità dei suoi bracci, includendo tra le divinità archetipiche anche Satana o il male, mentre il cristianesimo ortodosso rimuove quest'ultima figura a favore del simbolo diminuito della Trinità. Il significato psicologico della croce è quindi per Jung da intendere in senso gnostico. Jung vedeva una differenza fondamentale nel fatto che il cristianesimo ortodosso privilegiava la devozione, la sensazione e l'affettività, mentre lo gnosticismo privilegia il pensiero.

Il mito gnostico esemplifica il processo junghiano per cui, con la creazione dell'ego, perdiamo lo stato di innocenza della mentalità primitiva e la pienezza dell'inconscio e piombiamo nella condizione dell'ego diviso, che è una condizione patologica e che dà origine alla nevrosi dell'uomo moderno. Come Dante e i metalli alchemici, non possiamo però tornare semplicement indietro, perché questo sarebbe ritornare allo stato inconscio o peggio idenficarsi senza controllo razionale alla forze dell'inconscio. Dobbiamo percorrere la via gnostica, la via della conoscenza, che è anche conoscere e illuminare gli aspetti rimossi e inconsci della nostra psiche, per attingere di nuovo alla pienezza dell'uomo nuovo, completo, in cui gli opposti sono riconosciuti e riconciliati. Come secondo gli alchimisti, lo stato androginico è uno stato pregno di potenzialità e capace di generare, così, secondo Jung, la psiche reintegrata darà all'uomo capacità creative che egli non ha sperimentato in precedenza.

 

 

Jung e l'alchimia

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L'alchimia, una proto-chimica che aveva come obiettivo l'ottenimento della pietra filosofale, capace di trasformare i metalli vili in oro e di produrre l'elisir di lunga vita, era molto popolare nel medioevo, e fu praticata fino alla fine del seicento e oltre, ma le sue radici affondano nel periodo ellenistico, che vide fiorire nelle città del delta del Nilo una alchimia alessandrina. Esisteva quindi un legame, secondo Jung, tra pratica alchemica e gnosticismo, pure fiorito in periodo alessandrino. A partire dal Cinquecento furono in molti ad anticipare Jung interpretando le operazioni alchemiche come pratiche di trasformazione della psiche dell'alchimista, e Jung fu immediatamente interessato da questo aspetto mistico. Dopo gli studi sullo gnosticismo, che egli giudicava una forma di pensiero troppo antica per essere capace di mostrare con immediatezza l'identità dei contenuti archetipici del pensiero umano attraverso le epoche, egli trovò che l'alchimia si esprimeva con simboli sorprendentemente identici a quelli proiettati dalla psiche dei suoi pazienti, e il suo legame con lo gnosticismo gettava finalmente un ponte tra la psiche dell'uomo antico e di quello moderno.

La scoperta dell'alchimia e della sua connessione con i processi psichici profondi avvenne per Jung nel 1927, quando ricevette dal sinologo Richard Wilhelm una traduzione del testo alchemico taoista Il Mistero del Fiore d'Oro, che mostrava chiaramente il rapporto tra le operazioni metallurgiche e il processo di sviluppo interiore.

Il pensiero alchemico, secondo Jung, coincideva in modo sorprendente con le sue idee sull inconscio e alle tematiche che erano emerse durante il suo lavoro analitico: l'evoluzione della materia grezza, l'unione degli opposti, in particolare del maschio con la femmina, la ricerca della scintilla divina celata nella sostanza materiale.

L'alchimia proponeva un immaginario di natura archetipica. Uno studio storico si rivelava vitale per la comprensione dei simboli della psiche. L'idea di trasformare i metalli vili in oro era a sua volta basata sulla teoria dei quattro elementi, terra, aria, fuoco ed acqua. Ogni corpo fisico, secondo Aristotele e molti filosofi greci, era formato da questi elementi in differenti proporzioni. Gli alchimisti pensavano che  se ri riusciva ad alterare l'equilibrio degli elementi si poteva cambiare le forme materiali, in particolare dei metalli vili in oro e in genere trasmutare ogni sostanza in ogni altra. Lo stato mentale dell'alchimista, la purezza, la preghiera e la meditazione, la ricerca di illuminazioni superiori erano pure ritenute essenziali per il successo della Grande Opera.

Jung fu affascinato dallo scoprire immagini alchemiche dappertutto nei sogni dei pazienti che stavano attraversando passaggi critici del processo di individuazione. L'opera alchemica passava attraverso una serie di stadi, ciascuno dei quali rispecchia esattamente uno stadio di evoluzione della psiche:

1) Nigredo o "nerezza". E' il primo stadio, in cui l'alchimista riscalda la materia nel forno fino a che questa non annerisce. E' il primo passo del processo di individuazione, in cui la persona inizia ad abbattere le barriere tra il conscio e l'inconscio. E' spesso accompagnato da depressione, la "notte nera dell'anima" conosciuta dai mistici, ed è un momento in cui si fronteggiano le tenebre interiori che rappresentano l'"ombra" della psiche conscia.

2) Albedo o "bianchezza". Nello stadio successivo particelle bianche iniziano a comparire nella mistura, che alla fine cristallizza nella forma di una pietra bianca. Questo rappresenta la pulizia graduale della psiche mano a mano che la "nerezza" della sua ombra viene affrontata dalla psiche cosciente. Le persone a questo stadio non di rado si ritrovano ad avere apparizioni o conversazioni con esseri archetipici, proprio come gli alchimisti narravano di incontrare ogni sorga di esseri soprannaturali intorno al loro laboratorio

3) Rubedo o "colore rosso". E' lo stadio finale, quando viene aggiunto mercurio alla pietra bianca, che diviene verde, poi rossa. Questo processo rappresenta l'unione degli opposti e il risultato è l'elisir di vita, che conferisce l'immortalità. E' rappresentato simbolicamente dall'ermafrodito alato o da una rosa. E' il punto terminale dell'analisi del paziente, la risoluzione dei conflitti della psiche e l'armonizzazione degli opposti.

Questo segna l'incontro col sé, una entità interpersonale e trascendente che rappresenta il termine del processo di individuazione. Il Sé può apparire anche nella forma di una sacerdotessa o dea oppure, nel caso degli uomini, come un guru o uno spirito della natura, ovvero come un mandala luminoso o un ermafrodito.

 

 

 

Le chiese gnostiche contemporanee. Gnosticismo e occultismo.

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La chiesa gnostica di Jules Doinel

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il periodo pre-gnostico di doinel (1842-1889)

 

Jules-Benoit Doinel nasce nel 1842 a Moulins, nell' AI­lier, in una famiglia di grande pietà cattolica; una delle sue sorelle diventerà suora. Fin dall'infanzia - allievo dei Fra­telli della Dottrina Cristiana - Jules sperimenta esperienze mistiche, visioni, ma ha anche la sensazione oppressiva del­la presenza del demonio. La madre gli trasmette una viva devozione a san Stanislao Kostka (1550-1568), un novizio gesuita morto a diciotto anni e celebrato come esempio di obbedienza e di castità. Verso il 1852 Jules entra al collegio dei Gesuiti di Yzeure, che era stato precedentemente semi­nario minore, e dove si continuavano ad educare come gruppo separato i giovani (fra cui Doinel) che pensavano di avere una vocazione sacerdotale. Al collegio continuano le visioni: gli appaiono san Francesco Saverio e, per la pri­ma volta, san Stanislao Kostka. Il suo santo preferito gli ripete la frase che aveva scritto durante la sua vita in una lettera da Dillingen al suo amico Ernest prima di recarsi a Roma: Ad limina apostotorum, non obliviscar fui (A Ro­ma, nella sede degli apostoli, non mi dimenticherò di te). Queste parole continueranno a ritornare nella memoria di Doinel, anche nei periodi della sua vita in cui si sentirà più lontano dalla Chiesa Cattolica.

Nel 1895 sembra logico l'ingresso ai Doinel nel noviziato gesuita di Montciel, presso il santuario di Notre-Darne de l'Ermitage. Le esperienze mistiche continuano: il novizio Jules sperimenta in modo sensibile la presenza reale, e vede ancora san Stanislao. Secondo la testimonianza di un ami­co di famiglia dei Doinel, il giornalista e scrittore Jules­-Marie Simon (1871-1970), la cui rilevanza è stata sottoli­neata da Amadou, sarebbe stata proprio l'eccessiva impor­tanza attribuita dal giovane Jules alle visioni a determinare la fine della sua esperienza presso i Gesuiti nel 1861.

Dal 1862 troviamo Doinel a Parigi, dove persegue un'altra sua passione, l'archivistica, frequentando l'Ecole des Chartes, dove si diploma nel 1866. Dimenticata (ma non completamente) la vocazione religiosa, Doinel può iniziare una carriera di archivista e viene nominato nello stesso 1866 ad Aurillac. Nel periodo di Aurillac (1866-1868) Jules comincia le sue tipiche attività di intellettuale di provincia, collaborando alle riviste locali e pubblicando documenti d'archivio. Per quanto ne sappiamo è sempre in questo pe­riodo che si manifestano i suoi primi interessi per una spiri­tualità non convenzionale, attraverso la frequentazione di circoli spiritisti dove rapidamente si scopre doti di medium. Questa esperienza - racconterà poi Doinel - sarà una premessa decisiva per la rinascita dello gnosticismo. Se lo spiritismo era, dopotutto, un fenomeno sociale assai diffu­so nella Francia del suo tempo, più originale è un tentativo di costituire una piccola cerchia neopagana, effimero e se­rio soltanto per metà come documenta un'operetta lettera­ria pubblicata nel 1867, Les Dieux à Auri/lac.

Ma nel 1868 Doinel si sposa; la moglie, Stéphanie-Françoise Le Clerc (1835-1873), che era stata un'attrice, è una cattolica di grande pietà che riporta Doinel alle devozioni della sua in­fanzia. Ormai, tuttavia, la sua vita è sotto il segno delle ap­partenenze e delle esperienze multiple, che si manifesteran­no ancora dopo la promozione di Doinel agli archivi di Niort, dove soggiornerà dal 1869 al 1875. Senza mancare alla messa domenicale, Doinel prosegue le sue attività di spiritista e continua ad essere guidato da sogni che lo aiuta­no nel suo lavoro di archivista e alimentano il suo nuovo entusiasmo per il giansenismo (gli appaiono la Mère Angé­lique e lo stesso Giansenio). La sua attività poetica - che non supera mai una qualità mediocre - rivela anche la sua immaginazione tormentata come in questo sonetto dei Noctium phantasmata pubblicati sotto lo pseudonimo di Nova-Lis:

 

 

Sorcière de Colchos ou de Thulé venue,

Faite pour effrayer Zurbaran et Hogarth; Qui jetait vers le diable un étrange regard

où se peignait l'angoisse infernale, éperdue.

On voguait. - L'océan grondait. - Le vent sifflait. L'eau verte sur les flancs du vaisseau ruisselait.

Des éclairs se croisaient dans le firmament morne. La FEMME, tout à coup, jette un cri douloureux.

La lune en pàlissant voile à demi sa come

Et le noir cauchemar se pose sur mes yeux. 12

 

 

Nel 1873, nuova crisi: muore la moglie, secondo Doinel in odore di santità. Jules pensa di entrare fra i Domenica­ni, ma il suo direttore lo distoglie, probabilmente senza avere tutti i torti perché, un anno dopo la morte della pri­ma moglie, Doinel si risposa con una delle allieve della scuola dove insegnava, Clémence-Marie-Louise Chagneau, di famiglia - questa volta - laica, repubblicana e masso­nica. Continuano i sogni, sempre più ambigui: si presenta­no nuovamente san Francesco Saverio e lo stesso Gesù Cri­sto, ma più tardi Doinel penserà che si sia trattato di in­ganni diabolici per sollecitare il suo orgoglio. A Niort Doi­nel continua a pubblicare studi storici e opere letterarie; Amadou ha rilevato, nella sua Histoire de Bianche de Ca­stille (1870), una curiosa apologia della crociata contro gli Albigesi, che diventeranno invece i suoi eroi preferiti nel periodo gnostico.

Nel 1874 la carriera di archivista di Jules Doinel culmina con la promozione agli archivi di Orléans, dove arriva nel 1875. Non senza relazioni con l'atteggiamento della fami­glia della seconda moglie, Doinel diventa il prototipo del funzionario pubblico: conferenziere repubblicano, apologi­sta del governo e - naturalmente - massone del Grande Oriente. Nel 1884 viene ricevuto come apprendista nella loggia degli Emules de Montyon di Orléans. Seguirà una brillante carriera massonica: venerabile della sua loggia nel 1892, dal 1890 al 1893 sarà membro del Consiglio dell'Or­dine, archivista del Grande Oriente di Francia e biblioteca­rio-conservatore del Museo massonico. Nonostante queste apparenze Doinel, tuttavia, era un massone un po' diverso dagli altri. Nel 1885 - appena un anno dopo l'iniziazione - promuoverà la modifica del nome della sua loggia, che diventerà Les Adeptes d'lsis-Montyon. Più tardi attribuirà questa iniziativa a una rivelazione interiore della stessa dea Iside, anche se in realtà una loggia dello stesso nome esiste­va già a Parigi. I suoi discorsi massoni ci rivelano un imme­diato interesse per l' occultismo e per la teosofia: Doinel non si accontenta dei proclami anticlericali (a cui anzi si adegua con riluttanza, senza nascondere mai la sua gratitu­dine per gli antichi maestri gesuiti) ma cita l'induismo, il buddhismo (per cui avrà una passeggera infatuazione), teo­sofi come Anna Kingsford (1846-1888). Quest'ultima, diri­gente eterodossa e cristianeggiante della Società Teosofica, aveva qualcosa in comune con Doinel per i tormentati rap­porti con il cattolicesimo (a cui si era convertita nel 1870, quando era moglie di un sacerdote anglicano) e per i sogni e le visioni (che l'avevano convinta, fra l'altro, di essere la reincarnazione di Giovanna d'Arco). Era pure fra le autrici preferite dalla duchessa di Pomar.

Ma vi è - nel primo periodo massonico di Doinel - una "doppia appartenenza" ancora più bizzarra. Guillau­me Monod (1800-1896) era uno dei dodici figli del pastore protestante ginevrino J ean Monod (1765-1836), la cui nu­merosa discendenza occupa un posto di primo piano nella storia del protestantesimo e della vita sociale francese. Vi­sionario forse ancora più di Doinel, Guillaume Monod, di­venuto pastore protestante come il padre e due dei fratelli, aveva passato quattro anni in manicomio a Ginevra dal 1832 al 1836. Liberato, Monod si era ormai convinto di es­sere il Cristo risuscitato, ma lo avrebbe proclamato soltan­to nel 1872 a Parigi, fondando una nuova religione che guiderà circondato da "profeti" e che non sopravviverà a lungo alla sua morte. Il bollettino della chiesa di Monod, riscoperto da Robert Amadou, annuncia nel 1882 la nasci­ta di una nuova chiesa locale, l'Eglise de la Souffrance a Orléans, guidata da un nuovo profeta: Neemìa. Il profeta Neemìa della Chiesa monodista non era altri che Jules Doinel. Dal 1882 fino almeno al 1893 J ules Doinel resta - senza, sembra, che amici e avversari lo sappiano - il pro­feta Neemìa nella Chiesa di Guillaume-Christ Monod. In questa funzione può dare libero sfogo alle sue visioni: tra­smette rivelazioni, epistole, nuovi salmi. Curiosamente Doinel non menzionerà questa sua esperienza nelle memo­rie, né i suoi numerosi avversari la scopriranno per rimpro­verargliela. Le date ricostruite da Amadou sono particolar­mente interessanti perché mostrano che Doinel continuerà ad essere Neemìa per tutto il periodo in cui sarà nello stes­so tempo il patriarca e fondatore della Chiesa Gnostica. Come fosse possibile conciliare le due esperienze non è im­mediatamente chiaro. Ma Doinel mostra, per tutta la sua vita, una grande capacità di tradurre le contraddizioni in simboli pacificanti; quando - nonostante i suoi sforzi - l'operazione non gli riesce, si accontenta - sembra - di vivere nell'ambiguità.

 

la nascita della chiesa gnostica (1889-1895)

 

Doinel - la cui tendenza a confondere le date ha ingan­nato più di uno storico - farà rimontare la nascita della Chiesa Gnostica addirittura al 1867, quando l'Eone Gesù gli sarebbe apparso per imporgli le mani e consacrarlo ve­scovo di Montségur. Se questa esperienza mistica è real­mente avvenuta, Doinel si è astenuto dal raccontarla - o dal trame conseguenze - per vent'anni. Attestata da mag­giori testimonianze è un'altra esperienza, del 1889: la sco­perta - al solito dopo un sogno premonitore - di una carta, che Doinel data 1017, del cancelliere Stefano, marti­re del catarismo. Il documento, in sé, era di scarsa impor­tanza, ma Doinel esalta il cancelliere cataro dell'arcivesco­vo Lèotheric di Sens, bruciato come eretico nel 1022, come "capo della Gnosi Francese". La carta scoperta diventa così un "incomparabile e raro monumento", una "inesti­mabile reliquia", 13 Doinel comunica il suo entusiasmo ai lettori de "L'Initiation", la rivista fondata l'anno prima da Papus, nel novembre 1889. Con l'articolo sul cancelliere Stefano, Doinel entra nella redazione della rivista a cui aveva peraltro già collaborato: nel giugno 1889 era apparsa la poesia Nirvana, testimone della sua vena buddhista. Ve­diamo così, nel 1889, l'archivista di Orléans saldamente in­sediato nella cerchia parigina di Papus e delle sue società occulte. Nel 1890 troveremo infatti Doinel presidente a Or­léans di una branca locale - chiamata Sophia Achamoth _ del papusiano Gruppo Indipendente di Studi Esoterici; a partire dallo stesso anno, come accennato, lo troveremo anche nell'Ordine Martinista. Ma già nel 1889 si era tuffa­to negli studi sulla gnosi, collezionando le scarse fonti sullo gnosticismo antico, leggendo Renan e soprattutto l'Essai sur le gnosticisme égyptien di Emile Amélineau, che era ap­parso nel 1887. Ben presto si manifestano voci e visioni, e Doinel scrive "come nell'estasi" il suo articolo su Simon Mago, "il primo dottore della Gnosi".

Questo articolo è già fondamentale per comprendere il modo di procedere di Doinel. Di Simon Mago si sa pochis­simo: e quello che si sa deriva dalle testimonianze ostili dei Padri della Chiesa e da fonti che sembrano largamente ro­manzate come gli apocrifi Atti di Pietro. Recentemente si è vista un'eco delle sue dottrine nell'Esegesi dell'Anima, un testo del Codex II di Nag Hammadi, che naturalmente Doinel non poteva conoscere. Si può già rimproverare ad Amélineau una certa immaginazione nel saldare insieme le fonti senza criticarle. Ma Doinel travolge tutte le barriere, riempie i vuoti storici, spiega le contraddizioni con verve inesauribile. Da una parte il suo gnosticismo è quello de­scritto dai Padri della Chiesa con una valutazione sempli­cemente cambiata di segno; è estranea a Doinella preoccu­pazione di valutare criticamente le fonti comparandole, che proprio in quegli anni cominciava ad affermarsi in Germa­nia con Harnack, con Hilgenfeld, con Bousset. Ma non si può neppure dire che Doinel si limiti strettamente alle fonti eresiologiche: dove le fonti non arrivano, l'archivista-pro­feta supplisce con le rivelazioni, con i sogni, con la sua stessa esperienza mistica. Da pochi frammenti patristici Doinel ricostruisce una dottrina "simoniana" completa che pone l'origine di tutte le cose nel Fuoco occulto, che emana a coppie gli Eoni. Un Eone femminile del secondo mondo, Epinoia, spinta da grande amore, abbandonò il Padre ed emanò gli Angeli e le Potenze da cui procede questo mondo che noi abitiamo. Questi Angeli, ignorando l'esistenza del Padre, hanno voluto trattenere Epinoia, il Pensiero. Di qui la loro caduta che ha biso­gno di una redenzione. L'Uomo è prodotto da uno di questi An­geli, il Demiurgo, che la Bibbia chiama Dio.

Ciascun uomo rimane comunque simile al Padre ed è un eone, che può liberarsi dalla prigione della materia tramite la gnosi. L'interpretazione di Doinel diventa però straordi­naria quando si tratta di Elena, la prostituta di Tiro che, secondo Giustino e Ireneo, il samaritano Simone si era as­sociato. I Simoniani veneravano Elena come incarnazione del primo pensiero, Ennoia, che aveva creato gli angeli e i poteri ed era poi stata da questi imprigionata nella materia e condannata a incarnarsi nei secoli in corpi di donne uma­ne (fra cui, prima della Elena di Tiro, Elena di Troia). Doi­nel non si limita a seguire la versione di Ireneo, ma vi lega una grande interpretazione della storia della redenzione, dove il Redentore appare come Figlio agli Ebrei, come Pa­dre ai Samaritani e come Spirito Santo in Simone. Se la storia di Elena di Tiro appare oggi agli interpreti - sulla base, anche, del citato paragone con l'Esegesi dell'Anima di Nag Hammadi - soprattutto come un'allegoria della re­denzione dell'anima umana caduta nel lupanare della ma­teria (pur senza escludere che una compagna di Simone chiamata Elena sia realmente esistita), Doinel distingue fra la missione del Figlio e quello dello Spirito Santo. Il Figlio, il Salvatore, si era messo alla ricerca dell'anima umana, ma lo Spirito Santo, Simone, si era messo alla ricerca di Epi­noia prigioniera delle potenze, che continuava a trasmigra­re nei corpi di donne umane, trovandola finalmente in Ele­na. Dal breve accenno di Ireneo nasce una dottrina che di­venterà una vera ossessione per Doinel: Elena di Tiro non è stata l'ultima reincarnazione mondana di Epinoia o Ennoia, che continua a trasmigrare "attraverso le epoche, di donna in donna, come un profumo passa da un vaso in un altro vaso". Da un testo quasi dimenticato della polemica patristica contro gli gnostici Doinel ha ricavato un potente argomento a sostegno dell'idea, nell'aria ai suoi tempi, del prossimo avvento di un messia al femminile. Per il momen­to, nell'articolo su Simone, Doinel si limita ad osservare che ognuno e ognuna di noi - giacché noi siamo Eoni - ognuno e ognuna di noi può essere il Simone di una Elena e, rovesciando i ruoli, la Elena di un Simone. Per compiere la nostra missione di Salvatore, noi, gli Iniziati delle Gnosi, appariamo ai profani come simili a loro per la forma, ma molto superiori per lo Spiri­to. Simon Mago ed Elena ci hanno insegnato, e noi insegniamo a nostra volta, la Gnosi liberatrice, la Scienza illuminativa, la Legge, la Parola perduta dei Rosa-Croce. Noi liberiamo i nostri fratelli e le nostre sorelle dal giogo dell'ignoranza e della super­stizione, del materialismo grossolano e dello scetticismo superbo. Li rivestiamo della veste bianca degli iniziati. Poco importa dove il seme è seminato, purché lo sia. Salvati dalla Gnosi, siamo a nostra volta salvatori. 14

Non si parla ancora di Chiesa Gnostica, ma già si lancia un appello ai massoni interessati alla lotta contro "l'igno­ranza e la superstizione" e agli occultisti alla ricerca della "Parola perduta dei Rosa-Croce". Non rimaneva, a Doi­nel, che pubblicare il saggio su Simone. L'articolo viene trasmesso a Papus per la pubblicazione su "L 'Initiation". Papus - che avrebbe voluto pubblicarlo - lo trasmette a Georges Polti, occultista e teosofo, allora segretario della contessa di Adhémar. L'articolo esce così nel febbraio 1890 sulla "Revue Théosophique" della contessa, a cui Doinel viene presentato. Papus se la prende, ma si riconci­lia rapidamente con Polti. Molti anni dopo, nel 1907, Polti doveva raccontare, in un articolo irriverente del "Mercure de France", 15 una storia farsesca della nascita della Chiesa Gnostica, che sarebbe sorta da un'idea da lui proposta alla contessa di cui era segretario. Doinel avrebbe dunque rice­vuto l'ispirazione da Polti, che - deciso a prendersi gioco del buon archivista di provincia - lo avrebbe fatto inna­morare della contessa, attraverso lettere via via più audaci firmate da lei ma scritte in realtà dall'intraprendente segre­tario. Le risposte di Doinel sarebbero diventate, a loro vol­ta, sempre più esplicite e la castissima contessa, inorridita, avrebbe cessato la corrispondenza rifiutando assolutamen­te di ricevere l'aspirante vescovo gnostico. La storia è bril­lante, ma non è credibile. Gli avvenimenti di fondazione della Chiesa Gnostica si susseguono, infatti, in pochi mesi e non sono compatibili con una lunga corrispondenza. Nel racconto di Polti manca poi qualunque riferimento all'arti­colo su Simon Mago, né si ricorda - com'è attestato da altre fonti - che, decidendo di pubblicare l'articolo, la contessa presentò Doinel all'altra grande dama dell'occulti­smo parigino, la duchessa di Pomar.

Ma Doinel stesso - nei suoi vari ricordi autobiografici - ha imbrogliato non poco le carte e confuso le date. Co­minciamo dai suoi ultimi ricordi, Chez la duchesse, apparsi sulla "Revue du monde invisibile" dal 15 maggio al 15 di­cembre 1899. In questa versione vediamo Doinel pensare alla duchessa di Pomar come capo visibile di una Chiesa Gnostica di cui egli doveva divenire patriarca e vescovo. La duchessa acconsente alla consacrazione, e Doinel diventa vescovo nel suo oratorio (non sappiamo se consacrato dal­la duchessa stessa, da qualcun altro o da una intermedia­zione spiritica). La data, come nota Amadou, dovrebbe es­sere il 17 maggio 1890, sulla base del primo mandamento di "Jules, vescovo di Montségur" che annuncia la consa­crazione. 16 Solo successivamente nel giugno 1890 la du­chessa avrebbe invitato Doinel a una seduta di spiritismo dove sarebbe stato (ri)consacrato - questa volta, senza dubbio, in modo spiritico - da quarantuno vescovi catari. A questo punto, nei ricordi del 1899, Doinel riproduce il racconto della consacrazione spiriti era apparso nel 1896 sul­la rivista "L' Anti-Maçon" nella serie di ricordi L 'Océan noir. Ma in questa sede si parlava di una "serata organiz­zata presso lady C .... , nell'autunno del 188.", precisando che si tratta di una data fondamentale perché "si può datare da questo giorno e da questo mese la resurrezione della Chiesa Gnostica". 17 Se "Iady C ..." è evidentemente lady Caithness, cioè la duchessa di Pomar, "l'autunno del 188." dovrebbe essere l'autunno 1889. Questo renderebbe la consacrazione spiritica precedente all'altra - che avreb­be una valenza più formale e amministrativa - del maggio 1890, e anche alla pubblicazione nel febbraio 1890 dell'ar­ticolo su Simon Mago. Sembra però più probabile che Doi­nel si sia sbagliato nel 1896 e che la ricostruzione sulla base dei ricordi del 1899 sia più corretta. Vale la pena in ogni caso - giacché si tratta senza dubbio dell'esperienza di fondazione della Chiesa Gnostica (che pensiamo risalga al 1890) - di seguire Doinel nell'oratorio della duchessa di Pomar. Alla presenza di un grande di Spagna e di sei ari­stocratiche dame straniere si svolge la seduta. Mentre il bu­sto di Maria Stuarda pare animarsi e sorridere, un me­dium, segnando le lettere con una bacchetta d'avorio su un quadrante alfabetico, segnala la presenza di Guilhabert de Castres, accompagnato da quaranta vescovi del sinodo ca­taro di Montségur. Mentre il tavolo batte furiosamente, evocando la presenza lontana di armati e di tamburi, i ve­scovi gnostici - tramite la bacchetta d'avorio, ormai nelle mani della duchessa - trasmettono il loro messaggio per bocca di Guilhabert:

 

 

Il medium fece un segno a lady C ... Ella prese allora la bac­chetta di evocazione che fece scorrere sul quadrante alfabetico, e a mano a mano che muoveva rapidamente la bacchetta circea sulle lettere in rilievo, dei colpi netti e brevi si facevano sentire. Lettera per lettera formulò la frase seguente: "Preparatevi! I Ve­scovi del Sinodo Albigese di Montségur stanno per venire". Nel­lo stesso tempo scintille improvvise scaturirono in serie dai muri dell'oratorio. Il ritratto della regina Maria si animò; un sorriso errava sulle sue labbra dipinte, e fosforescenze si accendevano nei suoi occhi; non potei trattenere un grido. Maria di Scozia sembrava vivere. Un nuovo silenzio, più intenso del primo, più prodigioso, più significativo, si estese nell'oratorio incantato. Un soffio freddo accarezzò la mia fronte; sentii distintamente una mano dolce che si posava sulle mie ginocchia. I capelli mi si riz­zarono in testa e il vento dell'Invisibile li sfiorò. Guardai furtivamente la mia vicina di destra, la contessa X ... , la mia vicina di sinistra, la principessa X ... Erano pallide, molto pallide. I loro nervi sovraeccitati vibravano. Evidentemente eravamo sotto l'In­fluenza. Allora un ritmo lento e dolce salì dalla tavola, divenuta un or­ganismo cosciente. La tavola batteva ritmicamente, e il ritmo montava, montava, di sonorità in sonorità, scandendo la misura, sviluppandola, accentuandola, gonfiandola, come se due tambu­ri stessero martellando il motivo. Questo durò dieci lunghi minu­ti buoni, e quando la marcia trionfale del ritmo ebbe preso fine, un grande colpo risuonò dal centro della tavola, e la bacchetta riprese a correre sul pannello. Queste parole furono magicamen­te composte: "Guilhabert de Castres, vescovo di Montségur, e i quaranta vescovi dell'Alto Sinodo del ParacIito sono qui!".

Un impulso irresistibile ci fece alzare in piedi, e l'evocazione cominciò. La preghiera al Paraclito anzitutto; poi, il saluto ai ve­scovi gnostici; poi, l'interrogazione solenne.

Non ho più i termini presenti alla memoria; ma garantisco il senso della comunicazione magica. Era Guilhabert de Castres che parlava, ed ecco quello che ci diceva:

"Siamo venuti a voi dal cerchio più lontano dei Cieli Empirei.

Vi benediciamo! Che il principio del bene, Dio, sia eternamente lodato e benedetto, glorificato e adorato! Amen.

"Siamo venuti a voi, nostri beneamati!

"Tu, Valentino, tu fonderai l'Assemblea del ParacIito, e la chiamerai Chiesa Gnostica.

"Ti annuncio che avrai ELENA come spirito assistente. Ti fi­danzerai con lei. Sarai il suo sposo, e lei sarà la tua sposa.

"Eleggerete i vostri vescovi e li consacrerete secondo il rito gnostico. Tu, Valentino, sarai consacrato in questo oratorio. Ri­costituirete e insegnerete la dottrina gnostica. È la dottrina assoluta. Prenderete per vangelo il quarto, quello di Giovanni. È il vangelo dell'amore.

"L'Assemblea si comporrà di Perfetti e di Perfette. Lo Spirito Santo vi invierà quelli e quelle che deve inviarvi.

"Vi portiamo la gioia e la pace, la gioia dello Spirito e la pace del cuore. Ora in ginocchio, o voi che siete le primizie della Gno­si. Stiamo per benedirvi".

Un'emozione ben comprensibile ci aveva pervasi. Lacrime riempivano i nostri occhi. Un'angoscia nello stesso tempo volut­tuosa e dolce stringeva i nostri cuori. Da parte mia sentivo un fuoco bruciante circolare nelle mie vene. Ci mettemmo dunque in ginocchio, e, mentre la tavola riprendeva il suo ritmo sonoro, l'aura ci avvolse come un turbinio, e risuonò una voce che dice­va: "CHE IL SANTO PLEROMA VI BENEDICA! CHE GLI EONI VI BENEDICANO! VI BENEDICIAMO COME BENE­DICIAMO I MARTIRI DEL T ABOR DEI PIRENEI! Amen, Amen, Amen!"

 

 

Sarebbe interessante sapere se era presente l'abbé Roca (che, secondo Le Forestier, sarebbe stato il responsabile della presentazione di Doinel alla duchessa di Pomar): ma Doinel non ce ne parla. Sappiamo invece che dopo questa visione Doinel si preoccupa - sempre fedele alla sua inter­pretazione del mito simoniano - di cercare una "Sophia terrestre". È verosimile che abbia pensato anzitutto alla duchessa di Pomar, che peraltro non desiderava legarsi esclusivamente a una delle tante società occulte che presie­deva o frequentava; sappiamo per certo che la proposta venne fatta alla contessa di Adhémar (da cui le maldicenze di Polti). L'una e l'altra nobildonna non dovevano essere entusiaste di avere fra le loro precedenti incarnazioni una prostituta di Tiro, nonostante la successiva scoperta della sua natura sublime da parte di Simon Mago. E a questo punto che Doinel, che conosceva davvero tutte le piccole religioni esoteriche del suo tempo, cerca conforto presso Swedenborg e visita la cappella swedenborgiana della rue Thouin per chiedere lumi sulla delicata questione allo spiri­to del mistico svedese, che gli era già apparso in prece­denza:

 

 

Mi immergevo in una sorta di invocazione o piuttosto di evo­cazione silenziosa, e domandavo mentalmente, al capo della Chiesa detta della Nuova Gerusalemme, luci e un'indicazione dall'alto, sul fatto che ci teneva desto lo spirito [ ... ].

È noto che il soffitto della cappella della rue Thouin è semina­to di stelle blu, come il soffitto delle logge di apprendista, soprat­tutto del rito scozzese. La cappella era solitaria. Per quanto pos­so ricordarmi era una domenica, di sera, in autunno, e il giorno, benché indebolito, aveva ancora abbastanza forza per inviare al­le mura un chiarore pacifico e dolente che argentava le penom­bre. Una delle stelle parve brillare di una luce tutta particolare,

un po' a lato del pulpito. Immaginavo che non si trattasse che di un riflesso di sole più vivo, o più intenso, che arrivava alla stella, e non facevo molta attenzione al fenomeno. Ma improvvisamen­te una seconda stella si accese a lato della prima, poi una terza, poi una quarta. Ben presto il soffitto intero fiammeggiava. Non poteva più essere un'illusione. Il giorno si spegneva sempre di più. Nessuna luce nella cappella [ ... ].

Che cosa significava questo fiammeggiare di astri in un cielo blu? Mi domandavo questo, molto commosso come si può crede­re, quando una stella più grande, incomparabilmente più bella, una stella splendente e fiammeggiante, si staccò dalle altre, men­tre la voce interiore, di cui dovrò spesso riparlare, diceva in mo­do molto chiaro e distinto:

In cathedra gnostica, Mulier Prophetica Revelatur Homini.

E a misura che le tre linee ritmate risuonavano dentro di me, una combinazione di stelle disegnava, sotto la grande e luminosa STELLA che inondava la cappella della sua luce, il nome presti­gioso di Elena, così e non altrimenti: Elena.

La Gnosi non doveva avere altro capo femminile che questo capo invisibile.

 

 

Che Doinel sia stato costretto a questa soluzione dal ri­fiuto delle Elene che aveva preso in considerazione, o che si tratti di logica conseguenza delle sue esperienze mistiche, di una singola Elena terrestre non si parlerà più per la Chiesa Gnostica. I mesi successivi sono piuttosto assorbiti da un travaglio organizzativo. Sembra che i primi tre ve­scovi gnostici siano stati consacrati da DoineI già nel 1890: si trattava di Papus, di PauI Sédir (pseudonimo di Yvon Le Loup, occultista cristianeggiante della cerchia di Papus, 1871-1926) e del libraio esoterico Lucien Chamuel, che pre­sero rispettivamente i nomi di Vincent, Paul e Bardesane. Si aggiunsero, già prima del 1892, l'occultista modernista e "scientifico" Louis-Sophrone Fugairon, destinato ad una brillante carriera gnostica sotto il nome di Sophronius; AI­bert Jounet - che abbiamo trovato nella rivista "L'Etoi­le" - con il nome di Théodote e una donna, Marie Chauvel de Chauvigny (e Esclarmonde", 1842-1927). Le donne potevano esercitare infatti funzioni equivalenti a quelle epi­scopali con il titolo, però, non di vescovo ma di "Sophia". È certo che nello stesso periodo sia stato consacrato alme­no un altro vescovo, di cui gli storici non sono riusciti a stabilire il nome. Mentre provvedeva alla gerarchia, Doinel lavorava a sviluppare i rituali - su cui torneremo - che del resto dichiarava di avere ricevuto insieme alla sua con­sacrazione spiritica per via di rivelazione. Nel 1892, il 18 settembre, può finalmente riunirsi il Sommo Sinodo della Chiesa Gnostica, dove Doinel diventa patriarca con il no­me di Valentino II (Valentino I essendo stato lo gnostico del secondo secolo). Secondo alcuni è in questo sinodo che illetterato Léonce Fabre des Essarts (1848-1917) viene con­sacrato vescovo con il nome di Synésius; secondo altri la consacrazione sarebbe avvenuta nel sinodo del 1894, lo stesso dove venne decretata la pubblicazione di un catechi­smo gnostico di cui si sarebbe dovuta curare la redazione. A quell'epoca anche Serge Basset (Paul Ribon, "Paul") era stato eletto vescovo. Nel 1893 Doinel aveva organizzato l'ultima struttura della Chiesa Gnostica, l'Ordre des cheva­liers faydits de la Colombe du Paraclet. La parola "fay­dit", "esiliato" in lingua franco-provenzale, indicava i si­gnori albigesi che avevano dovuto abbandonare le loro ter­re al tempo della crociata diretta da Simon de Montfort. Scopo dell'ordine era quello di tenere legati alla Chiesa Gnostica gli "psichici" che non potevano farne parte inte­grale. Lo scopo, non dissimulato, era quello di arruolare gli "elementi mondani e intelligenti" per costituire "un terz'ordine gnostico capace di invadere i saloni e le cerchie delle professioni liberali".

L'ordine si articolava in tre gradi: bacheliers, a cui non era richiesta nessuna adesione dottrinale, chevaliers e com­mandeurs. I cavalieri, ci informa Doinel, "dovevano ap­partenere o alla Gnosi, o al Martinismo, o alla Cabala". Non c'è dubbio che "la Gnosi" sia la Chiesa Gnostica e il Martinismo sia l'Ordine Martinista di Papus. Per quanto riguarda "la Cabala", Le Forestier pensa a una piccola società "che non ha lasciato tracce [ ... ] che studiava le dottri­ne degli occultisti ebrei". 20 Giacché ci muoviamo nell'am­biente di Papus, sembra più logico pensare al suo Ordine Cabalistico della Rosa-Croce, che ha lasciato tracce abba­stanza abbondanti. I vescovi gnostici erano di diritto com­mandeurs, e il patriarca Gran Maestro, al cui lato siedeva una Gran Maestra (l'ordine era aperto anche alle donne). Erano state create dodici commanderies, i cui preposti for­mavano il Cénac/e de l'Ordre, senza che le attribuzioni geografiche corrispondessero a delle vere e proprie giurisdi­zioni. La terminologia e il rituale si ispiravano in particola­re agli Albigesi e ai "martiri" periti nella crociata. Doinel ci assicura che il suo ordine cavalleresco "non aveva nulla di comune con i riti cavallereschi della Massoneria". Le Forestier osserva giustamente che questo non è del tutto vero: se una terminologia albigese sostituisce quella tem­plare, le somiglianze con la massoneria templare detta della Stretta Osservanza sono per ogni altro verso evidenti.

Prima di mostrare come - dopo avere costruito la Chie­sa Gnostica negli anni 1890-1894 - Doinel rischierà di de­molirla nel 1895, vale la pena di soffermarsi sulle sue dot­trine, la sua struttura e i suoi riti. Si tratta di un comples­so, peraltro, che si è formato fra il 1890 e 1910, ed è diffi­cile stabilire oggi quali pratiche risalgano ai primi anni di Doinel e quali siano state introdotte in un'epoca succes­siva.

 

La confessione di fede

 

Nella parte scritta da Doinel della Catéchèse Gnostique si trova questa semplice confessione di fede:

 

 

Confesso la dottrina dell'Emanazione e la Salvezza attraverso la Gnosi.

 

 

Questa professione assai semplice è tuttavia considerata sufficiente per la salvezza (cioè, come precisa una nota, per la liberazione dal dominio del Demiurgo e la reintegrazione in seno al Pleroma):

 

 

D. - "Questa confessione, accompagnata dalla morale, opera la Salvezza?".

R. - "Sì, per la grazia dei Santi Eoni".

 

 

Doinel ha sempre sostenuto che il primato della cono­scenza e la dottrina dell' emanazione sono sufficienti per es­sere gnostico. Egli si diffonde tuttavia su Simon Mago, su Basilide e su Valentino, si sforza di riassumere le conoscen­ze storiche del tempo, si mostra - soprattutto - affasci­nato dalle vicende di Sophia. Il fascino concorrente di Si­mone e di Valentino causò perfino qualche problema ai se­guaci di Doinel, che si presentava come la reincarnazione ora dell'uno ora dell'altro maestro: il problema fu risolto precisando che Valentino era già stato la reincarnazione di Simone, e dunque Doinel poteva essere la reincarnazione di entrambi.

Nonostante le speculazioni esoteriche dei vari Fugairon e Sédir, per fare parte della Chiesa Gnostica era sufficiente un vago riferimento allo gnosticismo antico. Ma era im­portante cogliere il significato mistico del ruolo di Sophia e l'attesa messianica dell'Eterno Femminino. L'atteggia­mento del fedele della Chiesa Gnostica è riassunto in que­st'altra risposta della Catéchèse:

 

 

D. - "E voi chi siete?".

R. - "Sono Gnostico Valentiniano. Ho il Pleroma per Padre, Christos per Salvatore, Simone e Valentino per dottori, Elena e Sophia per appoggi, e attendo l'avvento di Nostra Signora Pneuma-Agion, l'Eterno Femminino"

 

 

La morale

 

Come abbiamo visto, per Doinel la professione di fede "salva" se accompagnata dalla morale. Non sembra che le leggi morali siano state fra i principali interessi di Doinel. Tuttavia successivamente nella Chiesa Gnostica sono ap­parsi commentari a "dieci leggi morali" - versione gnosti­ca dei dieci comandamenti - che hanno avuto una certa importanza, e di cui una tradizione fa rimontare l'origine ai primi anni della Chiesa. In una prospettiva gnostica le leggi più importanti sono quelle morali nel senso stretto; ma anche le leggi "igieniche" e "civili" devono essere ne­cessariamente osservate se ci si vuole predisporre a un com­portamento conforme alla morale.

Le prime tre leggi (morali in senso stretto) prescrivono:

"Ama Dio sopra tutte le cose";

"Ama il tuo prossimo come te stesso";

"Diventa perfetto come è perfetto il tuo Padre Celeste" (a quest'ultimo comandamento viene dato un significa­to specificamente gnostico, la perfezione venendo a coincidere con la gnosi).

Le leggi dalla quarta alla sesta (di carattere "igienico") prescrivono:

"Sii sempre temperante se vuoi che la tua volontà sia forte" (legge che molti hanno interpretato nella Chiesa Gnostica come prescrizione vegetariana);

"Conservati a lungo continente e non accoppiarti che per amore" (da cui si ricava l'invito a periodi più o me­no lunghi di castità mantenuta come dominio di sé ed esercizio esoterico, e una polemica contro la prostitu­zione che si ritroverà in varie branche della Chiesa Gnostica);

"Disprezza le pompe e le opere del Demiurgo, ma ama la bellezza" (con una preoccupazione di non estendere il disprezzo gnostico per la materia all'arte, che si com­prende se si considera l'adesione di un buon numero di letterati ed artisti alla Chiesa Gnostica nascente).

Le ultime quattro leggi, definite "civili", sono:

"Non rubare e non uccidere" (interpretata anche come avversione alla guerra e preoccupazione per la pace, che si ritroverà nelle opere di esponenti significativi della Chiesa Gnostica);

"Sposati e perpetua la famiglia" (legge che potrebbe sembrare poco gnostica - almeno con riferimento allo gnosticismo antico - ma che viene spiegata con l'attuale stato del mondo, ben lontano dalla perfezione spi­rituale, dove la famiglia è necessaria; giacché tuttavia il matrimonio terrestre non può pretendere la perfezione del matrimonio celeste, vengono ammessi il matrimonio per un periodo limitato di tempo e il divorzio, e non si chiede alle leggi dello Stato di vietare la poligamia - così importante in culture orientali considerate elevate dal punto di vista religioso ed esoterico - benché lo gnostico, dal canto suo, pratichi la monogamia);

"Sii povero in ispirito, e vivrai felice":

"Diventa il servitore di tutti se vuoi essere il maggiore di tutti",

 

La struttura della Chiesa

 

Al termine della parte della Catéchèse scritta da Doinel troviamo questa domanda:

 

 

D. - "Quale Chiesa confessate?",

R. - "La Santa Assemblea Gnostica diretta dallo Spirito Santo che è femminile, governata da Sua Grazia il Patriarca e dal Som­mo Sinodo dei Vescovi e delle Sophiae".

 

 

L'organizzazione della Chiesa Gnostica è iniziati ca e passa attraverso gradi successivi. Al di fuori della cerchia dei "perfetti" si ritrovano gli uditori esterni. I "perfetti" sono divisi in quattro ordini: i primi tre (diviso ciascuno in due gradi) corrispondenti ai tre gradi massonici classici di apprendista, compagno e maestro, e il quarto ordine ("maestri eletti" o "barbeliti"), propriamente sacerdotale, diviso nei gradi di araldo, diacono, prete e vescovo. Di fat­to il clero gnostico comprendeva diaconi e diaconesse - preposti alle singole chiese locali e autorizzati a celebrare la frazione del pane in assenza del vescovo - e vescovi e sophiae, posti alla testa delle diocesi e componenti il Som­mo Sinodo, che doveva eleggere (a vita, salvo dimissioni) il Patriarca. Il Patriarca veniva chiamato "Vostra Grazia" e i vescovi e le sophiae "Vostra Signoria". Il Patriarca e i vescovi adottavano un nomen episcopale che facevano pre­cedere da "Tau",

 

I paramenti sacerdotali

 

Nei primi anni della Chiesa Gnostica i paramenti erano relativamente semplici. II Vescovo aveva per principale or­namento una larga stola di seta rossa, con decorazioni in oro e con una colomba raggiante ricamata in argento sulla parte che copriva le spalle. Vescovi e sophiae avevano per insegna un anello d'argento con ametista. Più tardi venne adottata la toga nera dei Catari, cui il vescovo aggiungeva un pallio e un grembiale violetti, una mitria violetta con croce ansata e un Tau di legno portato al collo con un na­stro rosso. In seguito i ministri del culto gnostico adottaro­no un sistema incentrato su quattro paramenti: il camice (bianco), la cintura (bianca per i preti, rossa per i vescovi, dorata per il Patriarca), la stola e il manto (che scende fino a terra ed è chiuso sul davanti). II clero gnostico cominciò ad adottare verso il 1900 pantofole e guanti bianchi e il ca­ratteristico tocco di velluto rosso, mentre il fasto dei vesco­vi e dei patriarchi cresceva. Ancora oggi l'apparizione di un vescovo gnostico con le insegne del grado manifesta spesso un fasto notevole, ignoto in altre Chiese. I vescovi gnostici, peraltro, non esercitano in genere le loro funzioni a tempo pieno, e non indossano le insegne episcopali che in rare occasioni.

 

Il culto

 

II culto della Chiesa Gnostica ha, fin dalle sue origini, una parte pubblica e una parte privata. La parte pubblica si riferisce ai "tre momenti", cerimonie che corrispondono alla nascita, al matrimonio e alla morte. II primo momento è la presentazione alla Chiesa Gnostica del bambino quin­dici o venti giorni dopo la sua nascita. Si tratta di una ceri­monia che non va confusa con il battesimo, e che indica semplicemente l'ingresso del nuovo nato sotto la protezio­ne della Chiesa. Così la benedizione gnostica delle nozze non costituisce un matrimonio: si limita a santificare un matrimonio che è già avvenuto. La cerimonia funebre gno­stica - utilizzata assai raramente - sostituisce i comuni drappi neri delle chiese cristiane con drappi verdi o bianchi ornati di rosso, che dovrebbero manifestare la credenza nella reincarnazione e la speranza nella riunione con il Pleroma.

Per queste cerimonie dovrebbe essere utilizzato il tempio gnostico, edificio rettangolare delle dimensioni di metri 33 x 12, che dovrebbe idealmente comprendere quattro am­bienti (il portico, il tempio propriamente detto con il batti­stero e la Pietra Angolare, il Santuario e il Tabernacolo, completo di biblioteca e di sacrario). Il Tempio dovrebbe comprendere un sottosuolo servito da due scale con una sa­la di Meditazione e tre "grotte" (delle Ondine e Salaman­dre, dei Silfi, della Sfinge e del Bambino). Sempre ideal­mente non dovrebbe mancare un cortile con la statua di una sfinge. In realtà qualcosa di simile è stato costruito da alcune ricche chiese gnostiche degli Stati Uniti e dell' Ame­rica Latina. In Europa si è adottata la soluzione di una so­la camera (la quale in questo caso prende il nome di "eo­ne", tipica parola con numerosi significati nello gnostici­smo e nel nuovo gnosticismo) che - disponendo gli oggetti simbolici e modificando le ornamentazioni - svolge tutte le diverse funzioni. In Francia, in particolare, gli edifici di culto gnostici non sono mai stati particolarmente lussuosi.

 

I sacramenti

 

Per dotare la Chiesa Gnostica di sacramenti, Doinel si trovò naturalmente di fronte alla difficoltà di conoscere pochissimo della vita rituale dello gnosticismo antico. Si ri­volse pertanto ai Catari, di cui riprese due sacramenti di cui si conoscevano numerosi dettagli - il Consolamentum e l'Appareillamentum - mentre per l'Eucaristia adottò piuttosto la Messa cattolica. Presso i Catari, il Consolamentum trasformava il sem­plice "credente" in "perfetto" che si obbligava a una vita vegetariana, a digiuni severi e prolungati, al celibato (o al­l'astinenza dai rapporti sessuali se era già sposato). Giac­ché il Consolamentum era ritenuto indispensabile per la salvezza, veniva in genere - quando era possibile - am­ministrato qualche istante prima della morte anche ai "cre­denti" che non si erano sentiti pronti ad assumere i relativi obblighi durante la loro vita.

Doinel si prese molte libertà con il Consolamentum cata­ro: non lo riteneva indispensabile per la salvezza, non lo collegava a obblighi precisi, ma lo presentava come il "bat­tesimo di Fuoco e di Vento" necessario per ricevere lo Spirito Santo. La cerimonia iniziava con il "cantico valenti­niano", tipico di tutte le cerimonie gnostiche:

 

 

Beati vos Eones Vera vita vividi; Vos Emanationes Pleromatis lucidi; Adeste visiones Stolis albis candidi.

 

 

Veniva quindi letto l'inizio del Vangelo di Giovanni, se­guito dall'omelia e dal Pater. Il vescovo quindi imponeva le mani su ogni candidato pronunciando le parole:

 

 

Memor est o verbi tui servo (servae) tuo (tuae), in quo mihi spem dedisti. Haec me consolata es in humilitate mea.

 

 

Il Consolato rispondeva "Amen", il vescovo lo baciava sulla fronte dicendo:

 

 

Osculetur me osculo oris sui.

 

 

Il coro gnostico poteva allora intonare il cantico del Consolamentum:

 

 

Consolemini! - Consolemini! - Popule meus. - Consoletur me misericordia tua!

Lucerna Pleromatis - Lucet meis semitis. - Inclinavi cor meum. - Ad tuum eloquium. - Consoletur me misericordia tua!

Eructabunt labia mea hymnum. - Concupivi salutare tuum. - Attollite portas, Eones, vestras; - Et elevamini portae Pleromatis! - Consoletur me misericordia tua! Amen.

 

 

Al termine del cantico il vescovo, che si era seduto, si rialzava e benediceva l'assemblea gnostica dicendo:

 

 

Consoletur vos Sanctissimum Pleroma, Eon Christos, Eon Sophia et Eon Pneuma Agion!

 

 

La cerimonia era quindi terminata e il vescovo si ritira­va, mentre il coro cantava:

 

 

Domina [cioè Nostra Signora Spirito Santo] salvam fac Eccle­siam et exaudi nos in die qua invocaverimus te.

Domina, salvum fac patriarcam nostrum Valentinum et exaudi etc.

Domina salvos fac episcopos et exaudi etc.

 

 

Ancora maggiori libertà Doinel si prese con l'Appareil­lamentum, che per i Catari era una confessione m~nsile de~ peccati, elencati in tono generico all'assemblea del credenti di fronte a un perfetto (non era necessario un vescovo), che dichiarava ciascun penitente assolto e gli comminava una penitenza (blanda per le abitudini catare anche se più seve­ra di molte penitenze attuali: tre giorni di digiuno a pane ed acqua, cento genuflessioni e qualche preghiera); Doinel fece dell' Appareillamentum un sacramento assai più solen­ne amministrato a porte chiuse dal Patriarca a un fedele gnostico che doveva avere già ricevuto almeno una volta il Consolamentum e avere rivolto a "Sua Grazia" una do­manda scritta approvata dal suo vescovo o sophia. Venuto il giorno stabilito, il candidato si inginocchiava davanti al patriarca dichiarando:

 

 

Vengo qui, di fronte allo Pneuma Agion, a dichiararmi colpe­vole e decaduto come mia madre Sophia Achamoth, a rinuncia­re alle opere dei Demiurgo, e a domandare il perdono dei santi Eoni tramite voi, Vostra Grazia.

 

 

Il Patriarca imponeva le mani al candidato con la for­mula - che non potrebbe essere più tipica della Chiesa Gnostica:

 

 

Remittuntur tibi peccata tua, quae sunt peccata mundi. Amen.

 

 

In seguito stendeva il pallio sopra il capo del fedele, di­cendo:

 

 

Ricordatevi, Nostra Signora Sophia, Nostra Signora Spirito Santo, Nostra Signora Hédoné, del vostro servo (della vostra ser­va), che rinuncia al Demiurgo, ai suoi pensieri e alle sue opere. Dategli (datele) un Eone protettore che non lo (la) abbandoni mai. Amen.

 

 

Prendeva poi le mani del candidato, quindi le lasciava dicendo:

 

 

Gli Eoni leghino nel Pleroma ciò che io lego in questo terzo mondo del Kenoma e del vuoto; che Elena-Ennoia, che Hédoné, che Sophia vi assistano e siano con voi. Ricevete il bacio mistico.

 

 

Quindi il Patriarca deponeva sulla fronte del candidato due baci in forma di Tau, e la cerimonia terminava. Il si­gnificato dell'Appareillamentum nei primordi della Chiesa Gnostica non era completamente chiaro; ben presto, lo si equiparò al sacramento cattolico dell'ordine, e si affermò senz'altro che "si tratta della consacrazione sacerdotale".

La consacrazione episcopale diventava così una variante dell'Appareillamentum. Il futuro vescovo doveva risponde­re affermativamente a tre domande:

 

 

Credete alla Santissima Gnosi? Accettate i due dogmi fonda­mentali della Santissima Gnosi? Accettate l'elezione e le cariche che porta con sé?

 

 

Il Patriarca o i vescovi che lo consacravano gli impone­vano le mani e lo ungevano sulla fronte dicendo: "Pleroma te sanctificet", sulle labbra dicendo: "Pleroma te amplifi­cet", e infine sul cuore dicendo: "Pleroma te magnificet", Dopo altri gesti rituali - non troppo dissimili dalle consa­crazioni episcopali cattoliche - il nuovo vescovo giurava:

 

Giuro tra le mani di Vostra Grazia e delle Vostre Signorie, sul nome temuto del Santissimo Pleroma, di occupare fedelmente la mia carica di vescovo di N. Che Sophia e che tutti gli Eoni mi siano di aiuto!

 

 

Veniva quindi proclamato vescovo della sua nuova dio­cesi.

Il terzo sacramento di Doinel era l'Eucaristia, officiata dal vescovo, o in sua assenza - come accennato - dal diacono o dalla diaconessa. Dopò il cantico "Beati vos Eo­nes", la lettura del prologo del Vangelo di Giovanni e il Pater in greco (un'apertura di cerimonia parallela al Con­solamentum), il celebrante procedeva alla consacrazione, variante di quella cattolica:

 

 

Eon Jesus, priusquam pateretur mystice, accepit panem et vi­num in sanctas manus suas et, elevatis oculis ad coelum, fregit (rompeva il pane), benedixit (formava il Tau sulla coppa e sul pane) et dedit discipulis suis, dicens (tutti gli assistenti si proster­navano): Accipite et manducate et bibite omnes.

 

 

Presentava quindi all'assemblea "to soma Pneumatikon tou Christou" (il "corpo Pneumatico del Cristo") e "to ai­ma Pneumatikon tou Christou" (il "sangue Pneumatico del Cristo"). La comunione veniva quindi distribuita e quanto rimaneva del pane veniva bruciato. Come nel Con­solamentum, il celebrante dava la benedizione gnostica e si ritirava; il coro cantava un lungo cantico dovuto a Doinel (che, come sappiamo, era anche poeta):

 

 

Salut, salut royaume D'éternelle clarté. Salut, salut Pléròme De la Divinité!

Abime, ò mer immense où se meut la substance; Mystère de Silence, D'Amour et de beauté!.

 

 

Con il passare del tempo si parlerà di cinque sacramenti, aggiungendo un battesimo d'acqua, amministrato agli ado­lescenti verso i dieci anni d'età, e un "ministero delle un­zioni Pneumatiche" (versione gnostica dell'unzione degli infermi): ma i tre sacramenti di Doinel rimarranno cen­trali nelle Chiese gnostiche fino ai giorni nostri.

Doinel era così riuscito a creare una struttura di società iniziatica di intonazione massonica, un rituale cataro e una mitologia gnostica. Si comprende come gli specialisti di gnosticismo antico rimangano perplessi - quando non di­sgustati - di fronte a questo disinvolto bricolage storico. Ma rimasero invece entusiasti gli occultisti della fine del se­colo, che considerarono la Chiesa Gnostica un complemen­to necessario alle loro attività, tanto che si può dire che non vi è personaggio di rilievo nella rinascita occulta del tardo Ottocento che non ne abbia fatto parte. Prima di fa­re cenno a qualcuno di questi personaggi, ci è tuttavia ne­cessario ritornare alle vicende personali di Jules Doinel.

 

 

Il dopo-Doinel in Francia

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Nel 1895 Doinel torna clamorosamente al cristianesimo. Ma poi sembra ripensarci, e fino alla morte, nel 1902 conduce una vita ambigua, come vescovo gnostico e frequentante delle messe cattoliche.

Nel 1895 la chiesa ha un nuovo patriarca, des Essarts. Cambia nome in Chiesa Gnostica Francese. Fino al 1917 si espanderà in Europa. Nel 1908 Guenon, espulso da Papus dall'ordine martinista e nel 1909 diventa vescovo gnostico e crea una prestigiosa rivista della chiesa, La Gnose. Bricaud, uno dei vescovi nominati da des Essarts, tenta di fondere la Chiesa Gnostica con la Religione del Carmelo di Vintras e la Chiesa Gioannita, ma è sconfessato. Allora si dichiarò patriarca di una Chiesa Gnosica Universale. Dopo il 1912 la Chiesa Gnostica conosce un periodo di decadenza, aggravato dalla morte di des Essarts nel 1917. Genty, il nuovo patriarca, nel 1932, ritenendo che la Chiesa Gnostica avesse esaurito il suo compito la mise "in sonno" nel 1932. Un certo numero di vescovi continuarono le attività, fino alla riunificazione con la branca di Bricaud nel 1960.

Bricaud aveva riformato i riti. Molti massoni all'estero e in Francia lo seguirono. Furono create "nunziature gnostiche" con legati gnostici in varie parti del mondo. Theodor Reuss, figura importante, era legatgo per la svizzera. Per l'italia era Eduardo Frosini, Gran Maestro di un rito massonico di Francia, il Rito Filosofico Italiano. e risale agli anni intorno al 1912  la diffusione della chiesa gnostica in Italia, soprattutto con un bricaudiano, Vincenzo Soro, col nome di Tau Marsilio. Alla morte di Bricaud nel 1934, un suo collaboratore, Chevillon, divenne il uso successore alla guida dei vari ordini occulti che Bricaud dirigeva: una branca del rito di Memphis e Misaraim, l'ordine martinista, l'ordine cabalistico della rosa croce e infine la chiesa gnostica. Al momento della successione di Bricaud, nel mondo delle piccole chiese era stata creata da harvey Spencer Lewis l'AMORC (Antico e mistico ordine della rosa croce, il primo movimento magico di massa che aveva corsi per corrispondenza cui affiancava un'attività più tradizionale tramite centri e sedi e aveva raccolto decine di migliaia di aderenti. Nel frattempo un vescovo di Bricaud, Menard. crea una effimera Chiesa Gnostica Kuldea. Dopo la tragica more di Chevillon nel 1946 ad opera dei nazisti, seguì un periodo turbolento. Nel 1948 si presentava come patriarca  Herni-Charles Dupont. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si vociferava di uno scisma animato da Constant Constantin. Costui sarebbe alle origini della fioritura della Chiesa Gnostica d'Italia con a consacrazione di Mario de Conca (1901-1970). De Conca aveva contatti con Bricaud e seguiva i suoi insegnamenti dal 1925 e desiderava diventare vescovo per l'Italia, come divenne. La Chiesa gnostica italiana sarebbe stata fondata da De Conca e un cenacolo di massoni esoterici, di cui uno sarebbe diventato Gran Maestro, e che rappresentavano il fior fiore del mondo massonico italiano del dopoguerra. La Chiesa Gnostica d'Italia cessò nel 1955; i sui principali esponenti erano ormai impegnati in attività massoniche di primo piano. De Conca aderì alla Chiesa Vecchio-Cattolica di Utrecht.

In Francia Robert Ambelani (n. 1917) era riuscito a riunificare i due rami dell'ordine martinista alla more di Papus. Nel 1960 cercò di farlo per le chiese gnostiche. Nel 1960 divenne patriarca della Chiesa Gnostica Universale e la mise in sonno facendola confluire nella sua Chiesa Gnostica Apostolica, fondata nel 1958. Nel 1967 la abbandona e lascia a André Mauer. La chiesa prosegue con vari patriarchi fino al 1983 quando l'ultimo patriarca rifiuterà di considerarsi tale e stabilirà l'autocefalia delle varie chiese nazionali. Cessava così di esistere come realtà nazionale la Chiesa Gnostica Apostolica. Ambelain negli anni successivi si è andato distaccando dagli interessi gnostici, pur mantenendo una popolarità come scrittore di cose esoteriche e massone. La Chiesa Gnostica di Doinel non esiste più ma esistono vari vescovi gnostici attivi

 

 

La Chiesa Gnostica Cattolica

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Una parte importante dell'occultismo contemporaneo, sulla scia di Cagliostro, persegue il sogno di un "corpo di gloria" che dovrebbe garantire l'immortalità e che può essere "costruito" durante la propria vita mortale attraverso tecniche magiche che utilizzano in gran parte l'energia sessuale. Questa tradizione occulta, per molti aspetti diversa da quella in cui si era formato Doinel, ha portato alla creazione di una "Chiesa Cattolica Gnostica".

Nonostante il suo nome, l'"Ecclesia Gnostica Catholica" non potreb­be essere meno cattolica. Le sue origini risalgono alla nomina come "le­gato gnostico" per la Germania della Chiesa Gnostica francese di un personaggio che abbiamo già incontrato, Theodor Reuss. Attraverso Reuss, una successione gnostica di origine francese passò a tutta una serie di occultisti interessati alla magia sessuale, fra cui Aleister Crow­ley, che sarebbe stato consacrato vescovo gnostico da Reuss verso il 1912 (ma l'evento e la data sono molto dubbi, così come incerta è la data della stessa consacrazione come vescovo gnostico di Reuss, per­manendo così il dubbio se questa - di cui autore fu, si dice, Papus - sia avvenuta prima o dopo la consacrazione "valida" di Bricaud da parte di Gìraud)." Quello che è certo è che nel 1913 - sembra mentre si tro­vava a Mosca come impresario di una compagnia di ballerine - Crow­ley preparò la sua "revisione" della messa gnostica, diffondendone la celebrazione nell'ambito dell'Ordo Templi Orientis (O.T.O), una orga­nizzazione di magia cerimoniale che in quanto tale, e nonostante il ri­ferimento "templare", verrà esaminata nel prossimo capitolo. Intorno alla nuova messa nasceva una "Chiesa Gnostica Cattolica" il cui epi­scopato riposava sulla consacrazione di diversi occultisti da parte di Reuss. Anzi, di "chiese gnostiche cattoliche" ne nascevano parecchie perché a ciascuno degli scismi successivi dell'O.T.O. veniva a corrispon­dere una rispettiva "chiesa gnostica". Una linea "europea" di succes­sione gnostica comprende Ernst Tristan Kurtzahn, E. Christian M. Peithmann (1865 o 1868-1943), Arnoldo Krumm-Heller (di cui abbiamo parlato a proposito della Fraternitas Rosicruciana Antiqua, che fu il successore gnostico di Peithmann) - tutti amici di Reuss e tutti interessati alla magia sessuale - e i successori di Krumm-Heller: Herbert Fritsche e quindi Herman Joseph Metzger, che ha continuato a cele­brare la messa gnostica in Svizzera negli ultimi trent'anni senza inter­ruzioni. In questa linea (nota in particolare grazie agli studi di P.R. Kò­nig) si nega che Crowley sia mai stato consacrato come vescovo gnosti­co. Ma in ogni caso molti O.T.O. che derivano da Crowley allegano an­che una successione episcopale gnostica; e alcuni se la sono effettiva­mente procurata in via autonoma nel mondo delle "piccole chiese". Così all'interno dell'attuale O.T.O. detto "del Califfato" - di cui parleremo - funziona una Chiesa Cattolica Gnostica che riposerebbe su una suc­cessione da Crowley a G.L. McMurtry parallela alla successione nel­l'O.T.O. su cui sono stati sollevati molti dubbi. L'attuale "Califfo", Bill Breeze, ha apportato nell'O.T.O. anche una linea di successione che de­riva indirettamente (tramite Jack B. Hogg, che lo ha consacrato vesco­vo nel 1974) dal leader del maggiore concorrente del Califfato nella pre­tesa alla successione di Crowley, il già citato Michael Bertiaux. Que­st'ultimo, nato nel 1930, è stato consacrato nel 1967 da Marc A. Lully lungo una linea che deriva da Lowell Paul Wadle, la cui consacrazione episcopale del 1929 si dice provenisse, tramite i vescovi Samuel Gre­gory Lines e Joseph A. Justin Boyle, dalla figura forse più importante di tutto il movimento delle "piccole chiese", Joseph-René Vilatte. Se­nonché nel passaggio da Wadle a Lully c'è un vescovo intermedio, un discepolo del "figlio magico" di Crowley Charles Stanfeld Jones ("Achad"), W. W. Webb, consacrato da Wadle (secondo Konig, tuttavia, solo "diacono" e non vescovo) e consacratore di Lully nel 1967; e Webb effettuava consacrazioni episcopali "per posta", della cui validità du­bitano anche gli specialisti di "piccole chiese" meno esigenti. Se ne è concluso che, se la consacrazione di Lully è stata "postale", nessun va­lido episcopato è pervenuto a Bertiaux e quindi neppure a Hogg (che Bertiaux ha consacrato nel 1971) e da Hogg a Breeze. Ma non è neces­sariamente così, perché Bertiaux non è stato consacrato solo da Lully ma (secondo le abitudini comuni delle "piccole chiese") si è fatto con­sacrare vescovo (almeno) otto volte, raccogliendo altrettante filiazioni episcopali nella speranza che almeno una fosse valida. Una di queste - parallela a una delle sue filiazioni nell'O.T.O. - è pervenuta a Ber­tiaux nel 1966 da Hector-François Jean-Maine, figlio e successore del­I'esoterista haitiano Lucien-François Jean-Maine (1869-1960), che già combinava gnosticismo e vudù e che si proclamava patriarca di una Ecclesia Gnostica Spiritualis vantando una consacrazione da Bricaud. Ma soprattutto Bertiaux ha affermato - in uno scritto in cui pare si riferisca alla successione Wadle-Webb-Lully - che la successione sto­rica nella sua chiesa gnostica "non è considerata importante né ci cre­diamo perché la successione apostolica è un mito dal punto di vista oc­culto. E il mito dei Dodici Segni dello Zodiaco". Molto più importante sarebbe la successione "zotiriana" che - dopo quella di Doinel - è la seconda successione "spiritica" o "astrale" nella nostra storia. Sy­nesius (come sappiamo Fabre des Essarts, consacrato da Doinel) nel 1899, nella sua qualità di patriarca anche di una Chiesa Gnostica Albi­gese Spagnola, avrebbe consacrato a Parigi come vescovo "Tau Zothy­rius, un'entità astrale". Lo spirito Zothyrius sarebbe rimasto primate della Chiesa Gnostica Albigese Spagnola (e anche - risolvendo altri pro­blemi di successione - ierofante segreto del Memphis-Misraim) fino al 1942, anno in cui, conclusa la sua missione, avrebbe "passato la sua autorità" a Bertìaux." Qualunque sia la sua successione, Bertiaux ha consacrato numerosi vescovi gnostici e risalgono a lui e al suo collabo­ratore spagnolo Manuel Lamparter anche gli episcopati della Ecclesia Gnostica Catholica Latina trasmessi in Italia a Nevio Viola e da questi a Roberto Negrini all'interno di una serie di successioni che ritrovere mo nell'O.T.O. (versione Bertiaux) italiano. Negrini, che non dìsde a i riferimenti "satanici", si presenta così come "Patriarca Italico Luci­feriano dell'Ecclesia Gnostica Latina" (riformata nel 1989 come Eccle­sia Gnostica Sideralis) ed è in contatto con realtà consimili di linea Ber­tiaux che esistono in altri paesi, in concorrenza con la Chiesa Gnostica Cattolica che fa capo al "Califfato" di Breeze. Una "messa gnostica" si celebra anche in varie branche della Fraternitas Rosicruciana Anti­qua di Krumm-Heller, in stretto collegamento con una magia sessuale basata sia sulla ritenzione del seme che sulla sua ingestione, e su una forma di orgasmo magico. Si trovano qui le origini di numerose chiese gnostiche sudamericane quasi tutte discendenti da Krumm-Heller. Ag­giungiamo che in certi ambienti dell'O.T.O.la trasmissione dell'episco­pato gnostico non è sempre soltanto una cerimonia rituale: talora si parla di "trasmissione fisica" dei poteri episcopali collegata alla "tra­smissione" dell'XI grado dell'O.T.O., che è il gra­do della magia omosessuale (maschile). Sono poche le branche del­l'O.T.O. che prendono sul serio il collegamento tra XI grado e trasmis­sione dell'episcopato: ma - quando questo avviene - non vi è da stu­pirsi se alla dignità episcopale qualche candidato abbia preferito ri­nunciare, protestandosi umilmente indegno.

Senza entrare nelle differenze liturgiche fra le varie filiazioni della Chiesa Gnostica Cattolica, in questa sede sarà sufficiente qualche cen­no al rituale di Crowley, che permetterà di apprezzarne le diversità ri­spetto al neo-gnosticismo di origine francese. La messa della Chiesa Gnostica Cattolica è certamente una celebrazione delle idee di Aleister Crowleye della sua persona, nonché un'allegoria dell'atto sessuale, l'at­to magico per eccellenza. La cerimonia richiede un sacerdote e una sa­cerdotessa e contiene scarsi riferimenti a Gesù Cristo (alla consacra­zione si parla del corpo e del sangue "di Dìo"). Il canone ha una lunga enumerazione di santi che ricorda la messa cattolica tradizionale ma riserva qualche sorpresa perché comprende ogni sorta di personaggi: divinità come Krishna e Priapo; eroi come Ercole, Ulisse, Merlino, Ar­tù, Parsifal; poeti come Catullo e Rabelais; gnostici antichi come Si­mon Mago, Basilide, Valentino; personaggi storici come Carlo Magno; occultisti, artisti e filosofi da Francesco Bacone a Richard Wagner, da Goethe a Nietzsche, da Paracelso a Eliphas Lévi e Papus. Crowley non dimentica fra i santi del canone sir Richard Burton - l'avventuroso viaggiatore inglese che era stato l'eroe della sua giovinezza -, Theo­dor Reuss e finalmente ... se stesso. La messa gnostica di Crowley può essere letta - e, del resto, è celebrata - a vari livelli. Il rituale preve­de che la sacerdotessa "deponga la sua veste", che il sacerdote rechi una lancia e la sacerdotessa una coppa rituale, che si celebri una comunione sotto forma di "pane" e "vino". Benché anche una prima let­tura del testo renda chiaro che si tratta di una rappresentazione del­l'atto sessuale (non priva di baci e abbracci "rìtuali"), in pratica la rap­presentazione può essere più o meno simbolica. Si sa infatti dagli scritti di Crowley che la "lancia" e la "coppa del Graal" simboleggiano rispet­tivamente gli organi sessuali dell'uomo e della donna, e che il "vino" può anche consistere - secondo le istruzioni segrete dell'O.T.O. - in un "elisir" composto da sperma e da secrezioni femminili (sostituite in certe circostanze dal sangue mestruale). Sembra peraltro che la via dell'"alchimia interna" fosse pervenuta a Reuss già prima di Crowley, tramite il suo contatto con Peithmann (che era stato parroco luterano nel South Dakota e aveva frequentato ambienti legati a Randolph) ov­vero tramite un contatto con ambienti della Kvmris di Bruxelles (che anche Crowley conosceva), la già citata derivazione belga del Gruppo Indipendente di Studi Esoterici di Papus, dove il già citato Le Clement de Saint-Mare interpretava l'Eucaristia come rito di magia sessuale (co­me spiega nel suo L'Eucharistie, pubblicato ad Anversa nel 1928). Ne­gli ambienti crowleyani coesistono peraltro messe gnostiche interamen­te simboliche e allegoriche - in cui si allude all'atto sessuale, ma non lo si pratica - con cerimonie che forniscono semplicemente un conte­sto rituale alle pratiche di magia sessuale. In questo secondo caso sem­brerebbe di trovarsi molto lontani non solo dalla Chiesa Gnostica di Doinel, ma anche dagli gnostici antichi. La distanza con questi ultimi, forse, è tuttavia meno grande di quanto si creda se si ricorda che - come scrive uno specialista della gnosi antica, Jean Doresse - già pres­so gli gnostici dei primi secoli si incontrava una celebrazione rituale dell'unione erotica come negazione della polarità sessuale, segno e sim­bolo del principio della individuazione e della divisione dell'Uno origi­nario. Non solo: secondo Doresse, talora "l'assoluto rifiuto della pro­creazione trasformava l'aborto in un rito che si concludeva con la con­sumazione del feto da parte degli iniziati"; e "non sussiste alcun dub­bio" - non troppo lontani da Crowley - anche sull'"utilizzazione del­lo sperma e dei mestrui per strane comunioni"."

 

 

Il significato delle Ecclesiae Gnosticae Catholicae

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Le EGC (Ecclesiae Gnostichae Catholicae) e la tradizione crowleyana non pos­sono essere passate sotto silenzio per più di una ragione.

Anzitutto, Aleister Crowley - come Cagliostro - è una figura chiave nella storia dei nuovi movimenti magici. La sua influenza si esercita su numerosi movimenti contempo­ranei (anche se certamente non su tutti), compresi ordini e gruppi magici che moltiplicano le dichiarazioni di ostilità nei suoi confronti. Come Cagliostro, Aleister Crowley ha mostrato una capacità creativa sul piano della sintesi ma soprattutto ha avuto un ruolo di rilievo nella storia della magia perché ha raccolto temi e spunti da un gran numero di fonti diverse ordinandoli e divulgandoli. Crowley, così, si è conquistato un'influenza che va al di là dell'ambito de­gli occultisti di professione. Lo troviamo raffigurato dai Beatles fra le "persone che ci piacciono" sulla copertina del famoso album Sgt. Pepper; lo troviamo citato da musi­cisti rock come Ozzy Osbourne, David Bowie, Jimmy Pa­ge, Sting; e tutto un ambiente di "controcultura" giovanile fa del mago inglese - magari senza averne letto i pondero­si scritti - uno dei suoi eroi mitologici. 102 Chiunque vorrà scrivere la storia dei nuovi movimenti magici del nostro se­colo non potrà prescindere da Crowley e dalla sua "messa gnostica" .

In secondo luogo, è dalle EGC che passa, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la corrente latino-americana del nuovo gnosticismo, che origina da Krumm-Heller e che conta un numero di seguaci anche quantitativamente rile­vante.

Infine - ed è questo, forse, il punto più importante - nella specifica corrente magica che si manifesta nelle EGC si rivela uno dei tratti più importanti, e più inquietanti, del ritorno dello gnosticismo: l'identificazione, muovendo dal­la distinzione fra corpo e materia, fra la "luce" e l'energia sessuale dell'uomo, che opportunamente utilizzata dovreb­be permettere all'uomo di diventare Dio e di conquistare l'immortalità. È un tratto, come abbiamo visto, che carat­terizzava già alcune scuole dello gnosticismo antico, e che non può essere trascurato in qualunque comparazione fra gnosticismo dell'antichità e nuovo gnosticismo dei giorni nostri. Molte delle pratiche che abbiamo descritto meritano certamente la condanna più severa sul piano della morale e della semplice decenza, valori oggi trascurati e disprezzati ma che un cattolico non può rinunciare a tenere costante­mente presenti. Ancora più grave, tuttavia, è il peccato ra­dicale - il peccato contro lo Spirito Santo - che consiste nella pretesa di salvarsi da soli mediante una tecnica, prete­sa che sta al cuore di quanto la Chiesa Cattolica ha sempre rimproverato ad ogni gnosticismo, vecchio o nuovo, e che in questo tipo di accostamento al nuovo gnosticismo si ri­vela in modo particolarmente evidente.

 

 

Ordine del Pleroma - Ecclesia Gnostica - Ecclesia Gnostica Mysterorum

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Una ulteriore branca del movimento neo-gnostico ha il suo centro in California ed è stata notevolmente influenzata dalle teorie di Jung. Si t~atta della branca più "colta" del neo-gnosticismo, e nelle sue liturgie SI nota uno sforzo di recuperare testi della gnosi antica con una certa precisione filologica, insieme a richiami espliciti alla teoria junghiana degli archetipi e alla psicologia transpersonale. Le origini del movimen­to risalgono peraltro all'Inghilterra, e la successione apostolica dei suoi vescovi non deriva dalla linea Doinel-Bricaud, né da Reuss, ma da una nota figura del movimento delle "piccole chiese", Hugh George de Will­mott Newman (1905-1979), che aveva ricevuto un gran numero di con­sacrazioni episcopali unendo nella sua persona varie linee di succes­sione del mondo dei "vescovi vaganti". Nel 1953 Newman (o, secondo altri, un vescovo da lui consacrato, Robert Marie Gustav Lutgen) con­sacrò in Inghilterra Ronald Powell, una figura pittoresca nota nel mon­do delle "piccole chiese" con il nome di "Richard, Due de Palatine", che affermava di essere stato iniziato in Italia da misteriosi "Fratres Lucis" e che divenne il fondatore di un ordine gnostico, l'Ordine del Pleroma, e di una collegata "Chiesa Pre-Nicena", entrambi fortemente influenzati anche dalla Teosofia e dalla Chiesa Cattolica Liberale di im­pronta teosofica.

Nel 1959 de Palatine nominò suo rappresentante in America Stephan A. Hoeller e nel 1967 lo consacrò vescovo. Come av­viene normalmente nel mondo delle "piccole chiese", Hoeller si assi­curò successivamente anche altre consacrazioni episcopali e, dopo la morte di de Palatine, si separò dai successori da lui nominati dando vita a una Ecclesia Gnostica indipendente a Los Angeles. Mentre l'or­ganizzazione di de Palatine ha proseguito la sua esistenza con sedi a Londra e a Canoga Park (California) sotto la guida successiva di John Martyn-Baxter e George Ricci, Hoeller si è costruito una fama di scrit­tore rispettato nella comunità esoterico-occultistica.

Hoeller difende il movimento delle "piccole chiese" ammettendo da una parte che un gran numero di "vescovi vaganti" sono "semplicemente persone che nessuno vorrebbe invitare a cena", ma sostenendo dall'altra che "l'in­degnità di molti non deve rendere ciechi di fronte al potenziale che ri­mane in alcuni" attraverso cui l'occultismo può penetrare nel cuore stesso della successione apostolica cattolica. E Hoeller ha sottolinea­to anche l'importanza delle chiese gnostiche (comprese quelle di tradi­zione francese la cui eredità rivendica apertamente) per l'affermazio­ne di un "principio femminile" nel cristianesimo e in questa chiave ha consacrato nel 1981 Rosa Miller come vescovo di una Ecclesia Gnosti­ca Mysteriorum di Palo Alto (California), fondata per la verità già pri­ma del contatto con Hoeller.

Nel 1983 Rosa Miller si è separata dalla Ecclesia Gnostica di Hoeller dichiarando autonoma la sua organizza­zione che ha un forte orientamento femminista e che non si considera più tecnicamente cristiana, utilizzando diverse "mitologie" e visioni del mondo ordinate intorno all'idea della gnosi come liberazìone da ogni dottrina o sistema "chiuso". Rosa Miller – in aggiunta all'episcopato ricevuto da Hoeller (peraltro comunque invalido, e non solo illecito, se­condo i criteri cattolici che, come si è accennato, richiedono necessa­riamente per la validità che il consacrato sia di sesso maschile) – pro­clama di essere in possesso di una consacrazione segreta ricevuta da una linea ininterrotta e clandestina, aperta solo alle donne, che origi­na da Maria Maddalena (a sua volta iniziata in una scuola misterica di Iside in Egitto prima ancora di essere consacrata da. Gesù Cristo. Il Sacro Ordine di Maria Maddalena sarebbe, in linea di principio, ri­servato solo alle donne ma la stessa Rosa Miller lo avrebbe, per la pri­ma volta esteso agli uomini. La Miller ha riscritto i rituali – sulla ba­se assicura, di quelli millenari del Sacro Ordine di Maria Maddalena – con un occhio a Jung e al New Age.

"Gli Gnostici – ha scritto – sono un paradosso. Non abbiamo nessuna credenza, ma siamo profon­damente attaccati al principio che ci anima. Esitiamo a chiamarlo Dio per tutto il dogma e la teologia che la parola implica. Non si potrà mai spiegare che cos'è. Non appena diventa un concetto, muores.P Qua~­to alle due figure archetipe dell'ordine e alloro incontro, Gesù e Maria Maddalena "non potremo mai totalmente accertare la veridicità di que­sta storia· ~a la sua verità mitologica e archetipa rimane, che si tratti di fatti storicamente avvenuti o no". Il femminismo junghiano di Ro­sa Miller sembra molto lontano da Crowley, che non era precisamente un precursore delle femministe. Tuttavia le interazioni fra movimenti magici sono sempre più complicate di quanto appaia a prima vista: tra le chiese gnostiche europee, il gruppo di Rosa Miller afferma di consi­derare genuina quella che fa capo a Manuel Lamparter (consacrato ve­scovo del resto, dalla stessa Miller e che abbiamo incontrato nella Fra­ternitas Rosicruciana Antiqua), legato all'O.T.O. di Bertiaux e alle sue attività in Spagna. Lamparter celebra due tipi di "messa gnostica" che hanno al centro due diversi rituali di magia sessuale: nel primo l'elisir è ottenuto mescolando agli altri elementi nel calice il seme maschile ottenuto mediante un atto "liturgico" di magia autosessuale; nel secon­do un sacerdote e una sacerdotessa si congiungono durante la messa e "condividono" le rispettive secrezioni mediante un bacio ("bacio sa­cro", tecnica che peraltro - secondo alcune fonti - risalirebbe all'am­biente di Randolph e sarebbe stata nota nelle cerchie di Hargrave Jen­nings e di S.V. Zanne).

 

 

Le chiese gnostiche oggi

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Tra i due poli rappresentati dalle Chiese gnostiche della linea originaria di Doinel e dalle Ecclesiae Gnosticae Ca­tholicae non sono mai mancati tentativi di collaborazione, come abbiamo visto nel caso dei rapporti fra Bricaud e Reuss. Le Chiese gnostiche contemporanee rappresentano spesso nuovi tentativi di sintesi fra le due tradizioni, consa­pevoli dell'eredità rituale di Doinel, affezionate - salvo rare eccezioni - alle pretese di "successione apostolica", ma insieme con qualche interesse anche per l'alchimia "in­terna". In un mondo sempre più dominato dai mezzi di co­municazione di massa e dalla divulgazione - anche in campo esoterico - il dibattito, spesso, non è tanto fra l'e­redità di Doinel e quella di Reuss, ma fra chi desidera in qualche modo rendere pubblica l'esistenza delle Chiese gnostiche per cercare più facilmente nuovi adepti, special­mente fra i giovani, e chi insiste sul loro carattere tradizio­nalmente riservato ed elitario. Esamineremo le principali correnti che continuano le attività nel mondo contempora­neo delle Chiese gnostiche ordinandole, appunto, secondo le soluzioni date al problema dell'esoterismo e della divul­gazione, partendo dai circoli piuttosto chiusi di Francesco Brunelli per arrivare alla propaganda aperta e pubblica di Samael Aun Weor. Daremo qualche cenno soprattutto su alcune figure centrali di vescovi o patriarchi gnostici che hanno segnato, con la loro personalità, la storia delle Chie­se del nuovo gnosticismo negli ultimi decenni.

 

 

Francesco Brunelli e la Chiesa Gnostica Italiana

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Francesco Brunelli (1927-1982), medico a Perugia, è sta­to forse la figura più importante nel mondo dei nuovi mo­vimenti magici in Italia nel secondo dopoguerra. Tra i pro­tagonisti della rinascita massonica a Perugia dopo il perio­do fascista, Brunelli partecipò inizialmente alle iniziative martiniste e massoniche "di frangia" di Gastone Ventura (1906-1981). Più tardi - come scriveva in una lettera del 21 ottobre 1975 ad Ambrogio Gerosa, un'altra figura im­portante nel mondo delle massonerie "di frangia" - si convinse che le trasmissioni di cui era in possesso Ventura probabilmente non erano valide, e che del resto Ventura ignorava la parte operativa degli Arcana Arcanorum (di "origine non cagliostrana" secondo Brunelli). "Per queste ragioni - conclude - me ne andai in Francia" dove "le cose sembravano più chiare". 103 In Francia Brunelli entrò in contatto con Robert Ambelain, che abbiamo già incon­trato come vescovo gnostico. A differenza di Ventura - diffidente nei confronti delle Chiese gnostiche, di cui non accettava un collegamento istituzionale né con il Martini­smo né con i riti massonici di Memphis e Misraim - Am­belai n si trovava alla testa contemporaneamente in Francia di tutt'e tre le organizzazioni. Brunelli così, nel 1960, ven­ne consacrato da Ambelain come vescovo gnostico e poté iniziare una Chiesa Gnostica Italiana (ideale erede della Chiesa Gnostica d'Italia di De Conca e Gamberini). Il 28 gennaio 1968 Brunelli ("Franciscus") consacrò l'ex dome­nicano Alberto Galoppini ("Emmanuel"), già vescovo di una Chiesa Cristiana Indipendente. Galoppini consacrò lo stesso giorno, con l'assistenza di Brunelli, Loris Carlesi (e Johannés"), e nel 1969 Luigi Furlotti ("Aloysius"), Quest'ultimo venne eletto primate della Chiesa Gnostica Italiana. Nel 1972 gli successe Carlesi, direttore della rivi­sta fiorentina "Conoscenza". Nel 1978, apparentemente, Carlesi rinunciò alla carica a favore dello stesso Brunelli, che morì nel 1982 dopo avere consacrato vari vescovi gno­stici. Dopo la morte di Brunelli, la Chiesa Gnostica Italiana è continuata in almeno tre filoni diversi. Il successore designato da Brunelli, l'avvocato di Perugia Giacomo Bor­rione, non ha - apparentemente - rinunciato alla carica, ma non ha dato particolare impulso alla Chiesa Gnostica. A Firenze un gruppo di seguaci di Brunelli ha dato vita ai Cenacoli Prometeo, un cui esponente - vescovo gnostico con il nome di Tau Basilio Massimo - non ha mancato di destare sensazione al convegno sulla magia "Il talismano, il mantra, la rosa" organizzato dall'Università di Perugia il 3 marzo 1991 presentandosi - abbigliato con tutte le in­segne episcopali - come patriarca di una "Chiesa Gnosti­ca Apostolica Universale" (una denominazione già usata peraltro anche da Brunelli per identificare la sua Chiesa). È probabile che il maggior numero di seguaci abbia seguito Loris Carlesi, con cui hanno collaborato vescovi gnostici che hanno avuto una certa notorietà nel mondo della So­cietà Teosofica come il torinese Pacifico Manolino (1909- 1991), noto come autore di scritti astrologici. In posizione piuttosto indipendente, fra i vescovi gnostici che si sono conquistati una fama come autori di esoterismo va ricorda­to in Italia anche Mario Bacchiega, di cui Brunelli parla nei suoi scritti con grande rispetto e che aveva già ricevuto una consacrazione di origine francese (da Roger Ménard) nel 1946. Anche alcuni dei rivali di Brunelli nel mondo della massoneria "di frangia" e del Martinismo vantavano con­sacrazioni come vescovi gnostici: fra questi Alfredo Vitali, che dichiarava di avere ricevuto una consacrazione di origi­ne mariavita.

Il sistema di Brunelli - esposto soprattutto nei volumi di istruzione predisposti ad uso interno del suo Ordine martinista - si presenta come una completa pedagogia, in cui una visione del mondo di natura magico-esoterica viene insegnata lungo le tappe di un articolato percorso iniziati­co. Brunelli si è dedicato anche alla revisione dei rituali della Chiesa Gnostica, di cui il più significativo è una "messa gnostica breve" che riprende testi di Doinel (come il cantico Beati Vos Eones) e di Ambelain, ma con modifiche e spunti originali. Si veda il Credo della Messa di Bru­nelli:

 

 

lo credo nella unità del tutto, nel Padre come un'impersonale ineffabile non rivelata Entità che da nessuno è stata mai vista ma la cui forza e potere creativo è stata ed è costituita dal peren­ne ritmo della creazione.

lo credo in Maria, Miryam, Isis o Colei che non ha nome, nel­la forza fisica che simbolizza quel nome la cui concezione e na­scita si rivela nella fertilità della natura.

lo credo nel Paracleto Nostro Signore, lo Spirito Santo, ener­gia infallibile, ineffabile e inesprimibile.

lo credo nel mistero del Demiurgo.

lo credo nella Chiesa superiore, trascendente, conservata nelle anime pure, nella gerarchia rappresentata dalla Fraternità dei Rosa + Croce che ha la sua espressione nella Santa Gnosi, nella sua Chiesa, nei suoi Vescovi e nei suoi Preti. 104

 

 

In questo Credo si vede bene il tentativo di sintesi fra motivi della linea Doinel e motivi della linea Reuss. Il pri­mo e il terzo paragrafo del Credo di Brunelli si ispirano a modelli francesi; il secondo, il quarto e il quinto sono qua­si uguali - con lievi modifiche - al Credo della messa gnostica di Arnoldo Krumm-Heller che abbiamo già avuto occasione di citare. La messa di Brunelli comprende anche un Pater:

 

 

Padre nostro che sei nella profondità degli Eoni

Che il tuo Santo logos sia compreso ed adorato in tutto l'universo

Venga il tuo Santo Effluvio su di noi e ci purifichi Sia fatta la tua volontà in terra come è fatta nei cieli

Dacci oggi il nostro nutrimento spirituale, la forza ed il corag­gio di guadagnare il pane necessario al corpo

Perdonaci le trasgressioni alla tua legge come la nostra assem­blea le perdona nel tuo nome ai peccatori pentiti

Sostienici nella nostra debolezza, affinché non siamo travolti dalle passioni liberaci dai miraggi ingannatori dell' Arconte

Perché noi non abbiamo altri che te, cui appartengono il re­gno, la potenza e la gloria in tutti i secoli e gli Eoni.

 

 

Il Pontificale della Chiesa Gnostica di Brunelli compren­de anche un rituale di guarigione per gli uomini e uno per gli animali. Veniva inoltre fatto circolare un opuscolo - diffuso peraltro anche nell'Ordine martinista di Brunelli - con sette preghiere (<< per la cacciata degli Spiriti Demonia­ci", "per la salvezza degli Spiriti Prevaricatori", "per gli Spiriti Degradati nel regno minerale", "per gli Spiriti De­gradati nel regno vegetale", "per gli Spiriti Degradati nel regno animale", "per la liberazione da un amore degra­dante e pericoloso", "contro gli Spiriti Cattivi nel caso di ossessione mentale e di terrore di origine psichica"); due benedizioni ("del Sale" e "del Fuoco per la Cremazione"); un "esorcismo generico" contro "fascinazioni, incanta­menti, sortilegi, malefizi, illusioni, possessioni, ossessioni e contro le azioni nascoste di streghe, maghi neri, avversità, rovesci, periodi di sfortuna, malattie ed in genere ogni di­sgrazia" ed esorcismi specifici "contro incubi e succubi", "contro i Morti pericolosi: vampiri, larve ecc.". 106 Ci tro­viamo qui, in gran parte, all'interno di uno stile tipico delle "piccole Chiese" e dei "vescovi vaganti", tradizionalmen­te attentissimi agli esorcismi e alle benedizioni, raccolte in particolare dall'"Abbé Julio" (Julien-Ernest Houssay, che abbiamo incontrato nella linea di "successione apostolica" che porta a Bricaud e di cui Ambelain ha scritto la biogra­fia) 107 e largamente riprese da vecchi rituali cattolici. Alcu­ne preghiere cadono tuttavia chiaramente al di fuori della tradizione cattolica, come quelle per il "ritorno al Pleroma" degli spiriti caduti "nel seno del Regno Animale", "Vegetale" o "Minerale". Così per gli Spiriti "caduti nel seno del Regno Minerale" si prega:

 

 

Dio Onnipotente, Eterno Creatore e Conservatore degli Esseri Tutti, ecco che noi Ti preghiamo e Ti supplichiamo per tutti gli Spiriti, caduti e degradati, rinchiusi nel seno della Natura Mine­rale in conseguenza della nostra propria Caduta. A queste Ani­me, come a tutte quelle degli altri Regni, degnati infine, o Signo­re Misericordioso, di accordare la liberazione e il ritorno al Pleroma, alla loro Sizigia iniziale. Per Gesù Cristo nostro Maestro e Signore, e per San Giovanni Suo Servitore. Amen.

 

 

Anche gli "Spiriti Prevaricatori" potranno essere salvati almeno "nella loro sostanza" e ritornare al Pleroma:

 

 

Dio Onnipotente, Rimuneratore Eterno, noi Ti preghiamo e supplichiamo, (fidando) meno nella Tua Giustizia che nella Tua Misericordia, per tutti gli Spiriti che hanno, dall'origine, prevari­cato. Fa' che un raggio della Tua Luce Divina risvegli infine, nel­la loro essenza per un tempo immemorabile, il pentimento dolo­roso e sincero di questo Crimine inespiabile, o Signore Misericor­dioso, affinché nel giorno dell'ultimo Sabato, distrutti nel loro accidente, ma almeno salvati nella loro sostanza, ritornino per sempre nel loro principio e proclamino alfine la Tua Gloria nei secoli dei secoli, o Dio Eterno, Giusto e Forte. Per G.C. nostro Maestro e Signore e per San Giovanni, Suo Servitore. Amen.

 

 

Così le preghiere e gli esorcismi implicano la credenza in tutto un mondo di elementali, spettri, vampiri e simili, che non è del resto estraneo a molte "piccole Chiese". Rispetto a figure - pure in certi ambienti molto popolari - come l'Abbé Julio, in Brunelli vi è tuttavia qualcosa di più di una miscela di occultismo e di esorcismi tradizionali; lo sforzo è sempre quello di collegare l'insegnamento delle pratiche e dei rituali a una pedagogia che trasmette una vi­sione del mondo che vorrebbe essere coerentemente gnosti­ca. Di questo sforzo è fra l'altro testimonianza il lungo Ca­techismo gnostico elaborato da Tau Johannés (Loris Carlesi) sulla base delle idee di Brunelli e di altre fonti, distribui­to agli aderenti alla sua Chiesa gnostica e pubblicato per diversi anni, in lezioni successive, sulla rivista fiorentina "Conoscenza".

Una lezione di questo Catechismo tratta del "mistero del sesso", e accenna alla trasfigurazione della sessualità e alla distinzione - a cui abbiamo più volte fatto cenno - fra corpo e materia:

 

 

In ogni uomo che si risveglia dal suo sonno, in ogni donna che riscopre il suo ruolo, il corpo diventa la via, il sentiero della trasmutazione, della resurrezione, della rigenerazione, e la carne ritorna vergine; la luce non è più prigioniera delle tenebre perché queste saranno da lei rese luminose, il Verbo si esprimerà allora nella sua pienezza così come fu pronunziato all'inizio, e la carne sarà trasfigurata [ ... l Il Verbo è in ognuno dei nostri corpi, operante ancora e sem­pre sui cervelli e sui cuori perché finalmente la carne diventi, non più carne in una costante ripetitività, ma Luce. E perché la donna sia alla grandezza dell'uomo e diventi al­l'uomo sorella e lo risvegli dal suo sogno deviante, il sesso dovrà essere trasfigurato, ossia si dovrà strappare al ciclo della genera­zione animale.

 

 

Brunelli fu fra l'altro rimproverato da Ventura per ave­re adottato rituali provenienti dal "gruppo KVMRIS di Bruxelles", III e sembra che Ventura pensasse che Brunelli avesse avuto i documenti del gruppo di cui faceva parte il discusso cavaliere di Saint-Marcq da Ambrogio Gerosa, con cui lo abbiamo visto in corrispondenza e che aveva nu­merosi contatti nell'ambiente dei movimenti magici del Belgio. In realtà Brunelli era interessato al discorso dell'al­chimia "interna", ma sembra lo conoscesse da fonti diver­se dalla KVMRIS: in particolare dalla tradizione italiana di Giuliano Kremmerz attraverso il kremmerziano Luigi Pe­triccione; alcuni discepoli di Brunelli parlano anche di una trasmissione di conoscenze e di alchimia "interna" non kremmerziana ma passata attraverso non meglio precisati documenti che sarebbero stati in circolazione negli ambien­ti martinisti francesi. È certo che Brunelli, nel complesso delle sue organizzazioni iniziatiche, intendeva per "Arca­no" una "grande opera" di carattere "interno" articolata in una serie di "operazioni" di magia sessuale, distinte in un "Piccolo Arcano" e in un "Grande Arcano" a seconda delle tecniche e dei tempi. Brunelli, peraltro, non disprez­zava neppure le tradizioni delle EGC vicine all'O.T.O. Il 25 novembre 1980 scriveva a un collaboratore di Gianfran­co Perilli (Frank G. Ripel), responsabile di una branca in­dipendente dell'O.T.O. detta della Stella d'Oro, afferman­do che "il mio interesse si estende all'O.T.O. di cui posseg­go i rituali pubblicati in inglese, ed ai corrispondenti gradi Massonici [ ... J. Sotto tale profilo gradirei essere ammesso nei corrispondenti O.T.O. e ricevere gli ulteriori volumi a disposizione dei membri dell'Ordine a cui in tal caso potrei appartenere". Aggiungeva Brunelli: "Debbo naturalmente dire che aderisco in pieno a tutto quanto è sottaciuto nelle frasi chiave citate nella sua". 112 Questa lettera è interessan­te non per fare di Brunelli un membro di un O.T.O. o di una delle EGC (a cui, al contrario, probabilmente egli non appartenne mai), ma per mostrare il suo tentativo consape­vole di sintesi - in chiave elitaria e riservata a piccoli gruppi piuttosto discreti - fra le due diverse tradizioni magiche che avevano dato vita al nuovo gnosticismo. Que­sto atteggiamento è chiaro in un testo che Brunelli poneva al vertice della pedagogia che proponeva, e consegnava sol­tanto ad alcuni discepoli più fedeli, il Liber T. Uno - Sul­l'Operazione sostiziale trasmutatoria, dove parlava di "un rito solare", tutto imperniato su una simbologia della luce, precisando che: mentre nell'Eucaristia si tratta del corpo e del sangue di Cristo, nel rito solare si tratta del corpo e del sangue del Dio in noi. Sia­mo noi stessi che conferiamo agli alimenti i poteri, noi stessi, os­servo, le vittime sacrificali. Tuttavia, ammonisce Brunelli:

 

 

Il rendimento del rito è direttamente proporzionale al proces­so di purificazione che abbiamo attuato. Se filtra la luce del sole ci ciberemo di sole, se filtra ombra, ci ciberemo di ombra. A cia­scuno le sue scelte.

 

 

Dopo avere rinviato al momento della scoperta del "Pic­colo Arcano" la scoperta, nello stesso tempo, della "mate­ria prima da impiegare ab initio con maggiore probabilità di rendimento", Brunelli lascia tuttavia intendere a quale tradizione alchemica intenda fare riferimento quando scrive:

 

 

Tu copulerai con te stesso, così in te nascerà quel bambino che divenuto adulto sarà il tuo essere nuovo. L'uomo nuovo con il corpo di gloria.

 

 

A differenza di Crowley - ma in armonia con una parte della tradizione tantrica - l'occultista italiano ricorda al­l'"operatore" che lo "stato di castità" è "indispensabile per la sua purezza". Soprattutto - al di là delle tecniche e dei tempi - Brunelli, che ha preparato il suo discepolo ad entrare in contatto anche con questa tradizione del nuovo gnosticismo attraverso una pedagogia che prevede un itine­rario pluriennale, mostra lo scopo finale di auto-redenzio­ne e di divinizzazione:

In realtà in questi riti l'uomo, l'iniziato, deve recuperare la sua originaria condizione transumana (o superumana o divina) grazie a se stesso, alla divinità in lui, che deve venire fuori, all'o­ro che è in lui.

Con queste espressioni Brunelli indica chiaramente come la sintesi fra le due linee magiche non possa che passare per l'idea di auto-redenzione, di recupero di una "condizione divina" che l'uomo consegue - comunque - "grazie a se stesso".

 

Il nuovo gnosticismo in California

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Per comprendere lo sviluppo contemporaneo del nuovo gnosticismo in California, dobbiamo ritornare al biologo inglese William Bernard Crow (1895-1976), che abbiamo visto indicato da Crowley come suo possibile successore nella EGC. Ordinato come sacerdote nella Chiesa Cattolica Liberale nel 1935, Crow entrò successivamente in contatto con diverse "piccole Chiese" che intendevano restaurare li­turgie celtiche (è interessante notare che lo stesso Crowley si appassionò a queste rinascite celtiche fin dai suoi anni universitari). Nel 1943 Crow fu consacrato vescovo da Herbert James Monzani Heard (1866-1947), che vantava diverse linee di "successione apostolica" di cui una risalen­te a Vilatte. Nello stesso 1943 Crow venne eletto "Patriar­ca di Antiochia" da quattro "piccole Chiese" che si riuni­rono in un "Concilio di Londra". Negli stessi anni Crow continuava a interessarsi di magia rituale e di occultismo, rimanendo in contatto anche con Crowley. Nel 1944 Crow consacrò come vescovo Hugh George de Willmott New­man (1905-1979), che nella vita profana era segretario ge­nerale in Gran Bretagna dell' Associazione nazionale dei commercianti di biciclette, e che era stato educato nella Chiesa Cattolica Apostolica (impropriamente chiamata "irvingita"), una Chiesa nata nel secolo scorso intorno alla restaurazione per rivelazione di un collegio di dodici apo­stoli. Quando - morto l'ultimo di questi dodici apostoli nel 1901 - il futuro della Chiesa Cattolica Apostolica (che esiste tuttora, ma ridotta a proporzioni modeste) cominciò ad apparire dubbio, Newman iniziò a frequentare il mondo delle "piccole Chiese", di cui doveva diventare un espo­nente molto importante consacrando decine di vescovi fino alla sua morte. Crow e Newman si convinsero che la loro missione consisteva nell'unione "ecumenica" fra diverse "piccole Chiese" per risuscitare l'antica Chiesa britannica, che avrebbe dovuto rappresentare insieme l'equivalente oc­cidentale delle Chiese ortodosse orientali e la nuova Chiesa celtica. Nacque così nel 1944 il Catholicate of the West, con Newman come primo Catholicos. Nel 1953 Newman ordinò sacerdote Ronald Powell (1889-1977), che si faceva chiamare "Richard Due de Palatine" vantando una discen­denza nobiliare tedesca, e asseriva di essere stato nominato in Italia a Firenze "Arconte" di un "Antico e Mistico Or­dine dei Fratres Lucis". Qualche mese dopo l'ordinazione Powell venne consacrato vescovo dallo stesso Newman per la "Chiesa Cattolica Pre-Nicena" che il sedicente "Due de Palatine" aveva fondato. Successivamente Powell cambiò il nome della sua Chiesa in Chiesa Cattolica Gnostica Pre­Nicena, accanto alla quale stabilì una "Fraternità del Pleroma" (originariamente chiamata "Fraternità degli Illumi­nati") per diffondere gli "insegnamenti segreti dello gnosticìsmo a.!" Lo scopo della Chiesa Cattolica Gnostica Pre-Nicena - secondo la sua rivista "The Lucis Magazi­ne" - consisteva nel "coordinare il Cristianesimo masso­nico, teosofico, rosicruciano, ermetico, spiritista, alchemi­co, del New Thought, delle guarigioni, mistico, gnostico ed esoterico, le verità implicite nella presente religione cristia­na e la loro relazione con le Eterne Verità di Dio". 115 Po­well si mostrava dunque disponibile ad assumere in modo eclettico elementi di varie tradizioni e ordini magici, tutta­via non senza qualche limite: per esempio metteva in guar­dia contro i vari ordini contemporanei che si denominano "Rosa-Croce" in quanto affermava di avere "saputo dalle più alte autorità della Compagnia di Gesù che sono stati i Gesuiti a fabbricare la leggenda dei Rosa-Croce così come la si riferisce normalmente per sviare le menti degli aderen­ti a questi ordini dalla Vera Sorgente".

Come Newman, Powell aveva molti contatti con gli Stati Uniti, dove consacrò diversi vescovi, particolarmente in California. Alcuni di questi vescovi hanno poi seguito car­riere del tutto indipendenti dalla Chiesa Cattolica Gnostica Pre-Nicena come Mikhael Francis Augustine Itkin (1936- 1989), consacrato da Powell nel 1974 (dopo avere già rice­vuto, per la verità, altre consacrazioni), che divenne famo­so come portavoce dei diritti degli omosessuali e anche per essere stato fra i primi "vescovi vaganti" - prima di mori­re di Aids - ad ordinare e a consacrare vescovi delle don­ne. John Martyn Baxter (consacrato nel 1964 e morto nel 1978) e George Augustine Ricci hanno continuato le attivi­tà della Chiesa Gnostica Cattolica Pre-Nicena, insieme a Seiji Y amauchi (che tuttavia ha successivamente lasciato la Chiesa fondata da Powell per porsi sotto la giurisdizione di una delle branche della Chiesa Cattolica Apostolica Bra­siliana, che deriva dallo scisma del vescovo cattolico Carlos Duarte Costa, scomunicato nel 1945 da Roma).

Fra i vescovi consacrati da Powell in California merita di essere menzionato Stephan A. Hoeller, nato a Budapest nel 1931 e ordinato sacerdote nel 1956 da Lowell Paul Wa­dle, che abbiamo visto citato in una delle presunte linee di successione episcopale della EGC legata all'O.T.O. del "Califfato". Hoeller nel 1959 divenne il rappresentante di Powell negli Stati Uniti e nel 1967 a Los Angeles venne consacrato vescovo. Dopo la morte di Powell, Hoeller si separò dalla Chiesa Cattolica Gnostica Pre-Nicena e fondò la Ecclesia Gnostica, parallelamente alla quale opera una Società Gnostica che continua l'organizzazione dello stesso nome fondata dal teosofo James Morgan Pryse negli anni 1920. Hoeller - una personalità piuttosto nota negli am­bienti teosofici americani - si è reso noto per le sue pub­blicazioni su Jung e in particolare sui VII Sermones ad Mortuos, 117 in cui mette in luce le affinità fra Jung e lo gnosticismo antico. Con queste pubblicazioni Hoeller _ che ha compiuto studi universitari a Innsbruck prima di trasferirsi negli Stati Uniti - si è segnalato come uno dei "vescovi vaganti" americani più preparati dal punto di vi­sta culturale.

Una visita alla sua Ecclesia Gnostica di Los Angeles col­pisce per l'abbondanza di riferimenti a Jung nella letteratu­ra che viene diffusa, nei sermoni e anche nelle liturgie. Benché Hoeller abbia difeso l'importanza di una "messa gnostica", si ha l'impressione che la sua Chiesa privilegi le conferenze e le attività culturali ispirate a Jung rispetto al­l'occulto e alla liturgia.

Un ritorno al primato del rituale - e anche all'occulti­smo - si ritrova a Palo Alto, sempre in California, nella Ecclesia Gnostica Mysteriorum fondata nel 1983 da Rosa­monde ("Rosa") Miller, nata nel 1942 e consacrata nel 1981 da Hoeller (la cui Ecclesia Gnostica ammette sia l'or­dinazione sacerdotale che la consacrazione episcopale delle donne). Rosa Miller dichiara di essere in possesso anche di una successione femminile in un Ordine di Maria Maddale­na. Tre donne di questo Ordine - fondato da Maria Mad­dalena stessa (che, secondo una nota tradizione, sarebbe venuta in Francia con Giuseppe d'Arimatea dopo l'Ascen­sione di Gesù Cristo), e sempre continuato segretamente nella storia - avrebbero consacrato la Miller a Carcasson­ne nel 1962. Nell'incontro di Maria Maddalena e di Gesù Cristo - che sarebbero stati entrambi iniziati in ordini an­tichissimi e pre-cristiani - la Chiesa di Rosa Miller celebra l'incontro fra gli archetipi eterni dell'uomo e della donna, non senza una punta di scetticismo che contrasta con le pretese di continuità storica dell'Ordine di Maria Madda­lena:

 

Esattamente come avviene per la storia del Cristianesimo orto­dosso, e per gran parte della storia in generale, non potremo mai accertare totalmente la veridicità di questi fatti; tuttavia la loro verità mitologica e archetipica rimane, che siano accaduti storica­mente o no.

 

 

Un atteggiamento simile si ritrova nella Ecclesia Gnosti­ca Mysteriorum a proposito di Dio e delle scritture sacre:

 

 

Le usiamo. La Bibbia, i Vangeli Gnostici, la Bhagavad Gita, e altre fonti diverse. Ma non consideriamo nessuna di esse l'auto­rità finale o la "parola di Dio". Sono le voci di molte anime a differenti livelli di comprensione che esprimono, così come rie­scono, la loro visione di Dio e dell'universo. Molto nelle scritture è bello e valido, ma a mano a mano che riceviamo maggiori in­formazioni sull'evoluzione e sull'universo sorgono nuovi signifi­cati. Non possiamo mantenere alcuna credenza che non sia prov­visoria, perché la nostra conoscenza cresce continuamente. Gli antichi misteri, mentre ci si svelano, rivelano continuamente nuo­vi misteri; pertanto le nostre credenze - se pure ne abbiamo - devono essere fluide.

 

 

Qualche volta ci si chiede quale scuola di pensiero gnostico (di Valentino, Basilide, Marcione, e così via) seguiamo, e come ri­conciliamo alcuni dei nostri rituali con alcuni insegnamenti del­l'antico gnosticismo. La nostra risposta per entrambe le questio­ni è negativa: gli antichi Gnostici erano creativi e si ritenevano liberi di esplorare l'universo fisico e mistico senza essere ostaco­lati dai dogmi del tempo. Gli Gnostici di oggi, esattamente come i loro antenati del secondo secolo, sono creativi e liberi di esplo­rare. Non seguiamo "dottrine gnostiche" - se pure un termine di questo genere esiste - così come non seguiamo alcuna altra credenza trasmessa nei secoli. La gnosi è un modo di percepire, non una credenza specifica.

Gli Gnostici sono un paradosso. Non seguiamo credenze ma siamo profondamente devoti a quello che ci muove. Esitiamo a chiamarlo Dio a causa di tutto il dogma e la teologia che la paro­la porta con sé. Quello che è non può mai essere spiegato. Non appena diventa un concetto, muore.

 

 

Non è assente uno specifico riferimento a Jung; il motto della Chiesa di Rosa Miller è: "Usiamo miti e simboli; non teologia e dogma". Non manca, tuttavia, un interesse per l'occultismo e l'alchimia "interna", come emerge dai con­tatti fra Rosa Miller e Manuel Lamparter, collegato a una delle numerose branche della Fraternitas Rosicruciana An­ti qua di Krumm-Heller e alle organizzazioni di Michael Bertiaux.

Uno sviluppo del tutto diverso ha condotto al Monaste­ro Gnostico Ortodosso della Santa Protezione fondato nel 1988 a Geneva (Nebraska) da George (William Roger) Bur­ke nato nel 1940 a Bloomington (Illinois). Di famiglia pro­testante, Burke si appassionò all'Induismo e nel 1962 si re­cò in India, dove nel 1963 venne iniziato nell'Ordine di Shankaracharja. Ritornato negli Stati Uniti, trascorse qualche tempo nel Monastero della Santa Trasfigurazione di Boston, dove si appassionò alla spiritualità ortodossa orientale. Dopo aver organizzato un piccolo romitaggio con altre tre persone nell'Illinois, tornò in India nel 1986 e divenne discepolo di una delle più famose guru donne, Ma Anandamayi. Nel 1969, nuovamente di ritorno negli Stati Uniti, fondò presso Oklahoma City un monastero intitola­to a Ma Anandamayi particolarmente dedito alla pratica dello yoga. Burke, tuttavia, continuava i suoi studi nella tradizione cristiana orientale e nel 1975 venne consacrato vescovo nella Chiesa Cattolica Liberale Internazionale, uno scisma della Chiesa Cattolica Liberale di ispirazione teosofica, modificando il nome del suo monastero in Mo­nastero della Santa Protezione della Beata Vergine Maria (non senza una serie di rimandi dalla Madonna cristiana a Ma Anandamayi, considerate entrambe archetipi della Ma­dre). Negli anni successivi gli elementi indù furono meno sottolineati e vennero stabiliti contatti con la Chiesa Cattolica Liberale. Nel 1984 Burke fondò la Chiesa Gnostica Or­todossa del Cristo in America, in comunione con la Chiesa Cattolica Liberale, e nel 1988 trasferì il suo Monastero dal­l'Oklahoma al Nebraska. Burke è un autore prolifico, che, oltre alla rivista "The Gnostic Christian", diffonde un'am­pia serie di opuscoli che insistono sul tema della reincarna­zione e cercano di differenziare gli "gnostici cristiani" da­gli "gnostici pagani" che sarebbero responsabili degli ec­cessi rimproverati allo gnosticismo antico, che si ripresen­terebbero oggi in molte forme di occultismo.

Rosa Miller e George Burke rappresentano certamente accostamenti diversi allo gnosticismo. Tuttavia i vescovi gnostici americani dell'ultima generazione hanno qualcosa in comune fra loro: l'incontro fra le tradizioni dell'occulti­smo europeo - nato nell'ambito dei nuovi movimenti ma­gici - e la confusa ricerca spirituale fiorita soprattutto in California dove l'interesse per lo gnosticismo antico si in­contra con la passione per Jung, con il femminismo (evi­dente in Rosa Miller e nella sua leggenda dell'Ordine di Maria Maddalena), con gli interessi per l'Oriente e per l'In­duismo. In questo ambiente neo-gnosticismo e nuovo gno­sticismo si sono facilmente incontrati, e scritti come quelli di Hoeller hanno certamente contribuito a rendere i nomi degli gnostici antichi popolari negli ambienti prima teosofi­ci e quindi del contemporaneo New Age.

 

 

Michael Bertiaux e la Ecclesia Gnostica Spiritualis

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Uno dei tentativi più ambiziosi di sintesi fra le varie tra­dizioni del nuovo gnosticismo è quello di Michael Bertiaux, una delle figure più importanti sulla scena contemporanea dei nuovi movimenti magici negli Stati Uniti. Bertiaux è nato a Seattle nel 1935, in una famiglia cattolica con inte­ressi teosofici. All'età di 28 anni venne ordinato diacono anglicano nella Chiesa protestante episcopale, e inviato ad Haiti. Qui - in luogo di convertire gli haitiani al prote­stantesimo anglicano - si entusiasmò per il locale Vudù, a cui era già stato preparato da un soggiorno a New Orleans e dagli interessi coltivati nell'ambiente teosofico di Seattle e della vicina Vancouver. Ad Haiti Bertiaux incontrò i due Jean-Maine, padre (Lucien-François, 1869-1960) e figlio (Hector-François, 1924-1983) tramite i quali entrò in con­tatto con il mondo delle Chiese gnostiche. Gli Jean-Maine raccontavano la storia di una lunga successione gnostica e "albigese", che risalirebbe a vescovi consacrati nel secolo scorso in Francia e in Spagna. In questa storia entravano alcuni nomi che abbiamo già incontrato - il patriarca del­la Chiesa Gioannita Chàtel, Boullan, Papus e infine Bri­caud, che avrebbe consacrato personalmente Jean-Maine padre nel 1907 - senza tuttavia che di questi precedenti gli Jean-Maine fossero in grado di produrre prove documenta­li. Jean-Maine figlio poteva peraltro vantare una più vicina consacrazione da parte di Robert Ambelain nel 1959. Gli Jean-Maine trasmisero a Bertiaux un gran numero di ordi­ni occulti che gestivano ad Haiti: una branca dell'O.T.O., una variante chiamata O.T.O.A. (Ordo Templi Orientis Antiqua) in sedici gradi, un rito massonico di Memphis-­Misraim e un ordine ispirato al Vudù chiamato La Couleu­vre Noire fondato da Lucien-François Jean-Maine nel 1922. Nel 1964 Bertiaux si trasferì nell'area di Chicago, do­ve iniziò a lavorare presso la sede americana della Società Teosofica a Wheaton, legandosi al dirigente teosofico Hen­ry Smith e alla moglie Joanna (che era anche una medium). Negli anni 1964-1966, impegnato come conferenziere a Chicago per la Società Teosofica, Bertiaux ebbe modo di venire in contatto con diverse branche dell'O.T.O. e con altri gruppi similari. A partire dal 1966 Hector-François Jean-Maine visse per qualche tempo nell'area di Chicago e aiutò Bertiaux a elaborare una sintesi dei numerosi sistemi magici con cui era entrato in contatto, più tardi diffusa nelle lezioni del Monastero dei Sette Raggi. Jean-Maine consigliò anche a Bertiaux di cercarsi un lavoro "profano" che lo avrebbe reso più libero rispetto al rapporto che ave­va allora con la Società Teosofica. Seguendo questo con siglio, Bertiaux intraprese una carriera nei servizi sociali del­la città di Chicago.

Bertiaux è stato consacrato quattro volte da Hector­François Jean-Maine, assistito da altri vescovi delle stesse linee, ricevendo simbolicamente la linea di Marcione nel 1963, le linee di Bardesane e di Basilide nel 1966 e la linea di Valentino nel 1973. Bertiaux - secondo una pratica che abbiamo già visto in numerose "piccole Chiese" - ha an­che scambiato consacrazioni con un buon numero di "ve­scovi vaganti", e può così vantare tutta una serie di linee diverse di "successione apostolica". A sua volta ha consa­crato un buon numero di vescovi, in genere legati al mon­do dell'occultismo e degli O.T.O.: il dizionario enciclope­dico Independent Bishops del 1990 ne elencava dodici. Questa lista ometteva peraltro uno dei personaggi più sin­golari consacrati da Bertiaux, William Schnoebelen, che di­venne vescovo nella Ecclesia Gnostica Spiritualis nel 1977 sotto il nome che aveva assunto di Christopher P. Syn.  Schnoebelen è divenuto famoso dopo la sua conversione al protestantesimo fondamentalista nel 1984 come autore di scritti contro il Mormonismo (a cui si era precedentemente convertito), l'occultismo e il Cattolicesimo, che denuncia come parti di un complotto diabolico dove Satana sarebbe all'opera personalmente. Benché Schnoebelen abbia cerca­to di ingannare i suoi lettori pretendendo di essere stato un sacerdote cattolico (mentre tutta la sua carriera si è svolta nelle "piccole Chiese"), nel mondo fondamentalista ameri­cano - che evidentemente gradisce l'idea di un grande complotto diabolico in cui è coinvolta anche la Chiesa Cat­tolica - i suoi libri continuano ad avere successo.

Merita anche di essere menzionata la relazione fra Ber­tiaux e lo spagnolo Manuel Lamparter, responsabile di uno dei numerosi rami della Fraternitas Rosicruciana Antiqua e successore per un certo periodo di tempo di Bertiaux nel­l'O.T.O.A. (il cui responsabile attuale è l'americano di co­lore Courtney Willis). Lamparter venne consacrato vesco­vo gnostico da Rosa Miller, e a partire dal 1983 organizzò in Spagna una Chiesa Gnostica particolarmente interessata alla magia sessuale. È tramite Lamparter che una Eccle­sia Gnostica Latina è stata organizzata in Italia da Nevio Viola, di Trieste. Quest'ultimo nel 1988 cedette il titolo di patriarca della sua Chiesa a Roberto Negrini di Bologna, poi tornò sui suoi passi e ruppe con Negrini, con conse­guente scomunica reciproca. Mentre Viola, che ha avuto anche problemi di salute, continua un'attività limitata, Ne­grini ha riorganizzato l'Ecclesia Gnostica Latina di cui si è proclamato "Patriarca Italico Luciferiano" nell'ambito di una serie di attività che si sono contraddistinte per violenti accenti anti-cattolici e per i riferimenti a una "rivoluzione luciferiana" che ha attirato l'interesse in Italia anche dei mass media. Accanto a Negrini (che ha proclamato la sua indipendenza da Bertiaux) e a Viola, vanta pretese di un episcopato gnostico nella linea di Manuel Lamparter anche Paolo Fogagnolo di Milano, il cui Gruppo Prometeo (da non confondersi con i Cenacoli Prometeo che abbiamo già citato) rappresenta un singolare esempio di incontro fra nuovo gnosticismo e marxismo. Dopo un'esperienza nelle Brigate Rosse, Fogagnolo è passato all'esoterismo, mante­nendo tuttavia una fede comunista e continuando a presen­tare il comunismo come gnosi rivoluzionaria. Fogagnolo è stato consacrato vescovo gnostico da Nevio Viola nel 1988 e "riconosciuto" come tale da Lamparter con una patente datata 1989; nel 1990 è stato riconsacrato dal colombiano Gabriel Ramirez Cifuentes, uno dei tanti pretendenti suda­mericani a una discendenza episcopale da Krumm-Heller. Nel 1991 Fogagnolo si è assicurato una consacrazione epi­scopale anche nella Chiesa Rosicruciana Apostolica (di cui parleremo fra breve) da parte del vescovo gnostico greco Triantaphyllos Kotzamanis.

Questi contatti e ramificazioni mostrano il rilievo che il movimento che origina da Bertiaux ha assunto nel nuovo gnosticismo. Nel 1988 questo rilievo è aumentato con la pubblicazione del volume Voudon Gnostic Workbook, una summa di oltre seicento pagine - peraltro ancora par­ziale - degli insegnamenti della Chiesa gnostica. Da que­sto complesso volume emerge la pluralità di fonti a cui la Ecclesia Gnostica Spiritualis di Bertiaux si ispira: il nuovo gnosticismo tradizionale di origine francese, le EGC, il Vu­dù ma anche la scienza contemporanea, la filosofia (in par­ticolare l'idealismo, di cui Bertiaux ha una buona cono­scenza - con una predilezione per Giovanni Gentile e un interesse per il fascismo) e lo Shintoismo, a cui l'esoterista americano si è particolarmente dedicato negli ultimi anni studiando tra l'altro le opere dell'artista-mago Hiroyuki Fukuda. Bertiaux persegue dichiaratamente lo scopo di co­struire una sintesi non soltanto fra le varie correnti del nuovo gnosticismo, ma anche fra il nuovo gnosticismo e il neo-gnosticismo che emerge in certe correnti della scienza e della filosofia moderna. Dal nuovo gnosticismo di origine francese che risale a Doinel ricava vari tipi di messa gnosti­ca che continua a celebrare e una venerazione per i maestri dello gnosticismo antico. Dalle EGC ricava i principali ri­tuali di magia sessuale ispirati al IX e all'Xl grado del­l'O.T.O. e ad altre fonti. Dal neo-gnosticismo della scienza e della filosofia, ricava la consapevolezza che occorre libe­rarsi dall'idea secondo cui esiste un'unica realtà "obietti­va"; al contrario - secondo una sintesi delle sue idee pre­parata da uno dei vescovi gnostici da lui consacrati, Allen H. Greenfield - "l'Universo è una complessa interconnes­sione di forze primordiali a cui la coscienza può dare for­ma un numero letteralmente infinito di volte". Ne conse­gue che "la nostra "realtà consensuale" - per prendere a prestito l'espressione di Castaneda - è soltanto una di queste forme; in altre parole, la visione del mondo di Ber­tiaux è quella di un idealismo puro". Il mago è l'uomo - o la donna - "che diviene consapevole di questa natura e che impara a dare forma e struttura alla realtà secondo la sua volontà". Esistono tuttavia "forze o esseri che hanno una capacità superiore alla nostra di dare forma alla real­tà" e che in questo senso "sono autentici "dei"". A questi "dei" il mago può avere accesso attraverso forme di "vi­sualizzazione creativa" e di divinazione, ovvero tecniche corporali e di magia sessuale, che tuttavia potranno avere successo soltanto all'interno di "linee valide di iniziazione e di consacrazione". Da questo punto di vista Bertiaux "mantiene una visione piuttosto tradizionale del trasferi­mento dei poteri" e - pur dubitando della realtà storica di tutti i passaggi - considera rilevante la successione apo­stolica e soprattutto la fedeltà ai rituali. In questa prospet­tiva Bertiaux - che pure continua a riservare all'angelo Aiwass che aveva trasmesso a Crowley il Libro della Legge una speciale attenzione - "non riconosce il Libro della Legge come legislativo per il nuovo Eone". 125 In effetti Bertiaux negli ultimi anni ha dichiarato di considerare la Chiesa Gnostica più importante dell'O.T.O. e di avere dubbi su qualunque sistema che non passi attraverso un "vescovo consacrato", 126 D'altro canto il sistema di Ber­tiaux colpisce per la sua nozione molto ampia di "poteri" magici che l'iniziato può conseguire attraverso il rituale. Si va dal potere di accedere a mondi virtuali, a stati più che umani della coscienza, all'antica Atlantide fino al potere di "vincere quando scommettiamo sui cavalli" che non viene affatto disprezzato e che può essere un primo passo per im­parare a "lavorare" con "famiglie" di spiriti che derivano dal Vudù, lasciando che questi spiriti "prendano possesso" del corpo e dello spirito del mago. Il sistema di Bertiaux può rappresentare un punto di sintesi anche fra un accosta­mento puramente esoterico e la divulgazione del nuovo gnosticismo presso un pubblico più vasto. Da una parte egli ritiene che alcune parti del suo sistema non debbano essere rivelate se non a una trentina di iniziati in tutto il mondo. Dall'altra, le sue lezioni presso l'Occult Bookstore di Chicago sono pubbliche, e il volume Voudon Gnostic Workbook può essere acquistato da chiunque .

 

 

Armand Toussaint e la Eglise Rosicrucienne Apostolique

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Come abbiamo visto, una "Chiesa doineliana", in senso proprio, non esiste più. Nel quadro degli accostamenti con­temporanei al nuovo gnosticismo esistono tuttavia alcuni gruppi che si sono mantenuti particolarmente fedeli alla tradizione francese. Uno di questi è la Ecclesia Gnostica Universalis di Barbados, il cui rituale è uno fra i più vicini a quelli di Bricaud e di Chevillon, anche se con qualche in­novazione che mostra l'influenza della Chiesa Cattolica Li­berale di orientamento teosofico. Uno specifico riferimen­to alla "Vergine Nera", specialmente rappresentata dalla "Madonna di Czestochowa", rivela un interesse per la Vergine Maria come archetipo della Grande Madre, del re­sto diffuso anche negli ambienti del New Age. 128 Meritano un cenno, nel Libro dei Vespri della Chiesa Gnostica di Barbados, i vespri dei defunti e dei martiri, che riprendono in modo evidente i VII Sermones ad Mortuos di Jung in un singolare incontro "liturgico" fra neo-gnosticismo e nuovo gnosticismo. Così il sacerdote e l'assemblea recitano queste formule:

 

 

S: Ascoltate: inizio con il nulla. Il nulla equivale alla pienez­za. Nello stato che non ha fine la pienezza è uguale al vuoto.

A: Quello che è senza fine ed eterno non ha qualità, perché ha tutte le qualità.

S: Il nulla, o la pienezza, è chiamata da noi Pleroma.

S: In esso il pensare e l'essere cessano, perché l'eterno è senza qualità.

S: Noi stessi, tuttavia, siamo il Pleroma, perché siamo una porzione dell'eterno e del senza fine.

 

 

E ancora, con un riferimento ancora più evidente ai Ser­mones di Jung:

 

 

S: Abraxas è il dio che è difficile conoscere. Il suo potere è grande, perché l'uomo non lo percepisce.

A: Perché è la stessa vita indefinibile, che è la madre nello stesso tempo del bene e del male.

S: Abraxas è il sole.

A: E anche l'abisso del vuoto che eternamente si apre.

S: La parola di dio è vita; la parola del demone è morte.

A: Abraxas, tuttavia, dice la parola che è insieme vita e morte.

S: Vederlo significa accecamento.

A: Conoscerlo è terrore. S: Adorarlo è morte. A: Temerlo è saggezza .

S: Non resistergli significa liberazione.

S: Ti lodiamo, Altissimo Dio, che hai posto in noi il Tuo ter­ribile spirito duale di Abraxas, che è la genesi e la dissoluzione del cosmo in cui la creazione ha paura di se stessa. Possa il Tuo spirito che risveglia e innalza, il cantore degli Eoni, elevarci dal­l'ignoranza e condurci alla Tua ineffabile gnosi. Amen .

S: Il genio della carne viene a noi come un serpente .

A: E il genio dello spirito scende nella nostra anima come un uccello bianco.

 

 

La Chiesa Gnostica di Barbados è in relazione con la Eglise Rosicrucienne Apostolique attiva in vari paesi euro­pei che riconosce il suo patriarca in Armand Toussaint, consacrato da Roger Deschamps che era stato a sua volta consacrato da Ambelain (successivamente Toussaint, con una procedura che ci è ormai familiare, ha "scambiato" le sue consacrazioni con altri vescovi di "piccole Chiese"), Questa Chiesa ha rimesso in onore il Consolamentum e l'Ordre des Chevaliers du Paraclet, che risalgono a Doinel. Vescovi della branca francese della Eglise Rosicrucienne Apostolique sono stati attivi in una serie di iniziative - co­me i Colloques Arc-en-Ciel (cessati nel 1989) - che racco­glievano a Parigi esponenti di movimenti magici e anche della nuova religiosità che guarda all'Oriente. Nello stesso tempo nella Eglise Rosicrucienne Apostolique non manca un pronunciato interesse per l'alchimia "interna". Le branche francese e belga della Chiesa tengono a mantenere un carattere più riservato ed esoterico. Al contrario la branca greca - guidata dal vescovo gnostico Triantaphyl­los Kotzamanis - è entrata a far parte nell'International Council of Community Churches che ha sede a Palos Heights (Illinois). Questo organismo - che nel 1991 riuni­va quattrocento piccole denominazioni e vantava nel mon­do circa 500.000 fedeli - partecipa ad alcune attività del Consiglio Ecumenico delle Chiese e non è certamente un organismo esoterico, dal momento che ne fanno parte numerose denominazioni indipendenti di orientamento tipica­mente protestante. L'ingresso della branca greca della Egli­se Rosicrucienne Apostolique nell'organismo americano - che ha avuto anche lo scopo di favorire un riconoscimento statale in Grecia, e di rispondere agli attacchi della Chiesa Ortodossa - è apparso a vescovi della stessa linea che ope­rano in paesi diversi dalla Grecia un allontanamento ecces­sivo dall'esoterismo e non ha mancato di suscitare qualche perplessità. Questa tensione è comunque interessante per­ché rivela - nell'ambiente contemporaneo delle Chiese gnostiche - la consapevolezza della problematica relativa al carattere "puramente" esoterico o meno del nuovo gno­sticismo a cui abbiamo già avuto occasione di fare cenno.

 

 

Samael Aun Weor e il Movimento Gnostico

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Per chi lo desidera, entrare in contatto con la Chiesa Gnostica Catto­lica non è impossibile: ma non si tratta certamente di un'organìzzazìo­ne che svolga opera di propaganda e di proselitismo pubblico. Si in­contrano invece, nelle librerie esoteriche e talora anche per le strade di qualche città europea e americana, manifesti che invitano a confe­renze di un Movimento Gnostico che pratica quello che viene chiamato in spagnolo "el sexo yoga", che tuttavia non deve essere confuso con le pratiche insegnate da Crowley. Questo movimento, di origine suda­mericana, non è peraltro privo di legami genealogici con la tradizione gnostica europea. Arnoldo Krumm-Heller, come abbiamo già ricorda­to, aveva portato la tradizione gnostica in Sudamerica, dove molti si sono proclamati, fornendo prove più o meno convincenti, suoi allievi ed eredi. Nel 1952 un colombiano, Samael Aun Weor (morto nel 1977), fondava una Associazione Gnostica di Studi Antropologici e Culturali.

Weor avrebbe in seguito dichiarato - circostanza vigorosamente smen­tita da varie branche della Fraternitas Rosicruciana Antiqua - di es­sere stato consacrato vescovo, e anzi patriarca gnostico, da Krumm­Heller; i suoi discepoli lo riconobbero in ogni caso come maestro per­fetto e come presenza divina, "avatar", Nella gnosi di Samael Aun Weor sono conservati alcuni riti e simboli della tradizione gnostica europea, ma all'interno di un quadro eclettico che tiene conto del tantrismo e del buddhismo e riconosce in una catena di maestri un gran numero di esoteristi precedenti tra cui Madame Blavatsky, il fondatore dell' An­troposofia Rudolf Steiner e Gurdjieff.

Ne nasce un sistema che com­prende tutta una serie di idee tipiche della tradizione esoterica (dalla reincarnazione - peraltro riservata agli esseri superiori e distinta dal semplice "ritorno" - all'idea secondo cui il sole sarebbe abitato), ma non mancano anche riferimenti alla tradizione azteca; il centro del mo­vimento è stato posto in Messico. Il tema più tipico del Movimento Gno­stico è tuttavia la dissoluzione degli "ego", la "legione di Demoni" che esistono in ognuno di noi, per arrivare - attraverso la salita di "tre montagne" - all'unione con l'Assoluto dove non vi è più dualità. Sa­lendo le prime due montagne l'iniziato realizza i "corpi solari" (che tut­tavia possono ancora essere utilizzati dai cattivi "ego") e quindi, dis­solti i primi, i "corpi d'oro". Saliti sulla terza montagna non ci sono più corpi, e il serpente Kundalini viene ingoiato dall'Aquila, a simbo­leggiare che ogni forza particolare deve morire per entrare nell'asso­luta Unità.

La tecnica per raggiungere questi scopi (indubbiamente gno­stici) consiste in una forma di "alchimia sessuale" che costituisce il trat­to più tipico del movimento. La pratica centrale chiamata Sahaja Mai­thuna consiste in un atto sessuale tra uomo e donna interrotto prima dell'emissione del seme così da realizzare una "trasmutazione" dell'e­nergia sessuale che distrugge gli "ego" e permette l'ascesa gnostica. Mentre Krumm-Heller insegnava la ritenzione del seme come una tra varie tecniche di magia sessuale, per Weor questa via diventa l'unica e le altre sono rifiutate e attaccate. I membri del Movimento Gnostico credono che nel Sahaja Maithuna dall'unione delle forze maschile e fem­minile nasca una terza forza, il Cherubino: una parte della Grande Ma­dre Divina, una creatura di fuoco che agisce per un tempo limitato ma sufficiente a "bruciare" uno degli "ego" contro cui la forza viene diret­ta. Evitando l'emissione del seme – secondo Samael Aun Weor – l'e­nergìa sessuale, anziché disperdersi verso l'esterno, viaggia verso l'in­terno, in direzione delle fibre più profonde dell'essere e della coscien­za, che viene così risvegliata. Il fondatore del Movimento Gnostico aveva previsto anche un esercizio per celibi chiamato Vajroli Mudra - un massaggio sugli organi sessuali che l'uomo e la donna praticano dopo una serie di esercizi ginnici e di respirazione - e lo raccomandava, in forma meno energica, anche agli sposati. In una serie di interviste rac­colte dal "missionario gnostico" E. Villegas Quintero, Weor spiegava che "l'antitesi fatale del Vajroli Mudra è il vizio ripugnante, il vizio abietto della masturbazione", e tuttavia il Vajroli Mudra è una strada particolarmente elevata "per gli uomini totalmente casti che sono veramente disposti a seguire il cammino della castità più assoluta, e per donne ugualmente pronte a seguire il sentiero della castità assoluta".

Il suo successore Joaquim Amortegui - noto nel movimento com~e "Maestro Rabolù" - insegna invece che il Vajroli Mudra è una pra­tìca "non consigliabile" (perche espone a cadere nella aborrita mastur­bazione) e che, piuttosto, "tutti debbono sposarsi obbligatoriamen­te". Il Vajroli Mudra non è, del resto, l'unico punto su cui i seguaci di Samael Aun Weor si sono divisi dopo la sua morte. Se tutti sono d'ac­cordo nel ritenere che il mondo è entrato nell'Età dell'Acquario nel 1962, e che Samael Aun Weor è stato l'"avatar" e il "dio vivente" per questa età, divergenze sulle gerarchie e sui riti hanno portato a una divarica­zione fra una corrente colombiana (guidata dal citato "Maestro Rabo­lù", che appare più diffusa in Italia) e una corrente messicana guidata dalla "Maestra Litelantes", cioè da Arnolda Garro de Gomez vedova di Aun Weor. "Rabolù" ha affermato peraltro di trovarsi d'acc~rdo sul­l'essenziale con la "Maestra Litelantes", e che le divisioni derivano da persone malevole nella cerchia della vedova del fondatore. La situazio­ne sembra, nell' America Latina, ancora più complessa e non manca di piccoli scismi intorno a personaggi che si proclamano a loro volta "pa­triarchi gnostici". Nel frattempo, tuttavia, il Movimento Gnostico ha conquistato una notevole popolarità anche negli Stati Uniti in Cana­da, in Francia, in Italia e - con varie decine di migliaia di membri - è l'unica branca del neo-gnosticismo che possa essere considerata un movimento magico di massa.

 

 

Gnosticismo e massonerie di frangia

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Un primo gruppo è costituito dalle cosiddette "massone­rie di frangia", un concetto che venne introdotto - al di là dei dibattiti sulle massonerie "regolari" e "irregolari" - da storici massonici sulla rivista "Ars Quatuor Corona­torum" (organo della loggia specializzata in ricerche stori­che della massoneria inglese) all'inizio degli anni 1970,74 ed è stato poi largamente adottato per descrivere quelle deno­minazioni e quei riti massonici a prevalente interesse miti co o magico che il (lento) prevalere nelle massonerie di una corrente razionalista ha reso marginali. La ricerca occulti­stica e magica - esclusa dal centro della scena massonica - si è rifugiata così (a partire dal secolo scorso) alla sua periferia, dove sono nati riti e organizzazioni "di frangia" - di cui sono esempio tipico i riti "egiziani" di Misraim e Memphis, sempre in rapporto problematico con la "rego­larità" massonica, anche se non sempre considerati sempli­cemente "irregolari" - e anche organizzazioni non masso­niche, ma fondate da massoni poco soddisfatti del prevale­re di una corrente "fredda" e non più interessata alle ricer­che magiche nel mondo massonico ufficiale.

Alcune di queste realtà - specialmente negli Stati Uniti - si segnalano soprattutto per la ricercatezza antiquaria e per la pompa dei loro riti, senza proporre nulla di partico­larmente significativo dal punto di vista dottrinale. In altri gruppi il riferimento allo gnosticismo antico viene invece sistematicamente affermato, almeno come parola d'ordine e intenzione programmatica. Giacché i gruppi più significa­tivi della frangia massonica intrattengono antiche e fre­quenti relazioni con le Chiese gnostiche, i loro aderenti fi­niranno per essere attratti nella sfera di queste organizza­zioni (di cui tratteremo separatamente). I riti "egiziani" di Misraim e Memphis, per esempio, hanno una storia estre­mamente complicata con decine di scismi, frammentazioni e riunificazioni. 75 Una delle ragioni di questi scismi sta pre­cisamente nel tipo di legame desiderato con le Chiese gno­stiche, che alcuni massoni "egiziani" vorrebbero minimiz­zare, mentre altri gruppi considerano il conferimento del 66° grado del rito unificato di Memphis e Misraim ("Pa­triarca-Consacratore") come equivalente a una consacra­zione episcopale gnostica.

Si dovrebbe - a questo punto - sottolineare come le obbedienze massoniche maggioritarie tendano oggi a pren­dere le distanze dai movimenti magici e anche dai riti di "frangia" più dichiaratamente occultistici. Ma il mondo massonico è spesso più complesso di quanto non sembri a prima vista, e non sono mancati esponenti di primo piano di massonerie maggioritarie che sono stati nella loro vita nello stesso tempo esponenti di organizzazioni più dichia­ratamente neo-gnostiche. Ad esempio Giordano Gamberi­ni, che doveva diventare Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, era stato - come vedremo - consacrato come ve­scovo in una Chiesa gnostica, di cui del resto sono stati vesvoci anche altri esponenti di primo piano della massoneria italiana maggioritaria.

 

 

Gnosticismo e occultismo

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Dopo le massonerie di frangia e lo spiritismo - antico e moderno - una terza corrente di nuovi movimenti magi­ci si ispira al vero e proprio occultismo dove si praticano - individualmente o in gruppo - vere e proprie cerimonie magiche finalizzate all'acquisizione di una serie articolata di poteri. I movimenti, società o ordini occulti sono nume­rosissimi, ma alcune idee - che costituiscono quello che si può chiamare il "sistema" o "codice" magico - sono, con qualche variante, comuni.

Un primo elemento comune è dottrinale, e consiste in una cosmologia di tipo effettivamente neo-gnostico, secon­do cui l'uomo, che ha in sé una scintilla divina, è "cadu­to" nel mondo fenomenico e materiale. L'iniziazione nel­l'ordine o società occulta aiuta l'uomo a compiere l'opera della reintegrazione nel suo stato originario, che è insieme la liberazione dell'elemento divino - presente in ogni uo­mo, ma che solo l'iniziato è in grado di riconoscere - dalla prigione del mondo sensibile e della materia. Natural­mente questa idea si trova anche al di fuori dei nuovi movi­menti magici che si configurano secondo il modello della società occulta: ma in questi ultimi - in forme più o meno elaborate e nei vestiti più diversi (che possono ispirarsi al­l'Oriente, alla Grecia, a Roma, al mondo celtico, alla Ca­bala e perfino al Cristianesimo o alla scienza moderna) - è invariabilmente presente.

Un secondo elemento comune alla maggioranza dei gruppi occulti è tecnico, e consiste nei mezzi per acquisire i "poteri" magici (e, ultimamente, per conseguire la reinte­grazione). I Rituali e Catechismi dell'Alta Massoneria Egi­ziana di Cagliostro (1743 o 1749-1795) - che risalgono al 1784 e che Cagliostro non ha inventato, ma ha tratto dalla sua vasta (anche se disordinata) conoscenza degli ambienti occultisti italiani, francesi e tedeschi - costituiscono una codificazione e un riassunto di queste tecniche di notevole interesse, e anche di enorme influenza su tutto l'occultismo successivo.

Cagliostro (il cui ruolo non deve essere sottovalutato) descrive in particolare due tecniche che corrispondono alle sue due "quarantene" (o ritiri magici di quaranta giorni): una tecnica di evocazione teurgica di angeli o spiriti, che vengono quindi messi al servizio del mago per aiutarlo nel­le sue operazioni, e una tecnica di "rigenerazione fisica" attraverso l'assunzione di diverse sostanze (polveri, "gocce bianche", "balsamo del Gran Maestro" e simili). Se si è potuto discutere a lungo sulla natura di queste sostanze (evocando di volta in volta la rugiada, l'urina e il liquido seminale umano, che hanno tutti una loro tradizione nel si­stema magico), l'idea cagliostriana della "rigenerazione fi­sica" è importante soprattutto per lo scopo che indica ai movimenti occulti: la costruzione, già in questa vita, di un "corpo di gloria" che permette di acquisire la certezza del­l'immortalità futura e insieme dovrebbe conferire poteri fi­sicamente visibili ed evidenti. Molto spesso è l'uso a fini magici della sessualità che permette di costruire il "corpo di gloria" dirottando "verso l'interno" l'energia sessuale (che in un normale rapporto si "disperde" all'esterno), sia attraverso tecniche di coitus reservatus ("ritenzione", in linguaggio magico), sia attraverso l'assunzione di secrezio­ni sessuali maschili e femminili in forma di elisir o bevanda (nel linguaggio dei movimenti magici si parla di "assimila­zione", e anche - in molti gruppi - di "Eucaristia"),

Ci si può chiedere se queste tecniche (che si ritrovano ai livelli più discreti di numerosi movimenti magico-occultisti­ci, anche se non in tutti) possano a loro volta essere defini­te neo-gnostiche. Per quanto riguarda i rapporti con lo gnosticismo antico, come si è accennato sappiamo molto poco delle sue pratiche rituali più esoteriche e dei suoi rap­porti con le varie forme di magia del tempo. Abbiamo vi­sto, tuttavia, che alcuni gruppi gnostici come i Fibioniti fu­rono accusati precisamente di strane "comunioni" con l'u­so del seme maschile e del sangue mestruale, mentre altri venivano accusati di evocare démoni. Mircea Eliade ritiene che l'antico gnosticismo occupi un ruolo importante nella diffusione delle tecniche che utilizzano a fini magici la ses­sualità. Il dibattito sull'origine di queste tecniche è aperto: non manca chi ritiene che la loro origine sia appunto gno­stica, e che missionari gnostici le abbiano portate verso Oriente (mentre per altri la loro origine sarebbe, al contra­rio, iranica, indiana o cinese, e gli gnostici le avrebbero ap­prese in Oriente). 81

Anche negli aspetti più sconcertanti di molti movimenti della galassia magico-occultistica contemporanea non man­ca, dunque, un riferimento allo gnosticismo antico (il che non significa, naturalmente, accettare le leggende su una filiazione o su una continuità storica). Come vedremo, questi spunti "tecnici" saranno sviluppati, in modo tutto particolare, da una delle correnti che costituiscono il mo­derno movimento delle Chiese gnostiche.

 

 

Gnosticismo, demonologia e riflessione contemporanea sul problema del male

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Lo gnosticismo cominciò sin da subito ad essere dipinto come satanico dagli eresiologi. In ossequio al detto di Cristo: "l'albero si vede dal frutto", non era possibile che una credenza errata desse buoni frutti

Le eresie dualistiche potevano dare luogo a frange sataniche, che adoravano il dio del mondo materiale

I dualismi che affermavano che l'Arconte che ha creato il mondo materiale è malvagio, potevano indurre taluno a venerare e blandire tale arconte, identificato con Satana. Frange simili, definite "sataniani" sono attestate sin dal IV secolo e presso i bogomili, almeno stando all'accusa della Chiesa Ortodossa.

In questo quadro si iscrive anche l'idea che l'adoratore dell'Arconte malvagio cerca in tutti i modi di rimanere sulla terra anche dopo la morte, per continuare a fruire i benefici del suo culto e sottrarsi all'inevitabile giudizio divino.

Nella variante bogomila, che probabilmente discende da contatti con lo Zoroastrismo della Persia sassanide, Dio ebbe due figli, Cristo e Satana, e Satana edificò il mondo materiale e ne è signore.

Generalmente la moralità Pneumatica è determinata dall' ostilità verso il mondo e dal disprezzo per ogni vincolo mondano. Da questo principio, comunque, possono essere ricavate due conclusioni opposte ed entrambe hanno trovato i loro sostenitori più radicali: quella ascetica e quella li­bertina. La prima deduce, dal possesso della gnosi, l'ob­bligo di evitare ogni ulteriore contaminazione da parte del mondo e perciò di ridurre al minimo il suo utilizzo; quella libertina deriva, dal medesimo possesso, il pri­vilegio di una libertà illimitata. La conclusione liberti­na, più sorprendente e ambigua, è sostenuta mediante questo argomento: la legge, rappresentando la volontà del Demiurgo ed essendo pertanto una forma della sua tirannia, non esercita alcun obbligo sul Pneuma che è "salvo per sua natura" e non può essere né macchia­to dalle azioni (in sé moralmente neutre), né impaurito dalla minaccia della retribuzione Arcontica, che può ri­guardare solo il corpo e la psiche. Perciò lo Pneumatico, essendo libero dal potere del destino, è anche libero dal giogo della legge morale e tutto gli è consentito.

Questa libertà, comunque, è più che semplicemente permissiva; la sua realizzazione è comandata da un interesse meta­fisico. Attraverso la violazione intenzionale della norma demiurgica - preparata dalla diffamazione mitologica del Demiurgo - lo Pneumatico ostacola infatti il dise­gno degli Arconti e perciò contribuisce paradossalmente all'opera di salvezza. A partire da questo motivo di di­sprezzo è sufficiente poi soltanto un passo ulteriore per giungere all'insegnamento dei Cainiti e dei Carpocrati per cui vi è un dovere positivo di eseguire ogni genere di azione, di non lasciare alcun atto intentato, nessuna possibilità della libertà irrealizzata, per rendere alla na­tura ciò che le spetta ed esaurirne il potere; solo in que­sto modo si può ottenere la liberazione finale dal ciclo delle reincarnazioni. Il libertinismo gnostico, in questo modo, abbraccia l'intera scala dalla mera concessione negativa all' obbligazione faustiana positiva, risolvendo in parte, in tal modo, il contrasto rispetto alla sua alter­nativa ascetica.

 

 

Il problema del male nell'Antico Testamento e la risposta gnostica

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I profeti dell'Esilio: il male come punizione per i peccati dell'uomo

 

L'antica Israele sperimentò il periodo più buio della sua storia con due grandi disastri: la distruzione del regno del nord ad opera degli assiri nell'ottavo secolo a.C. e la distruzione del regno del sud ad opera dei babilonesi nel sesto secolo a.C. Fu proprio in questo torno di tempo che si originò la letteratura profetica. I profeti, delle figure inviate da Dio ad Israele, proponevano una spiegazione delle sofferenze del popolo eletto, che cominciava a dubitare della presenza e della forza di Yahwé: Dio puniva il suo popolo per le sue colpe, e lo avrebbe restaurato nella passata grandezza se solo esso avesse ripreso a camminare sulla retta via.

I profeti, si badi bene, non intesero mai proporre questo punto di vista come una giustificazione generale per la presenza del male del mondo, ma così essa fu intesa dai commentatori cristiani, e si può analizzarla come tale nel quadro del dibattito sul problema del male.

 Questo punto di vista è il più comune in tutto l'Antico Testamento: oltre che nei libri dei profeti (Geremia, Osea, Neemia, ecc.) si trova anche nella narrazione della storia di Israele contenuta nel Pentateuco, nei libri Sapienziali, ed infine passa nel Nuovo Testamento.

 Come si spiega, in base a questo punto di vista, la sofferenza delle persone giuste o comunque innocenti? Una risposta dei Profeti era che erano proprio i peccatori, che sarebbero stati puniti da Dio, ad opprimere i propri simili, e non dio stesso.

Un'altra giustificazione può venire dall'idea del sacrificio espiatorio: la sofferenza degli innocenti può essere compresa e giustificata come sofferenza vicaria. Cristo è il massimo esempio di un innocente che espia le colpe dei peccatori.

Questo punto di vista ha delle implicazioni che taluni trovano inaccettabili:

1) Una persona ipocrita può ragionare che se Dio punisce immancabilmente i malvagi, e non ha punito lui, le sue azioni sono giustificate, la sua indifferenza, i suoi misfatti sono giustificati agli occhi della divinità.

2) Costui potrà rifiutarsi di aiutare le persone che soffrono perché ciò avviene per loro colpa, ed è una dimostrazione della natura malvagia.

3) La storia delle persecuzioni degli ebrei e dell'indifferenza di fronte a pogrom e olocausto fondata su una idea dei giudei come popolo ostinato e deicida, giustamente maledetto e perseguitato da Dio che ci riporta all'idea del male come giusto castigo

4) Peggio ancora, la teoria del giusto castigo può giustificare la violenza esercitata da un gruppo su un altro accusato di essere iniquo e malvagio. I pogrom sarebbero quindi dei fatti doppiamente giusti e leciti.

3) Accettando l'idea di un dio punitore e l'idea dell'uomo dannato come creatura che volontariamente e irreversibilmente si aliena da Dio si accetta l'idea, da molti oggi ritenuta incompatibile con un messaggio di amore universale, della punizione eterna.

 

La storia di Giuseppe e del Faraone: il male come sofferenza redentiva predisposta da Dio per un bene più alto

 

Tutti conoscono la storia di Giuseppe venduto schiavo dai fratelli, che viene ingiustamente accusato dalla moglie dell'intendente del Faraone e gettato in prigione: si tratta di una vita miserabile, ma altrettanto nota è la risposta di Giuseppe ai fratelli che, dopo la sua riabilitazione, sono portati al suo cospetto e chiedono perdono temendo la sua collera: "Non abbiate timore! Se anche era vostra intenzione farmi del male, Dio aveva predisposto tutto per il bene!", perché in tempo di carestia Giuseppe potesse mandare aiuti agli israeliti ed evitare che il popolo eletto si estinguesse e la promessa di numerosa discendenza fatta ad Abramo si rivelasse falsa.

L'idea della sofferenza come punizione dei peccati è collegata strettamente al carattere tipico della religione ebraica come religione del sacrificio. Come in tutti i culti dell'antichità, non si trattava solamente di fede e adorazione, ma del corretto modo di tributare il culto alla divinità. I sacrifici animali erano importantissimi nella religione ebraica, e dall'idea di sacrificio cultuale scaturì quella del sacrificio per placare la divinità irata e infine quella del sacrificio vicario che assume proporzioni simboliche con la festa del Kippur, durante la quale un capro viene inviato nel deserto ad espiazione dei peccati degli israeliti. Da queste importanti idee sarà destinata a scaturire la concezione cristiana del sacrificio vicario di Cristo e del suo effetto salvifico e di redenzione. L'idea più generale di sofferenza che produce un bene più alto è presente anche in altri passi delle Scritture, non direttamente legati al sacrificio.

Altri episodi del Nuovo e del Vecchio Testamento mostrano lo stesso punto di vista. Dio fa morire Lazzaro, ma Cristo, arrivato in ritardo, annuncia che è per manifestare meglio la sua gloria concedendo a Gesù di mostrare il potere di far risorgere i morti. Davide provoca la morte del marito di Betsabea e viene crudelmente punito da Dio, ma da tutto questo male viene la nascita del grande re Salomone, secondo figlio di Davide e Betsabea. E così via. La stessa concezione del male come punizione di dio racchiude in germe l'idea che attraverso la sofferenza il popolo di Israele ritorna sulla retta via ed emenda i suoi costumi, ciò che costituisce un bene che viene da un presunto male.

Il martirio dei primi cristiani venne visto come un mezzo per portare testimonianza di Cristo tra i gentili. Dio ricavava dalle sofferenze dei credenti un potente strumento di conversione.

In Paolo, la sofferenza contribuisce a forgiare il carattere del fedele e lo rende capace di consolare altri che dopo di lui soffriranno

Si giunge alfine, nella letteratura mistica cristiana, come ad esempio nell'Imitatio Christi, ad affermare che la sofferenza è un segno di elezione da parte di Dio: egli manda le sue prove a coloro che ama, per elevarli spiritualmente.

 

Il libro di Giobbe: la sofferenza come prova di fede e come disegno inconoscibile di Dio

 

Nel libro di Giobbe, la scena si apre in cielo, nel consesso degli angeli dell'Onnipotente, che gli riferiscono circa il comportamento degli uomini. Dio loda la vita senza macchia di Giobbe, e uno dei suoi consiglieri, Satana, "l'accusatore" (il nome non è qui usato in riferimento all'angelo caduto), replica che è facile seguire i precetti di Dio nella ricchezza e nel benessere, ma molto meno nella povertà e nelle prove. Satana giunge a dire che Giobbe arriverebbe a "bestemmiare Dio". Dio non è d'accordo, e acconsente a dare a Satana il potere di togliere a Giobbe tutto ciò che di buono ha avuto da lui in passato. Satana non perde tempo. In un solo giorno le mandrie di buoi sono rubate, le pecore sono uccise dal fuoro celeste, i cammelli sono razziati, i servitori sono uccisi e perfino le figlie e i figli di Giobbe periscono durante una tempesta che rade al suolo la sua casa. Ma, come predetto da Dio, Giobbe non bestemmia Dio, ma si lascia andare a un celebre e toccante lamento:

 

 

Giobbe si levò, si tolse gli indumenti, rase la sua testa, cadde al suolo in adorazione. Disse: "Nudo venni al mondo dal grembo di mia madre, e nudo ritornerò nel grembo della terra; il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia lodato il Signore"

 

 

Tre amici vanno a trovare Giobbe, Eliphas il Temanita, Bildad lo Shuita, e Zophar il Naamanita. Essi piangono con lui, ma successivamente inizia un dialogo in cui, abbastanza maliziosamente, insinuano che Giobbe ha avuto ciò che merita.

Ma Dio, contento del comportamento di Giobbe, appare infine per rimproverarli e ricompensa Giobbe restituendogli, moltiplicato, ciò che gli ha tolto: quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille coppie di buoi, mille asini. Altri sette figli e tre figlie. Giobbe vive il resto dei suoi giorni in pace e prosperità, circondato da figli e nipoti.

La morale di questo racconto è duplice: 1) Talvolta Dio invia sofferenze ai giusti per metterli alla prova, ma esse sono sempre seguite dalla sua ricompensa; 2) Non è in realtà Dio che provoca la sofferenza, ma una entità malvagia o vendicativa a cui egli dà un potere limitato nel tempo (Satana)

Un altro esempio biblico in cui Dio manda una terribile prova ad un Patriarca per poi ricompensare la sua fede è narrato nella storia del sacrificio di Isacco: Dio ordina ad Abramo di uccidere il proprio figlio, ma poi manda l'angelo ad impedirglielo.

In realtà il libro di Giobbe fonde due diverse redazioni della storia. E' ascrivibile ad un'altra variante la parte in cui Giobbe protesta in modo veemente dinanzi a Dio la propria innocenza, e provoca l'intervento della divinità sotto forma di una terrificante tempesta da cui una voce di tuono dice:

 

 

Chi è costui che proferisce opinioni senza avere conoscenza?

Voglio interrogarti e sentire la tua risposta

Dimmi dov'eri quando io ho gettato le fondamenta della terra

Dimmi se sai chi determinò la sua misura - perché sicuramente lo saprai!

O chi tracciò le linee di divisione

O chi pose la pietra d'angolo della creazione

quando le stelle del mattino cantarono in coro

e tutti gli esseri celesti acclamarono dalla gioia

 

 

In questo brano è suggerito un diverso tipo di giustificazione del male: esso fa parte dei disegni imperscrutabili di Dio, che non è dato all'uomo capire. Una argomentazione molto simile si ritrova nelle parole del libro della Sapienza o Ecclesiaste, messe in bocca niente di meno che a Salomone: l'esistenza è breve; i piaceri e i dolori sono vani e fuggevoli; l'aldilà è misterioso; nell'aldiqua i malvagi spesso prosperano; occorre pertanto cercare di superare le difficoltà e godere per quanto si può delle buone cose della vita. Anche l'autore dell'Ecclesiaste (e si tratta dell'uomo più sapiente tra i sapienti, Salomone) non sa perché si soffre: Dio si rifiuta di rivelarcelo, e questo è quanto.

 

L'apocalittica ebraica: l'avvento prossimo del Dio raddrizzatore dei torti

 

Ai tempi di Gesù le profezie apocalittiche erano largamente diffuse tra gli ebrei. Le origini di questa letteratura sono da ricondurre ad un periodo anteriore di 150-170 anni alla nascita di Cristo, durante la rivolta dei Maccabei. Fu un periodo di intense persecuzioni degli ebrei della Palestina ad opera di un sovrano straniero, il monarca della Siria. In realtà, Israele, per la sua posizione geografica, fu sempre al centro di violenti scontri tra le potenze del mediterraneo: assiri, babilonesi, persiani, greci, romani. Per più di un millennio la "terra promessa" fu controllata da eserciti stranieri. Questo era motivo di profondo turbamento per gli ebrei devoti. Il giogo siriano di Antioco IV Epifane, che conquistò anche parte dell'Egitto, fu particolarmente odioso, perché questo sovrano volle imporre la cultura greca ai suoi sudditi. Circoncisione, proibizione del consumo di determinati cibi, rispetto del Sabato, vennero irrise dai dominatori. Antioco giunse a depredare il Tempio e a proibire i sacrifici animali a Yahweh. Questo fece scoppiare nel 167 a.C. una rivolta che portò alla creazione di uno stato ebraico indipendente fino alla conquista romana del 63 a.C.

Non è un caso che proprio nel periodo dei Maccabei fu scritto l'ultimo libro del Vecchio Testamento, il libro di Daniele, e che questo inaugurasse un nuovo genere, quello delle Apocalissi, opere letterarie in cui un profeta narra la visione dei tempi ultimi che gli è inviata da Dio. Daniele riceve una visione in cui quattro bestie terrificanti sorgono dal mare e una dopo l'altra si scagliano contro l'umanità uccidendo e devastando, fino a quando l'Altissimo scende sulla Terra assiso sul suo trono e, assistito dal "Figlio dell'Uomo" distrugge le bestie e restaura la giustizia.

La risposta degli apocalittici al problema del male era dunque la seguente: la malvagità che è attorno a noi deriva dal fatto che quest'epoca è l'epoca finale, in cui le forze distruttive raggiungono la loro maggiore potenza; ma sarà subito seguita dalla battaglia finale e dall'avvento di un Regno di giustizia. I caratteri del pensiero apocalittico hanno qualcosa in comune con quello gnostico, anche se si tratta di una dottrina diversa:

 

 

  Dualismo. L’apocalittica ebraica sostiene che ci sono due componenti essenziali nella realtà: le forze del bene e le forze del male. Dalla parte del bene, naturalmente, c’è Dio. Ma Dio ha un nemico personale: il diavolo (prima dell’apocalittica non ci sono riferimenti a questa figura nei testi ebraici, come del resto nella maggior parti della Bibbia). Dio ha i suoi agenti, gli angeli, e il diavolo pure, i demoni. Con Dio si schierano i poteri sovrumani della giustizia e della vita; con il diavolo si schierano il peccato e la morte. Gli apocalittici ritenevano che fossero forze reali operanti nel mondo. Il peccato non è solo qualcosa di male che capita di fare ogni tanto: è una forza cosmica, schierata contro Dio, che cerca di ingannare l’uomo per spingerlo ad agire contro il volere divino. Perché ci sono persone che “non riescono a trattenersi” dal fare ciò che sanno essere sbagliato? Perché il peccato le ha soggiogate. Anche la morte non è spiegabile solo come ciò che accade quando si esala l’ultimo respiro o la mente smette di funzionare; è una forza cosmica operante nel mondo, che cerca di catturare l’uomo e che, quando ci riesce lo annienta.

Per gli apocalittici ebraici, tutte le cose e tutte le persone del mondo sono schierate con le forze del bene o con quelle del male. Non esiste un terreno neutrale e tutti debbono scegliere da che parte stare.

Inoltre per loro questo dualismo cosmico si declina all’interno di uno scenario storico in cui c’è una radicale scissione tra l’età presente e quella futura. Il presente è in mano alle forze del male, ecco perché nel mondo c’è tanto dolore e tanta sofferenza, carestie, malattie, guerre e calamità naturali, per non parlare  delle esperienze più comuni di odio, solitudine e morte. Ma in futuro tutto ciò che è male sarà distrutto e rimarrà solo il bene; non ci saranno più fame, pena, sofferenza, dolore o morte, ma solo il volere di Dio, che regnerà sovrano sulla Terra.

 

 

  Pessimismo. Poiché la dottrina degli apocalittici sostiene che l’epoca presente è malvagia, non nutre alcuna speranza di poter migliorare la sorte degli uomini hic et nunc. Le cose vanno male e possono solo andare peggio, man mano che il diavolo e i suoi scagnozzi acquisiscono un potere sempre maggiore. Non si può cambiare in meglio la situazione migliorando l’assistenza sociale, aumentando il numero degli insegnanti o dei tutori dell’ordine: il potere delle forze del male è in aumento e continuerà a crescere fino al termine di quell’epoca, quando, letteralmente, scoppierà l’inferno.

 

 

  Vendetta. Ma la fine di quell’epoca non rappresenterà la fine della storia. Perché quando la situazione sarà definitivamente compromessa, Dio in persona interverrà a beneficio di chi si è schierato con lui. Rovescerà con il suo giudizio apocalittico le forze del male, distruggendo il diavolo e tutti i suoi poteri e portando sulla terra il suo regno benigno.

Nella vendetta di Dio rientra anche la resurrezione dei morti. Il giudizio di Dio, quindi, non riguarderà solo i vivi ma tutti, anche i morti, che risorgeranno fisicamente per affrontarlo. Quindi nessuno deve penare di potersi schierare in vita con le forze del male per ottenere prosperità e potere e poi farla franca dopo la morte. Ciò non è possibile perché Dio resusciterà tutti e li condannerà alla punizione eterna per il male compiuto, senza possibilità di attenuarla in nessun modo.

D’altro canto, chi si è schierato con Dio e ha sofferto di conseguenza sarà resuscitato dai morti per ricevere la ricompensa eterna (non può esserci che sofferenza per chi si schiera con il bene, perché sono le forze del male a controllare il mondo). Quindi chi soffre nel presente può sperare nella futura vendetta, nel regno ormai imminente. Ma quando verrà?

 

 

  Imminenza. L’apocalittica ebraica sostiene che il giudizio finale verrà molto presto. Prestissimo. Le cose non possono andare peggio di come vanno e quanto prima Dio interverrà per rovesciare le forze del male e fondare il suo regno. Ma quando succederà? “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza.” Sono parole di Gesù (Mc 9, 1). Dunque lo stesso Gesù era un apocalittico e professava un punto di vista simile a quello degli Esseni della comunità del Mar Morto, anche se con tutta probabilità non ne faceva parte né ebbe mai contatti con loro. In un altro passo Gesù afferma: “In verità vi dico: non passerò questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute” (Mc 13, 30).

 

L'apocalisse mancata: l'avvento del regno dei cieli e il trionfo finale del bene

 

Secondo molti studiosi del pensiero cristiano, mano a mano che le attese apocalittiche di un imminente avvento del regno di Dio sulla terra si rivelavano improbabili, i cristiani cominciarono a pensare che il giudizio non era qualcosa che sarebbe accaduto qui sulla terra, in virtù di qualche evento cataclismico. Il giudizio avrà luogo alla morte di ciascuno. Coloro che si sono associati al diavolo avranno in sorte una vita nell'inferno. Coloro che si sono associati a Dio avranno una vita eterna con dio, nella beatitudine dei cieli. In questa ottica mutata, il regno dei cieli non è un futuro regno terreno, è il regno che Dio governa già ora, in cielo. E' nell'aldilà che Dio raddrizza i torti. Il dualismo "orizzontale" tra un periodo antecedente e un periodo susseguente alla venuta sulla terra di Dio, si è trasformato in un dualismo "verticale" tra Cielo e Terra, tra Regno celeste e Regno terrestre.

 

When Bad Things Happen to Good People: un punto di vista rabbinico sulla figura di Dio

 

Non molti sanno che il pensiero religioso ebraico non è monolitico - non lo è mai stato - e ammette punti di vista sorprendentemente divergenti: i Farisei dubitavano ad esempio della risurrezione dei morti, e probabilmente alcuni di loro pensavano che la morte comportasse la distruzione totale dell'essere umano. Rabbi Harold Kushner ha scritto a metà degli anni '80 un libro per proporre la tesi che il male esiste semplicemente perché Dio non è onnipotente: sebbene egli abbia grandi poteri, non è in sua facoltà eliminare il male dal mondo. Ma egli può fare molto: darci forza per affrontare le prove e pace nell'animo. Questo punto di vista sul problema del male ha incontrato consensi presso molti lettori.

 

Il punto di vista gnostico: il cosmo creato dal Demiurgo

 

Gli gnostici hanno portato un punto di vista originale nel dibattito sul problema del male. Non solo il male esiste nel mondo, ma è esatta la nostra impressione che nel mondo l'ingiustizia e la malvagità prevalga sul bene e la giustizia. Il Dio supremo è lontano e non interviene nel cosmo materiale, neanche con la mano della provvidenza. L'universo è stato creato da una divinità decaduta e demoniaca, il Demiurgo. Tutto ciò che è materiale è corrotto e malvagio, compresa la psiche, che è vista come un elemento del cosmo manifestato, e quindi come creazione del Demiurgo, sottoposta agli influssi demoniaci degli Arconti, le divinità minori che governano insieme al Demiurgo. Questo visione pessimistica afferma che il male è inestirpabile, e durerà fin quando durerà il mondo.

Nella versione manichea il pessimismo diviene radicale: il male è un principio autonomo e indipendente rispetto il bene, e quindi può essere sconfitto, ma mai eliminato.

 

Il male come "assenza di bene"

 

Ci sono curiose similarità tra la spiegazione gnostica del male e una dottrina molto diffusa tra i teologi cattolici a metà del Novecento: quella della privatio boni. Dio è sommo bene, la sua sostanza coincide col Bene, ma il Bene che è nella creazione ha subito una "disintegrazione" o "decomposizione". Il cosmo è caratterizzato da una "privazione di bene"

Questo richiama la mente le emanazioni successive a partire dal Dio completamente trascendente, che producono infine spiriti imperfetti che cadono nell'errore e nel peccato, propria della cosmologia gnostica. In entrambi i casi la soluzione al problema del male consiste nell'operare una netta separazione tra il cosmo manifestato (e il suo creatore, nel caso degli gnostici) e la divinità suprema.

 

 

Gnosticismo e antinomismo

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Dalla concezione del cosmo come demoniaco e irrimediabilmente corrotto, dall' ostilità verso il mondo e dal disprezzo per ogni vincolo mondano possono essere ricavate due conclusioni opposte ed entrambe hanno trovato i loro sostenitori più radicali tra gli antichi Gnostici: quella ascetica e quella li­bertina. La soluzione ascetica predica un ritiro dal mondo per evitare di contaminarsi; quella libertina deriva, dal medesimo possesso, il pri­vilegio di una libertà illimitata.

La conclusione liberti­na, più sorprendente e ambigua, è sostenuta mediante questo argomento: la legge, rappresentando la volontà del Demiurgo ed essendo pertanto una forma della sua tirannia, non esercita alcun obbligo sul Pneuma che è "salvo per sua natura" e non può essere né macchia­to dalle azioni (in sé moralmente neutre), né impaurito dalla minaccia della retribuzione Arcontica, che può ri­guardare solo il corpo e la psiche. Perciò lo Pneumatico, essendo libero dal potere del destino, è anche libero dal giogo della legge morale e tutto gli è consentito. Questa libertà, comunque, è più che semplicemente permissiva; la sua realizzazione è comandata da un interesse meta­fisico. Attraverso la violazione intenzionale della norma demiurgica - preparata dalla diffamazione mitologica del Demiurgo - lo Pneumatico ostacola infatti il dise­gno degli Arconti e perciò contribuisce paradossalmente all'opera di salvezza. A partire da questo motivo di di­sprezzo è sufficiente poi soltanto un passo ulteriore per giungere all'insegnamento dei Cainiti e dei Carpocrati per cui vi è un dovere positivo di eseguire ogni genere di azione, di non lasciare alcun atto intentato, nessuna possibilità della libertà irrealizzata, per rendere alla na­tura ciò che le spetta ed esaurirne il potere; solo in que­sto modo si può ottenere la liberazione finale dal ciclo delle reincarnazioni. Il libertinismo gnostico, in questo modo, abbraccia l'intera scala dalla mera concessione negativa all' obbligazione faustiana positiva, risolvendo in parte, in tal modo, il contrasto rispetto alla sua alter­nativa ascetica.

Anche quest'ultima tradisce la comune radice gnosti­ca da cui entrambi gli opposti scaturiscono. Infatti, seb­bene appaia più ovvio nella scelta libertina, l'elemento di disprezzo si mostra ugualmente anche in quella asce­tica; pur mirando alla purificazione o ad altri fini perfe­zionisti normalmente associati all'ascetismo, essa pre­senta spesso, tuttavia, l'obiettivo dichiarato di ostacolare la causa del Creatore, anche solo di irritarlo, rifiutando di usare il suo mondo, una specie di sciopero metafisi­co. Quest'aspetto ostacolante è particolarmente chiaro nell'astensione dalle relazioni sessuali e dal matrimonio quando, come in Marcione e in Mani, il loro obiettivo è quello di non aiutare a popolare il mondo del Demiurgo e pertanto a disperdere in esso la luce prigioniera, pro­lungando in questo modo l'esilio di quest'ultima e ren­dendo la sua raccolta più difficoltosa. In effetti, secon­do Mani, lo schema riproduttivo era stato istituito dagli Arconti precisamente a questo fine. L'ascetismo diventa pertanto una questione non tanto etica, quanto di schie­ramento metafisico e il suo fondamento comune con il libertinismo riguarda la scelta di non partecipare al gioco del Creatore. L'uno rifiuta obbedienza alla natura me­diante l'astensione; l'altro mediante l'eccesso. Entrambe sono condotte di vita al di fuori della norma mondana. La libertà dell'uso e la libertà dell'astensione sono per­tanto espressioni alternative del medesimo acosmismo.

 

Vampiri e Gnosticismo

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Gli studiosi di folclore balcanico riportano le origini delle leggende sui non-morti a credenze, diffuse nei secoli successivi al Mille in una vasta area centroeuropea, sulla esistenza di cadaveri infestati dai demoni. Gli eresiologi bizantini, nei resoconti delle loro indagini, ci informano che in molti villaggi era costume riesumare i cadaveri di persone che in vita erano stati peccatori e di bruciarli, ritenendoli infestati dal diavolo.

Nel corso di un sinodo che ebbe luogo a Costantinopoli tra l'agosto e l'ottobre del 1143, furono deposti e scomunicati due vescovi provenienti dall'eparchia di Tiana, nell'Asia Minore sudorientale. I due presuli, Clemente di Sasima e Leonzio di Balbissa, erano tra l'altro accusati di aderire all'eresia dei bogomili che, per quanto oggi poco nota ebbe una notevole importanza nel medioevo. L'accusa principale rivolta a questi eretici era quella di credere nell'esistenza di due divinità creatrici, una buona e l'altra malvagia; nel caso dei due vescovi bizantini, peraltro, le imputazioni non vertevano tanto sulla teologia, quanto su tutta una serie di pratiche aberranti documentate in un memoriale di accusa redatto proprio dagli abitanti delle loro diocesi. Essi avrebbero sottoposto a un secondo battesimo alcuni fedeli nella convinzione che il primo fosse stato impartito da un prete indegno; poi avrebbero imposto la castità a coppie sposate, arrivando a favorire la monacazione di uno dei coniugi senza il consenso dell'altro. Infine avevano rifiutato la sepoltura ad alcuni defunti, esumando per giunta le spoglie di presunti peccatori nella convinzione che i loro cadaveri albergassero dei demoni: avevano lasciato insepolti alcuni morti cristiani o non avevano celebrato l'ufficio funebre e non ne avevano accettato il pentimento neanche da vivi. Poi avevano disseppellito cadaveri di cristiani sepolti dentro e fuori le chiese, dichiarando che erano peccatori e i cadaveri erano abitati da demoni.

Da questo si ricava che già nel XII secolo  si potesse giungere a esumare i cadaveri dei peccatori, ritenendoli infestati da demoni, e che tale pratica, per giunta, fosse immediatamente e inappellabilmente associata col bogomilismo.

Per capire cosa succedeva ai cadaveri esumati dai vescovi, si può leggere il codice legale (Zakonik) promulgato dall'imperatore serbo Stefano Dušan tra il 1349 e il 1354, attingendo ampiamente al diritto civile e canonico bizantino.  L'articolo 20 dice che "riguardo agli eretici che bruciano i cadaveri e, diabolicamente, li tirano fuori dalle tombe, ogni villaggio dove ciò ha avuto luogo deve pagare una sanzione e se un prete vi ha avuto parte, deve essere rimosso dal sacerdozio". E' chiaro che Dušan, il cui Stato all'epoca era arrivato a comprendere anche buona parte della Grecia, parla di fatti molto vicini a quelli condannati dal sinodi di Costantinopoli, come rivelano la menzione dell'eresia, della riesumazione dei cadaveri e della partecipazione di sacerdoti a queste pratiche. Le esumazioni dei due vescovi forse erano seguite da un rogo. Sembra corroborato il riferimento ai bogomili: questa setta eretica, infatti era presente anche nella Serbia di Dušan ed è esplicitamente ricordata nell'articolo 85 dello Zakonik. Tutto dunque lascia pensare che, a Costantinopoli nel XII secolo e in Serbia due secoli dopo, le esumazioni di cadaveri posseduti da demoni fossero non solo conosciute, ma soprattutto connesse con l'eresia.

Riguardo questa diffidenza nei confronti dei cadaveri dei peccatori, gli studiosi sono concordi nell'affermare che una connessione con il bogomilismo non è improbabile. Eutimio Zigabeno, eresiologo alla corte bizantina dell'imperatore Basilio ricorda come tali eretici "dicano che […] in ciascujno di tutti gli altri uomini [con l'eccezione dei bogomili stessi, dunque] abiti un demone, e gli insegni le malvagità e lo istighi alle empietà, e che quando l'uomo è morto il demone continui ad abitare nelle sue spoglie, e rimanga nel sepolcro, aspettando la resurrezione, per essere punito con quello e non venirne separato neppure nel castigo". A quanto pare i bogomili ritenevano che un fenomeno simile fosse alla base anche dei miracoli attribuiti alle reliquie dei santi ortodossi, che in realtà sarebbero state un ricettacolo di demoni. Nel prosieguo della trattazione Eutimio avanza l'obiezione secondo cui, se davvero in ogni cadavere avesse albergato un demone, questi ultimi prima o poi si sarebbero esauriti; si può però ricordare che un postulato già presente nel manicheismo voleva che i demoni non avessero un numero finito, ma ne apparissero sempre di nuovi nel Mondo delle Tenebre per effetto di una generazione spontanea simile a quella degli insetti, che nascono dall'immondizia e dalla putredine.

Ci si può dunque legittimamente chiedere se questo sviluppo, che sembrerebbe limitato all'area dei Balcani meridionali e dell'Asia Minore bizantina, non fosse stato influenzato dalle preesistenti credenze slave. Probabilmente sì: non è difficile supporre che, proliferando su un substrato già sensibile al fenomeno dei revenants malvagi, e per giunga dedito a pratiche come la cosiddetta sepoltura secondaria (l'esumazione rituale dei defunti, probabilmente un antico retaggio slavo), che procurava un contatto con i cadaveri molto maggiore che in Occidente, il bogomilismo abbia finito per rafforzare, diffondere ed esasperare questa serie di credenze su vrykolakes e affini. In particolare potrebbe aver fornito un rudimentale inquadramento teologico (legato al concetto della possessione demoniaca del cadavere), stimolando per reazione un corrispondente interesse in materia anche da parte della Chiesa ortodossa che, come si vedrà, cercherò in qualche misura di speculare sulle credenze che si andavano diffondendo tra la popolazione.

Dice Perkowski che "Slavic vampirism [ma l'asserzione vale per tutto l'impero bizantino] in the form in which it penetrated to the West early in the eighteenth century, evolved in the Balkans, starting in the ninth century, as the result of confrontation of Slavic paganismo Bogomilism, and Orthodox Christianity". La connessione tra bogomilismo e sviluppo delle credenze vampiri è fortemente sostenuto da questo autore. Il legame medievale tra bogomili (che in quanto avversari interni della Chiesa ortodossa erano accusati di tutti i crimini) e vampiri (che avrebbero svolto il ruolo di capro espiatorio per le tensioni della società) è ammesso anche da altri studiosi.

Del resto il bogomilismo fu ben attestato nei Balcani e in particolare nel residuo territorio bizantino  proprio nel periodo di incubasione delle credenze vampiriche: nei primi anni del XIV secolo si era diffuso anche tra i monaci del monte Athos e ancora nel secondo decennio del XV secolo l'arcivescovo Simeone di Tessalonica ne deplorava la presenza nella sua diocesi. Con la conquista ottomana le informazioni sui bogomili sembrano avere fine, ma la loro impronta era comunque destinata a rimanere. Non a caso lo stesso Obolensky, il massimo studioso del bogomilismo, aveva dichiarato che la principale eredità di questa eresia consisteva proprio in una "vaga tradizione dualista che ha lasciato un'impronta nel folklore degli Slavi meridionali e ha ispirato molte leggende popolari bulgare. C'è tutta una serie di leggende popolari rumene sul diavolo che rimandano ad un substrato bogomilo; numerose leggende bulgare sulla creazione sembrano chiaramente rimandare a concezioni dualistiche.

Nel caso del vampirismo, queste impronte dualiste non sono così vaghe. I bogomili asserivano caratteristicamente che nei corpi dei peccatori (ossia dei non appartenenti alla setta) abitavano dei demoni che non li abbandonavano neppure dopo la morte; e gli ortodossi, proprio come fa Eutimio Zigabeno, ritorcevano la medesima accusa contro di loro. Si veda per esempio la testimonianza di Eutimio di Periblepto (metà dell'XI secolo) autore di un'epistola contro i fundagiagiti, la branca dei bogomili diffusa in Asia Minore e nella stessa Costantinopoli. Eutimio in particolare riferisce come, grazie alla lettura di un particolare incantesimo attribuito all'eresiarca Lykopetros, lo Spirito Santo fuggisse dal cuore dei neofiti della setta e il suo posto fosse preso da uno spirito impossibile da cacciare via. Alla metà del XII secolo il patriarca di Costantinopoli, Soterico Panteugeno, dichiarava di essere riuscito a individuare post mortem molti bogomili aprendone le tombe e notando alcuni segni particolari nei cadaveri (in particolare la mano destra annerita). Il cadavere pericoloso e irrequieto, soggetto a essere posseduto dal demonio, sarebbe stato dunque proprio  quello degli eretici. Tracce di questa concezione sopravvivono anche nel folklore greco, ma le attestazioni più rilevanti, addirittura in maniera clamorosa, si segnalano nell'ambito dell'ortodossia slava. Non sembra in fatti un caso che in alcune regioni della Russia dove vi furono importanti infiltrazioni di bogomili, attestate dalle cronache già nell'XI secolo, per designare il vampiro non si usi più l'originario nome slavo upir, ma da moltissimo tempo (forse già dal XV secolo) si parli di eretik (eretico).

L'eretico, in particolare, nella tradizione locale si fonde con il mago: a entrambi vengono attribuite credenze dualistiche, spesso degenerate nella venerazione per il demonio; dopo la morte, il mago/eretico vive infine un'esistenza vampirica. La fusione tra stregone ed eretico di stampo bogomilo è documentata già in una versione della Cronaca primaria russa (o Cronaca dei tempi passati). Nella zona di Belozersk, nella Russia meridionale, nel 1071 erano comparsi due maghi che si resero colpevoli dell'omicidio di alcune donne, nel corso di rituali finalizzati ad alleviare una carestia che aveva colpito la regione di Rostov. Questi riti, così come le credenze dualistiche professate dagli stregoni, sono stati persuasivamente collegati a tradizioni diffuse fino al XIX secolo presso i Mordvini, una popolazione ugrofinnica; quello che conta tuttavia è che il redattore della Cronaca dei tempi passati, che scriveva nel XII secolo, aveva immediatamente istituito un collegamento con gli aborriti bogomili. Obolensky propende invece per considerare i due maghi come veri bogomili. Anche l'afterlife vampirico è precocemente attestato nel folklore. In un celebre racconto  settecentesco contenuto nella raccolta Il derisore ovvero favole slave di Mikhail Chulkov, compare un sacerdote che di fronte alle spoglie (le quali hanno già dato segni di irrequietezza) di un noto negromante rifiuta di celebrare il funerale di "un tale eretico, che ha il diavolo dentro di sé"; anche dopo la sepoltura, il cadavere non rimane nella propria tomba ma perseguita e vessa la gente del villaggio finché non viene fatto a pezzi da un cacciatore. Ancora oggi nella Siberia settentrionale si usa l'espressione "vagare di notte come un eretik" che chiaramente rimanda alle scorribande notturne dei cadaveri rianimati, ben note alla tradizione.

Particolarmente interessante è un'ulteriore figura vampirica russa, il cui nome, erestun, deriva anch'esso dal termine eretico: si tratta dello spirito di uno stregone deceduto che si insinua nel corpo di un morente e lo rianima, utilizzandolo per compiere le sue malvagità, in particolare per divorare gli altri abitanti del villaggio. L'unico modo per liberarsi di un erestun consiste nel frustarlo spietatamente in modo da fargli letteralmente "rendere l'anima"; poi, per impedire che lo spirito dello stregone rianimi nuovamente il cadavere, occorre seppellire quest'ultimo con un paletto di pioppo piantato nella schiena. In quest'interpretazione lo spirito dello stregone ha il ruolo che normalmente è affidato al diavolo o a un demone.

L'attività vampirica degli stregone e la mobilità della loro anima è ben documentata da tutta una serie di curiose storie popolari, come quella, molto celebre, del Soldato e del vampiro raccolta da Afanasjev. Il soldato sconfisse uno stregone morto che la notte usciva dalla tomba e compiva "tali azioni da gelare il sangue nelle vene", terrorizzava il villaggio, bruciandolo. Dal cadavere uscivano insetti, rettili, uccelli che cercavano di portare in salvo il suo spirito. In questa storia è interessante la caratteristica del mago/vampiro di risorgere una prima volta dal proprio cadavere, e poi fuggire ancora sotto forma di animale, verosimilmente per trasferirsi successivamente in un altro corpo. In altre cronache i contadini agitano i rami intorno al rogo per impedire al diavolo di fuggire. Sembrano esservi connessioni con tradizioni su demoni che fuggono in forma animale dal cadavere di eretici: Pietro il Lupo, considerato l'ennesimo esponente della eresia dualistica che secondo la tradizione fu lapidato in Armenia, risorse dalla tomba in sembianze bestiali. Spesso si sosteneva che la permanenza post mortem del mago/eretico/vampiro sulla terra fosse una sorta di rovescio della medaglia: i termini del patto che, secondo la tradizione russa, stringeva col demonio prescrivevano infatti che mentre era in vita il mago comandasse le forze del male; dopo la morte, tuttavia, era proprio lo stregone a divenirne schiavo, mettendo loro a disposizione anche il suo cadavere. C'è da dire, però, che il mago/vampiro descritto da Afanasjev non pare per niente afflitto dalla sua condizione: anzi, sembra piuttosto compiaciuto e ben poco propenso a trovare a pace sul rogo che gli preparano gli abitanti del villaggio. Ci si può chiedere se la tradizione della vita cadaverica attribuita a maghi o eretici potesse essere percepita non solo come effetto collaterale del patto col diavolo, ma anche come una scelta volontaria. La cornice per tale scelta avrebbe potuto essere fornita, agli occhi degli ortodossi, da quella che era considerata l'estrema deformazione delle dottrine dualistiche, l'eresia del sataniani, che si sottomettevano volontariamente al Signore di questo mondo, ossia al diavolo, e che dunque, si potrebbe inferire, avevano tutto l'interesse a evitare che la propria anima salisse al cielo, dove sarebbe stata sicuramente condannata. I sataniani, considerati un'ala estrema dei messaliani, erano conosciuti ed esecrati dagli eresiologi fin da un'epoca molto antica. Il primo a menzionarli, nel IV secolo, è Epifanio di Salamina nel Panarion: "altri dissero: 'Satana è grande, potente e causa molto male agli uomini. Perché non ricorriamo a lui e lo veneriamo, onorandolo e lodandolo, affinché a causa di questa venerazione adulatoria non ci faccia del male e anzi ci risparmi, considerandoci suoi servi?' ". Nell'VIII secolo sono segnalati da Giovanni Damasceno nel De haeresibus, e nel XII secolo da Niceta Coniata nel Thesaurus fidei orthodoxa. Anche se il termine di "sataniani" restò sempre di uso abbastanza circoscritto, tuttavia si rivelò molto diffusa e popolare la concezione, quando si aveva a che fare con eretici dualisti, che il vero oggetto della loro venerazione fosse il demonio. Il monaco Eutimio di Periblepto, che nell'XI secolo si scaglia contro i fundagiagiti, nome con il quale erano noti gli eretici di stampo bogomilo che proliferavano nell'Asia Minore, asserisce chiaramente che l'oggetto segreto del loro culto era proprio il diavolo. Nota Hans Georg Beck: "il loro più importante  rito di iniziazione è un incantesimo satanico, qui senza dubbio da interpretare come evocazione di Satana, che deve scendere sulle teste degli adepti per dissipare la grazia battesimale. Anche i fundagiagiti adorano una Trinità, che però non è quella cristiana, ma una trinità satanica, e quando  recitano il Padrenostro intendono come padre di nuovo solo il diavolo, creatore di tutte le cose del cielo e della terra […] è lecito ritenere che si trattasse di un movimento contadino rappresentato da monaci di umili condizioni e da chierici. Questi volevano venire a patti con il diavolo, e si servivano a tale scopo di formule magiche propiziatorie".

Altrettanto esplicite e chiaramente reminescenti delle speculazioni di Epifanio, sono le affermazioni rintracciabili nel trattato su Le opere dei demoni attribuito a Michele Psello e, con ogni probabilità riferito proprio alle eresie dualistiche che si diffondevano nei territori bizantini tra XI e XII secolo. Nel descrivere le credenza degli euchiti, nome arcaizzante con cui con ogni probabilità sono indicati proprio i bogomili, si ricorda come tutte le branche della setta riconoscessero l'esistenza di tre principi creatori, ovvero un Padre responsabile del mondo fisico, un Figlio maggiore che crea e governa la terra (identificato con Satanael, il diavolo), e un figlio minore che regna sui cieli. Alcuni degli euchiti avrebbero venerato entrambi i fratelli; una fazione, invece, si sarebbe limitata al solo Satanael, il governatore della terra. Si possono nutrire dubbi sul fatto che gli eretici descritti da Eutimio e Psello  fossero veramente degli adoratori del demonio; ma quel che è davvero importante è che su di loro circolasse effettivamente questa opinione. Si pensi anche al caso dei due maghi ritratti nella Cronaca primaria russa, citata in precedenza, i quali pur asserendo la natura dualistica dell'essere umano (il corpo appartiene al diavolo, l'anima invece tende a risalire a Dio dopo la morte), scelgono volontariamente di venerare l'Anticristo che risiede negli abissi: quale poteva essere la convenienza di una simile scelta dopo la morte? Se l'anima usciva dal mondo terrestre per riunirsi a Dio, nessuna, giacché sarebbe stata destinata alla punizione; ma se lo spirito vitale, in qualche modo, rimaneva sulla terra (governata dal demonio, "principe di questo mondo" secondo Gv 12,31), allora effettivamente la scelta sataniana poteva essere sensata. Pur in un contesto profondamente diverso, già sant'Agostino, del resto, aveva affermato che, se davvero, come ritenevano i platonici, i malvagi erano destinati a trasformarsi in larvae e lemures, allora vi sarebbe stato chi avrebbe praticato volontariamente il male, ritenendo che una sopravvivenza post mortem sotto forma di demone, temuto e oggetto di riti propiziatori, fosse comunque desiderabile (De Civitate Dei 9, 112). A maggior ragione una concezione come questa poteva essere inquadrata in un orizzonte ideologico come quello dualistico, dove l'unica via per ottenere la salvezza consisteva in pratiche ascetiche particolarmente rigide. Per chi non riusciva a seguirle, o non voleva farlo, l'alternativa sarebbe stata la dannazione, a meno per l'appunto di non scendere a patti con il demonio (conseguendo vantaggi non disprezzabili in questo mondo) e di non permettere all'anima di abbandonare il corpo. Con questo non si vuole dire che effettivamente in Russia e nei Balcani circolassero bogomili sataniani, per quanto forse non sia impossibile; semplicemente che, soprattutto agli occhi degli ortodossi, nel caso di figure accusate di eresia e magia nera, la permanenza diabolica dell' anima nel cadavere poteva essere considerata uno sviluppo, per quanto orribile, piuttosto logico all'interno di una presunta affiliazione al culto di Satana; questo spiegherebbe anche la sua presenza a livello folkorico, soprattutto in casi in cui, come si è visto, il revenant sembra assai soddisfatto del suo stato e terrorizza un'intera comunità. Proprio questa motivazione, del resto, era stata fornita nel tentativo di spiegare i fenomeni vampirici da Franciscus Solanus Monschmidt, un francescano attivo nella città di Oppau (oggi Opava, nella Repubblica Ceca, quasi al confine con la Polonia). All'interno di un manuale per esorcisti intitolato Ministerium exorcisticum, pubblicato nel 1738, Monschmidt identificava i vampiri con maghi e streghe defunti che, in vita, avevano fatto un patto col diavolo, in forza del quale erano in grado di resuscitare e influenzare in maniera analoga anche gli altri cadaveri innocenti sepolti vicino ai loro, in modo da uscire dai sepolcri e arrecare danno all'umanità". L'idea del patto col diavolo come spiegazione del vampirismo emerge anche in uno scritto pubblicato nel 1732 e intitolato Curieuse und sehr wunderbare Relation, von denen sich neuer Dingen in Servien erzeigenden Blut-Saugern oder Vampyrs. Non è chiaro se questa spiegazione delle manifestazioni vampiriche (che si accompa­gnava alla raccomandazione di utilizzare l'esorcismo per libe­rarsene) derivasse dalle speculazioni personali di Monschmidt oppure dalle tradizioni locali con cui era a contatto; fatto sta che l'interpretazione da lui propugnata non riuscì comunque ad affermarsi nella Chiesa cattolica. Nel 1749, infatti, uscì la seconda edizione di un trattato, pubblicato originariamente nel 1734 dal cardinale Prospero Lambertini, intitolato De ser­vorum Dei beatificatione et Beatorum canonizatione. Nel testo era contenuto un paragrafo significativamente intitolato De vanitate vampyrorum , dove si affermava che le manifestazioni vampiriche erano assolutamente inesistenti e frutto di fanta­sia". Il cardinale Lambertini, nel frattempo, era divenuto papa Benedetto XIV, e questa presa di posizione fu determinante per orientare il nuovo atteggiamento della Chiesa cattolica, che fu quello di negare ogni realtà ai casi di vampirismo. Il concetto è presente anche in una lettera inviata dal pontefice al vescovo (di rito greco) di Leopoli, che gli chiedeva lumi su come comportarsi di fronte a presunti casi di vampirismo. Benedetto XIV rispose con tono non privo di sarcasmo, citando Van Swieten e dichiarando che spesso le superstizioni vampiriche erano fomentate da sacerdoti che avevano il proprio tornaconto. La spiegazione fornita da Monschmidt, dunque, non aveva più ragion d'essere e pertanto finì nel dimenticatoio; e forse non è un caso che, proprio sulla scia del pronunciamento papale, anche Maria Teresa d'Austria, nel 1755, prendesse ufficialmente posizione contro le esumazioni vampiriche nei suoi Stati.

 

 

 

appendice i - bibliografia essenziale

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La redazione di questa appendice sarà completata quanto prima

 

 

 

appendice ii - lessico di filosofia antica

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Acosmismo

Allegoria

Anamnesi

Apatia

Apofasi

Ascesi

Askesis

Astrologia

Autarchia

Caduta

Catarsi

Conoscenza

Contemplazione

Corpo

Cosmo

Deificazione

Demiurgo

Dio

Dualismo

Emanazione

Eoni

Ermetismo

Escatologia

Estasi

Fuga dal mondo

Gnosi

Gnosticismo

Heimarmene

Immanenza

Immortalità

Inconoscibile

Incorporeo

Ineffabile

Intelligibile

Io

Ipostasi

Ipostatizzazione

Logos

Materia

Microcosmo

Misteri

Misticismo

Monismo

Narcisismo

Neopitagorismo

Neoplatonismo

Nichilismo

Non-essere

Nous

Oracoli Caldaici

Orfismo

Pampsichismo

Panlogismo

Panteismo

Peccato

Pessimismo

Physis

Pistis

Pitagorismo

Pneuma

Politeismo

Processione

Provvidenza

Psyché

Rivelazione

Saggezza (phronesis)

Salvezza

Santità

Sapienza

Scienza

Suicidio

Teurgia

Trascendenza

Uno

 

 

Acosmismo

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Il termine (che è formato da alfa privativo e kosmos) indica quel­la posizione di pensiero che tende, al limite, a risolvere il cosmo in Dio, ossia il mondo corporeo nell'incorporeo. Hegel usò questo termi­ne per indicare il sistema spinoziano, in cui la natura tende, appunto, a risolversi in Dio. A nostro avviso, una forma di acosmismo può es­sere considerato, sotto un certo profilo, il sistema plotiniano (e il neo­platonismo in generale), nella misura in cui esso tende a risolvere il cosmo nell'Anima, l'Anima nello Spirito e lo Spirito nell'Uno, quindi la realtà fisica in quella psichica, questa in quella spiri­tuale e a risolvere tutta la realtà nella potenza dell'Uno.

Una forma di acosmismo può essere considerata anche l'ontologia eleatica, nella misura in cui non solo non riesce a "salvare i fenomeni", ma giunge, addirittura, a negarli in maniera esplicita.

 

 

Allegoria

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L'allegoria è una immagine o una figura o una vicenda che viene presentata o comunque che viene intesa quale espressione di concetti e di idee riposti al di sotto della sua apparenza immediata. Di conseguenza chiamasi interpretazione allegorica, quella che si propo­ne di ricavare in modo sistematico il significato concettuale delle narrazioni mitiche, fantastico-poetiche, o anche storiche. Nella filo­sofia greca l'uso della allegoria è costante, ma si diffonde soprattut­to verso la fine dell'era antica e nei primi secoli dell'era imperiale, durante i quali, anzi, I'interpretazione allegorica diventa un vero e proprio metodo di esegesi filosofica.

a) Nell'ambito dei Presocratici troviamo un inequivoco uso dell'allegoria nel prologo del poema di Parmenide, nel quale il filosofo narra di essere stato portato su un carro tirato da cavalle e condotto da divine fanciulle (le figlie del Sole) dalla notte alla luce, al cospetto della Dea che sIi rivela la Ve­rità. Parmenide ha senza dubbio presentato que­ste immagini come cariche di un riposto significato filosofico, anche se per noi sono di difficile interpretazione per mancanza di paralleli storici.

b) I Sofisti fanno un uso dei miti che può definirsi di ca­rattere allegorico, come in modo paradigmatico risulta, ad esempio, dalla esegesi del mito di Eracle al bivio che dà Prodico

c) Tutti i miti di Platone hanno una valenza che può essere detta allegorica, tanto è vero che egli stesso mette in guardia espressamen­te i suoi lettori a non intenderli nella lettera, ma appunto nel mes­saggio che è riposto sotto la lettera.

d) Della inter­pretazione allegorica fanno uso gli Stoici, considerando le raffigura­zioni poetiche riguardanti gli Dei come simboli di verità miche

e) Fra i filosofi è però Filone di Alessandria che sviluppa il metodo allegorico in maniera sistematica, al punto da farne il meto­do stesso del suo filosofare. Per Filone, infatti, la filosofia coincide con l'interpretazione allegorica della Bibbia. Sotto i personaggi e sot­to gli eventi narrati nella Bibbia, secondo Filone, stanno riposti si­gnificati filosofici che si collocano a quattro differenti livelli, e preci­samente: 1) a livello cosmologico, 2) a livello antropologico, 3) a li­vello metafisica, 4) a livello morale. In particolare è da rilevare co­me la narrazione del Genesi, dalla creazione di Adamo all'avvento di Mosè, secondo Filone, simboleggerebbe (sul piano dell'esegesi allego­rica a divello morale) la storia dell'anima che dapprima è indifferen­te, poi pecca, quindi si pente e, sia 'Pure con varie ricadute, riacqui­sta, alla fine, la santità. Ciascuno dei personaggi biblici rappresente­rebbe uno stato o una tappa della storia dell'anima in cammino ver­so la salvezza.

e) Una interpretazione allegorica molto elaborata è contenuta nella T avola di Cebete, che è uno pseudoepigrafo pitagorico di età ellenistica.

f) Un largo uso del metodo allegorico si riscontra nel medioplatonico Plutarco, in particolare nel De Iside et Osiride, dove la mitologia egiziana è riletta in questa chiave con no­tevole finezza

g) Anche Numenio, da parte sua, acco­glie (almeno in parte) il metodo filoniano e do estende anche al Nuovo, Testamento, come risulta da alcuni frammenti pervenutici

h) L'interpretazione allegorica della mitologia greca e dei poeti, infine, diviene canonica nel neoplatonismo, dapprima in modo assai discreto in Plotino, poi in modo sempre più diffuso e massiccio già a partire da Porfirio (si pensi alla sua interpretazione allegorica di Omero nell'Antro delle Ninfe).

i) Anche l'interpretazione dei dia­loghi platonici che viene fatta soprattutto da Giamblico in poi, può' essere considerata come una forma particolare di interpretazione al­legorica

 

 

Anamnesi

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Con questo termine, che significa ricordo e reminescenza, Plato­ne indica la genesi e il fondamento della conoscenza. L'anamnesi pla­tonica è qualcosa di assai più profondo del mero ricordo empirico. Essa potrebbe chiamarsi memoria metafisica, in quanto implica una comunanza strutturale dell'anima umana col mondo metempirico e una visione originaria del medesimo, che nelle reincarnazioni periodiche dell'anima si attenuano, si obnubilano, ma non si cancellano mai, e, quindi, riemergono (e in questo senso appunto si parla di "ricor­do"), La teoria della reminiscenza, lungi dal ridursi ad un mito, espri­me, in realtà, la prima concezione occidentale dell'a-priori

Plotino, riprendendo il concetto, in­terpreta l'anamnesi come quel tipo di ricordo che conserva perenne­mente nell'anima ciò che all'anima (in quanto realtà soprasensibile) è connaturato, e che le deriva dal suo originario e strutturale aggan­cio alle ipostasi superiori. Diversamente dalla memoria, l'anamnesi non è legata alla dimensione temporale. In questo senso l'anamnesi resta operante anche in tutta la tradizione neoplatonica.

 

 

Apatia

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Il termine significa impassibilità, nel senso di assenza di pas­sione e costituisce, con diverse sfumature, l'ideale morale degli Stoi­ci, dei Cinici, dei Megarici più radicali e di Pirrone, ossia di quasi tutta la filosofia dell'età ellenistica.

a) Per gli Stoici indica la radi­cale eliminazione delle passioni, intese come i mali dell'anima da cui dipende la sua infelicità. Le passioni sono sradicabili dall'anima, per­ché coincidono con giudizi errati, o perché sono conseguenza dei me­desimi. Il retto giudizio – e dunque la conoscenza – elimina le pas­sioni e rende felice l'uomo.

b) Per i Cinici l'apatia si colora del significato di indifferenza di fronte a tutte le cose che gli uomini tengono in pregio

c) Per il megarico Stil­pone l'apatia assume il significato di capacità di non sentire neppure i bisogni e si fonda sulla matrice eleatica della sua ontologia.

d) In Pirrone l'apatia assume il significato più radicale di totale insensibilità (ne sentire quidem), in uno stato che si raggiun­ge "spogliando completamente l'uomo". L'immagine del sag­gio che può essere felice anche tra i più atroci tormenti (ad esem­pio nel toro infuocato di Falaride), simboleggia sostanzialmente que­sto ideale dell'apatia, che è una delle cifre che contraddistinguono, come si è detto, il pensiero dell'età ellenistica. E' però da rilevare che, in genere, anche nell'età classica, i filosofi greci hanno conside­rato le passioni e le emozioni in modo prevalentemente negativo, a motivo dell'intellettualismo impresso all'etica di Socrate, e rimasto poi una costante.

 

 

Apofasi

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1) Apofasi è la negazione, "apofatico" è il giudizio negativo, il qua­le disgiunge un predicato da un soggetto.

2) Teologia apofatica o negativa è stata detta quella teologia che, ponendo Dio come assolutamente trascendente, lo considera, di conseguenza, inco­noscibile ed ineffabile. Secondo que­sto tipo di teologia, di Dio si può dire ciò che non è, piuttosto che ciò che è. Di Dio si devono, quindi, negare tutti quegli attributi che appartengono a ciò che da Lui è prodotto e da Lui dipende. La teo­logia negativa ha le sue origini in Filone Ebreo e in parte anche nel medioplatonismo e nel neopitagorismo, mentre il si­stematico sviluppo di essa è operato soprattutto dal neoplatonismo.

 

 

Ascesi

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Vedi askesis

 

 

Askesis

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Significa, propriamente, esercizio: un concetto fondamentale soprattutto nel' cinismo e nei pensa tori influenzati dal cinismo. L'eser­cizio, per i Cinici, consiste in una pratica di vita atta a temperare sia il corpo, sia l'anima, alle fatiche imposte dalla natura. Esso è, quindi, fondamento della virtù e della possibilità di raggiungere la felici­tà. Cosi, anche nel neostoico Musonio Rufo, che subì profondamente l'influenza cinica, l'esercizio è l'essenza della virtù.

 

 

Astrologia

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Dottrina parascientifica basata sulla credenza dell'influsso degli astri e dei loro moti sull'uomo, sui suoi caratteri e sul suo destino. Nacque fra i Caldei ed ebbe larga diffusione soprattutto a motivo della pratica degli oroscopi, che ne è un momento essen­ziale. I filosofi greci furono portati a sviluppare prevalentemente la componente scientifica di essa, creando, così, la astronomia.

Gli Stoici, tuttavia, ritennero di poter dare fondamento razio­nale proprio all'astrologia nel suo significato sopra specificato, sulla base del concetto di Heimarmene, e soprattutto di quello di simpa­tia universale. Solo Panezio, nell'ambito della Stoa, si op­pone. Le più serrate critiche vengono però dalla Accademia scetti­ca di Carneade, e soprat­tutto da Sesto Empirico che dedica un intero libro alla confutazione della astrologia. Egli considera la credenza nella astrologia un vero e proprio oltraggio all'umanità "innalzando ·a nostro danno un gran muc­chio di superstizioni e spingendo a non far nulla secondo la retta ragione" (Contro i Matematici, v, 2). L'astrologia si diffonde larga­mente nella tarda antichità.

 

 

Autarchia

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Significa autosufficienza, autonomia.

a) In Ippia il termine sta ad indicare la capacità di saper fare da sé tutto ciò che occorre alla vita.

b) In Socrate, invece, assume il duplice significato di autonomia della virtù e quindi dell'uomo virtuoso. La virtù è autar­chica perché da sola basta a procurare la felicità, e il saggio lo è di conseguenza

c) I Cinici, e in particolare Antistene e Diogene, radicalizzano il concetto e lo portano alla estrema esasperazione.

d) L'ideale dell'autarchia ispira, in genere, tutta la filosofia ellenistica: chi segue la natura – dice Epicuro – raggiunge l'autarchia. Allo stesso modo la autarchia è la caratteristica peculiare della virtù per gli Stoici, per­ché è fine a se stessa.

 

Caduta

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caduta dell'anima nel corpo

 

È descritta con ampiezza da Platone nel celebre mito del Fedro, come conseguenza di una colpa origina­ria. Questa concezione della colpa, che negli Orfici e nei Pitagorici resta alquanto oscura, è da Platone interpretata, sempre nel Fedro, come incapacità di contem­plare, o di continuare a contemplare l'Essere nella pienezza della verità. Il cadere, come conseguenza dell'affievolirsi o venir meno del contem­plare, diventa, poi, idea centrale in Platino. L'ermetismo interpreta la caduta dell'anima nel corpo come un peccato di narcisismo.

 

 

Catarsi

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Catarsi significa purificazione in almeno tre differenti sensi: 1) a livello magico-religioso, 2) a livello filosofico-razionale, 3) a livello poetico-estetico.

1) La catarsi magico-religiosa è quella propria dei misteri, consegnata alle pratiche delle teletai orfiche, o a quelle teurgiche degli Oracoli, fatte proprie anche dagli ultimi Neoplatonici. Lo scopo è la libe­razione dal male inteso come impurità e la salvezza nell'aldilà.

2) La seconda forma di catarsi fa invece leva sulla conoscenza e sul Nous dell'uomo. Già i Pitagorici incominciarono a portarsi su questo pia­no, ma la fondazione speculativa di questa forma di ca­tarsi si trova in Platone, il quale spiega che, se la purificazione to­tale dell'anima avviene con la morte, ossia con la separazione radi­cale dal corpo, è tuttavia possibile anche restando in vita, in un certo senso, staccarsi dal corpo e rifugiarsi nell'anima, e, attraverso l'ani­ma appunto, conoscere il puro essere. La vera purificazione consiste nel sapere, i veri iniziati ai misteri sono i veri filosofi, come si dice in un famoso passo del Fedone.

3) La catarsi poetico-estetica è, secondo Aristotele, quella prodotta dall'arte, ed è una sorta di purificazione dalle e delle passioni, e quindi, in ultima analisi, l'effetto prodotto da ciò che noi "oggi chiamiamo piacere estetico.

 

 

Conoscenza

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La conoscenza costituisce un problema sul quale gli antichi hanno molto riflettuto, anche se in misura minore rispetto ai problemi ontologici e morali. Bisogna tuttavia rilevare che in ogni caso a differenza che nella filosofia moderna, la conoscenza non è il problema centrale della filosofia antica. Per inquadrare adeguatamente le dottrine dei greci a riguardo è bene distinguere i seguenti tre problemi: 1) quello della genesi della conoscenza; 2) quello della natura o essenza della conoscenza; 3) quello del valore della conoscenza.

1) Studiare la genesi della conoscenza vuol dire determinare la fe­nomenologia del processo conoscitivo, ossia come nasca e attraverso quali tappe si sviluppi la conoscenza. a) I Naturalisti, in partico­lare Empedocle e gli Atomisti, parlano di effluvi, che dalle cose giungono ai sensi. b) Platone, il quale distingue due pia­ni del conoscere, fa coincidere la genesi della vera conoscenza col processo della reminiscenza delle Idee, di cui l'anima è capace. perché originariamente le ha vedute e, nascendo; ne ha smarrito il ri­cordo. c) Aristotele presenta, nel trattato Sull'ani­ma, la più puntuale disamina di questa problematica, mostrando come il processo conoscitivo cominci dai sensi e dalla sensazione, come da questa derivi la fantasia, la memoria e l'esperienza: e, quindi, come ad opera dell'intelletto si giunga alla conoscenza intellettiva, che è un coglimento della forma intelligibile. L'intero processo conoscitivo è poi interpretato dello Stagirita sulla base dei concetti-chiave di po­tenza e atto. d) Epicuro torna a spiegare la genesi della conoscenza, sia sensibile che intellettiva, in chiave materialisti­ca con la dottrina dei simulacri, ossia degli effluvi atomici, che da tutte le cose si espandono con moto veloce quanto il pensiero, e, pe­netrando in noi, producono sia il sentire che il pensare. e) La Stoa spiega la genesi del conoscere, da un lato, con i concetti di impressione oppure di alterazione che le cose pro­ducono nell'anima, e, dall'altro, con il concetto di assenso che dipen­de dalla ragione e che si aggiunge all'impressione sensoriale. f) Una assai interessante interpretazio­ne in chiave spiritualistica della genesi di tutta quanta la conoscen­za, compresa quella sensibile, è quella di Plotino. La sensazione, co­me affezione corporea, è spiegata col concetto di simpatia; come mo­mento conoscitivo, invece, è spiegata come attività dell'anima stessa che coglie le forme sensibili attivamente irraggiandole. Tutte le fasi della conoscenza sono per Plotino attività dell'anima e l'anamnesi è il riaffiorare della coscienza dell'ag­gancio che ogni anima ha strutturalmente con lo Spirito. n processo conoscitivo, infine, è, ad un tempo, compiuto e tra­sceso nell'estasi.

2) Per quanto concerne il secondo dei pro­blemi sopra indicati, è da rilevare che chiedersi quale sia la natura od essenza della attività conoscitiva, significa chiedersi in che cosa esat­tamente essa si distingua da tutte quante le altre attività. La risposta a questo problema è, in ultima analisi, identica in tutto l'arco del pensiero antico, anche se formulata e riproposta in modo diverso. La essenza del conoscere consiste in una sorta di incontro e di congiungimento del simile (che è in noi) con il simile (che è fuori di noi), o, addirittura, di identificazione o di assimilazione del pensiero e della realtà. a) Che la conoscenza sia un incontro di simile con simile è detto già da Empedocle, e anzi, già da Parmenide, là dove dice che il cadavere sente ciò che, come lui, è freddo e tenebra. b) L'assioma della identità fra pensare ed essere è formulata, ancora una volta, da Parmenide nei frr. 3 e 8, e poi, in maniera paradigmatica, è sviluppato da Platone nella Repubblica, dove - si espone la perfetta corrispondenza fra i gradi della conoscenza e i gradi dell'essere. c) Le riflessioni più approfondite sulla natura del processo conoscitivo si trovano però in Aristotele. L'essenza del conoscere sta nel farsi simile, nell'assimilazio­ne. La conoscenza sensibile è una assimilazione della forma sensi­bile senza la materia; la conoscenza intellettiva, analogamente, è una assimilazione delle forme intelligibili ad opera del Nous. d) Anche nel contesto della gnoseologia epicurea viene ri­proposta questa stessa tesi, sia pure in chiave materialistico-sensisti­ca. Le rappresentazioni sono simili alle cose, perché prodotte dagli effluvi che sono simili alle cose. e) Anche la Stoa non 'si allontana da questa po­sizione dato che la conoscenza è l'azione che sull'anima producono le cose, le quali vi lasciano una impronta (a loro simile) o altera­zione del tutto corrispondente, e l'assenso non è altro che un dir di si all'evidenza che è l'impressione stessa delle cose in noi. f) In età imperiale 'l'assimilazione conoscitiva si sviluppa ad­dirittura nel senso della identificazione mistica.

3) Per quanto concerne, infine, il problema della validità della conoscenza, i filosofi greci, con la sola eccezione di alcuni Sofisti e soprattutto de­gli Scettici, concordano nel rispondere in maniera decisamente posi­tiva. La conoscenza umana è oggettiva e coglie le cose così come sono. Anzi, qualcuno ha accusato i Greci addirittura di oggettivismo, ossia di acritica fiducia nella possibilità dell'uomo di conoscere la realtà oggettivamente. Ma queste critiche sono condizionate dall'opposta ot­tica dello gnoseologismo proprio della filosofia moderna. Bisogna pe­rò rilevare che non a tutte le forme di conoscenza e non nello stesso modo i filosofi greci attribuiscono il valore di oggettività, ossia di ve­rità. Già i filosofi presocratici svalutano la doxa e da conoscenza dei sensi. Platone traccia la celebre tavola delle forme di conoscenza e dei relativi gradi di validità.. Aristotele, oltre alla conoscenza intellettiva, sostiene la validità oggettiva della conoscenza sensibile, affermando l'infallibilità della sensazione. Una difesa, addirittura dogmati­ca, della validità del conoscere è fatta dagli Epicurei e dagli Stoici. La nascita della prospettiva fenomenisti­ca, non coincide con la nascita dello scetticismo primitivo, che può essere riletto come una forma di fenomenismo assoluto, ossia antologi­co e metafisica, ma soprat­tutto con lo scetticismo empirico, secondo il quale noi non conoscia­mo l'oggetto, bensì le nostre affezioni o modificazioni, e fra il primo e le seconde è presupposta una strutturale alterità. Ma è da rilevare che la tesi secondo cui noi conosciamo solo le nostre affezioni e non le cose in sé, e che fra le une e le altre vi è una ine­liminabile divaricazione, resta, fondamentalmente, una prerogativa del­la scuola scettica, quindi una vistosa eccezione nella storia del pensiero greco.

 

 

Contemplazione

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la contemplazione come fine della filosofia secondo i greci

 

Una volta spiegata l'origine, è facile spiegare anche il fine, ossia lo scopo della filosofia secondo i Greci. Se l'ori­gine del filosofare è un bisogno di conoscenza e di sapere, il fine dovrà essere appunto l'appagamento, o, quantomeno, il tendere all'appagamento di questo bisogno, come già s'è detto, e, dunque, il conoscere ricercato e conseguito per se stesso e non per scopi ulteriori. Insomma il fine è il cono­scere per il conoscere o, come dicevano i Greci, il theorein, il conoscere come puro atteggiamento contempla­tivo del Vero. Anche per comprendere a fondo questo punto il para­gone con le scienze particolari risulta illuminante. Le tec­niche e le scienze particolari sono dirette, di norma, alla realizzazione di scopi empirici e alla attuazione di fini pram­matici ben precisi. Esse hanno indubbiamente anche un valore conoscitivo; tuttavia, questo non è in primo piano, in quanto, appunto, non costituisce il loro fine, che, come abbiamo detto, consiste nella produzione di determinati vantaggi di ordine pratico (per la medicina il guarire, per l'architettura il costruire, e così di seguito). Poiché, dun­que, il raggiungimento di scopi pratici è essenziale per le scienze particolari, esse non valgono tanto di per sé quanto piuttosto (o almeno prevalentemente) nella misura in cui sono in grado di mandare ad effetto i medesimi. Per contro, la filosofia vale proprio per la sua teoreticità, ossia ap­punto per la sua carica e la sua valenza conoscitiva.

La tradizione antica riconosceva già nell'atteggiamento del primo dei filosofi greci, ossia di Talete, questa cifra teoretica. Anzi, Aristotele riconosceva una certa carica teo­retica negli stessi creatori di miti teogonici e cosmogonici, in quanto i miti rispondono (sia pure a livello fantastico­-poetico) a quello stesso bisogno da cui nasce la filosofia, vale a dire alla meraviglia.

Ma ecco un passo di Platone in cui proprio Talete è proposto come simbolo della "vita teoretica":

 

 

Socrate - [ ... ] di queste e simili ciarle [che riguardano le piccolezze e le meschinità della vita quotidiana] il filosofo non sa niente più di quel che sappia, come si dice, quanti bic­chieri d'acqua ha il mare. E neppure sa di non saperle; ché non se ne tiene lontano per aver fama di uomo singolare. E il vero è che il suo corpo soltanto si trova nella città e ivi dimora, ma non la sua anima; la quale tutte codeste reputandole cose da poco e anzi da nulla, e avendole in dispregio grande, trasvola, come dice Pìndaro.: da ogni parte, e ora scende giù nel profondo della terra, ora' ne misura la superficie, ora sale su nel cielo a mirare le stelle, e tutta quanta investiga in ogni punto la natura degli esseri, ciascuno nella sua universalità, senza mai abbassare se stessa a niente in particolare di ciò che le è vicino.

Teodoro - Che cosa vuoi dire, o Socrate, con questo? Socrate - Quello stesso, o Teodoro, che si racconta anche di Talete, il quale, mentre stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava ,gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e tra 0/ piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può ben applicare egualmente a tutti coloro che fanno professione di filosofia. Perché il filosofo in verità non solo non si avvede di chi gli è presso, né del vicino di casa che cosa faccia, ma nemmeno, si può dire, se è uomo o altro animale; ma se si tratti invece di ritrovare che cosa l'uomo è, e che cosa alla natura dell'uomo, a differenza dagli altri esseri, conviene fare e patire, egli adopra in codesto ogni suo studio. Mi capisci ora, Teodoro? o no?

 

Analogo atteggiamento la tradizione antica riferiva a Pitagora e ad Anassagora, come leggiamo in un frammento del Protrettico di Aristotele:

 

 

Quale è mai, allora, lo scopo in vista del quale la natura e Dio ci hanno generati? Interrogato su questo, Pitagora ri­spose: "l'osservare il cielo", ed era solito dire di essere uno che speculava sulla natura e che in vista di questo scopo era venuto al mondo. E dicono che Anassagora, interrogato su quale fosse lo scopo in vista del quale uno poteva desiderare di essere stato generato e di vivere, rispose alla domanda: "l'osservare il cielo e gli astri che stanno intorno ad esso, e la luna ed il sole", come se non stimasse degne di nessun valore tutte le altre cose.

 

 

È appena il caso di rilevare che il "cielo" e il "mon­do", in questo contesto, significano. l'intero, nel senso che abbiamo sopra precisato: nel senso, cioè, che, non conoscen­do il trascendente, per questi filosofi, l'orizzonte del cosmo coincideva con l'orizzonte dell'intero.

La concezione platonica, poi, è espressa in maniera paradigmatica già nel passo del Teeteto sopra letto, ma gio­verà riferire ancora un passo, tanto breve quanto efficace, della Repubblica:

 

 

E i veri filosofi [ ... ] chi sono per te? Quelli che amano contemplare la verità.

 

 

E con la contemplazione della Verità Platone intende la contemplazione dell' Assoluto.

In Aristotele la disinteressata contemplazione come ci­fra del filosofare è espressa, oltre che in una pagina esem­plare della Metafisica, già sopra letta (nonché in celebri pagine dell'Etica a Nicomaco), in un frammento del Protrettico, che mette conto di ri­portare:

 

 

Il cercare che da ogni scienza derivi qualche cosa di di­verso e che essa debba essere utile, è proprio di uno che ignora completamente quanto distino sin da principio le cose buone e quelle necessarie: esse, in realtà, differiscono al mas­simo. Quelle infatti, tra le cose senza di cui è impossibile vi­vere, che sono amate per causa di altro, devono essere dette cose necessarie e concause, mentre quelle che sono amate per se stesse, anche qualora non ne derivi nulla di diverso, devono essere dette cose propriamente buone. Questo perché non è possibile che una determinata cosa sia desiderabile per causa di un'altra, quest'altra per causa di un'altra ancora e cosi si proceda all'infinito; ma ad un certo punto ci si deve fermare. Sarebbe dunque del tutto ridicolo cercare da ogni cosa un vantaggio diverso dalla cosa stessa e domandare: "quale van­taggio dunque ne deriva a noi?", o "quale utilità?". In ve­rità, come noi diciamo, chi facesse questo non somiglierebbe per nulla ad uno che sappia che cosa sia bello e che cosa sia buono, né ad uno che distingua che cosa sia causa e che cosa sia concausa.

Uno può vedere che la nostra tesi è più vera di ogni altra, se col pensiero ci si 'porta per esempio nelle isole dei beati. Là infatti non c'è bisogno di nulla, né si ricava vantaggio da alcuna altra cosa, ma rimane soltanto il pensare e lo speculare, il che anche ora noi diciamo essere vita libera. Ma se ciò è vero, non sarebbe giusto che si vergognasse chiunque di noi, offrendoglisi l'occasione di dimorare nelle isole dei beati, si trovasse per colpa sua nell'impossibilità di farlo? Dunque non è disprez­zabile il compenso che deriva agli uomini dalla scienza, né è piccolo il bene che da essa deriva. Come infatti nell'Ade, secondo quanto dicono i più sapienti fra i poeti, riceveremo il premio della giustizia, cosi nelle isole dei beati, a quanto sembra, dovremo ricevere il premio della sapienza.

Non c'è quindi nulla di strano, se la sapienza non appare utile né vantaggiosa, poiché non diciamo che essa è utile, ma che è buona, né è giusto desiderarla per causa di altro, ma per se stessa. Noi infatti ci rechiamo ad Olimpia in vista dello spettacolo stesso, anche se da esso non debba derivare niente altro - poiché lo spettacolo stesso vale più di molto . denaro -, e stiamo a guardare le rappresentazioni dionisiache non per ricevere qualche cosa da parte degli attori, ma anzi pagandoli, e preferiremmo molti altri spettacoli a molto denaro. Allo stesso modo anche la speculazione sull'universo deve essere stimata più di tutte le cose che sono considerate utili. Non è certamente giusto, infatti, viaggiare con gran fatica allo scopo di vedere uomini che imitano donne e servi, o combattono e corrono, e non ritenere doveroso speculare, senza spesa, sulla natura degli esseri e sulla verità.

 

 

Corpo

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Corpo traduce il greco soma, mantenendone alcune delle accezioni fondamentali. Originariamente soma significa il cadavere. Successiva­mente passa ad indicare il corpo del vivente in generale (ancora in Omero questo significato del termine è assente). Infine viene usato per indicare anche i corpi inanimati, per quei caratteri comuni che hanno con i corpi viventi (essere determinati secondo precisi limiti, consistenza fisica, spessore e simili). Nel linguaggio filosofico mantiene le due acce­zioni fondamentali che potremmo chiamare, rispettivamente, antropolo­gica ed ontologica.

1) Per quanto concerne il significato antropologico, bisogna rilevare che la consapevolezza della natura del corpo matura, da un lato, attraverso l'acquisizione del messaggio orfico (che lo contrappone al demone-anima che in esso è gettato come in una prigio­ne), e, dall'altro, attraverso il messaggio socratico (che identifica nel­la psyché l'essenza dell'uomo, concependo questa come ciò che coman­da il corpo e di esso si avvale). Proprio in conseguenza della dottrina orfica e di quella socratica, si sono sviluppate in vario modo fra i fi­losofi greci tre concezioni fondamentali: a) quella del corpo come car­cere e tomba dell'anima; b) quella del corpo come strumento al ser­vizio dell'anima; c) quella del corpo come potenzialità (materia) di cui l'anima è atto ed entelechia. a) La prima concezione, oltre che nei documenti orfici e pitagorici, si trova in Platone dal Gorgia in poi, nel primo Aristotele e poi nella tarda tra­dizione platonica. b) La seconda è propria di Socrate, ma è ampiamente operante (accanto alla prima) anche in Platone e nel platonismo: il documento più significativo a riguardo è l'Alci biade Maggiore. c) La terza è propria di Aristotele, il quale, però, talora ribadisce anche la seconda. La svalu­tazione del corpo è legata solo alla prima concezione ed ha fondamenta religioso-misteriche, più che non filosofiche.

2) L'accezio­ne ontologica del concetto di corpo emerge in primo piano soprattut­to in età ellenistica, nella quale diventa un dogma l'equazione essere=­corpo, nelle due fondamentali versioni: a) quella epicurea, di carat­tere meccanicistico e b) quella stoica, di carattere opposto. Come la coscienza della corporeità del­l'uomo consegue alla scoperta della psyché, o, quantomeno, la suppo­ne come termine nei confronti del quale si attua, così la riduzione elle­nistica dell'essere al corpo suppone la platonica scoperta del soprasen­sibile e si definisce proprio in polemica contro questa. Infine, è da ri­levare che il neoplatonismo tenta una deduzione radicale del corpo dalla forma,

 

 

Cosmo

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Il termine cosmo significa propriamente ordine ed è passato a designare 11 mondo soprattutto ad opera dei Pitagorici, i quali, in gra­zia della loro ontologia del numero, interpretarono il mondo appunto come ordine, in quanto è l'armonia ed il numero che tiene insieme il tutto e lo fa essere quale è. A consolidare la concezio­ne del mondo come cosmo, contribuirono, già nell'ambito dei Preso­cratici, il concetto della Intelligenza come principio, sia nella versio­ne di Anassagora sia in quella di Diogene di Apollonia, e la conse­guente nascita del concetto di finalismo. La successiva reinterpretazione del cosmo data da Platone, come opera di un Demiurgo che agisce mosso dal bene e quella di Aristotele che pre­senta il mondo come pervaso dal desiderio dell'ottimo e come "so­speso" alla sostanza prima e perfetta che tutto attrae come "oggetto di desiderio", ridanno la cifra più tipica del pensiero greco in mate­ria. Ecco una pagina che esemplifica perfettamente questo sentire squisitamente ellenico, stralciata dal Trattato sul cosmo, attribuito ad Ari­stotele:

 

 

"Cosi, dunque, una armonia unica, mediante la mescolanza dei principi contrari, ha organizzato la costituzione della totalità delle cose, ossia del cielo e della terra e di tutto quanto il cosmo. Mesco­lando il secco all'umido, il leggero al pesante, il retto al curvo, una unica forza, penetrando attraverso tutte le cose, ha ordinato tutta quanta la terra e il mare, l'etere, il sole, la luna e tutto il cielo, co­struendo l'intero cosmo partendo da elementi non mescolati e diffe­renti, cioè dall'aria dalla terra dal fuoco e dall'acqua, abbracciandoli in un'unica superficie sferica costringendo le più opposte nature rin­chiuse in esso ad accordarsi tra di loro e traendo da tutti questi la conservazione dell'universo. E la causa di questa conservazione è l'ac­cordo degli elementi, e la causa dell'accordo è l'equilibrio e il fatto che nessuno di essi supera l'altro in potenza: infatti il pesante ed il leggero, il freddo e hl caldo si bilanciano reciprocamente, e la natura ci insegna, riguardo alle cose più grandi, che l'uguaglianza è ciò che mantiene la concordia, e che la concordia è ciò che mantiene il co­smo, che è il generatore di 'tutte le cose ed è superlativamente bello".

 

 

Anche Plotino difende strenuamente la posi­tività del cosmo fisico contro il pessimismo che si dif­fonde nella tarda antichità. La visione del mondo come ordine, costi­tuisce uno dei messaggi più belli della grecità, un guadagno irreversìibile nella storia spirituale dell'Occidente. - In accezione metafisica, • cosmo intelligibile" indica la struttura gerarchica e perfettamente ordinata del mondo delle Idee. L'espressione entra in uso soprattutto a partire da Filone di Alessandria.

 

 

Deificazione

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In senso specifico il 'termine esprime l'identificazione dell'uomo e dell'anima umana con Dio. È una concezione largamente preparata dal­la dottrina platonica e medioplatonica della virtù intesa come atto di assimilazione al divino e comune a molti filosofi dell'età imperiale.

1) Ispira profondamente la filosofia neopitagorica, secondo la quale il precipuo fine dell'etica è esattamente quello di diventare Dio.

2) Nella filosofia ermetica l'"indiamento" è ritenuto possibile prima ancora della morte fisica, ed è comunque l'esito supremo della vita morale.

3) Anche in Plotino e nei Neoplatonici coincide con l'unione mistico-estatica con l'Assoluto.

4) Fra tutti questi pensatori, Filone assume una posizione particolare; in lui, a differenza che in tutti gli altri, l'unione con Dio non è propriamente una deificazione dell'uo­mo, ma un darsi di Dio come dono all'uomo.

5) Echi di questa dottrina sono presenti, come gli studi recenti hanno messo in luce, anche in Alessandro di Afrodisia, sia pure secondo una angolatura del tutto particolare.

 

 

Demiurgo

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Il termine significa artefice e, con Platone, è diventato tecnico per indicare il Dio artefice del mondo. Il Demiurgo è causa intelligente e volente, che, guardando al mondo delle Idee come a paradigma ideale, plasma, sul modello di questo, una chora o materia informe e caotica, e produce, in tal modo, il mondo come ordine. La ragione che muove il Demiurgo ad agire è il bene. Il Demiurgo è inferiore gerarchicamen­te alle Idee e da esse dipende, mentre è superiore all'anima del cosmo e alle altre anime, perché le produce. Il Demiurgo produce anche Dei in­feriori con il compito di foggiare le parti corruttibili dell'uomo e dell'U­niverso. Egli svolge un ruolo quasi di intermediario fra il mondo delle Idee e il sensibile. Le Idee sono il Divino (theion) impersonale, il Demiurgo è il Dio (theos) personale, Aristotele, in quanto intende il. cosmo come ingenerato, non ha bi­sogno della figura del Demiurgo. Nella stessa Prima Accademia, a moti­vo della impostazione fortemente matematizzante dell'ontologia, la dot­trina del Demiurgo cade in ombra. Per contro, col rina­scere del platonismo nell'età imperiale, la questione del Demiurgo torna ad essere centrale. La gerarchia platonica del soprasensìbile vie­ne modificata sulla base dei guadagni aristotelici come segue. Al ver­tice vien posto non l'impersonale intelligibile bensì una Intelligenza suprema (= Primo Dio), e il Demiurgo diventa la seconda intelligen­za o intelligenza dell'anima del mondo. E' questa seconda intelligen­za ("risvegliata" dal Padre o prima Intelligenza) che ordina il cosmo. Analoga è la posizione di Numenio, per il quale il De­miurgo è il Secondo Dio. Nei Neoplatonici, a partire da Plotino, la dottrina del Demiurgo assume una rilevanza e un signifi­cato piuttosto ristretti, giacché il concetto di processione modifica strutturalmente i termini della problematica della produzione del mondo. Per certi aspetti il Demiurgo è il Nous, ma, nella sostanza, il Demiurgo è l'Anima. Anzi, la vera attività crea­trice, in Plotino, diventa la contemplazione. Di conse­guenza, la problematica del Demiurgo, nella successiva storia del neo­platonismo, assume valenze che notevolmente si allontanano dalla originaria dottrina platonica, inserendosi nel sempre più complesso processo di deduzione delle ipostasi dall'Assoluto, e nel sempre più intricato moltiplicarsi dei momenti diadici del medesimo.

 

 

Dio

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Non è possibile intendere la concezione greca circa Dio, se non si comprende, prima di tutto, che il concetto di Dio è, in tutti i pen­satori, un momento del più ampio concetto di Divino (neutro). Ciò si­gnifica che il Divino è sempre inteso dal Greco come una pluralità strutturale e che la nostra concezione monoteistica di genesi biblica è in netta antitesi con quella greca. Per dare una visione sintetica che il più possibile rispecchi la complessa problematica al riguardo, è bene distinguere i seguenti punti: 1) le note caratteristiche della na­tura del Divino; 2) i rapporti fra la natura di Dio-Divino e il cosmo; 3) i rapporti fra Dio e la natura dell'uomo; 4) i rapporti fra Dio e la legge morale; 5) i rapporti fra il problema di Dio e l'escatologia; 6) i rapporti fra Dio e la conoscenza che l'uomo ha di lui; 7) i rapporti fra Dio e la Provvidenza.

1) Le note essenziali del concetto greco del Divino sono state guadagnate, via via, in quest'ordine. a) Per i Na­turalisti il Divino è il principio (ciò da cui, in cui, e per cui), ossia ciò che causar regge e sorregge (e quindi governa) il tutto; inoltre è b) intelligenza. Quest'ultima caratteristica è tematica soprattutto in Anas­sagora e in Diogene ed è centrale anche in So­crate. c) Per Platone ed Aristotele Dio e il Divino so­no la realtà metempirica, ossia la sostanza trascendente, vale a dire una realtà strutturalmente diversa da quella sensibile. Da Platone questa sostanza è intesa prevalentemente come Idea, os­sia come intelligibile, di cui l'intelligenza è momento subordinato. Da Aristotele è invece intesa come Intelligenza (molteplicità di Intelli­genze), cui l'intelligibile è in qualche modo subordinato. Col rinascere del platonismo si giunge ad una sintesi di questi con­cetti e Dio diventa l'Intelligenza che produce, pensandoli, gli intelli­gibili. d) Col neoplatonismo il concetto del Divino si arricchisce, con l'introduzione del concetto positivo di in­finito inteso come potenza al più alto grado, come inesauribile forza produttrice, trascendente lo stesso pensiero e lo stesso essere intelli­gibile, mentre questi diventano momenti variamente concepiti e distribuiti nelle diverse manifestazioni del Divino. e) A partire soprattutto da Platone (ma con anticipi già nei Presocratici, almeno impliciti) un carattere del Divino viene posto in primo piano, vale a dire quello del Bene: l'Idea del Bene (impersonale) è al vertice dell'Intelligibile; l'essere buono è qualità essenziale del Demiurgo, suprema intelligenza. Il bene e l'ottimo sono caratteri anche del Dio aristotelico. In Plotino e nei Neoplatonici il Bene è l'Uno, l'Assoluto stesso; e boni-forme è tut­ta la sfera del Divino.

2) La natura del Divino si chiarisce ulteriormente affrontando il secondo dei pro­blemi, sia quello dei suoi rapporti col cosmo e considerando le ri­sposte date dai filosofi greci, le quali esauriscono tutta la gamma delle risposte possibili. a) Dio e mondo sono distinti come la causa dal causato, all'interno di un orizzonte arcaico di pensiero che non cono­sce ancora le categorie di immanenza e trascendenza e quindi in ma­niera ancora indeterminata, dai Naturalisti. b) Dio e il Divino sono concepiti come trascendenti il mondo da Platone, da Aristotele e dalia letteratu­ra filosofica che a loro si connette. c) Dio-Divino è considerato im­manente ed è fatto coincidere con la natura stessa dagli Stoici. d) Dei e mondo stanno fra lo­ro in un rapporto di estraneità, nel senso che gli Dei non causano e neppure reggono il mondo. Gli Dei non hanno però una struttura che li differenzi ontologicamente dal mondo. È questa la posizione di Epi­curo. _ e) Il Divino ha diversi livelli di trascendenza: nel suo complesso trascende il mondo fisico; al suo interno vi sono, poi, ulteriori gradi di trascendenza, essendo il Principio primo e asso­luto addirittura al di là dell'essere, del pensiero e della vita. È questa da posizione di Plotino e dei Neoplatonici. Si vedano, a questo proposito, le voci Immanenza e, Trascendenza, tenendo però presenti tutte le alternative sopra elencate. Se si eccettua la posizione di Epicuro che costituisce un unicum, tutte le altre possono essere viste come un modo diverso di intendere gli stessi attributi di Dio illustra­ti al primo punto, in particolare, quello dell'essere Principio (cui, del re­sto, tutti gli altri si connettono). Lasciando la posizione dei Presocra­tici, che, in quanto arcaica, ossia indifferenziata, non si può schema­tizzare, se non differenziandola, e dunque snaturandola, si deve rile­vare quanto segue. Il Divino e Dio in Platone e in Aristotele sono cause trascendenti (nei Medioplatonici e Neoplatonici, addirittura, a diversi livelli trascendenti) dell'ordine del mondo, o, se si preferisce, del mondo come­ ordine. Invece negli Stoici il Divino è causalità immanente al mondo, intrinseca attività finalizzatrice. È rimasto sconosciuto alla grecità il teorema della creazione dal nulla, e lo stesso Filone di Alessandria solo a fatica, attingendo alle categorie greche, riesce a porgere razio­nalmente il messaggio biblico. Si può anche dire che il Dio greco è creante in quanto è ordinante, e non in quanto è suscitatore e donatore di essere. Inoltre, prevale l'idea della necessità della produzione del mondo da parte del Divino. Posto il Divino, con le sue caratteristiche, il mondo ne deriva di conseguenza. Il Demiurgo platonico è come l'eccezione che conferma la regola. Ma è un'ecce­zione parziale, perché, in ogni caso, non dipendono dal Demiurgo né il mondo delle Idee (che costituisce il paradigma a cui si ispira) né la chora che egli plasma.

3) Per quanto concerne i rapporti fra Dio è la natura dell'uomo, i Greci, da Omero in poi, hanno parlato di affinità, che, però, solo (o prevalentemente) nel Timeo di Platone e nella tradizione platonica viene giustificata. L'affinità è ad­ditata nel Nous, ossia all'intelligenza.

4) Per quanto concerne i rap­porti fra Dio e la legge morale è essenziale rilevare che per nessun fi­losofo greco Dio è rivelatore della legge morale. Questa è concepita, in un certo senso, come un Assoluto, come inscritta nella physis in. generale e in quella dell'uomo in particolare. Per attuare la legge mo­rale, l'uomo non ha quindi bisogno di uno speciale aiuto divino.

5) L'idea di un Dio che premia i buoni e punisce i cattivi non è diffu­sa fra i filosofi o lo è solo nella misura in cui si ispirano all'orfismo. In genere i pensatori greci hanno inteso la virtù e la vita morale in modo prevalentemente autonomo. Un premio nell'al di là è più una conse­guenza corollaria che non il fine primario della virtù e della vita mo­rale. Platone e i Platonici costituiscono una vistosa eccezione, ma in ciò sono debitori all'orfismo più che non alla pura speculazione.

6) Per quanto riguarda la capacità dell'uo­mo di conoscere Dio e il Divino in genere, i filosofi greci non hanno dubbi. Non è un caso che siano rari i filosofi atei. La concezione e il sentimento del mondo come ordine portava necessariamente a postu­lare un ordinatore. Infatti le prove dell'esistenza di Dio ruotano so­prattutto intorno al concetto di ordine e di fine. L'idea che sia ne­cessaria una rivelazione di Dio perché l'uomo creda nella sua esisten­za è fondamentalmente estranea al pensiero greco. La stessa conce­zione dell'ineffabilità di Dio che si diffonde nella tarda antichità non' costituisce una eccezione, ma una riconferma di quanto diciamo. In­fatti, se Dio è considerato inaccessibile razionalmente, è tuttavia considerato accessibile mediante la unio mystica e l'estasi, per raggiun­gere le quali l'uomo ha bisogno solamente delle proprie forze.

7) I filosofi antichi hanno molto parlato della Provvidenza divina, so­prattutto nella tarda antichità. Socrate e Platone conoscono questo concetto, ma non lo pongono in primo piano. Aristotele, per contro, ignora questo concetto a livello metafisico. Con gli Stoici la pronoia diventa un concetto-base ìrreversibile. Resta comunque sconosciuto, o solo sporadicamente affermato, il concetto di Provvidenza nei con­fronti del singolo individuo.

 

 

Dualismo

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È un termine moderno usato in diverse accezioni, riducibili a due fondamentali, una di significato metafisica e una di significato preva­lentemente teologico-religioso, più una terza che potremmo chiamare ontologica e una quarta che potremmo chiamare cosmologica.

1) a) Dualistica può dirsi, in generale, ogni forma di metafisica, ossia ogni dottrina che ammetta l'esistenza di "due generi" di essere, uno cor­ruttibile e sensibile, ed uno incorruttibile e intelligibile. In breve, in­tendendo il termine in tal senso, dualista è chiunque ammetta una tra­scendenza. Da questo punto di vista sono dualisti sia Platone che Ari­stotele. b) Con accezione più ristretta, dualismo viene spesso inteso nel senso polemico di scorretta concezione del soprasensibile e della tra­scendenza. Aristotele, ad esempio, rimprovera a Platone d'aver scorretta" mente reduplicato, con la sua teoria delle Idee, il mondo sensibile: in tal senso anche alcuni moderni interpreti, che hanno' seguito Ari­stotele su questo punto, parlano di dualismo platonico (nell'accezio­ne, dunque, di decettiva ammissione di un decettivo doppione del reale). Secondo alcuni studiosi, però, è una interpretazione semplicistica, che non fa giustizia alla verità storica.

2) In altra accezione dicesi dualista ogni concezione del mondo che spie­ga tutta la realtà in funzione di due principi fra loro in antitesi, una del Bene e uno del Male. Questa forma di dualismo deriva dall'Orien­te e si diffonde in Occidente soprattutto nella tarda antichità. (Si ve­da, ad esempio, la dottrina ermetica). Il pensiero filosofico greco ne è rimasto in gran parte immune, e, anzi, Plotino ha addirittura espresso la celebre dottrina secondo cui il male non è sostanza ma sempli­ce privazione di bene, e quindi privo di un suo spessore ontologico. Il che non significa che non si trovino nella filosofia greca infiltrazioni di questa concezione, come ad esempio in Plutarco e in Numenio. Invece, anche nell'ambito del pensiero greco esiste una concezione nettamente dualistica dell'uomo che deriva dall'orfismo, per cui il corpo è sepolcro dell'anima. Que­sto dualismo è presente in Platone, nel primo Aristotele e in tutti quei pensatori che risentono di influssi orfici.

3) Un terzo tipo di dua­lismo è quello che si potrebbe chiamare ontologico, ossia quello che ammette una materia increata, o comunque l'esistenza di una mate­ria coeterna a Dio. Questo tipo di dualismo viene superato solo col concetto biblico di creazione, oppure, ma in maniera fortemente apo­retica, con il concetto di processione neoplatonica. 4) Infine, si può denominare dualismo cosmologico la concezione aristotelica del co­smo come diviso in mondo sublunare e in mondo celeste, fra loro strutturalmente diversi nella misura in cui il primo è costituito dai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco), l'altro dall'etere, l'uno fatto di realtà corruttibili, l'altro incorruttibile.

 

 

Emanazione

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È concetto che deriva dalla filosofia orientale, e che per lungo tempo è stato usato per designare anche la derivazione delle ipostasi in Pio tino, ma malto scorrettamente, per le seguenti ragioni:

a) l'e­manazionismo comporterebbe un flusso e un depotenziamento di so­stanza, mentre in Plotino si ha un flusso e un depotenziamento di po­tenza;

b) l'emanazione è un processo necessario di tipo fisico, mentre. la necessità della processione, in Plotino, consegue alla libera attività dell'Uno che è autocreazione ed è di carattere squisitamente metafisica;

c) la processione plotiniana si fonda sul concetto di "contemplazione creatrice", assente nell'emanazionismo. I termini apér­roia e aporroé, che pure sono usati da Plotino, non sono se non due dei tanti che egli usa, e, oltre tutto, ridanno il momento immaginifico più che non quello concettuale del suo pensiero.

 

 

Eoni

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Il termine Eoni deriva da aion, che vuol dire eterno, e designa il principio primo e le entità eterne che da esso emanano. Il termine è adoperato dagli Gnostici (II secolo) e specialmente da Valentino per designare sia Dio sia gli esseri "eterni" che emanano da lui.

 

 

Ermetismo

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È un movimento di pensiero religioso-mistico-filosofico che si dif­fonde soprattutto nella tarda grecità, portatore di una composita dot­trina esoterica, considerata frutto della divina rivelazione del Dio Er­mete. Dal punto di vista speculativo si ispira largamente alla filosofia medioplatonica e neopitagorica. È una forma di gnosi pagana

 

 

Escatologia

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Termine di conio moderno derivante da eschaton (ultimo) e logia (dottrina) che indica la dottrina dei destini ultimi dell'uomo e della sua sorte nell'aldilà. Si possono distinguere almeno quat­tro grandi momenti nella concezione escatologica dei Greci.

1) Il pri­mo è costituito dalla escatologia omerica, in cui l'immortalità dell'a­nima è concetto ancora sconosciuto. Ciò che resta dell'uomo, dopo la monte, non è che il suo fantasma inconsapevole, vana larva senza coscienza, e quindi, in un certo senso, la negazione dell'io. Di conse­guenza, per l'uomo omerico comune non possono esserci premi e ca­stighi nell'aldilà.

2) Il secondo è costituito dalla concezione orfica, la quale, con le nuove concezioni dell'anima-demone, della colpa origi­naria, della necessità della espiazione e, infine, del premio e del ca­stigo nell'aldilà, opera una rivoluzione di portata incalcolabile. Da es­sa resta segnata gran parte del pensiero greco successivo.

3) Il terzo momento è costituito dalla rielabo­razione filosofica del messaggio orfico, che va da Pitagora ad Empedocle a Platone. Dopo Platone la problematica escatologica ritorna in auge solo in età impe­riale con l'acquisizione di nuovi elementi provenienti dal sincretismo religioso dell'epoca. In questa fase le tematiche della processione, dell'estasi e delle virtù teurgiche danno una prospettiva nuova alle vecchie dottri­ne escatologiche.

4) La quarta posizione è quella degli Stoici, tutta sui generis. La caratteristica peculiare di questa escatologia è di sostene­re che le anime durano a lungo dopo la morte, ma non per sempre: al massimo (quelle dei saggi) fino alla successiva conflagrazione. In questo schema non abbiamo tenuto conto di coloro che negano l'im­mortalità dell'anima o che lasciano la questione impregiudicata, perché tali posizioni eliminano il problema escatologico.

 

 

Estasi

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La tematica dell'estasi, per quanto sia già presente in Platone, trova la sua precisa formulazione nel con­testo del pensiero delle tarda antichità. Potremmo schematicamente distinguere tre formulazioni differenti della dottrina dell'estasi, a se­conda delle tradizioni cui si ispira e dei fondamenti su cui si impian­ta.

1) La prima è quella di Filone di Alessandria, legata al profetismo biblico e poggiante sul concetto di grazia e di dono divino. L'uscita­da-sé (ek-stasis) è il darsi a Dio, che pero è possibile solamente nella misura in cui Dio si dona a noi.

2) La seconda è quella di Plotino, per cui estasi è il toglimento dell'alterità, la semplificazione, l'unificazione con l'Uno. L'estasi plotiniana non dipende da un dono di Dio, ma è opera delle pure capacità del­l'uomo. ti: questa una concezione che dipende dalla antica convinzione greca, secondo cui l'uomo da solo può raggiungere il suo telos, senza bisogno di aiuto che venga dal di fuori, e quindi la forma di estasi che potremmo chiamare filosofico-speculativa e autarchica.

3) La ter­za è quella che si trova nelle correnti della mistica pagana, come ad esempio nell'ermetismo, e, poi, nei tardi Neoplatonici, legata alla vir­tù teurgica e quindi ad una mentalità magica.

 

 

Fuga dal mondo

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E' una delle tesi più caratteristiche dell'etica di Platone, che espri­me l'esigenza di liberarsi dal male del mondo e di assimilarsi a Dio. Il tema ricompare in tutta la sto­ria del platonismo e anche in altri movimenti dell'età imperiale: nel medioplatonismo, nel neopitagorismo, nell'ermetismo e ancor più nel neoplatonismo, dove coin­cide con la fuga "da solo a Solo" e con l'estasi.

 

 

Gnosi

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Il termine "gnosi" vuol dire, alla lettera, conoscenza, ma è diven­tato tecnico per indicare quella particolare forma di conoscenza misti­ca che fu propria sia di alcune correnti religioso-filosofiche del tardo paganesimo, sia di alcune sette eretiche ispiratesi al Cristianesimo. Ecco La definizione che ne dà il Festugière (Hermétisme et mystique paienne): "gnosi indica una nuova maniera di co­noscere Dio, una Conoscenza non più fondata sulla ragione, ma che è una sorta di illuminazione diretta, in cui si entra in contatto con Dio, e quindi una sorta di rivelazione", Il Festugière precisa, ulte­riormente, che, secondo questo modo di conoscenza, "Dio, essenzial­mente inconoscibile per natura, non può essere conosciuto se non perché si rivela e perché si dà a vedere. Ora, non si può ottenere que­sta visione se non mediante la preghiera e il culto: donde la formula novit qui coluit, è a forza di adorare Dio, che si finisce con il cono­scerlo. Or dunque, la conoscenza non viene più al termine di un sil­logismo, essa non coincide più con l'esercizio di ragione. Essa non si ot­tiene se non con una attitudine di preghiera, con uno spirito costante di preghiera che porta, in ogni occasione, a rivolgersi verso Dio".

Forme di gnosi pagana .possono indubbiamente considerarsi l'er­metismo e la dottrina degli Oracoli Caldaici.

 

 

Gnosticismo

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Si chiama con questo nome l'indirizzo di alcuni gruppi filo­sofico-religiosi che si diffusero nei primi secoli dopo Cristo in Oriente e Occidente e produssero una ricca e varia letteratura. Questa letteratura, ad ec­cezione di pochi scritti conservati in traduzioni copte, è andata perduta e ci è nota solo attraverso i passi che ne hanno riportati i Padri Apologisti che se ne assunsero la confutazione. Lo G. è il primo tentativo di una filosofia cristiana: tentativo con­dotto senza rigore sistematico, con la mescolanza di elementi cristiani, mitici, neoplatonici ed orien­tali. In generale gli Gnostici fecero della conoscenza la condizione della salvezza: donde il nome che fu per la prima volta assunto dagli Ofiti o Soci Ser­pentini, che poi si divisero in numerose sètte, Queste utilizzavano testi religiosi attribuiti a per­sonalità bibliche: tale era l'Evangelo di Giuda. Altri scritti del genere sono stati ritrovati in traduzioni copte e di essi il più importante è la Pistis Sophia (edita nel 1851) che espone in forma di dialogo tra il Salvatore risorto e i suoi discepoli, specialmente Maria Maddalena, la caduta e la redenzione di Pistis Sophia, un essere appartenente al mondo degli eoni, nonchè la via per la purificazione dell'uomo mediante la penitenza. I principali Gno­stici di cui abbiamo notizia sono Basilide, Carpo­crate, Valentino e Bardesane, le cui dottrine ci sono note attraverso le confutazioni che di esse fecero Clemente Alessandrino, Ireneo e Ippolito. Una delle teorie più tipiche dello G. è il dualismo dei principi supremi (ammesso, per es., da Ba­silide) attinto a concezioni orientali. Il tentativo di unione tra i due principi del bene e del male dà come risultato il mondo, in cui le tenebre e la luce si uniscono ma con prevalenza delle tenebre .

 

 

Heimarmene

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Il termine significa Fato o Destino. Da credenza mitico-religiosa la Heimarméne diventa concetto tecnico nella speculazione degli Stoi­ci, i quali la definiscono come la legge secondo cui tutte le cose avve­nute, sono avvenute, quelle che avvengono, avvengono, quelle che avverranno, avverranno.

Il Fa­to stoico non è cieco, ma, al contrario, è razionalità, è il Logos che si manifesta nella sua necessità razionale.

 

 

Immanenza

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In ontologia il termine significa, in generale, la presenza antolo­gica del principio primo nel principiato e, in particolare, quel tipo di presenza del principio nel principiato che implica altresì la omogeneità del primo rispetto al secondo. Nella accezione propriamente teologica significa la presenza di Dio nel mondo e la riduzione dell' essere di Dio all'essere del mondo. L'immanenza esprime esattamente il con­trario della trascendenza ed è in vario modo legata a con­cezioni materialistiche e fisicistiche. Inoltre I'immanentismo teologico è sempre legato al panteismo.

Immanentisti sono, in maniera impli­cita, i Naturalisti presocratici, In maniera esplicita, invece, lo sono quei filosofi che criticano e negano le concezioni trascendentistiche di Platone e di Aristotele. Cfr., ad esempio, le posizioni che già assu­mono Eudosso ed Eraclide Pontico nell'Ac­cademia e Stratone di Lampsaco nel Peripato.

For­me di immanentismo sono, in genere, tutte le filosofie dell'età elleni­stica e, in modo paradigmatico, lo stoicismo. È inoltre da rilevare che la presa di posizione di Aristotele contro la trascen­denza delle Idee platoniche non dà affatto origine (come qualcuno ha potuto credere) ad una forma di immanentismo, ma ad una diversa forma di trascendenza: infatti, al posto delle Idee trascendenti che vengono trasformate in forme immanenti, lo Stagirita mette le Intelligenze trascendenti.

 

 

Immortalità

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È la dottrina secondo la quale l'uomo, in ciò che ha di più pro­prio, vale a dire il'anima (psyché), non si dissolve nel nulla. A propo­sito di questa dottrina, nella storia del pensiero greco, si registrano le seguenti cinque posizioni: 1) la maggioranza dei filosofi l'ammettono, sia pure con diverse motivazioni e sfumature; 2) alcuni ammettono, sì, una sopravvivenza dell'anima rispetto alla morte del conpo, ma non eterna; 3) alcuni assumono posizioni di agnosticismo, né afferman­dola né negandola; 4) altri, invece, la negano decisamente; 5) infine, c'è altresì qualcuno che propone una sorta di immortalità imperso­nale.

1) La credenza nella immortalità fa ingresso nella cultura, e quin­di nella filosofia greca, tramite l'orfismo Nei Presocratici si affianca alla dottrina della physis, ma non si fonda su essa. b) II fondamento per un recupero speculativo della credenza a livello filosofico è ela­borato da Platone con la sua dottrina delle Idee. Le prime prove dell'immortalità dell'anima risalgono a lui. Nell'ultimo Pla­tone si dice chiaramente immortale solo la parte razionale creata dal Demiurgo, e non la parte irrazionale prodotta dagli Dei creati. c) Aristotele, negli essoterici, risulta perfettamente allineato con Platone, ma anche negli esoterici ribadisce chiara­mente l'immortalità dell'anima razionale, del Nous, pur lasciando ca­dere gli elementi orfici. d) I Medioplatonici e i Neopitagorici intraprendono una energica difesa della immortalità dell'anima, culminante nella dottrina neopla­tonica dell'Anima-ipostasi.

2) Alcuni Stoici, invece, sostengono una curiosa dottrina piuttosto ibrida, secondo la quale le anime, o almeno quelle dei saggi, soprav­vivono per un periodo più o meno lungo, e in ogni caso non oltre la successiva conflagrazione universale. 3) Una posizione tipicamente agnostica è quella di Socrate.

4) Negatori dell'immortalità furono soprattutto gli Epicurei

5) Alessandro di Afrodisia presenta, da ulti­mo, secondo i più recenti studi, una posizione che costituisce un uni­cum nel pensiero antico, la quale è comprensibile solo nel contesto della sua complessa noetica

La dottrina della immortalità dell'anima costituisce una delle cifre tipiche della filosofia antica più che non del Cristiane­simo, il quale parla, propriamente, di resurrezione del corpo, con im­plicanze teologiche ed antropologiche assai diverse rispetto alle dot­trine della grecità.

 

 

Inconoscibile

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Il termine designa ciò che non è suscettibile di alcuna forma di conoscenza razionale. Esso può essere espressione di tre atteggiamen­ti teoretici molto diversi a seconda che sia usato: l) nel contesto del­la speculazione classica parmenideo-platonico-aristotelica; 2) oppure nel contesto della dottrina scettica; 3) oppure ancora nel contesto della metafisica dell'età imperiale.

1) Nella prospettiva propria della conce­zione oggettivistica di tutta la antichità, secondo cui la conoscenza è proporzionale all'essere, si ritiene inconoscibile il non-essere, Analogamen­te, Aristotele ritiene inconoscibile la materia, perché assoluta poten­zialità mancante di forma (e in parte anche l'individuo empirico).

2) In età ellenistica e nella prima parte dell'età imperiale gli Scettici so­stengono la inconoscibilità di tutto quanto il reale: tale posizione è la conseguenza della radicale negazione della ontologia platonico-aristo­telica, negazione che comporta come conseguenza la perdita della "sta­bilità dell'essenza" di tutte Ie cose: la realtà, quindi, per gli Scettici, non contiene più in sé "[ ... ] alcuna differenza, né misura, né discrimi­nazione".

3) A partire da Filone di Alessandria fa irruzione nel cosmo filosofico il concetto dell'Assoluto come infinito e, di conse­guenza, la conoscenza trova in esso il suo limite superiore, cosi come, in precedenza, aveva trovato nel non-essere il suo limite inferiore. Filo­ne – si noti – proclama l'impossibilità di conoscere l'essenza di Dio a motivo della sua assoluta trascendenza, ma ammette la conoscibilità ra­zionale dell'esistenza di Dio, sia pure ad un livello inferiore. Questa caratteristica della inconoscibilità del Principio supremo, diviene una costante anche dell'ultima filosofia pagana. Soprattutto nel neoplatonismo (ma con chiari anticipi già nel medioplatonismo) l'Assoluto viene a più riprese defini­to come "al di sopra dell'essere e di ogni essenza". Nell'ermetismo, addirittura, l'inconoscibilità raziona­le di Dio e il suo riconoscimento attraverso il silenzio dei sensi e della ragione sono ritenuti condizioni necessarie a che Dio stesso si riveli, Su posizioni analoghe sono gli Oracoli Caldaici. Nel neoplatonismo al tema della inconoscibilità, e come sua conseguenza diretta, si accom­pagna parallelamente il motivo della ineffabilità del Principio.

 

 

Incorporeo

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Nella storia della problematica dell'incorporeo, nell'ambito de) pensiero antico, si possono distinguere quattro fasi: 1) quella preso­cratica, in cui asématos ha un significato fisico; 2) quella della meta­fisica platonica e aristotelica, in cui avviene la fondazione teoretica del concetto di incorporeo come immateriale e quindi spirituale; 3) quello della filosofia ellenistica, in cui si nega all'incorporeo statura antologica; 4) quella della filosofia dell'età imperiale, in cui, mediante il rovesciamento del corporeismo epicureo e stoico, l'incorporeo assu­me la massima importanza, divenendo addirittura il connotato essen­ziale dell'essere. Solo in questa fase il termine diventa tecnico e si impone in modo definitivo come espressione di quello che noi mo­derni chiamiamo spiritualismo metafisica. Ecco una breve caratterizza­zione di queste quattro tappe.

1) Nei Presocratici, asomatos significa il non avere limiti del tipo di quelli che hanno tutti i corpi determi­nati, e quindi indica l'infinitudine del principio.

2) Plato­ne crea il concetto di incorporeo nel senso di immateriale e soprasen­sibile (anche se usa solo pochissime volte il termine) con la sua "se­conda navigazione", e Aristotele completa i tratti di questa creazio­ne con la sua dottrina del Motore Immobile, del quale dice espressa­mente: "l'essenza prima è scevra di materia"

3) Nell'ambito della Stoa, sulla base del presupposto che tutto ciò che è essere è corpo, l'incorporeo resta privato di uno statuto antologico e al massimo con­siderato come un "qualcosa".

4) In età imperiale l'incorporeo viene riguadagnato attraverso la conte­stazione degli eccessi corporeistici della filosofia dell'età ellenistica e il termine diventa tecnico di conseguenza. Si veda come avviene la riconquista dell'incorporeo in Filone, nei Medioplatonici in generale, nonché nei Neopitagorici. Con Numenìo questa riconquista raggiunge già un punto culmi­nante. Con Plotino si può dire che la tematica dell'incor­poreo sia ormai data come una acquisizione scontata; egli non si pone più neppure il problema di giustificare I'incorporeità dei principi: la dif­ficoltà, per lui, sta invece nel trovar posto al corporeo nella deduzione della sua costituzione materiale. La metafisica dell'ìncor­poreo col neoplatonismo raggiunge i suoi limiti estremi.

 

 

Ineffabile

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Il termine indica l'impossibilità di essere espresso e definito con parole. È una caratteristica dell'Assoluto, quale è concepito soprattutto in età imperiale. In Filone di Alessandria l'ineffabilità di Dio dipende dalla sua assoluta trascendenza dal punto di vista metafisìco e anche dal punto di vista gnoseologico. L'ineffabilità del divino è un motivo presente anche nei Medioplatonici, nei Neopitagorici, nella filosofia ermetica e negli Oracoli Caldaici.

È infine da notare che il motivo della ineffabilità dell' Assoluto diventa una costante in tutto il movi­mento neoplatonico; anzi, in Damascio l'ineffabilità viene addirittura estesa dal Principio primo alla stessa processione delle ipostasi.

 

 

Intelligibile

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Significa propriamente, in generale, ciò che è oggetto di intelli­genza, e, in particolare, quell'essere che solo l'intelligenza sa cogliere e non il senso. Il termine ha avuto una grande fortuna a partire da Platone, dove serve a designare le Idee e il mondo delle Idee. Sono da rilevare le espressioni luogo intelligibile (noetòs topos) e luogo sopraceleste (hyperourénios topos) con cui Platone designa il mondo dell'intelligibile.

Filone di Alessandria conia, invece, la espressione cosmo intelligibile (kosmos noetés), ripresa poi anche da Plotino.

L'intelligibile, in Platone, include l'intelligenza come momento inferiore.

In Aristotele coincide, nell'essere divino, con !'intelligenza; nella realtà sensibile coincide, invece, con le forme immanenti, mentre l'anima di­venta il luogo delle forme, ossia degli intelligibili, in quanto li pensa,

Interessanti sono gli ulteriori sviluppi del concetto nel medioplatonismo. Albino,. ad esempio, parla di intelligibili primi e di intelligibili secondi, riferen­dosi rispettivamente alle platoniche Idee trascendenti e alla aristote­liche forme immanenti.

Plotino rappresenta il più significativo momento di sintesi fra l'istanza platonica e quella aristo­telica, con la tesi della strutturale coincidenza di Intelligenza e intel­ligibile nella seconda ipostasi. Dopo Plotino il neopla­tonismo tende nuovamente a distinguere (addirittura in maniera ipo­statica) intelligibile ed intellettuale, sia pure nel nuovo contesto di­namico della processione.

 

 

Io

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La problematica dell'"lo", quale è venuta delineandosi nel pen­siero occidentale (dapprima ad opera di Agostino e, in tempi moderni, di Cartesio) è sconosciuta all'antichità. Scrive il Pohlenz, a questo pro­posito, che, per il Greco, "l'io stesso, come unitario supporto della vi­ta, è un dato cosi immediato della conoscenza, da non diventare oggetto di riflessione" (L'uomo greco). È inoltre da rilevare che il ter­mine εγω viene poco usato in connessione a tale tematica. Il termine che più corrisponde all'Io, è invece il "Noi". L'Alcibiade maggiore di Platone è il dialogo che consacra l'uso di questo termine per espri­mere lo stesso concetto di "se stesso", che successivamente diventa tecnico.

In ogni caso, l'indagine sul "Noi", risponde più alla pro­blematica dell'essenza dell'uomo in generale (il plurale è significativo). che non al problema dell'individuo. La definizione, di conseguenza, che il Greco ha dato del "noi", da Socrate in poi, è che "noi siamo la nostra anima" oppure "noi siamo il nostro Nous".

 

 

Ipostasi

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Ipostasi significa sostanza. Il termine, usato dagli Stoici, dai tardi Peripatetici e dai Medioplatonici, diventa tecnico nei Neoplatonici a partire da Plotino. Si potrebbe dire che, nei Neoplatonici, ipostasi in­dica quella particolare concezione della sostanza inserita nella dialetti­ca della processione. Meglio ancora potremmo dire che l'ipostasi è una sostanza che deriva da un'altra sostanza, rispetto alla quale è sempre inferiore e tuttavia è essa stessa sostanza a pieno titolo e capace, a sua volta, di generare altre sostanze, secondo le leggi della processione. Si tenga ben presente che si capisce in maniera adeguata che cosa sia una ipostasi, solo se si comprende a fondo che cosa sia la processione neoplatonica.

 

 

Ipostatizzazione

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Con questa espressione di conio moderno è denominato quel processo di pensiero che porta a sostantificare, ossia a trasformare in sostanza. rappresentazioni, concetti e pensieri, per lo più in modo indebito.

 

 

Logos

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Termine greco che designa ciò che è espressione di ragione e razionalità (parola, pensiero, proporzione geometrica, discorso, ragionamento, definizione). Per gli stoici logos è la forza che tutto produce, il fuoco, Dio, che è pronesis (saggezza) e pronoia (provvidenza).

In Filone si distinguono un logos presso Dio, che si identifica con l'intelletto divino, un logos mediatore, causa esemplare ed efficiente del mondo, e un logos immanente nell'universo sensibile, interpretato come il vincolo che tiene unita la realtà, risultante dall'agire del logos incorporeo sul mondo corporeo. Dal Logos Filone fa dipendere tutte le altre potenze ed idee.

Nella dottrina cristiana logos significa il figlio di Dio, il verbo fatto carne, cristo medesimo. Il testo base è il prologo di Giovanni.

Il termine ricopre in greco una vastissima gamma di significati e in nessuna lingua moderna ne esiste uno corrispondente. Esso indica, fondamentalmente, ciò che è espressione di ragione e di razionalità (dalla parola, al discorso, al pensiero, al ragionamento, al rapporto e alla proporzione numerica, alla definizione e così via). 1) In senso tecnico la dottrina del Logos compare in Eraclito. 2) Solo con la Stoa, però, diventa un concetto speculativo fondamen­tale. 3) Oltre che nella Stoa, lo troviamo come asse portante nel pen­siero filoniano. Una certa importanza la dottrina del Logos riveste 4) nel Corpus Ermeticum e 5) in Plotino; 6) un significato tutto nuovo, infine, assume nel pensiero cristiano.

1) E' famoso il frammento di Eraclito: "esiste una sola sapienza: riconoscere l'intelligenza (gnosein) che governa tutte le cose attraverso tutte le cose". Sembra certo che per lui chiami questo suo principio logos.

2) Nella filosofia degli Stoici il Logos è fuoco artefice, è ragione seminale di tutte le co­se, è la forza che tutto produce e governa, è Dio, e quindi è Heimarméne e Prénoia, In quanto fondamento di tutto, il logos stoico non solo ha rilevanza ontologica, ma altresì etica, dove funge da princi­pio normativo, e in logica dove funge da principio di verità. Le tre parti del sistema stoico possono quindi essere viste come l'espressione delle tre valenze del Logos.

3) In Filone di Alessandria, il Logos si carica di significati religiosi e teologici di estrazione biblica, pur mantenendo anche alcune valenze della speculazione greca. In Filone sembra che si possano distinguere tre aspetti del Logos: a) un Logos presso Dio, identificantesi con l'Intelletto divino, h) un Logos mediatore, causa esemplare ed efficiente del mondo, e c) un Logos immanente nell'universo sensibile, interpretato come il vincolo che tiene unita la realtà, risultante dall'agire del Logos incor­poreo sul mondo corporeo. Dal Logos egli fa poi dipen­dere tutte de altre Potenze e le Idee. La riforma filoniana della clas­sica teoria delle Idee dipende appunto dal suo nuovo concetto di Logos.

4) Nell'ermetismo il Logos (probabilmente per in­flusso di Filone) designa il Figlio primogenito di Dio, consustanziale rispetto al secondogenito che è l'Intelletto demiurgico.

5) In Plotino designa fondamentalmente la forza razionale che è nell'a­nima, dalla quale e secondo la quale sono costituite tutte le cose e l'intero cosmo fisico; in conseguenza di ciò Plotino non esita a dire che tutto è Logos.

6) Nella dottrina cristiana Logos significa il Figlio di Dio, il Verbo fatto carne, Cristo medesimo. A questo proposito, il testo base è il grande prologo giovanneo.

 

 

Materia

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Il termine hyle significa "selva", "legname da costruzione", donde si passa, per ovvia analogia, ad indicare il concetto filosofico di materia il materiale di cui son fatte le cose). Hyle diviene termine tecnico a partire soprattutto da Aristotele. La definizione che comunemente vie­ne fornita, secondo cui la materia è il costitutivo della realtà sensibile -e corporea, ossia ciò da cui dipende l'essere sensibile e corporeo delle 'cose, è inadeguata, se riferita al pensiero antico, Materia ha infatti nella filosofia greca due valenze fondamentali: 1) una prima a livello intelligibile e 2) una seconda a livello sensibile, ambedue ugualmente importanti. Bisogna, dunque, distinguere 1) una materia intelligi­bile (che potremmo chiamare metafisica) e 2) una materia sensibile (che potremmo anche chiamare fisica),

1) Il concetto di materia in­telligibile risale a Platone (anche se la terminologia è posteriore) ed è legato al problema della giustificazione dell'esistenza di una moltepli­cità di Idee (ossia di molte realtà intelligibili) e ai moduli pitagorici di cui si avvale Platone per risolverlo, ossia alla concezione della real­tà come misto di illimite e di limite e alla introduzione dei concetti di Uno e Diade come principi del mondo intelligibile. L'Uno funge da forma-limite e la Diade da materia-illimite. La materia intelligibile gioca un ruolo di una certa im­portanza anche nella processione delle ipostasi di Plotino b) Nello stesso Aristotele ricorre il concetto di materia intelligibile, anche se in altro senso. Nella Meta­fisica leggiamo: "C'è una materia sensibile ed una intelligibile; quella sensibile è, per esempio, il bronzo o il legno o tutto ciò che è suscettibile di movimento; quella intelligibile è, in­vece, quella presente negli esseri sensibili, ma non in quanto sensibi­li come gli enti matematici". Nella stessa opera: "E vi sono due tipi di materia: una intelligibile e l'altra sensibile, e una parte della definizione è sempre materia e l'altra atto: per esem­pio il cerchio è definito come figura piana". La materia intelligibile, nel primo passo, è fondamentalmente lo spazio matematico, mentre nel secondo è il genere che nei confronti della specie è indeterminato ed è appunto da essa de-finito. Il concetto di materia sensibile è presente nella speculazione dei Fisici, ma non a li­vello tematico. L'acqua, l'apeiron, l'aria, il fuoco, di cui essi parlavano, sono propriamente il principio-divino e solo in prospettiva riduttiva sono materia. Il creatore del concetto di materia, anche se non del termine, è Platone, soprattutto con la dottrina della chora. La determinazione pie­na del concetto e la fissazione di esso con un termine tecnico, come abbiamo detto, è dovuta ad Aristotele. Ecco la definizione che leg­giamo nella Metafisica: "Chiamo materia ciò che, di per sé, non è né alcunché di determinato, né una quantità, né al­cun'altra delle determinazioni dell'essere. C'è, infatti, qualche cosa di cui ciascuna di queste determinazioni viene predicata: qualcosa il cui essere è diverso da quello di ciascuna delle categorie. Tutte le altre categorie, infatti, vengono predicate della sostanza [nel senso di for­ma] e questa, a sua volta, della materia. Cosicché questo termine ul­timo, di per sé, non è né alcunché di determinato né quantità né al­cun'altra categoria: e non è neppure la negazione di queste, perché le negazioni esistono solo in modo accidentale". Aristotele si avvale so­prattutto di due funzioni proprie della materia per definirla perfetta mente, quella di sostrato che accoglie la forma e quella di potenza che è determinata dall'atto. Di per sé la materia, in quanto inde­terminata, è inconoscibile; la conoscibilità è propria della forma. È da ricordare, tuttavia, che, per Aristotele, una materia puramente informe non esiste: data la sua concezione dell'eternità del mondo, da sempre la materia è esistita con le determinazioni. La "materia prima" è un concetto relativo, o meglio un concetto-limite, come risulta, fra l'al­tro, da questo passo molto chiaro della Metafisica: "La materia pri­ma [ ... ] è " prima" in due sensi: o è prima in relazione all'oggetto stes­so, ovvero è prima in generale; nel caso degli oggetti di bronzo per esempio, il bronzo, relativamente a questi stessi oggetti, è materia prima, mentre materia prima in generale è, forse, l'acqua, se tutto ciò che è fusibile è acqua".

3) Arricchimenti signi­ficativi della problematica della materia, si trovano nella speculazione neoplatonica. Nel contesto della processione essa viene dedotta dal pri­mo principio. Vi sono anticipazioni nei Neopitagorici, in Ammonio, e, soprattutto, le conclusioni di Plotino. La materia sensibile di­viene l'immagine di quella intelligibile, la privazione di Bene, il non­essere, ossia ciò che è altro rispetto a tutto ciò che è Spirito. La ma­teria coincide con lo spegnersi della Contemplazione creatrice.

4) La materia è fatta dipendere da Dio, sia pure in maniera non lineare, per la prima volta da Filone di Alessandria.

 

 

Microcosmo

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L'espressione micro-cosmo per indicare l'uomo come mondo in piccolo, o, almeno, il concetto ad essa relativo, è presente in tutto il corso della filosofia antica, dai Naturalisti ai Neoplatonici. Democrito, ad esempio, afferma già chiaramente che "l'uomo è un piccolo mon­do (mikròs kosmos).

In Platone e nella Stoa, dato che il cosmo è concepito come un grande vivente, il concetto è per lo meno implicito.

La più bella definizione la troviamo nell'anonimo Pitagorico di Fozio, il qua­le afferma: "Si dice che l'uomo è un mondo in piccolo (mikros kosmos), non perché è composto dei quattro elementi (perché questo vale anche degli esseri viventi più semplici), ma perché possiede tutte le potenze del cosmo. Infatti, nel cosmo ci sono Dei e ci sono anche i quattro ele­menti, ci sono anche gli animali senza ragione e anche le piante, e l'uo­mo possiede tutte quante queste potenze".

Per l'espressione in Plotino cfr. il passo delle Enneadi, IV, 3,10, riportato alla voce logoi spermati­koi. È però da notare che nel neoplatonismo, in virtù del principio del tutto in tutto, tutto ricapitola tutto; ma ciò vale specialmente per l'anima, che rispecchia in sé tutto il mondo dell'incorporeo e crea il mondo corporeo.

Analogo concetto di uomo come "piccolo cielo" (brachys ouranos) troviamo in Filone: "Avendo inteso armonizzare l'inizio e la fine degli esseri generati, co­me fossero in rapporto di parentela e di grande amicizia, Dio fece prin­cipio il cielo e fine l'uomo; il primo, che è il più perfetto degli esseri immortali nel mondo sensibile; il secondo, che è il migliore degli es­seri generati e mortali, come fosse un piccolo cielo, per dire la verità, che porta in sé molte nature simili alle stelle, attraverso le arti, le scienze e le gloriose conoscenze che sono richieste ad ogni virtù".

 

 

Misteri

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Il termine mistero può derivare da μυω, che significa "chiudo", o da μυεω, che significa "introduco ai misteri". I misteri erano sia i riti di iniziazione sia le verità nascoste non manifestate se non agli iniziati. Fra i "misteri" interessano la filosofia soprattutto quelli orfi­ci.

 

 

Misticismo

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Il termine deriva da mystikòs, che significa ciò che è connesso con i misteri. Solo nella tarda antichità, però, ricorre l'espressione my­stikè paràdosis, per indicare la dottrina mistica, ossia quella dottrina che mostra all'uomo come distaccarsi dal sensibile e giungere all'Asso­luto, fino ad assimilarsi ed unificarsi con Lui.. Nell'ambito del pensiero greco vi sono sostanzialmente due diverse forme di misticismo, a loro volta variamente calibrate.

1) Vi è un misticismo che potremmo chiamare razionalistico, il quale considera la ragione come la forza che unisce all'Assoluto e che indica nella filosofia i veri misteri. Questo "misti­cismo" prende forma a partire da Pitagora e da Parmenide e raggiun­ge la sua perfetta formulazione in Platone, che fa della stessa dialet­tica la via della conversione e pone nell'esercizio di ragione l'assimi­lazione al divino.

2) Vi è, poi, un misticismo che potremmo chiamare irrazionalistico, il quale si fonda sulle arti teurgiche e, quindi, su certe forze irrazionali, e anzi le considera come quelle che, sole, sono in gra­do di portare l'uomo ad unirsi al Divino, o, comunque, come le più efficaci. È questo il misticismo proprio non solo dell'ermetismo e degli Oracoli Caldaici, ma di tutto il tardo neoplatonismo, con varie sfumature nelle diverse scuole, e con punte estreme nella scuola di Pergamo.

3) Una terza forma di misticismo può considerarsi quella di Filone Alessandrino, che, però, esce fuori dai quadri propri della grecità, ispirandosi alla dottrina del profetismo biblico e alle categorie che questo suppone. Filone, inoltre, anticipa la individuazione di quelle tappe es­senziali dell'ascesa mistica che da Agostino in poi diverranno famose.

 

 

Monismo

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Il termine moderno per indicare quella concezione filosofica che non solo deduce tutta la realtà da un solo principio, ma ritiene l'esse­re della realtà identico a quello del principio. Nell'antichità le conce, zioni monistiche furono numerose e di specie diversa.

1) In primo luo­go, costituisce una forma di monismo assoluto e veramente estremo l'ontologia eleatica, secondo cui, addirittura, esiste un solo ed unico essere, che, a rigore, non è nemmeno principio, perché non esiste un principiato.

2) Monistica è la fisica degli Ionici (Ta­lete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito), nonché la ripresa eclettica della medesima (ad esempio Diogene di Apollonia), in quanto deduce tutte le cose da un unico principio ed interpreta le cose stesse come modificazioni del principio.

3) Una forma di monismo con accentuazione panteistica è lo stoicismo, per le ragioni che spieghiamo in III, 350-358. Lo stoicismo è forse la forma di ma­nismo più organica e più compiuta dell'antichità.

4) Una forma di mo­nismo matematizzante è costituita dalla fase più avanzata del neopita­gorismo, nella misura in cui deduce tutto dalla Monade, compresa la Diade, prima considerata come principio opposto e irriducibile alla monade.

5) Alcuni considerano una forma di monismo anche il neoplatonismo. In realtà, la trascendenza, che nel neoplatoni­smo gioca un ruolo essenziale addirittura a differenti livelli, nonché la complessità della processione ipo­statica, mal sopportano una riduzione monistica, almeno nel senso in cui è stato da noi definito il monismo

E' poi da rilevare che il monismo può essere di due generi diversi: 1) materialistico-corporeistico, come quello della Stoa; 2) oppure spiri­tualistico, come quello neopitagorico. 3) Quello presocratico, propria­mente parlando, non è qualificabile in modo netto con queste catego­rie. Con­cezioni opposte al monismo sono il dualismo e il pluralismo.

 

 

Narcisismo

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Secondo la dottrina ermetica del Poimandres, l'Anthropos o Uo­mo incorporeo, affacciatosi al mondo sensibile e innamoratosi della pro­pria immagine riflessa, si sarebbe congiunto con la natura generando l'uomo fisico. Questo innamoramento da parte dell'uomo celeste della propria immagine, che sta all'origine della nascita dell'uo­mo terrestre, è qualificato dagli interpreti come narcisismo, in quan­to palesemente riprende, sia pur sviluppandolo in altro senso, il noto mito di Narciso .

 

 

Neopitagorismo

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La revivescenza della filosofia pitagorica che si manifestò nel I secolo a. C. sia con la com­parsa di scritti pitagorici di falsa attribuzione (Detti Aurei, Simboli, Lettere, attribuiti a Pitagora), e di altri scritti attribuiti al lucano Ocello e ad Ermete Trismegisto sia con una fioritura di filosofi che dichiaravano di ispirarsi alle dottrine del pitago­rismo antico. Fra essi; Nigidio Figulo, Apo.lonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa e soprattutto Numenio di Apamea (I sec. d. C.). Le dottrine di questi scrit­tori non hanno nulla di originale ma presentano tratti che divennero propri del neoplatonismo.

 

 

I tratti peculiari del "mediopitagorismo" sono i seguenti.

1) Gli autori mediopitagorici tendono a far credere sco­perte di antichi Pitagorici dottrine posteriori, producendo una serie di scritti apocrifi contenenti quelle dottrine ed attri­buendoli ad antichi Pitagorici.

2) Essi dimostrano una assai scarsa coscienza della propria identità filosofica e appunto per questo sentono il bisogno di nascondersi dietro una maschera. Nei loro scritti manca un baricentro. Essi si limitano, spesso, a riprendere dottrine di Platone e di Aristotele, talora quasi di peso.

3) La dottrina dei supremi principi della Monade e della Diade o non è presente o è scarsamente sfruttata, e, soprat­tutto, non è ontologicamente approfondita.

4) Si riscontrano infiltrazioni materialistiche e immanenti­stiche; oppure, quando vengono agitate tematiche metafisiche, si nota che gli autori mancano del senso specifico della pro­spettiva ontologica e metafisica.

5) Alla mentalità del pitagorismo medio sono forse col­legati anche quei tentativi, che, rispetto a quelli degli pseu­doepigrafi, sembrano più evoluti e in parte più consape­voli, come ad esempio quello dell'Anonimo di Alessandro Polistore, in cui la dottrina della Monade e della Diade e la conseguente dottrina dei numeri vengono esplicitamente svolte, ma vengono ad un tempo combinate con il materia­lismo stoico. Il motivo per cui siamo propensi ad assegnare a tale tipo di pitagorismo tali documenti sta nel fatto che i Pitagorici più recenti, i "neoteroi", sono antimaterialisti e sono in serrata polemica sia con l'atomismo epicureo, sia con il corporeismo e l'immanentismo della Stoa, in piena sintonia con il parallelo movimento medioplatonico .

 

 

Quali sono, allora, i caratteri di quello che solo, propria­mente, può denominarsi "neopitagorismo", ossia del pitago­rismo sicuramente databile fra la fine dell'era pagana e i primi due secoli dell'era cristiana?

1) I Neopitagorici veri e propri tendono, come s'è visto, a gettare la maschera e a presentarsi col loro nome e con il loro volto. Ma questo accade ormai in epoca imperiale. Naturalmente, questo non dovette avvenire di colpo, né in modo esclusivo. Alcuni degli stessi pseudoepigrafi, ad esempio, possono risalire a quest'epoca, in quanto recepiscono alcuni dei caratteri del pitagorismo di quest'epoca medesima, pur mantenendo anche i vecchi connotati.

2) I Neopitagorici hanno la precisa coscienza della loro identità, nella misura in cui la loro dottrina rivela un preciso baricentro. Si noti come, parallelamente alla progressiva acqui­sizione di questa coscienza, muti l'atteggiamento nei confronti di Platone e di Aristotele, nonché dei filosofi dell'età elleni­stica: mentre i più antichi autori di pseudoepigrafi si limitano ingenuamente a riferire ad antichi Pitagorici dottrine di Pla­tone e di Aristotele, l'Anonimo di Fozio ha già stabilito una regolare "diadochia", ossia una "successione", in cui Platone e Aristotele figurano come membri della scuola pitagorica:

 

 

Il nono successore di Pitagora [. .. ] fu Platone, il quale fu allievo di Archita il Vecchio; il decimo successore fu Aristotele.

 

 

Moderato di Gades e i Pitagorici più recenti rincarano la dose. Essi giungono addirittura ad accusare Platone, Aristotele e gli Accademici di mistificazione, ossia di essersi appropriati delle dottrine di Pitagora con poche modificazioni, ma senza dichiararlo e, anzi, citando la filosofia di Pitagora solo nei suoi aspetti più superficiali e deboli, al fine di screditarla. Riferisce Porfirio, attingendo da Moderato:

 

 

[. .. ] Platone, Aristotele, Speusippo e Aristosseno e Senocrate, al dire dei Pitagorici, si appropriarono con leggere modificazioni di quanto vi era di buono in quella filosofia; e riunirono le parti volgari e mal ferme e quanto fu escogitato successivamente dagli invidiosi calunniatori al fine di abbattere e irridere quella scuola e le lasciarono da un canto come proprie esclusivamente di tal setta.

 

 

Numenio, che pure, come vedremo, cerca di fondere pita­gorismo e platonismo, ritiene Pitagora non solo non inferiore, ma, sotto certi rispetti, addirittura superiore a Platone, e afferma che lo stesso Socrate fu discepolo di Pitagora.

Per quanto concerne, invece, il rapporto con le scuole ellenistiche, i Neopitagorici hanno piena consapevolezza di ciò che irrimediabilmente li divide da esse. Gli Anonimi di Sesto polemizzano espressamente, come sappiamo, contro il materia­lismo di Epicuro, mentre Numenio polemizza esplicitamente contro quello della Stoa.

3) Abbiamo cosi toccato uno dei caratteri più qualificanti del neopitagorismo, vale a dire La riscoperta e La riafferma­zione dell'"incorporeo" e dell'"immateriale", ossia il ricu­pero di quell'orizzonte che era stato perduto con i sistemi dell' età ellenistica. È questo uno dei principali meriti storici di questa corrente, la quale, insieme al medioplatonìsmo, ha preparato le basi della grande sintesi neoplatonica.

4) L'incorporeo non viene inteso dai Neopitagorici allo stesso modo dei Medioplatonici, ossia prevalentemente sulla base della metafisica del Nous di estrazione aristotelica e di quella delle Idee di estrazione squisitamente platonica, bensì sulla base della dottrina della Monade, della Diade e dei numeri. Tale dottrina è solo indirettamente pitagorica e si aggancia piuttosto alle speculazioni dell'antica Accademia di Speusippo e di Senocrate, che, partendo dalle dottrine del Platone esoterico, come abbiamo già più volte rilevato, avevano dato una piega accentuatamente matematica alla metafisica (già Aristotele lamentava che la filosofia dei suoi tempi era diventata appunto matematica). Tuttavia, la dot­trina dei numeri viene ripresa in una chiave che, rispetto all' Accademia, accentua maggiormente il loro carattere sim­bolico. I numeri esprimono, cioè, qualcosa di metanumerico, ossia principi più profondi, che, per la loro difficoltà, mal si prestano ad essere di per se stessi rappresentati, e che, invece, per mezzo dei numeri possono essere chiariti, nel senso che meglio vedremo più avanti.

5) La dottrina della Monade e della Diade viene. sotto­posta ad approfondimenti di un certo rilievo. A partire da una originaria formulazione che vedeva nella Monade e nella Diade la suprema coppia di contrari, si delinea una tendenza sempre più accentuata a porre la Monade in posizione di assoluto privilegio, distinguendo una prima da una seconda Monade e contrapponendo solo quest'ultima alla Diade, e anche cercando di dedurre tutta quanta la realtà dalla Monade suprema, compresa la stessa Diade (su questo punto, peraltro, la terminologia è oscillante: mentre alcuni chiamano Uno la prima Monade, altri chiamano invece Uno la seconda).

6) Alla dottrina delle Idee viene dato scarso rilievo e solo subordinatamente alla dottrina dei numeri, i quali, oltre­ché nel modo sopra accennato, vengono intesi in modo teolo­gico, anzi teosofico: si sviluppa, cioè, una vera e propria aritmologia o aritmosofia.

7) Per quanto concerne la concezione dell'uomo, i Neopi­tagorici richiamano in auge la dottrina della spiritualità del­l'anima e della sua immortalità (e, di conseguenza, anche la dottrina della metempsicosi viene ripresa e riaffermata). Il fine dell'uomo viene additato nel distacco dal sensibile e nell'unione col divino.

8) L'etica neopitagorica assume forti tinte mistiche; la stessa filosofia viene intesa come rivelazione divina e la figura ideale del filosofo, identificata in maniera paradigmatica in Pitagora, più che quella di un uomo perfetto diventa quella di un essere prossimo ad un Demone o ad un Dio, o, comun­que, quella di un profeta o di un uomo superiore che ha commercio con gli Dei.

 

 

Neoplatonismo

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La scuola filosofica fondata in Alessandria da Am­monio Sacca nel n secolo d. C. e che ha come suoi maggiori rappresentanti Plotino, Giamblico e Proclo, Il Neoplatonismo è una scolastica: è cioè l'utilizzazione della filosofia platonica (filtrata attraverso il neo­pitagorismo, il platonismo medio e Filone) per la difesa di verità religiose cioè di verità che si rite­nevano rivelate all'uomo ab antiquo e da lui ri­scopri bili nell'intimità della coscienza. I capisaldi del Neoplatonismo sono i seguenti:

1° il carattere rivelativo della verità, che perciò è di natura religiosa e si manifesta nelle istituzioni religiose esistenti e nella riflessione dell'uomo su se stesso;

2° il carattere assoluto della trascendenza di­vina, per il quale Dio, considerato come il Bene, è posto al di là di ogni determinazione conoscibile e ritenuto ineffabile;

3° la teoria dell'emanazione cioè della deriva­zione necessaria da Dio di tutte le cose esistenti, che diventano sempre meno perfette a misura che si allontanano da Lui; e la conseguente distinzione tra il mondo intelligibile (Dio, Intelletto e Anima del mondo) e il mondo sensibile (o materiale) che è un'immagine o parvenza dell'altro;

4° il ritorno del mondo a Dio attraverso l'uomo e la sua progressiva interiorizzazione. sino al punto dell'estasi cioè dell'unione con Dio.

Nel Neoplatonismo si sogliono distinguere: la Scuola Siriaca fondata da Giamblico; la Scuola di Pergamo alla quale appartenne fra gli altri l'imperatore Giuliano detto l'Apostata; e la Scuola di Atene il cui maggiore rappresentante fu Proclo. Ma le dottrine fonda­mentali del Neoplatonismo hanno avuto, e continuano ad avere, un 'influenza profonda su molti indirizzi del pen­siero filosofico.

Il platonismo. del Rinascimento è in realtà un Neoplatonismo che ripete, con alcune variazioni, le tesi su esposte. Le variazioni che caratterizzano il Neoplatonismo ri­nascimentale (quello di Cusano, Pico e Ficino) sono relative alla maggiore importanza attribuita all'uomo e alla sua funzione nel mondo, conformemente a quello che è lo spirito generale del Rinasci­mento.

Una forma di razionalismo religioso è invece il Neoplatonismo inglese che fiorì nella scuola di Cambridge nel sec. XVII (Cudworth, Moore, Whichcote, Smith, Culverwel); che da un lato si oppone al materia­lismo di Hobbes e dall'altro sostiene che le idee fondamentali della religione sono state stampate direttamente da Dio nella ragione e nell'intelletto dell'uomo e perciò precedono la conoscenza empi­rica delle cose naturali. Ma anche nel Neoplatonismo inglese ritornano molti temi del Neoplatonismo rinascimentale, special­mente di Ficino.

 

 

Nichilismo

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Con questo termine può denominarsi ogni tentativo che in qua­lunque modo tenti di mettere in crisi la stabilità ontologica del reale, -ossia di negare la fermezza dell'essere delle cose.

a) Tale è, in primo luogo, l'eraclitismo di Cratilo, contro cui polemizzano Platone nel dialogo omonimo ed Aristotele nel libro T della Metafisica.

b) Nichilista è Gorgia in maniera addirittura programmatica, nel suo cele­bre scritto Della Natura o del Non-essere.

c) Un particolare specie di nichilismo può considerarsi anche lo scetticismo pirroniano, sia nella sua  forma originaria, sia nella sua riproposta in età imperiale per le ragioni che sono mostrate nella nostra Storia.

 

 

Non-essere

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Il concetto di non-essere nella storia del pensiero greco ha assunto diversi significati e, conseguentemente, diverso rilievo speculativo.

1) Fra i Fisici presocratici il problema del non-essere è posto dagli Elea­ti che lo intendono come il puro negativo che assolutamente si oppone al puro positivo che è l'essere (ossia lo intendono, per usare una ter­minologia posteriore, come il contraddittorio dell'essere).

2) Di genesi eleatica, anche se rovesciato contro l'eleatismo melissiano, è il concetto di non-essere cui Gorgia dedica un suo famoso scritto

3) È merito soprattutto di Platone l'aver portato l'ontologia defi­nitivamente fuori dalle secche dell'eleatismo, mostrando, a) come esista un metaxu o intermedio fra essere e nulla, vale a dire il .divenire e soprattutto h) mostrando come esista il non-essere nel sen­so di altro o diverso, compiendo così il celebre "parricidio di Parme­nide"

4) Aristotele ha poi redatto addirittura, insieme alla tavola dei significati dell'essere, una tavola dei diversi si­gnificati del non-essere, che ne comprende tre

5) Con Plotino la concezione del non-essere si fa più comples­sa, potendosi parlare di un non-essere come di ciò che è al di sopra dell'essere, ossia che trascende l'essere stesso (l'Uno), oppure di un non-essere che è al di sotto dell'essere. Nel primo significato il non-es­sere è, in realtà, una sorta di saper-essere, ossia la fonte stessa da cui deriva l'essere. Nel secondo significato è invece privazione di essere. In questo senso è non-essere la materia.

 

 

Nous

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Questo termine viene comunemente tradotto con intelletto (o an­che mente, intelligenza e pensiero). La traduzione, però, per quanto sia di per sé corretta, richiama al lettore moderno una problematica prevalentemente gnoseologica e psicologica, mentre d'area semantica dell'originario greco investe problematiche assai più vaste: dall'anto­logia alla metafisica vera e propria, dalla fisica alla cosmologia, dalla antropologia alla morale e perfino alla religione. Un breve tracciato storico servirà ad illustrare le varie valenze del Nous.

1) Già nei Pre­socratici, il Nous, oltre che la mente dell'uomo, designa la Intelligen­za divina, ordinatrice del cosmo. In Diogene di Apollonia d'essere dotato di Intelligenza è la caratteristica essenziale della physis e del principio ­aria, e, quindi, è anche caratteristica di tutta la realtà, compresi gli animali.

2) Con Platone la problematica del Nous si arricchisce delle acquisizioni della "seconda navigazione", e quindi si spo­sta sul piano metafìsico. a) Nous è l'anima razionale, sovraordinata gerarchicamente a quella concupiscibile ed irascibile e per la prima volta concepita come immateriale, affine alle Idee. Nel Timeo l'anima razionale, che è prodotto dell'attività del De­miurgo, a differenza delle parti irrazionali è immortale. Dal Nous, "divino occhio dell'anima", dipendono la conoscenza del­le Idee e del Bene, quindi la virtù, la morale e la "politica" (platoni­camente intesa) e, in generale, i destini dell'uomo. b) Ma c'è anche un Intelletto proprio dell'anima del mondo, (un Nous cosmico), come chiaramente risulta dal Timeo. E Intelligenza (suprema intelligenza ordinatri­ce del cosmo) è il Demiurgo, che è un Dio. È però da no­tare che, in Platone, il mondo delle Idee, l'Intelligibile, è superiore gerarchicamente all'Intelligenza, in quanto è regola e condizione della stessa Intelligenza.

3) Ancor più avanti si spinge Aristotele. a) La introduzione dell'anima vegetativa e dell'anima sensitiva porta lo Sta­girita ad esaltare, a livello antropologico, l'eccellenza di quella razio­nale, del Nous, che egli concepisce come non mescolato al corpo, ossia come immateriale, e quindi, come tale, capace di essere luogo delle forme ideali. Il Nous umano è realtà di per sé impassibile, provenien­te "dal di fuori", ossia trascendente, immortale, divina. La celebre distinzione fra intelletto potenziale e intelletto attuale è da intendersi alla luce della generale dottrina della potenza ed atto e non sembra avere quella am­piezza e quella portata che le daranno i successivi commentatori ed ese­geti di Aristotele. Lo Stagirita definisce quindi l'essenza dell'uomo (l'io, come diciamo oggi; il "noi", come dicevano gli antichi) non genericamente come psyché (come Socrate e Platone), ma specificamente come Nous. b) A livello cosmologico è da rilevare la fun­zione delle cinquantacinque sostanze motrici delle sfere celesti dei pia­neti, che sono, con ogni evidenza, Intelligenze, come risulta nella Metafisica c) A li­vello metafisico-teologico, l'Intelligenza è presentata come l'essenza stessa dell'Assoluto: una Intelligenza che è intelligenza di se medesi­ma, che costituisce, cioè, essa stessa il proprio intelligibile. Se, dunque, quella platonica è una metafisica dell'intelligibi­le, ossia della Forma e dell'Idea, quella di Aristotele può essere defini­ta come metafisica dell'Intelligenza.

4) In età ellenistica l'intelligenza è interpretata in chiave corporeistica, e quindi perde la sua rilevanza e sporgenza metafisica. Restano, però, le precedenti valenze an­tropologiche, cosmologiche e fisico-teologiche, visibili soprattutto nello stoicismo, che ritiene l'egemonico (l'anima razionale) un frammento del­l'intelligenza divina, e fa di quest'ultima il principio attivo e costituti­vo dell'uniuerso.

5) Con la riscoperta dell'incorporeo, in età imperiale (medioplatonismo e neopitagorismo), la metafisica dell'intelligenza procede ad ulteriori acquisizioni, tramite il tentativo di sintetizzare le istanze platoniche e quelle aristoteliche. a) In primo luogo è da rilevare come, in questo periodo, si tenda a dif­ferenziare più che in passato il Nous dalla Psyché ed a sottolineare mar­catamente la sovraordinazione gerarchica del primo rispetto alla secon­da. È questa una concezione che influenza – fra altri – addirittura lo stoico Marco Aurelio. b) In secondo luo­go, si tende a stabilire una gerarchia di Intelligenze: quella suprema (che coincide col primo Dio) e quella dell'Anima del mondo (che viene detta secondo Dio).  c) Ma soprattutto è degna di rilievo la trasformazione delle Idee in pensieri di Dio, e precisamente nei pensieri del primo Intelletto che pensa se stesso. Sull'importanza che ha avuto Filone. d) Proprio sulla sporgenza metafisica che ha il Nous nell'uomo viene fondata la pos­sibilità della "assimilazione a Dio", che in età imperiale di­viene il comandamento morale essenziale.

6) Anche nei più famosi do­cumenti della gnosi pagana, nei Trattati ermetici e negli Oracoli Caldai­ci, l'Intelletto gioca un ruolo fondamentale. Si veda, ad esempio, la gerarchia degli Intelletti e la funzione loro attribuita nel Poimandres e lo stretto rapporto fra intelletto e salvezza nell'uomo. Si veda anche il rilevante ruolo che gioca il Nous a livello teologico negli Oracoli e, in particolare, la dottrina mistica del "fiore dell'intelletto".

7) Un posto di primo piano nel­la storia del concetto di intelletto occupa Alessandro di Afrodisia, il qua­le distingue nell'uomo: a) un intelletto materiale, puramente potenziale; b) un intelletto in habitu, ossia un intelletto che, mediante ~a realizza­zione della sua potenzialità, possiede l'abito del pensare; c) l'Intelletto' agente o produttivo viene invece identificato con Dio. d) L'intelletto che "viene dal di fuori" (Nous thurathen) diventa come l'impronta dell'Intelletto agente sulla nostra Anima, che rende l'intelletto nostro da potenziale a intelletto in habitu. Contrariamente a quanto per molto tempo si è creduto, Alessan­dro ammette una sorta di immortalità (impersonale), che solo per me­rito dei più recenti studi è stato possibile comprendere.

8) Con Plotino, poi, il Nous diventa una ipostasi, concepita come una sintesi di essere, pensiero e vita. Il termine più corretto per tradurre il Nous plotiniano è quello di Spirito. La dottrina plotiniana del Nous fonde mirabilmente tutte le istanze della dottrina platonica ed aristo­telica e le porta alle loro ultime conseguenze, però, mentre si fa nettissima la distinzione fra Nous e Psyché, che sono due differenti ipostasi, emerge una terza ipostasi (di cui ci sono, in precedenza, solo vaghe anticipazioni, so­prattutto fra i Neopitagorici), superiore allo stesso Nous, ossia l'Uno. L'esatta comprensione del Nous plotiniano implica, pertanto, una ade­guata comprensione dell'Uno da cui è generato, cosi come quella del­l'Anima che esso genera, e, in modo particolare, implica un adeguato approfondimento del concetto di processione. Il successivo neoplatonismo spezza l'unità della ipostasi del Nous, facendo di quelle che in Plotino erano determina­zioni concettuali altrettante ipostasi, e poi distinguendo, anche all'in­terno di queste, ulteriori ipostasi.

 

 

Oracoli Caldaici

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Vedi trattazione precedente

 

 

Orfismo

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Vedi trattazione precedente

 

 

Pampsichismo

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È termine moderno che indica la riduzione della realtà fisica al­l'anima e alla sua attività. Una forma di pampsichismo può considerar­si il neoplatonismo, specie nella formulazione di Plotino, che riduce il cosmo fisico all'attività dell'anima e riduce la physis stessa all'anima.

I germi di questa concezione sono già in Platone, nella misura in cui egli, nel Timeo, pone non già l'anima nel mondo, ma, viceversa, il mondo nell'anima. Platone non fu tuttavia pampsichista, almeno nella misura in cui ritenne la chora (il principio materiale) non prodotto dall'anima.

Ambigua risulta la posizione di Plutarco, che concepisce la materia come strutturalmente dotata di anima irrazionale, cosi come quella analoga di Numenio.

 

 

Panlogismo

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È termine di conio moderno usato per indicare il sistema hege­liano, a motivo della riduzione che esso opera di tutta la realtà a ra­gione e logos. Nell'antichità (sia pure in un differente contesto) può essere cosi denominato il sistema di Platino. Del resto, è Platino stes­so ad indicare con tutta chiarezza quanto segue: "il principio è logos, e tutto è logos" (Enneadi, III, 2, 15). Una forma di panlogismo non spiritualistico come quello di Plotino, ma materialistico, o meglio corporeistico, può essere considerato anche lo stoicismo.

 

 

Panteismo

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E termine moderno che designa quelle forme di pensiero che, in vario modo, identificano l'essere di Dio con l'essere del mondo, ossia che negano la trascendenza divina. Una vera e propria forma di pan­teismo è costituita dall'ontologia stoica. Solo impropria­mente i Presocratici possono dirsi panteisti, perché il loro pensiero, ancora arcaico, non dispone di quelle categorie necessarie per una de­terminazione precisa di tale questione. Si potrebbe dire che i Fisi­ci presocratici sono panteisti, non perché negano la trascendenza, ma perché non l'hanno ancora scoperta, e proprio per questo motivo essi non distinguono l'essere del Divino e l'essere del mondo.

 

 

Peccato

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La concezione del peccato, quale si è venuta a delineare nella cul­tura occidentale (sia nel senso filosofico di scelta di un bene inferiore a danno di un bene superiore, sia nel senso religioso di trasgressione di un comandamento divino, dipendenti l'una e l'altra dal libero ar­bitrio e dalla 'Volontà) è sconosciuta alla grecità. Con Filone di Ales­sandria, soltanto, si fa strada il concetto di peccato come il non volere il volere di Dio. Ma Filone dipende dalla Bibbia da cui attinge il concetto di volontà e di comandamento. Fra i pensatori pa­gani, forse, Seneca più di tutti si avvicina alla concezione di cui par­liamo. Ma Seneca è anche il filosofo che più di tutti ha parlato di vo­luntas, pur senza saperla teoreticamente fondare.

 

 

Pessimismo

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Il termine è di conio moderno, ed indica, nella sua accezione più forte, quella concezione della realtà, la quale ritiene che all'origine del­le cose e della vita vi sia un male od una colpa e che il negativo come tale sia un momento strutturale e fondamentale della realtà. Ora, se un sentimento pessimistico della vita si può trovare abbastanza diffusamente nella letteratura greca, non altrettanto si può dire che avvenga in cam­po filosofico. _ Nei Presocratici una certa forma di pessimismo serpeg­gia, nella misura in cui si ispirano all'orfismo.

Ma con Socrate e soprattutto con Platone si delinea una concezione di fondo chiaramente ottimistica.

Il pessimismo nella filosofia post-platonica ha, a livello tematico, isolate manifesta­zioni: cfr., ad esempio, l'ultimo cirenaismo; lo scettici­smo (ma solo in parte). Si vedano inoltre certe note di sottofondo pre­senti in alcuni Stoici, segnatamente Marco Aurelio.

 

 

Physis

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È questo un termine che esprime uno dei concetti cardini del pen­siero antico. È assai diffìcile da tradurre, perché nelle lingue moderne non ne esiste uno corrispondente, che copra l'intera area semantica dell'originale. "Natura" resta il termine meno inadeguato, soprat­tutto se lo si svincola dalle riduttive concezioni scientifiche. Aristo­tele nella Metafisica, ha tentato di tracciare una mappa dei vari significati di physis, la quale può tornare molto utile al lettore moderno che voglia recuperare quell'area semantica plurima di cui diceva­mo:

 

 

"Natura significa, (1) in un senso, la generazione delle cose che crescono. (2) In un altro senso, natura significa il principio originario e imma­nente dal quale si svolge il processo di crescita della cosa che cresce. (3) Inoltre, natura significa il principio del movimento primo che è in ciascuno degli esseri naturali e che esiste in ciascuno di essi, appunto in quanto è essere naturale [ ... ]. (4) Inoltre, natura significa il principio materiale originario di cui è fatto o da cui deriva qualche oggetto naturale, e che è privo di forma ed incapace di mutare in virtù della sola potenza che gli è propria. Per esempio, si dice che la natura di una statua o di un oggetto di bronzo è il bronzo, invece di quelli di legno si dice che è il legno; e così ripetasi anche per gli altri casi: infatti, ciascuno di questi oggetti è costituito da questi elementi, sen­za che si muti la materia prima di cui è costituito. In questo sen­so, alcuni chiamano natura gli elementi degli esseri naturali. E alcuni .dicono che elemento è il fuoco, altri che è Ila terra, altri che è l'aria, altri che è l'acqua e altri che è qualcosa di simile; altri che gli elemen­ti sono più di uno e altri, infine, che elementi sono tutti quanti. (5) Inoltre, in un altro senso, natura significa la sostanza [= forma] de­gli esseri naturali. Perciò, di tutte le cose che sono o che si generano naturalmente, anche se è già presente ciò da cui, per natura, deriva il loro essere o il loro generarsi, qualora esse non abbiano ancora la loro [orma e la loro figura, diciamo che non hanno ancora la loro natura. Dunque, oggetto naturale è ciò che è composto di materia e di forma: per esempio, gli animali e le ,loro parti. E natura è non solo la materia prima [ ... ], ma anche la forma e la sostanza: e questa è il fine del­la generazione. (6) Per estensione, allora, e in generale, ogni sostanza vien detta natura in virtù della forma, per la ragione che anche la for­ma è una natura. Dalle cose che si son dette risulta che la natura, nel suo senso originario e fondamentale, è la sostanza delle cose che pos­seggono il principio del movimento in se medesimo e per propria es­senza: infatti, la materia si dice natura solamente perché è capace di ricevere questo principio; e la generazione e la crescita solamente per­ché sono movimenti che derivano da questo stesso principio"

 

 

Per completare questo prospetto aristotelico dei vari si­gnificati di physis, occorre tracciare, in breve, anche la mappa delle fasi storiche attraverso cui sono stati via via guadagnati. Infatti, da questa, il già assai complesso quadro aristotelico risulterà non poco ar­ricchito.

a) I creatori del concetto filosofico di physis furono i Pre­socratici, i quali appunto per questo sono chiamati Fisici. Physis, per essi, è il Principio dell'essere e della vita di tutte le cose (ciò da cui, ad opera di cui e in cui tutte le cose sono) e il Principio è il Divino, come Aristotele stesso altrove dice; in questo senso, la physis implica strutturalmente il concetto di Divino. Physis, in parti­colare per gli Eleati, è l'essere. La physis assume il caratte­re di asomaticità in Anassimene e soprattutto in Melisso. Parlare di materialità, come molti fan­no, della physis dei Presocratici, non è corretto; Physis implica, infine, intelligenza e ordine, come è evidente già con la dottrina del Logos eracliteo e, soprattutto, con la dottrina di Anassagora e Diogene di Apol­lonia. Con terminologia moderna potremmo, dire che per i Presocratici la physis è la totalità del reale considerato nella sua struttura (ontologica), ossia nel suo ordine e nelle sue leggi con tutto ciò che queste implicano.

b) Platone guadagna altri signi­ficati, e, fra l'altro, chiama physis anche l'Idea, o, comunque, parla di physis, in più passi, riferendosi alle Idee.

c) Aristotele ten­ta una sistemazione ed una sintesi dei guadagni precedentemente ope­rati, come chiaramente risulta soprattutto dal punto sesto del passo sopra riportato. La preminenza gerarchica che egli dà al concetto di physis come forma indica il peso che ha avuto la lezione platonica. Con Platone ed Aristotele, tuttavia, avviene un capovolgimento di si­gnificato, conseguenza della "seconda navigazione". Infatti, la distin­zione fra "metafisica" (filosofia prima) e fisica (filosofia seconda) com­porta un mutamento dell'antico significato di physis, che, anziché in­dicare la totalità del reale, finisce col designare prevalentemente la realtà sensibile: il concetto di natura viene così a coincidere soprattut­to con quello di natura sensibile. È però da rilevare che questa prospettiva aristotelica non solo non elimina i precedenti signi­cati di pbysis, ma si aggiunge ai medesimi, anche perché, subito dopo. Aristotele, la metafisica viene abbandonata e gli esiti della "seconda navigazione" vengono smarriti.

d) Un'ulteriore tappa si ha con la. filosofia ellenistica, soprattutto con la Stoa. Il concetto di physis ac­quista anche il significato di fondamento della norma morale e poli­tica. Già l'Accademia e lo stesso Aristotele si erano mossi in questa direzione, ma l'acquisizione teoreticamente fondata di questa prospet­tiva avviene solo nel contesto della triplice valenza del Logos-physis.

e) L'ultima tappa dell'evoluzione del concetto greco di physis è costituita dalla speculazione di Plotino. Secondo Plotino la natura è il lembo estremo dell'Anima, ossia l'aspetto per cui l'Anima produce il mon­do fisico. La natura in senso plotiniano è Logos che produce le forme e le somministra alla materia. La physis deriva dalla contemplazione dell'Anima, ed è essa stessa contemplazione. Come tutte le realtà in­telligibili, essa contemplando produce. La storia dell'evoluzione del concetto di physis rispecchia, al limite, quanto vi è di essenziale nel pensiero greco e, in particolare, quella cifra per cui esso è in antitesi con il "soprannaturale", di cui è invece portatore il messaggio cristiano.

 

 

Pistis

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Significa credenza. 1) Platone la considera una forma di opinione e la colloca al secondo livello della conoscenza sensibile, quella rivol­ta alle cose e agli oggetti sensibili. Strettamente connessa all'opinione la considera anche Aristotele. 2) In Filone di Alessandria il termine muta completamente di si­gnificato ed esprime la fede in Dio e nella sua Rivelazione. Filone ri­tiene, di conseguenza, la fede come la virtù suprema ed anticipa, in questo modo, una serie di temi e di problemi che saranno sviluppati sistematicamente nella patristica e nella scolastica. 3) La fede coincide con la potenza e la sapienza teurgica in Prodo.

 

 

Pitagorismo

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definizione di giovanni reale

È il movimento filosofico e spirituale fondato da Pitagora, a ca­valiere fra il VI e il v secolo a.C., caratterizzato da due elementi fon­damentali: a) l'ontologia del numero (principi delle cose sono i nume­ri e, più precisamente, i principi dai quali i numeri derivano, ossia l'illimite e il limite); b) una vita ascetica imperniata sulla credenza, di estrazione orfica, nella metempsicosi.

 Il pitago­rismo antico si dissolse nel IV secolo. Successivamente risorge in età ellenistica e, con rinnovato vigore, soprattutto in età imperiale, per poi fondersi dapprima col medioplatonismo in Numenio, e quindi col neoplatonismo.

Abbiamo proposto di denominare la fase elle­nistica "mediopitagorismo", e di riservare alla successiva la qualifi­ca di "neopitagorismo"

 

 

 

definizione di nicola abbagnano

La dot­trina dell'antica scuola pitagorica, dottrina che poco o nulla deve al fondatore di essa, Pitagora, del quale ben poco si sa di certo e che probabil­mente non scrisse nulla. Le tesi caratteristiche del P. furono le seguenti:

1 ° la dottrina della metempsicosl sulla quale erano fondate le credenze mistiche e i riti della setta;

2° la dottrina che i numeri costituiscono i principi o gli elementi costitutivi delle cose: dot­trina, che attraverso il platonismo, ha presieduto anche agli inizi della scienza moderna;

3° la dottrina che i corpi celesti (che i Pitago­rici portavano a dieci per ragioni di simmetria) girino tutti intorno a un fuoco centrale (hestia) di cui il sole sarebbe un riflesso. Questa dottrina è il primo accenno di quello che sarà, nell'età moderna, il sistema copernicano.

 

 

Pneuma

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Il termine, che significa in generale soffio, spirito, assume dal pun­to di vista filosofico valenze assai diverse.

1) In Aristotele non rive­ste ancora un significato strettamente filosofico e metafisico, indican­do i venti, il respiro, o anche la forza vitale che si esplica in tutti i viventi. Ecco un passo che illustra quest'ultimo significato, già molto interessante:

 

 

"Ora appare chiaro che tutti gli animali hanno un Pneuma congenito e che da questo deriva la loro forza. [...] Sembra che questo Pneuma si trovi rispetto al principio psichico nello stesso rapporto in cui si trova rispetto a ciò che è immobile quel punto delle articolazioni che muove ed è mosso. Poiché il principio vitale in alcu­ni animali si trova nel cuore, in altri in ciò che corrisponde al cuo­re, è perciò evidente che anche il Pneuma congenito si trova nella stessa parte. Altrove si dirà se il Pneuma sia sempre Ilo stesso o se divenga sempre altro. La stessa questione, infatti, sorge anche per le altre parti del corpo. Comunque, è chiaro che esso è per natura ben adatto a muovere e ad esplicare energia. Le funzioni del movimento sono spingere e tirare, di modo che è necessario che l'organo possa espan­dersi e contrarsi. Di tal genere, dunque, è la natura del Pneuma. In­fatti contraendosi ed espandendosi naturalmente, è capace di tirare o di spingere in virtù di una medesima causa; inoltre rispetto alle so­stanze ignee è pesante, rispetto alle sostanze contrarie è leggero" (De Motu anlmalium).

 

 

2) Nell'ontologia stoica il Pneuma si­gnifica soffio infuocato ed è il principio che tutto penetra e tutto trasforma, il quale, distendendosi per l'universo con intensità differente, genera le varie cose con una precisa gradazione gerarchica. Il. Pneuma Stoico, insomma, coincide con il fuoco-artefice, In Filone di Alessandria, il termine Pneuma è usato per indicare lo Spirito che Dio ispira nell'uomo, la potenza di vera vita che Dio dona all'uomo. Con questa dottrina Filone rivolu­ziona l'antropologia classica.

4) Significa, inoltre, quel fluido sottile che attraversa il corpo, da cui dipende la buona o la cattiva salute, secondo una setta dell'antica medicina.

5) Nel contesto del pensiero cristiano signifi­ca lo Spirito Santo.

 

 

Politeismo

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Il termine indica, nell'ambito della religione, la credenza nella esistenza di molti Dei. In filosofia indica, più propriamente, la con­cezione del Divino come strutturalmente molteplice. (In questo caso, forse, sarebbe meglio parlare di pluralismo teologico; ma il plurali­smo teologico ha, in ogni caso, sempre una vera e propria valenza po­liteistica). Il politeismo – si noti – come è una cifra caratteristica del­la religione greca, così è anche una costante della filosofia greca. Per questo il concetto di monoteismo è rimasto fuori dagli orizzonti del pensiero antico.

Fra gli esempi più significativi, indichiamo la com­plessa deduzione degli Dei nel Timeo platonico, i cinquan­tacinque (o quarantasette) Motori che in Aristotele sono gerarchi­camente subordinati, ma coeterni al primo Motore Immobile, i molteplici Dei di Epicuro. Nella tarda anti­chità, poi, la dottrina delle ipostasi viene addirittura presentata come fondazione teoretica del politeismo popolare in modo espresso e si­stematico.

Per il filosofo greco, insomma, Dio e il Di­vino implicano, si, un'unità, ma non implicano affatto un'unicità, in quanto designano una sfera che, per sua stessa natura, strutturalmente si esplica in una molteplicità di differenziazioni. Cfr. Monoteismo.

 

 

Processione

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E' il termine più appropriato per indicare il processo di derivazione -di tutta la realtà dall'Uno nella metafisica neoplatonica. La processio­ne è stata spesso confusa con l'emanazione; ma questo è un grave frain­tendimento. La processione risulta costituita da una se­rie di momenti logicamente ben distinti già in Plotino, e poi via via esplicitati, approfonditi ed anche resi ulteriormente complicati dai suc­cessivi Neoplatonici. Per comprendere a fondo la processione neopla­tonica bisogna partire dalla distinzione plotiniana delle due forme di attività: a) l'attività che è propria di un ente, b) e l'attività che pro­viene da quell'ente. La prima coincide con la natura stessa dell'ente, la seconda, invece, deriva da essa.

a) La prima attività dell'Uno coincide con il suo libero autoporsi (col suo essere causa sui) e col suo voler essere quello che è.

b) La seconda (necessaria conseguenza) implica il procedere di qualcos'altro dall'Uno (poiché l'Uno si autopone come infinita potenza, come potenza di tutte le cose, da lui devono pro­cedere tutte le cose). Ciò che deriva dall'Uno è un alcunché di inde­terminato, che si determina solo rivolgendosi a contemplare l'Uno . Nasce, in questo modo, la prima ipostasi, dalla quale derivano le altre, secondo un identico schema. _ La processione implica, ad un tempo, necessità e libertà: è una necessità che segue ad un atto di libertà '(quello dell'Uno che si autopone). La processione implica poi un per­manere dell'ipostasi produttrice ed è, quindi, un'attività che non esau­risce né diminuisce la realtà dell'ipostasi da cui deriva. Viceversa, co­me attività, digrada via via, cosicché le ipostasi prodotte sono via via inferiori gerarchicamente l'una all'altra.

Il concetto di processione non si comprende senza quello di contemplazione. Proclo (esplicitando elementi già presenti in Plotino, alla luce anche dei successivi sviluppi del neoplatonismo) determina la processione co­me processo triadico costituito da tre momenti: 1) della manenza, 2) della processione o uscita e 3) del ritorno. La manenza è già chiara­mente espressa nel concetto plotiniano di permanere (ménein) e coincide, in fondo, con l'attività del di cui abbiamo sopra detto. L'u­scita coincide con l'attività dal. Il ritorno coincide con il rivolgersi contemplativo.

 

 

Provvidenza

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Indica quella attività essenziale di Dio per cui egli ordina e regge il mondo.

a) In Socrate coincide con l'attività finalizzatrice di Dio.

b) In Platone coincide con l'attività del Demiurgo che produce le cose, riducendo il disordine della chora all'ordine, avendo come scopo il bene

c) Nella teologia aristotelica non c'è posto per la provvidenza.

d) Meno che mai c'è posto in quella epicurea.

e) Invece negli Stoici, il con­cetto di Pronoia emerge in primo piano, ma con mutato significato, coin­cidendo con il concetto di finalità e razionalità immanente, connesso al­la immanenza del Dio-Logos-Physis. Come tale la Pronoia viene a coin­cidere con la Heimarméne o Fato.

f) È da notare che il Greco non guadagnò il concetto di Provvidenza relativo ai singoli individui; solo nel neo­stoicismo ci sono accenni in tal senso, ma non teoreticamente fondati.

g) Il concetto di Provvidenza viene rifondato in senso spiritualistico e trascendentistico nell'ambito del rinato platonismo.

h) In Filone assume connotati biblici

 

 

Psyché

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Il termine psyché, cosi come il termine physis, esprime uno dei concetti cardini del mondo antico e, ancora come physis, non si può rendere con un termine moderno che sia capace di coprire l'intera area semantica coperta dall'originale. Anima resta il termine moderno meno inadeguato, in quanto mantiene le valenze fondamentali dell'originale, ma perde tutta una serie di risonanze che il termine ha via via assunto nella cultura greca e, per giunta, rischia di richiamare alla mente del­l'uomo moderno una problematica prevalentemente religiosa, mentre nella cultura greca la psyché gioca un ruolo essenziale praticamente a­ tutti i livelli: dalla metafisica alla filosofia della natura, dalla cosmolo­gia alla antropologia, dalla morale alla politica, dalla gnoseologia alla. religione. Data l'importanza enorme di questa figura teoretica nel pensie­ro greco, è necessario ripercorrere in breve le tappe attraverso le qua­li si è definita e sviluppata.

1) In Omero, come la moderna filologia ha accertato in maniera precisa, psyché ha fondamentalmente due si­gnificati. a) Un primo, piuttosto generico, di "soffio vitale" (si noti il rapporto fra psyché e il verbo ψυχω = soffio), del quale si fa men­zione soprattutto nella circostanza della morte, ossia quando lascia l'uo­mo con l'ultimo respiro. b) Un secondo, più caratteristico, è quello di "larva umana", fantasma, che sopravvive alla morte e va nell'Ade. Questa larva è completamente priva di coscienza e conoscenza ed espri­me un qualcosa di nettamente negativo. Come è stato detto con effi­cace paradosso, più che un'anima senza corpo (nel senso che oggi dia­mo a questa espressione), la psyché intesa in questo senso è un cor­po senza anima, depotenziato e devitalizzato, con il quale l'io dell'uo­mo ed il suo intendere e il suo volere non hanno nulla a che fare. Il vero uomo è solo quello di carne ed ossa.

2) Una concezione opposta a quella omerica si diffonde in Grecia con l'orfismo. La psyché viene iden­tificata con un Demone e dichiarata di origine divina e, quindi, consi­derata come immortale. La sua presenza in un corpo viene considerata come conseguenza di una colpa, e, quindi, come una espiazione. Na­sce, cosi, la prima concezione dualistica di anima e corpo. In chiave negativa viene di conseguenza interpretato il corpo (che vien detto "soma", termine usato, in precedenza, solo per indicare il cadavere), mentre il positivo dell'uomo viene additato unicamente nel Demone ­psyché. Anche l'orfismo non. riferisce, però, alla psyché la coscienza e la intelligenza; anzi, essa è ­tanto più se stessa quanto meno è viva la nostra attività cosciente, co­me nel sonno, negli svenimenti, e, al limite, quando si libera, con la morte, dal corpo.

3) In un'ottica nuova la problematica della psyché si presenta nei Fisici presocratici. Già a partire da Talete, la psyché è connessa alla physis e al Principio. Ad essa ven­gono di conseguenza attribuiti quei caratteri che sono propri del Prin­cipio e, a poco a poco, anche l'intelligenza, come si può ricavare dai frammenti di Eraclito, di Anassagora, e, soprattutto, da Diogene di Apollonia, il quale identifica l'intelligen­za con l'aria, e dice espressamente che l'aria che gli animali e gli uo­mini respirano "è per essi psyché ed intelligenza". Alla prospettiva fisica della psyché, in molti Pre­socratici, viene giustapposta, in modo aporetico, quella ortica. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che, sulla base della concezione della physis, non era possibile spiegare l'immortalità personale e rispondere a certe istanze di carattere religioso, come chiaramente emerge soprat­tutto dalle posizioni dei Pitagorici, di Eraclito, e di Empedocle.

4) La identificazione pienamente consapevole e tematica della psyché con l'io intellettuale e morale e con la persona­lità dell'uomo costituisce il contributo squisitamente socratico. Certamente questo passo è stato preparato, in una certa misura, dagli ultimi Fisici, ed anche da alcuni poeti. Ma la posizione di Diogene andava radicalmente decosmologizzata e defisi­cizzata (nella misura in cui Diogene attribuisce anche agli animali in­telligenza, resta in antitesi con Socrate), e le intuizioni dei poeti an­davano razionalmente tradotte e definite. Dunque, l'aver fatto della: psyché la sede dell'intelligenza, della conoscenza e dei valori morali, e l'aver identificato, di conseguenza, proprio in essa il carattere etico è la vera personalità dell'uomo, costituisce il grande contributo del messaggio socratico; una conquista veramente irreversibile della storia spi­rituale dell'Occidente.

5) Il contributo di Platone consiste nell'aver .dato fondamento metafisica alla riforma socratica. Socrate si era limi­tato a dare una definizione operativa (per usare una espressione moderna) dell'anima, mentre Platone spiega che essa è affine alle Idee, e in conseguenza dei guadagni della "seconda navigazione" può dimo­strarne l'immortalità, come a Socrate non era stato possibile. Platone può, in questo modo, tentare una sintesi fra le acquisi­zioni socratiche e il messaggio orfico e far coincidere la psyché-daimon con l'intelligenza, spogliando cosi di gran parte del carattere magico-­misteriosofico lo stesso messaggio orfico, pur mantenendone la carica mistico-religioso-escatologica e sposandola col razionalismo socratico. Ma, in Platone, il concetto di psyché si dilata man ma­no che la sua speculazione si evolve. La tripartizione in anima concu­piscibile, irascibile e razionale, quale emerge soprattutto nella Repub­blica, può considerarsi ancora un approfondimento in senso socratico, dato che è introdotta per dar conto di quelle forze alogiche senza le -quali non si spiegano i conflitti che ci sono all'interno dell'uomo e dunque la stessa virtù. Ma con la dottrina del Fedro dell'anima come principio di movimento e soprattutto con la dottrina del­l'anima del mondo del Timeo, la psyché diventa anche un principio antologico e cosmologico.

6) I contributi di Aristotele (contenu­ti soprattutto nel trattato Sull'anima) ampliano considerevolmente gli -orizzonti della problematica della psyché. Tutte le forme di vita vengono interpretate in funzione dell'anima, e di conseguenza vengono in­trodotte: a) un'anima vegetativa, b) una sensitiva, c) una intellettiva. Inoltre il concetto di anima viene definito in funzione dei nuovi con­cetti di forma, atto, entelechia, con esiti assai fecondi. Per quanto concerne l'uomo, Aristotele considera immortale solo l'anima intellettiva, ma (almeno nelle opere della maturità) tace sui destini escatologici della medesima.

7) Nell'Accademia e nel Peripato, dopo la morte dei fon­datori, assistiamo, più che ad approfondimenti, a restrizioni delle dot­trine dei maestri. Le novità in materia vengono, nell'età ellenistica, dal Giardino e dalla Stoa. La rilettura in chiave materialistico-corporeisti­ca della dottrina della psyché riesce solo in modo assai aporetico. Epi­curo considera l'anima come un aggregato di atomi e quindi corporea, .e per giunta, come ogni aggregato, mortale. Ma poi egli tende a considerare questi atomi costituenti la psyché in un modo qualitativamente diverso dagli altri, in chiara antitesi con i presupposti del sistema. Anche la Stoa inter­preta l'anima come una realtà corporea, ossia come Pneuma, ma in una prospettiva assai più ricca. Vi è un' Anima del mondo, che è lo stesso Principio divino, l'Intelligenza cosmica e quindi la Provvidenza, ossia Dio. E vi è l'anima dell'uomo, che è un frammento dell'anima cosmi­ca. La psyché è divisibile in otto parti, fra le quali spic­ca l'egemonico, che è la ragione. Gli Stoici attribuiscono, cu­riosamente, una sorta di sopravvivenza a termine dell'anima, ponen­dosi a mezza strada fra Platone ed Epicuro.

8) Con la rinascita del platonismo e del pitagorismo in età imperiale (mediopla­tonismo e neopitagorismo) ritornano in auge tutte le dottrine di Pla­tone, ma si tende a differenziare psyché e Nous e a porre H Nous strut­turalmente al di sopra della psyché, allo scopo di tagliare i ponti col materialismo della Stoa. Plu­tarco può così attribuire alla materia una sua anima irrazionale capace di solo movimento e parlare (come anche Attico) di una anima malvagia dell'universo, interpretando in modo indebito un pas­so delle platoniche Leggi. Cfr. anche la analoga dottrina di Numenio. Un'altra novità è da segna­lare: rifacendosi probabilmente a dottrine orientali, Numenio ritiene che le anime dell'uomo, prima di rivestirsi del corpo, si allontanino dall'originaria purezza, rivestendosi dapprima di una sostanza eterea, che permette loro di entrare poi nei corpi.

9) Le più cospi­cue novità sulla psyché, nell'ultima parte del pensiero greco, si trova­no in Plotino. Nelle Enneadi la psyché è la terza ipostasi ed ha un chiaro ruolo di intermediario fra il mondo dell'incorporeo, cui appartiene, ed il mondo corporeo, da essa prodotto. L'ipostasi Anima, che ha la ca­ratteristica essenziale di essere una-e-molte, si distingue in: 1) Anima suprema, 2) Anima del Tutto, 3) anime particolari (di diverso genere) aventi, ciascuna, particolari funzioni. All'Anima vengono collegati I concetti di logos e physis. La psyché diviene, così, il vero Demiurgo del cosmo fisico (da essa deriva la stessa materia sensibile). Nell'uo­mo, così come nell'universo, l'anima garantisce tutte quante le attività. Collocata nel quadro generale della dottrina della processione e della contemplazione, la dottrina plotiniana dell'Anima porta il pampsichismo greco ai limiti estremi.

10) Nell'ultima fase del neoplatonismo, infine, la dot­trina dell'anima viene collegata alla. teurgia e alla dogmatica della reli­gione pagana, e quindi scade filosoficamente. Da segnalare, in particolare, è il tentativo di Proclo di far coincidere con la pluralità delle ipo­stasi in cui l'anima viene divisa, le divinità dell'Olimpo greco.

Se sfugge il significato poliedrico della greca psyché, non si può intendere il pensiero antico. Senza una radicale riforma del contesto generale in cui si inseriva questa dottrina, non avrebbe potuto essere compreso né tanto meno accettato il messaggio cristiano della "resurrezione del corpo", che, per molti aspetti, è l'antitesi di quella. Non solo gli Ate­niesi, scandalizzati, voltarono le spalle a Paolo, quando questi parlò loro della resurrezione, ma anche Plotino respinse aspramente questa dottrina. Per il Greco era dive­nuta dogma la resurrezione dell'anima dal corpo, che è proprio il con­trario della resurrezione del corpo..

 

 

Rivelazione

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Il termine indica il disvelamento di una verità che avviene non mediante un semplice procedimento logico, ma mediante l'aiuto o ad­dirittura l'intervento di una Divinità o di forze divine. Si possono di­stinguere tre tipi di rivelazione: 1) un primo, in cui l'oggetto della ri­velazione è costituito da una verità che la ragione può intendere pie­namente e in cui, quindi, l'intervento divino aiuta, per cosi dire, la ragione ad essere pienamente se stessa e non porta oltre ad essa; 2) un secondo, in cui l'aiuto divino porta, mediante ispirazione, a conoscere verità che sono o si suppongono, almeno in parte, oltre la ragione; 3) un terzo, in cui si suppone l'intervento di Dio che positivamente, ossia storicamente, fa conoscere agli uomini una verità che trascende la ragione.

1) Il primo tipo di rivelazione è quello che troviamo, in ma­niera addirittura paradigmatica, nel poema parmenideo, dove, in ulti­ma analisi, la rivelazione della verità da parte della Dea è la rivela­zione della ragione che coglie l'essere e le sue leggi.

2) La seconda forma di rivelazione è propria della religione misterica greca, dell'ermetismo e degli Oracoli Caldaici ed è altresì quella cui si rifanno, in vario modo e con varie sfumature, Platone e i Neoplatonici.

3) Il terzo tipo di rivelazione è rimasto sco­nosciuto all'antichità, ed è proprio delle grandi religioni storiche. Fi­lone di Alessandria la portò in primo piano con la sua filosofia mosai­ca, ma il mondo greco-pagano non ne comprese il significato e la portata. In effetti, la recezione di questo significato della rivelazione doveva comportare un radicale mutamento di una serie di categorie; ma questo mutamento era tale da provocare la crisi e la dissoluzione del paganesimo stesso.

 

 

Saggezza (phronesis)

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1) Indica, in primo luogo, quella particolare conoscenza del be­ne, con cui Socrate identificava la virtù. Potremmo pertanto definire la phronesis nell'accezione socratica come conoscenza fattiva del bene, ossia come una conoscenza che è ad un tempo teoretica e pratica. È esemplare, a questo riguardo, la seguente pagina del Protiagora platonico, che riproduce la concezione socratica:

 

 

"Ora, o Protagora, scopri anche questa parte del tuo pensiero: che cosa pensi della scienza? Hai la stessa opinione che ha la maggior parte degli uomini, o la pensi in modo diverso? E la maggior parte degli uomini pensa della scienza all'incirca questo: che essa non abbia forza, né capacità di guidare né potere di comandare. E lungi dall'attribuirle tale natura, la maggior parte degli uomini ritiene che, pur essendo la 'scienza spesso presente nell'uomo, non sia essa che lo comanda, ma qualcos'altro: talora l'ira, talaltra il piacere, talaltra ancora il dolo­re, qualche volta l'amore, spesso la paura; insomma concepiscono la scienza come una sorta di schiava trascinata da tutte le parti da quel­le passioni. Hai anche tu un'opinione del genere della scienza, o ritie­ni che sia una .cosa bella e capace di guidare l'uomo, e che se uno co­nosce i beni e i mali non possa essere vinto da qualcos'altro, al pun­to da fare cose diverse da quelle che la scienza comanda, e che la phro­nesis sia il più valido ausilio dell'uomo?".

 

 

Tra l'altro, il passo è inte­ressante per l'equazione anche linguistica che stabilisce fra la scienza (epistemé) e la phronesis. 2) Platone porta alle estreme conseguenze le premesse socratiche, facendo coincidere la valenza teoretica della phronesis addirittura con la conoscenza metempirica delle Idee e fa­cendo coincidere la valenza pratica di essa con la "virtù politica" dei reggitori dello Stato. Ecco un passo del Fedone che il­lustra la prima valenza:

 

 

"Ma quando l'anima, restando in sé sola e per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eter­no, immortale, immutabile, e, avendo natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca di essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sem­pre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose cui si attacca. E questo stato dell'anima si chiama phronesis".

 

 

Nella Repubblica poi, come dicevamo, la phronesis è presentata come conoscenza del Bene e dell'Assoluto e come suprema virtù "politica". Da notare, poi, che Platone usa come equivalenti phronesis e sophia. 3) La determinazione precisa del concetto di phronesis si trova in Aristotele, il quale la di­stingue nettamente dalla sophia. Per Aristotele, phronesis e sophia sono virtù dianoetiche, ossia della ragione: ma la prima riguarda la ragion pratica, la seconda la ragion pura speculativa. La phronesis diviene così quella sapienza tipicamente umana consistente nel ben deliberare intorno a ciò che è bene e male per l'uomo. Po­tremmo dire che da Aristotele in poi la phronesis indica una sola di quelle due valenze, quella pratica, che Socrate e Platone non scinde­vano da quella teoretica. E' opportuno leggere un testo molto importante, che illu­stra perfettamente il pensiero dello Stagirita:

 

 

"[ ... ] la saggezza, in­vece, riguarda i beni umani e le cose su cui è possibile deliberare: in­fatti noi diciamo che soprattutto questa è la funzione del saggio, il deliberare bene, e nessuno delibera sulle cose che non possono essere diversamente, né su quelle che non abbiano un qualche fine che sia un bene realizzabile nell'azione. L'uomo che sa deliberare bene in senso assoluto è quello che, seguendo il ragionamento, sa indirizzarsi a quello dei beni realizzabili nell'azione che è il migliore per l'uomo. La sag­gezza non ha per oggetto solo gli universali, ma bisogna che essa co­nosca anche i particolari, giacché essa concerne l'azione, e l'azione ri­guarda le situazioni particolari. [ ... ] La saggezza, poi, riguarda l'a­zione: cosicché deve possedere entrambi i tipi di conoscenza, o di pre­ferenza quella dei particolari. Ma ci sarà anche qui una scienza archi­tettonica"

 

 

La saggezza diventa così, quella conoscenza pratica, che insegna all'uomo il "ben vivere"; per contro la sapienza diventa la scienza delle cose che stan­no al di sopra dell'uomo, ossia delle realtà metafisiche, e, di conseguen­za, una scienza gerarchicamente superiore, nella misura in cui sono supe­riori all'uomo Dio, il Divino, e la totalità del reale. 4) Nell'età ellenistica, caduto ogni interesse per il metafisico e il trascen­dente, diviene primario, se non esclusivo, l'interesse per l'uomo e do­mina la concezione della filosofia come arte del vivere. La saggezza diviene di conseguenza la suprema virtù, la virtù per ec­cellenza. In Epicuro la saggezza è detta senz'altro bene supremo, fonte di tutte le altre virtù, unica garanzia di una vita felice.

Anche negli Stoici, la saggezza, definita come "scienza dei be­ni, dei mali e degli indifferenti", occupa il primo posto nella tavola delle virtù e costituisce il fondamento di tutte le altre. In generale si può dire che tutte le filosofie ellenistiche, compresa quella pirroniana, sono forme di "saggezza", con notevoli convergenze di fondo. 5) Per contro, nell'età imperiale, col rina­scere della metafisica e della problematica della trascendenza, ritorna la sophia o sapienza in primo piano, non solo nell'accezione aristotelica, ma altresì arricchita di inedite valenze.

 

 

Salvezza

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Indica, in senso specifico, la liberazione dai mali, e, in particolar modo, da quei mali dai quali dipende la rovina e l'infelicità dell'uo­mo. Si tratta, dunque, di una salvezza ultimati va, della salvezza di fondo. - Nel contesto del pensiero socratico, quale è espresso ad esempio nel Protagora, si dice che la "salvezza della vita" consiste nella scienza:

 

 

"Ebbene, amici! Poiché la salvezza della nostra vita ci risultò consistere nella corretta scelta del piacere e del dolore, del più e del meno copioso, del più e del meno intenso, del più lontano e del più vicino, non è forse evidente, innanzitutto, che si tratti di una capacità di misurare, dal momento che si tratta di una ricerca riguardan­te l'eccesso e il difetto e l'uguaglianza reciproca? [ ... ] E poiché è una capacità di misurare, è necessario che sia un'arte ed una scienza".

 

 

Lo stesso mito finale della Repubblica (che contiene il messag­gio, da un certo punto di vista, più radicale di Platone) viene presen­tato esplicitamente come messaggio di salvezza.

La coloritura religiosa, già qui presente, si accentua in età imperiale. Il Corpus Hermeticum è, nel suo complesso, una soteriologia. Ecco un passo significativo: "Dove correte o uomini, ubriachi, dopo aver bevuto la dottrina dell'ignoran­za come vino puro, che non potete neppure sopportare, ma di già state per vomitare? Fermatevi e tornate in voi stessi. Volgete in alto gli occhi del cuore; e se non ne siete capaci tutti, lo facciano almeno. quelli che possono. Il male della ignoranza inonda tutta la terra, cor­rompe l'anima imprigionata nel corpo, senza permettere che essa getti l'ancora nel porto della salvezza. Non lasciatevi trascinare dalla violenza dei flutti, ma valendovi del riflusso, voi che potete raggiungere il porto della salvezza, gettate l'ancora in questo e cercate una guida che vi mostri la via per giungere fino alle porte della conoscenza dove brilla la luce splendente, scevra di tenebre, dove nessuno è ebbro, ma tutti sono sobri e rivolgono lo sguardo del cuore, verso colui che vuole essere contemplato". Come "salvezza dell'anima" Porfirio concepi­sce, in generale, la filosofia.

 

 

Santità

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Nel contesto del paganesimo non trova posto una concezione del­la santità quale, invece, si è venuta delineando nel contesto della reli­gione ebraica, e soprattutto cristiana, la quale implica una strutturale metanoia e un rovesciamento del vivere rispetto al modo di pensare del mondo, cosi come è radicale il messaggio di Cristo che è Dio e si fa uomo e muore per salvare gli uomini. Nel contesto del pensiero ebraico-cristiano, Dio solo è veramente santo, e l'uomo è santo nella misura in cui cerca di realizzare, con l'aiuto della grazia, nel suo pensare e nel suo vivere il volere divino. E' evidente che, cosi intesa, la santità è la virtù più alta, da cui tutte le altre dipendono. La san­tità, cosi concepita, suppone, in certo senso, l'uomo a tre dimensioni: non solo come corpo fisico, e come intelligenza, ma anche come capa­ce di accogliere quella divina grazia che lo rende "figlio di Dio", e nella cui dimensione si sviluppa, appunto, la santità. Ora, non solo nella religione greca, ma anche nella filosofia greca, tale prospettiva resta assente l'idea che la physis, l'intelligibile e l'intelligenza potesse­ro o dovessero essere trascesi non si affaccia se non con Plotino, e in maniera del tutto differente. Il santo rientra nella sfera del naturale e del razionale e la santità, al massimo, può essere una delle virtù, e nemmeno una delle più elevate. Platone, che al santo dedicò nell'Eutifrone la trattazione più ampia, subordinò questa virtù alla giusti­zia e la definì come "una parte del giusto", e precisamente "quella parte del giusto che concerne la cura degli dei; l'altra parte del giu­sto, è, invece, quella che riguarda la cura degli uomini". Il dialogo conclude in modo aporetico, ma da molti indizi sembra che -questa "cura", debba concepirsi come una collaborazione con gli Dei nella realizzazione del Bene. Nella Repubblica la santità .non ha un suo ruolo, e la tavola delle virtù supreme comprende solo la temperanza, il coraggio o fortezza, la saggezza o sapienza e la giu­stizia.

La successiva speculazione greca non apporta novità in ma­teria a livello speculativo.

Invece la situazione si capovolge con Fi­lone, che pone la santità come regina delle virtù. Ma Filone si ispira alla Bibbia e attraverso la Bibbia guadagna quella visione dell'uomo a tre dimensioni di cui abbiamo detto.

 

 

Sapienza

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Sapienza traduce propriamente il termine sophia. Nel suo signi­ficato specificatamente filosofico, corrisponde, fino a Platone, a phronesis o saggezza e da questa si distingue in un modo preci­so solo a partire da Aristotele. Senofane chiama sophia il proprio sapere, contrapponendolo alla forza fisica. Eraclito scri­ve in maniera paradigmatica: "L'essere saggi è la più grande virtù e la sophia consiste nel dire la verità e agire secondo natura dando ascolto ad essa". Non meno interessante il fr. 31 di Democrito: "La medicina è l'arte che cura le malattie del corpo, la sophia que1la che sottrae l'a­nimo dal dominio delle passioni".

Socrate chiamava la propria filo­sofia "Sapienza umana". - Platone riteneva la sophia come virtù propria dell'anima. razionale e quindi della classe dominante della Città. Nella Repubblica cosi viene de­finita:

 

 

"Ora, innanzi tutto qui, a me pare che sia chiara la sophia d ci vedo anche qualcosa di singolare [ ... ]. Sapiente in realtà a me pa­re che sia lo Stato che abbiamo descritto; ha infatti buoni consigli [ ... ]. E questo stesso, il buon consiglio (euboulia), è chiaro che è un sapere (epistéme): non l'ignorare, infatti, ma il sapere, fa prendere buoni consigli".

 

 

Questa scienza in particolare è quella che "provvede, non ad una cosa sola tra quante sono nello Stato, ma ad esso Stato tutto intero, in modo che esso con se stesso e con gli altri Stati possa meglio comportarsi". Come si vede la O'o<pta. coincide con quello che Platone chiama anche phronesis (saggezza).

Aristotele, come abbiamo detto, separa nettamente i due termini, esprimendo con essi due differenti concetti. Ecco il più famoso testo aristotelico a questo riguardo:

 

 

"[ ... ] noi pensiamo che ci siano degli uomini sapienti in senso onnicomprensivo e non sapienti solo in un campo particolare o in una cosa determinata [ ... ] e così è chiaro che la sapienza è la più perfetta delle scienze. Per conseguenza, bisogna che il sapiente non solo conosca ciò che deriva dai principi, ma anche che colga il vero per quanto riguarda i principi stessi. Così si può dire che la sapien­za sia insieme intellezione e scienza, in quanto è scienza, con fonda­mento, delle realtà più sublimi. È assurdo, infatti, pensare che la po­litica e la saggezza siano la forma più alta di conoscenza, se è vero che l'uomo non è la realtà di maggior valore nell'universo" (Etica Nicomachea).

 

 

La sapienza è dunque scienza delle cose che trascendono l'uomo, è la scienza teoretica, e, in particolare, la metafisica; la saggezza è scienza dell'uomo e delle cose umane. Nelle filosofie elleni­stiche col tramonto della metafisica va di pari passo il tramonto della sapienza e il levarsi in primo piano dell'interesse per l'uomo, e quin­di della phronesis che diviene la suprema virtù. Ecco la definizione stoica di sophia: "dicono che la filosofia è la pratica della sapienza e che la sapienza è conoscenza delle cose divine e umane"; dove, come è evidente, viene cancella­ta proprio la discriminazione aristotelica. Per contro, con il riemergere nell'età imperiale della metafisica, torna ad imporsi la superiorità della sophia, la quale, anzi, si amplifica, arricchendosi di inedite valenze.

In Filone di Alessandria la sapienza, da un lato, viene intesa come quella conoscenza del divino che si basa sulla fede e sulla rivelazione, e, dall'altro, viene addirittura intesa in modo quasi ipostatico, come un'entità che deriva da Dio e quindi come un aspetta del Logos, o addirittura come identificantesi con il Logos medesimo e quindi con tutte le funzioni proprie del Logos. Si ritrovano in Filone fondamentalmente i significati che si ritrovano nel libro bi­blico della Sapienza, di cui riportiamo uno dei passi più significativi:

 

 

"Sappi quanto è nascosto e palese; infatti la sapienza, artefice di tut­to, me lo insegnò. In essa, infatti, vi è uno spirito intelligente, santo, unico e molteplice, sottile, celere, perspicace, senza macchia, luci­do, propizio, amante del bene, penetrante, incoercibile, benefico, aman­te degli uomini, immutabile, fermo, senza ansie, di ogni virtù, tutto vi­gile, che penetra ogni spirito intelligente, puro e più sottile. E così la sapienza è più agile di ogni moto, pervade e penetra tutto per la sua purezza. Essa è il soffio della virtù di Dio, l'effluvio puro della gloria dell'Onnipotente; perciò niente di lurido la raggiunge. Essa è lo splendore della luce eterna, lo specchio tersissimo del vigore di Dio e l'immagine della sua bontà. E poiché è unica, essa può tutto; pur rimanendo immobile, tutto rinnova, e passando, in ciascuna età, nelle anime sante, prepara gli amici di Dio e i profeti. Dio non ama che colui che abita con la sapienza; poiché essa è più fulgida del sole [ ... ]".

 

 

In 8, 3 sgg., si legge ulteriormente:

 

 

"Essa mostra la no­biltà perché conversa con Dio e il Signore dell'universo la ama;. ess.a è partecipe dei segreti della scienza di Dio e sceglie tra le opere di lui. Ora, se le ricchezze sono un bene desiderabile come possesso nella Vi­ta, che cosa c'è di più ricco della sapienza che produce tutto? E se la intelligenza opera, chi, fra tutte le cose, è più intelligente di lei?".

 

 

È evidente che il pensiero filoniano dipende da questi testi. Ma anche nel contesto del pen­siero pagano, e non solo in quello puramente mistico ma altresì in quello più propriamente speculativo come quello di Platino, la sophia assume alcune di queste dimensioni, ad esempio in una esem­plare pagina delle Enneadi che conviene leggere: "Ma la vita, là (nel mondo dello Spirito), è sapienza e, per giunta, una sapienza che non s'acquistò per via di ragionamenti, perché essa è già compiuta in eterno e non viene meno in nulla, si che occorra farne ricerca; anzi, è la sapienza primordiale e inderivata; e il suo stesso essere è sapienza, non è, badate, un essere che in un secondo tempo si fa sapiente. Pro­prio per questo, nessuna sapienza le è superiore; e la scienza in sé qui siede accanto allo Spirito, poiché con Lui apparve la prima volta, co­me si dice, per immagine, che il Diritto troneggia al lato di Zeus [ ... ]. Ora, a voler misurare la grandezza e la forza di tale sapienza, basta osservare ch'essa reca con sé ed ha creato gli esseri e il tutto; che tut­to le si accompagna; che essa è, dal canto suo, gli esseri [= le Idee]; che essi ebbero comunque nascimento con lei; che entrambi sono una cosa sola; che l'essere non è poi altro che la Sapienza dello Spirito".

 

 

Scienza

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Indica, per i filosofi greci, quel tipo di sapere razionale (fondato sul logos) fornito di caratteri d'incontrouertibilità e certezza assoluta . E tale è quel tipo di sapere che giunge al fondamento, alle cause ed ai principi. Scienza è, dunque, quel sapere che ha una fondazione ulti­mativa. La scienza si oppone all'opinione, che si basa, invece, sui sen­si e sulla esperienza sensoriale, e che, in quanto tale, non giunge mai ai fondamenti.

1) In questo senso, scienza è già la dottrina dei Natu­ralisti (anche se raramente è usata in essi la parola epistéme), ossia è la dottrina dell'arché degli Ionici e dei Pluralisti e la dottrina del­l'essere di Parmenide e degli Eleati. Molto significativi, a questo ri­guardo, sono i frammenti di Eraclito, secondo cui il vero sapere si con­figura come quello che si fonda sul logos universale, e che come tale si oppone alla doxa, che è basata sui sensi ed è particolare, ossia pro­pria dei singoli individui. Ecco, ad esempio, il frammento 1: "Questo logos, benché verità eterna, gli uomini non l'intendono mai; né prima di udirlo, né dopo averlo udito; e sebbene tutto avvenga se­condo 'tale logos, che è la legge del mondo, ne sembrano inesperti, quando si provano in parole ed in azioni come quelle che io spiego, distinguendo ciascuna cosa secondo la sua intima natura e dicendo com'è. Ma gli altri uomini sono ignari di ciò che fanno da svegli; cosi come non sanno ciò che fanno dormendo". Il fr. 114 precisa: "Co­loro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che è a tutti comune, come la città sulla legge e con maggior forza an­cora". E il fr. 2 ribadisce: "Quindi si deve seguire ciò che è comu­ne. Ma benché comune sia questo logos, i molti vivono come se avessero un proprio pensiero per loro". Eraclito giudicava, di con­seguenza, le opinioni degli uomini "giochi da bambini". Non meno interessanti sono le affermazioni di Parmenide.

2) Scienza era detta da Socra­te, la sua "sapienza umana", ed a buona ragione; infatti, se egli nega­va di conoscere la physis e i principi degli esseri, riteneva in ogni caso di poter cogliere l'essenza dell'uomo, ossia la psyché, e, dunque, il fondo della natura umana.

3) Episteme è espressamente detta da Platone la conoscenza ultimativa dell'essere ossia delle Idee: "La scienza è fatta per l'essere, per conoscere come sia l'essere" (Re­pubblica, v, 477 b). La scienza per Platone coincide, dunque, con la dialettica, e riguarda il mondo intelligibile, mentre l'opinione riguar­da il mondo sensibile. Oltre al passo della Repubblica, è fondamentale il passo del Menone, 97 e sgg., dove le opinioni (anche quelle veraci) sono paragonate alle sta­tue di Dedalo che non vogliono stare mai ferme e non hanno alcun valore se non siano legate: "Possedere una delle sue (di Dedalo) ope­re sciolte, non è di grande valore, come uno schiavo che scappa _ in­fatti non resterebbe _; legata, è, invece, di molto pregio. Quelle ope­re, infatti, sono assai belle. Ma a quale fine dico queste cose? Riferen­domi alle opinioni veraci. Infatti, anche le opinioni veraci, per tutto il tempo in cui rimangono, sono una bella cosa e producono ogni be­ne; ma troppo tempo non vogliono restare e se ne fuggono dall'animo dell'uomo: sicché non sono di grande pregio, fino a che uno non le leghi, con la conoscenza della causa. E questa è, o caro Menone, la reminiscenza, come abbiamo convenuto nei ragionamenti precedenti. Dopo che siano legate diventano in primo luogo conoscenza e inoltre diventano stabili. Per queste ragioni, la scienza è cosa di maggior pre­gio della retta opinione, e, ancora, la scienza differisce dalla retta opi­nione per quel legame". E la causa ed il legame di cui qui si parla è appunto l'Idea, l'Essere.

4) Aristotele approfondisce il concetto di scienza, sia dal punto di vista antologico, sia da quello metodologico. Ecco come lo Stagirita riassume nell'Etica Nicomachea, questi due punti di vista:

 

 

"Che cosa è dunque la scienza, se dobbiamo parlare con rigore e non tener dietro a similitudini, risulta chiaro da quanto se­gue. Tutti ammettiamo che ciò di cui abbiamo scienza, non può essere diversamente da quello che è: ciò invece che può essere anche diverso, quando è fuori dal campo della nostra osservazione, non si sa più se esiste o no. In conclusione, l'oggetto della scienza esiste di necessità. Quindi è eterno: gli enti, infatti, che esistono di necessità assoluta sa­no tutti eterni, e gli enti eterni sono ingenerati ed incorruttibili. Inol­tre, si ritiene che ogni scienza sia insegnabile e che ciò che è oggetto di scienza può essere appreso. Ogni insegnamento, poi, procede da co­noscenze precedenti, come diciamo anche negli Analitici: procede, in­fatti, o mediante l'induzione o mediante il sillogismo. Ora, l'induzione è principio di conoscenza anche dell'universale, mentre il sillogismo procede dagli universali. Ci sono dunque dei principi da cui il sillogi­smo procede, ma dei quali non è possibile sillogismo: dunque, si otten­gono per induzione. In conclusione, la scienza è una disposizione alla dimostrazione, insieme con tutti gli altri caratteri che abbiamo defini­to negli Analitici, giacché quando si è giunti ad una determinata con­vinzione e quando i principi ci sono noti, si ha scienza. Infatti, se i principi non sono più noti della conclusione, si avrà scienza solo per accidente"

 

 

Ricordiamo ancora che, per Aristotele, la scienza è sempre e solo dell'universale in tutti e due i sensi (ontolo­gico e logico) in cui questo si intende.

5) In Epi­curo, pur con altra terminologia (il termine episteme ricorre poche vol­te nei frammenti pervenutici), i due momenti che abbiamo distinto in Aristotele corrispondono alla sua fisica e alla sua canonica. Molto interessante è la posizione di Epicuro nei confronti delle scienze particolari, che, per lui, contrariamente alla fi­sica (= ontologia), ammettono molteplici spiegazioni causali del me­desimo fenomeno. Per Epicuro, insomma, il vero sapere incontroverti­bile è il sapere uitimativo (fisico-ontologico).

6) An­che a proposito della fisica e della logica stoica si deve ripetere lo stesso discorso. Ma gli Stoici insistettero, anche a livello formale, in modo del tutto particolare sulla tematica della scienza e sulla certezza di poterla raggiungere: ed è per questo che soprattutto contro di essi si scatenarono le polemiche degli Scettici. La definizione stoica di scienza è la seguente: "La scienza è comprensiva, stabile ed immuta­bile".. Il Pohlenz precisa quanto segue: "Per gli Stoici [ ... ] si può parlare di un vero sapere solo quando la katalepsis sia divenuta un possesso spirituale, che nulla può scuotere, che nessuna considerazione razionale può abolire. E il termine scienza in senso pro­prio rimane riservato al sapere concernente i fini ultimi, al comporta­mento psichico del saggio, comportamento che in pratica si manife­sta nel non lasciarsi distrarre nella sua attività conoscitiva dall'affiora­re di alcuna rappresentazione". La scienza è re­taggio esclusivo del saggio.

7) La dottrina scettica, specie quella neoscettica, altro non è che un grandioso tentativo di dimostrare l'impossibilità della scien­za comunque intesa e in special modo nel senso fin qui definito.

8) Ma lo scetticismo non è l'ultima parola della filosofia greca. In particolare con Plotino quella tangenza col Divino e con l'Assoluto che nelle precedenti concezioni della scienza era im­plicita e, anzi, in Aristotele addirittura esplicita, viene portata alle estreme conseguenze. La scienza diviene la vivente unificazione di pen­siero ed essere nello Spirito: "La scienza delle cose immateriali, pre­sa nel suo complesso, si identifica col suo contenuto reale". La scienza contiene in sé strutturalmente la totalità dei contenuti: "Noi dobbiamo dunque concepire uno Spirito che non ab­bia alcun contatto con le cose particolari, né eserciti la sua attività su cosa di sorta affinché non diventi un determinato spirito; dobbiamo concepirlo sul tipo di una scienza generica anteriore alle specie particolari, o anche di una scienza specifica anteriore alle sezioni che sono in essa; la scienza nel suo complesso non è nessun particolare suo contenuto, ma la sua potenza lo domina tutto; invece il singolo contenuto parziale è in atto quello che è, ma in potenza è tutto; altrettanto si dica della scien­za nel suo complesso; le scienze specifiche sono quelle che s'adagiano, potenzialmente, nella scienza universale, quelle che colgono propria­mente l'oggetto specifico parziale, ma sono potenzialmente la stessa scien­za universale; poiché di loro è predicata la scienza totale non la sezio­ne della scienza totale; ed essa vuol certo restare intatta in se stessa" (Enneadi, VI, 2, 20). E a questa, che è scienza dello e nello Spirito, l'uo­mo è legato dalla anamnesi e vi ritorna con la Dialettica. Per Plotino, però, al di sopra della scienza, pur cosi alta, vi è l'estasi, l'unificazione con l'Assoluto (l'Uno), che, come è al di là dell'essere e del pensare, 'cosi è al di là della scienza: al di sopra _ si badi - non contro.

9) La rovina della mentalità che sta alla base delle conce­-zioni qui indicate si ha solo con l'assunzione nella filosofia della teur­gia, che è una forma di magia e dunque di puro irraziona­le, e con l'egemonia di questa negli ultimi Neoplatonici.

 

 

Suicidio

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Il problema del suicidio fu agitato nel pensiero antico soprattut­to nell'età ellenistica, che fu un'età tragica per i Greci. Ma la prima netta presa di posizione in merito si trova già nel Fedone di Platone, ed è veramente paradigmatica. All'uomo, dice Platone, non è lecito togliere la vita non solo ad altri, ma nemmeno a sé, anche nelle situa­zioni in cui questo fosse di grande sollievo, perché l'uomo è "pos­sesso degli Dei", e quindi la vita gli può essere tolta solo da Dio.

Venuto meno il senso di questo legame religioso-­metafisico fra l'uomo e Dio, nell'età ellenistica, il suicidio fu in genere giudicato, in particolari situazioni, ammissibile, e precisamente in quei casi in cui il saggio è costretto a vivere in condizioni contro natura, sì da non poter adempiere ai propri doveri. Ecco ad esempio il fr. 763: "Ma poiché il punto di partenza di tutti i doveri è da queste (cioè dalle propensioni naturali), non a torto si dice che ad esse si riportino tutte le nostre considera­zioni, fra queste il permanere o il non permanere in vita. Quello in­fatti in cui la maggior parte delle cose sono secondo natura, ha il do­vere di rimanere in vita; quello invece in cui la maggior parte delle cose sono contrarie a natura, o sembra che lo saranno, ha il dovere di lasciare la vita. Dal che appare evidente che è talvolta dovere del sapiente, pur essendo beato, lasciare la vita, e per lo stolto, pur essen­do misero, rimanere in vita". Si veda anche Seneca.

Anche Epicuro è di pa­rere analogo, come riferisce Seneca nella Epistole, 12,10: "È doloroso vivere nella necessità: ma il vivere nella necessità non è affatto ne­cessario. E che non sia affatto necessario, ci mostrano le molte vie aper­te alla libertà, facili e brevi. Rendiamo grazie a Dio che nessuno può essere tenuto in vita a forza: è permesso anche calpestare le necessità stesse".

Plotino (Enneadi, I, 9) condanna, in linea di principio, il suicidio con questa argomentazione: "Egli non la scaccerà, l'anima, col rischio ch'ella non esca; perché veramente, quanto a uscire, uscirà" si, ma trascinandosi qualcosa dietro; e un siffatto uscire non è altro che un trasmigrare in altro luogo; per contro, egli attende che il corpo­ si allontani, tutto quanto, da quella, allorché l'anima non ha più bi­sogno di trapassare ma ne è ormai del tutto fuori".

 

 

Teurgia

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A differenza della teologia, che si limita a parlare intorno alla divinità, la teurgia si propone di evocare gli Dei e di agire su di essi attra­verso l'uso di simboli o di pratiche del tipo di quella che oggi si chiama trance medianica. _ a) Molto antica, come pratica, essa venne fissata per iscritto da Giuliano il Teurgo negli Oracoli Cal­daici, e, attraverso questa opera, ebbe larga diffusione nella tarda an­tichità. _ b) Porfirio, sulla base del principio della impassibilità divina e della indifferenza degli Dei a qualsiasi tipo di azione umana, la criticò, ma, insieme, ammise una sua efficacia, sia pure a livello inferiore. _ c) Giamblico, invece, facendosi in­terprete delle esigenze dell'ultimo paganesimo, difese la teurgia perché riteneva che grazie ad essa fosse possibile, in una dimensione soprarazio­naIe, congiungersi con gli Dei e beneficiare della loro potenza. In questa relazione, la Divinità non rimarrebbe, però, passiva, ma assumerebbe l'iniziativa di scendere fino agli uomini, per liberarli dalla miseria di questo mondo. _ d) Dopo Giamblico, quasi tutti i Neo­platonici pagani ebbero un atteggiamento di incondizionata fiducia nelle pratiche teurgiche; cosi, ad esempio, Giuliano l'Apostata e Proclo. Quest'ultimo, in particolare, parlava di una "vir­tù teurgica" superiore ad ogni altra e capace di unirei al divino.

 

 

Trascendenza

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Con questo termine si intende la caratteristica di quell'essere o di quegli esseri che sono oltre il sensibile e oltre il fisico. Trascendenza indica non una semplice separazione fisica, ma una diversità di strut­tura ontologica. Il trascendente è il non-fisico, il non-empirico, il non­corporeo.

1) Il primo guadagno dell'orizzonte della trascendenza ri­sale a Platone, il quale cercò di dimostrare l'esistenza di un genere di essere totalmente diverso dal sensibile, che identificò, dapprima, nelle Idee e, poi, anche nelle Idee-Numeri. Egli considerò altresì il Demiurgo e le anime razionali strettamente affini a questo essere. Anzi, Platone non solo parlò del trascendente, ma, in qualche modo, introdusse una diversificazione di enti nella sfera della trascendenza, gerarchicamente sovraordinati l'uno all'altro e culmi­nanti nell'Idea del Bene, di cui si parla nella Repubblica. Tale idea è qualificata come al di là della stessa essenza, con la pregnante espressione ετεχεινα της συσιας, che diventerà tecnica nei Neoplatonici.

2) Aristotele, per indicare la trascendenza, usa, invece, i termini χωριστη ουσια oppure ουσια xεχωρισμενη τον αισϑητον, oppure parla anche di sostanze sussistenti παρα τα αισϑητα. Choriston e kechorisménon espri­mono l'idea di "separazione" dal sensibile. Ora, per lo Stagirita, le Idee platoniche non possono essere "separate" (trascendenti), ma de­vono essere le forme immanenti che, determinando la materia, costitui­scono il sinolo; ma "separato" è il Motore Immobile, cosi come "se­parate" sono le Intelligenze motrici dei cieli, ed una "separabilità" (e quindi trascendenza) viene riconosciuta anche all'intelletto umano. Aristo­tele non nega, ma piuttosto riforma e completa gli esiti della platonica "seconda navigazione".

3) Nell'età ellenistica la trascendenza viene sistematicamente negata. Epicuro e gli Stoici respingono in modo cate­gorico gli esiti della "seconda navigazione" e Pirrone tenta di rovesciare l'ontologia aristotelica. L'es­sere viene dichiarato come strutturalmente corporeo e all'incorporeo viene negata pervicacemente una statura ontologica. L'età dell'elleni­smo è l'età dell'antitrascendenza e dell'immanenza,

4) A partire dagli ultimi decenni dell'era pagana e soprattutto nei primi secoli dell'era cristiana, la problematica della trascendenza rinasce e diviene vigorosissima. Filone di Alessandria, combinando platoni­smo e rivelazione biblica, estende la trascendenza di Dio anche a li­vello gnoseologico e semantico. Dio non solo è totalmente altro dal corporeo, ma è anche al di là delle nostre possibilità di conoscenza e di espressione.

5) I Neopitagorici e i Medioplatonici fan­no valere in maniera sempre più consapevole le istanze dell'incorporeo.

6) I Neoplatonici, infine, fanno della trascendenza addirittura la cifra del loro 'filosofare. La terminologia che usano è, naturalmente, quella platonica, caricata di nuovi signifi­cati. Il principio primo nei Neoplatonici diviene l'assolutamente tra­scendente, in quanto posto al di là addirittura dell'Essere e del Nous, e di conseguenza diventa (come già in Filone) ineffabile e inesprimibile. Si può dire che i Neoplatonici distin­sero tre gradi di trascendenza, corrispondenti alle tre ipostasi di PIo­tino o alle tre sfere in cui rientrano le ipostasi moltiplicate dai suoi suc­cessori, e precisamente: a) la trascendenza a livello dell'anima, che è trascendente rispetto ai corpi; b) la trascendenza a livello del Nous, che è trascendente non solo rispetto ai corpi, ma anche rispetto all'anima; c) la trascendenza dell'Uno, che è trascendente rispetto a tutto. Scri­ve Proclo: "L'essenza dell'anima è al di là di tutti i corpi, e la natura intellettuale è al di là di tutte le anime, e l'Uno è al di là di tutte le ipostasi intellettuali" (Elementi di Teologia, 20).

 

 

Uno

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1) Il problema dell'Uno nasce col sorgere della stessa ricerca fi­losofica, che è, alle sue origini, tentativo di spiegare la molteplicità delle cose in funzione, appunto, di un principio. Già nell'ambito dei Pre­socratici si possono distinguere due differenti concezioni dell'Uno: a) quella che introduce l'Uno senza negare i molti, ed anzi per giusti­ficarli; h) quella eleatica che, invece, nega i molti, risolvendoli senza residuo nell'Uno. Quest'ultima è una concezione dell'Uno assoluto, che si fonda su una concezione altrettanto assoluta dell'essere. Anche lo Sfero empedocleo concede ancora molto alla conce­zione eleatica. Lo stesso dicasi dell'Uno-Bene di Eucli­de e dei Megarici.

2) Su un nuovo piano si colloca la concezione e la problematica dell'Uno in Platone. L'Idea è l'unità-di un-molteplice. L'unità dell'Idea non solo non esclude la molteplicità al di sotto di sé, ma non la esclude nemmeno ac­canto a sé, in quanto vi sono molte Idee, ciascuna delle quali è una. La problematica dell'uno-molti è agitata in tutte le sue implican­ze nel Parmenide e nei dialoghi dialettici. La conclu­sione di Platone è che Uno e molti si implicano a vicenda. In una ul­teriore prospettiva il problema dell'Uno emerge nelle cosiddette "dottrine non scritte", L'Uno, accogliendo istanze pitagoriche, sem­bra essere stato introdotto, insieme ad una Diade di grande-piccolo, come principio primo per poter dedurre tutte le Idee.

3) Una radicale riforma apporta Aristotele, sostenendo la molteplicità (analogica) dei significati dell'Uno. Non esiste un Uno­in-sé, ma tante forme e modi di unità, quante sono le forme e i mo­di dell'essere. L'Uno e l'Essere si convertono a vicenda. Leggiamo nella Metafisica: "L'Essere e l'Uno sono una medesima cosa e una realtà unica, in quanto si implicano reciprocamente l'uno e I'altro (così come si implicano reciprocamente principio e causa), anche se non sono esprimibili con un'unica nozione: ma non cambierebbe nulla anche se noi li considerassimo identici altresì nella nòzione". La dottrina della molteplicità dei significati dell'Uno ha lo stesso significato storico-teoretico della dottrina dei molteplici significati dell'Essere.

4) In età. ellenistica, è da rilevare soprattutto la posizione monistica della Stoa,. che concepisce tutte le cose come derivanti e risolventi si nell'unità del Logos.

5) La precisa tematica metafisica dell'Unità rinasce col neopitagorismo e con la dottrina della Monade e della Diade. Anzi, in quest'epoca, si tende addirittura a dedurre la stessa Diade dalla Monade, e, quindi, a fare di questa un principio assoluto. Si parla di un primo Uno da cui deriva un secondo Uno con­trapposto alla Diade, e si tenta addirittura di differenziare termino-­logicamente le due unità, riservando ad una il termine Uno e all'al­tra quello di Monade, ma con esiti incerti.

6) Il verti­ce della problematica dell'Uno si ha in Plotino, il quale lo concepisce come infinita potenza autocreatrice, trascendente l'Essere stesso e lo. stesso Pensiero. Con Plotino nasce, così, una benologia, con cui la metafisica antica raggiunge le sue colonne d'Ercole. La successiva speculazione neoplatonica, introduce, oltre l'Uno, anche le Enadi; cfr. soprattutto Proclo. L'ultimo neoplatoni­smo, nell'esasperare la trascendenza dell'Uno, finisce col dissolverlo.

 

 

 

appendice iii - il catechismo dell'ecclesia gnostica catholica

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E' disponibile la versione pdf in inglese.

 

 

 

appendice iv - piccola antologia di brani gnostici

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L'Inno della Perla

Inno manicheo I ritrovato in Egitto nel 1930

Inno manicheo II ritrovato in Egitto nel 1930

Professione di fede mazdea

Inno manicheo a Gesù rinvenuto in Cina (VIII secolo)

Prima ode di Salomone (Pistis Sophia)

Quinta ode di Salomone (Pistis Sophia)

Sesta ode di Salomone (Pistis Sophia)

Ventiduesima ode di Salomone (Pistis Sophia)

Venticinquesima ode di Salomone (Pistis Sophia)

Primo inno alla luce di Pistis Sophia

Secondo inno alla luce di Pistis Sophia

Terzo inno alla luce di Pistis Sophia

Quarto inno alla luce di Pistis Sophia

Quinto inno alla luce di Pistis Sophia

Sesto inno alla luce di Pistis Sophia

Settimo inno alla luce di Pistis Sophia

Ottavo inno alla luce di Pistis Sophia

Nono inno alla luce di Pistis Sophia

Decimo inno alla luce di Pistis Sophia

Undicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Dodicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Tredicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Quattordicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Quindicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Sedicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Diciassettesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Diciottesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Diciannovesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Ventesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Ventunesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Ventiduesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Ventitreesimo inno alla luce di Pistis Sophia

Ventiquattresimo inno alla luce di Pistis Sophia

Frammenti vari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'Inno della Perla

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Il cosiddetto "Inno della Perla" si trova negli Atti apocrifi dell'Apostolo Tommaso, una composiizone gnostica conservata con rielaborazioni ortodosse di poco rilievo. Negli Atti è chiamato in realtà "Canto dell'apostolo Giuda Tommaso nella terra degli Indiani".

 

Quando ero bambino e abitavo nel regno della casa di mio Padre e mi dilettavo della ricchezza e dello splendore di coloro che mi ave­vano allevato, i miei genitori mi mandarono dall'oriente, nostra pa­tria, con le provviste per il viaggio." Delle ricchezze della nostra casa fecero un carico per me: esso era grande, eppure leggero, in modo che potessi portarIo da solo...  Mi tolsero il vestito di gloria che nel loro amore avevano fatto per me, e il manto di porpora che era stato tes­suto in modo che si adattasse perfettamente alla mia persona," e fece­ro un patto con me e lo scrissero nel mio cuore perché non lo potessi scordare: "Quando andrai in Egitto e ne riporterai l'Unica PerIa che giace in mezzo al mare, accerchiata dal serpente sibilante, indosserai di nuovo il tuo vestito di gloria e il manto sopra di esso, e con tuo fratello, prossimo a noi in dignità, sii erede nel nostro regno.

Lasciai l'Oriente e m'avviai alla discesa, accompagnato da due messi reali, poiché il cammino era pericoloso e difficile ed io ero trop­po giovane per un tale viaggio; oltrepassai i confini di Maishan, pun­to d'incontro dei mercanti dell'Oriente, giunsi nella terra di Babel ed entrai nelle mura di Sarbùrg. Scesi in Egitto e i miei compagni mi la­sciarono. Mi diressi deciso al serpente e mi stabilii vicino alla sua di­mora in attesa che si riposasse e dormisse per potergli prendere la Perla. Poiché ero solo e me ne stavo in disparte, ero forestiero per gli abitanti dell' albergo. Pure vidi là uno della mia razza, un giovane leg­giadro e bello, figlio di re [lett.: "di coloro che sono unti "]. Egli venne e si unì a me; io lo accolsi familiarmente e con fiducia e gli raccon­tai della mia missione. lo [egli?] lo [me?] avvertii di guardarsi dagli Egiziani e di evitare il contatto con gli impuri. Tuttavia mi vestii con i loro abiti, perché non sospettassero di me, che ero venuto da fuori per prendere la Perla, e non risvegliassero il serpente contro di me. Ma in qualche modo si accorsero che non ero uno di loro e cercarono di rendersi graditi a me; mi mescerono nella loro astuzia [una bevan­da], e mi dettero da mangiare della loro carne; e io dimenticai che ero figlio di re e servii il loro re. lo dimenticai la Perla per la quale i miei genitori mi avevano mandato. Per la pesantezza del loro cibo caddi in un sonno profondo.

I miei genitori avevano notato tutto quello che mi accadeva ed erano afflitti per me. Fu proclamato nel nostro regno che tutti dove­vano presentarsi alle nostre porte. E i re e i grandi della Partia e tutti i nobili dell'Oriente formarono un piano perché io non fossi lasciato in Egitto. E mi scrissero una lettera firmata col nome di ciascuno dei grandi.

"Da tuo padre, il re dei re, e da tua madre, signora dell'Oriente, e da tuo fratello, nostro prossimo di rango, a te nostro figlio in Egitto, salute. Svegliati e sorgi dal tuo sonno, e intendi le parole della nostra lettera. Ricordati che sei figlio di re: guarda chi hai servito in schiavitù. Poni mente alla Perla per la quale sei partito per l'Egitto. Ricordati del vestito di gloria, richiama il manto splendido, per in­dossarli e adornarti con essi, e il tuo nome possa essere letto nel li­bro degli eroi e tu divenga con tuo fratello, nostro delegato, erede nel nostro regno".

Come un messaggero era la lettera che il Re aveva sigillato con la mano destra contro i malvagi, i figli di Babel e i demoni ribelli di Sar­bùrg. Si levò in forma di aquila, il re di tutti gli alati, e volò finché discese vicino a me e divenne interamente parola. Al suono della sua voce mi svegliai e mi destai dal sonno; la presi, la baciai, ruppi il sigil­lo e lessi. Conformi a quanto era stato scritto nel mio cuore si poteva­no leggere le parole della mia lettera. Mi ricordai che ero figlio di re e che la mia anima, nata libera, aspirava ai suoi simili. Mi ricordai della Perla per la quale ero stato mandato in Egitto e cominciai ad incanta­re il terribile serpente sibilante. Lo indussi al sonno invocando su di lui il nome di mio Padre, il nome del nostro prossimo in rango e quel­lo di mia madre, la regina dell'Oriente. Presi la Perla e mi volsi per tornare a casa da mio Padre. Mi spogliai del loro vestito sordido e impuro e lo abbandonai nella loro terra; diressi il mio cammino onde giungere alla luce della nostra patria, l'Oriente.

Trovai la lettera che mi aveva ridestato davanti a me sul mio cam­mino; e come mi aveva svegliato con la sua voce, ora mi guidava con la sua luce che brillava dinanzi a me; e con la voce incoraggiava il mio timore e col suo amore mi traeva. E andai avanti ...  I miei genitori ... mandarono incontro a me a mezzo dei loro tesorieri, a cui erano stati affidati, il vestito di gloria che avevo tolto e il manto che doveva co­prirlo. Avevo dimenticato il suo splendore, avendolo lasciato da bam­bino in casa di mio Padre. Mentre ora osservavo il vestito, mi sembrò che diventasse improvvisamente uno specchio-immagine di me stesso: mi vidi tutto intero in esso ed esso tutto vidi in me, cosicché eravamo due separati, eppure ancora uno per l'uguaglianza della forma.   E l'immagine del Re dei Re era raffigurata dappertutto su di esso   E vidi anche vibrare dappertutto su di esso i movimenti della gnosi. Vi­di che stava per parlare e percepii il suono delle canzoni che mormo­rava lungo la discesa: "Sono io che ho agito nelle azioni di colui per il quale sono stato allevato nella casa di mio Padre, ed ho sentito in me stesso che la mia statura cresceva in corrispondenza delle sue fati­che". E con i suoi movimenti regali si offerse tutto a me e dalle mani di quelli che lo portavano si affrettò perché potessi prenderlo; e an­ch'io ero mosso dall'amore a correre verso di esso per riceverlo. E mi protesi verso di lui, lo presi, e mi avvolsi nella bellezza dei suoi colo­ri. E gettai il manto regale intorno a tutta la mia persona. Così rive­stito, salii alla porta della salvezza e dell' adorazione. Inchinai la testa e adorai lo splendore di mio Padre che me lo aveva mandato, i cui co­mandi avevo adempiuto perché anch'egli aveva mantenuto ciò che aveva promesso ... Mi accolse gioiosamente ed ero con lui nel suo re­gno, e tutti i suoi servitori lo lodarono con voce di organo, cantando che egli aveva promesso che avrei raggiunto la corte del Re del Re e avendo portato la mia Perla sarei apparso insieme a lui.

 

 

 

Inno manicheo I ritrovato in Egitto nel 1930

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Entrato che fui nella Tenebra

Mi toccò bere un’acqua

Che mi sapeva d’amaro,

Portare un fardello che non era il mio.

Stavo in mezzo ai miei nemici,

Mi circondavano le bestie.

Il fardello che portavo

Era quello delle Potenze e dei Principati.

Infiammati di collera essi

Si levarono contro di me,

Si gettarono ad afferrarmi

Come pecora senza pastore.

La Materia e i suoi figli

M’hanno spartito tra loro.

Poi bruciato nel loro fuoco

Dandomi un amaro aspetto.

Gli stranieri fra i quali ero mescolato

Non mi conoscevano.

Sentirono la mia dolcezza

E vollero tenermi con loro.

Per loro io ero vita

Ma essi erano morti, per me.

 

 

 

Inno manicheo II ritrovato in Egitto nel 1930

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Che tu possa liberarmi da questo nulla profondo,

Dall’abisso buio fatto di consunzione,

Dove esiste soltanto la tortura con ferite mortali,

E non trovi soccorritori né amici.

Non c’è salvezza quaggiù.

Mai, nel fitto delle tenebre.

Qui sono carceri senza uscita

E chi arriva viene colpito con asprezza.

Arido, riarso, percorso da venti canicolari,

Non ci trovi il verde, mai.

Chi mi salverà dall’angoscia infernale?

Piango su me stesso. Oh, esserne sciolto.

affrancato dalle creature che si divorano a vicenda!

E dai corpi degli uomini, dagli uccelli dell’aria.

Dai pesci nei mari e dalle bestie e dai demoni.

Chi mi liberà da tutti loro, esiliato come sono,

Negli inferni esiziali, senza scampo?

 

 

 

Professione di fede mazdea

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"Chi sono io e a chi appartengo? Da dove sono venuto e dove ritornerò? Di quale stirpe e di quale razza faccio parte? Qual è dunque la mia vocazione personale, nella forma di esistenza terrestre? [ ... ] Sono venuto dal mondo celeste, oppure è nel mondo terrestre che ha avuto inizio il mio essere? Appartengo a Ohrmazd o ad Ahriman? Agli Angeli o ai Demoni??'.

 

 

"lo provengo dal mondo celeste (menok), non è nel mondo terrestre (getik) che ho cominciato a essere. Sono stato originariamente manifestato nello stato spirituale, il mio stato originario non è lo stato terrestre'. Appartengo a Ohrmazd (Ahura Mazda, il Signore Saggezza), non ad Ahriman (lo Spirito del Male e delle Tenebre); appartengo agli Angeli, non ai Demoni [ ... ]. Sono la creatura di Ohrmazd, non la creatura di Ahriman. La mia stirpe e la mia razza discende da Gayornart (l'Uomo primordiale, l'Anthro­pos). Ho per madre Spandarmat (l'Angelo della Terra), ho per padre Ohrmazd. Il compimento della mia personale vocazione consiste in ciò: pensare Ohrmazd come Esistenza presente (hastr), da sempre esistente (hame-butthr, per sempre esistente (hamt-bavetth}. Pen­sarlo come Sovranità immortale, come illimitatezza e come Purez­za. Pensare Ahriman come Negatività pura (neshtr), che svanisce nel nulla (avtnbatth), come lo Spirito Malvagio che un tempo non esistette in questa Creazione, ma che un giorno cesserà di esistere nella Creazione di Ohrmazd e nel Tempo finale si inabisserà'. Con­siderare il mio intimo io appartenente a Ohrmazd e agli Arcangeli (Amahraspandan )".

 

 

 

Inno manicheo a Gesù rinvenuto in Cina (VIII secolo)

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Misericordia! Raccoglimi e coglimi!

Fammi entrare nel gregge soave e pacifico della luce,

Raggiungere l’amena, fiorita altura, il bosco della legge

Dove io mi possa aggirare libero e senza paura.

Sono un odoroso seme della luce

Gettato nel fitto di una foresta tra i rovi.

Misericordia! Sollevami

Nell’aia della legge, nel ricettacolo della luce.

Sono, o Santo, una vite

Piantata in una campagna pura, nel giardino della legge.

Ma poi soffocata dai viticci, irretita dalle liane,

Che mi tolsero la forza migliore e diedero il tormento dell’aridità.

Sono, o Santo, un suolo grasso e ubertoso

Dove furono piantate dai demoni cinque piante velenose.

Oh, ti prego, impugna la scure, la lama affilata, la falce della legge,

E svelli, e brucia e ridona purezza!

Io sono, o Santo, un vestito nuovo splendente

Che fu macchiato dai demoni con sozzure.

Oh, prego lavalo con l’acqua della legge e rinnovalo.

Che io ottenga il corpo beato, trascendente e le membra pure.

 

 

 

Prima ode di Salomone (Pistis Sophia)

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Il Signore è sul mio capo come una corona, e io non sarò senza di lui.

Mi è stata intrecciata la vera corona. In me essa ha fatto germogliare i tuoi rami.

Poiché non è come una corona secca, che non germoglia. Tu, infatti, sei vivo sul mio capo, e da me hai tratto germogli.

I tuoi frutti sono pieni e maturi, ripieni della tua salvezza.

 

 

 

Quinta ode di Salomone (Pistis Sophia)

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Ti ringrazio, Signore, poiché tu sei il mio Dio. Non mi abbandonare, Signore, poiché tu sei la mia speranza.

Gratuitamente mi hai dato ragione, e per mezzo tuo sono liberato.

Cadano quanti mi inseguono, e non permettere che mi vedano.

Una nuvola di fumo copra i loro occhi, una caligine li oscuri, non permetta loro di vedere il giorno, affin­ché non riescano ad afferrarmi.

La loro deliberazione resti inefficace, quanto hanno deliberato ricada su di loro.

Hanno escogitato una deliberazione, ed è rimasta senza effetto.

Pur essendo potenti, sono rimasti vinti; il male che avevano deciso si è abbattuto su di loro.

La mia speranza è nel Signore: non avrò paura poiché tu sei il mio Dio, il mio salvatore.

 

 

 

Sesta ode di Salomone (Pistis Sophia)

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Scaturì un gettito e divenne un fiume grande e vasto.

Trasse tutto a sé e si diresse verso il tempio.

Dighe e costruzioni non riuscirono a frenarlo, né poterono trattenerlo gli stratagemmi di coloro che trattengono le acque.

Fu condotto su tutto il paese e abbracciò tutto.

Bevvero coloro che si trovavano sulla sabbia asciutta; la loro sete fu smorzata ed estinta, quando la mano dell'Altissimo diede loro la bevanda.

Beati i ministri di quella bevanda, ai quali fu affidata l'acqua del Signore

Essi hanno rinfrescato le labbra riarse, i privi di forza hanno ricevuto la gioia del cuore; hanno dato forza alle anime, instillando in esse l'alito, affinché non mo­rissero.

Hanno ristabilito membra cadute, hanno dato forza 9 alla loro debolezza, hanno dato luce ai loro occhi.

Tutti, infatti, si sono riconosciuti nel Signore e sono stati liberati per mezzo dell' acqua della vita eterna».

 

 

 

Ventiduesima ode di Salomone (Pistis Sophia)

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Colui che mi ha condotto giù dai luoghi elevati che sono in alto, è colui che mi ha tratto fuori dai luoghi che sono in basso, nel profondo.

Colui che ha preso ciò che si trova nel mezzo, mi ha istruito su di esso.

Colui che ha disperso i miei nemici e i miei oppositori, mi ha concesso il potere sui vincoli, per scio­glierli.

Colui che, con le mie mani, ha abbattuto il serpente dalle sette teste, mi ha posto sopra la sua radice af­finché estinguessi la sua discendenza.

Tu eri con me, aiutandomi; in tutti i luoghi mi circondava il tuo nome.

La tua destra ha annientato il veleno del calunniatore, la tua mano ha appianato la via per i tuoi fedeli.

Tu li hai liberati dai sepolcri, li hai portati via di mezzo ai cadaveri.

Hai preso ossa morte, le hai rivestite di un corpo: a quelle che erano immobili, tu hai dato l'energia vitale.

La tua vita è diventata indistruttibilità e il tuo volto.

Hai guidato il tuo eone sulla rovina, affinché tutti fossero disciolti e rinnovati, e la tua luce fosse il fonda­mento di tutti loro.

Su di essi hai costruito la tua ricchezza, e sono diventati una dimora santa.

 

 

 

Venticinquesima ode di Salomone (Pistis Sophia)

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Sono libero dai vincoli, e sono fuggito verso di te, Signore.

Perché tu sei stato alla mia destra, liberandomi e aiutandomi.

Tu hai trattenuto i miei nemici, non si sono fatti vedere, perché era con me il tuo sguardo liberandomi con la tua grazia.

Fui disprezzato davanti a molti, e gettato via; davanti a loro divenni come piombo.

Da te mi giunse forza e aiuto, perché tu hai posto luci alla mia destra e alla mia sinistra affinché nessun mio lato fosse privo di luce.

Fui coperto dall'ombra della tua grazia, e fui sciolto dagli abiti di pelle.

La tua destra mi ha innalzato, tu hai tolto da me l'infermità.

Divenni forte per opera della tua verità, e purificato per opera della tua giustizia.

I miei nemici si allontanarono da me; fui giustifica to per opera della tua bontà, poiché la tua quiete dura per tutta l'eternità.

 

 

 

Primo inno alla luce di Pistis Sophia

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O luce delle luci, nella quale, all'inizio, io posi la 2 mia fiducia, ascolta, luce, la mia penitenza! Cattivi pensieri sono penetrati in me, salvami, luce!

Guardai, o luce, alle parti inferiori e vidi una luce; 3 pensai: voglio recarmi in quel luogo a prendere quella luce.

Andai, e mi trovai nelle tenebre del caos inferiore, ma non fui più in condizione di affrettarmi a uscirne per ritornare al mio luogo; mi oppressero, infatti, tutte le emanazioni dell'Arrogante, e la forza dall'aspetto di leone mi tolse la luce che era in me.

Alzai grida di aiuto, ma la mia voce non proruppe 4 dalle tenebre. Guardai in alto affinché mi venisse aiuto da quella luce nella quale avevo posto fiducia.

Allorché guardai in alto, vidi tutti gli Arconti degli 5 eoni che, numerosi, guardavano giù verso di me e si rallegravano: non avevo fatto loro alcun male, essi mi odiavano senza motivo.

Quando le emanazioni dell'Arrogante videro che gli Arconti degli eoni si rallegravano a mie spese, compresero che gli Arconti degli eoni non sarebbero venu­ti in mio aiuto. Quelle emanazioni, che mi opprimeva­no con forza, si fecero coraggio e mi sottrassero la lu­ce, che io non avevo preso da loro.

Ora, o luce vera, tu sai che ho agito così nella mia ingenuità, pensando che la luce dall'aspetto di leone fosse tua. Il peccato che ho commesso ti è manifesto.

Non lasciarmi depauperata, Signore! Nella tua luce, infatti, ebbi fiducia sin dall'inizio, o Signore, o luce del­le forze! Non lasciarmi depauperata della mia luce.

È per tuo motivo e per amore della tua luce che mi trovo in questa angustia, e sono coperta di vergogna.

È per amore della tua luce che sono diventata estranea ai miei fratelli, agli invisibili, e alle grandi emana­zioni di Barbelo.

Ciò mi è accaduto, o luce, perché anelavo alla tua dimora; venne, invece, su di me l'ira dell'Arrogante perché mi trovavo nel suo eone, ma non compivo il suo mistero; egli è colui che non ascoltò il tuo coman­do di emanare dalla emanazione della sua forza.

Tutti gli Arconti degli eoni mi deridevano.

In quel luogo io ero triste e cercavo la luce che avevo visto in alto.

I custodi delle porte degli eoni mi cercavano, e tutti coloro che restavano nel loro mistero mi deridevano.

Mentre io guardavo in alto verso di te, o luce, e avevo fiducia in te, eccomi ora oppressa nelle tenebre del caos, o luce delle luci: se tu vuoi venire a salvarmi - la tua mi­sericordia è grande! - ascoltami in verità e salvami.

Salvami dalla materia di queste tenebre affinché io non sprofondi in esse, sia invece liberata dalle opprimen­ti emanazioni del divino Arrogante e dalle sue malignità.

Non permettere che queste tenebre mi sommergano, non permettere che questa forza dall'aspetto di leone divori completamente tutta la mia forza, non permettere che questo caos copra la mia forza.

Esaudiscimi, o luce! La tua grazia è preziosa. Volgi quaggiù il tuo sguardo conformemente alla grande misericordia della tua luce .

Non distogliere da me il tuo volto: grande è il mio tormento.

Affrettati a esaudirmi, salva la mia forza. Salvami dagli Arconti che mi odiano! Tu conosci, in- 20 fatti, la mia oppressione, il mio tormento e il tormento della mia forza che essi hanno tolto da me. Coloro che mi hanno circuito con tutta questa malvagità sono davanti a te: trattali secondo il tuo volere.

Di mezzo al caos e di mezzo alle tenebre, la mia forza guardò fuori: aspettavo che venisse il mio compagno e combattesse per me, ma non è venuto.

Attesi che venisse e mi desse forza, ma non l'ho tro­vato.

Quando cercavo la luce, mi diedero tenebre; quando cercavo la mia forza, mi diedero materia.

O luce delle luci, le tenebre e la materia addossate mi dalle emanazioni dell'Arrogante diventino per loro una trappola: vi restino impigliate, ripagale, sia loro di inciampo e non possano giungere al luogo del loro Arrogante.

Restino nelle tenebre, non volgano lo sguardo alla luce, contemplino per sempre il caos, non volgano lo sguardo in alto.

Su di esse cada la loro vendetta, le avvolga il tuo castigo.

D'ora in poi non permettere che arrivino al loro luogo, alloro divino Arrogante; d'ora in poi non per­mettere che le sue emanazioni giungano ai loro luoghi: il loro dio è, infatti, empio e arrogante.

Riteneva di essere lui a compiere questa malvagità, ignorava che, se io non fossi stata umiliata conforme al tuo comandamento, egli non avrebbe avuto alcun po­tere su di me.

Ma allorché tu mi hai umiliata per mezzo del tuo comandamento, essi mi perseguitarono ancora di più e le loro emanazioni hanno aumentato il dolore della mia umiliazione.

Hanno tolto la mia forza, mi hanno oppresso molto e ripetutamente per togliere tutta la luce che si trova in me.

Essi mi hanno circuito; non permettere che salgano al tredicesimo eone, al luogo della giustizia.

Non permettere che partecipino all'eredità di quanti purificano se stessi e la loro luce. Non permettere che siano annoverati tra coloro che subito si pentono e possono cosi ricevere subito i misteri nella luce.

Hanno tolto, infatti, la mia luce, la mia forza ha cominciato a venir meno e sono priva della mia luce.

Or dunque, o luce che è in te e con me, io lodo il tuo nome nella gloria, o luce.

La mia lode ti sia gradita, o luce, come un mistero eminente che introduce nelle porte della luce: che diranno coloro che si pentiranno e purificheranno la propria luce?

Gioiscano ora tutte le materie: cercate tutte la luce, affinché viva la forza delle vostre anime, che è in voi.

La luce, infatti, ha esaudito le materie e non permetterà che vi sia una materia priva della sua purificazione.

Le anime e le materie lodino il signore degli eoni; le materie e tutto ciò che si trova in esse.

Allora, Dio salverà la loro anima da tutte le materie: nella luce verrà preparata una città; tutte le anime sal­vate abiteranno in quella città e la erediteranno.

In quel luogo dimorerà l'anima di coloro che accoglieranno i misteri: chi - nel suo nome - avrà accolto i misteri, dimorerà in essa.

 

 

 

Secondo inno alla luce di Pistis Sophia

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O luce delle luci, ho avuto fiducia in te, non lasciarmi nelle tenebre fino al compimento del mio tempo.

Vieni in mio aiuto e salvami per mezzo dei tuoi misteri. China verso di me il tuo orecchio, e salvami.

Mi salvi la forza della tua luce, mi porti agli eoni superiori. Tu, infatti, mi salverai e mi condurrai all'altezza dei tuoi eoni.

Salvami, o luce, dal potere di questa forza dal volto di leone, e dal potere delle emanazioni del divino Ar­rogante.

O luce, sei tu nella cui luce ho creduto, e nella cui luce fin dall'inizio ho avuto fiducia.

Ci ho creduto fin da quando mi ha emanato: tu stessa che mi hai emanato, e fin dall'inizio ho creduto nel­la tua luce.

Mentre credevo in te, gli Arconti mi deridevano, dicendo: "Ella è venuta meno al suo mistero!". Tu sei il mio liberatore, tu sei il mio salvatore, tu sei il mio mi­stero, o luce.

La mia bocca era piena di gloria per cantare in ogni tempo il mistero del tuo splendore.

E ora, o luce, non mi lasciare nel caos fino al compimento di tutto il mio tempo. O luce, non mi lasciare!

Mi hanno tolto tutta la mia forza luminosa, e tutte le emanazioni dell'Arrogante mi hanno circondato. Vo­levano sottrarmi integralmente tutta la mia luce, e sta­vano di guardia alla mia forza.

L'una diceva all'altra: "La luce l'ha abbandonata, afferriamola, sottraiamole tutta la luce che si trova in lei".

Perciò, luce, non mi abbandonare. Voltati, luce, salvami dal potere di coloro che non hanno pietà.

Cadano, siano privi di forza quanti vogliono sottrarmi la mia forza.

Siano avvolti nelle tenebre, colti nell'impotenza, quanti vogliono sottrarmi la mia forza luminosa.

 

 

 

Terzo inno alla luce di Pistis Sophia

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O luce delle forze, presta attenzione e salvami!

Quanti anelano a togliere la mia luce, siano manchevoli e nelle tenebre. Si volgano al caos e restino confusi quanti anelano a togliere la mia forza.

Si volgano presto alle tenebre quanti mi opprimono e dicono: "Siamo diventati suoi padroni!".

Gioiscano, invece, e si rallegrino tutti coloro che cercano la luce, e quanti anelano al tuo mistero dica­no di continuo: "In alto il mistero!".

Ora, salvami, luce! Sono stata privata di quella luce che essi mi hanno tolto, abbisogno di quella forza che essi mi hanno tolto.

Tu, luce, sei il mio salvatore, tu sei il mio liberatore. Presto, luce, liberami da questo caos

 

 

 

Quarto inno alla luce di Pistis Sophia

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O luce, alla quale mi affidai, ascolta la mia penitenza! La mia voce giunga alla tua dimora.

Non allontanare da me la tua immagine luminosa; prestami attenzione, mentre essi mi opprimono. Af­frettati a salvarmi, quando griderò verso di te.

La mia luce è svanita come un alito, e io sono diventata materia.

Hanno tolto da me la mia luce, la mia forza si è disseccata. Ho dimenticato il mio mistero, quello che pri­ma avevo cura di compiere.

Alla spaventosa e potente voce dell'Arrogante, è svanita in me la mia forza.

Sono diventata come un demone singolare dimorante nella materia e privo di luce.

Sono diventata come uno spirito di opposizione che si trova in un corpo materiale ed è sprovvisto di forza luminosa.

Sono diventata come un decano, che si trova nell'aria tutto solo.

Le emanazioni dell'Arrogante mi hanno oppresso duramente; il mio compagno pensò:

in luogo della luce che era in lei, l'hanno riempita di caos. Ho divorato il sudore della mia materia e l' an­gustia delle lacrime [che fluivano] dalla materia dei miei occhi, affinché non fossero sottratte da coloro che mi opprimono.

Questo mi è accaduto, o luce, per un tuo comandamento, per un tuo comando; ed è per il tuo coman­damento ch'io mi trovo qui.

Il tuo comandamento mi ha diretta in basso; sono discesa in basso come una forza del caos; la mia forza si è irrigidita.

Ma tu, Signore, sei la luce eterna e visiti coloro che sono continuamente oppressi.

Ora, sorgi, o luce, cerca la mia forza e l'anima che è in me. Il comandamento che tu hai stabilito per me nelle mie afflizioni ha avuto compimento. E giunto il tempo in cui tu cercherai la mia forza e la mia luce, il tempo che tu hai fissato per cercarmi.

I tuoi redentori hanno cercato la forza che si trova nella mia anima: poiché il numero è compiuto, perciò anche la sua materia sarà salvata.

In quel tempo, tutti gli Arconti degli eoni materiali 18 avranno paura davanti alla tua luce; tutte le emanazioni del tredicesimo eone materiale avranno paura da­vanti al mistero della tua luce: e gli altri indosseranno la loro luce purificata.

Il Signore, infatti, cercherà la forza della vostra anima: egli ha manifestato il suo mistero.

Perciò egli guarda la penitenza di coloro che si trovano nei luoghi inferiori: non trascura la loro peni­tenza.

Questo mistero è diventato il tipo della stirpe che sarà generata; e questa stirpe che sarà generata inneg­gerà all'alto,

poiché la luce ha guardato dall'alto della sua luce; guarderà in basso su tutta la materia

per ascoltare il sospiro degli incatenati, per liberare la forza di quelle anime la cui forza è incatenata:

porrà cosi nell'anima il suo nome, e nella forza il suo mistero.

 

 

 

Quinto inno alla luce di Pistis Sophia

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Luce della mia salvezza, ti lodo nel luogo dell'altezza, e ancora nel caos.

Ti loderò con la lode con la quale ti ho lodato nell'altezza, e con la quale ti ho lodato nel caos.

La mia forza è piena di tenebre, la mia luce è discesa nel caos.

lo stessa sono diventata come gli Arconti del caos, discesi nelle tenebre inferiori; sono diventata come un corpo materiale che, in alto, non ha alcuno che lo salvi.

Sono diventata ancora come materie, gettate nel caos, dalle quali fu tolta la loro forza, [materie] che tu non hai salvato e che, per tuo comando, sono pe­rite.

Ora mi hanno posto nelle tenebre inferiori, tra le tenebre e le materie morte, prive di forza.

Su di me hai pronunciato un comando e ogni cosa che tu hai stabilito:

il tuo spirito è svanito, mi ha abbandonato; è dietro il tuo comando che le emanazioni del mio eone non mi hanno aiutato, mi hanno odiato e si sono separate da me; ed io non sono ancora completamente annien­tata.

La mia luce è scemata; con tutta la luce che si trova in me ho innalzato grida alla luce in alto, e ho allarga­to le mie mani verso di te.

Dunque, luce, porterai a compimento il tuo comando nel caos? I liberatori, giunti per tuo coman­do, si leveranno nelle tenebre, verranno e ti saranno discepoli?

Diranno, forse, nel caos, il mistero del tuo nome?

O diranno piuttosto il tuo nome in una materia del caos, ove tu non purificherai?

Ma io ti lodo, luce, e la mia penitenza giungerà a te, in alto.

Venga su di me la tua luce,

poiché hanno sottratto la mia luce, e dal tempo in cui sono stata emanata mi trovo in mezzo ai dolori a causa della luce. Mentre guardavo in alto verso la luce, volsi lo sguardo in basso alla forza luminosa che si trova nel caos: mi alzai e discesi.

Venne su di me il tuo comando, gli sgomenti da te stabiliti per me mi hanno condotta allo smarrimento,

abbondanti come acque mi hanno circondata, mi hanno attanagliata per tutto il tempo.

Dietro il tuo comando i miei compagni di emanazione non mi hanno soccorso, tu non hai permesso che il mio compagno mi liberasse dalle tribolazioni.

 

 

Sesto inno alla luce di Pistis Sophia

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Ti ho lodato, luce, nelle tenebre inferiori.

  Esaudisci la mia penitenza, presta attenzione alla voce della mia supplica.

Se pensi al mio peccato, o luce, non potrò stare davanti a te, e tu mi abbandonerai.

Tu, luce, sei infatti il mio liberatore; per amore della luce del tuo nome, ho creduto in te, luce.

La mia forza ha creduto nel tuo mistero. La mia forza ha avuto fiducia nella luce mentre si trovava in alto, e ha avuto fiducia in essa mentre si trovava in basso, nel caos.

Tutte le forze che sono in me abbiano fiducia nella luce, mentre mi trovo in basso nelle tenebre; e abbiano fiducia in essa allorché verranno al luogo in alto.

Essa ha, infatti, misericordia di noi e ci salva: in essa 9 c'è un grande mistero salvifico.

A causa della mia trasgressione, essa libererà dal mio caos tutte le forze; poiché io ho abbandonato il mio luogo e sono discesa nel caos.

Ora, comprenda colui la cui mente è in alto.

 

 

 

Settimo inno alla luce di Pistis Sophia

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O luce, a te ho elevato la mia forza, mia luce!

Ho creduto in te. Non permettere ch'io sia disprezzata, non permettere che gli Arconti dei dodici eoni mi odino e si rallegrino su di me.

Giacché non saranno confusi tutti coloro che credo in te; restino nelle tenebre coloro che mi hanno privato della mia luce, non ne traggano alcun vantaggio, sia, invece, tolta da loro.

Indicami le tue vie, luce: su di loro sarò salva. Indicami le tue strade: affinché sia salvata dal caos.

Guidami alla tua luce. Conosca che tu, luce, sei il mio liberatore. Su di te porrò la mia fiducia lungo tut­to il mio tempo.

Liberami, luce, giacché la tua misericordia è eterna.

Non imputarmi, luce, la trasgressione che, nella mia ignoranza, commisi all'inizio; liberami piuttosto, luce, per opera del tuo grande mistero che perdona i pec­cati a motivo della tua bontà.

La luce, infatti, è buona e retta: perciò mi concederà la via della libertà dalla mia trasgressione.

Le mie forze, ridotte dalla paura di fronte alle emanazioni materiali dell'Arrogante, essa le guiderà in conformità al suo comandamento: alle mie forze, ri­dotte dagli spietati, essa insegnerà la sua conoscenza.

Infatti, tutte le conoscenze della luce sono liberazioni e sono misteri per tutti coloro che cercano i luoghi della sua eredità e i suoi misteri.

Per amore del mistero del tuo nome, perdona, luce, la mia trasgressione: essa è grande.

A ognuno che ha fiducia nella luce, essa concede il mistero che vuole;

la sua anima dimorerà nei luoghi della luce e la sua forza erediterà il tesoro della luce.

La luce dà forza a quanti credono in essa; il nome del suo mistero è di coloro che hanno fiducia in essa; indicherà loro il luogo dell'eredità, che è nel tesoro della luce.

Ma io ho creduto sempre nella luce: essa, infatti, libererà i miei piedi dai vincoli delle tenebre.

Guarda, luce, e liberami, poiché nel caos hanno tolto il mio nome.

Molto più numerose di tutte le emanazioni sono le mie afflizioni e la mia angustia: liberami dalla mia tra­sgressione e da queste tenebre.

Vedi il dolore della mia angustia, e perdona la mia trasgressione.

Considera gli Arconti dei dodici eoni, che mi hanno odiato per gelosia.

Vigila sulla mia forza, liberami, non permettere ch'io resti in queste tenebre, poiché ho creduto in te,

ed essi mi hanno giudicata una grande stupida, per il fatto che ho creduto in te, o luce.

Ed ora, luce, libera le mie forze dalle emanazioni dell'Arrogante che mi opprimono.

Ora, chi è sveglio, sia sveglio.

 

 

 

Ottavo inno alla luce di Pistis Sophia

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In te, luce, ho sperato! Non mi abbandonare nel caos, salvami e liberami secondo la tua conoscenza.

Guardami e liberami! Sii il mio liberatore, luce! Salvami e guidami alla tua luce.

Tu, infatti, sei il mio salvatore! Mi guiderai a te! Per amore del mistero del tuo nome conducimi a te e dammi il tuo mistero.

Mi libererai da questa forza dal volto di leone, che mi è stata posta come una trappola, poiché tu sei il mio salvatore.

Porrò tra le tue mani la mia luce purificata: tu mi hai liberato, luce, secondo la tua conoscenza.

Ti sei adirata contro coloro che mi custodiscono, ma non potranno afferrarmi interamente: infatti, io ho creduto nella luce.

Mi rallegrerò e innalzerò inni poiché tu hai avuto compassione di me, hai tenuto conto dell'oppressione nella quale mi trovo, e mi hai liberato. Tu libererai dal caos anche la mia forza.

Non mi hai abbandonato in potere della forza dal volto di leone, bensì mi hai guidato in un luogo ove non c'è oppressione ».

 

 

 

Nono inno alla luce di Pistis Sophia

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Abbatti, luce, quelli che hanno tolto la mia forza; prendi la forza di coloro che hanno preso la mia.

Poiché io sono la tua forza e la tua luce! Vieni a liberarmi.

Una grande oscurità copra i miei oppressori. Di' alla mia forza: "lo sono colui che ti libererà!".

Quanti desiderano privarmi completamente della mia forza, siano privati della loro. Quanti desiderano privarmi completamente della mia luce, si volgano al caos e diventino inermi.

La loro forza sia come polvere, il tuo angelo Jeu li abbatta.

Allorché si dirigano verso l'alto, li afferri l'oscurità e scivolino rivolti verso il caos, li insegua il tuo angelo Jeu e li scacci giù tra le tenebre.

Senza ch'io abbia arrecato loro male alcuno, mi hanno teso una trappola con una forza dal volto di leone - dalla quale sarà tolta la sua luce -, e hanno oppresso la mia forza, che essi non mi potranno togliere.

Ora, dalla forza dal volto di leone togli, o luce, ciò che è purificato, senza che se ne accorga; siccome l'Ar­rogante ha concepito il pensiero di togliere la mia lu­ce, tu togli la sua: sia eliminata la luce della forza dal volto di leone, poiché essa mi tese la trappola.

Ma la mia forza esulterà nella luce e gioirà, poiché sarà liberata;

tutte le parti della mia forza esclameranno: "Non c'è liberatore all'infuori di te!", poiché tu mi libererai dal potere della forza dal volto di leone, che tolse la mia forza, mi libererai dal potere di coloro che mi pri­varono della mia forza e della mia luce.

Essi, infatti, sono venuti contro di me dicendo bugiardamente: "Conosco il mistero della luce, che è in alto", nel quale io avevo creduto, e mi hanno costretto dicendo: "Manifestaci il mistero della luce, che è in alto", mistero che io non conosco.

Mi hanno ricambiato con tutto questo male: poiché ho creduto nella luce dell'alto, essi hanno reso senza luce la mia forza.

Sotto la loro costrizione, sedevo nelle tenebre; ma l'anima mia era fiaccata dalla tristezza.

O luce, per amore della quale io ti lodo, liberami! So che tu mi libererai, poiché da quando mi trovavo nel mio eone ho compiuto la tua volontà. Ho compiu­to la tua volontà come gli invisibili, che sono nel mio luogo, e come il mio compagno; allorché guardavo fissamente cercando la tua luce, ero triste.

Tutte le emanazioni dell'Arrogante mi hanno ora circondato, si rallegrano di me e mi opprimono assai, senza ch'io le conosca; sono fuggite, mi hanno abban­donato, non hanno avuto pietà di me.

Si sono nuovamente voltate, mi hanno messo alla prova, mi hanno oppresso con una dura oppressione, hanno digrignato i denti contro di me, col desiderio

di privarmi integralmente della mia luce.

Fino a quando, luce, sopporti che esse mi opprimano? Libera la mia forza dai loro pensieri malvagi, libe­rami dal potere della forza dal volto di leone; poiché in questo luogo mi trovo sola tra gli invisibili.

Voglio lodarti, luce, tra tutti coloro che mi attorniano - contro di me; voglio gridare verso di te, tra tutti coloro che mi opprimono.

Non permettere, luce, che gioiscano di me coloro che mi odiano e anelano a privarmi della mia forza, coloro che mi odiano e muovono gli occhi contro di me, sebbene io non abbia fatto nulla a essi.

Mentre mi interrogavano sui misteri della luce - che io non conosco -, mi adulavano con dolci parole; parlavano in modo subdolo contro di me e montavano in collera, perché io avevo creduto nella luce che è in alto.

Spalancarono contro di me le loro fauci, dicendo: "Su, prendiamo la sua luce!".

Tu, luce, ora conosci il loro inganno; non sopportarli più; il tuo aiuto non sia lungi da me.

Affrettati, luce, a giudicarmi e a vendicarmi.

Conforme alla tua bontà, non protrarre oltre il tuo giudizio su di me. Non permettere, luce delle luci, che prendano la mia luce,

che dicano nel loro cuore: "La nostra forza si è saziata della sua luce"; che non dicano: "Abbiamo divorato la sua forza".

Scenda su di loro l'oscurità, siano privi di forza coloro che desiderano prendere la mia luce, siano rico­perti dal caos e dalle tenebre coloro che dicono: "Prendiamo la sua luce e la sua forza!".

Liberami, affinché possa essere lieta; amo, infatti, il tredicesimo eone, che è il luogo della giustizia, e dirò per sempre: "Splenda sempre più la luce del tuo ange­lo Jeu",

e nel tredicesimo eone la mia lingua ti loderà in ogni tempo, nella tua conoscenza».

 

 

 

Decimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Nella mia oppressione, ho gridato verso di te, luce delle luci, e tu mi hai esaudito.

Salva la mia forza, o luce, dalle labbra ingiuste ed empie e dalle trappole ingannatrici.

La luce che con scaltro inganno mi fu tolta, non verrà data a te.

Poiché le trappole dell'Arrogante e i lacci dello Spietato sono estesi.

Guai a me! La mia dimora era lontana, e mi trovavo nelle dimore del caos.

La mia forza si trova in luoghi che non sono i miei.

Lusingavo quegli spietati, e mentre li lusingavo essi litigavano contro di me, senza motivo.

 

 

 

Undicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Perché la forza poderosa si è innalzata nel male?

La sua vista mi priva ogni momento della mia luce; come ferro tagliente mi hanno privato della mia forza.

lo preferii discendere nel caos invece di rimanere nel tredicesimo eone, luogo della giustizia.

Esse desideravano dirigermi con inganno, per divorare tutta intera la mia luce.

Perciò la luce adesso prenderà tutta intera la loro luce, e sarà annientata anche tutta intera la loro mate­ria; egli toglierà la loro luce, non permetterà che si trattengano nel tredicesimo eone - loro abitazione -, non lascerà il loro nome nel luogo di coloro che vi­ vanno.

Le ventiquattro emanazioni vedranno ciò che ti accadrà, o forza dal volto di leone: avranno paura, non saranno disobbedienti, bensì consegneranno quanto, della loro luce, è purificato.

Vedendoti, si rallegreranno su di te, e diranno: "Ecco una emanazione che non ha consegnato quanto, della sua luce, è purificato affinché venisse salvato; si è invece vantata della quantità di luce della sua forza - poiché non emana dalla forza che si trova in es­sa -, e ha detto: voglio prendere la luce di Pistis Sophia, luce che da lei sarà tolta".

 

 

 

Dodicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Non dimenticare, o luce, la mia lode.

L'Arrogante e la sua forza dal volto di leone hanno, infatti, spalancato le loro fauci contro di me, e han­no agito fraudolentemente contro di me.

Mi hanno circondato nell'intento di privarmi della 6 mia forza; mi hanno odiato perché ti ho lodato.

Invece di amarmi, mi hanno calunniato: io, però, innalzo lodi.

Tramarono il piano di prendere la mia forza, perché io ti ho lodato, o luce. Mi hanno odiato perché io ti ho amato.

Vengano le tenebre sull'Arrogante. L'arconte delle tenebre esteriori sia alla sua destra.

Quando lo giudichi, privalo della sua forza: avendo egli escogitato di privarmi della mia luce, tu privalo della sua.

Vadano in rovina tutte le forze della luce che si trova in lui. La sua gloria la riceva un altro dei tre dotati di triplice forza.

Tutte le forze delle sue emanazioni siano senza luce, e la sua materia resti priva di luce.

Le sue emanazioni rimangano nel caos, non possano più andare nel loro luogo. Svanisca la luce che si trova in esse, non vada al tredicesimo eone, al suo luogo.

Il ricevitore della luce, il purificatore delle luci, purifichi tutte le luci che si trovano nell'Arrogante, e le tolga da lui.

Gli Arconti delle tenebre inferiori dominino sulle sue emanazioni: nessuno le accolga nel proprio luogo, nes­suno dia ascolto alla forza delle sue emanazioni nel caos.

Sia tolta la luce che si trova nelle sue emanazioni, nel tredicesimo eone siano cancellati i loro nomi; me­glio, i loro nomi siano eliminati da quel luogo per sempre.

Sulla forza dal volto di leone sia addossato il peccato di colui che l'ha emanato davanti alla luce, e non sia cancellata l'iniquità della materia da lui [l'Arrogante] prodotta.

Il loro peccato sia sempre davanti alla luce; a loro non sia mai concesso di guardare fuori, e i loro nomi siano eliminati da ogni luogo.

Poiché non ebbero cura di me, ma hanno oppresso colei dalla quale presero la luce e la forza; e dopo la situazione nella quale mi avevano posto, desideravano togliere integralmente da me la mia luce.

Hanno avuto piacere di scendere giù nel caos: dimorino in esso, e d'ora in poi non saranno più con­dotti fuori. Non vollero come abitazione il luogo della giustizia: d'ora in poi non saranno più accolti in esso.

Indossò le tenebre come un abito: esse penetrarono in lui come acqua, si immisero in tutte le sue forze come olio.

Si avvolga nel caos come in un abito, si cinga con le tenebre come una cintura di cuoio per sempre.

Così accada a coloro che hanno attirato su di me tali cose a motivo della luce, e hanno detto: "Prendiamo tutta la sua luce!".

Ma tu, o luce, abbi misericordia di me a motivo del mistero del tuo nome, e salvami nella benevolenza della tua grazia.

Poiché hanno preso la mia luce e la mia forza: dentro di me la tua forza è scossa, non ho potuto stare dritta in mezzo a loro.

Sono diventata come materia che è caduta; sono stata gettata qua e là come un demone che si trova nel­l'aria .

La mia forza è andata in rovina, poiché non possiedo alcun mistero e la mia materia è venuta meno a causa della mia luce, che mi hanno sottratto.

Mi deridevano, mi guardavano facendo segni verso di me.

  Aiutami secondo la tua misericordia.

 

 

 

Tredicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Esaudiscimi mentre li lodo, o luce delle luci! Esaudiscimi mentre pronuncio la penitenza del tredicesi­mo eone, del luogo dal quale sono discesa, affinché giunga a compimento la tredicesima penitenza per il tredicesimo eone; questi che io ho trasgredito e dai quali sono discesa.

Or dunque, o luce delle luci, esaudiscimi mentre lodo te che sei nel tredicesimo eone, il mio luogo, dal quale sono uscita.

Nel tuo grande mistero, liberami, o luce! Nel tuo perdono, perdona la mia trasgressione.

Dammi il battesimo, perdona i miei peccati, purificami dalla mia trasgressione.

La mia trasgressione è la forza dal volto di leone, che a te non rimarrà celata per sempre: è per causa sua che sono discesa.

Tra gli invisibili - nel cui luogo mi trovavo - io sola ho commesso la trasgressione e sono discesa nel caos. Ho compiuto la trasgressione davanti a te, affinché si adempisse il tuo comandamento.

 

 

 

Quattordicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Ti voglio lodare, luce, perché anelavo a venire da te. Ti voglio lodare, luce, perché tu sei il mio liberatore.

Non abbandonarmi nel caos! Liberami, luce dell'al­tezza, poiché a te ho innalzato la mia lode.

Spontaneamente tu mi hai inviato la tua luce e mi hai liberato; tu mi hai guidato verso i luoghi superiori del caos.

Le emanazioni dell' Arrogante, che mi inseguono, vengano sprofondate nei luoghi inferiori del caos e non possano più giungere a vedermi nei luoghi superiori

Le copra una grande oscurità, su di esse venga il buio più fitto. Nella luce della tua forza, che tu mi hai mandato per liberarmi, non possano più vedermi, sic­ché non ricevano più potere su di me.

La deliberazione che presero, di sottrarmi la forza, non abbia effetto; avendo esse parlato di sottrarre la mia luce, sia piuttosto sottratta la loro luce, invece della mia.

Hanno parlato di sottrarre tutta la mia luce, ma non hanno potuto sottrarla, perché era con me la tua forza luminosa.

Avendo esse deliberato senza il tuo comando, o luce, non riuscirono a prendere la mia luce.

Siccome ho creduto nella luce, non avrò paura; la luce è il mio liberatore, non avrò paura.

 

 

 

Quindicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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La luce è divenuta corona del mio capo: da essa non mi ritirerò, affinché non me la sottraggano le emana­zioni dell'Arrogante.

Anche se si muoveranno tutte le materie, io non mi muoverò.

Anche se tutte le mie materie vanno in rovina e restano nel caos - queste materie viste dalle emanazioni dell'Arrogante -, io non andrò in rovina.

Poiché è con me la luce, e io stessa sono con la luce.

 

 

 

Sedicesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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O luce che mi hai aiutato, venga su di me la tua luce.

Poiché tu sei il mio ombrello! Vengo a te, a te, luce! Credendo in te, luce. .

Tu, infatti, sei colui che mi libera dalle emanazioni dell'Arrogante e del tiranno Adamas: tu mi libererai da tutte le sue violente minacce.

 

 

 

Diciassettesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Sono stata liberata dal caos, e salvata dai vincoli delle tenebre. Sono venuta da te, luce,

poiché tu mi sei diventata luce da ogni parte, liberandomi e aiutandomi.

Per mezzo della tua luce, tu hai ostacolato le emanazioni dell'Arrogante che lottavano contro di me; esse non poterono avvicinarmi, perché era con me la tua luce liberatrice per mezzo del tuo flusso lumi­noso.

Mentre le emanazioni dell'Arrogante mi tormenta- 5 vano, mentre sottraevano la mia forza e mi gettavano giù nel caos, mentre in me non v'era più alcuna luce e io divenni così una materia pesante rispetto a esse,

per mezzo tuo mi giunse un flusso di forza che mi liberò: esso risplendeva alla mia sinistra e alla mia de­stra, mi circondava da ogni parte affinché nessuna mia parte fosse priva di luce.

Mi hai coperta con la luce del tuo flusso, mi hai purificata da ogni mia cattiva materia, fui sciolta da ogni mia materia per opera della tua luce.

Il tuo flusso luminoso mi ha innalzata e ha eliminato da me le emanazioni dell'Arrogante che mi oppri­mevano.

Divenni grandemente fiduciosa per mezzo della tua luce, della luce pura del tuo flusso.

Le emanazioni dell'Arrogante, che mi opprimevano, si allontanarono da me; splendevo nella tua gran­de luce, poiché tu mi salvi in ogni momento.

 

 

 

Diciottesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Ti lodo! Con un tuo comando mi hai scacciato dall'eone più elevato, quello che è in alto, e mi hai con­dotto giù ai luoghi che sono in basso.

E nuovamente con un tuo comando mi hai salvato dai luoghi che sono in basso; e qui tu stesso hai tolto la materia che si trovava nelle forze luminose: io l'ho vista.

Hai disperso via da me le emanazioni dell'Arrogante, che mi opprimevano e mi erano nemiche, e mi hai concesso il potere di sciogliermi dai vincoli delle emanazio­ni di Adamas.

Hai abbattuto il basilisco dalle sette teste, lo hai gettato fuori con le mie mani, e mi hai posto al di sopra della sua materia. Lo hai annientato affinché d'ora in poi non sorga più la sua discendenza.

Eri con me dandomi forza in tutto questo: la tua luce mi circondò in tutti i luoghi, e tu stesso hai reso im­potenti tutte le emanazioni dell'Arrogante.

Poiché tu hai sottratto la forza della loro luce, hai raddrizzato la mia via, per condurmi fuori dal caos.

Mi hai allontanato dalle tenebre materiali, hai sottratto loro tutte le mie forze, la cui luce era stata presa.

Hai immesso in esse [nelle forze] della luce pura, e a tutte le mie membra - sprovviste di luce - hai dato luce dalla luce dell'alto.

Hai raddrizzato la loro [delle membra] via, e la luce del tuo volto fu per me vita indistruttibile.

Mi hai guidato in alto, al di sopra del caos, del luogo del caos e della distruzione, affinché tutte le materie che si trovavano in esso, quelle che sono in quel luo­go, fossero disgregate; affinché tutte le mie forze fos­sero rinnovate nella tua luce e la tua luce fosse in ognuna di loro.

Hai depositato in me la luce del tuo flusso, e io sono diventata una luce pura.

 

 

 

Diciannovesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Dirò: la luce più alta sei tu, poiché mi hai liberato, mi hai guidato a te, e non hai permesso che le emana­zioni dell'Arrogante - a me nemiche - prendessero la mia luce.

O luce delle luci, a te innalzo un inno: tu mi hai liberato!

Tu, o luce, hai estratto la mia forza dal caos, mi hai liberato da coloro che sono scesi giù tra le tenebre.

La luce fu il mio liberatore.

Essa ha trasformato in luce la mia tenebra, essa ha spezzato il caos che mi attorniava, e mi ha cinto di luce.

 

 

 

Ventesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Loda, forza mia, la luce! Non dimenticare tutte le forze della luce, che essa ti ha dato.

Voi tutte, forze che siete in me, lodate il nome del suo santo mistero.

Esso perdona ogni tua trasgressione, ti libera da tutti i tuoi tormenti, dai quali eri afflitta dalle emanazioni dell'Arrogante.

Esso ha liberato la tua luce dalle emanazioni dell'Arrogante, proprie della rovina; nella sua misericordia ti ha coronato di luce, fino alla tua liberazione.

Esso ti ha riempito di luce pura, e il tuo inizio si rin­noverà come un invisibile dell'alto.

 

 

 

Ventunesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Ho creduto con fede nella luce, questa si è ricordata di me e ha esaudito il mio inno.

Dal caos e dalle tenebre inferiori di tutta la materia ella condusse in alto la mia forza, condusse in alto me; Il mi ha collocato in un eone più alto e più sicuro, mi ha collocato sulla via che conduce al mio luogo.

Mi ha dato un nuovo mistero, che non è quello del mio eone; mi ha dato pure un inno della luce. Ora, o luce, tutti gli Arconti vedranno ciò che tu hai fatto per me: avranno paura e crederanno nella luce.

 

 

 

Ventiduesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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O luce delle luci, io ho creduto in te. Liberami da tutti questi Arconti che mi perseguitano, e aiutami,

affinché non mi sottraggano la mia luce come la forza dal volto di leone. La tua luce, infatti, e il tuo flusso luminoso non sono con me per liberarmi; al contra­rio, Adamas, irritato contro di me, afferma: "Tu hai trattenuto la mia forza nel caos!".

Ora, o luce delle luci, se ho compiuto questo, se l'ho trattenuta, se ho fatto qualcosa di ingiusto verso quella forza,

se l'ho oppressa come essa ha oppresso me, possano pure tutti questi Arconti, che mi perseguitano, sottrar­mi la mia luce e lasciarmi vuota;

il nemico Adamas perseguiti pure la mia forza, l'afferri, mi sottragga la mia luce, la immetta nella sua forza, che è nel caos, e trattenga nel caos la mia forza.

Or dunque, o luce, afferrami con la tua ira, e innalza la tua forza sui miei nemici, che si sono innalzati contro di me.

Affrettati a salvarmi, in conformità a quanto hai detto: "lo ti aiuterò!".

 

 

 

Ventitreesimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Perché mi inseguite dicendo che per me non c'è aiuto, che essa non mi libera da voi?

Ma la luce è un giudice giusto e forte, sebbene sia longanime fino al tempo a proposito del quale mi dis­se: verrò ad aiutarti! Egli non volgerà la sua ira contro di voi per sempre. Questo è il tempo del quale egli mi ha parlato.

Se dunque non vi voltate indietro e se non cessate di inseguirmi, la luce preparerà la sua forza, si preparerà con tutte le sue forze.

Ha preparato la propria forza per sottrarvi le vostre luci, e così diventiate tenebrosi; ha creato le pro­prie forze per sottrarre la vostra forza, e mandarvi in rovina.

O luce, guarda il prepotente e iracondo Adamas! Egli ha creato una tenebrosa emanazione,

ne ha emanata una caotica, ne ha creata un'altra tenebrosa e caotica, e sono pronte;

ha creato il caos, o luce, per spingermi dentro di esso e sottrarmi la mia forza luminosa: ma tu sottrai la sua!

Ha architettato un progetto per sottrarmi la luce: ma sia sottratta la sua! Ha proferito un'ingiustizia per sottrarmi la mia luce: siano sottratte tutte le sue!

 

 

 

Ventiquattresimo inno alla luce di Pistis Sophia

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Ti voglio lodare, o luce, perché tu sei il mio salvatore. Tu sei un liberatore per sempre.

Voglio innalzare quest'inno alla luce perché mi ha liberato, mi ha estratto dalla mano degli Arconti miei nemici.

Tu mi hai liberato da ogni luogo: mi hai liberato dalla altezza e dalla profondità del caos, e dagli eoni degli Arconti della sfera.

Quando io uscii dall'altezza, andai vagando qua e là in luoghi senza luce, incapace di ritornare al tredicesi­mo eone, la mia dimora.

Infatti, in me non c'erano né luce né forza. La mia forza era integralmente svanita.

La luce mi liberò da tutte le oppressioni: mentre ero oppressa, lodai la luce, ed essa mi esaudì.

Essa mi condusse nel creato degli eoni per introdurmi nel tredicesimo eone, nella mia dimora.

Voglio ringraziarti, luce, perché mi hai liberato e per le tue gesta meravigliose verso il genere umano.

Allorché ero priva della mia forza, tu mi desti forza Allorché ero priva della mia luce, tu mi hai riempito di luce pura.

Mi trovai nelle tenebre e nell'ombra del caos, legata con le violente catene del caos, e senza alcuna luce.

lo, infatti, avevo amareggiato e trasgredito il comandamento della luce, avevo irritato il comandamento della luce, avendo abbandonato il mio luogo.

Non appena scesi giù, fui priva della mia forza e senza luce: nessuno mi soccorse.

Nella mia oppressione, lodai la luce, ed essa mi liberò da tutte le mie oppressioni.

Poi ha infranto tutti i miei lacci, e mi ha estratta dalle tenebre e dall'oppressione del caos.

Voglio ringraziarti, o luce, perché mi hai liberato, e perché le tue gesta meravigliose si sono realizzate nel genere umano.

Tu hai spezzato le porte superiori delle tenebre e le vigorose spranghe del caos.

Tu mi hai retrocesso dal luogo nel quale ho compiuto la trasgressione e mi fu sottratta la mia forza, perché avevo trasgredito.

Abbandonai i misteri, e discesi alle porte del caos.

Ma quando venni oppressa, lodai la luce: essa mi liberò da tutte le mie oppressioni.

Tu mandasti il tuo flusso: mi diede forza e mi liberò da tutte le mie oppressioni.

Voglio lodarti, luce, perché mi hai liberato, e per le tue gesta meravigliose verso il genere umano.

 

 

 

Frammenti vari

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"Vengo incontro alla mia immagine e la mia immagine viene incontro a me"

(Ginza di sinistra, III, inno 31)

 

"L'ho riconosciuto e ho capito / che è il mio io, dal quale ero stato diviso, / E ho testimoniato che questo è il mio io"

(Mani)

 

"Cercare me stesso è conoscere chi ero e chi sono, per ridiventare ciò che ero"

(Atti di Tommaso)

 

"Ed allora, denudata di ciò che proveniva dall’armatura delle sfere, l’anima entra nella natura ottoadica, possedendo la sua potenza propria ed inneggia al padre insieme agli esseri, e così diventa simile a chi lo circonda, ode potenze superiori all’Ottoade che inneggiano a Dio con voce soave. E salgono in ordine verso il padre, e si abbandonano alle loro potenze, e diventando potenze entrano in Dio. Ormai, perché indugi?"

(Corpus Hermeticum)

 

"Ma perché colui che ha conosciuto se stesso si dirige verso Dio, secondo il discorso di Dio?

Perché di luce e di vita è costituito il padre di tutti gli esseri, dal quale nacque l’uomo.

Luce e vita, questo è il Dio e padre, dal quale fu generato l’uomo. Se dunque tu riconosci lui nella sua vera natura, cioè costituito di luce e vita, e comprendi che tu derivi da tali elementi, tu ritornerai alla vita".

(Corpus Hermeticum)

 

"Terra, acqua, fuoco e aria traggono origine dalla disperazione, dalla mestizia, dall'ignoranza e dalla paura a cui Sophia fu assoggettata"

(Valentino)

 

"Ciò che libera è la conoscenza di chi siamo, cosa diventiamo; dove eravamo, dove siamo stati gettati; verso cosa ci affrettiamo, da dove siamo redenti; cosa è la nascita e la rinascita".

 

"L'ignoranza del Padre produsse angoscia e terrore. E l'angoscia si fece solida come una nebbia che fece sì che nessuno fosse più in grado di vedere"

(Vangelo della Verità)

 

 

 

appendice v - altre importanti eresie dei primi secoli del cristianesimo

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elcesaiti

 

Era la setta in cui era nato Mani, una setta giudeo-cristiana che praticava il battesimo che forse ha incubato i Mandei. Erano diffusi nella Giudea orientale e in Assiria

 

ebioniti

 

Gli ebioniti setta ebrea, negarono sempre la divinità di cristo. Marcione ebbe l'opposta posizione docetista

 

 

 

appendice vi - i septem sermones ad mortuos di jung (versione inglese)

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Sermo I

 

 

The dead came back from Jerusalem, where they found not what they sought. They prayed me let them in and besought my word, and thus I began my teaching.

Harken: I begin with nothingness. Nothingness is the same as fullness. In infinity full is no better than empty. Nothingness is both empty and full. As well might ye say anything else of nothingness, as for instance, white is it, or black, or again, it is not, or it is. A thing that is infinite and eternal hath no qualities, since it hath all qualities.

This nothingness or fullness we name the PLEROMA. Therein both thinking and being cease, since the eternal and infinite possess no qualities. In it no being is, for he then would be distinct from the Pleroma, and would possess qualities which would distinguish him as something distinct from the Pleroma.

In the Pleroma there is nothing and everything. It is quite fruitless to think about the Pleroma, for this would mean selfdissolution.

CREATURA is not in the Pleroma, but in itself. The Pleroma is both beginning and end of created beings. It pervadeth them, as the light of the sun everywhere pervadeth the air. Although the Pleroma pervadeth altogether, yet hath created being no share thereof, just as a wholly transparent body becometh neither light nor dark through the light which pervadeth it. We are, however, the Pleroma itself, for we are a part of the eternal and infinite. But we have no share thereof, as we are from the Pleroma infinitely removed; not spiritually or temporally, but essentially, since we are distinguished from the Pleroma in our essence as creatura, which is confined within time and space.

Yet because we are parts of the Pleroma, the Pleroma is also in us. Even in the smallest point is the Pleroma endless, eternal, and entire, since small and great are qualities which are contained in it. It is that nothingness which is everywhere whole and continuous. Only figuratively, therefore, do I speak of created being as a part of the Pleroma. Because, actually, the Pleroma is nowhere divided, since it is nothingness. We are also the whole Pleroma, because, figuratively, the Pleroma is the smallest point (assumed only, not existing) in us and the boundless firmament about us. But wherefore, then, do we speak of the Pleroma at all, since it is thus everything and nothing?

I speak of it to make a beginning somewhere, and also to free you from the delusion that somewhere, either without or within, there standeth something fixed, or in some way established, from the beginning. Every so-called fixed and certain thing is only relative. That alone is fixed and certain which is subject to change.

What is changeable, however, is creatura. Therefore is it the one thing which is fixed and certain; because it hath qualities: it is even quality itself.

The question ariseth: How did creatura originate? Created beings came to pass, not creatura; since created being is the very quality of the Pleroma, as much as non-creation which is the eternal death. In all times and places is creation, in all times and places is death. The Pleroma hath all, distinctiveness and non-distinctiveness.

Distinctiveness is creatura. It is distinct. Distinctiveness is its essence, and therefore it distinguisheth. Therefore man discriminateth because his nature is distinctiveness. Wherefore also he distinguished qualities of the Pleroma which are not. He distinguisheth them out of his own nature. Therefore must he speak of qualities of the Pleroma which are not.

What use, say ye, to speak of it? Saidst thou not thyself, there is no profit in thinking upon the Pleroma?

That said I unto you, to free you from the delusion that we are able to think about the Pleroma. When we distinguish qualities of the Pleroma, we are speaking from the ground of our own distinctiveness and concerning our own distinctiveness. But we have said nothing concerning the Pleroma. Concerning our own distinctiveness, however, it is needful to speak, whereby we may distinguish ourselves enough. Our very nature is distinctiveness. If we are not true to this nature we do not distinguish ourselves enough. Therefore must we make distinctions of qualities.

What is the harm, ye ask, in not distinguishing oneself? If we do not distinguish, we get beyond our own nature, away from creatura. We fall into indistinctiveness, which is the other quality of the Pleroma. We fall into the Pleroma itself and cease to be creatures. We are given over to dissolution in the nothingness. This is the death of the creature. Therefore we die in such measure as we do not distinguish. Hence the natural striving of the creature goeth towards distinctiveness, fighteth against primeval, perilous sameness. This is called the PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS. This principle is the essence of the creature. From this you can see why indistinctiveness and non-distinction are a great danger for the creature.

We must, therefore, distinguish the qualities of the Pleroma. The qualities are PAIRS OF OPPOSITES, such as—

The Effective and the Ineffective.

Fullness and Emptiness.

Living and Dead.

Difference and Sameness.

Light and Darkness.

The Hot and the Cold.

Force and Matter.

Time and Space.

Good and Evil.

Beauty and Ugliness.

The One and the Many. etc.

The pairs of opposites are qualities of the Pleroma which are not, because each balanceth each. As we are the Pleroma itself, we also have all these qualities in us. Because the very ground of our nature is distinctiveness, therefore we have these qualities in the name and sign of distinctiveness, which meaneth—

These qualities are distinct and separate in us one from the other; therefore they are not balanced and void, but are effective. Thus are we the victims of the pairs of opposites. The Pleroma is rent in us.

The qualities belong to the Pleroma, and only in the name and sign of distinctiveness can and must we possess or live them. We must distinguish ourselves from qualities. In the Pleroma they are balanced and void; in us not. Being distinguished from them delivereth us.

When we strive after the good or the beautiful, we thereby forget our own nature, which is distinctiveness, and we are delivered over to the qualities of the Pleroma, which are pairs of opposites. We labor to attain to the good and the beautiful, yet at the same time we also lay hold of the evil and the ugly, since in the Pleroma these are one with the good and the beautiful. When, however, we remain true to our own nature, which is distinctiveness, we distinguish ourselves from the good and the beautiful, and, therefore, at the same time, from the evil and the ugly. And thus we fall not into the Pleroma, namely, into nothingness and dissolution.

Thou sayest, ye object, that difference and sameness are also qualities of the Pleroma. How would it be, then, if we strive after difference? Are we, in so doing, not true to our own nature? And must we none the less be given over to sameness when we strive after difference?

Ye must not forget that the Pleroma hath no qualities. We create them through thinking. If, therefore, ye strive after difference or sameness, or any qualities whatsoever, ye pursue thoughts which flow to you out of the Pleroma; thoughts, namely, concerning nonexisting qualities of the Pleroma. Inasmuch as ye run after these thoughts, ye fall again into the Pleroma, and reach difference and sameness at the same time. Not your thinking, but your being, is distinctiveness. Therefore not after difference, as ye think it, must ye strive; but after YOUR OWN BEING. At bottom, therefore, there is only one striving, namely, the striving after your own being. If ye had this striving ye would not need to know anything about the Pleroma and its qualities, and yet would ye come to your right goal by virtue of your own being. Since, however, thought estrangeth from being, that knowledge must I teach you wherewith ye may be able to hold your thought in leash.

 

 

Sermo II

 

 

In the night the dead stood along the wall and cried:

We would have knowledge of god. Where is god? Is god dead?

God is not dead. Now, as ever, he liveth. God is creatura, for he is something definite, and therefore distinct from the Pleroma. God is quality of the Pleroma, and everything which I said of creatura also is true concerning him.

He is distinguished, however, from created beings through this, that he is more indefinite and indeterminable than they. He is less distinct than created beings, since the ground of his being is effective fullness. Only in so far as he is definite and distinct is he creatura, and in like measure is he the manifestation of the effective fullness of the Pleroma.

Everything which we do not distinguish falleth into the Pleroma and is made void by its opposite. If, therefore, we do not distinguish god, effective fullness is for us extinguished.

Moreover god is the Pleroma itself, as likewise each smallest point in the created and uncreated is the Pleroma itself.

Effective void is the nature of the devil. God and devil are the first manifestations of nothingness, which we call the Pleroma. It is indifferent whether the Pleroma is or is not, since in everything it is balanced and void. Not so creatura. In so far as god and devil are creatura they do not extinguish each other, but stand one against the other as effective opposites. We need no proof of their existence. It is enough that we must always be speaking of them. Even if both were not, creatura, of its own essential distinctiveness, would forever distinguish them anew out of the Pleroma.

Everything that discrimination taketh out of the Pleroma is a pair of opposites. To god, therefore, always belongeth the devil.

This inseparability is as close and, as your own life hath made you see, as indissoluble as the Pleroma itself. Thus it is that both stand very close to the Pleroma, in which all opposites are extinguished and joined.

God and devil are distinguished by the qualities fullness and emptiness, generation and destruction, EFFECTIVENESS is common to both. Effectiveness joineth them. Effectiveness, therefore, standeth above both; is a god above god, since in its effect it uniteth fullness and emptiness.

This is a god whom ye knew not, for mankind forgot it. We name it by its name ABRAXAS. It is more indefinite still than god and devil.

That god may be distinguished from it, we name god HELIOS or Sun. Abraxas is effect. Nothing standeth opposed to it but the ineffective; hence its effective nature freely unfoldeth itself. The ineffective is not, therefore resisteth not. Abraxas standeth above the sun and above the devil. It is improbable probability, unreal reality. Had the Pleroma a being, Abraxas would be its manifestation. It is the effective itself, not any particular effect, but effect in general.

It is unreal reality, because it hath no definite effect.

It is also creatura, because it is distinct from the Pleroma.

The sun hath a definite effect, and so hath the devil. Wherefore do they appear to us more effective than indefinite Abraxas.

It is force, duration, change.

The dead now raised a great tumult, for they were Christians.

 

 

Sermo III

 

 

Like mists arising from a marsh, the dead came near and cried: Speak further unto us concerning the supreme god.

Hard to know is the deity of Abraxas. Its power is the greatest, because man perceiveth it not. From the sun he draweth the summum bonum; from the devil the infimum malum; but from Abraxas LIFE, altogether indefinite, the mother of good and evil.

Smaller and weaker life seemeth to be than the summum bonum; wherefore is it also hard to conceive that Abraxas transcendeth even the sun in power, who is himself the radiant source of all the force of life.

Abraxas is the sun, and at the same time the eternally sucking gorge of the void, the belittling and dismembering devil.

The power of Abraxas is twofold; but ye see it not, because for your eyes the warring opposites of this power are extinguished.

What the god-sun speaketh is life.

What the devil speaketh is death.

But Abraxas speaketh that hallowed and accursed word which is life and death at the same time.

Abraxas begetteth truth and lying, good and evil, light and darkness, in the same word and in the same act. Wherefore is Abraxas terrible.

It is splendid as the lion in the instant he striketh down his victim. It is beautiful as a day of spring. It is the great Pan himself and also the small one. It is Priapos.

It is the monster of the under-world, a thousand-armed polyp, coiled knot of winged serpents, frenzy.

It is the hermaphrodite of the earliest beginning.

It is the lord of the toads and frogs, which live in the water and go up on the land, whose chorus ascendeth at noon and at midnight.

It is abundance that seeketh union with emptiness.

It is holy begetting.

It is love and love’s murder.

It is the saint and his betrayer.

It is the brightest light of day and the darkest night of madness.

To look upon it, is blindness.

To know it, is sickness.

To worship it, is death.

To fear it, is wisdom.

To resist it not, is redemption.

God dwelleth behind the sun, the devil behind the night. What god bringeth forth out of the light the devil sucketh into the night. But Abraxas is the world, its becoming and its passing. Upon every gift that cometh from the god-sun the devil layeth his curse.

Everything that ye entreat from the god-sun begetteth a deed of the devil.

Everything that ye create with the god-sun giveth effective power to the devil.

That is terrible Abraxas.

It is the mightiest creature, and in it the creature is afraid of itself.

It is the manifest opposition of creatura to the Pleroma and its nothingness.

It is the son’s horror of the mother.

It is the mother’s love for the son.

It is the delight of the earth and the cruelty of the heavens.

Before its countenance man becometh like stone.

Before it there is no question and no reply.

It is the life of creatura.

It is the operation of distinctiveness.

It is the love of man.

It is the speech of man.

It is the appearance and the shadow of man.

It is illusory reality.

Now the dead howled and raged, for they were unperfected.

 

 

Sermo IV

 

 

The dead filled the place murmuring and said:

Tell us of gods and devils, accursed one!

The god-sun is the highest good; the devil is the opposite. Thus have ye two gods. But there are many high and good things and many great evils. Among these are two god-devils; the one is the BURNING ONE, the other the GROWING ONE.

The burning one is EROS, who hath the form of flame. Flame giveth light because it consumeth.

The growing one is the TREE OF LIFE. It buddeth, as in growing it heapeth up living stuff.

Eros flameth up and dieth. But the tree of life groweth with slow and constant increase through unmeasured time.

Good and evil are united in the flame.

Good and evil are united in the increase of the tree. In their divinity stand life and love opposed.

Innumerable as the host of the stars is the number of gods and devils.

Each star is a god, and each space that a star filleth is a devil. But the empty-fullness of the whole is the Pleroma.

The operation of the whole is Abraxas, to whom only the ineffective standeth opposed.

Four is the number of the principal gods, as four is the number of the world’s measurements.

One is the beginning, the god-sun.

Two is Eros; for he bindeth twain together and outspreadeth himself in brightness.

Three is the Tree of Life, for it filleth space with bodily forms.

Four is the devil, for he openeth all that is closed. All that is formed of bodily nature doth he dissolve; he is the destroyer in whom everything is brought to nothing.

For me, to whom knowledge hath been given of the multiplicity and diversity of the gods, it is well. But woe unto you, who replace these incompatible many by a single god. For in so doing ye beget the torment which is bred from not understanding, and ye mutilate the creature whose nature and aim is distinctiveness. How can ye be true to your own nature when ye try to change the many into one? What ye do unto the gods is done likewise unto you. Ye all become equal and thus is your nature maimed.

Equality shall prevail not for god, but only for the sake of man. For the gods are many, whilst men are few. The gods are mighty and can endure their manifoldness. For like the stars they abide in solitude, parted one from the other by immense distances. But men are weak and cannot endure their manifold nature. Therefore they dwell together and need communion, that they may bear their separateness. For redemption’s sake I teach you the rejected truth, for the sake of which I was rejected.

The multiplicity of the gods correspondeth to the multiplicity of man.

Numberless gods await the human state. Numberless gods have been men. Man shareth in the nature of the gods. He cometh from the gods and goeth unto god.

Thus, just as it serveth not to reflect upon the Pleroma, it availeth not to worship the multiplicity of the gods. Least of all availeth it to worship the first god, the effective abundance and the summum bonum. By our prayer we can add to it nothing, and from it nothing take; because the effective void swalloweth all.

The bright gods form the celestial world. It is manifold and infinitely spreading and increasing. The god-sun is the supreme lord of that world.

The dark gods form the earth-world. They are simple and infinitely diminishing and declining. The devil is the earth-world’s lowest lord, the moon-spirit, satellite of the earth, smaller, colder, and more dead than the earth.

There is no difference between the might of the celestial gods and those of the earth. The celestial gods magnify, the earth-gods diminish. Measureless is the movement of both.

 

 

Sermo V

 

 

The dead mocked and cried: Teach us, fool, of the church and holy communion.

The world of the gods is made manifest in spirituality and in sexuality. The celestial ones appear in spirituality, the earthly in sexuality.

Spirituality conceiveth and embraceth. It is womanlike and therefore we call it MATER COELESTIS, the celestial mother. Sexuality engendereth and createth. It is manlike, and therefore we call it PHALLOS, the earthly father.

The sexuality of man is more of the earth, the sexuality of woman is more of the spirit.

The spirituality of man is more of heaven, it goeth to the greater.

The spirituality of woman is more of the earth, it goeth to the smaller.

Lying and devilish is the spirituality of the man which goeth to the smaller.

Lying and devilish is the spirituality of the woman which goeth to the greater.

Each must go to its own place.

Man and woman become devils one to the other when they divide not their spiritual ways, for the nature of creatura is distinctiveness.

The sexuality of man hath an earthward course, the sexuality of woman a spiritual. Man and woman become devils one to the other if they distinguish not their sexuality.

Man shall know of the smaller, woman the greater.

Man shall distinguish himself both from spirituality and from sexuality. He shall call spirituality Mother, and set her between heaven and earth. He shall call sexuality Phallos, and set him between himself and earth. For the Mother and the Phallos are superhuman daemons which reveal the world of the gods. They are for us more effective than the gods, because they are closely akin to our own nature. Should ye not distinguish yourselves from sexuality and from spirituality, and not regard them as of a nature both above you and beyond, then are ye delivered over to them as qualities of the Pleroma. Spirituality and sexuality are not your qualities, not things which ye possess and contain. But they possess and contain you; for they are powerful daemons, manifestations of the gods, and are, therefore, things which reach beyond you, existing in themselves. No man hath a spirituality unto himself, or a sexuality unto himself. But he standeth under the law of spirituality and of sexuality.

No man, therefore, escapeth these daemons. Ye shall look upon them as daemons, and as a common task and danger, a common burden which life hath laid upon you. Thus is life for you also a common task and danger, as are the gods, and first of all terrible Abraxas.

Man is weak, therefore is communion indispensable. If your communion be not under the sign of the Mother, then is it under the sign of the Phallos. No communion is suffering and sickness. Communion in everything is dismemberment and dissolution.

Distinctiveness leadeth to singleness. Singleness is opposed to communion. But because of man’s weakness over against the gods and daemons and their invincible law is communion needful. Therefore shall there be as much communion as is needful, not for man’s sake, but because of the gods. The gods force you to communion. As much as they force you, so much is communion needed, more is evil.

In communion let every man submit to others, that communion be maintained; for ye need it.

In singleness the one man shall be superior to the others, that every man may come to himself and avoid slavery.

In communion there shall be continence.

In singleness there shall be prodigality.

Communion is depth.

Singleness is height.

Right measure in communion purifieth and preserveth.

Right measure in singleness purifieth and increaseth.

Communion giveth us warmth, singleness giveth us light.

 

 

Sermo VI

 

 

The daemon of sexuality approacheth our soul as a serpent. It is half human and appeareth as thought-desire.

The daemon of spirituality descendeth into our soul as the white bird. It is half human and appeareth as desire-thought.

The serpent is an earthy soul, half daemonic, a spirit, and akin to the spirits of the dead. Thus too, like these, she swarmeth around in the things of earth, making us either to fear them or pricking us with intemperate desires. The serpent hath a nature like unto woman. She seeketh ever the company of the dead who are held by the spell of the earth, they who found not the way beyond that leadeth to singleness. The serpent is a whore. She wantoneth with the devil and with evil spirits; a mischievous tyrant and tormentor, ever seducing to evilest company. The white bird is a half-celestial soul of man. He bideth with the Mother, from time to time descending. The bird hath a nature like unto man, and is effective thought. He is chaste and solitary, a messenger of the Mother. He flieth high above earth. He commandeth singleness. He bringeth knowledge from the distant ones who went before and are perfected. He beareth our word above to the Mother. She intercedeth, she warneth, but against the gods she hath no power. She is a vessel of the sun. The serpent goeth below and with her cunning she lameth the phallic daemon, or else goadeth him on. She yieldeth up the too crafty thoughts of the earthy one, those thoughts which creep through every hole and cleave to all things with desirousness. The serpent, doubtless, willeth it not, yet she must be of use to us. She fleeth our grasp, thus showing us the way, which with our human wits we could not find.

With disdainful glance the dead spake: Cease this talk of gods and daemons and souls. At bottom this hath long been known to us.

 

 

Sermo VII

 

 

Yet when night was come the dead again approached with lamentable mien and said: There is yet one matter we forgot to mention. Teach us about man.

Man is a gateway, through which from the outer world of gods, daemons, and souls ye pass into the inner world; out of the greater into the smaller world. Small and transitory is man. Already is he behind you, and once again ye find yourselves in endless space, in the smaller or innermost infinity. At immeasurable distance standeth one single Star in the zenith.

This is the one god of this one man. This is his world, his Pleroma, his divinity.

In this world is man Abraxas, the creator and the destroyer of his own world.

This Star is the god and the goal of man.

This is his one guiding god. In him goeth man to his rest. Toward him goeth the long journey of the soul after death. In him shineth forth as light all that man bringeth back from the greater world. To this one god man shall pray.

Prayer increaseth the light of the Star. It casteth a bridge over death. It prepareth life for the smaller world and assuageth the hopeless desires of the greater.

When the greater world waxeth cold, burneth the Star.

Between man and his one god there standeth nothing, so long as man can turn away his eyes from the flaming spectacle of Abraxas.

Man here, god there.

Weakness and nothingness here, there eternally creative power.

Here nothing but darkness and chilling moisture.

There wholly sun.

Whereupon the dead were silent and ascended like the smoke above the herdsman’s fire, who through the night kept watch over his flock.

 

 

anagramma:

 

 

NAHTRIHECCUNDE

GAHINNEVERAHTUNIN

ZEHGESSURKLACH

ZUNNUS.

 

 

 

appendice vii - fotografie di simboli e monumenti bogomili

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Stele bogomila, da un sito archeologico della Bosnia

 

 

 

La grande mano o mano di energia. Insieme alle spirali è un simbolo molto frequente su steli e tombe bogomile. Sembra collegato al rituale dell'imposizione delle mani, che trasmette lo spirito divino.

 

 

 

Sarcofago di Domazen e Cristo di Santiago de Compostela. Entrambi mostrano il simbolo della grande mano.

 

 

 

La resurrezione di Cristo, bassorilievo della tomba di Rotari a Monte Sant'Angelo (XII secolo). Fu scolpito da scultori della Linguadoca, si noti la grande mano sinistra di Cristo.

 

 

 

Fonte dell'acqua benedetta per l'uso separato dei Cagots della Valle de Ansò, sul versante spagnolo dei Pirenei. Probabili discendenti di esuli catari, essi venivano considerati fuoricasta, ricevevano la comunione con l'ostia allungata con un bastone, avevano ingressi separati.

 

 

 

 

appendice viii - tutte le eresie cristiane dalle origini al grande scisma del 1054

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Simoniaci

Menandriani

Emerobattisti

Nicolaiti

Carpocraziani

Basilidiani

Cainiti

Marcioniti

Montanisti

Dattilorinchiti

Marcosiani

Elchasaiti

Ofiti

Encratiti

Adamiani

Paulianisti

Discalciati

Patriziani

Ieraciti

Valesii

Fibioniti

Abeliani

Circoncellioni

Ariani

Colliridiani

Apollinaristi

Antidicomariti

Messaliani

Retoriani

Priscillianisti

Saccofori

Giovinianisti

Adelofagi

Vigilanziani

Pelagiani

Nestoriani

Eutichiani

Teopaschiti

Agnoeti

Giacobiti

Etnofroni

Pauliciani

Iconoclasti

Formosiani

Antifilioquisti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Simoniaci

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In un villaggio della Samaria, a Gitton, in quella che oggi è la Cisgiordania, nacque un certo Simone. Alcuni azzardano una data, il 14 d.C., ma non esisto­no prove a riguardo e sono in molti a confutarla. Della sua biografia, comunque, si sa poco. Negli Atti degli Apostoli è scritto che esercitava le arti magiche e con quelle stupiva la gente di Samaria.

Da un certo momento in avanti, infatti, lo chia­marono Simon Mago. Dositeo fu il suo maestro di magia, un predicatore palestinese che diceva di essere il messia profetizzato da Mosè. Da lui Simone impa­rò incantesimi di vario genere: lasciarsi avvolgere dal fuoco senza bruciare, volare, assumere diverse forme. Poteva trasformarsi in serpente e in altri animali, oppure comparire con due facce diverse o invecchia­re e ringiovanire a piacimento. Riusciva a proiettare spettri e altre immagini fantastiche. Per esempio face­va apparire in piena campagna degli alberi che non esistevano. Era bravo anche con gli oggetti: trasfor­mava le pietre in pane, rompeva le catene a comando, faceva camminare le statue, apriva e chiudeva le porte a distanza, spostava gli oggetti senza toccarli. Se aveva fame o sete, gli bastava schioccare le dita perché caraffe e vassoi cominciassero a vorticare per la stanza distribuendo cibo e vino. Se voleva tagliare l'erba di un prato, comandava a una falce di mettersi al lavoro e quella, guidata dal suo pensiero, eseguiva l'ordine. E la gente del posto, vedendolo fare questi incantesimi, si convinse di avere di fronte una specie di divinità.

Ma Simone non era l'unico a dar prova di poteri eccezionali. Per esempio Filippo, un diacono che era stato consacrato direttamente dagli apostoli, girava per la Samaria guarendo i paralitici con il tocco delle mani, sanando gli zoppi senza neppure sfiorarli, esor­cizzando gli indemoniati con il semplice suono della voce. E moltissime persone si lasciavano convertire. Lo stesso Simone, fuori di sé per lo stupore e l'ammi­razione, gli chiese di essere battezzato. Aveva capito, infatti, che i suoi poteri, a paragone con quelli di Filippo, erano ben poca cosa. E fra l'altro aveva l'im­pressione che si stessero esaurendo. Con il battesimo, forse, sperava di farli tornare. Nel frattempo, visto il gran numero di conversioni, era ormai nata una Chiesa in Samaria, una Chiesa che andava al più pre­sto consolidata nella fede. Era esattamente questa la missione di Pietro, la suprema autorità apostolica.

Dopo aver osservato a lungo prima Filippo e poi Pietro, Simon Mago formulò una teoria circa i loro poteri. Gli apostoli ricevevano un dono dallo Spirito

Santo, un dono che forse aveva un prezzo e che pote­va essere comprato. Perciò offrì del denaro a Pietro, che però non la prese bene e gli tirò anche un paio di maledizioni. Quelle maledizioni sono considerate la prima scomunica, il commercio di cose sacre la prima eresia.

Per un po' le strade dei due si separarono. Simon Mago si mise a viaggiare. A Tiro, in Fenicia, acquistò una prostituta schiava di nome Elena che, da quel momento, prese a seguirlo un po' ovunque. Lui dice­va che si trattava della reincarnazione di Elena di Troia, la quale, a sua volta, era trasmigrata di corpo in corpo, di Elena in Elena, fino a quella attuale. La paragonava a una dea e quando poi giunse a Roma e si mise a capo della setta dei Simoniaci, volle che lui e la sua compagna fossero adorati come Giove e Minerva.

Sapendo di avere una presunta divinità a portata di mano, Nerone volle riceverla a palazzo. E qui Simone fece subito capire di cosa era capace. Fece assumere le sue sembianze a una capra, quindi le fece mozzare la testa davanti all'imperatore (ignaro del trucco) e dopo si ripresentò a Nerone con la testa al suo posto.

Nerone rimase molto impressionato dalla dimo­strazione e ne fece il suo stregone. A quel punto la fama di Simon Mago era diventata una faccenda pericolosa. Sicché, per la seconda volta la strada di Simone incontrò quella di Pietro. Il quale, per mette­re un freno al diffondersi della setta dei Simoniaci, arrivò nella capitale. Qui non perse tempo e si pre­sentò a casa del mago, il quale, per tenere lontano i fanatici, aveva addestrato un cane ferocissimo a difendere l'entrata. San Pietro disse al cane di andare ad annunciarlo al suo padrone. Il cane obbedì e, fra lo stupore dei presenti, andò a dire a Simone - con parole umane - che Pietro voleva parlargli. Allora il padrone di casa diede un ordine simile al cane che uscì e disse all'apostolo: prego, si accomodi.

Dopo quel primo incontro, che fu anche una sfida, i due ebbero altre occasioni di misurare i rispettivi poteri. Una volta Simone disse che poteva resuscitare i morti. Allora, di fronte al cadavere di un bimbo, Pie­tro gli disse di fargli vedere come faceva. E l'altro cominciò a far delle magie e infatti il piccolo mosse la testa, segno che la vita stava tornando in lui. Sorpre­so e impressionato Pietro si affrettò a far morire il bambino. E poi, prima che il rivale potesse reagire, lo resuscitò una seconda volta facendolo camminare e parlare.

Quando la storia giunse alle orecchie di Nerone, l'imperatore decise di organizzare una sfida fra i due taumaturghi. Fu così che Simone e Pietro si trovarono uno di fronte all'altro nel teatro di Roma, presso il palazzo imperiale. Il primo, senza tirarla per le lunghe, fece ricorso al suo numero migliore. Dopo aver annun­ciato di poter ascendere al cielo esattamente come il Cristo di cui andava predicando Pietro, cominciò a volare. Allora l'altro s'inginocchiò e pregò Dio di farlo schiantare al. suolo. E così avvenne. Simon Mago precipitò rompendosi entrambe le gambe. A questo pun­to, per sottrarsi alla vergogna e dare un'ultima prova delle sue capacità, chiese di essere sepolto vivo, dicen­do comunque che, tempo tre giorni, sarebbe re suscita­to. Qualcosa però andò storto, perché morÌ per davve­ro e non uscì più dalla tomba.

 

 

Menandriani

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Nella seconda metà del primo secolo, si aggirava­no in Antiochia i membri di una setta, detti Menan­driani, che dicevano di essere immortali. Avevano un maestro che era originario della Samaria. Questo maestro si chiamava Menandro ed era stato il disce­polo prediletto di quell'altro mago molto famoso che era Simone. Anche lui, fra l'altro, samaritano.

I Menandriani erano convinti che Dio avesse man­dato sulla terra angeli buoni e angeli cattivi. Gli ange­li cattivi erano degli agitatori che si mescolavano agli uomini per turbare la loro armonia. Gli angeli buoni, invece, dovevano combattere gli angeli cattivi e ripor­tare l'ordine.

Menandro era un angelo buono inviato dal cielo per aiutare gli uomini. Ai suoi discepoli insegnava le arti magiche perché, diceva, è impossibile restare in salute o resistere allo scombussola mento generale provocato dagli angeli cattivi senza le arti magiche.

In questo campo, fra parentesi, Menandro si autode­finiva superiore a Simone. In che senso lo fosse, è dif­ficile da spiegare. I seguaci della setta, gli unici pro­babili testimoni dei suoi prodigi, non lasciarono nien­te di scritto al riguardo.

L'unico incantesimo del quale abbiamo notizia certa è quello praticato nel battesimo 1 che Menandro somministrava in prima persona. Si trattava di una strana cerimonia, della quale parla Tertulliano. Però, anche lui, resta sul vago e non entra nel dettaglio. Autori più recenti hanno arricchito il battesimo di Menandro con ulteriori particolari. Domenico Berni­no, autore dell'Historia di tutte l'heresie, lo trasfor­ma in una cerimonia spaventosa durante la quale venivano pronunciate formule magiche capaci di evo­care spettri orribili e deformi. Allora, chi accettava di fare questo bagno magico alla presenza di spettri orribili e deformi, restava sempre giovane e, anzi, diventava immortale.

Eppure, nonostante la promessa dell'immortalità, i Menandriani furono un gruppo abbastanza piccolo. Anche per questo, per evitare che il loro numero si assottigliasse troppo, Menandro suggerì una regola di condotta alquanto strana per una setta di immortali: evitare di mettere a repentaglio la propria vita per que­stioni di principio. È inutile, diceva, rischiare il marti­rio per cose astratte come la verità o l'esistenza di Dio.

A un certo punto, comunque, i Menandriani si estinsero. Anche Menandro spari nel nulla. Però nes­suno poté raccontare come, dove, quando e se mori.

 

 

Emerobattisti

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Il battesimo aveva un ruolo fondamentale non sol­tanto nelle eresie samaritane, ma anche in quelle giu­daiche. Assodata la sua centralità nella vita del fede­le, alcune lo trasformavano in un rito magico, altre in una cerimonia di purificazione.

Gli Emerobattisti, ad esempio, si immergevano in acqua tutti i giorni e in tutte le stagioni. E ogni volta ne approfittavano per lavare vestiti, masserizie e sto­viglie. Non era solo una forma di igienismo che, per una comunità del primo secolo, sarebbe stata patolo­gica: speravano che l'acqua li purificasse da ogni colpa. Infatti i membri della setta rimproveravano i discepoli di Gesù perché sedevano a tavola senza prima essersi lavati le mani. E criticavano i farisei perché invocavano il nome di Dio prima di aver fatto le abluzioni mattutine.

 

 

Nicolaiti

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Tutta la vicenda dei Nicolaiti, membri di una fra le più antiche sette di eretici, nacque dal fraintendi­mento delle parole di Nicola di Antiochia, uno dei sette Diaconi della Chiesa di Gerusalemme. Diceva Nicola che bisognava esercitar la carne, «oportet uti carne». In molti però capirono che bisognava abusa­re della carne e lasciarsi andare a sfrenatezze di ogni tipo, e invece Nicola intendeva dire che bisognava esercitare la carne all'astinenza, resistere ai desideri impuri e praticare la virtù.

Comunque, siccome quelli che lo stavano a sentire erano per lo più uomini deboli di spirito e licenziosi - infatti approfittarono a bella posta dell'equivoco per abbandonarsi alla lussuria - cominciò a circolare la voce che Nicola era a capo di una setta di depravati.

Un'altra volta, visto che gli apostoli lo rimprove­ravano di essere troppo geloso della moglie, la portò davanti a quelli e disse provocatoriamente che l'avrebbe ceduta a chiunque si fosse fatto avanti per sposarla. Solo che venne nuovamente frainteso e si sparse la notizia che aveva indotto sua moglie a pro­stituirsi, in ossequio alla dottrina di Platone per cui ogni cosa nella Repubblica andava messa in comu­nione, anche la moglie. Si disse anche che Nicola invitava i seguaci della setta a fare altrettanto, a con­cedere agli altri la donna con cui si erano sposati.

Una profetessa di nome Gezabele, che viveva nella città turca di Tiatira, nell'odierna Akbisar, divenne seguace della setta e predicò ai cristiani del luogo insegnando che era lecito andare a letto con chiunque e mangiare il cibo offerto agli idoli. L'apostolo Gio­vanni, preoccupato per gli effetti di quella predica­zione sulla comunità dei cristiani, anche loro - evi­dentemente - deboli di spirito e licenziosi, scrisse al vescovo di Tiatira spiegando di aver dato alla donna un ultimatum affinché si pentisse e la smettesse di andare a letto con chiunque. Scrisse anche che, se avesse rifiutato, l'avrebbe resa inferma e il suo letto di piaceri si sarebbe trasformato per sempre in un letto di malattia. Una condanna peggiore sarebbe poi toccata ai suoi figli e a tutti coloro che le si fossero anche solo avvicinati. La morte attendeva i deboli di spirito e i licenziosi.

 

 

Carpocraziani

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Nel bizzarro pantheon dei Carpocraziani, Gesù stava accanto a poeti e filosofi. La loro guida, Carpo­crate appunto, possedeva un ritratto di Gesù che, a suo dire, era stato fatto da Pilato prima della croce­fissione. Questo ritratto veniva venerato insieme alle immagini di Platone, Pitagora, Aristotele e Omero. Davanti a queste immagini dipinte oppure scolpite in oro o argento, si alternavano diversi oratori che, dopo essersi denudati per esprimere così il loro desi­derio di libertà, tenevano lunghissimi discorsi. Tutti questi discorsi prendevano a riferimento l'insegna­mento di Platone. La sostanza era questa: le anime degli uomini erano imprigionate nei corpi perché ave­vano dimenticato Dio. Lo avevano proprio cancella­to, nemmeno ricordavano com'era fatto. Soltanto pochi conservavano una vaga reminescenza della sua esistenza. Quanto alla forma però s'ingannavano tutti. I Carpocraziani erano sicuri che, a dispetto di una credenza molto diffusa, non aveva le sembianze del porco e il fatto che agli ebrei fosse vietato man­giare la carne di quell'animale era una pura coinci­denza. Senza dubbio Dio aveva l'aspetto di un asino.

Visto che si erano allontanate dalla sostanza spiri­tuale e dalla forma asinina di Dio, le anime non erano più entità celesti ma sostanze materiali, creatu­re soggette al dominio degli angeli, i veri creatori del mondo. Se volevano tornare alla libertà dovevano combattere l'ignoranza e per farlo dovevano aggrap­parsi alle poche cognizioni che gli erano rimaste e provare, con quelle, a recuperare la perfezione cono­sciuta un tempo. Finché non ci fossero riusciti avreb­bero agito alla cieca. Per cui, non potendo conoscere il significato di buono o cattivo, giusto o sbagliato, le loro azioni sarebbero state semplici tentativi di recu­pero della memoria e i peccati della carne nient'altro che tributi da pagare agli angeli creatori.

Con chi rifiutava di sottoporsi a questo esercizio di recupero Carpocrate non andava tanto per il sotti­le. Condannava a severe penitenze e, in certi casi, alla morte.

Non erano in molti, comunque, a disobbedirgli: era pratico di incantesimi e malefici, sapeva come usare droghe e filtri magici, guidava processioni di demoni ubbidienti per mezzo dei quali induceva chiunque a commettere ogni genere di azione. Per esempio Carpocrate convinceva i suoi discepoli a rendersi sempre riconoscibili facendosi marchiare con un ferro incandescente dietro l'orecchio destro. Oppure organizzava delle cene alle quali bisognava presentarsi lavati e profumati e in compagnia delle proprie madri e sorelle. Dopo mangiato si spegneva­no le luci e gli uomini erano invitati ad accoppiarsi con la prima donna che gli fosse capitata a tiro, con la madre o la sorella di un altro Carpocraziano oppu­re con la propria.

Unioni matrimoniali e procreazione avrebbero scoraggiato questo tipo di pratiche (comunioni misti­che le chiamavano), sicché erano entrambe vietate.

Solo che poi Carpocrate ebbe un figlio, Epifane, che fu uno dei suoi allievi più promettenti, se non il migliore. Epifane morì a 17 anni mentre il padre, come scrisse Gaetano Travasa nella sua Storia critica delle vite degli eresiarchi, arrivò a 95 anni rimettendo l'anima a quegli stessi demoni che aveva comandato da vivo. Era il 138 d.C.

A Sami, sull'isola di Cefalonia, Epifane venne ado­rato come una divinità e gli fu dedicato un tempio e ogni mese, in quel tempio, si radunava una gran folla per rendergli onore e fare delle offerte a lui e a suo padre. E queste offerte consistevano in colossali bevu­te e orge estemporanee. Questi riti creavano un tale scandalo nelle altre comunità di cristiani che i loro membri evitavano ogni contatto con i Carpocraziani, rifiutavano di sedere a tavola con loro e se per caso erano costretti a farlo, ad esempio perché si erano accorti troppo tardi del marchio a fuoco dietro l' orecchio, dimostravano tutta la propria ostilità mangian­do con le mani e non osando neppure sfiorare i piatti, i vasi oppure i coltelli che quelli avevano toccato.

 

 

Basilidiani

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Alessandria d'Egitto fu la città natale di Basilide, un maestro gnostico che all'inizio del secondo secolo aveva fondato una setta. Ai suoi membri insegnava che Gesù non era un uomo, non aveva cioè un corpo in carne e ossa. Era più simile a un fantasma. Infatti, durante la salita al Calvario, prese facilmente l'aspet­to di Simone Cireneo, col quale fece cambio di posto. Il poveretto, prima che potesse rendersi conto di quello che stava succedendo, si ritrovò la croce sulle spalle. Alla fine, quindi, non fu crocefisso il figlio di Dio ma questo disgraziato. Gesù intanto si era mescolato tra la folla. Dopo aver assistito di nascosto e con gran divertimento alla sua presunta morte, salì in cielo senza essere riconosciuto.

Ecco, per questo motivo i Basilidiani disprezzavano i martiri e si guardavano bene dal seguirne l'esempio: la loro morte non avrebbe onorato Gesù ma Simone Cireneo. Per lo stesso motivo, durante le persecuzioni, rinnegavano senza alcun rimorso il crocefisso.

Nella sua Storia ragionata delle eresie Pietro Palet­ta spiega come mai, nonostante una dottrina così blasfema.' la setta dei Basilidiani ebbe moltissimi seguaci m Egitto. Questo popolo era il più superstizioso e idolatra di tutti. Benché progredito dal punto di vista scientifico, era sconsiderato in questioni religiose: adorava animali come il cane, il lupo, lo sparviero, il coccodrillo, il gatto, e anche le piante, e fra le piante le meno nobili, cioè i porri e le cipolle. E Voltaire, nel Dizionario filosofico, parla del culto che gli Egiziani tnbutarono a un bue, un cane, una scimmia, un gatto e un mazzo di cipolle. E conclude che tutti continua­rono a mangiare buoi e cipolle, ma è difficile sapere cosa pensassero le vecchie egiziane delle cipolle sacre e dei buoi.

 

 

Cainiti

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C'è qualcosa di molto singolare nella vicenda di Caino e Abele. Ad esempio l'inspiegabile preferenza di Dio per Abele e l'altrettanto immotivata ostilità nei confronti di Caino, i cui sacrifici non erano mai graditi. Cosa non andava in quei sacrifici? Nulla infatti Caino cominciò a odiare il fratello perché si sentiva discriminato. Così, per la prima volta, la vio­lenza fece la sua comparsa nel mondo degli uomini.

C'è anche un'altra cosa difficile da spiegare. Dio punì l'omicida: «ramingo e fuggiasco sarai sulla terra» gli disse. Ma la pena non venne scontata.

«Ecco, - rispose Caino - tu mi scacci oggi da que­sto suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere».

Invece Caino si allontanò dal Signore e andò ad abitare nel paese di Nod. Qui si unì alla moglie che partorì Enoch. Poi fondò una città, che appunto chia­mò Enoch, dal nome del figlio. Altro che ramingo e fuggiasco sulla terra! Caino costruì la prima città, Enoch, che sorgeva dal deserto e nella quale fioriva­no la legge, l'arte e il progresso tecnologico. A Enoch, infatti, vissero i discendenti di Caino: Iubal, l'inven­tore della musica, il «padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto» e Tubalkàin, il fabbro, «padre di quanti lavorano il rame e il ferro».

Allora, una lettura un po' maliziosa della Bibbia potrebbe essere questa: all'inizio, quando Caino face­va sacrifici innocui, era antipatico a Dio. Poi però, da un certo momento in avanti, e cioè da quando uccise il fratello, ottenne il suo favore.

I Cainiti si scagliarono appunto contro il Dio del­l'Antico Testamento, che amava i sacrifici pieni di sangue. Questi eretici facevano parte di una setta gnostica particolarmente attiva in Egitto nel secondo secolo. Odiavano il creatore con la stessa passione con cui veneravano i personaggi biblici che si erano ribellati a lui e alle sue leggi e che per questo erano stati maledetti: Caino, naturalmente, e poi Esaù, Cam, Core, Datan, Abirarn, gli abitanti di Sodoma e quelli di Gomorra, Giuda.

Esaù non venne benedetto dal padre morente a causa di un inganno del fratello Giacobbe. La stirpe di Cam venne maledetta solo perché suo padre Noè si era ubriacato ed era rimasto nudo nella tenda e lui se n'era accorto e l'aveva raccontato ai fratelli. Core, Datan e Abiram avevano osato mettere in discussione il ruolo di Mosè e Aronne dicendo: «Tutta la comuni­tà, tutti sono santi e il Signore è in mezzo a loro; per­ché dunque vi innalzate sopra l'assemblea del Signo­re?», e per questo vennero sprofondati all'inferno. Gli abitanti di Sodoma e quelli di Gomorra, vennero inceneriti da una pioggia di fuoco e zolfo: i primi per aver chiesto a Lot, dal quale si erano rifugiati tre angeli di Dio, di consegnare i suoi ospiti per poterli sodomizzare (mentre Lot, nonostante avesse offerto la verginità delle sue figlie in cambio dei tre angeli, scampò al massacro); i secondi perché «il loro pecca­to era molto grave» e «il grido che saliva da quella città era troppo grande».

Giuda, infine, era stato dannato per l'eternità per aver tradito Gesù. Nel vangelo di Giuda, uno dei testi sacri dei Cainiti, non solo l'apostolo non era un tra­ditore, ma era anche l'unico a conoscenza del piano per la salvezza dell'umanità. L'unico ad averne reso possibile la realizzazione. I Cainiti, perciò, per ono­rarne la memoria, commettevano tutti i peccati del Decalogo di Mosè. Anche perché in ciascuno di que­sti peccati era presente un angelo e perciò, mentre il peccato veniva commesso, il Cainita poteva scaricare su di lui ogni responsabilità dicendo: «O angelo, io abuso dell'opera tua; o Potenza, io compio la tua operazione! ».

Alcuni raccontano di un Cainita, di nome Quin­till, che prese alla lettera questa dottrina. Era stato oste, marinaio, mercante di schiavi e proprietario di un bordello. Con questo curriculum era entrato nella setta dei Cainiti. Un giorno però gli apparvero in sogno Abramo, Maria Maddalena e Giuda Iscariota che gli dissero che Cristo lo aveva scelto come nuovo apostolo e gli aveva affidato una missione: violare la legge di Mosè. Decise allora di fondare una setta che da lui prese il nome: i Quintillianiti. Questi eretici si diffusero tra il terzo e il quarto secolo in Numidia, Mauritania e Cirenaica. E lì predicarono che era giu­sto bestemmiare, disprezzare i genitori, uccidere, commettere adulterio, rubare, dire falsa testimonianza, rapire e violentare le donne altrui.

Le autorità presero drastiche contromisure. I Quintillianiti vennero brutalmente perseguitati e lo stesso Quintill fu decapitato a Tagaste.

Va anche detto che Quintill potrebbe non essere mai esistito e il nome Quintillianiti potrebbe derivare da una donna, Quintilla, Cainita anche lei, che se la prendeva col sacramento del battesimo e che costrin­se Tertulliano a scrivere un libro, lo Scorpiace, per usarlo come antidoto alle punture degli scorpioni, cioè, appunto, degli eretici.

 

 

Marcioniti

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Certe volte, a essere genitori troppo severi, si corre il rischio di far dei danni. Per esempio il vescovo di Sino­pe del Ponto aveva un figlio, Marcione, che era sempre stato un bravo figlio, tanto rispettoso, tanto devoto. Solo che un giorno vide una ragazza, e allora gli venne come una smania, un fuoco che non riusciva a control­lare. Alla fine non resistette e la prese con la forza.

Fu immediatamente assalito dal rimorso. Sincera­mente pentito chiese perdono al padre. Al vescovo e padre. Il quale, essendo severo e inflessibile, non solo gli rifiutò l'assoluzione, ma lo scomunicò, cioè lo allon­tanò dalla comunità dei fedeli a tempo indeterminato.

Sicché la nascita dell'eresia dei Marcioniti potreb­be essere spiegata anche in chiave psicanalitica. L'ab­bandono da parte del padre e la sua ostilità, che fra l'altro durò tutta la vita, provocarono in Marcione un profondo dissidio interiore.

A causa di questo dissidio divenne anche lui intransigente nei confronti del peccato. Lo stupro della ragazza fu il suo primo e ultimo cedimento car­nale. Da allora si dedicò anima e corpo all'ascetismo. Che non solo significava rifiuto dei piaceri sessuali, ma anche astinenza dal cibo. Fra l'altro, fin dal suo arrivo a Roma intorno al 140 d.C., impose questa dottrina rigorosissima anche ai suoi discepoli. Ogni cedimento era considerato gravissimo. Per questo motivo i Marcioniti venivano battezzati anche più di una volta. Poteva infatti succedere che si accumulas­sero tanti e tali peccati che non c'era verso di lavarli tutti e bisognava ricorrere a un secondo battesimo, alle volta anche un terzo, in casi eccezionali anche un battesimo post mortem. In questo caso un Marcioni­ta si nascondeva sotto al cadavere. Quando gli altri si avvicinavano e domandavano al morto se voleva essere battezzato, rispondeva quello vivo che, natu­ralmente, diceva che sì, non vedeva l'ora. Si capisce allora per quale motivo san Giovanni Crisostomo in una delle Omelie sulle lettere di Paolo ai Corinzi dice che il battesimo di Marcione è una buffoneria più degna del teatro che di un sacro mistero.

Marcione poi, sempre a causa di quel dissidio interiore, insegnava a odiare il Dio dell' Antico testa­mento. Un Dio incapace di autocontrollarsi, un padre tiranno che favoriva banditi e terroristi come re Davide di Israele, che tentava l'uomo in continuazio­ne per il gusto di infliggergli punizioni, che faceva ricadere sui figli le colpe dei padri, che faceva soffri­re l'innocente al posto del colpevole, che era assetato di guerra e di ogni sorta di violenze.

Giosuè, ad esempio, era il paladino di questo Dio.

Con il suo aiuto sterminò Amalec e la sua gente pas­sandoli a fil di spada. Massacrò i Gabaoniti, distrus­se le città di Gerico, Ai, Machedda, Libna, Lachis, Eglon, Ebron e Debir trucidando uomini, donne e bambini. Punì Acan, colpevole di aver rubato, lapi­dando e bruciando vivi lui, i suoi figli, le sue figlie, i suoi asini e le sue mule.

Insomma, c'era una tale differenza fra il Dio del­l'Antico testamento e quello del Nuovo Testamento che dovevano per forza essere due entità distinte, una cattiva, intrattabile e vendicativa, l'altra buona, tolle­rante e amorevole. L'una artefice di questo mondo e di tutte le cose che in esso si trovavano, l'altra capa­ce di sacrificare il figlio, il Messia, per la salvezza del­l'umanità.

Sicché i Marcioniti odiavano il Dio degli ebrei e disprezzavano tutto ciò che aveva fatto. Ad esempio, visto che la creazione era stata portata a termine di sabato, commemoravano quel giorno piangendo e digiunando. I più fanatici rifiutavano di utilizzare tutto quello che faceva parte del creato. Teodoreto di Cirro incontrò un Marcionita che ancora a novan­t'anni, tutte le mattina, appena sveglio, si lavava la faccia con lo sputo. Meglio lo sputo che l'acqua, diceva, che anche l'acqua è stata creata da Dio.

 

 

Montanisti

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Fra il 160 e il 180 d.C., sotto Marco Aurelio, l'im­pero romano viveva tempi difficilissimi. C'erano allu­vioni, scoppiavano carestie, imperversavano guerre. La peste faceva più vittime di alluvioni carestie e guerre messe insieme. C'era poco da stare allegri. Infatti fra il 160 e il 180 d.C. erano tutti abbastanza tristi e molto preoccupati per un futuro che, da qua­lunque lato lo si guardasse, appariva nero.

In quello stesso periodo, però, un ex sacerdote della dea Cibele, di nome Montano, aveva iniziato a predi­care cose un po' diverse, cose in cui il futuro, nero o roseo che fosse, c'entrava fino a un certo punto. Perché questo ex sacerdote convertitosi al cristianesimo dice­va a tutti di aver avuto delle visioni che profetizzava­no, in modo inequivocabile, l'imminente ritorno di Cristo sulla terra (parusia). Questione di pochi mesi, un anno tutt'al più, ma insomma, il dado era tratto.

Stando così le cose, davvero non aveva senso pre­occuparsi per le sorti del mondo. All'epoca invece, un po' per l'abbondanza di alluvioni carestie e guer­re, un po' perché l'Apocalisse di Giovanni veniva letto quasi ovunque, erano tutti terribilmente preoc­cupati dal futuro.

Montano invece continuava a ripetere che andava tutto bene, che bisognava solo prepararsi degnamen­te alla venuta di Cristo. Per farlo era necessario pen­sare al presente e non al futuro. E nel presente si dovevano osservare certe regole di comportamento, come la regola della castità assoluta o quella del digiuno o ancora quella dell'autodenuncia.

Le malelingue dicevano che per Montano non era un grosso sacrificio osservare la prima visto che, durante una cerimonia in onore della dea Cibele, si era castrato con una pietra appuntita.

Rispettare la seconda era molto più difficile e infatti Montano fu costretto a fare marcia indietro.

All'inizio, convinto che la parusia fosse questione di mesi, forse nemmeno di mesi, di qualche settimana, diceva che bisognava digiunare ininterrottamente fino alla venuta di Cristo. Poi, dato che Crist'o face­va un po' tardi, disse che bastavano due mezze gior­nate ogni settimana più due settimane consecutive durante le quali era permesso mangiare solo cibi asciutti.

Ma una buona preparazione al ritorno di Cristo, per la quale rimaneva pochissimo tempo, richiedeva anche l'accettazione delle persecuzioni anticristiane. Anzi, quando capitava l'occasione, bisognava correre ad autodenunciarsi.

A questo punto si potrebbe pensare che Montano fosse una specie di predicatore pazzo e che tale venis­se considerato dagli uomini del suo tempo. Invece no. Aveva molti seguaci e quasi tutti praticavano l'asti­nenza, osservavano il digiuno e ogni tanto, come rac­conta lo stesso Marco Aurelio, si gettavano nelle arene dei gladiatori urlando: «Uccidimi, sono un cri­stiano, uccidimi!».

E poi c'erano due profetesse, Massimilla e Priscil­la, anche loro convinte della prossima venuta di Cri­sto. Dove andava Montano andavano anche loro. Quello che predicava Montano predicavano anche loro. Se lui andava in estasi e parlava per mezzo dello Spirito Santo, loro facevano uguale. Dicevano di essere l'incarnazione di Cristo. Dicevano che la città di Pepuza (nella regione dell'attuale Anatolia) sareb­be diventata una seconda Gerusalemme.

E perciò i profeti Montanisti andavano a vivere a Pepuza ritenendo che vivere in qualunque altra parte del mondo fosse una cosa da idioti. E qui, nella piana che si estendeva fino ai confini dell' odierno distretto di Karahall, organizzavano dei riti di massa dove andavano in estasi e parlavano per bocca dello Spirito Santo. Le malelingue diffondevano strane voci anche sui profeti. Dicevano per esempio che durante questi riti facevano cose atroci, ad esempio conficcavano degli spilli d'ottone nel corpo dei bambini. Se sopravvi­vevano, ecco aprirsi per loro le porte del sacerdozio, se invece morivano, veniva organizzato un battesimo (perché i Montanisti battezzavano anche i morti). In entrambi i casi i profeti raccoglievano il sangue dei bambini e ci impastavano il pane per l'eucaristia. E questo pane lo mangiavano con del formaggio, possi­bilmente caprino. Poi, dopo aver mangiato pane e for­maggio tornavano a pregare il Padre, il Figlio e un pal­lone gonfiato. Infatti, siccome i profeti erano ispirati direttamente dallo Spirito Santo, soffiando nei palloni li riempivano di quella sostanza che era anche la sostanza del Padre e del Figlio. Un'unica sostanza per tre persone distinte: nell'attesa del ritorno di Cristo, perciò, bisognava osservare tre Quaresime, una per ogni Salvatore che aveva sofferto in croce.

Al termine della cerimonia se ne tornavano tutti a Pepuza, lasciandosi con delle strane formule di salu­to. Ce n'era una che diceva più o meno così: benedet­ta Eva che ha mangiato il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male.

In effetti Eva era così ammirata che le donne pote­vano diventare preti, vescovi o anche profetesse, come Massimilla e Priscilla. Fra l'altro i profeti, sia uomini che donne, erano considerati superiori al clero istitu­zionale: con le loro profezie arrivavano dove non erano arrivati neppure gli apostoli. Dio infatti, che non era riuscito a salvare il mondo attraverso Mosè e gli altri profeti testamentari, si era incarnato nella Vergine Maria e in Cristo, suo figlio. Ma visto che nemmeno così era riuscito a salvare il mondo, aveva inviato lo Spirito Santo su Montano, Priscilla, e Massimilla.

Questa presunta capacità dello Spirito Santo di mettere in comunicazione diretta i profeti con Dio, mise in allarme chi voleva avere il controllo su entrambi, sui profeti e anche sullo Spirito Santo. Lo scrittore cristiano Milziade scrisse un libro per dimo­strare che «un profeta non dovrebbe parlare in esta­si». In questo libro diceva chiaro e tondo che i Mon­tanisti andavano soggetti a fenomeni di possessione che niente avevano a che spartire con i fenomeni cari­smatici dei profeti testamentari.

Ma una vera condanna del montanismo arrivò solo all'inizio del terzo secolo, sotto Papa Zefirino, quando Montano, Priscilla e Massimilla erano già morti da un pezzo e nessuna delle loro profezie si era avverata: neppure quella di Massimilla secondo cui, dopo di lei, non sarebbero nati altri profeti. Non solo nacquero, ma continuarono a profetizzare il ritorno di Cristo per altri cento anni finché Giovanni di Efeso, per ordine dell'imperatore Giustiniano, guidò una spedizione a Pepuza per stroncare la setta, distruggere il suo tempio e, già che si trovava, brucia­re i resti di Montano, Priscilla e Massimilla.

 

 

Dattilorinchiti

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Sul finire del secondo secolo, in un periodo di relativa calma e serenità - prima che i discendenti di Costantino si facessero la guerra per quarant'anni e anche prima che lo strepito dei Goti suscitasse orrore lungo le coste dell' Asia Minore e gli abitanti del Ponto perdessero Trebisonda - una setta di eretici andava già predicando che Dio, per potersi manife­stare, aveva bisogno di pace e silenzio.

Rifacendosi alle parole di Davide: «Ponete, Signo­re, una guardia alla mia bocca ed una porta che stia sopra le mie labbra», giravano con il dito indice sul naso e sulla bocca, come a dire: state un po' zitti.

Mantenevano questa posa in ogni occasione, anche quando pregavano e perciò vennero chiamati Dattilorinchiti o Passalorinchiti, da πατταλοζ cioè palo (allusione al dito) e ρυγχοζ (muso). I Dattilorin­chiti non parlavano mai. Se un Dattilorinchita voleva comunicare qualcosa doveva farsi capire con le espressioni del volto, ad esempio strizzando gli occhi oppure facendo cenni col capo. La setta si estinse rapidamente per le molte incomprensioni.

 

 

Marcosiani

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Tra gli gnostici del secondo secolo ci fu un egizia­no, di nome Marco, che pur conducendo una vita depravata, riuscì a fingere così bene che alcuni lo reputarono un santo. Per non smentire questa fama viveva isolato e faceva esercizi di devozione e di pietà. Le rare volte in cui compariva in pubblico, vestiva in modo ordinato, aveva un contegno serissi­mo, trascurava le occupazioni mondane e anche con lo sguardo trasmetteva un senso di grande umiltà. Parlava poco o niente, sembrava odiare ogni conver­s~zio~e che non avesse a che fare con argomenti spi­rituali, Quando qualcuno lo andava a visitare nei luoghi del suo eremitaggio, immancabilmente lo tro­vava in atto di contemplazione o di rapimento estati­co. E se poi questo qualcuno si avvicinava per lodare il suo equilibrio e la sua capacità di distacco dalle cose terrene, Marco si mostrava disgustato dai com­plimenti fino alla nausea.

Quando non era impegnato a pregare o meditare si dedicava allo studio. Leggeva in continuazione dei libri chiamati Rivelazioni de' Profeti e Sinfonie divine che divennero poi i testi fondamentali della setta dei Mar­cosiani. Nell'apprendimento dei misteri occulti lì descritti si faceva aiutare da un assistente, una creatu­ra a metà tra un folletto e uno spirito. Quel che impa­rò gli servì a fondare una teologia aritmetica in cui la Santa Trinità era sostituita da una Santa Quaternità.

L'intuizione era la seguente: Dio aveva creato ogni cosa per mezzo delle lettere dell'alfabeto. All'inizio infatti non esisteva altro che Dio. Poi Dio disse: sia fatta la luce. E luce fu. Sicché la luce ebbe origine dalla parola. Ma la parola era composta da lettere e quindi anche le lettere avevano una loro forza creatrice. Nella Genesi, secondo la teologia aritmetica di Marco, Dio aveva creato ogni cosa in 8 giorni pronunciando quat­tro parole che contenevano trenta lettere. Poi si era ritirato, per così dire, in un eterno riposo. Il numero 30, che esprimeva la pienezza divina, era composto da 1 decade, 1 dodecade, 2 tetradi (10+12+4+4)· La prima delle due tetradi, la Santa Quaternità appunto, era composta da Impronunciabile, Silenzio, Padre e Verità. E quando Marco invocava la grazia celeste per compiere prodigi allora, come si legge in Travagli della Chiesa, opera dell'agostiniano Giuseppe Renato da Gesù Maria, da luoghi incomprensibili, inenarrabili ed invisibili arrivavano Impronunciabile, Silenzio, Padre e Verità per posarsi sopra di lui.

A quel punto era in grado di fare miracoli. Quello che gli riusciva meglio consisteva nel trasformare vino bianco in vino rosso, anche se lui diceva che si trattava del suo sangue. Ecco come faceva. Riempiva un calice di vino bianco mescolato con un po' d'ac­qua. Dopodiché pronunciava alcune parole e il vino iniziava a bollire per poi diventare rosso. A quel punto, recitando altre formule magiche, versava il liquido in un altro calice che pur essendo molto più grande si riempiva fino all'orlo. A chi assisteva all'operazione spiegava che la Grazia celeste si era servita di lui per trasformare il vino in sangue.

Prodigi di questo tipo lo rendevano molto popola­re fra uomini e donne, soprattutto donne. Marco adocchiava le più belle e ricche, le avvicinava e dice­va loro che non soltanto era capace di predire il futu­ro, ma anche di trasmettere lo spirito profetico. Se abboccavano, metteva in piedi una nuova cerimonia che, in verità, serviva soltanto a istupidirle. Infatti quelle, lievemente turbate all'inizio, venivano poi assalite da uno stato di agitazione crescente e alla fine, in preda alle convulsioni, si ribaltavano a terra. Da lì, credendo di essere riempite dallo Spirito Santo, cominciavano a profetizzare anche se, in realtà, dice­vano una marea di sciocchezze. Ciononostante, con­vinte di aver ricevuto il dono di Marco, gli offrivano in regalo enormi quantità d'oro e d'argento. In qual­che caso, convinte che l'unione spirituale presuppo­nesse anche quella carnale, si concedevano all'eresiar­ca. Alle più scettiche Marco faceva bere filtri amoro­si cosicché, scomparso ogni pudore, si gettavano fra le sue braccia. A quel punto recitava certi scongiuri e anche una preghiera al Silenzio che in pochi attimi lo rendeva invisibile. Al riparo da occhi indiscreti pote­va finalmente soddisfare i piaceri della carne.

Certe volte capitava che qualche donna, invitata a far profezie, gli soffiasse in faccia e gli dicesse «sco­municato!».

In generale però riusciva a essere molto convin­cente. Motivo per cui la setta dei Marcosiani contò moltissimi adepti. Per entrare era necessario sotto­porsi a un rito d'iniziazione che chiamavano «reden­zione». Non si sa in cosa consistesse. Si sa soltanto che dopo la cerimonia l'iniziato veniva unto con olio e balsamo. A quel punto cominciava una nuova vita, in un luogo solitario e lontano dai mercati e dallo strepito delle città. Ma nessuno dei suoi seguaci venne reputato santo, vuoi perché non era per niente bravo a fingere, vuoi perché non conosceva il trucco dell'invisibilità.

 

 

Elchasaiti

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In Giordania, intorno all'anno 100, nacque la setta degli Elchasaiti. Il suo fondatore Elxai o Elkesai o Elchasai o Elkessaioi o Elkesaios o Elkesaitai, che era di origine persiana e il cui nome significava «il Dio nascosto», scrisse un libro, conosciuto come il Libro di Elchasai. Fra l'altro Elchasai aveva un fratel­lo, lexai o lexaeus o jekseos, un nome di origine ebraica che significava «il potere nascosto», che anche lui scrisse un libro, il Libro di lexai. Niente a che vedere, comunque, con il Libro di Elchasai.

Quest'ultimo fu scritto tra il 101 d.C. e la fine del regno di Traiano, nel I 17. Se ne conosce un fram­mento in cui è riportata una profezia. La profezia diceva che tre anni dopo la campagna di Partia (l'attuale Iran) di Traiano, sarebbe scoppiato un conflit­to globale.

Ecco, la profezia riportata nel frammento non si avverò: anzitutto Traiano rimase in Mesopotamia meno di tre anni, in secondo luogo nessun conflitto globale scoppiò, né prima né dopo che furono tra­scorsi tre anni dal suo arrivo in Partia. La qual cosa, comunque, non impedì a Elchasai di avere molti seguaci, né impedì a questi seguaci di vantarsi di saper prevedere il futuro, e non impedì a due sorelle­che si diceva fossero sue discendenti, Marta e Mar­thana - di essere venerate come sante, e non impedì agli uomini che le adoravano di usare il loro sputo e la polvere dei loro piedi per curare malattie.

Profezia a parte, il Libro di Elchasai ebbe un certo successo. A Roma, sotto il pontificato di Papa Calli­sto I (attorno al 220 d.C.) arrivò un tale Alcibiade di Apamea, il quale aveva con sé un libro e questo libro, diceva, gli era stato dato in Partia da un uomo giusto di nome Elchasai. A sua volta questo uomo giusto aveva ricevuto il libro da un angelo che misu­rava 154 chilometri in altezza, 26 in larghezza, 38 da una spalla a quell'altra. Le sue impronte erano lunghe 22 chilometri, larghe 6 e profonde 3. L'ange­lo era un essere soprannaturale, il figlio di Dio, e fra l'altro non era solo, lo accompagnava una donna che, essendo sua sorella, non era un semplice angelo, ma lo Spirito Santo.

Quando qualcuno metteva in dubbio la veridicità delle sue parole, allora Alcibiade sfumava un po' il racconto e diceva che si era trattato di un rapimento mistico durante il quale a Elchasai era apparso que­sto angelo di dimensioni colossali accompagnato dalla sorella.

Epifanio di Salamina disse che il Libro era ancora in uso presso i Sampseani, discendenti dei primi Elchasaiti. Ciò vuol dire che l'eresia, in un modo o nell'altro era sopravvissuta e che gli insegnamenti contenuti nel libro continuavano a essere impartiti e osservati.

Ippolito di Roma li giudicava con disprezzo, ritenendoli un cocktail malriuscito di eresie preesistenti. Gli Elchasaiti, tanto per fare un esempio, credevano che Cristo fosse un uomo, ma un uomo un po' diver­so dagli altri, che era nato sì da una vergine, ma più d'una volta. E più d'una volta era poi venuto sulla terra, dove si era dedicato all'astrologia e, soprattut­to, alla magia.

La magia è molto presente nel Libro di Elchasai e anche nella vita degli Elchasaiti. Il battesimo, ad esempio, si trasformò in un rituale magico i cui effet­ti producevano qualcosa di simile a un incantesimo.

Quando qualcuno si macchiava di qualche impu­rità, e doveva succedere di frequente visto che il libro di Elchasai condannava la verginità e la continenza, oppure quando peccava con un animale, pratica evi­dentemente abbastanza diffusa, era necessario cele­brare un secondo battesimo. E ci voleva un rito spe­ciale, che prevedeva una preghiera speciale, che invo­cava sette speciali elementi: cielo, acqua, Spirito Santo, angelo della preghiera, olio, sale e terra. Fra l'altro questa preghiera doveva essere recitata dal peccatore rivolto verso Gerusalemme.

Se, per esempio, un Elchasaita veniva morso da un cane rabbioso, che anche questo significava avere rapporti con un animale, e fra l'altro essere morsi da un cane rabbioso era segno di un cattivo istinto della concupiscenza, allora lo si vedeva sfrecciare verso la fonte d'acqua più vicina e saltarci dentro con tutti i vestiti addosso. A quel punto lo si sentiva pregare, rivolto verso Gerusalemme, chiamare a testimoni il cielo, l'acqua, lo Spirito Santo, l'angelo della preghie­ra, l'olio, il sale e la terra e promettere che non avreb­be più peccato né commesso adulterio, non avrebbe rubato né sarebbe stato irascibile, avido o sprezzante.

Esisteva anche una variante di questa preghiera, un criptogramma di parole aramaiche traslitterate in greco, uno scioglilingua incomprensibile anche per i seguaci di Elchasai. Il testo originale diceva: «Abar anid moib nochile daasim ane daasim nochile moib anid abar selarn». Che, più o meno, significava «lo sarò vostro testimone nel giorno del grande giudizio. Pace».

E dato che il battesimo elchasaita fungeva da rimedio contro quasi tutti i mali, lo stesso trattamen­to era consigliato anche in caso di tubercolosi o di possessione demoniaca: 40 immersioni in acqua fred­da per 7 giorni.

La setta sopravvisse a lungo, almeno fino alla fine del quarto secolo. Un tempo considerevole, se si pensa che tutta la dottrina elchasaita era contenuta in un unico libro, il Libro di Elchasai, che conteneva una profezia apocalittica a breve termine del tutto sballata.

La spiegazione della sua longevità non è da ricercarsi nella bontà dei riti magici elchasaiti e nemmeno nella salute di ferro dei suoi adepti, capaci di soprav­vivere a 40 immersioni consecutive in acqua fredda. La spiegazione sta tutta nella capacità di scampare alle persecuzioni cui furono sottoposti i cristiani dei primi secoli. In caso di estrema necessità, infatti, era consentito rinnegare Cristo e praticare il culto degli idoli. Se l'atto era meramente esteriore, infatti, Dio, il figlio di Dio e sua sorella lo Spirito Santo avrebbero di certo perdonato. Bastava che il gesto fosse disap­provato nel profondo del cuore e, per dimostrarlo, era sempre possibile invocare i sette testimoni sacri: cielo, acqua, Spirito Santo, angelo della preghiera, olio, sale e terra. Poi guardare verso Gerusalemme. Poi correre a gettarsi in un fiume.

 

 

Ofiti

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E se la disobbedienza di Adamo ed Eva rappresen­tasse un gesto di ribellione e l'inizio di un percorso di riscatto dell'umanità? E se il serpente tentatore non fosse stato un semplice tentatore ma l'essere che donò la vera Conoscenza agli uomini? E se il Dio dell'Antico Testamento non fosse altro che un Dio infe­riore, e malvagio, responsabile della prigionia del­l'uomo nell'Eden?

Di questo erano convinti gli Ofiti, spesso identifi­cati con un altro gruppo di gnostici del secondo seco­lo, i Nasseni. Il termine greco οϕιζ, che è l'equivalen­te di quello ebraico nàhàsh, significa infatti serpente.

Ora gli Ofiti, che appunto erano gnostici, e come tutti gli gnostici disprezzavano il mondo materiale, dicevano che la sofferenza non aveva niente a che vedere con la punizione voluta da un Dio buono. Magari questa sofferenza era provocata da un Dio malvagio che voleva che l'uomo soffrisse. Ma se le cose stavano in questo modo, allora doveva esistere un altro Dio, superiore a quello malvagio, che non era responsabile del mondo materiale e neppure della sofferenza che c'era dentro.

Questo Dio, secondo gli Ofiti, era un Dio perfet­tissimo e lontanissimo, inconoscibile e indescrivibile. All'inizio non c'era altro, solo lui. E visto che non c'era altro, se ad esempio si metteva a pensare, pensa­va sempre e soltanto a se stesso. Però, per il solo fatto di pensare, aveva reso il Pensiero un'entità a sé stan­te. In questo modo aveva emanato il Figlio (cioè, appunto, il Pensiero). Con un processo simile emanò anche altre entità che, a loro volta, ne generarono altre fino a creare un regno di entità divine e perfette: il mondo dello spirito. L'ultima di queste entità, Sophia, volle anche lei generare un figlio perfettissi­mo, ma fu una decisione disgraziata e quello che ne venne fuori fu un essere inferiore e malvagio, cioè il Dio del Vecchio Testamento. Che infatti si ribellò quasi subito, abbandonò il mondo dello spirito e creò il mondo della materia. E qui rinchiuse i primi uomi­ni, Adamo ed Eva. Allora Sophia, presa dai sensi di colpa, inviò il serpente con una missione ben precisa: spingere gli uomini a mangiare la mela proibita, il frutto che avrebbe risvegliato la loro conoscenza.

Gli Ofiti divennero noti per il loro culto del ser­pente. Lo preferivano perfino a Cristo, il quale, del resto, ne riconosceva la potenza sacra. E infatti, stan­do al Vangelo di Giovanni, ecco cosa disse a un certo Nicodèmo, un capo dei giudei: «Così come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che venga innalzato il figlio dell'Uomo».

Il serpente veniva perciò allevato dagli Ofiti con dedizione e addestrato meticolosamente. Uno di loro, presumibilmente un sacerdote, servendosi di potenti incantesimi, convinceva il serpente a venir fuori dalla tana e a seguirlo fino all'altare. Qui, dopo una spa­ventosa processione, si erano già radunati gli altri membri della setta. Il serpente, reso mansueto e obbediente grazie alla magia, avvolgeva nelle sue spire i pani della mensa. A quel punto, mentre anco­ra strisciava attorno agli arredi dell'altare, veniva baciato dai membri della setta. Al termine del rito, dopo che tutti avevano preso l'ostia, il serpente veni­va riportato alla caverna mentre una nuova proces­sione dei fedeli, questa volta allegrissima, lo seguiva in tripudio. E lì, nella tana, gli venivano offerti cibi di prima qualità mentre un gran numero di guardie restava a vigilare sul suo pasto.

 

 

Encratiti

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Il peccato originale venne commesso mangiando dell'uva. Di questo era sicuro Severo, un maestro gno­stico del secondo secolo, proveniente dalla Cilicia, in Asia Minore, che infatti considerava la vite una pian­ta diabolica nata del seme che Satana aveva fatto cadere quando si era unito con la Terra. E perciò il vino era il veleno con cui Satana offuscava la mente degli uomini. Questa versione del peccato originale si trova anche nell'Apocalisse di Abramo, un testo apo­crifo nel quale la pianta proibita dell'Eden era la vite appunto, e non il melo, e l'uva era il frutto che causò la cacciata dell'uomo dal paradiso terrestre. Questo spiega per quale motivo alcuni seguaci di Severo, durante l'Eucarestia, usavano l'acqua al posto del vino. E invece altri, che non si accontentavano della semplice astemia, se ne andavano in giro per le cam­pagne e appena avvistavano una vigna si davano alla devastazione oppure, se capitavano in una cantina, sfasciavano tutto e rovesciavano a terra il vino.

Già Dositeo, un altro predicatore che diceva di essere il Messia delle profezie, già lui aveva scritto otto libri nei quali spiegava che la materia era stata generata dall'atto sessuale e quindi, per accelerare la fine del mondo, bisognava osservare una rigida con­tinenza, astenersi dal mangiare carne e dal bere vino.

La dottrina di Severo aveva molti punti in comune con quella di Dositeo e degli Encratiti. Gli Encratiti (dal greco εγκρατεια, cioè appunto continenza) erano una setta gnostica a capo della quale, nel 172 d.C., c'era Taziano, un siriano che anche lui diceva che lo spirito buono doveva essere liberato dal corpo malvagio e, perciò, bisognava evitare il matrimonio, la procreazio­ne, la carne e il vino. Sperava così di raggiungere un totale dominio di sé, in modo da reprimere istinti e pas­sioni. Nonostante l'editto di Teodosio, che condannava a morte gli Encratiti, alla fine del quarto secolo la setta contava molti adepti, perfino in Francia e Spagna.

Ireneo di Lione li disprezzava per la loro ingratitu­dine verso Dio, creatore di tutte le cose, uva compre­sa. Fra l'altro, diceva, siccome vogliono tutti diventa­re maestri, prima o poi abbandonano la setta nella quale si trovano, modificano un po' la dottrina a par­tire da un'altra dottrina precedente, ancora un'altra a partire da un'altra ancora precedente, e a quel punto si proclamano autori di un sistema nuovo di zecca. Taziano per esempio, imitando Marcione, paragona­va il matrimonio alla fornicazione, esaltava l'astinen­za e considerava l'astemia una condizione necessaria perché la mente non venisse offuscata dal maligno e riuscisse a mantenere il dominio di sé. Ireneo gli rico­nosceva però una specialità, cioè la bestemmia della mancata salvezza di Adamo.

Sulla morte e la salvezza dell'anima l'astemio Taziano scrisse che l'anima non è immortale ma mor­tale. Se però arriva a conoscere la verità non muore. Al contrario, se non riesce a conoscere la verità si dis­solve con il corpo. Alla fine del mondo comunque se è morta, risorgerà con il corpo così da ricevere la morte nell'immortalità.

E insomma, a parte qualche passaggio un po' oscuro, Si puo dire che nella dottrina encratita la vera contrapposizione non riguardava due divinità una buona e l'altra cattiva, ma due regole di vita' una materiale e una spirituale. Quella di Adamo era materiale e infatti, dal giorno in cui si era scelto Eva l'unione carnale era diventata il primo passo deÌ breve cammino che, passando per generazione e cor­ruzione, portava dritto dritto alla morte. Quella del­l'Encratita era invece spirituale, poiché ricercava l'eq~ilibrio all'interno del corpo. E quando veniva raggiunto l'equilibrio, non era più possibile dire se il corpo era un corpo maschile o femminile visto che ormai era diventato un «tempio di vita spirituale».

Quindi la materia era malvagia: tutta la materia anche il corpo. Bisognava perciò evitare il benessere iÌ consumo di carnE e vino nonché il matrimonio, per­ché nel matrimonio avveniva l'unione con la donna.

Ora la donna, come dimostrava in maniera lam­pante la sua struttura fisica, appositamente creata per produrre, altra materia, era opera di Satana. Per que­sto motivo bisognava assolutamente evitare che bevesse vino.

Su questo punto erano tutti d'accordo, Encratiti e non. I più acerrimi nemici di Taziano non condivide­vano la condanna del vino e anzi pensavano che l'uva, come le altre cose create, provenisse da Dio e quindi disprezzarla significava disprezzare ciò che Dio aveva fatto. E disprezzare il vino era come bestemmiare, non si poteva né si doveva fare. Ma erano assolutamente certi che la donna non dovesse bere.

Per l'uomo, invece, bere un po' di vino faceva bene al corpo e all'animo. Solo berne troppo era vietato e infatti sant' Agostino diceva che «l'imbriachezza» era la radice dei misfatti, l'origine di tutti i vizi, il sovverti­mento dei sensi, la tempesta della lingua, la procella del corpo e il naufragio della castità. Angelo Paciucchelli, nel 1661 scrisse un trattato sulla pazienza nel quale, respingendo le tesi di Taziano e dell'Encratismo e riprendendo le parole di Clemente Alessandrino, affer­mava che il vino «rallegra l'uomo caduto in tante affli­zioni e miserie, restaura le sue forze languenti, riscalda e purifica il sangue, ravviva li spiriti, assottiglia l'inge­gno, sopisce le cure noiose e mordaci, concilia il sonno e conferisce molto alla sanità discacciando la malinco­nia, che tanto è nociva, e la tignuola del cuore».

Nel caso della donna il discorso era diverso. Come dicevano gli Encratiti, la donna non doveva bere vino, neppure una goccia. «Donna dedita al vino! - scrive­va Paciucchelli - dite pure che chiude la porta a tutte le virtù, l'apre a delitti, e sarà dedita a tutti i vizi; lasci­va, superba, ardita, oziosa, ciarliera, novelliera, curio­sa, bugiarda, insolente, e senza punto d'onore».

Fra l'altro, avendo un ruolo secondario nella tanto odiata procreazione, l'uomo aveva maggiori possibilità di entrare nel regno dei cieli, e per questo gli Encratiti dicevano che una donna, per potersi sal­vare, doveva rimanere astemia, poi farsi uomo e dopo perdere anche quello stato e diventare un «tem­pio di vita spirituale».

 

 

Adamiani

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In molti idealizzarono la nudità di Adamo nel Paradiso Terrestre. La si considerava, in un certo senso, il simbolo dell'innocenza dell'uomo prima del peccato originale, quando il corpo era semplicemente un dono di Dio e l'uomo e la donna non sapevano cosa fosse l'attrazione fisica e non sentivano l'esigen­za di accoppiarsi.

Per questo motivo gli Adamiani, membri di una piccola setta attiva fra il secondo e il terzo secolo, credevano che la loro chiesa fosse il Paradiso. Prima di entrare in Paradiso lasciavano i vestiti in una sorta di guardaroba celeste, quindi si riunivano in assem­blea nudi, nudi ascoltavano le letture, nudi pregava­no, nudi celebravano i sacramenti e sempre nudi mangiavano e bevevano.

Epifanio di Salamina si divertiva moltissimo a domandare se d'inverno, in Paradiso, venissero accesi fuochi per proteggersi dal freddo, come accadeva durante le assemblee degli Adamiani, i quali - aven­do l'obbligo di togliere i vestiti prima d'iniziare - improvvisavano il loro Paradiso in stanze riscaldate.

 

 

Paulianisti

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Dopo la parentesi persiana, Antiochia entrò a far parte del Regno di Palmira. Grazie alle vittorie otte­nute nella campagna militare del 262-264 d.C., Setti­mio Odenato restaurò in Oriente l'autorità imperiale. E Gallieno, riconoscente, gli diede il titolo di «re dei re» e l'autorità di principe di Palmira su tutta la pro­vincia della Siria.

Fu in quegli anni che Paolo di Samosata, già ses­santenne, divenne vescovo di Antiochia. La sua ele­zione aveva del clamoroso: era spuntato dal nulla, nessuno conosceva i suoi meriti, nessuno capiva in che modo avesse conquistato il favore sia del clero cittadi­no, sia dei vescovi e prelati della provincia. Il suo pas­sato era sconosciuto, si sapeva solo che era nato da genitori poverissimi. Il suo presente, invece, era sotto gli occhi di tutti: un presente di vizi e piaceri.

Per molti Paolo di Samosata era solo un parvenu, un arrampicatore con le mani in pasta, uno che si era dato da fare e non solo a chiacchiere. Con piccoli raggiri, scambi di favori, false promesse, estorsioni e corruzione divenne ricchissimo.

Nell'arco di pochi anni la sua carriera prese il volo.

Divenne vescovo di Antiochia e procurator ducenarius, cioè funzionario di rango equestre, con uno stipendio mensile che si aggirava intorno ai 200.000 sesterzi. La nomina gli valse anche il diritto alla sella curule, il sedile pieghevole simbolo del potere giudiziario, non­ché l'assegnazione di un gabinetto di segreteria. E non poteva mancare la scorta, un'intera squadra di guardie del corpo. Ma non era la sola protezione di cui gode­va. Fra gli appoggi politici più importanti c'era quello di Zenobia, moglie del re dei re, Odenato.

Tutto questo successo gli diede alla testa. Si circon­dò di un esercito di adulatori, sia laici che ecclesiasti­ci. In realtà sanguisughe della peggior specie. Quando usciva in pubblico si faceva accompagnare da una torma di cortigiani vestiti di porpora e seta. In certe occasioni lo precedevano cento ufficiali in uniforme super-chic, mentre altri cento cavalieri lo seguivano a poca distanza su cavalli ferocissimi anche loro iperde­corati. E non mancava il corteo delle donne.

In questo delirio di onnipotenza lo scranno vesco­vile gli parve una cosa troppo misera. Allora Paolo si fece costruire un trono come si deve e questo trono lo fece collocare su un pulpito altissimo e questo pulpito lo fece piazzare al centro della chiesa. Da lì teneva delle prediche che avevano poco a che fare con la reli­gione visto che si concentravano sui suoi meriti e sulle sue qualità, sui successi ottenuti e su quelli in arrivo.

E sotto al pulpito tutti a dirgli bravo e a battere le mani. I Paulianisti lo chiamavano «angelo disceso dal cielo». Se poi qualcuno osava manifestare il proprio dissenso veniva subito redarguito, i contestatori più agitati venivano picchiati dalla scorta.

Insomma, le celebrazioni nel tempio avvenivano in un'atmosfera un po' surreale, anche perché Paolo aveva abolito i sacri inni e li aveva fatti sostituire da altri, composti appositamente, che anziché lodare iddio celebravano la sua persona. E questi inni veni­vano cantati da donne a lui molto vicine. Altre anco­ra, ma sempre giovani e belle, se le teneva strette nella dimora episcopale.

Tutti comportamenti, diciamo così, poco adatti al suo ruolo. Paolo ne era consapevole e perciò, per evita­re che qualcuno creasse problemi, cercava l'appoggio e la protezione degli uomini più avidi e licenziosi. A que­sti offriva abbondanti regalie in cambio del silenzio.

L'appoggio più importante, comunque, gli venne sempre da Zenobia. La regina di Palmira, che era stata allieva del filosofo Cassio Longino, lo mandò a chiama­re perché desiderava qualcuno con cui discutere di que­stioni religiose. Paolo accettò l'invito e davvero discus­sero dei grandi misteri della fede. Sennonché, di fronte a quelli della Trinità e dell'incarnazione, non solo non riuscì a convincerla della loro realtà, ma anzi, per calco­lo opportunistico, si disse convinto dalle argomentazio­ni della regina circa la loro impossibilità.

La stima che in questo modo si guadagnò presso Zenobia lo rese ancora più spregiudicato. Non solo non abbandonò la vita dissoluta di sempre, ma ogni volta che entrava in chiesa e saliva i gradini del pulpi­to e dopo si metteva a sedere sul trono, partiva con delle prediche sconcertanti in cui sosteneva dottrine adozioniste: cioè che Cristo era essenzialmente un uomo, ispirato dallo Spirito Santo, ma pur sempre un uomo. Sforzandosi e soffrendo era riuscito a vincere il peccato originale e questo gli aveva permesso di unirsi a Dio. L'unione era avvenuta con il battesimo quando, cioè, era stato adottato da Dio. Anche la Trinità, quindi, non è che non esistesse, però il Padre era l'unica divinità, mentre il figlio era l'abitazione in cui lo Spirito Santo aveva preso dimora per ispirarlo e permettere l'unione con Dio.

A questo punto, però, cominciarono a farsi senti­re voci di dissenso anche sotto il pulpito. Da un lato c'erano i Paulianisti che lo acclamavano come l'ange­lo disceso dal cielo, dall'altro i cristiani che lo consi­deravano un eretico e che erano diventati troppo numerosi per essere ridotti al silenzio. E difatti Paolo fu obbligato a discolparsi in tre differenti concili, nel­l'ultimo dei quali venne scomunicato. Ma era ancora potente e per di più godeva dell'appoggio di Zenobia. Motivo per cui, se anche aveva perduto la dignità episcopale, tenne per sé il palazzo vescovile con tutti i tesori che c'erano dentro. E in verità, se l'imperato­re Aureliano non avesse sconfitto Zenobia, Paolo di Samosata sarebbe rimasto esattamente dov'era e alla prima occasione si sarebbe fatto rieleggere.

 

 

Discalciati

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Il Signore disse a Mosè: «sciogli i calzari dai tuoi piedi». E così alcuni eretici del terzo secolo sciolsero i proprio calzari e non li indossarono più. Dicevano infatti che un cristiano non poteva presentarsi al cospetto del Signore senza prima essersi cavato quel­le che Giovanni Tiepolo, nei suoi Discorsi et conside­razioni sopra il Santissimo Sacramento dell'altare, chiama «le pianelle dei disordinati affetti». Cammi­nando sempre a piedi nudi, invece, dimostravano di aver indossato «i calzamenti celesti» e imboccato la via dell'innocenza e della purezza.

I discalciati, quindi, andavano a piedi nudi non per fare penitenza ma perché erano convinti di rispet­tare un comandamento divino. E in questo consisteva la loro eresia.

 

 

Patriziani

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L'arcangelo Michele e Giovanni Evangelista com­parvero in sogno al cartaginese Patrizio e gli svela­rono il mistero dell'universo in generale e dell'uomo in particolare. Ovviamente Cristo era a conoscenza della verità su questo mistero, ma l'aveva tenuta na­scosta. Le persone che si era scelto come discepoli non avrebbero capito il messaggio esoterico in essa contenuto. Invece Patrizio, in quanto mago e astrolo­go, era perfettamente capace di intenderlo.

E dunque cosa conteneva questo messaggio, qual era la verità sul mistero dell'uomo? Era questa: Dio inviò sulla terra anime libere che aspiravano alla bea­titudine celeste. Però il Diavolo creò i corpi e li utiliz­zò per rinchiudervi le anime. Che, per il fatto stesso di esservi imprigionate, erano costrette al peccato. Solo la morte le avrebbe liberate da questo stato di schiavitù. Perciò la morte era un evento positivo, da desiderare addirittura.

Patrizio andò predicando questa verità in Norda­frica, nei territori della Numidia, a cavallo fra il terzo e il quarto secolo, riscuotendo anche un certo succes­so. Attirò infatti molti seguaci e questi seguaci, chia­mati Patriziani, diffondevano le sue invettive contro la corporeità e, in generale, contro la condizione umana.

Visto che il corpo era stato creato dal diavolo, ritenevano giusto mortificarlo e per questo si abban­donavano a sodomia e coprofagia. In molti poi sce­glievano il suicidio. Fra questi molti non c'erano sol­tanto poveri contadini, ma anche giovani di nobili famiglie. Le autorità imperiali presero le dovute con­tromisure. Patrizio fu arrestato e decapitato.

Idealmente si può dire che il testimone venne rac­colto dai Paterniani, membri di un'altra setta più o meno coeva. Anche loro credevano che il corpo fosse opera del Diavolo. Ma non tutto il corpo. Solo la parte inferiore, dai fianchi fino ai piedi. Quella supe­riore, invece, era opera di Dio. Dio e il Diavolo, insomma, si erano messi d'accordo e spartiti i compi­ti per fare l'uomo. A Dio spettavano le parti compre­se fra la testa e lo stomaco, dove risiedevano i buoni pensieri e l'onesto linguaggio; al Diavolo, le parti basse, da cui nascevano le pulsioni negative, prime fra tutte quelle sessuali. Per conservare pura la pro­pria anima i Paterniani dovevano perciò mortificare le parti dalla vita in giù, ad esempio il retto e gli orga­ni genitali, motivo per cui la sodomia era ancora ammessa, la coprofagia no.

 

 

Ieraciti

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Fra i discepoli di Origene ci fu un asceta egizio, di nome Ierace, che visse fra il terzo e il quarto secolo e che fondò a Leontopolis, sul delta del Nilo, in una località che oggi è chiamata Tell el-Muqdam, una setta che da lui prese il nome.

Ai membri della setta, che potevano essere sia uomini che donne purché adulti e non sposati, diceva di aver sognato Melchisedec o, più precisamente, lo Spirito Santo nella forma di Melchisedech. Da questo aveva saputo che non ci sarebbe stata nessuna resur­rezione della carne visto che la lotta tra il Bene e il Male era tutta spirituale.

Ora, dato che solo gli adulti potevano ingaggiare una simile lotta e, quindi, guadagnarsi l'accesso al Regno dei Cieli, i bambini venivano profondamente disprezzati. Perciò, quando uno Ieracita incontrava un bambino, doveva fargli violenza, perseguitarlo e, se le circostanze lo permettevano, ucciderlo.

 

 

Valesii

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Ai discepoli che sollevavano dubbi sul suo modo di giudicare l'adulterio, Gesù rispose che non tutti potevano capirlo. C'erano infatti uomini che erano eunuchi dalla nascita, altri che lo erano diventati, infine quelli che si erano fatti eunuchi per meritar si il regno dei cieli. «Chi può capire, capisca» disse Gesù.

Essendo un filosofo, Valesio capiva perfettamente: c'era chi nasceva eunuco per volere divino, chi lo diventava perché, per esempio, era uno schiavo o un prigioniero di guerra, chi sceglieva l'auto-castrazione perché nessuno, neppure un verme, si sarebbe salvato senza essere eunuco. Tantomeno un uomo dai bollen­ti spiriti, un uomo vittima del desiderio, incapace di controllarsi nonostante l'aiuto della grazia. Perciò, per diventare puro e servire il Signore, Valesio decise di evirarsi.

Una volta diventato puro Valesio fondò una setta, presso il Giordano, i cui membri vennero chiamati Valesiani o Valesii. In genere si trattava di persone dal temperamento impetuoso, che accettavano volen­tieri l'idea di evirare se stessi e all'occorrenza anche altri. Siccome le Sacre Scritture chiedevano all'uomo di aiutare il prossimo, mutilavano anche persone estranee alla loro setta. Non farlo avrebbe significato lasciarli in condizione di infermità e delirio. Insom­ma, bastava che qualcuno accettasse la loro ospitali­tà o che si dimostrasse interessato alle loro dottrine, bastava semplicemente che passasse dalle loro parti, che quelli si sentivano autorizzati a saltargli addosso per tagliargli i testicoli. Se il malcapitato, com'è ovvio supporre, si dibatteva e cercava di ribellarsi con ogni mezzo alla mutilazione, i Valesii lo legavano e dopo, con delle strette cordicelle, praticavano l'evirazione. Poi, una volta compiuto il misfatto, e sempre ammes­so che l'evirato restasse in vita, lo curavano e per consolarlo gli permettevano di mangiare qualunque cibo, anche quelli solitamente proibiti.

Attorno alla metà del terzo secolo le contrade da loro abitate erano già tristemente famose e i viaggia­tori ne avevano un sacro terrore.

La Chiesa, comunque, prese posizione contro la pratica della castrazione. Il problema venne affronta­to nel concilio di Nicea (325 d.C.), che adottò un apposito canone contro gli eunuchi. Ma la volontà di reprimere qualunque eresia che incoraggiasse la castrazione e l'ossessione di evitare l'elezione di un pontefice eunuco, fecero nascere una strana leggenda stando alla quale, a partire dal nono secolo, il papa neoeletto veniva sottoposto al rito della palpazione dei testicoli, un esame che avveniva facendolo sedere su uno scranno di porfido rosso nella cui seduta era presente un foro. I più giovani tra i diaconi avevano il compito di tastare sotto la sedia e, una volta accerta­ta la presenza degli attributi virili, gridare «virgarn et testiculos ha bet». Al che, gli ecclesiastici presenti rispondevano: «Deo gratias».

 

 

Fibioniti

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Phibyon era originariamente il diacono di una chiesa della Cirenaica. Venne però allontanato a causa delle sue strane idee sulla divinità. Pare le aves­se anche trascritte in un Vangelo, poi andato distrut­to. In questo Vangelo c'erano delle cose che non dovevano essere molto diverse da quelle contenute nel Vangelo di Maria, ritrovato a Nag Hammadi. E quindi anche lì, probabilmente, si parlava di Barbelo, la prima emanazione di Dio, un Eone fatto di Luce cosmica. Questo Eone aveva a sua volta emanato lal­dabaoth (o Sabaoth), che un giorno rubò la Luce cosmica di Barbelo e con quella creò il mondo infe­riore. Ogni cosa del mondo inferiore aveva perciò una scintilla rubata al potere di Barbelo. E Barbelo, per recuperarla, cercò di sedurre gli altri Eoni per riprendersi la loro Luce cosmica.

Questo perché, secondo Phibyon, l'essenza di Dio era la Luce cosmica e questa era racchiusa nello sperma maschile, nel mestruo femminile e nel liquido amnioti­co. La luce cosmica, infatti, era piovuta dal cielo nelle tenebre del mondo e qui aveva invaso tutta la materia e gli esseri viventi. La carne, insomma, era diventata la prigione della Luce cosmica. Mettere al mondo dei figli, in quest' ottica, voleva dire creare nuove prigioni. Allo­ra i Fibioniti, per un verso combattevano il passaggio della sostanza divina da un corpo all'altro, da una pri­gione all'altra, rifiutando di fare figli, per altro verso favorivano la liberazione della Luce cosmica e la rico­stituzione dell'unità spirituale primordiale, facendo degli strani riti che noi oggi conosciamo perché ci sono stati riferiti da alcuni padri della Chiesa.

Per esempio Epifanio di Salamina, che visse nel quarto secolo, racconta di aver assistito di persona a questi riti che, tanto per cominciare, si aprivano con dei sontuosi banchetti a base di carne e vino. E dopo, quando il vino faceva il suo effetto, qualcuno si lan­ciava in balli ad alto tasso erotico, qualcun altro teneva discorsi osceni. Spesso si trattava di sacerdoti che, con le loro parole, preparavano le anime all'ascesa verso la purezza dello spirito. Quanto ai corpi, questi dovevano essere liberati dagli stimoli e dagli appetiti sessuali. E perciò, finite le danze ritua­li, si facevano delle grandi orge che finivano tutte con bevute collettive di Luce cosmica.

Infatti, visto che rifiutavano categoricamente di metter al mondo dei figli, gli uomini, durante l'accoppiamento, stavano ben attenti a estrarre il pene un attimo prima dell'emissione seminale. Si trattava di un rituale alquanto faticoso che, stando al raccon­to di Epifanio, si ripeteva 730 volte. Questo perché i Fibioniti pensavano che ogni due volte, grazie al coi­tus reservatus, venisse raggiunta una tappa dell'asce­sa attraverso i 365 cieli esistenti. Il liquido seminale veniva poi raccolto, mescolato agli altri ingredienti della Luce cosmica, infine bevuto.

Il metodo non era molto sicuro. La sua efficacia contraccettiva, ancora oggi, è stimata in 10-18 gravi­danze su 100 donne/anno. E allora succedeva abba­stanza spesso che una donna restasse incinta. In questi casi si ricorreva all'aborto. Però il feto non veniva sepolto, veniva pestato in un mortaio, mischiato a miele, pepe, aromi e altri condimenti, e dopo veniva mangiato recitando una preghiera con la quale si ammetteva di essere stati presi in giro dall' Arconte della Voluttà, ma si diceva anche di aver rimediato raccogliendo e ingerendo l'errore del fratello fibionita.

Naturalmente mangiare un feto non era una cosa piacevole, nemmeno col miele, il pepe e tutto il resto e, se si poteva evitarlo, lo si evitava. Per questo moti­vo le orge maschili erano considerate le migliori, per­ché non c'erano rischi e tutto si volgeva in modo più rilassato, senza ansie da coito interrotto.

Naturalmente in questo racconto ci sono molte esagerazioni. Se, per dire, gli invitati alle cerimonie dei Fibioniti erano per lo più sodomiti e uomini sessual­mente iperdotati e, per quanto riguardava le donne, meretrici e ninfomani, se è vero che c'erano anche ermafroditi, a un certo punto non si capisce bene cosa ci facesse lì Epifanio e a che titolo fosse stato invitato.

 

 

Abeliani

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Nella periferia di Ippona, nell'odierna Algeria, abitavano - sul finire del quarto secolo - certi conta­dini cristiani, detti Abeliani, che seguivano una ferrea regola di condotta per cui era lecito sposarsi ma non era ammesso procreare e nemmeno, in generale, avere rapporti sessuali. Allora questi contadini, che pure desideravano avere figli, li adottavano. Un maschio e una femmina. E dopo, quando cresceva­no, li educavano dicendo loro che bisognava rimane­re casti.

Gli Abeliani infatti erano convinti che Adamo ed Eva si fossero amati in modo (quasi) platonico e che Abele, che era stato concepito in uno dei rari amples­si della coppia, fosse stato anche lui sposato ma in un rapporto di tipo spirituale. Tant'è che non ebbe figli. Quando poi Caino lo uccise, Adamo si disperò al punto da non toccare più Eva per almeno cent'an­ni. Dopo la toccò e nacque Set, da cui derivò tutta la discendenza biblica a partire dal primogenito Enos. Fra l'altro quando Enos venne al mondo, Set aveva centocinque anni.

 

 

Circoncellioni

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Quando Felice di Aptonga consacrò Ceciliano arcivescovo di Cartagine, nel 3 I I d.C., furono in molti a dire che quella consacrazione non era valida, che Ceciliano non era arcivescovo e che Felice di Aptonga era un traditore, cioè uno di quelli che durante le persecuzioni anticristiane avevano conse­gnato i Libri Sacri alle autorità. Fra quelli che dice­vano queste cose ci fu un teologo, Donato, che poi chiamarono il Grande. Donato il Grande sosteneva due cose: primo, che i vescovi peccatori e i preti pre­varicatori non appartenevano più alla Chiesa e secondo, che fuori della vera Chiesa tutti i sacramen­ti erano invalidi. I Donatisti, cioè i molti che seguiro­no l'eresia di Donato il Grande, dissero che anche tutti i fedeli che restavano in comunione con vescovi e preti peccatori non appartenevano più alla chiesa e perciò andavano cacciati. Per cacciarli i Donatisti avevano delle squadre d'assalto, bande di ex conta­dini, gruppi di lavoratori agricoli stagionali che offrivano le braccia per i lavori di mietitura e di rac­colta delle olive. Vennero soprannomi nati Circoncel­lioni, forse perché gironzolavano vicino ai magazzi­ni, forse perché andavano di casa in casa predicando la dottrina donatista, forse perché quel nome, Cir­concellione, richiamava la variante circellio, un ter­mine che negli spettacoli teatrali indicava l'erezione del pene.

Comunque loro, i Donatisti, si definivano agoni­stici, cioè combattenti, atleti di Dio, gente in lotta contro il saeculum e decisa a seguire l'esortazione di Paolo, a costituire cioè una «militia Christi». Erano probabilmente di razza berbera. Giravano accompa­gnati da donne non sposate, giocavano, bevevano ed erano armati. Però, siccome a Pietro era stato detto di riporre la spada nel fodero, usavano soltanto bastoni, che chiamavano Israel.

Al grido di «Deo laudes» prendevano a bastonate i vescovi peccatori e i preti prevaricatori, mettevano una mistura di calce e aceto sugli occhi dei traditores, malmenavano i proprietari terrieri e costringevano gli agenti delle tasse a cancellare i debiti dei contadi­ni. I Circoncellioni si presentavano come il rimedio all'ingiustizia sociale, la speranza di liberazione dai debiti e dalla schiavitù. Sia Ottato di Milevi che Ago­stino raccontano di come i padroni, tirati giù dai loro carri e legati alle stanghe al posto dei muli, venissero costretti a scorrazzare gli schiavi che, intanto, stava­no seduti alloro posto.

Intorno alla metà del quarto secolo, nell' Africa romana, i Circoncellioni portavano scompiglio un po' ovunque e minacciavano l'ordinamento sociale. Ma proprio questa doppia natura, religiosa e politi­ca, li condannò alla repressione più dura. Si diffuse così, fra i monaci eretici, un'epidemia suicidaria. Il suicidio era diventato una vocazione, se così si può dire, e molti lo consideravano una specie di martirio. Il nuovo martire era il combattente di Dio, colui che lottava contro il secolo dominato dal male, cioè dal­l'autorità imperiale e da quella religiosa.

Fra l'altro i Circoncellioni esprimevano una parti­colare creatività nel suicidarsi: molti si buttavano da dirupi e burroni, alcuni si annegavano, altri si butta­vano nel fuoco o, se c'erano degli spiedi, si lanciavano contro le punte morendo trafitti e in preda a una furiosa pazzia. C'erano poi quelli che, a forza di pro­vocazioni, spingevano i militari a reagire e a ucciderli. I più furbi annunciavano a destra e a manca l'inten­zione di diventare martiri e così, fintanto che non si uccidevano, venivano nutriti come si nutrono gli ani­mali prima di macellarli. Il metodo più fantasioso consisteva nel fermare un passante e minacciare di ucciderlo se non li avesse uccisi a sua volta. Non che andasse sempre bene. Teodoreto di Cirro racconta che una volta alcuni Circoncellioni fermarono un giovane e gli offrirono una spada affinché li colpisse, avver­tendolo che, se si fosse rifiutato, lo avrebbero ucciso. Allora il giovane disse che accettava ma solo se, per evitare che qualcuno cambiasse idea e decidesse di vendicarsi, gli veniva permesso di legarli. E così dopo, una volta legati, invece di ucciderli li prese a bastona­te. Poi se ne andò per la sua strada.

 

 

Ariani

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Uno dei conflitti dottrinali più avvincenti fu quel­lo fra il presbitero Ario - che si occupava di insegna­mento della Scrittura presso la Chiesa di Baucalis, un quartiere di Alessandria - e il suo vescovo, Alessan­dro. La disputa ruotava attorno al grado di divinità di Cristo. Il ragionamento di Ario era semplicissimo:

Gesù è il figlio di Dio e perciò non esiste dall'eternità ma solo da un certo momento in avanti, cioè da quando è stato creato (e non generato, visto che la natura divina è indivisibile).

Per tutta risposta il vescovo Alessandro scrisse una lettera enciclica nella quale definiva Ario una specie di Anticristo, gli Ariani nemici di Dio e assas­sini della divinità di Cristo, la loro eresia peggiore di tutte le precedenti. Lo fece anche condannare da un sinodo di vescovi dell'Egitto e della Libia e a quel punto Ario dovette lasciare la parrocchia.

Ma la questione della divinità del Figlio non era ancora risolta. Nel 325 d.C. l'imperatore Costantino riunì un concilio generale a Nicea sperando in una pronuncia chiara sulla dottrina di Ario. In effetti, grazie al teologo Atanasio, il concilio decretò la per­fetta uguaglianza del Padre e del Figlio adottando il termine homooùsios (consustanziale) e smentendo clamorosamente Ario. Naturalmente per la Chiesa era essenziale basare il proprio potere sulla divinità di Cristo. Un dio minore, com'era il Cristo di Ario, ne avrebbe sminuito l'autorità.

Questione risolta? Nemmeno per sogno. Influen­zato dalla sorella Costanza e dal vescovo Eusebio di Nicomedia, per il quale il termine consustanziale can­cellava colpevolmente ogni distinzione tra Padre e Figlio, Costantino richiamò Ario dall'esilio chieden­dogli di modificare la sua professione di fede in una forma, diciamo così, più accettabile. Richiesta che Ario assecondò affermando che Padre e Figlio erano in sostanza simili.

Gli Ariani furono presi in contropiede. I più radi­cali restarono fedeli alla dottrina iniziale di Ario e continuarono ad affermare che il Figlio non era per niente simile al Padre. Per questo furono chiamati Anomei. I moderati dissero invece che il Figlio era in sostanza simile al Padre, e vennero perciò definiti Omeousiani o Semi ariani (lo stesso Ario diventò, paradossalmente, Semiariano). C'erano poi quelli che sostenevano una terza posizione, e cioè che il Figlio era simile al Padre, senza però aggiungere «in sostan­za». Furono detti Omei.

Una questione di sostanza, quindi. Una questione talmente complicata che ancora venticinque anni dopo, quando Costanzo II provò a mettere un po' d'ordine durante i sinodi di Sirmio, sopravvivevano le stesse distinzioni.

Si trattava però anche di una questione personale fra Ario e Atanasio. Secondo gli storici Socrate Scola­stico e Sozomeno, Ario era un personaggio ambiguo, per un verso mistico, per altro verso molto pratico delle cose del mondo. Un erudito ma anche un divul­gatore. Scrisse un'intera raccolta di canzoni (Thalia) di argomento teologico. Filostorgio la recensì favore­volmente, notando l'arrangiamento perfetto di uno spirito evangelico. I suoi detrattori, invece, lo giudica­rono un prodotto scadente concepito per riscuotere facili consensi, intriso di slogan, dolci cantilene e stuc­chevoli melodie.

Forse per via delle dolci cantilene oppure grazie alle stucchevoli melodie, Ario, come una moderna rock star, riscosse enorme successo fra le giovani donne. Nella sola Alessandria 70 ragazze, che erano diventate sue discepole, si prendevano cura di lui.

Ario si era anche scelto uno stile particolare, un misto fra l'asceta e il filosofo.

Il suo rivale Atanasio era di tutt'altra pasta. La chiesa ne ha fatto un santo, ma alcune fonti lo dipingono come un uomo amorale e violento, che ricorse a ogni mezzo, anche l'omicidio, per raggiungere i suoi scopi. Perfino la sua elezione al patriarcato d'Ales­sandria sarebbe avvenuta in modo illegittimo, propi­ziata dalla diffamazione, dalla violenza e dall'elimi­nazione fisica degli avversari.

Nelle inchieste promosse dagli uomini di Eusebio di Nicomedia, venne riconosciuto colpevole di ribel­lione, sedizione e di uso tirannico del potere episco­pale, di assassinio, sacrilegio e di magia.

Nella santa lotta per la consustanzialità del Padre e del Figlio, a causa della quale fu costretto all'esilio cinque volte, Atanasio non avrebbe esitato a falsifica­re documenti e ordinare il pestaggio degli avversari. E non si fa fatica a crederci, se è vero che si attribuì il merito per la morte dell'ormai ottantenne Ario. Nella versione di Atanasio l'eresiarca sarebbe morto in una latrina di Costantinopoli, fulminato dalle sue preghie­re: «non fu sì tosto entrato che venne meno ed evacuò insieme le intestina, la milza, il fegato, il sangue, e morì crepando per mezzo, come un altro Giuda».

Comunque, dopo un anno appena dalla sua morte, l'imperatore Costanzo II cercò di trovare una quadra nel concilio di Sirmio. Ma anziché venire a capo della questione della consustanzialità, si ritrovò in mano un nuovo problema. Non solo le formule di fede ariana erano salite a quattro, ma una di queste, cioè quella che definiva il Figlio simile al Padre senza accennare alla sostanza, venne sottoscritta da Papa Liberio. La situazione si fece talmente grave che san Girolamo, parlando di questo periodo, disse: «L'universo gemet­te nello sbalordimento di vedersi diventato ariano!»

Il tramonto dell'arianesimo, quindi, doveva essere decretato per via politica e non teologica. Alla morte di Costanzo II, salì al potere Giuliano, conosciuto come l'Apostata, che aveva abbracciato il paganesi­mo. Forse nella speranza di creare nuove divisioni all'interno della Chiesa, rispedì alle proprie diocesi tutti i vescovi esiliati. Ma non fece in tempo a veder realizzato il progetto che morì, nel 363 d.C. I suoi successori, soprattutto Teodosio, non solo furono molto tolleranti con il cristianesimo, ma diedero un contributo decisivo all'ortodossia e, indirettamente, alla soluzione della questione della divinità del Figlio.

Ed ecco, si poteva finalmente passare al problema successivo: se Cristo, infatti, era della stessa sostanza del Padre, cosa si doveva dire della Madre?

 

 

Colliridiani

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Nella regione che oggi è compresa fra nord della Grecia, sud della Bulgaria e Turchia europea, nacque, alla fine del quarto secolo, la setta dei Colliridiani. Si trattava per la maggior parte di donne. La loro dottrina era basata sul culto di Maria, vergine e santa, alla quale delle sacerdotesse offrivano in sacrificio focacce (colli­ria). Queste focacce erano di pane biscottato, venivano sistemate su una sedia coperta da un telo di lino e pote­vano avere la forma di un disco o di una stella. Oppor­tunamente allungate prendevano la forma dell'organo sessuale femminile. Venivano lasciate sulla sedia per tre giorni, dopo venivano mangiate.

 

 

Apollinaristi

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Il concilio di Nicea aveva cominciato a mettere alcuni punti fermi riguardo al mistero della Trinità che, pur restando un mistero, permetteva comunque di essere descritto anche se in modo approssimativo. Padre, Figlio e Spirito Santo erano le tre ipostasi di una sola divina identità. Fra queste solo il Figlio aveva un doppia natura: umana e divina.

Ora, questa doppia natura richiedeva un notevole sforzo intellettuale e implicava la capacità di trovare il giusto equilibrio fra umano e divino, senza privile­giare o sminuire nessuno dei due.

L'ortodossia nascente, in un certo senso, intuiva che fra i cristiani c'era la tendenza a collocare il Padre leggermente sopra al Figlio. Per reazione riaffermava con enfasi la natura divina del Figlio, non meno divi­na di quella del Padre. Allo stesso tempo però doveva garantire dignità e consistenza alla sua natura umana. Per la salvezza dell'uomo, infatti, era necessario un sacrificio reale e non apparente. Sicché a morire cro­cefisso doveva essere un Cristo in carne e ossa.

Come ciò fosse possibile era un bel problema. Apol­linare, vescovo di Laodicea, si diceva d'accordo con le conclusioni del concilio di Nicea ma, allo stesso tempo, era convinto che definire Cristo umano in ogni sua parte, significava mettere in secondo piano la sua natu­ra divina. Perciò aveva elaborato una dottrina che, pur non essendo la cosa più facile da capire, riscosse un certo successo. Il presupposto era che la natura divina non potesse rimanere distinta da quella umana. Perciò l'anima e il corpo di Cristo erano umani, mentre la ragione, che in un uomo avrebbe dovuto essere fallibi­le, era sostituita dal Verbo divino, cioè dal Logos.

Nonostante fosse stato una delle principali colonne della Chiesa nella lotta contro le eresie e uno dei teolo­gi di maggiore erudizione e talento, Apollinare venne condannato dal concilio di Costantinopoli del 381 d.C. La Chiesa bandiva la dottrina di Apollinare per­ché questa, lo si capiva benissimo, non ammetteva una vera incarnazione. Se Cristo manteneva il Logos divi­no al posto della ragione, allora la sua umanità era solo parziale, limitata a corpo e anima e non anche alla ragione. Perciò, non era dotato di libero arbitrio e non aveva nemmeno scelto di andare incontro a un sacrificio che, fra l'altro, non aveva realmente patito.

Apollinare continuò a professare la sua dottrina e a difenderla in vari scritti, specialmente due volumi che erano poi la sua summa teologica. Quand'era già vecchio, affidò questi libri a una donna di Antiochia che era stata sua discepola e, forse, amante.

Un giorno Efrem Siro venne a conoscenza dell'esi­stenza dei libri e del luogo dov'erano custoditi. Ben­ché destinato alla santità, non si fece scrupoli a ingannare la donna dicendole che era un apollinarista e che sperava di poter approfondire le dottrine del maestro leggendo i suoi scritti. In questo modo riuscì a farsi affidare i due libri per qualche tempo. Allora, usando della colla di pesce, incollò fra loro tutte le pagine. Poi, come niente fosse, li restituì alla donna. Tanti ringraziamenti e arrivederci.

Però il perfido Efrem non era ancora soddisfatto.

Sapeva che Apollinare, ormai avanti con l'età, s'era un po' rimbambito e faceva fatica a ricordare le cose. Sicché, quando ne ebbe l'occasione, lo coinvolse in una discussione pubblica su argomenti di carattere religio­so, in particolare sulla Trinità e sulla natura del Figlio. Apollinare faceva fatica a ribattere colpo su colpo a tutte le obiezioni che gli venivano mosse. Incespicava, balbettava, si correggeva. Alla fine disse che sarebbe stato perfettamente in grado di dimostrare la verità di tutte le sue affermazioni se soltanto gli avessero per­messo di prendere i libri che aveva scritto. Dentro, infatti, c'erano le risposte a tutte le domande. Efrem disse che per lui non c'era problema. I libri vennero portati e l'eretico se li mise di fronte pronto a smentire i suoi avversari. Solo che poi, quando si trattò di rispondere alla prima domanda, provò a sfogliarli ma si accorse che le pagine erano diventate un blocco unico. Cercò con pazienza di separarle una per volta. Ma per quanto cercasse di far piano i fogli si strappavano e diventavano illeggibili. Allora capì che quel lavoro era completamente inutile e li scaraventò a terra, li calpestò furiosamente e abbandonò la discussione. La rabbia e la delusione però gli montarono dentro, lo fecero ammalare e, in breve tempo, lo portarono alla morte.

 

 

Antidicomariti

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Non tutti pensavano di dover venerare la Vergine Maria. Gli Antidicomariti, per esempio, neanche ci credevano alla verginità di Maria. Il loro maestro, Elvidio, giudicava il matrimonio una condizione migliore del celibato. Per dimostrare che aveva ragione disse che Maria era rimasta vergine dopo la nasci­ta di Gesù ma poi aveva continuato il suo matrimo­nio con Giuseppe. Da brava moglie gli aveva dato altri quattro figli: Giacomo, Giuseppe, Simone e I Giuda. I nomi, diceva, non li aveva inventati, erano scritti nero su bianco nei Vangeli. E sempre nei Van­geli si parlava anche delle sorelle di Gesù.

Naturalmente un esercito di teologi era pronto a fornire le spiegazioni più diverse. Girolamo di Stri­done, che attaccò frontalmente l'eresiarca nel Contro Elvidio, diceva che si trattava dei figli della sorella di Maria. Epifanio di Salamina era convinto si trattasse dei figli di un precedente matrimonio di Giuseppe. E ì poi c'erano tutti quelli che elencavano i vari significa­ti della parola fratello nella Bibbia: cugino, parente, membro della stessa tribù e via dicendo.

Elvidio, comunque, venne scomunicato nel 390 d.C., attaccato e insultato un po' da tutti, quand'era in vita e anche dopo. Per esempio Ildefonso di Tole­do, nella sua Risposta a Elvidio, dopo aver così spie­gato la verginità di Maria: «Nessuno con lui è entra­to, nessuno è uscito; nel penetrarla nessun compa­gno, nell'uscirne nessun simile. Come sia entrato nes­suno sa, come sia uscito solo l'uscita sa», si augura: «che il chiavistello dei denti spranghi il sepolcro di quella bocca; la paralisi della lingua soffochi la fossa di quella bocca; il respiro diserti le cavità del palato; la torpidità dell'aria serri l'estremità delle labbra acciocché non erompa il fetore di tali parole».

 

 

Messaliani

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Ci furono poi quelli che dicevano che a causa del peccato originale di Adamo, l'uomo aveva dentro un demone e questo demone se ne stava attaccato all'ani­ma, rendendola stupida e imbecille, e non c'era verso di disfarsene, nemmeno con la mediazione della Chie­sa, neppure con il battesimo, tanto meno con tutti gli altri sacramenti. L'unica maniera per espellerlo era pre­gare, ogni momento, pregare di giorno e di notte, da soli o in compagnia, pregare ad alta voce oppure in silenzio. Per questo motivo presero il nome di Messa­liani, che in aramaico vuol dire preganti (da mètzalini. Per lo stesso motivo vennero anche chiamati Euchiti, perché in greco ευχομαι vuol dire pregare. Invece fra loro si chiamavano Pneumatici, essendo convinti di essere ispirati dallo Pneuma, cioè dallo Spirito Santo, che poi - grazie alle loro preghiere li aiutava a scac­ciare il demonio e a unirsi a Dio. Lo Spirito Santo infatti, e così anche il Padre e il Figlio, potevano essere percepiti dall'uomo. Ma non in senso figurato, con il cuore, per dire, o con la mente. Potevano essere perce­piti con i sensi. E questo era possibile solo pregando e siccome i Messaliani pregavano senza sosta, certe volte aiutandosi con una danza durante la quale facevano dei gran balzi come per avventarsi sul demone che li perseguitava, ecco che a un certo punto - ispirati dallo Spirito Santo e in preda all'entusiasmo, motivo per cui erano anche detti Entusiasti - arrivavano a percepire Dio. Si liberavano così dal demonio, che usciva loro di bocca sotto forma di una scrofa coi porcellini, si sepa­ravano dal mondo e dalle passioni, e dopo tre anni di astinenza e digiuno raggiungevano l'apatia, cioè un grado di perfezione assoluta. E lì, in quello stato di apatia, avveniva l'unione con lo Spirito Santo. A quel punto, visto che avevano raggiunto lo stato di grazia, non potevano più peccare, neanche volendo. Motivo per cui molti Messaliani ne approfittavano per com­mettere atti di lussuria e violenza.

Fra l'altro, visto che per raggiungere lo stato di grazia erano sempre impegnati a pregare, anche di notte, i Messaliani erano un po' scombinati, si addor­mentavano di giorno, mangiavano a qualunque ora, avevano delle visioni e facevano delle profezie che puntualmente non si avveravano, non si tagliavano mai i capelli, non avevano tempo né voglia di lavora­re. Anzi, incoraggiavano l'astensione da ogni attività manuale, che consideravano indegna dell'uomo spiri­tuale. A chi li accusava per questo di essere dei vaga­bondi senza legge, degli anarchici senza capo né radi­ce dei malati di mente ossessionati dalla preghiera rispondevano che ad esempio Maria, seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua voce lasciando invece a Marta il compito di sbrigare ogni lavoro.

E infatti una volta alcuni monaci Messaliani anda­rono in visita dall'abate Lucio il quale gli chiese: qual è il vostro lavoro? E quelli risposero che non avevano un lavoro perché lavorare li distoglieva dalla preghiera, fra l'altro un lavoro manuale era cosa indegna. Sicché loro campavano di elemosina e però pregavano continua­mente. Allora l'abate chiese: e non mangiate? Certo che mangiamo. E quando mangiate come fate a pregare? Silenzio. E dormire, dormite? Certo che dormiamo, risposero i Messaliani. E quando dormite, scusate, come fate a pregare? Di nuovo silenzio. Va bene, disse il vecchio, io comunque mentre lavoro riesco a pregare. E fra l'altro lavorando tutti i giorni guadagno più o meno sedici soldi. Due di questi soldi li do in elemosina. Chi riceve questi due soldi prega per me mentre mangio e mentre dormo. E insomma, mi sembra che qui, se c'è uno che prega continuamente, quello sono io.

Questo dialogo si sarebbe svolto a Ennaton, e in effetti i Messaliani erano molto diffusi in Siria, Cap­padocia e Asia Minore. Eppure non ebbero vita faci­le: il vescovo di Antiochia, Flaviano, li perseguitò per più di dieci anni, in Palestina e Panfilia, torturandoli e mettendoli al rogo. Litoio, vescovo di Melitene, bruciò il loro monasteri. I Messaliani vennero con­dannati nel concilio di Side del 390 d.C., poi nel con­cilio di Efeso del 431 e ancora nel secondo concilio di Efeso del 449 (più noto col nome di «brigantaggio di Efeso»). Un simile accanimento, forse, non dipende­va dal fatto che pregavano sempre, piuttosto dal fatto che non lavoravano mai.

 

 

Retoriani

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Nel trattato Delle varie eresie di Filastrio, fra le varie eresie viene annoverata quella dei Retoriani, seguaci di un certo Retorio, un egiziano vissuto nella metà del quarto secolo.

I Retoriani compaiono anche nel catalogo delle eresie di sant'Agostino. Ma il «dottore della grazia» definisce la loro dottrina talmente assurda da essere inimmaginabile.

Si è anche ipotizzato che dietro il nome di Retorio si celi il filosofo Temistio di Costantinopoli. Gli indi­zi sembrano avvalorare la tesi: visse nel quarto seco­lo, era di fede pagana e, pur mantenendo posizioni molto caute in materia di religione, suggerì a Teodo­sio una politica tollerante nei confronti degli eretici.

Retorio insegnava infatti che gli eretici avevano ragione, tutti gli eretici, qualunque dottrina profes­sassero. Nessuno poteva essere condannato per le proprie opinioni. L'uomo pensa ciò che è natural­mente incline a pensare e dunque non sbaglia mai e ha sempre e comunque ragione.

 

 

Priscillianisti

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A detta del teologo francese René Rapin, fra gli artifici degli eretici ce n'è uno che consiste nel «gua«dagnar le donne e impegnarle ne' loro errori». La tesi è più o meno questa: non esiste donna che riesca a difendersi dalle seduzioni del malintenzionato. Se poi questo malintenzionato ostenta virtù, usa parole ricercate e fa ricorso a tutti quei vezzi che, si sa, fanno sempre una certa presa, allora non c'è scampo. L'eretico conquisterà il loro favore e, di conseguenza, farà molti proseliti fra gli uomini.

Rapin racconta poi di un certo Marco di Menfi, che predicò in Galizia e qui conquistò la fiducia di una donna di nome Agape. Agape sedusse il mae­stro di retorica Elpidio. Agape ed Elpidio divenne­ro, a loro volta, guide spirituali di Priscilliano, uno spagnolo di nobile famiglia. Oltre a essere ricco, Priscilliano era intelligente, colto, affabile e spirito­so. Era anche un bravissimo oratore, capace di resi­stere per giorni al sonno, alla fame e alla sete. Non gli importava nulla del lusso e viveva una vita auste­ra, monacale. Alle volte però era inquieto, spesso orgoglioso e superbo, affetto da una bulimia intel­lettuale che lo spingeva verso le scienze profane e le arti magiche.

A un certo punto gli venne l'idea di mettersi a capo di una setta, una qualunque, purché portasse il suo nome e «facesse grido nel mondo». A partire dal 370 d.C. il priscillianismo era già popolarissimo in Spagna, anche se il suo quadro dottrinale appariva abbastanza confuso («permixtum dogma», diceva Isidoro di Siviglia): una gran quantità di idee gnosti­che mescolate a credenze manichee.

Ciononostante riuscì a convertire tantissime perso­ne, anche nobili, soprattutto donne. Si servì, evidente­mente, di uno degli artifici degli eretici. Ostentando virtù, usando parole ricercate e facendo ricorso a tutti quei vezzi che, si sa, fanno sempre una certa presa, attirò moltissime donne, un esercito intero di donne. Alle quali insegnava che i creatori del mondo erano due: Dio, che si era dedicato al Cielo, il Demonio che si era occupato della terra. Dal cielo provenivano le anime che poi, giunte sulla terra, avevano conosciuto il peccato. Ma prima di peccare erano state tutt'uno con la sostanza divina, di cui facevano parte anche il Figlio e lo Spirito Santo. In effetti le persone della Trinità non erano fra loro distinte. Ma il Figlio, che aveva natura divina, era un gradino sotto a Dio.

Comunque poi le anime erano giunte sulla terra e qui erano state imprigionate nei corpi e nel peccato. Ma ciò era avvenuto a causa delle stelle, che annulla­vano il libero arbitrio. Il corpo infatti dipendeva dai 12 segni dello zoodiaco, e così la testa dipendeva dal­l'Ariete, il collo dal Toro, le spalle dai Gemelli e via dicendo. Non restava che rispettare poche regole di comportamento: non mangiare carne, cibarsi solo di legumi e frutta, non sposarsi. Non sposarsi era anche facile, ma astenersi dai peccati della carne no. Anche Priscilliano si era lasciato andare con qualche disce­pola, ma questo non era un problema. L'atto sessua­le era un modo come un altro per mortificare il corpo, liberarsi da ogni appetito terreno e preparare l'anima all'ascesa verso la conoscenza spirituale.

Infatti dopo la morte i corpi sarebbero rimasti sulla terra, o sotto terra, mentre le anime sarebbero torna­te in cielo.

Era questo che Priscilliano insegnava ai suoi adep­ti, uomini e donne, soprattutto donne, quando si rac­coglievano di notte per pregare nudi, mangiare le ostie ricevute in chiesa (e non consumate) e dopo commet­tere mille impudicizie che naturalmente restavano segrete, anche a costo di giurare il falso. Il motto della setta era: «jura, perjura, segretum prodere noli».

Nel 380 d.C., su iniziativa dei vescovi Igino, Ida­cio e Itacio (Igino di Cordova, Idacio di Emeritu e Itacio di Ossanova), il concilio di Saragozza condan­nò Priscilliano all'esilio. Il principale accusatore, Ita­cio di Ossanova, era uno squallido personaggio. Sul­picio Severo lo descrive «spregevole e per nulla santo: impudente, chiacchierone, cinico e smodato, dedito moltissimo ai piaceri del ventre e della gola».

Infatti quattro anni dopo, quando fu condannato per la seconda volta dal sinodo di Bordeaux, san Martino di Tours criticò duramente l'eccesso di zelo di Itacio. A parte questo, non ci fu verso di salvare Priscilliano. Le accuse a suo carico erano gravi: male­fici, spergiuri, dottrine oscene, nudità nelle assem­blee. Venne interrogato sotto tortura: gli fecero «scricchiolare le gambe sotto il peso delle catene», gli infilarono i piedi nella brace e siccome rifiutava ancora di abiurare gli strapparono i capelli e la pelle del cranio, gli bruciarono il corpo con un ferro rovente e gli versarono olio bollente e piombo fuso sulle ferite, quindi gli piantarono nel ventre una forca rovente. Per ucciderlo, però, preferirono separargli l'Ariete dal Toro. Cosa che fecero nel 385 d.C.

Era la prima volta che un eretico, per questioni di fede, veniva giustiziato dal braccio secolare.

 

 

Saccofori

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Succedeva che a volte, per eccesso di rigore,un monaco che voleva consacrare la propria vita a dio e al rispetto dei suoi comandamenti finiva per essere condannato come eretico. Ciò accadde, ad esempio, a un monaco armeno, un certo Eutatto, talmente intransigente da essere considerato un pericoloso fanatico.

A quanto sembra Eutatto era stato discepolo di un sacerdote palestinese, Pietro da Cabarcaricha. Questo sacerdote diceve che una notte gli erano apparsi Mosè, la Vergine Maria e, sotto forma di colonna di fuoro, lo Spirito santo. Proprio lo Spirito Santo gli aveva rivelato che Cristo aveva segretamente insegnato agli apostoli. Però, trattandosi di un insegnamento segreto, non doveva essere ascoltato da altri. Allora la colonna di fuoco punì la perpetua e il diacono che vivevano insieme a Pietro, i quali – vedendo una gran luce filtrare dalla stanza di Pietro – erano entrati per capire cosa stava succedendo. La perpetua diventò muta e il diacono cieco. L’evento lasciò il sacerdote alquanto indifferente, tant'è che il mattino dopo era già pronto a ini­ziare la predicazione lungo le vie di Cesarea. Non ebbe però molto successo. L'unico a dargli retta, almeno all'inizio, fu appunto Eutatto.

Poi, poco per volta, anche Pietro riuscì ad attirare un discreto numero di seguaci e a mettere in piedi una vera setta. Finché, nel 370 d.C., morì soffocato da un dattero che gli era andato di traverso.

Nel frattempo Eutatto continuò la predicazione del maestro in Armenia, dove si era rifugiato. Qui inse­gnò che Dio si era fatto carne ed era venuto nel mondo per dettare la legge evangelica agli Apostoli. A loro e a nessun altro. E gli Apostoli, che capirono per­fettamente la grazia che gli veniva concessa, abban­donarono le reti, le mogli, i figli e le proprie case.

Per questo, se si voleva esser salvi, bisognava imi­tare l'esempio degli Apostoli e vestire l'abito del monaco. Che, nel caso degli uomini, consisteva nel­l'indossare un sacco a mo' di mantella, tant'è che i discepoli di Eutatto vennero anche chiamati Saccofo­ri. Nel caso delle donne significava smettere di usare gli abiti femminili e radersi i capelli. Però, se è vero il detto che l'abito non fa il monaco, occorreva anche rispettare delle norme di comportamento.

Anzitutto era necessario abbandonare le proprie case. Per questo Eutatto convinceva i laici a scegliere la regola religiosa (che lui stesso aveva dettato), le mogli a separarsi dai mariti, le madri ad abbandona­re i figli, i figli ad allontanarsi dai genitori, i servi a fuggire dai padroni.

I Saccofori si tenevano lontani dalle chiese. Per pre­gare si riunivano in assemblea in luoghi segreti. La pre­ghiera avveniva puntando un dito in aria e agitandolo come se si trattasse di una lama. In questo modo, infatti, dicevano di voler uccidere il demonio. Vennero perciò accostati ai Messaliani, i quali - oltre a indossa­re anche loro un sacco - facevano dei balzi durante le preghiere come per aggredire il demonio. Solo che que­sti ultimi, a differenza dei primi, erano convinti che proprio pregando ad alta voce ed emettendo sputi era possibile espellere il maligno dal proprio corpo e quin­di aggredirlo. Con lo stesso intento si impegnavano a espellere dal corpo gli altri escrementi naturali.

Per i Saccofori di Eutatto, invece, mandar fuori dal corpo volontariamente qualunque tipo di escre­mento era un peccato gravissimo. E per questo resi­stevano finché non gli era più possibile trattenersi. L'atto stesso della procreazione veniva disprezzato. Non soltanto perché in genere la procreazione era una conseguenza del matrimonio, ma anche perché partorire equivaleva a emettere «I'escremento vitale».

 

 

Giovinianisti

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Riprendendo in parte la dottrina degli Antidico­mariti, Gioviniano infranse il tabù della verginità di Maria.

Si attirò così l'antipatia di molti, primo fra tutti Girolamo di Stridone, che lo attaccò ferocemente come già aveva fatto con Elvidio. In questo caso portò la polemica dal piano strettamente teologico a quello personale. Per esempio parlò di Gioviniano come di un uomo fisicamente deforme, invece era solo un po' grassottello. Oppure lo prese in giro per via del nome, di sapore pagano e non adatto a un buon cristiano.

Va anche detto che Gioviniano ce la mise tutta per farsi odiare. Non così all'inizio. Passò gli anni della gioventù in un monastero di Milano, si adattò ai ri­gori di quel tipo di vita, a forza di digiuni a pane e acqua si fece magro e pallidissimo. Accettò di cammi­nare scalzo, di vestire un saio ruvido e sporchissimo, di dedicarsi a lavori manuali. Poi però, nel 385 d.C., lasciò il monastero e così, su due piedi, partì per Roma e lì non perse tempo a rifarsi di tutto quello a cui aveva rinunciato: visse nell'agio, acquistò abiti attillati di lino e seta, si arricciò i capelli e così con­ciato si mise a frequentare bagni e taverne, si dedicò al gioco d'azzardo, divenne assiduo frequentatore di banchetti. In questo modo, nel giro di pochi mesi, prese un bel po' di chili e la carnagione gli divenne liscia e rubiconda. Ciononostante continuò a dirsi monaco e a osservare il celibato, anche se la vera ragione, a detta di molti, era di evitare le fastidiose conseguenze del matrimonio.

Nel frattempo elaborò una personalissima dottrina basata su pochi capisaldi, semplici, tutti coerenti con il suo stile di vita. Anzitutto non c'era differenza fra vergini, vedove e spose, purché battezzate (del resto, se tutti gli uomini si fossero conservati vergini il mondo sarebbe finito). Chi aveva ricevuto il battesi­mo, infatti, non poteva più cadere nei tranelli del dia­volo. Stando così le cose, non aveva senso far di­stinzioni fra chi rispettava il digiuno e chi si ingozza­va, chi si asteneva dal sesso e chi lo praticava, chi si struggeva nelle lacrime e nel lutto e chi si godeva la vita, chi si allenava al sacrificio e chi sceglieva il lusso, i divertimenti, gli spettacoli dei teatri: la medesima gloria nell'aldilà attendeva tutti i battezzati capaci di buone opere.

Per ultimo, e fu la goccia che fece traboccare il vaso, Gioviniano disse che la stessa Vergine Maria non era rimasta vergine per tutta la vita e anzi, dopo aver concepito Gesù, si era congiunta più volte con Giuseppe e aveva avuto da lui altri figli.

Molte persone si lasciarono sedurre dall'eresia di Gioviniano e dei suoi seguaci. Papa Siricio li definì per questo cani che abbaiano, Girolamo cani che mangiano il loro vomito. Insulti a parte, il loro meto­do di propaganda era semplice ed efficace: durante le assemblee cristiane lui e i suoi adepti accendevano delle discussioni nelle quali, poi, facevano circolare le loro idee. Molti di quelli che prendevano parte alla disputa, cadevano, senza nemmeno rendersi conto, nel loro tranello. Secondo Giuseppe Agostino Orsi si trattava di sempliciotti, persone «di bel tempo». In verità, e anche a dispetto di quanto sosteneva Girolamo - cioè che Gioviniano era uomo senza lingua e senza parole, uno che poi, se trovava la lingua e le parole e attaccava a parlare, allora non si capiva niente di quel che diceva - non erano solo le persone di bel tempo a farsi convincere dai discorsi di Giovi­niano, ma anche persone colte e pure donne e perfino monache, che fino a quel momento avevano trascor­so una vita di castità e continenza. L'eresiarca si avvi­cinava loro e domandava: «Ma perché, ti credi forse migliore di Sara, migliore di Susanna o di Anna?» e proseguiva sciorinando i nomi di donne lodatissime nelle Sacre Scritture che però non avevano osservato il voto di castità. Prima fra tutte Maria.

 

 

Adelofagi

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Fra il quarto e il quinto secolo, in Asia Minore, esisteva una setta i cui adepti, dopo aver letto certi passi delle Scritture, dissero che era indegno che un cristiano mangiasse alla presenza di altre persone. Per farlo doveva nascondersi. Per questo vennero chia­mati Adelofagi, dal greco αδελοζ, di nascosto, e ϕαγειν, mangiare.

 

 

Vigilanziani

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All'inizio del quinto secolo, in una parrocchia di Barcellona, un prete osò parlare di idolatria a propo­sito di certi strani comportamenti molto diffusi tra i fedeli cristiani. Non era originario della Spagna, ma di un paese sul versante francese dei Pirenei, Comin­ges. Si chiamava Vigilanzio e fin da giovanissimo aveva frequentato la taverna del padre, nella quale aveva lavorato come oste, e la comunità cristiana, nella quale si era fatto notare da Sulpicio Severo. L'intellettuale lo prese a benvolere e quando si trattò di inviare certe lettere a Paolino di Nola affidò a lui questo compito. Anche Paolino di Nola apprezzò le doti del giovane Vigilanzio e lo raccomandò a Girola­mo di Stridone, che in quel momento si trovava a Betlemme. E siccome Vigilanzio desiderava recarsi in terra santa, prese al volo l'occasione per mettersi in viaggio. Però, contrariamente alle aspettative, fra lui e Girolamo le cose non funzionarono per niente bene. L'antipatia era forte e reciproca. Le cose peg­giorarono quando Vigilanzio rivelò di aver visto Girolamo leggere i libri di Origene e lo accusò di essere un eretico origenista. Girolamo, dal canto suo, disse che Vigilanzio pregava nudo nella sua camera e anche in pubblico si mostrava spesso senza vestiti. Fece capire che una persona con così poco senso del pudore era casta solo a parole, predicava bene e raz­zolava malissimo.

Ci si sarebbe limitati a questi pettegolezzi se Vigi­lanzio non avesse scritto un libro per diffondere le sue dottrine e se queste dottrine non avessero effetti­vamente cominciato a circolare in Spagna e Francia.

Come altri prima di lui (ad esempio Gioviniano), criticava ogni forma di esasperata continenza: il digiuno ascetico, la verginità, l'isolamento monasti­co. Più che altro prese di mira, e fu uno dei primi a farlo, l'atteggiamento idolatra con cui sempre più fedeli vivevano i riti e i culti all'interno delle chiese.

Vigilanzio e i suoi seguaci, e fra questi alcuni vescovi, erano contrari all'adorazione delle reliquie, chiamavano cenere la cenere, ossa le ossa, vasi i vasi dentro cui venivano conservate. Restavano zitti durante i canti di alleluia e dormivano durante le veglie nelle chiese. Di giorno, visto che la luce del sole illuminava le navate, spegnevano le candele che altri accendevano. Non credevano nei miracoli, che consi­deravano trucchi buoni a soltanto a ingannare gli infedeli. A quelli che si radunavano attorno alle tombe dei martiri, facevano presente che difficilmen­te, dopo la morte, l'anima del defunto si sarebbe trat­tenuta vicino al sepolcro.

Poi, nel 404 d.C., Ripario, un sacerdote di una parrocchia vicina a quella di Vigilanzio, scrisse a Girolamo raccontando per filo e per segno quel che andava combinando Vigilanzio. Girolamo gli rispose che conosceva bene quel pazzo furioso, un uomo a cui il vescovo della diocesi avrebbe fatto bene a tagliare la lingua, un vaso inutile che avrebbe dovuto essere spezzato con il pastorale o, meglio ancora, con una mazza di ferro.

Due anni dopo lo stesso Ripario spedì a Girolamo l'opera di Vigilanzio, chiedendogli di scrivere un tratta­to per confutarne i contenuti. Siccome però Girolamo era in procinto di partire per l'Egitto, gli toccò fare tutto in una notte. E fu così che venne concepito l'Adversus Vigilantium. Opera nella quale, per sua stessa ammissio­ne «non v'ebbero mano né l'arte né lo studio».

Nel mondo, scrisse Girolamo, se ne son visti di mostri: i centauri e le sirene di cui parla Isaia, il Leviatano e il Behemot descritti da Giobbe, Cerbero, il cinghiale, la chimera, l'idra a più teste, il bosco d'Erimanto e le altre favole narrate dai poeti. Però mostri come Vigilanzio non s'erano mica mai visti.

Certo, scrisse, sembra un uomo di spirito, brillante invece non è altro che un taverniere. Un taverniere che, di punto in bianco, si mette a scrivere e filosofeggiare. Ma che razza di deliri può concepire uno così?

Vigilanzio scrive e fa domande come queste: è proprio necessario adorare le ceneri e i vasetti in cui sono conservate? e vi sembra normale baciarli? che bisogno c'è di accendere tutte quelle candele in pieno giorno? a che serve pregare le anime dei morti? non sarà che, essendo morti, non riescono a sentire le pre­ghiere? perché digiunare se non si vuole dimagrire? se tutti gli uomini scegliessero l'isolamento monastico, chi andrebbe in chiesa?

Pretendere di insegnare qualcosa a un uomo che fa certe domande, che non sa parlare però non sta mai zitto, scrisse Girolamo, è completamente inutile. Vigilanzio sarà anche esperto di vino, ma da qui a comprendere le Scritture c'è una bella differenza. Insomma, per prima cosa dovrebbe tacere, poi dovrebbe studiare grammatica, retorica, dialettica e filosofia, e dopo, una volta studiate per bene queste materie, dovrebbe continuare a tacere. Per quanto si possa sforzare, infatti, non riuscirebbe a dire niente di sensato. Vigilanzio, che sarebbe più giusto chiama­re Dorrnitanzio, dice delle cose aberranti e senza senso: disprezza il digiuno, contesta la verginità, ignora il pudore, pretende di filosofeggiare fra piatti e bottiglie. Forse è colpa dei fumi della cucina, o del­l'abuso del vino, o forse, concluse Girolamo, è solo il senso degli affari: se tutti gli uomini digiunassero, chi frequenterebbe la sua taverna?

 

 

Pelagiani

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Paolino di Nola non aveva fiuto per stanare gli eretici. Una volta raccomandò a Girolamo di Strido­ne un prete di nome Vigilanzio. E Girolamo, che invece sentiva puzza di eresia a chilometri di distan­za, ci litigò immediatamente e dopo scrisse un tratta­to in cui lo definiva il peggior mostro mai nato. Un'altra volta Paolino scrisse ad Agostino d'Ippona per raccomandargli Pelagio. Quando capì cosa aveva in testa quel monaco, Agostino scrisse una dozzina di trattati per combattere la sua eresia.

Eppure Pelagio, che passò dall'Inghilterra a Roma, da Roma in Egitto, dall'Egitto in Palestina, dalla Palestina in Sicilia, dalla Sicilia a Rodi e da Rodi di nuovo a Gerusalemme, lasciò ovunque un buon ricordo di sé. Forse perché incontrò sulla sua strada molti uomini come Paolino e pochi mastini come Girolamo e Agostino.

Fra l'altro Pelagio, pur avendo a lungo vissuto in Italia, conosceva poco il latino, lo scriveva male e lo parlava peggio. Perciò a Roma aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a esprimersi.

Si disse che fu il diavolo a farglielo incontrare. E il diavolo, che sapeva dove cercare, pescò dall'ordine degli avvocati un tal Celestio, ottimo scrittore ed esperto oratore. Dopo aver conosciuto Pelagio lasciò l'avvocatura, si ritirò dal mondo e, nonostante si dicesse di lui che era effeminato e dedito al vizio, vestì i panni del monaco.

Poco prima che i Goti mettessero Roma sotto assedio, nel 410 d.C., Pelagio e Celestio scapparono in Sicilia. Poi da qui partirono per l'Africa e approda­rono a Ippona. Speravano di fare amicizia con Ago­stino ma, appena arrivati, scoprirono che in quel momento era a Cartagine, impegnato a combattere l'eresia di Donato il Grande. Allora i due andarono a Cartagine e qui le loro strade si divisero: Celestio restò in città, Pelagio partì per la Palestina. Entrambi, comunque, si impegnarono nella predicazione della dottrina di cui tanto avevano discusso quand'erano assieme.

Fra quelli che l'apprezzarono senza riserve ci fu un romano di nome Ctesifonte. Girolamo fiutò l'errore e scrisse una lunga lettera per metterlo in guardia da un insegnamento che considerava un condensato di stoici­smo ed eresia. Secondo Girolamo libero arbitrio e gra­zia divina stavano in perfetta armonia tra loro. Pelagio invece metteva in discussione questo principio. Per esempio chiedeva: se voglio piegare un dito, muovere la mano, sedermi, alzarmi, camminare, andarmene a zonzo, sputare, ficcarmi due dita nel naso defecare, orinare, ho sempre bisogno dell'aiuto di Dio? E Giro­lamo rispondeva: sì, se mangi, bevi o qualunque altra cosa tu faccia, fai tutto nel nome del Signore.

La lettera, va detto, non fu molto convincente e Ctesifonte diventò un alleato di Pelagio.

Intanto in Africa arrivò Orosio, un presbitero di origine portoghese, anche lui desideroso di incontra­re Agostino. Sperava di ricevere istruzioni e consigli su come combattere l'eresia di Priscilliano. Agostino lo mandò a Betlemme da Girolamo e lì Orosio rice­vette la convocazione di Giovanni di Gerusalemme. Il vescovo lo invitava a partecipare al concilio da lui indetto nella speranza di ricevere informazioni utili su Celestio.

Orosio accettò l'invito e, visto che parlava il latino ma non il greco, si espresse per bocca di un interpre­te. Disse che non sapeva molto di Celestio però aveva per le mani una lettera di Agostino d'Ippona sugli errori di Pelagio: sulla possibilità, per l'uomo, di vin­cere il peccato con la sola forza di volontà; sulla facoltà di rispettare, senza troppe difficoltà, le leggi di Dio. A quel punto venne fatto entrare Pelagio che, come detto, parlava male anche il latino. Cionono­stante riuscì a difendersi, spiegò la correttezza di quelle due affermazioni e negò di aver negato il divi­no soccorso. Giovanni di Gerusalemme, che in quel­la discussione plurilingue si era un po' perso, chiese a Orosio di ribattere. Ma il presbitero rifiutò dicendo che più di tanto non poteva fare, tutto quello che sapeva l'aveva già riferito: l'uomo poteva rimanere senza peccato e, se voleva, poteva anche rispettare le leggi di Dio. Non erano già un'auto-accusa queste due affermazioni? Allora Giovanni andò in totale confusione e accusò Orosio di essere un Pelagiano. Orosio si arrabbiò e accusò l'interprete di essere un ignorante o un infedele. Pelagio accusò il sinodo di non capire la sua dottrina e di fidarsi di Agostino, che poi, disse, cosa c'entro io con Agostino? E insom­ma il concilio si concluse con un nulla di fatto e ogni decisione venne rinviata a Roma.

Passarono due anni prima che Papa Innocenzo decretasse la condanna di Pelagio. Il suo successore, Papa Zosimo, confermò la sentenza in una lettera alle Chiese orientali. Nella discussione entrò anche Agostino d'lppona. I suoi trattati mettevano in guar­dia dai pericolosi effetti di quell'eresia. A voler dar retta a Pelagio, infatti, l'uomo non era stato macchia­to dal peccato originale e non aveva ereditato colpe da espiare. Il battesimo, perciò, era inutile e, peggio ancora, la morte di Cristo era inutile. Che bisogno c'era di un redentore se l'uomo poteva redimersi da solo? Invece, secondo Agostino, senza la grazia di Dio non era possibile rispettare i comandamenti e neppure sconfiggere il peccato. Non era nemmeno possibile fare del bene. Senza la grazia di Dio l'uomo era destinato alla dannazione.

Nonostante l'impegno di Agostino il pelagianesi­mo non scomparve del tutto. Dopo la condanna del 418, Giovanni Cassiano di Marsiglia riprese le tesi di Pelagio, le modificò, le rese più digeribili. In sostanza, diceva Cassiano, per potersi salvare l'uomo deve compiere da sé il primo passo verso Dio. Deve fare come il malato che per primo chiama il medico. La grazia arriva in un secondo momento.

La riformulazione di Cassiano, definita semi-pela­grana, venne condannata nel concilio di Orange del 529. Il sinodo stabilì che solo le persone battezzate potevano compiere la propria salvezza e che nessuno era predestinato da Dio alla dannazione. I semi-pela­giaru vennero così sconfessati ma anche Agostino, in un certo senso, venne smentito. Qualcuno arrivò a dire che grazie al concilio di Orange era nato il semi­agostinianesimo.

Una cosa è certa: Giovanni Cassiano viene ancora oggi venerato come santo dalla Chiesa cattolica.

 

Nestoriani

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Quella ariana fu la principale eresia del quarto secolo. In molti si impegnarono nel combatterla e Nestorio fu uno dei più accaniti. Però, dopo aver per­seguitato Apollinaristi e Ariani, lui stesso inaugurò una nuova eresia che, in un certo senso, cominciava dove finiva l'arianesimo (a dimostrazione del fatto che non c'è peggior nemico degli eretici di un altro eretico).

Il nestorianesimo, se la prendeva con la maternità di Maria: madre di Cristo ma non anche madre di Dio. Secondo Nestorio il figlio di Maria, di nome Gesù, era diverso dal figlio di Dio, ossia dal Logos. Evidentemente in Gesù coesistevano due Persone, unite tra loro per un mero accidente. E quindi concet­ti come nascita, sofferenza e morte riguardavano esclusivamente Gesù {lui sì figlio di Maria), creazione, onnipotenza, eternità, si riferivano invece al Logos.

Naturalmente, durante il sacerdozio, Nestorio tenne per sé queste idee. Quando parlava si mostrava umile e pacifico. Il teologo Alfonso Maria de' Liguori dice che stava molto attento ad apparire magrissimo, pallido e poveramente vestito. Poi però, appena nomi­nato Patriarca di Costantinopoli, mostrò un volto diverso. Stando a quanto riportato nella Storia eccle­siastica di Claude Fleury, il giorno stesso della nomi­na, durante il primo sermone, rivolgendosi all'impera­tore Teodosio disse: «Datemi, signore, la terra purgata da eretici, e io vi darò il cielo: esterminate meco gli eretici, ed io esterminerò con voi i Persiani».

Questo per dire che aveva un carattere difficile e che era meglio non farlo arrabbiare: insultava chi lo contraddiceva e puniva chi lo insultava. Una volta, ad esempio, alcuni sacerdoti gli chiesero se fossero vere le voci che giravano su di lui. Nestorio li fece arrestare, spogliare, picchiare con calci e pugni, lega­re a un palo, stendere per terra e colpire sul ventre.

L'odiavano tutti: i monaci, per aver condannato pubblicamente il loro potere e aver inaugurato una severa riforma del clero; i fedeli, per aver attaccato la maternità di Maria; gli eretici, per averli combattuti con la massima ferocia; l'intera comunità di Costan­tinopoli, per aver vietato la partecipazione ai giochi circensr.

Quasi tutti quelli che scrissero di lui, contempora­nei e non, lo ripagarono con insulti e accuse gravissi­me. Lo definirono un violento e un orgoglioso, un uomo che, assieme al latte della nutrice, aveva succhia­to l'arte di fingere, un falsario, un incendiario di chie­se, la lingua nemica di Dio, il secondo sinedrio di Caifa, un laboratorio di bestemmie, colui che spezzò le ossa del Signore. Altri malignarono sulla sua biografia descrivendone oscura l'origine, sconosciuti i parenti, ignote le cause che lo costrinsero ad abbandonare la patria, improbabile la coerenza della sua vita monasti­ca, incerti i meriti personali sia in virtù che in dottrina.

Fra le persone che non lo avevano in simpatia c'era sicuramente Cirillo d'Alessandria il quale, dopo avergli scritto varie volte nel tentativo di riportarlo sulla retta via e averlo definito collega piissimo sommamente amato da Dio, ottenne la sua nello strano concilio di Efeso del 43 1 d.C.

Strano perché parteciparono 199 vescovi (fra Cirillo) tutti, dal primo all'ultimo, antinestoriani.

Strano perché la sua scomunica e la condanna della sua dottrina furono pronunciate prima ancora arrivassero i rappresentanti del papa. Strano perche due giorni dopo, quando si fecero vivi i nestoriani, guidati da Giovanni di Antiochia, fu necessario apri­re un contro-concilio per ribaltare le cose, assolvere Nestorio e scomunicare Cirillo e gli altri vescovi. Strano perché otto giorni dopo ci fu un nuovo capovolgimento: i rappresentanti di Papa Celestino, gli ultimi ad arrivare, riabilitarono Cirillo, proclamaro­no l'unione ipostatica in Cristo della natura divina e di quella umana, condannarono Nestorio all'esilio presso l'oasi di El Kharga, in Egitto, dove morì intorno al 451 d.C.

La diffusione dei Nestoriani in Oriente, da un' punto di vista cronologico e geografico, comincia da qui. Se non riuscì a farsi benvolere da vivo ci riuscì da morto. Grazie ad alcuni manoscritti siriaci sappiamo che i Nestoriani usavano degli scongiuri molto parti­colari. In uno di questi Nestorio veniva chiamato «santo sacerdote» e invocato contro gli spiriti cattivi e tenebrosi; contro il mal di testa, le emicranie e le infiammazioni; contro ogni genere di piaghe in testa, negli occhi, nelle sopracciglia, nelle tempie e nei denti.

Sua Beatitudine Mar-Dinka IV è l'attuale patriar­ca della Chiesa nestoriana (Antica Chiesa Apostolica d'Oriente), che ha la propria sede presso Teheran.

 

 

Eutichiani

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Come Nestorio era stato il peggior nemico di Ario, Eutiche fu il più feroce avversario di Nestorio. Non aveva una grande cultura teologica, in più era vecchio e praticamente ossessionato dalla volontà di estirpare le false dottrine. Vedeva Nestoriani ovun­que e ovunque sentiva puzza di eresia. Sicché, esatta­mente com'era accaduto a Nestorio, a forza di com­battere gli errori degli altri finì per creare una nuova eresia: il monofisismo.

Secondo il Pluquet, per contraddire quelli che attribuivano a Gesù due nature distinte disse che, dopo l'incarnazione, la natura umana era stata assor­bita dalla quella divina «come una gòcciola veniva assorbita dal mare o come la materia combustibile gittata in una fornace veniva assorbita dal fuoco».

All'inizio l'errore di Eutiche restò confinato fra le mura del suo monastero nei pressi di Costantinopoli. Poi però cominciò a insegnarlo anche a quelli che andavano a trovarlo. In breve tempo le sue idee si diffusero per l'Egitto e dall'Egitto passarono in Oriente. Furono proprio i vescovi d'Oriente a denunciarlo all'imperatore. In occasione del concilio riuni­to a Costantinopoli, Eusebio, vescovo di Dorilea, presentò una memoria contro Eutiche e chiese al , patriarca di Costantinopoli Flaviano di giudicarlo nel concilio. Eutiche cercò delle scuse per non comparire: prima disse che aveva fatto voto di non uscire dal monastero, poi che era ammalato e non poteva pren­dere freddo. Alla fine fu costretto a presentarsi al concilio e a discolparsi dall'accusa di eresia. Proprio lui, il grande fustigatore di eretici, accusato di eresia. Fra l'altro le sue idee vennero giudicate non ortodos­se e perciò, nel 448 d.C., fu condannato e sollevato dal governo del suo monastero.

Però Eutiche aveva molto credito alla corte dell'im­peratore e non gli fu difficile convincere Teodosio II a convocare un nuovo concilio, che venne poi ricordato come il «brigantaggio di Efeso». A presiederlo avreb­be dovuto essere Flaviano, ma di fatto l'imperatore lo consegnò nelle mani del patriarca d'Alessandria, Dio­scoro, un uomo ambiguo che dopo essere diventato vescovo non si fece scrupoli a derubare uomini di chiesa riducendo li in miseria. Con quei beni fece poi donazioni a osti e fornai perché vendessero vino e pane della miglior qualità. Ma non si limitò a rubare ai religiosi, svuotò le tasche dei laici e si appropriò delle elemosine destinate ai poveri. Una volta, ad esempio, venuto a sapere che una donna molto ricca aveva lasciato i suoi beni a ospedali e monasteri, requisì l'eredità e con quella coprì di regali i comici e le meretrici di Alessandria. Venne anche accusato di aver dato fuoco alle case dei suoi nemici, di averli fatti torturare in carcere e, in qualche caso, di averli fatti uccidere.

Ecco, questo era l'uomo chiamato da Teodosio II per il concilio. Al quale, oltre ai vescovi e ai legati del papa (Leone I si guardò bene dal prendere parte a quell'assemblea), partecipò per la prima volta anche un semplice abate, il poco raccomanda bile Bar Sauma, un archimandrita fedele a Dioscoro. Era nato in un villaggio presso Samosata dove era vissuto all'interno di una grotta scavata in una montagna. Lì era solito praticare ferrei digiuni e per questo venne sopranno­minato «figlio del digiuno», cioè, appunto, Bar Sauma. Nel suo fanatismo religioso/si infliggeva con­tinue penitenze. Per esempio portava una tunica di ferro che d'inverno gli si gelava addosso e d'estate si arroventava sotto il sole e gli bruciava la pelle. Cam­minava sempre scalzo e non si tagliava i capelli. Non dormiva mai, per riposare gli bastava appoggiarsi ai gomiti. Questo suo fanatismo e l'abitudine a una vita selvatica lo trasformarono in un uomo feroce e vio­lento, più adatto alla guida di ladri e assassini che di cristiani. E infatti si mise a capo di una falange di 40 monaci armati di bastoni, catene e lance e con quel­li scorrazzava per le valli dell'Eufrate uccidendo vescovi, bruciando monasteri e saccheggiando le chiese di quelli che, almeno a suo giudizio, erano in odore di eresia. Quando fu chiamato al concilio di Efeso in rappresentanza dei monaci siriani, il nume­ro di quelli che lo seguivano era cresciuto parecchio, alcuni dissero di aver contato mille monaci armati fino ai denti. Questo, almeno, è quanto risulta dagli Atti del successivo concilio di Calcedonia.

Eutiche aveva giocato bene le sue carte. Appena il sinodo si aprì, nell'agosto del 449, e furono letti gli Atti del concilio di Costantinopoli e si venne a sape­re che Eusebio di Dorilea aveva preteso che Eutiche dicesse che Cristo aveva due nature, volarono insulti e minacce, poi qualcuno gridò: «bruciate vivo Euse­bio! fatelo a pezzi! dividetelo in due come ha fatto lui con Gesù!».

Insomma, Eutiche venne riabilitato mentre Flavia­no e, naturalmente, Eusebio di Dorilea, vennero con­dannati. I legati del papa provarono a opporsi, qual­che vescovo si gettò ai piedi di Dioscoro supplicando­lo di revocare quella sentenza. Ma il patriarca non volle sentir ragioni e, visto che quelli rimanevano in ginocchio, fece entrare il Proconsole seguito da un gran numero di soldati e dagli uomini di Bar Sauma. Vennero chiuse le porte e fra le mura della Chiesa si scatenò il finimondo. A forza di randellate sottoscris­sero quasi tutti la condanna di Eusebio e Flaviano. Quest'ultimo le prese di santa ragione, anche da Dio­scoro e Bar Sauma. Il patriarca morì per le ferite riportate qualche giorno più tardi.

Due anni dopo, nel 451, il concilio di Calcedonia annullò tutto quello che era stato deciso a Efeso e stabilì che Gesù aveva sì due nature, ma unite senza cambiamento, senza divisione, senza separazione. Gesù insomma era perfetto nella sua Divinità e perfetto nella sua Umanità, consustanziale a Dio secon­do la Divinità e all'uomo secondo l'Umanità.

 

 

Teopaschiti

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Nel rito della Chiesa Orientale c'era l'usanza di cantare un inno chiamato Trisagio cherubico. Que­st'usanza era legata all'incredibile storia di un bam­bino che nel 445 d.C., quando Costantinopoli era devastata da terremoti, carestie e pestilenze, salì in cielo per volere divino. Quelli che assistettero alla scena caddero in ginocchio e si misero il cantare il Kyrie eleison. Dopo aver trascorso tre ore in cielo il bambino tornò a terra e raccontò di aver udito gli spiriti cherubici cantare «Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi». Detto questo morì.

A quel punto tutti si convinsero che per far cessa­re le calamità non bisognava cantare il Kyrie eleison ma l'inno cherubico. Infatti il popolo cantò «Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi» e i terremoti che da sei mesi scuotevano Costantino­poli cessarono.

Da allora il Trisagio entrò a far parte del rito orientale. Ma nella seconda metà del quinto secolo Pietro Fullone, vescovo di Antiochia, volle aggiungere a «Santo Dio» queste tre parole: «crocefisso per noi».

Pietro era un tintore di tessuti (un follatore, da cui. il nome Fullone) che a un certo punto abbandonò la professione per entrare in monastero. Fu cacciato: quando aderì alle dottrine dei monofisiti, convinto· anche lui che la natura umana di Gesù era stata. assorbita da quella divina. Dopo la sua nomina a i, vescovo di Antiochia, nel 470, cercò a più riprese di far annullare la decisione del concilio di Calcedonia, . che aveva condannato come eretiche le dottrine monofisite. E forse per rendere le cose più semplici elaborò una variante morbida del monofisismo cono­sci uta col nome di teopaschitismo. In pratica diceva· che durante la Passione non aveva sofferto soltanto il Figlio ma tutta la Trinità, compresi Padre e Spirito Santo. Quindi anche il Padre era stato crocefisso.

Fu per ribadire il concetto che fece aggiungere al Trisagio quelle tre parole: «crocefisso per noi».

Da quel momento molte persone recitarono il Tri­sagio nella nuova versione. Lo stesso Timoteo Erulo, I vescovo di Alessandria, ordinò che si cantasse «Santo Dio, crocefisso per noi, abbi pietà di noi». Ma non tutti accettarono la novità. I cristiani di Costantino­poli, ad esempio, non la mandarono giù. Infatti un giorno dei monaci particolarmente intransigenti entrarono in una chiesa nella quale si stava cantando il Trisagio di Fullone e, in segno di protesta, si mise­ro a cantare il versetto di un Salmo. I sostenitori del concilio di Calcedonia, che fino ad allora non aveva­no osato farlo, cantarono immediatamente con i monaci. Allora i Teopaschiti provarono a cantare più forte. Anche i monaci alzarono la voce finché non si capì più nulla. Ci fu un gran parapiglia, la celebrazio­ne venne interrotta mentre Calcedoniani e Teopaschi­ti se le diedero di santa ragione dentro la chiesa. Il regolamento di conti proseguì anche fuori dal tem­pio. Il popolo prese le armi, mise a ferro e fuoco la città e non cessò la rivolta se non dopo che furono uccisi diecimila uomini.

 

 

Agnoeti

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Se tutte le dottrine gnostiche predicavano la neces­sità di arrivare alla salvezza grazie alla Conoscenza, gli Agnoeti sostenevano l'esatto contrario. Il loro maestro fu un tale Teofronio, della Cappadocia. Cominciò a insegnare nel 368 d.C. ma i primi scritti degli Agnoeti circolarono solo nel sesto secolo. In questi scritti l'ani­ma raggiungeva la salvezza per mezzo dell'ignoranza. Sicché gli Agnoeti non leggevano, non studiavano e non cercavano di capire l'insegnamento degli Aposto­li. Il loro ragionamento era semplice: Gesù non aveva mai trasmesso a nessun discepolo una Conoscenza superiore. Nemmeno lui aveva una Conoscenza supe­riore o completa o perfetta. Anzi. Anche lui era un po' ignorante. E siccome Gesù era figlio di Dio, col quale condivideva la natura, allora Dio non poteva essere onnisciente. La prova, dicevano gli Agnoeti, consisteva nel fatto che Gesù, una volta arrivato a Betània col, preciso intento di resuscitare Lazzaro, la prima cosa, che disse a sua sorella e agli altri giudei che gli erano andati incontro fu: «dove l'avete messo?». Segno evidente che non sapeva dove fosse sepolto.

 

 

Giacobiti

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Il secondo concilio di Efeso si svolse nel 449 d.C. in un clima di terrore. Con le buone e con le cattive la dottrina Nestoriana, secondo cui Cristo aveva due nature, umana e divina, e a queste due nature corri­spondevano due persone, venne condannata come eretica. Ne uscì vittoriosa la fazione monofisita, cioè quella che non soltanto vedeva in Cristo una sola persona, ma gli attribuiva anche una sola natura, dal momento che quella umana era stata assorbita da quella divina. Per questo motivo, e anche per le deci­sioni prese, il concilio venne definito da Papa Leone I il «brigantaggio di Efeso». E con questo nome passò alla storia.

Due anni dopo il concilio di Calcedonia ribaltò le cose: nella persona di Cristo la natura umana e quel­la divina erano ben distinte. Il monofisismo tornò cosÌ a essere un'eresia e già intorno alla metà del sesto secolo stava quasi per scomparire. A quel punto però si fece avanti un monaco, un sempliciotto, per non dire ignorante, che diventò il fondatore della Chiesa siriaca ortodossa compensando la mancanza d'istruzione con l'incessante attività missionaria e l'austerità dei costumi.

Si chiamava Giacomo, aveva origini siriane ed era stato discepolo di Severo di Antiochia. Fu proprio Severo a spiegargli che Gesù era una persona, una sola, in cui due nature si erano come confuse in una sostanza divina, una sola. E questa sostanza si era fatta carne da sé, cioè era passata attraverso la Vergi­ne Maria ma non era da lei che aveva acquistato car­nalità.

Nel 541 diventò vescovo di Edessa grazie all'ap­poggio indiretto dell'imperatrice Teodora. Suo mari­to Giustiniano, invece, perseguitava i monofisiti per­ché li considerava eretici. Per 30 anni la polizia impe­riale cercò di arrestare Giacomo. Non ci riuscì mai, anche perché quello si spostava continuamente. Per­corse l'Egitto, la Siria, l'Anatolia, l'Armenia, la Persia e la Mesopotamia. Per sfuggire alla cattura viaggiava su dromedari velocissimi che gli erano stati regalati da un capo arabo a lui devoto. Fra l'altro, per non essere riconosciuto, si fingeva un mendicante e indos­sava abiti vecchi e strappati. Si guadagnò cosÌ il soprannome di Giacomo Baradeo, ossia Giacomo lo straccione. La «burde'ana. infatti era il nome della coperta per cavalli che portava sulle spalle.

Sicché, a rigore, la Chiesa giacobita venne fondata da uno straccione ignorante. E non ebbe nemmeno vita facile. Un po' per le persecuzioni anticristiane, un po' anche per le continue lotte interne. Una delle più gravi, che portò allo scisma fra il patriarcato di Alessandria e quello di Antiochia, nacque dal modo', di impastare il pane usato per l'Eucarestia: la Chiesa antiochena, a differenza di quella alessandrina, soste­neva che era necessario aggiungere olio e sale.

Per i Giacobiti era fondamentale anche il tipo di vino usato durante la messa, che per nessun motivo andava mescolato con l'acqua. Questa, al contrario, ! serviva per il battesimo della croce, che prima del rito non poteva essere adorata. Anche il segno della croce andava fatto in un certo modo, con un solo dito, per' alludere all'unica natura di Cristo.

I monaci giacobiti vivevano in comunione fra loro oppure separati in cellette. Altri facevano scelte radi­cali e così, anche per imitare la vita di sacrifici di Gia­como Baradeo, andavano a vivere nei deserti oppure dentro le caverne oppure ancora in cima alle colonne (infatti veneravano Simeone Stilita, che era vissuto per 37 anni su una colonna alta 15 metri). E tutti quanti, anche i laici, osservavano un rigoroso ciclo di digiuni: il digiuno di Quaresima, il digiuno della Ver­gine, il digiuno degli Apostoli, il digiuno di Natale, il digiuno dei Niniviti, che durava tre giorni, il digiuno del mercoledì e del venerdì, che valeva tutto l'anno. I più severi mangiavano solo foglie di ulivo. Tutti gli altri si astenevano dal bere vino, dal mangiare pesce e dall'usare olio. Mercoledì e venerdì erano vietati latte e uova. Sabato e domenica, invece, erano ammesse uova e formaggio ma non il latte.

A ogni modo i Giacobiti, sia monaci che laici, aumentarono di numero. Lo stesso Giacomo Bara­deo ordinò un numero impressionante di sacerdoti e diaconi (forse 100.000) e anche vescovi, formando la gerarchia della futura Chiesa siriaca ortodossa, chia­mata appunto Chiesa giacobita, che al giorno d'oggi conta circa due milioni di fedeli.

 

 

Etnofroni

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Fino a un certo punto i cristiani furono oggetto di tantissimi pregiudizi popolari. Erano bersagliati da accuse di ogni tipo: si diceva che adorassero una testa d'asino, si inginocchiassero davanti ai genitali dei sacerdoti, provocassero disastri naturali, facessero magie e sortilegi. E poi, quando il rifiuto dei culti imperiali minacciò la tenuta sociale, gli attacchi cominciarono a fioccare anche dalle èlite intellettuali.

Nonostante questo, il cristianesimo diventò la reli­gione professata dalla maggioranza della popolazio­ne. Costantino fu il primo a capire che l'assolutismo monoteista poteva tornare utile alla monarchia.

E così, un po' alla volta, la libertà di culto smise di essere l'obiettivo principale del cristianesimo, che adesso si poneva il problema del possesso esclusivo di una verità assoluta. Una verità con la quale i pagani furono costretti a fare i conti, una verità imposta attraverso nuovi riti e nuovi simboli: la croce, l' l'acqua benedetta. Le antiche superstizioni, la consultazione degli oroscopi e l'uso dei talismani, si mesco-. larono con la venerazione dei santi e delle loro reliquie e con l'osservanza di nuove liturgie. Ma anche quello che il cristianesimo non era stato in grado di' assimilare direttamente sopravvisse e venne riciclato in rituali magici e pratiche di divinazione. In una dimensione, ovviamente, che non poteva più essere pubblica ma solo privata. Allora, mentre la chiesa si ' appesantiva con apparati e gerarchie, e con quelli .. , combatteva ogni pratica superstiziosa, certe bizzarre forme di paganesimo attecchirono fra i contadini.

Inoltre in occidente la caduta dell'Impero Romano aveva avuto conseguenze pesantissime sull'economia. E proprio i più poveri subirono gli effetti peggiori. Tornare agli antichi riti, per alcuni di loro, fu una cosa del tutto naturale. La superstizione, in fondo, era una r consolazione e aiutava a sopportare sofferenze e disgrazie. E poi era bello pensare che Dio, per mezzo di segni e presagi, si prendesse la briga di avvertire l'uomo e metterlo al riparo dalle sciagure.

Dal sesto secolo la mescolanza fra cristianesimo e paganesimo divenne un fatto. Perfino il vescovo di Tours, Gregorio, si mise a raccontare di strane appari- , zio ne, bizzarri prodigi come raggi in cielo, pioggia di serpenti, sparizioni inspiegabili di persone e altri segni che annunciavano la morte del re o altre calamità.

Perciò, vista la situazione, la Chiesa cominciò un'opera di rieducazione all'ortodossia, in certi casi di vera e propria riconversione. E fu davvero un gran lavoro, quello dei vescovi, che dovettero riconquista­re e purgare comunità (come quella degli Etnofroni) che ormai, nel loro isolamento, avevano elaborato propri culti e cerimonie.

Ancora nel sesto secolo san Colombano si lambic­cava il cervello sui tipi di penitenza richiesti dai diffe­renti peccati commessi: 40 giorni di digiuno per chi avesse partecipato ai riti pagani; 6 quaresime di di­giuno per procurato aborto, 1 anno per il sortilegio d'amore, I anno anche per la masturbazione, 3 anni di digiuno a pane e acqua più 3 anni di esilio in caso di omicidio, 3 anni di astensione dai cibi grassi e dal­l'uso del matrimonio in caso di adulterio, 2 anni di penitenza per impurità commesse in solitudine oppu­re con un giumento, 7 anni di penitenza per il pecca­to di sodomia: i primi 3 a pane e acqua, gli altri 4 astenendosi dal vino e dalla carne.

Certe volte però i peccati si accumulavano e le penitenze erano così alte che ci sarebbero volute molte vite per espiarli tutti. Allora vennero introdot­te delle tabelle di commutazione che, per esempio, permettevano di farsi abbonare 3 giorni di digiuno stando in piedi un giorno e una notte, senza dormire, oppure recitando 50 salmi. Per evitare I anno di digiuno bisognava invece passare 3 giorni nella tomba di un santo senza bere e senza mangiare, senza dormire, senza togliersi gli abiti e recitando, per tutto il tempo, salmi e cantici. In alternativa, 3 giorni in una chiesa, completamente nudi, senza bere, senza mangiare, senza dormire, senza neppure sedersi, sem­pre cantando salmi e, in aggiunta, facendo 12 genu­flessioni.

Un tipico esempio di cristiani paganizzanti erano gli Etnofroni, membri di una setta che comparve nel settimo secolo. Siccome si dedicavano all'astrologia e predicevano il futuro basandosi sulla posizione dei pianeti, vennero accusati di mortificare il libero arbi­trio e, implicitamente, di escludere l'intervento della grazia divina nella salvezza dell'uomo. Perciò furono bollati come eretici.

In effetti gli Etnofroni usavano le espiazioni dei pagani e celebravano le loro feste. Se si verificava qualche evento insolito, c'era chi si incaricava di interpretarlo e di dargli un certo significato. Non mancavano poi gli indovini, che estraevano a sorte oggetti o frasi di libri e s'inventavano qualche storia legata all'uno o all'altro sortilegio. Per non parlare di quelli che facevano divinazioni osservando il com­portamento degli animali: delle capre (aigomanzia), dei gatti (ailuromanzia), dei galli (alectromanzia), delle rane (batracomanzia), del cuculo (cocchigoman­zia), dei topi (myomanzia), delle formiche (mirmomanzia). Se poi gli animali morivano e non si poteva più studiare il loro comportamento, gli indovini cer­cavano risposte nel loro fegato (epatomanzia), oppu­re nelle loro vertebre (spondilomanzia) o scapole (scapulomanzia). Alle volte l'animale veniva sacrifi­cato e appositamente macellato per le attività di divi­nazione (aruspicina). Se invece il morto era un uomo, allora lo si poteva evocare per fargli delle domande (negromanzia). Anche i cibi erano un ottimo mezzo per la divinazione. Si poteva interrogare la farina (aleuromanzia) oppure l'orzo (alfitomanzia), il sale (alomanzia) o i germogli di cipolla (crommiomanzia). Allo scopo andava benissimo anche il formaggio (tiromanzia). Le fave erano molto usate, ma perché «parlassero» era necessario lanciarle come si faceva con i dadi (fabanomanzia). In mancanza di fave si poteva ovviamente ripiegare sui dadi veri e propri (astragalomanzia). Il metodo più diffuso, comunque, restava l'interpretazione dei fenomeni naturali. I più quotati erano tuoni (brontomanzia) e fulmini (cerau­nomanzia). Anche l'acqua e il vento non venivano sottovalutati. Perciò alcuni si specializzavano nella lettura della cera fusa o del piombo fuso versati in acqua fredda (rispettivamente ceromanzia e molibdomanzia), altri nella divinazione dei riccioli dei bambi­ni agitati dal vento (bostricomanzia).

 

 

Pauliciani

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Quella dei Pauliciani è una storia turbolenta. Il suo fondatore, Costantino di Manarnali, venne condannato a morte per eresia e lapidato davanti ai discepoli nel 682 d.C. L'ufficiale delle truppe bizanti­ne che l'arrestò, un certo Simone, diventò il nuovo capo della setta. Otto anni dopo venne anche lui condannato a morte e bruciato sul rogo. Senza una guida, ma con l'appoggio della dinastia imperiale isaurica, i Pauliciani riuscirono a sopravvivere e a riorganizzarsi. Sopravvissero anche alle persecuzioni degli imperatori della dinastia amoriana, ma dovette­ro impugnare le armi. Un passo difficile per dei pacifisti convinti. Da allora in avanti il sentimento antibi­zantino dei Pauliciani non fece altro che crescere. Divenne odio feroce quando l'imperatore Giovanni I Zimisce, nel 970 d.C., li deportò in Tracia per contrastare le invasioni dei Bulgari.

Ma proprio quella deportazione permise alle dot­trine pauliciane di dilagare nei balcani. Queste dottri­ne riprendevano il concetto gnostico della contrappo­sizione fra Dio malvagio del Vecchio Testamento (creatore del mondo e della materia) e Dio buono del Nuovo Testamento (creatore dello spirito e dell'ani­ma). Fra l'altro rilanciavano le regole dell'astensione: astensione dal cibo, dal vino, dal sesso, dalla violenza, dal culto delle immagini (motivo per cui la dinastia isaurica, di tendenze iconoclaste, li prese in simpatia).

E così, nonostante l'impero bizantino fosse al massimo dello splendore, il paulicianesimo trovò comunque terreno fertile. Tanto da evolvere in una nuova eresia, il Bogomilismo.

Quando morì Basilio II, Bisanzio prosperava ma non c'era nessuno a mettere un freno alla fame di potere dell'aristocrazia terriera o alla smania di ric­chezza degli ordini monastici. L'impero si arricchiva,

ma le sue fondamenta scricchiolavano. Ci sarebbe voluto un rinnovamento economico e sociale, ma nessuno era interessato a farlo.

I contadini, intanto, agonizzavano nella periferia dell'impero. Lontano dalla capitale, che ormai era vista come il nemico da abbattere, il popolo si organiz­zava in uno strano movimento di resistenza. Resisten­za contro l'aristocrazia terriera, contro l'organizzazio­ne ecclesiastica, contro Bisanzio. Resistenza passiva.

I Bogomili infatti disprezzavano gli imperatori e credevano che Dio odiasse quelli che lavorano per loro. Per questo motivo insegnavano ai loro adepti a non sottomettersi alle autorità e incitavano i servi a non lavorare per il padrone.

Incitavano alla disobbedienza civile e allo sciopero totale e permanente. Come i Pauliciani prima di loro, esaltavano ogni forma di astinenza: dal lavoro, dal cibo, dal sesso. Si accontentavano di poco cibo, esclu­sivamente vegetale, poiché carne e latticini erano opere del diavolo. Così pure il vino. Digiunavano lunedì mercoledì e venerdì. Non si sposavano: era il diavolo a convincere gli uomini a prendere moglie. E non pro­creavano, visto che anche il parto avveniva con la sua collaborazione. Quando incontravano un bambino in età di battesimo provavano un tale senso di nausea che si tappavano il naso e sputavano per terra.

Insomma evitavano tutto, per una forma di rifiuto totale dell'ordine costituito, che cercavano di abbat­tere per via pacifica. Si astenevano infatti anche dalla violenza.

Ai contadini e ai servi dicevano di non lavorare, di puntare tutto sull'immaterialità. Materiale significa­va malvagio. Il mondo, per esempio, era malvagio. E­il cibo. E il vino. E siccome quelli non avevano né I cibo né vino e, quanto a lavorare, potevano smettere, anche subito, si convertirono immediatamente.

Scoprirono così che la terra era stata creata da Dio in collaborazione col diavolo, il suo primogenito (il cui nome era Satanael). Questo aveva il compi­to di recuperare dal fondo del mare la sabbia che serviva al padre per creare la terra. Mentre Dio crea­va la terra, lui creava l'uomo. Poi rubò l'anima, custodita dal padre, e la usò per dare vita al corpo' dell'uomo. L'operazione richiese 300 anni perché, quando tentava di farla entrare dalla bocca, quella '., usciva dall'ano. Quando provava a farla passare dal- . l'ano, quella usciva dalla bocca. Infine a Satanael venne un'idea: mangiare gli animali più schifosi che gli riuscì di trovare - serpenti, scorpioni, ratti eccetera - quindi introdurre l'anima nella bocca dell'uomo, tappargli l'ano con le dita e, dopo aver fatto passare l'anima dalla bocca, vomitarci sopra. L'ope­razione riuscì alla perfezione sicché Dio, per riprendersi ciò che gli era stato rubato, mandò il suo ' secondogenito, Cristo, sulla terra.

Il quale, però, tentò di recuperare l'anima con la sola predicazione e senza compiere miracoli. I miracoli erano opera di Satanael, che li utilizzava per sedurre gli uomini. Utilizzava anche le reliquie, che infatti non servivano a niente e non dovevano essere adorate. Tantomeno doveva essere adorata la croce, sulla quale venne messo a morte Cristo.

«Se qualcuno appendesse tuo padre a una croce di legno, dicevano i Bogomili, tu onoreresti e glorifiche­resti questo legno?».

Se la prendevano poi con la Chiesa. E anche con le chiese, in cui non c'era niente di sacro e non ci abita­va il Signore e anzi, a dirla tutta erano anche loro opera di Satanael, che ci viveva coi suoi demoni.

Per questo motivo non aveva senso celebrare i riti nelle chiese, anche perché la liturgia non era stata tra­mandata dagli apostoli ma era un'invenzione succes­siva composta su ordine del diavolo. Tant'è che nelle Sacre Scritture utilizzate per i riti, era permesso man­giare la carne, onorare il matrimonio, calunniare e compiere sacrifici.

Pregare si poteva pregare, ma fuori dalle chiese e solo recitando il padrenostro. Recitandolo, per l'esat­tezza, 120 volte al giorno. Quanto ai sacramenti, come la comunione e l'eucarestia, il battesimo e la confessione, non discendevano da un comandamento di Dio ma, manco a dirlo, dal volere di Satanael.

Il battesimo, per fare un esempio, era un rito satani­co inventato da Giovanni Battista, un precursore del­l'Anticristo. Doveva perciò essere sostituito dalla tele­ìosis, il cui momento centrale consisteva nell'imporre sul capo dell'iniziato una versione riveduta e corretta del vangelo di Giovanni. In quel mentre l'iniziato con­fessava i suoi peccati mentre i presenti gli sputavano addosso. Subito dopo si procedeva alla purificazione per mezzo dell'acqua, lavando l'iniziato dall'alto il basso. Una volta purificato, l'iniziato era pronto a vivere la sua vita da Bogomilo, cosa che avrebbe tanto per cominciare, smettendo di fare tutto che aveva cominciato in quella precedente.

 

 

Iconoclasti

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Durante il regno dell'imperatore bizantino Leone III, si verificò una serie impressionante di catastrofi ed eventi straordinari: un'esplosione vulcanica deva­stò l'isola di Thera (Santorini), seguì un maremoto, poi ci fu un'epidemia di peste, un terremoto danneg­giò Costantinopoli e dintorni e arrivò perfino un iceberg dal Mar Nero. Erano dei segni? Dio stava cer­cando di comunicare qualcosa?

Leone III divenne imperatore il 25 marzo del 717 d.C. Per un uomo di umili origini, fu il coronamento: (in senso letterale) di una carriera incredibile partita dai ranghi più bassi dell'esercito. La decisione di, appoggiare la restaurazione di Giustiniano II, che lo volle per questo nella sua guardia d'onore, fu azzec­catissima. E dopo arrivò la vittoria nella spedizione' contro i ribelli del Caucaso. Venne quindi nominato capo della divisione militare anatolica direttamente da Anastasio II. La strada verso il trono era ormai spianata. 

Come imperatore Leone si dimostrò subito molto abile: nello stesso anno in cui venne incoronato salvò l'impero dal tracollo respingendo l'esercito che Maslam, il fratello del califfo Sulaimàn, aveva con­dotto fino alle mura di Costantinopoli. Di fatto, bloc­cando l'avanzata islamica, aveva salvato l'Europa.

Oltre ai meriti in campo militare, dimostrò grandi doti politiche. Avviò riforme, mise mano all'assetto fiscale, emanò leggi che ampliavano i diritti delle donne e dei servi. Nello stesso periodo si occupò del culto delle immagini religiose. Con l'editto del 730 d.C. convocò un silentium sulla questione iconoclasta, in attesa che un concilio si pronunciasse sul problema.

Il suo obiettivo non erano tanto le icone quanto la burocrazia clericale, che si era costruita un'egemonia non solo spirituale ma anche culturale e politica pro­prio attraverso la superstizione e il culto delle imma­gini. Tentò insomma di rimediare alla situazione con una battaglia sia politica che teologica. Alla visione antropomorfa di Dio, Leone contrapponeva l'idea di un Assoluto indefinibile, che non poteva essere cono­sciuto e nemmeno rappresentato.

Fu questa la colpa non cancellabile di Leone III.

I cronisti dell'epoca, improvvisamente, non ebbe­ro dubbi: eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti, epidemie e iceberg erano tutti colpa di Leone. Dio manifestava così il suo disappunto per la lotta icono­clasta. La figura consegnata alla storia, perciò, non fu quella del siriaco imperatore, ma dell'isaurico ico­noclasta. Uno che aveva iniziato la sua carriera vagando a piedi da una fiera all'altra, un pezzente­ che si portava dietro un asino carico di merci di valore. Una specie di barbone, insomma, che apparteneva a un'etnia barbara (isaurica) universalmente" nota per la sua rozzezza. Per quanto rozzo però,' Leone aveva ambizioni smodate. Entrò nell'esercito poi, per ottenere i favori necessari a una rapida car-: riera militare, regalò 500 pecore a Giustiniano II. Nel, frattempo conobbe due maghi ebrei, i quali gli predissero che sarebbe diventato imperatore. Siccome non voleva crederci, i due gli strapparono una pro­messa: il giorno in cui la profezia si fosse avverata" avrebbe dovuto bandire le immagini dalla Chiesa.

Fu così che l'imperatore Leone, con ordini e decreti, e più ancora con i fatti, iniziò la sua guerra alle immagini. Ordinò di rompere e bruciare le statue, cancella­re le pitture con acqua, inchiostro e calce, carcerare", esiliare, massacrare e decapitare ogni oppositore. Con le buone o con le cattive, più spesso con le cattive, convinse gli abitanti di Costantinopoli a conse­gnare tutte le immagini sacre, che fece poi bruciare, nel centro della città. Uno dei gesti più eclatanti fu la rimozione dell'immagine di Cristo posta da Costanti­no sulla porta del palazzo. Gli ufficiali incaricati di portarla via se la videro brutta per davvero. Uno di: loro, che era salito su una scala per distruggere e poi' rimuovere l'immagine, venne fatto cadere e poi, una volta a terra, ucciso a bastonate dalle donne presenti. Ma quell'episodio non scoraggiò Leone. Il quale non esitò a bruciare la biblioteca di Costantinopoli visto che lì si erano rifugiati molti suoi oppositori, per lo più insegnanti di teologia con i loro allievi. Dimostrò la stessa ferocia nei confronti di Giovanni Damasce­no, colpevole di aver scritto molte lettere contro l'ico­noclastia. Alcune di queste caddero in mano all'Im­peratore che volle vendicarsi. Chiamò uno scrittore particolarmente bravo a imitarle e gli fece scrivere una finta lettera. In questa finta lettera Giovanni, che amministrava Damasco per conto dei Saraceni, invi­tava Leone a prendere possesso della città. Leone inviò la finta lettera al califfo Yazid e gli scrisse anche che trovava molto triste che Damasco fosse in mano a un simile traditore. Perciò il califfo fece tagliare la mano di Giovanni e la fece appendere in piazza. La storia di questa mutilazione non è molto nota, anche perché intervenne la beata Vergine che, con un mira­colo, fece tornare al suo posto la mano del santo.

Più tardi fu Germano, patriarca di Costantinopo­li, a battersi contro gli inconoclasti. Per questo Leone lo fece strangolare e sostituire da Anastasio, un uomo a lui fedele.

Se Leone Isaurico venne per questo definito una bestia feroce, un giudizio ancor meno lusinghiero toccò alla sua stirpe. Suo figlio Costantino V, del resto, fu peggio del padre e lo si capì immediatamen­te. La notte di Natale dell'anno 718 il piccolo erede al trono, che evidentemente non voleva farsi battez­zare, defecò nel fonte battesimale. Un segno perfino peggiore di eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti, iceberg o epidemie.

 

 

Formosiani

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Non è una novità che un uomo di chiesa si macchi. di una qualche eresia e finisca a capo di una fazione di dissidenti. Era già successo a Paolo di Samosata, patriarca di Antiochia e poi condannato da un concilio di vescovi. Lo stesso dicasi per Ario, che era un presbitero, e Apollinare, che era vescovo di Laodicea. Per non parlare di Nestorio, patriarca di Costantinopoli. il caso di Formoso rappresenta però un'eccezione. E non solo perché venne eletto Papa, ma anche perché venne processato e condannato quand'era già morto. E·' anche perché, mentre era in vita, nessuno aveva sentito parlare di una fazione di Formosiani.

Le cose andarono in questo modo. Quando salì al soglio pontificio Formoso era vescovo di Portus (1'odierna Fiumicino). In quanto tale non poteva essere eletto. Un bel po' di denaro e l'appoggio del partito filogermanico fecero dimenticare l'inghippo.  Sarenne andato tutto liscio se il papa non avesse mandato un'ambasciata all'imperatore tedesco Arnolfo di Ca­rinzia chiedendogli di scendere in Italia e liberarlo dal- .' l'ingombrante presenza di Guido di Spoleto, che lui stesso aveva incoronato Re d'Italia e Pavia.

L'imperatore tedesco rispose all'appello e il casato spoletino gridò al tradimento. Lamberto II, che intanto aveva preso il posto di Guido, marciò su Roma, la conquistò e rinchiuse Formoso a Castel sant' Angelo. Ma Arnolfo di Carinzia accorse prontamente in aiuto del papa, lo liberò, si fece incoronare imperatore d'Italia e marciò su Spoleto per togliere di mezzo Lamberto. Sfortuna volle che venisse colpito da una paralisi e fosse costretto a tornare in Germania.

Mentre Roma era nel caos più totale Formoso morì. Dopo il pontificato record di Bonifacio VI, durato appena una decina di giorni, venne eletto Ste­fano VI, molto vicino a Lamberto di Spoleto. La vendetta stava per consumarsi.

Il corpo di Formoso venne riesumato, vestito con tutti i paramenti e legato a un trono in una sala della Basilica Laternanense. Dietro il cadavere impaludato fu nascosto un diacono, così che potesse rispondere al suo posto e tentare una difesa. A quel punto ven­nero notificati i capi d'imputazione. Dopodiché Ste­fano in persona si alzò in piedi e chiese al morto: «Come hai potuto, per la tua folle ambizione, usur­pare il seggio apostolico, tu che pure eri già vescovo di Portus?». L'inghippo che tutti avevano ignorato diventava l'argomento principale dell'accusa.

Il cadavere provò a rispondere qualcosa ma fu messo a tacere dalle urla e dai fischi dei presenti. Alla fine, inesorabile, arrivò il verdetto. Il defunto papa venne dannato in eterno, i paramenti gli furono strap­pati di dosso, le tre dita della mano destra - quelle con cui impartiva la benedizione - gli furono mozzate, il corpo fu trascinato via, consegnato alla folla e sca­raventato nel Tevere. Il concilio però non si limitò a questo: stabilì che tutti quelli consacrati da Formoso dovessero ricevere di nuovo gli ordini sacerdotali.

Ecco, fu proprio questo decreto a scatenare la lunga lotta tra formosiani e antiformosiani, tra chi riteneva che le ordinazioni in sacris non potessero essere invali­date, e chi avrebbe voluto cancellare anche il ricordo di Formoso. .

Teodoro II, che fra l'altro era il figlio del patriarca di Costantinopoli Fozio, era formosiano. Quando si venne a sapere che il cadavere di Formoso era stato ritrovato sulla sponda del Tevere, venti chilometri piu a valle e che l'uomo che l'aveva recuperato era un monaco e che questo monaco aveva custodito le spoglie, Teodoro II le fece tornare a san. Pietro in pompa magna e seppellire fra le tombe degli apostoh.

Sergio III (che fu papa dal 904 d.C. ~fino alla sua morte, avvenuta nel 911) era invece antiforrnosiano­. Condannò per la seconda volta Formoso e, per la seconda volta, fece sconsacrare i vescovi da lui ordi­nati. A questo punto però, tra quelli ordinatl diretta­mente da Formoso e quelli ordinati ìndìrereamente attraverso i primi, non si capì più nulla e ci fu solo una gran confusione. E l'inghippo venne dimenticato. Anche quello per la seconda volta.

 

 

Antifilioquisti

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Oltre a stabilire che il Padre e il Figlio avevano la stessa natura, il concilio di Nicea aveva anche stabilito che lo Spirito Santo procedeva dal Padre. Sicché, quando Carlomagno provò a far passare una formu­la nella quale lo Spirito Santo procedeva anche dal Figlio («qui ex Patre Filioque procedit»), Leone III rifiutò spiegando che, dal suo punto di vista, la dot­trina del filioque poteva anche essere insegnata ma di certo non poteva essere cantata. Soltanto un concilio ecumenico poteva decidere una cosa così importante, che fra l'altro riguardava tutte le chiese.

In un certo senso il papa era riuscito a salvare capre e cavoli, ma non era riuscito a impedire che l'uso del filioque si diffondesse in Spagna e in Francia.

Negli anni in cui Carlomagno e Leone III si occu­pavano della dottrina del filioque (siamo all'inizio del nono secolo), nacque a Costantinopoli il filosofo, teologo e futuro patriarca Fozio. All'inizio sembrava destinato a una brillante carriera laica, da uomo di stato, dopo però le cose presero una piega diversa. L'imperatore Michele III l'Ubriaco, soprannome gua­dagnato per meriti sul campo, esiliò l'allora patriarca Ignazio, colpevole di aver rifiutato la comunione allo zio Bardas. Al suo posto mise il quarantenne Fozio. Però, siccome Fozio a quell'epoca era un semplice laico, fu necessario consacrarlo monaco, poi lettore, poi vice-diacono, poi prete, quindi patriarca, tutto in sei giorni (era l'anno 858 d.C.).

Naturalmente Ignazio non aveva la minima inten­zione di lasciar correre. Chiese aiuto a Papa Nicolò I Magno il quale dichiarò illegittima la deposizione del patriarca e minacciò Fozio di scomunica.

E a quel punto accadde l'impensabile: non soltan­to Fozio non si arrese alle richieste del papa, ma lo scomunicò a sua volta. In pratica accusò di eresia l'intera Chiesa di Roma, composta, a suo dire, da , uomini che erano riusciti a corrompere ogni cosa con la loro ignoranza. La pietra dello scandalo era la for­mula del filioque. Un'aggiunta arbitraria al sacro testo riconosciuto dai Concili, un'empietà che decretava la rinuncia al monoteismo cristiano.

In effetti il filioquismo rompeva l'equilibrio fra le tre Persone. L'unità della sostanza diventava più importante della trinità delle ipostasi e questo, rischia­va di portare a un'eccessiva centralizzazione. E diffici­le dirlo con certezza, ma forse Fozio aveva già intuito che si stava trasformando il primato di Pietro, Primo tra i Pari, nel primato del papa, monarca assoluto.

Altro colpo di scena: Michele III fu assassinato e gli succedette Basilio I il Macedone. Basilio esiliò Fozio, che lo aveva accusato dell'omicidio di Michele, e rimi­se al suo posto Ignazio. Però la popolarità raggiunta da Fozio era tale che di nuovo, alla morte del patriar­ca fu scelto per sostituirlo. Questa volta con l'approvazione ufficiale del nuovo papa. Giovanni VIII, infatti, era antifilioquista.

Ma Fozio, che aveva il dente avvelenato con Roma, tornò sulla nota controversia. Giovanni VIII fu costret­to a scomunicarlo per la seconda volta e il nuovo impe­ratore Leone VI ne approfittò per cacciarlo e mettere al suo posto il proprio fratello. La cosa però non piacque per niente a Roma che infatti scomunicò entrambi.

Ecco, questo fioccare di nomine, scomuniche, per­doni e condanne fu, in sostanza, la premessa alla rot­tura definitiva: lo scisma del 1054. Fu allora che il mondo cristiano si spezzò in due: da una parte la Chiesa d'Occidente, dall'altra quella d'Oriente. E Fozio - che fu antifilioquista, insultò il papa, venne scomunicato due volte, fu causa del grande scisma e venne annoverato, a buon diritto, fra i peggiori ereti­ci nella storia della Chiesa, quella cattolico-romana­è oggi venerato come santo dalla Chiesa greco-orien­tale, quella Ortodossa.