Il momento
della decisione |
Hugh Lozier era l'eccezione alla regola in base alla quale
le persone completamente sicure di sé non possono essere simpatiche. Tutti noi
abbiamo certo incontrato gente sicura di sé: quelle voci controllate ma
penetranti che interrompono tutte le altre in una discussione, quei terribili
indici puntati contro i vostri petti a sostegno delle loro opinioni, quelle
Parole Finali su qualsiasi argomento; e penso che tutti proviamo per loro lo
stesso miscuglio di antipatia e di invidia. Antipatia, perché a nessuno piace
che gli si dia sulla voce o d'essere solleticato sul petto, e invidia, perché
ognuno vorrebbe esser tanto sicuro di sé da poter esser lui a interrompere gli
altri o a puntare l'indice sui loro petti.
Da parte mia, poiché il mio lavoro mi costringeva a recarmi
regolarmente in certi luoghi di questo atomico mondo dove non c'era che
confusione e il solo impiego sicuro consisteva nel cercare il pelo nell'uovo in
politica, trovavo sempre più difficile formulare dei giudizi sicuri. A questo
proposito, Hugh una volta osservò che per fortuna i miei superiori del
ministero non eran fatti della mia stessa stoffa, perché altrimenti Dio sa che
cosa sarebbe successo al paese. Non gustai molto le sue parole, ma - e questa
era la mia solita maledizione - dovetti sottomettermi a riconoscere il suo
diritto di dirle.
Malgrado ciò e a onta del fatto che Hugh era mio cognato -
una strana parentela quando ci si pensa - gli volevo molto bene, come tutti
quelli che lo conoscevano. Era un uomo robusto, di bell'aspetto, con chiari
occhi azzurri e un carattere vivace, appassionato e pronto ad apprezzare
qualunque cosa avevate da offrirgli. Era generosissimo, e la sua generosità era
di quella rara e superiore qualità che vi fa sentire come se foste voi a fare
un favore al donatore accettando il dono.
Non direi che avesse un gran senso dell'umorismo, ma il
semplice buonumore può talvolta esserne un adeguato sostituto, e questo era il
caso di Hugh. Il suo lato appassionato era riservato a quei casi in cui pensava
che aveste necessità del suo aiuto e non volevate domandarglielo. Il che
significava che dieci minuti dopo avervi conosciuto e avervi trovato simpatico,
egli si aspettava che voi gli chiedeste qualunque cosa fosse nelle sue
possibilità di offrirvi. Un mese dopo le sue nozze con mia sorella Elisabeth,
lei gli parlò della mia grande ammirazione per il bellissimo Copley appeso
nella sua galleria a Hilltop, e ho ancora viva l'impressione del mio orrore
quando me lo vidi arrivare, solidamente imballato, col suo biglietto da visita.
Ci volle del bello e del buono, ma finalmente riuscii a restituirglielo,
adducendo come scusa che il quadro valeva certamente più di tutto l'immobile
nel quale vivevo e che sulla parete della mia stanza non era in buona luce.
Credo che egli sospettasse che non dicevo la verità, ma essendo Hugh non si
sarebbe mai sognato di accusarmi chiaramente di menzogna. Naturalmente, Hilltop
e i duecento anni di tradizione dei Lozier che ne facevano parte, avevano avuto
il loro peso nel fare di Hugh quello che era. I primi Lozier avevano tratto i
loro possedimenti dalle alture sovrastanti il fiume, li avevano lavorati sodo e
li avevano fatti fiorire straordinariamente; le generazioni successive avevano
investito così saggiamente i loro redditi che denaro e posizione avevano alla
fine eretto un muro altissimo tra Hilltop e il resto del mondo. A dire la
verità, Hugh era molto simile a un uomo del diciottesimo secolo che qualche
volta si trovava nel ventesimo e si rassegnava come meglio poteva.
Hilltop era quasi una replica della celebre, ma abbandonata
casa Danese che si ergeva poco lontano, un fatto che colpiva a prima vista. La
casa dei Lozier era di pietra del colore del tempo, armoniosa nonostante la sua
mole, e i vasti prati che raggiungevano la riva del fiume erano stati curati
con tale fanatica devozione per anni, che erano diventati come tappeti del più
puro verde che cambiava magicamente il tono di lucentezza a ogni soffio di
vento. Giardini si stendevano dall'altro lato della casa fino alla fila di
arbusti che nascondeva a metà le stalle e altri fabbricati, e in fondo alla
fila partiva la stradina che conduceva al paese. Era una strada privata, di cui
ogni proprietario di terreni che attraversava manteneva la sua parte; e a
questo punto credo sia giusto dirvi che, nonostante tutta la ghiaia che vi
faceva stendere sopra, Hugh era quello che l'usava meno tra i suoi vicini.
La vita di Hugh era strettamente legata a Hilltop; soltanto
una vera necessità poteva persuaderlo ad allontanarsene; se lo incontravate
lontano da casa vi accorgevate subito che lui stava contando i minuti che gli
mancavano per potervi ritornare. E se non stavate attento, vi trovavate in sua
compagnia quando tornava a Hilltop e assolutamente incapaci di strapparvi da lì
per molte preziose settimane. lo ne so qualche cosa: credo di aver passato più
tempo a Hilltop che nel mio appartamento dopo che mia sorella s'era sposata con
Hugh.
Qualche volta mi domandavo come Elisabeth considerava il
suo matrimonio, visto che prima del suo incontro con Hugh era stata tanto
irrequieta e vivace quanto graziosa. Quando lo domandai a lei direttamente, mi
rispose:
"È meraviglioso, caro. Tanto meraviglioso come, appena
l'ho visto, ho capito che sarebbe stato".
Mi disse che il loro primo incontro aveva avuto luogo a una
mostra di quadri ultramoderni; lei stava studiando attentamente una delle
composizioni più sbalorditive, quando s'accorse che quel bellissimo uomo la
stava guardando fisso. E lei stava per metterlo al suo posto come meritava
quando lui l'aveva interrotta dicendo: "State ammirando quella
roba?".
Presa alla sprovvista da quelle parole tanto diverse da quelle
che s'era aspettate: "Non lo so," aveva detto timidamente.
"Dovrei farlo?"
"No," aveva detto lo sconosciuto, "è uno
scherzo di cattivo genere. Venite con me, voglio mostrarvi qualcosa che vale la
pena."
"E," mi disse Elisabeth, "lo seguii come un
cagnolino. mentre andava su e giù mostrandomi i quadri buoni e quelli cattivi,
e a voce così forte che presto avemmo una folla attorno a noi. Ti puoi figurare
una cosa simile, caro?"
"Sì, certo," risposi. "A quest'ora mi sono
trovato in occasioni simili con Hugh, e ho imparato a mie spese che niente può
abbattere la sua ferrea sicurezza."
"Bene," proseguì Elisabeth, "devo ammettere
che in un primo momento mi sentii imbarazzata e diffidente, ma poi incominciai
ad accorgermi che conosceva benissimo la materia e che era terribilmente
sincero. Per niente professorale, era soltanto ansioso che io capissi le cose a
suo modo. E lui è così in ogni campo. Tutti gli altri esitano o balbettano
quando devono decidere qualche cosa, si tratti di ordinare un pranzo, o di come
cavarsela nel proprio mestiere, o del voto da dare a questo o a quel candidato;
ma Hugh sa sempre quello che va fatto. Vuol dire non sapere niente di nervi e
complessi e roba del genere di cui si sente tanto parlare. E io mi prendo Hugh,
e lascio tutti gli altri agli psichiatri."
E così era Hilltop. Un Eden con stupendi tappeti erbosi,
senza nervi e complessi, e neppure la traccia di un serpente nei dintorni.
Ossia, non una traccia fino al giorno in cui Raymond fece il suo ingresso sulla
scena.
Eravamo sulla terrazza, quel giorno, Hugh, Elisabeth e io,
quasi liquefatti in una specie di fluido torpore dal sole d'agosto, troppo
assenti per tentare una conversazione. Ero disteso con un berretto di tela
sopra la faccia, ascoltavo i suoni dell' estate e mi sentivo completamente felice.
Sentivo il dolce stormire degli alberi al passaggio
costante della brezza, il tuffo dei remi e le voci dei gitanti sul fiume e di
tanto in tanto il tintinnio del campanello di una pecora che s'era allontanata
dal gregge. Il gregge era un capriccio di Hugh. Giurava che niente era migliore
per un prato di qualche pecora che vi pascolasse, e ogni estate cinque o sei
grassi e sonnacchiosi magnifici esemplari erano accolti sui prati a questo
scopo e anche per aggiungere una piacevole nota pastorale al panorama.
Il primo avvertimento che qualcosa non andava mi venne
dalle pecore, dal suono improvviso dei loro campanelli scossi tutti insieme con
violenza e da un "bee" collettivo che faceva supporre un assalto da
parte di un intero branco di lupi. Sentii Hugh esclamare rabbiosamente:
"Maledizione!", e quando aprii gli occhi vidi qualche cosa di più
incongruo dei lupi. Era un grande cane barbone, nella piena gloria del taglio
clownesco del suo pelo nero, con un collare di un rosso brillante, che con
beata allegria stava correndo dietro alle pecore spaventate tutt'intorno al
prato. Era chiaro che il barbone non aveva intenzione di far loro del male -
probabilmente trovava che erano le più meravigliose compagne di giochi che
potesse sognare - ma era anche chiaro che le pecore, prese dal panico, non lo
capivano e certo sarebbero finite tutte nel fiume se il gioco fosse continuato
ancora un poco.
Nei pochi secondi che mi bastarono a vedere tutto questo,
Hugh era già balzato giù dalla terrazza e in mezzo alle pecore cercava di
avviarle lontano dalla sponda del fiume, mentre dava ordini al cane che non se
ne dava per inteso.
"Giù, birbante!" gridava, "giù." Poi,
come avrebbe fatto con uno dei suoi cani, ordinò con forza: "Qui
subito!".
Avrebbe fatto meglio, secondo me, ad afferrare un bastone o
una pietra e a fare un gesto di minaccia, perché il cane barbone non fece
alcuna attenzione alle parole di Hugh. Invece, continuando ad abbaiare felice,
ricominciò l'inseguimento delle pecore, e questa volta Hugh lo rincorse invano.
Un istante più tardi il cane si immobilizzava di colpo al suono di una voce che
proveniva dagli alberi vicino al termine del prato.
"Assieds!"
gridava la voce a perdifiato. "Assieds-toi!"
Poi apparve l'uomo, piccola e vivace figura che correva attraverso il prato.
Hugh si fermò ad aspettarlo, e il suo viso si faceva più scuro mentre lo
guardava.
Elisabeth mi strinse un braccio. "Andiamo laggiù anche
noi," bisbigliò. "A Hugh non piacciono questi scherzi."
Arrivammo in tempo per sentire Hugh che già stava sparando
le sue cartucce: "Chiunque non sappia come allevare un animale,"
disse, "non dovrebbe neppure possederlo",
La faccia dell'uomo era tutta attenzione cortese. Era una
bella faccia, magra e intelligente, con un ventaglio di piccole rughe agli
angoli degli occhi. Qualcosa dietro quegli occhi trapelava suo malgrado. Una
gentile canzonatura. Uno sguardo osservatore e impaziente puntato sul mondo
esterno come una lente fotografica. Niente di tutto questo poteva venir
osservato da tipi come Hugh, ma io lo vidi, e subito provai simpatia per
quell'uomo. Vi era anche qualche cosa di familiare nella faccia del nuovo
venuto, nella sua fronte alta, nei suoi radi capelli grigi, ma per quanto
frugassi nella memoria durante la lunga e solenne conferenza di Hugh, non
riuscii a trovare una risposta. La conferenza terminò con poche osservazioni
sui metodi migliori di educare i cani, e allora fu chiaro che Hugh stava
entrando in una fase di perdono.
"Poiché non ne è venuto alcun danno... " disse.
L'uomo annuì brevemente. "Pure, mettersi in urto coi
propri vicini..."
Hugh rimase sbalordito a quelle parole. "Vicini?"
disse quasi sgarbatamente. "Volete dire che abitate qui vicino?"
L'uomo indicò la fila degli alberi in fondo al prato. "Dall'altra parte di
quei boschi."
"La casa Danese?" La casa Danese era sacra per
Hugh quasi come Hilltop, e più di una volta mi aveva detto che se mai gli fosse
stata offerta l'occasione di comperarla, l'avrebbe afferrata al volo. In quel
momento il tono della sua voce non era tanto ferito quanto incredulo. "Non
lo credo," esclamò.
"Oh, sì," confermò l'uomo, "la casa Danese.
Partecipai a un ricevimento in quella casa tanti anni fa, e ho sempre sperato
di paterne un giorno diventare il padrone."
Fu il suo modo di parlare e l'accento appena percettibile
del suo inglese preciso che mi mise sulla buona traccia. Era nato e cresciuto a
Marsiglia, e questo spiegava il suo accento, e da molti anni il suo nome era
sinonimo di leggenda.
"Siete Raymond, non è vero?" dissi. "Charles
Raymond."
"Preferisco solo Raymond." Sorrise come a scusare
la piccola vanità. "E sono lusingato che mi abbiate riconosciuto."
Non credo che lo fosse davvero. Raymond il mago, Raymond il
Grande, certo si aspettava d'esser riconosciuto dovunque si trovasse. Come il
maestro di prestidigitazione che aveva fatto impallidire la stella di Thurston,
come l'artista dell' evasione che aveva quasi superato Houdini, Raymond non era
certo propenso a sottovalutarsi.
Aveva incominciato con la solita scatola di trucchi che
forma il repertorio della maggior parte dei maghi professionisti; aveva poi di
gran lunga superato quegli esempi d'evasione che penso ora siano conosciuti da
tutti noi. La bara di piombo sigillata sotto due spanne di ghiaccio, le camicie
di forza con saldature d'acciaio, i sotterranei della Banca d'Inghilterra, lo
squisito nodo suicida che insidia la gola e tiene prigioniere le gambe insieme,
così che il movimento di una gamba stringe sempre di più il nodo alla gola ...
tutte queste trappole Raymond le aveva conosciute e ne era uscito vittorioso. E
poi, al colmo della fama, era scomparso e il suo nome era diventato una cosa
del passato.
Quando gliene domandai il perché, si strinse nelle spalle.
"Un uomo lavora per denaro o per amore del lavoro. Se possiede tutta la
ricchezza che desidera e non ha più amore per il suo lavoro, perché
continuare?"
"Ma rinunciare a una grande carriera... "
protestai.
"Era abbastanza per me sapere che la casa mi stava
aspettando."
"Volete dire," disse Elisabeth, "che non
avete mai pensato di poter vivere altrove?"
"Mai; mai una volta in tutti questi anni."
Strizzò un occhio maliziosamente: "Naturalmente non tenni segreto questo
mio desiderio a chi l'amministrava, e non appena la proprietà fu messa in
vendita, fui il primo e il solo avvertito",
"Non rinunciate facilmente a un'idea, vero?" fece
Hugh in tono acre.
Raymond rise. "Idea? Era diventata un'ossessione,
piuttosto. In tanti anni ho viaggiato in lungo e in largo per il mondo, ma per
quanto belli fossero i luoghi in cui mi trovavo, sapevo che niente poteva esser
più bello di questa casa al margine dei boschi, col fiume ai suoi piedi e al di
là le colline. Un giorno o l'altro, mi dicevo, quando avrò finito di viaggiare,
verrò qui e come Candide coltiverò il mio giardino."
Passò distrattamente una mano sulla testa del suo cane con
un'aria di gran soddisfazione. "E ora," disse, "sono qui."
Presto fu chiaro che il suo arrivo avrebbe portato un
cambiamento a Hilltop. E poiché Hilltop si immedesimava completamente con Hugh,
fu chiaro che anche Hugh stava cambiando. Divenne irritabile, non trovava più
un momento di pace, ed era più che mai sicuro di sé. Aveva ancora il suo
carattere buono e generoso, ma l'arroganza che l'aveva sempre accompagnato
aveva spesso il sopravvento. Mi sembrava un uomo che avesse un granello di
polvere in un occhio, che non riuscisse a toglierselo, e dovesse sopportarlo
come meglio poteva.
Raymond era naturalmente il granello di polvere e alle
volte avevo l'impressione che se ne compiacesse. Sarebbe stato abbastanza
facile per lui starsene per conto suo, e coltivare il suo giardino, o incollare
francobolli, o qualunque altra cosa facciano gli artisti in pensione, ma
evidentemente tutto questo non era di suo gusto. Capitava a Hilltop nei momenti
più strani, proprio quando Hugh stava pensando di trovare un pretesto per
recarsi alla casa Danese e avviare lunghe e noiose discussioni.
Tutti e due dovevano sapere di esser talmente poco adatti
l'uno all'altro che la soluzione facile e logica sarebbe stata di evitarsi. Ma
possedevano l'affinità delle forze negative e positive, e quando si trovavano
insieme in una stanza si poteva quasi sentire il crepitio della corrente
antagonista che passava tra loro.
Ogni argomento divenne per loro motivo di controversia; era
un duello continuo e amaro: Hugh chiuso nella sua armatura, tranquillo e
arrogante; Raymond che lo stuzzicava col suo spadone cercando di trovare una
fenditura nell'armatura dell'avversario. Credo che desse fastidio a Raymond
scoprire che nell'armatura non c'erano fessure di sorta. Come tutte le persone
che hanno la passione di studiare ogni lato delle questioni e di approfondire
motivi e cause, si indignava del modo unilaterale ed egoistico che aveva Hugh
di imporre le sue opinioni.
Non esitò a dirlo a Hugh. "Siete un tipo assolutamente
medioevale. Di tutte le cose che gli uomini avrebbero dovuto imparare da allora
fino adesso, la più importante è che non esistono risposte facili e soluzioni
che si possano dare con uno schiocco delle dita. Posso soltanto sperare per voi
che un giorno vi troviate di fronte al dilemma perfetto, al problema
insolubile. Sarebbe una rivelazione per voi. Imparereste di più in quel minuto
di quanto potreste mai sognare."
E Hugh non migliorò le cose quando rispose freddamente:
"E io dico che per ogni uomo che abbia cervello, e il coraggio di usarlo,
la cosa migliore che possa capitargli è proprio affrontare un dilemma
perfetto".
Forse fu proprio questo episodio che portò all'incidente
che seguì, o forse Raymond agì in quel modo mosso dal più innocente motivo
estetico. Ma certo è che i risultati furono inevitabili e pericolosi.
Il principio fu il progetto che Raymond ci sottopose un
pomeriggio con gran dovizia di particolari. Ora che viveva nella casa Danese
aveva scoperto che essa era troppo grande, troppo opprimente per lui solo.
"È come un museo," spiegò. "Vago attraverso le stanze come
un'anima perduta attraverso gallerie senza fine."
I terreni intorno alla casa avrebbero dovuto dare un panorama
diverso. Gli alberi antichi erano belli, ma ce n'erano troppi. "Non posso
letteralmente vedere il fiume a causa degli alberi," disse, "e io
invece sono un amante delle acque correnti."
Avrebbe poi fatto altri cambiamenti radicali. Due ali della
casa sarebbero state abbattute, gli alberi diradati avrebbero lasciato un largo
passaggio verso il fiume, tutta la proprietà ne avrebbe ricevuto nuova vita.
Non sarebbe più stata un museo, ma la perfetta dimora che aveva sognato per
anni.
All'inizio di questo discorso Hugh s'era comodamente
allungato sulla sua sedia a sdraio. Poi, man mano che Raymond tracciava il
quadro di quello che aveva in mente di fare, Hugh s'era drizzato a sedere
sempre più rigido e impettito tanto da sembrare un soldato a cavallo. Le labbra
strette, la faccia era diventata d'un rosso acceso. Le sue mani si stringevano
e si riaprivano con un ritmo lento e minaccioso. Soltanto un miracolo
tratteneva ancora il suo scoppio di collera, ma non era un miracolo che potesse
durare a lungo. Vidi che anche Elisabeth stava temendo il peggio, ma che era
impotente come me a intervenire. E quando Raymond, giunto alla fine delle sue
brillanti descrizioni, chiese in tono compiaciuto: "Ebbene, che ne
pensate?" niente poteva più trattenere Hugh.
Si sporse in fuori e disse con calma: "Volete
veramente sapere che cosa ne penso?".
"Hugh, ti prego ... " disse allarmata Elisabeth.
Egli le fece cenno di tacere.
"Volete veramente sapere che cosa ne penso?"
Raymond corrugò la fronte. "Naturalmente."
"Allora ve lo dirò." E preso un lungo fiato
proseguì: "Penso che soltanto un maledetto iconoclasta può concepire le
atrocità che andate proponendo. Penso che siate una di quelle persone che
trovano il loro piacere nel distruggere tutto quello che è tradizione e
stabilità. A calci togliereste i sostegni dal mondo intero se ne foste
capace!".
"Scusate," disse Raymond. Era molto pallido e
arrabbiato. "Mi pare che confondiate il cambiamento con la distruzione.
Dovete comprendere che non ho intenzione di distruggere alcunché, ma soltanto
che desidero fare dei cambiamenti necessari."
"Necessari?" disse Hugh in tono di scherno.
"Sradicare una quantità di magnifici alberi che sono là da secoli? Buttar
giù una parte della casa solida come una roccia? lo la chiamo distruzione
pazzesca."
"Temo di non capire. Rinnovare una scena, darle una
forma nuova..."
"Non ho intenzione di discutere," disse Hugh
tagliando corto, "vi dico molto francamente che non avete il diritto di
rovinare la proprietà."
S'erano alzati in piedi e si guardavano con ferocia; e la
sola cosa che mi impediva d'esser veramente spaventato era il convincimento che
Hugh non sarebbe passato alla violenza di fatto e che Raymond era troppo
equilibrato per perdere la testa. Subito dopo il momento minaccioso era passato
come per magia. Le labbra di Raymond si atteggiarono di colpo a un sorriso
divertito, mentre osservava Hugh con cortese interesse.
"Ora capisco," disse. "Fui proprio stupido a
non capire subito. Questa proprietà che, secondo me, è un po' troppo simile a
un museo, deve rimanere com'è, e io devo essere il suo custode. Un custode del
passato, un conservatore di reliquie."
Scosse la testa sorridendo. "Temo di non essere adatto
a quella parte. Mi levo il cappello davanti al passato, ma preferisco tenermi
al presente. Per questa ragione non rinuncerò ai miei progetti e spero che essi
non saranno d'ostacolo alla nostra amicizia."
Ricordo che quando
partii la mattina dopo per recarmi al mio tavolo da lavoro in città pensavo che
Raymond aveva condotto la faccenda con garbo e che, grazie a Dio, le cose
s'erano fermate lì. Così la telefonata di Elisabeth alla fine della settimana
mi colse assolutamente impreparato.
Era spaventoso, disse. Si trattava sempre di Hugh e Raymond
e della casa Danese, ma la situazione era peggiorata. Lei contava sul mio
arrivo a Hilltop il giorno dopo; non ammetteva scuse. Aveva progettato un piano
per mettere pace tra i due, ma io dovevo esser lì per sostenerla e aiutarla.
Dopo tutto io ero una delle poche persone che si facevano ascoltare da Hugh, e
lei aveva bisogno del mio appoggio.
"Appoggio per che cosa?" chiesi nient'affatto
persuaso.
"In quanto al mio farmi ascoltare da Hugh, sei sicura
di non esagerare? Non mi pare che abbia bisogno dei miei consigli nelle sue
faccende personali."
"Se sei così suscettibile a questo proposito ...
"
"Non sono suscettibile a questo proposito,"
risposi. "È che non voglio entrare in questa faccenda. Hugh è capacissimo
di badare a se stesso."
"Forse troppo capace." "Cosa vuoi
dire?"
"Oh, non ti posso spiegare adesso," gemette.
"Ti dirò tutto domani. E se hai un po' di sentimento fraterno, caro,
verrai col treno del mattino. Credimi, si tratta di una cosa seria.
Arrivai col primo treno la mattina dopo, molto angosciato.
La mia fantasia è del genere che costruisce disastri cosmici sui fatti più
trascurabili e, quando arrivai alla casa, ero preparato a tutto.
Ma, almeno alla superficie, tutto era sereno. Hugh mi
accolse molto affettuosamente, Elisabeth era allegra come al solito, e avemmo una
piacevole colazione e lunghi conversari senza che venisse neppure sfiorato il
nome di Raymond e della casa Danese. Non dissi nulla della telefonata di
Elisabeth, ma vi pensai continuamente sentendomi sempre più offeso, finché fui
solo con lei.
"Ora," dissi, "vorrei una spiegazione di
tutto questo mistero. Dio sa che cosa m'aspettavo di trovare qui, ma finora non
ho visto niente di insolito. Voglio sapere il motivo per cui mi hai messo in un
tale stato di spavento con la tua telefonata."
"Va bene," disse lei con la faccia scura,
"lo saprai. Vieni con me."
Mi guidò percorrendo un lungo sentiero oltre i gradini e le
scuderie e gli altri fabbricati. Vicino alla strada privata che si stendeva
oltre l'ultimo gruppo d'alberi, disse a un tratto: "Quando sei venuto su
con l'automobile non hai notato niente di strano sulla strada?".
"No."
"Infatti per venire a Hilltop bisogna voltare prima di
arrivare fin qui. Ma ora potrai vedere da solo la ragione per cui ti ho
telefonato."
Potei sì vedere coi miei occhi. In mezzo alla strada era
stata messa una sedia e sulla sedia era seduto un uomo robusto intento
placidamente a leggere un giornale. Riconobbi l'uomo immediatamente: era uno
degli stallieri di Hugh, e aveva l'aspetto paziente di chi è stato seduto per
lungo tempo e sa di dover star seduto ancora più a lungo. Mi bastò un secondo
per capire lo scopo della sua presenza in quel luogo, ma Elisabeth non volle
lasciar nulla alle mie facoltà deduttive. Quando ci avvicinammo, l'uomo si alzò
facendoci un cenno di saluto .
"William," disse Elisabeth, "volete dire a
mio fratello le istruzioni che vi ha dato Mr. Lozier?"
"Sicuro," rispose l'uomo allegramente. "Mr,
Lozier ci ha detto che ci deve essere sempre uno di noi seduto in questo punto
e che dobbiamo fermare e rimandare indietro ogni autocarro carico di materiale
da costruzioni o cose simili diretto alla casa Danese. Tutto quello che
dobbiamo dire è che questa è una proprietà privata e che non si può passare. Se
ci mettono le mani addosso, dobbiamo chiamare la polizia. Questo è tutto."
"Avete rimandato indietro qualche autocarro?"
chiese Elisabeth a mio beneficio.
L'uomo si mostrò sorpreso. "Ma lo sapete, Mrs.
Lozier," disse. "Ce ne sono stati due il primo giorno che eravamo
qui, e poi più. Non fecero neppure tante storie," mi spiegò. "Gli
autisti non volevano seccature e sono tornati subito indietro."
Quando ci fummo allontanati dalla strada, mi portai una
mano alla fronte. "È incredibile!" esclamai. "Hugh dovrebbe
sapere che non ha diritto di agire a questo modo. Quella strada è l'unica che
conduca alla casa Danese, ed è stata per tanto tempo di uso pubblico che non si
può nemmeno più considerare una strada privata."
Elisabeth annuì. "E questo è esattamente quello che
Raymond ha detto a Hugh qualche giorno fa. È arrivato da noi come una furia e
c'è stata una scenata. E quando Raymond ha minacciato Hugh di portarlo in
tribunale, Hugh ha risposto che sarebbe stato contento di passare il resto
della sua vita litigando per quest'affare. Ma questo non è stato il peggio.
L'ultima cosa che Raymond ha detto è stata che Hugh dovrebbe sapere che la
violenza chiama violenza, e da allora sto aspettando che scoppi la guerra. Non
capisci? Quell'uomo che blocca la strada è una provocazione costante, e mi
spaventa."
Certo che capivo. E più consideravo la faccenda, più mi
sembrava pericolosa.
"Ma ho un piano," continuò Elisabeth vivacemente,
"e perciò ti ho voluto qui. Do un pranzo, stasera; un pranzo intimo, senza
cerimonie. Deve essere una specie di conferenza della pace. Ci sei tu, ci sarà
il Dr. Wynant - Hugh vi vuol bene, a tutti e due - e," qui Elisabeth ebbe
un attimo d'esitazione, "Raymond."
"No!" esclamai. "E sei sicura che
verrà?"
"Sono andata da lui ieri e abbiamo parlato a lungo.
Gli ho spiegato ogni cosa, gli ho detto che i vicini devono arrivare a un
accordo, gli ho parlato di amor fraterno e... oh, gli devo esser sembrata
spaventosamente sentimentale, ma ci sono riuscita. Mi ha detto che verrà."
Ebbi un presentimento. "Ma Hugh lo sa?"
"Del pranzo? Sì."
"Parlo della presenza di Raymond qui."
"No, non lo sa." E quando vide che la guardavo
con aria di rimprovero, scoppiò a dire in tono di sfida: "Ebbene, qualche
cosa bisognava pur fare, e io l'ho fatta, ecco! Non è forse meglio che star
fermi ad aspettare che accada Dio sa che cosa?".
Finché rimanemmo seduti attorno alla tavola da pranzo
quella sera, avrei potuto anche darle ragione. Hugh era rimasto visibilmente
turbato dall'arrivo di Raymond, ma poi, rivolto a Elisabeth uno sguardo obliquo
denso di significato, riuscì a nascondere abbastanza bene i suoi sentimenti.
Aveva fatto le presentazioni con grazia, diretto la conversazione e se l'era
cavata benissimo come ospite.
Per colmo d'ironia, fu la presenza del Dr. Wynant che rese
possibile un simile trionfo per Elisabeth e che poi lo tramutò in un disastro.
Il dottore era un eminente chirurgo, tarchiato e grigio di capelli, con modi
bruschi e risoluti. Malgrado la sua eminente posizione sociale, sembrava
contento come uno scolaro di aver conosciuto Raymond, e subito avevano
simpatizzato.
Fu quando Hugh scoprì che quasi tutta l'attenzione andava a
Raymond e molto poca a quello che diceva lui, che il mantello del buon ospite
cominciò a scivolare dalle sue spalle, e che cominciarono a far capolino le
fatali brecce nel piano di Elisabeth. Ci sono persone che amano intrattenere i
pezzi grossi e si accontentano della gloria riflessa, ma Hugh non era di
quelle. Inoltre, considerava il dottore come uno dei suoi amici più stretti e,
come ho notato spesso, sono gli uomini più sicuri di sé a essere i più gelosi
delle loro amicizie. E quando l'amicizia a cui si tiene di più viene offuscata
per colpa dell'uomo che si odia di più al mondo ... ! Mettendomi al posto di
Hugh e guardando Raymond che parlava allegramente e inconsciamente, ero
preparato al peggio.
L'occasione per Hugh venne quando Raymond era immerso più
che mai in una discussione sulle varie astuzie usate per effettuare le
evasioni. Quasi ogni cosa da poter afferrare poteva servire. Un filo di ferro,
un pezzo di metallo, anche un foglio di carta ... lui aveva usato una cosa o
l'altra in questa o quella occasione.
"Ma di tutte," proseguì con enfasi, "ce n'è
soltanto una su cui scommetterei la mia vita. E strano a dirsi, è qualcosa che
non si può vedere, che non potete afferrare con la mano ... infatti per molta
gente non esiste addirittura. Eppure io l'ho usata assai spesso e mai mi ha
tradito."
Il dottore si sporse verso di lui, con gli occhi lucenti di
interesse. "Ed è...?"
"È la conoscenza delle persone, amico mio. O, se
volete, la conoscenza della natura umana. Per me è uno strumento come il
bisturi per voi."
"Oh?" fece Hugh, e la sua voce era così aspra che
tutti ci volgemmo subito a guardarlo. "Per voi, allora, la
prestidigitazione è come una branca della psicologia."
"Forse," e vidi che Raymond lo stava spiando ora
come volesse misurarlo con lo sguardo. "Vedete che non c'è poi un gran
mistero in questo campo. La mia professione, la mia arte come mi piace
chiamarla, non è che l'arte di far vedere una cosa per un'altra, e io non sono
che uno dei tanti suoi addetti."
"Non direi che ci siano molti artisti come voi in giro
per il mondo al giorno d'oggi," osservò il dottore.
"È vero," ammise Raymond, "ma io mi riferivo
all'arte di far vedere una cosa per un'altra. Esiste un numero grandissimo di
artisti dell'evasione, di maestri di prestidigitazione che praticano la forma
più esotica di quest'arte. Ma che dire di quelli che sono occupati nei lavori
della politica, della pubblicità, del commercio?" Si grattò il naso in un
gesto ormai familiare, e strizzò un occhio. "Temo che siano loro quelli
che si sono dedicati alla mia arte."
Il dottore sorrise. "Poiché in tutto questo non avete
tirato in ballo la medicina, voglio seguirvi nel vostro discorso," disse.
"Ma quello che vorrei sapere è come agisce secondo voi la conoscenza della
natura umana nel campo della vostra professione?"
"In questo modo. Uno deve prima di tutto studiare
accuratamente una persona. Poi, se scopre certe debolezze in questa persona,
deve formulare una certa premessa che sarà accettata senz'altro. Una volta che
questa sia stata accettata, il resto è facile. La vittima vedrà soltanto quello
che il mago vorrà che veda, o darà il suo voto a quell'uomo politico, o
comprerà quella merce a causa di quella pubblicità." Raymond si strinse
nelle spalle. "E questo è tutto quello che c'è da dire sull'argomento."
"Davvero?" disse Hugh. "Ma che cosa accade
quando vi trovate di fronte a una persona dotata di qualche intelligenza e che
non voglia inghiottire la vostra falsa premessa? Come li fate i vostri trucchi
allora? O li considerate alla pari delle perline da vendere ai selvaggi?"
"Questo non c'entra, Hugh," disse il dottore.
"Lui sta esprimendo le sue idee. Non c'è ragione di arrivare a una
conclusione."
"Forse c'è invece," e Hugh teneva gli occhi fissi
su Raymondo "Trovo che lui è pieno di idee interessanti. Mi stavo
domandando fino a che punto arriverebbe per sostenerle."
Raymond portò il tovagliolo alle labbra con un piccolo
movimento preciso, poi lo depose accuratamente sulla tavola davanti a lui.
"Insomma," disse rivolgendosi a Hugh, "vorreste una piccola
dimostrazione della mia arte."
"Dipende. Non vorrei i soliti trucchi di conigli e
scatole di sigarette che escono da un cappello o altre simili sciocchezze.
Vorrei vedere qualcosa di veramente speciale."
"Qualcosa di speciale," ripeté Raymond
riflettendo. Si guardò intorno studiando la stanza, poi volgendosi a Hugh
indicò la pesante porta di quercia chiusa tra la sala da pranzo e il salone
dove eravamo rimasti fino all' ora di cena.
"Quella porta non è chiusa a chiave, vero?"
"No, sono anni che non viene chiusa a chiave."
"Ma ne avete la chiave, no?"
Hugh tirò fuori il suo mazzo di chiavi e con forza ne
trasse una chiave pesante e di forma antica. "Sì, è la stessa che
adoperiamo per la dispensa." Stava interessandosi suo malgrado.
"Bene. No, non la date a me. Datela al dottore. Avete
fiducia in lui, certamente."
"Sì, certo," rispose Hugh seccamente.
"Benissimo. Ora, dottore, vi prego di andare a
chiudere a chiave quella porta."
Il dottore si avvicinò alla porta col suo passo fermo e
deciso, introdusse la chiave nella serratura e la fece girare. Lo scatto
risuonò forte nel silenzio della stanza. Il dottore ritornò alla tavola tenendo
la chiave, ma Raymond non la prese. "Non deve lasciare la vostra mano,
altrimenti tutto è perduto," avvertì.
"Ora," continuò, "mi avvicino alla porta,
scuoto il mio fazzoletto" - il fazzoletto parve semplicemente sfiorare il
buco della serratura - "ed ecco! la porta è aperta!"
Il dottore si avvicinò. Afferrò la maniglia, la girò con
aria dubbiosa, e con vero stupore osservò la porta che silenziosamente si
apriva.
"Accidenti!" esclamò.
"Ecco che una falsa premessa," osservò Elisabeth
ridendo, "è andata giù come un'ostrica."
Soltanto Hugh aveva assunto un aspetto di personale offesa.
"Come è successo? Come avete fatto?"
"lo?" disse Raymond in tono di rimprovero, e
sorrise divertito. "Siete stato voi a fare tutto. Ho usato soltanto la mia
piccola conoscenza della natura umana per aiutarvi cammin facendo."
"Credo di poter risolvere l'indovinello almeno in
parte," dissi io. "La porta era stata preparata prima, e quando il
dottore ha pensato di chiuderla, invece l'ha aperta. Non è questa la
soluzione?"
Raymond assentì: "Proprio questa. La porta era già
chiusa a chiave. Me ne assicurai, perché ebbi un piccolo presentimento che
durante il pranzo ci sarebbe stata una simile sfida è questo era il modo più
semplice di prepararmici. Badai di essere l'ultimo a entrare e feci uso di
questo". Alzò il braccio e ci mostrò un pezzo di metallo che aveva nella
mano. "Un grimaldello molto primitivo, ma sufficiente ad aprire una
vecchia serratura poco complicata."
Per un momento Raymond si fece serio, poi continuò con
brio: "Fu il nostro ospite stesso che formulò la falsa premessa quando
disse che la porta non era chiusa a chiave. È un uomo talmente sicuro di sé che
non ha pensato di verificare una cosa così ovvia. Anche il dottore è un uomo
sicuro di sé, ed è caduto nella stessa trappola. Come avete visto, è un poco
pericoloso esser sempre così sicuri di sé".
"Sono con voi," disse il dottore,
"quantunque sia un'eresia da parte mia ammettere il vostro punto di
vista." Gettò scherzosamente la chiave attraverso la tavola davanti a Hugh
che non fece alcun 'gesto per raccoglierla. "Ebbene, Hugh, vi piaccia o
no, dovete ammettere che lui ha provato il suo punto."
"Davvero?" disse Hugh dolcemente. Sorrideva un
poco ora, ed era facile vedere che stava volgendo e rivolgendo qualche pensiero
nella sua testa.
"Oh, lo dovete pur ammettere," disse il dottore
un po' impaziente. "Siete rimasto stupito come noi; lo sapete
benissimo."
"Ma sì, caro; anche tu," approvò Elisabeth.
Forse fu allora che Elisabeth vide l'occasione propizia per
intavolare la conferenza della pace cui aveva tanto mirato, ma avrei potuto
dirle che stava scegliendo male il suo momento. C'era negli occhi di Hugh uno
sguardo che non mi piaceva - uno sguardo appannato che non era naturale in lui.
Di solito, quando era veramente arrabbiato, diventava furioso, ma una volta
passati tuoni e lampi, si scusava sinceramente. Ma ora l'espressione sul suo
viso era diversa, quasi sonnacchiosa, e ne ero allarmato.
Mise un braccio sullo schienale della sua seggiola, l'altro
l'appoggiò sulla tavola, per girarsi e fissare lo sguardo su Raymond. "Mi
pare di rappresentare la minoranza, qui," osservò, "ma mi dispiace
dirvi che ho trovato molto deludente il vostro trucco. Non che non sia stato
fatto in modo intelligente - di questo vi rendo atto - ma perché non è stato
niente di più di quello che vi sareste aspettato da un bravo fabbro."
"Ora mi fate ricordare della favola della volpe e
dell'uva," disse il dottore in tono di burla.
Hugh scosse la testa. "No, dico semplicemente che dove
c'è una porta e c'è la chiave che l'apre nella vostra mano, non è un gran
prodigio riuscire ad aprirla. Considerando la fama del nostro amico, mi
aspettavo di più da lui."
Raymond fece una smorfia. "Poiché avevo sperato di
divertirvi," disse, "domando scusa di avervi delusi."
"Oh, in quanto a divertimento, non mi posso lamentare.
Ma per una prova convincente..."
"Una prova convincente?"
"Sì, qualche cosa di un po' diverso. Per esempio, una
porta senza serratura o chiavi da maneggiare. Una porta chiusa che può esser
aperta con la punta di un dito, ma che, ciononostante, è impossibile da aprire.
Che ne dite?"
Raymond socchiuse gli occhi pensosamente, come se
considerasse il quadro che gli stavano sottoponendo. "Mi I pare molto
interessante," disse finalmente. "Ditemi qualche cosa di più."
"No," disse Hugh, e dalle vibrazioni della sua
voce, sentii che quello era il preciso momento che aveva aspettato e "
desiderato. "Farò ancora meglio. Ve la mostrerò."
Si alzò bruscamente, seguito da tutti noi, meno che da
Elisabeth che rimase seduta. Quando le chiesi se voleva venire con noi, fece
cenno di no, e rimase a guardarci sconsolata mentre lasciavamo la stanza.
Eravamo diretti alle cantine; lo capii quando Hugh si armò
di una torcia, ma a una parte delle cantine che non avevo mai visto prima. In
poche occasioni ero sceso laggiù per aiutare a scegliere una bottiglia dalla
rastrelliera, ma ora camminavamo oltre la cantina propriamente detta ed
entrammo in un'altra stanza quasi buia. I nostri passi risuonavano sulle rozze
pietre, le pareti portavano i segni del tempo e, per quanto la notte fosse
calda, sentii l'umidità penetrarmi nelle ossa e la pelle d'oca su tutto il
corpo. Quando il dottore, rabbrividendo, disse: "Queste sono le vere tombe
di Atlantide", mi consolai di non esser solo nelle mie sensazioni.
Ci fermammo all' estremità della stanza, davanti a quello
che posso descrivere solo come un armadio di pietra costruito dal pavimento al
soffitto nel più lontano angolo. Era largo quasi un metro e trenta, e la sua
porta aperta mostrava all'interno un'impenetrabile oscurità. Hugh penetrò in
quell' oscurità e ne uscì traendosi dietro una porta pesante.
"Ecco," disse brusco. "Una porta solida,
dello spessore di dieci centimetri, incastrata così bene nella sua cornice che
non lascia passare un filo d'aria. Una bell'opera di falegnameria, come se ne
facevano duecento anni fa. E non vi sono serrature né chiavistelli. Solo un
anello conficcato dalle due parti da usare come maniglia." Spinse la porta
con delicatezza e quella si aprì senza rumore. "Vedete? È bilanciata così
perfettamente sui cardini che si muove come una piuma."
"Ma a che cosa serve?" chiesi. "Deve esser
stata fatta per una qualche ragione."
Hugh rise brevemente. "Infatti. In tempi antichi,
quando un servo commetteva un delitto - e suppongo che non dovesse essere un
delitto più grande di quello di rispondere con insolenza a uno dei miei
antenati - veniva rinchiuso qui dentro perché si pentisse. E poiché qui dentro
c'era aria soltanto per poche ore, o si pentiva presto, oppure non si pentiva
più."
"E questa porta?" chiese il dottore cautamente.
"Questa porta impressionante che si apre al semplice tocco della vostra
mano e da cui può entrate tutta l'aria necessaria ... che cosa impediva al
servo di aprirla?"
"Guardate." Diresse la luce della torcia
all'interno della cella e ci affollammo dietro a lui per spiare dentro. Il
cerchio di luce raggiunse la parete di fondo e illuminò una corta e grossa
catena che pendeva un poco sopra il livello delle nostre teste, con un collare
a forma di U attaccato all'ultimo anello.
"Capisco," disse Raymond, ed erano le prime
parole che gli 'udivo pronunciare da quando avevamo lasciato la stanza da
pranzo. "È veramente ingegnoso. L'uomo sta con la schiena contro la
parete, di faccia alla porta. Il collare gli viene messo al collo e poiché è
chiaro che non può avere una serratura, viene chiuso intorno al collo a colpi
di martello. La porta viene chiusa, e l'uomo passa le poche ore che gli restano
come fosse legato alla ruota, tentando di raggiungere col piede l'anello che è
sulla porta e che naturalmente è fuori della sua portata. Se è fortunato può
riuscire a non strangolarsi col suo collare di ferro, ma può vivere finché
piaccia a qualcuno di aprire la porta per lui."
"Mio Dio," esclamò il dottore. "Mi date
l'impressione di vivere quelle ore."
Raymond sorrise debolmente. "Ho conosciuto molte
esperienze simili e, credetemi, la realtà è sempre un poco peggiore delle
peggiori fantasie. C'è sempre un ultimo istante di terrore, di panico, quando
il cuore batte così furiosamente che sembra scoppiare, e un sudore freddo vi
inonda da capo a piedi nello spazio di un solo respiro. In quel momento dovete
raccogliere i vostri spiriti, cacciare ogni debolezza e ricordare tutte le
lezioni che avete imparato. Altrimenti...!" Si passò una mano sulla gola.
"Sfortunatamente, la vittima di un simile stratagemma," concluse
tristemente, "poiché di solito manca del coraggio necessario e ignora come
tirarsi d'impaccio, soccombe."
"Ma questa non sarebbe la vostra sorte," disse
Hugh. "Non ho ragione di pensarlo, infatti."
"Volete dire," e si sentiva un ardore nella voce
di Hugh più forte che mai, "volete dire che nelle stesse condizioni di un
uomo incatenato là dentro duecento anni fa, sareste capace di aprire questa
porta?"
L'accento di sfida era troppo forte per essere ignorato.
Raymond rimase silenzioso per un lungo minuto, la faccia
tesa nello sforzo della concentrazione, poi disse:
"Sì. Non sarebbe facile… il problema è reso
formidabile dalla sua stessa semplicità… ma può essere risolto".
"Quanto tempo credete che ci mettereste?"
"Un'ora al massimo."
Hugh era arrivato al suo punto. Lentamente, assaporando le
sue parole chiese: "Vi piacerebbe farci sopra una scommessa?" .
"Un momento," interruppe il dottore. "Non mi
piace per niente questa storia."
"Voto il rinvio per una bevuta," dissi io.
"Gli scherzi sono scherzi, ma rischiamo tutti una polmonite con questi
giochetti qui sotto."
Né Raymond né Hugh parvero sentire una parola. Stavano
guardandosi fissi negli occhi, Hugh aspettando sulle spine, Raymond pensando,
finché finalmente disse: "Quali sono i termini della scommessa?".
"Questi: se perdete, ve ne andate dalla casa Danese
entro un mese e la vendete a me."
"E se vinco?"
Non fu facile per Hugh decidersi a parlare, ma finalmente
riuscì a dirlo: "Allora sarò io ad andarmene. E se non vorrete comperare
Hilltop, la venderò al primo venuto".
Per chiunque conoscesse Hugh era una cosa talmente
fantastica, una dichiarazione tanto straordinaria venendo da lui, che nessuno
di noi seppe in un primo momento trovare una parola. Fu il dottore che si
riprese per primo.
"Non potete parlare soltanto per voi, Hugh,"
disse. "Siete un uomo sposato; dovete pensare anche a Elisabeth."
"È una scommessa?" chiese Hugh a Raymond.
"Volete starei o no?"
"Prima di rispondervi, credo ci sia qualcosa che debbo
spiegarvi." Raymond fece una pausa, poi riprese con calma: "Temo di
avervi dato l'impressione, forse per falso orgoglio, che quando mi sono
ritirato dal mio lavoro, lo abbia fatto per stanchezza o per mancanza di
interesse. Non era la verità. Dovetti andare da un dottore, qualche anno fa; il
dottore mi ascoltò il cuore, e improvvisamente il mio cuore divenne la cosa più
importante del mondo per me. Ve lo dico perché, anche se la vostra sfida mi
appare come un modo molto interessante e fuori del comune per dirimere le
controversie tra vicini di casa, la devo respingere per ragioni di
salute".
"Stavate benissimo un minuto fa," disse Hugh duramente.
"Forse non tanto quanto vi piacerebbe credere, amico mio.".
"In altre parole," disse Hugh in tono di scherno,
"non c'è una mano complice, non avete chiavi in tasca, e non avete modo di
farci vedere quello che non c'è! Così dovete ammettere d'essere battuto."
Raymond si irrigidì: "Non ammetto una cosa simile.
Tutti gli strumenti che mi sarebbero necessari per questa
prova li ho con me. Credetemi, ne avrei abbastanza".
Hugh rise forte, e l'eco della sua risata si ruppe in tante
piccole eco che risuonarono nei corridoi dietro a noi. Fu quel suono, ne sono
sicuro, il vivo disprezzo che conteneva e che le pareti si rimandavano attorno
a noi, che mandò Raymond nella cella.
Hugh afferrò un martello, dal manico corto e pesante, saldò
il collare intorno al collo di Raymond, e con colpi forti e precisi spinse più
profondamente l'anello nella parete. Quando ebbe finito, vidi la pallida luce
dei numeri luminosi sull' orologio di Raymond che lo stava consultando nella
profonda oscurità.
"Sono le undici, ora," disse con calma. "La
scommessa è che a mezzanotte questa porta deve essere aperta, non importa con
quali mezzi. Queste sono le condizioni, e voi signori ne siete testimoni."
Poi la porta fu chiusa e noi tre cominciammo a camminare su
e giù come fossimo costretti a tracciare ogni possibile figura geometrica su
quel pavimento di pietra; il dottore con passi rapidi e impazienti, io
misurando i miei su quelli lunghi e nervosi di Hugh. Una marcia folle, assurda,
su e giù, incrociando le nostre ombre, e ciascuno di noi marcava il tempo
contando i secondi, e ciascuno si vergognava d'essere il primo a guardare il
proprio orologio.
Per un certo tempo al nostro scalpiccio si accompagnò a
brevi intervalli regolari un rumore appena percettibile di catene smosse
proveniente dalla cella. Poi un lungo silenzio, seguito ancora dallo stesso
suono.
Quando questo cessò di nuovo, non potei più trattenermi.
Alzai l'orologio verso la scarsa luce della lampada che era sopra le nostre
teste e con sgomento vidi che erano passati soltanto venti minuti.
Dopo di me anche gli altri due non esitarono più a guardare
l'ora e questo rese più dura ancora l'attesa. Vidi il dottore che caricava il
suo con piccoli scatti nervosi e pochi minuti dopo tentava di caricarlo di nuovo
e poi lasciava cadere la mano con disgusto accorgendosi che l'aveva già fatto.
Hugh camminava col suo orologio tenuto vicino agli occhi come se concentrandosi
su di esso avesse potuto far girare le sfere più in fretta.
Erano passati trenta minuti. Quaranta.
Quarantacinque.
Ricordo che quando guardai l'orologio e vidi che dovevano
passare ancora quindici minuti, mi domandai se avrei resistito anche solo per
quel poco tempo. Il freddo mi era talmente penetrato dentro che ne ero tutto
indolenzito. Con mia grande meraviglia vidi invece formarsi e scorrere sulla
faccia di Hugh rivoletti di sudore.
Fu mentre lo guardavo affascinato che udimmo attraverso la
parete della cella un suono simile a un gemito d'agonia che venisse di lontano,
che passò su di noi quasi pronunciando le parole.
"Dottore! L'aria!"
Era la voce di Raymond, ma lo spessore delle pareti la
tramutava in un suono acuto e sottile. La cosa più chiara era la nota di
genuino terrore, la supplica contenuta in quel terrore.
"Aria!" ripeté, e la parola gorgogliò e si
dissolse in un lungo suono senza significato.
E poi, silenzio.
Balzammo verso la porta, il dottore e io, ma Hugh la
raggiunse prima di noi, e con la schiena appoggiata lì contro, ci sbarrò la
via. Nella mano alzata teneva il martello che aveva fissato il collare di
Raymond.
"Indietro!" gridò. "Non avvicinatevi, o guai
a voi!"
Il suo furore e la minaccia dell'arma arrestarono il nostro
slancio.
"Hugh," pregò il dottore. "So che cosa state
pensando, ma potete dimenticarlo ora. La scommessa non è più valida, e io apro
la porta sotto la mia responsabilità. Avete la mia parola."
"Ma non ricordate i termini della scommessa? Questa
porta deve aprirsi entro un' ora e non importa quali mezzi vengono usati!
Capite ora? Vi sta prendendo in giro! Sta recitando una scena di morte, così
voi aprirete la porta e vincerete la scommessa per lui. Ma sono io che ho fatto
la scommessa, non voi, e l'ultima parola spetta a me!"
Dal modo come parlava, nonostante il tremito della voce,
vidi che era perfettamente padrone di sé, e che le cose peggioravano.
"Come lo sai che sta recitando una parte?"
chiesi. "Ha detto che ha mal di cuore. Ha detto che in una situazione come
questa arrivava sempre il momento in cui doveva combattere contro il terrore e
lottare per vincerlo. Che diritto hai di giocare con la sua vita?"
"Maledizione, non ti sei accorto che non ha mai
parlato delle sue condizioni di salute finché non ha sentito puzzo di scommessa
nell'aria? Non vedi che ha preparato il colpo così, come ha chiuso a chiave la
porta entrando in sala da pranzo? Ma questa volta nessuno l'aprirà per lui,
nessuno!"
"Ascoltatemi," disse il dottore e la sua voce
fendette l'aria come una frusta. "Mi concedete che esiste almeno una
possibilità che quest'uomo sia morto o che stia morendo?"
"Sì, è possibile... ogni cosa è possibile."
"Non voglio discutere con voi! Voglio solo dirvi che
se quest'uomo sta male, ogni secondo di tempo è prezioso e voi state rubandogli
questo tempo. E se è morto, per Dio, sarò sul banco dei testimoni il giorno del
vostro processo e giurerò che l'avete assassinato! È questo che volete?"
Hugh lasciò cadere la testa sul petto, ma la sua mano
teneva ancora stretto il martello. Sentivo il suo rauco respiro e quando rialzò
la testa, il suo viso era livido. Il tormento dell'indecisione era scritto in
ogni pallido tratto grondante di sudore.
E a un tratto compresi che cosa aveva voluto dire Raymond
quando aveva parlato a Hugh della rivelazione che avrebbe potuto avere quando
si fosse trovato di fronte al dilemma perfetto. Era la rivelazione di quello
che un uomo può imparare su se stesso quando è costretto a guardarsi dentro, e Hugh
era arrivato finalmente a quel punto cruciale.
In quella buia cantina, mentre i secondi fatali sembravano tuonare sempre più forti nelle nostre orecchie, aspettammo di vedere quello che avrebbe fatto.