Hillman, Il
codice dell'anima - Estratti
▸ la teoria
della compensazione
▸ la natura
che parla all'anima
▸ né natura
né cultura: qualcos'altro
▸ l'amore
▸ hitler
▸ analità
▸ mancanza
di senso dell'umorismo
▸ caratteristiche generali del
demoniaco
▸ condizionamento dovuto a traumi
infantili
▸ l'ombra
Prima della nascita, l'anima di
ciascuno di noi sceglie un'immagine o disegno che poi vivrermo sulla terra, e
riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon,
che è unico e tipico nostro. Tuttavia,
nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti
vuoti. E' il daimon che ricorda il
contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui
dunque il portatore del nostro destino. Secondo Plotino noi ci siamo scelti l
corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all'anima e
corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come a dire che la
mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari
adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamente dalla m ia anima, e se ora
la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato.
Una vocazione può essere rimandata,
elusa, a tratti perduta di vista,Oppure può possederci totalmente. Non importa:
alla fine verrà fuori. Il daimon non
ci abbandona. Si è cercato per secoli il termine più appropriato per indicare
questo tipo di "vocazione" o chiamata. I latini prlavano del nostro genius, i greci del nostro daimon, i cristiani dell'angelo custode.
I romatici, Keats per esempio, dicevano che la chiamata veniva dal cuore,
mentre l'occhio intuitivo di Michelangelo vedeva un'immagine nel cuore della
persona che stava scolpendo. I neoplatonici parlavano di un corpo immaginale, ochema, che ci trasporta come un
veicolo, che è il nostro personale supporto o sostegno. C'è chi fa riferimento
alla dea Fortuna chi a un genietto, a un cattivo seme o genio malefico. Per gli
egizi poteva essere il ka o il ba, con il quale si poteva dialogare.
Presso chi eschimesi e altripopoli dove è praticato lo sciamanesimo,è il nostro
spirito,la nostra anima-libera, la nostra anima-animale, la nostra
anima-respiro. In epoca vittoriana, l'antropologo culturale E.B. Tylor
(1832-1917) riferiva che presso i popoli "primitivi" (come venivano
definite le società non tecnologiche) ciò che noi chiamiamo "anima"
era concepito come "un'immagine umana immateriale, una sorta di vapore, di
velo o ombra… impalpabile e invisibile, manifestante tuttavia potenza
fisica". In tempi più receti, l'etnoloso Ake Hultkrantz, studioso dei
popoli amerindi, afferma che, secondo queste popolazioni, l'anima "trae
origine da un'immagine" ed è "concepita sotto forma di
immagine". Platone, nel mito di Er, usa unaparola analoga, paradeigma, o forma fondamentale,che
abbraccia l'intero destino di una persona. Questa immagine che ci accompagna
come un'ombra nella vita, sebbene sia portatrice del destino e della fortuna,
non è però una guida morale né va
confusa con la voce della coscienza.
Il genius dei latini non era un moralista. Benché "conoscesse
tutto del futuro di un individuo e ne determinasse il destino" tuttavia
"tale divinità non esercitava alcuna sanzione morale; era semplicemente un
agente della sorte personale. Si poteva tranquillamente chiedere al proprio
Genio di realizzare desideri malvagi o egoistici". A Roma come nell'Africa
occidentale o a Haiti, una persona poteva chiedere al proprio daimon (o comunque si chiamasse) di fare
ammalare i propri nemici, di gettarli sul lastrico, di aiutarla a manipolare o
a sedurre gli altri. Dedicheremo un capitolo anche a questo aspetto
"malvagio" del daimon.
Il concetto di immagine
individualizzata dell'anima ha una storia lunga e complicata; compare sotto le
più svariate forme in quasi tutte le culture
e i suoi nomi sono legioni.
In questo libro userò in maniera
pressoché intercambiabile molti dei termini che designano la nostra ghianda -
immagine, carattere, fato, genio, vocazione, daimon, anima, destino - dando la preferenza all'uno o all'altro a
seonda del contesto.
La ghianda, dal punto di vista
della botanica, è una angiosperma, una pianta completa in embrione. L'essenza
della quercia è già lì, presente nella sua totalità. Da un punto di vista
teleologico la ghianda è paragonabile
alle rationes seminales, le ragioni
seminali, di Agostino. Prima ancora, filosofi stoici, gnostici e platonici,
come Filone, sostenevano che il mondo era pervaso da spermatikoi logoi, da parole-seme o idee germinali, le quali sono
presenti in esso dall'inizio come primordiale a priori che dà forma alle cose.
Tali parole spermatiche fanno sì che ciascuna cosa possa dire la propria natura
(a orecchie che sappiano ascoltare). L'idea della natura che parla, specie
attraverso la voce di una quercia, è rimasta lungo i secoli una fantasia
vivente, e ha ispirato i pittori fino a tutto l'Ottocento.
Una volta che la
"ghianda" è immaginata come un'idea archetipica, essa non è più
costretta né dalle leggi della natura né dai processi del tempo. Una
definizione naturalistica, ridutiva di "ghianda" come il seme o il
frutto della quercia pone soltanto uno dei possibili livelli di significato,
assegnandole un posto letterale, botanico nella mente. Questo primo livello può
impedire agli altri di emergere, mentre la ghianda ha anche un significato mitologico, morfologico, etimologico.
Nella ghianda sono contenuti non
solo la pienezza della vita prima che sia vissuta ma anche lo scontento e la
frustrazione della vita non vissuta. La ghianda vede, conosce, preme; ma che
cosapuò fare? la discrepanza tra seme e albero, tra il fuso nel grembo degli
dei in cielo e il traffico in grembo all afmaiglia sulla terra, riempie la
ghianda del furore dell'impotenza, di chi sfiora una cosa ma non riesce ad
afferrarla; la ghianda è come un bambinetto paonazzo di rabbia perhé non è
capace di fare quello che immagina.
Le molte parole e i molti nomi non
ci dicono che cosa sia questo
"qualcosa"; però ci confermano che
esiste. E alludono alla sua qualità arcana.Non possiamo sapere a che cosa
esattamente ci riferiamo, perché la sua natura rimane nebulosa e si rivela più
che altro per allusioni, per sprazzi di intuizione, in sussurri e nelle
improvvise passioni e bizzarrie che interferiscono nella nostra vita e che noi
ci ostiniamo a chiamare sintomi. Un esempio. Concorso per dilettanti alla Opera
House di Harlem. Sale timorosa sul palco una sedicenne goffa e magrolina. Viene
presentata al pubblico: "Ed ecco a voi Miss Ella Fitzgerald… Miss
Fitzgerald ballerà per noi… Un momento, un momento. Come dici, dolcezza? Mi correggo,
signore e signori: Miss Fitzgerald ha cambiato idea. Non vuole ballare, vuole
cantare. Ella Fitsgerald dovette concedere tre bis e vinse il primo premio.
Eppure la sua intenzione era stata quella di esibirsi nel ballo. Fu il caso a
farle cambiare idea di punto in bianco? O era entrato in azione un gene del
canto? Oppure quel momento era stato un'annunciazione, che aveva richiamato
Ella Fitzgerald al suo particolare destino. Pur con tutta la sua riluttanza ad
accogliere nel proprio campo di studio il destino individuale, la psicologia
ammette che ciascunodi noi ha u na propria costituzione, che ciascuno di noi, a
dispetto a volte di tutto e di tutti, è un individuo unico e irripetibile.
Quando però si tratta di dare conto di questa scintilla diunicità e della
vocazione che ci mantiene fedeli a essa, la psicologia sembra non saper bene
come muoversi. I suoi metodi di analisi
frammentano quel puzzle che è l'individuo in fattori e tratti di personalità,
in tipologie, in complessi e temperamenti, nel tentativo di rintracciare il
segreto dell'individualità nei substrati della materia cerebrale e in geni
egocentrici. Le scuole di psicologia più
rigorose espellono addirittura il problema dai loro laboratori, scaricandolo
sulla parapsicologia: che studi pure i casi di "vocazioni"
paranormali. Oppure lo spediscono in qualche avamposto della ricerca nelle
remote colonie della magia, della religioine e della follia. Al massimo la
psicologia spiega l'unicità di ciascuno ipotizzando una distribuzionie statistica
delle probabilità. Questo libro si rifiuta di chiudere nei laboratori di
psicologia quel senso di individualità chesta al centro del mio "me".
E non accetterà mai che la mia m isteriosa e preziosa vita umana sia il
risultato di una probabilità statistica. Sia chiaro che il rifiuto di queste
spiegazoni non comporta di chiudere gli
occhi gettandoci nelle braccia di una qualche Chiesa. Il tema della vocazione a
un destino individuale non c'entra con il conflitto tra scienza e fede e fede
ascientifica. L'individualità rimane di diritto argomento della psicologia, di
una psicologia memore del suo prefisso, la psiche e della sua premessa,
l'anima, cosicché la mente può sposare
la propria fede al di furi della Religioe istituzionalizzata e praticare
la puntuale osservazione dei fenomeni al di fuori della Scienza
istituzionalizzata. La teoria della ghianda si muove agile in mezzo ai due
dogmi opposto che si guardano in cagnesco da secoli e che il pensiero
occidentale si coccola come due cagnolini.
La teoria della ghianda dice che io
e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un'immagine che ci definisce.
L'individualità risiede in una causa formale, per usare il vecchio linguaggio
filosofico risalente ad Aristotele. Ovvero,nel linguaggio di Platone e di
Plotino, ciascuno di noi incarna l'idea di se stesso. E queta formal questa
idea, questa immagine nontollerano eccessive divagazioni. La teoria, inoltre,
attribuisce all'immagine innata un'intenzionalità angelica, o daimonica, come
se fosse una scintilla di coscienza; non solo, afferma che l'immagine ha a
cuore il nostro intresse perché ci ha scelti per il proprio.
L'idea che il daimon abbia a cuore ilnostro interesse è probabilmente l'aspetto
della teoria più difficile da accettare. Che il cuore abbia le sue ragioni,
d'accordo; e anche l'esistenza di un inconscio dotato di intenzionalità e
l'idea che in quello che ci succede svolga una parte il destino: tutto questo è
acettabile, quasi banale. Perché, allora, è così difficile immaginare che
qualcuno o qualcosa tenga a me, si interessi a quello che faccio, magari mi
protegga o addirittura mi mantenga in vita, indipendentemente, in una certa
misura, dalla mia volontà e dalle mie azioni? Perché preferisco una polizza di
assicurazione agli invisibili garanti dell'esistenza? Perché non ci vuole
niente a morire. Un attimo di distrazione e i progetti più ccurati di un Io
forte giacciono riversi sul marciapiedi. Quotidianamente qualcuno o qualcosa mi
salva la vita, impeendomidi cadere per le scale, di inciampare mentre cammino,
di ricevere una tegola sulla testa. Non vi sembra un miracolo andare a duecento
all'ora in autostrada, la musicassetta al massimo volume, la testa da tutt'altr
pare, e arrivare sani e salvi? Quale "sistma immunitario" veglia su
di me, giorno dopo giorno, mentre ingurgigo alimenti conditi di virus, tossine,
batteri? La mia pella formicola diparassiti, come il dorso di un
rinoceronte coni suoi uccellini. A ciò
che ci salvaguarda diamo il nome di istinto, autoconervazione, sesto senso,
coscienza subliminale (tutte cose invisibili eppure presenti). Nei tempi
antichi, ciò che cont anta effi cacia mi sapeva proteggere era uno spirito
cutode e io mi guardavo bene dal mancargli di rispetto.
Nonostante questa protezione
invisibile,noi preferiamo immaginarci gettati nudi nel mondo, vulnerabili e
completamente soli. E' più facile credere nella favola di uno sviluppo
autonomo, eroico, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama,
che ci trova necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro
aiuto nella disgrazia, a volte proprio all'ultimo momento. Ebbene, io voglio
affermare la sua esistenza come semplice dato dell'esperienza comune, senza
richiamarmi ad alcun guru, senza rendere testimonianza a Cristo, né invocar
guarigioni miracolose. Perché non possiamo far rientrare nell'ambito della
psicologia ciò che un tempo si chiamava provvidenza, ovvero la presenza
invisibile che ci sorveglia e veglia su di noi?
I bambini costituiscono la miglior
dimostrazione pratica diuna psicologia della provvidenza. E non mi riferisco
tanto a quegli interventi miracolosi, alle storie incredibili di bambini che
cadono da cornicioni altissimi senza farsi un graffio, che vengono recuperati
vivi da sotto le macerie dopo un terremoto. Mi riferisco piuttosto la banalissimo
miracoloin cui si rivela il marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal
nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare.
Queste urgenze del destino sono
spesso frenate da percezioni distorte e da un ambiente poco ricettivo, sicché
la vocazione si manifeta ella miriade di sintomi del bambino difficile, del
bambino autodistruttivo, portato agli incidenti, del bambino iper-", tutte
espressioni inventate dagli adulti in difesa della propria incapacità a
comprendere. Ebbene, la teoria della ghianda offre un modo completamente nuovo
di guardare ai disturbi infantili, considerandoli dal punto di vista non tanto
delle cause quanto delle vocazioni, non tanto delle influenze passate, quanto
delle rivelazioni di un futuro intuito.
Riguardo ai bambini e alla loro
psicologoa, voglio che ci togliamo i paraocchi dell'abitudine (con l'odio
mascherato che l'abitudine porta con sé). Voglio che riusciamo a vedere come
ciò che fanno e che patiscono i bambini abbia a che fare con la necessità di
trovare un posto alla propria specifica vocazione in questo mondo. I bambini
cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con la qualesono nati e
quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono nati. L'immagine di un
intero destino sta tutta stipata in una minuscola ghianda, seme di una quercia
enorme su esili spalle. E la sua voce che chama è forte e insistente e
altrettatno imperiosa delle voci repressive dell'ambiente. La vocazione si
esprime nei capricci e nelle ostinazioni,nelle timidezze e nelle ritrosie che
sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse
aroteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene.
Questo libro sta dalla parte dei
bambini. Vuole fornire una base teorica per comprendere la loro vita, una base
che poggia sui miti, sulla filosofia, su culture diverse dalla nostra e
sull'immaginazione. Mira a dare un senso alle disfunzioni infantili prima di
applicarvi le loro etichette letteralistiche e prima di spedire il bambino in
terapia.
Senza una teoria che lo sostenga
dai suoi inizi e senza una mitologia che lo riconnetta a qualcosa che viene
prima di tali inizi, il bambino fa il suo ingresso nel mondo come mero
prodotto, casuale o pianificato, ma privo della sua autenticità. Anche i suoi
disturbi saranno privi di autenticità, visto che egli non viene al mondo per i
propri scopi, con un progetto suo e guidato dal suo genio personale.
La teoria della ghianda si propone
come una psicologia dell'infanzia. Afferma con forza l'intrinseca unicità del
bambino, il suo essere portatore di un destino, il che significa innanzi tutto
che i dati clinici della disfunzione attengono in un modo o nell'altro a quella
unicità e a quel destino. Le psicopatologie sono altrettanto autentiche del
bambino stesso, non già secondarie o contingenti. Essendo dati con il bambino,
anzi dati al bambino, i dati clinici fanno parte delle sue doti. Ogni bambino,
cioè, è un bambino dotato, traboccante di dati: di doti, che sono tipiche sue e
che si manifestano in modi tipici, sovente causa di disadattamento e di
sofferenza. Dunque questo libro ha per argomento i bambini e propone un metodo
per guardarli con occhi diversi, per penetrare nella loro immaginazione e per
scoprire nelle loro patologie possi bili indicazioni del loro daimon e di ciò
che potrebbe volere il loro destino.
Due storie di bambini: quella di un
importante filosofo inglese, R.G. Collingwood (1889-1943), e quella dì un
famoso torero spagnolo, Manolete (1917-1947). La prima mostra come il daimon
possa fare irruzione all'improvviso in una giovane vita, la seconda mette in
luce i travestimenti e i tortuosi occultamenti cui esso a volte ricorre.
«Mio padre aveva moltissimi libri
... un giorno, quando avevo otto anni, la curiosità mi spinse a prendere da uno
scaffale un libriccino nero, sulla cui costola era scritto: "L'etica di
Kant" ... come iniziai a leggerlo, incuneato tra la libreria e il tavolo,
fui assalito da una strana sequela di emozioni. Dapprima mi prese un'intensa
eccitazione. Avevo la sensazione che in quel libro si dicessero cose della
massima importanza su argomenti della massima urgenza, che io dovevo
assolutamente capire. Poi, con un impeto di ribellione, venne la scoperta che,
invece, non ero in grado di capirle. Quel libro, pensai con un senso di
indicibile vergogna, era scritto con parole inglesi e con frasi che seguivano
la grammatica inglese, eppure a me sfuggiva completamente il suo significato.
Infine, l'emozione più strana di tutte: la certezza che il contenuto di quel
libro, anche se non lo capivo, fosse non so come affar mio, una cosa che mi riguardava
personalmente, o meglio, che riguardava un me stesso futuro ... Non c'entrava
però il desiderio; non è che ''volessi'', nel senso comune del termine,
padroneggiare da grande l'etica kantiana; ma era come se si fosse alzato un
velo a rivelare il mio destino. Poi, gradualmente, mi sentii come se mi fosse
stato addossato il peso di un compito, la cui natura non avrei saputo spiegare
se non dicendo: "Devo pensare". A che cosa non sapevo, ma, quasi
ubbidendo a quel comando, rimasi in silenzio, con la mente assorta».
Il filosofo che avrebbe concepito
importanti opere di metafisica, estetica, religione e storia era stato chiamato
e, a otto anni, incominciò a esercitarsi a "filosofare». Suo padre gli
aveva fornito i libri e la possibilità di consultarli, ma era stato il daimon a
scegliere quel padre ed era stata la curiosità del daimon ad allungare la mano
verso quel libro.
Manolete bambino non lasciava
affatto prevedere il futuro torero. L'uomo che avrebbe innovato radicalmente lo
stile e l'idea stessa di corrida da bambino era timido e pauroso.
«Delicato e di salute cagionevole
(a due anni per poco non era morto di polmonite), al piccolo Manuel interessava
soltanto dipingere e leggere. Se ne stava sempre in casa, attaccato alle
sottane della mamma, tanto che la sorella e gli altri bambini lo prendevano in
giro per questo. Al suo paese lo ricordavano come ''un ragazzino esile e
malinconico, che vagava per le strade, dopo la scuola, perduto nei suoi
pensieri. Raramente si univa agli altri ragazzi per giocare al calcio o alla
corrida". Le cose cambiarono "verso gli undici anni: allora,
nient'altro contava per lui se non i tori"».
Una trasformazione davvero
radicale! Alla sua prima corrida, Manolete, che aveva da poco smesso i calzoni
corti, resiste a piè fermo - anzi, viene ferito all'inguine, ma non ne vuole
parlare e non vuole essere accompagnato a Casa, dalla mamma; ritornerà insieme
agli altri ragazzi.
Si è costellato l'Eroe. Dalla sua
ghianda, lo chiama un qualche mito eroico.
Aveva sempre avuto sentore della
sua vocazione? In tal caso, è naturale che il piccolo Manolete avesse paura e
si aggrappasse alla madre. (Le «sottane della mamma» erano una metafora, o I!0n
le stava già usando come la cappa del torero?). E naturale che si tenesse alla
larga dalle corride tra ragazzi, in strada, rifugiandosi in cucina. Come
avrebbe potuto un bambino di nove anni guardare in faccia il suo destino? Nella
sua ghianda c'erano tori neri di molte tonnellate e dalle corna come rasoi che
lo caricavano, e tra di essi Islero, il toro che lo squarciò dall'inguine alla
pancia, dandogli la morte a trent'anni e il più grande funerale che la Spagna
avesse mai veduto.
Collingwood e Manolete illustrano
un dato fondamentale: le fragili competenze di un bambino non sono all'altezza
delle richieste del daimon. I bambini sono intrinsecamente più avanti rispetto
a se stessi, anche se a scuola prendono brutti voti e rimangono indietro. Una
possibile strada è quella di spiccare la corsa, come il piccolo Mozart e altri
cosiddetti bambini prodigio che hanno la fortuna di avere una guida valida.
Un'altra consiste nel tirarsi indietro e tenere a bada il daimon, come faceva
Manolete nella cucina di sua madre.
L' «impeto di ribellione» che
assalì Collingwood era la reazione alla sua inadeguatezza; il bambino di otto
anni non era all'altezza di Kant, ma Kant era «affar suo», una cosa che lo
«riguardava personalmente». Una parte di Collingwood era troppo sprovveduta per
decifrare il significato del testo; un'altra parte non aveva otto anni, non era
mai stata un bambino.
Altri due esempi simili illustrano
lo scarto tra le capacità del bambino e i bisogni del genio. Il primo riguarda
la pioniera della genetica Barbara McClintock, il secondo il famoso violinista
Yehudi Menuhin.
Riferisce Barbara McClintock
(ricevette il premio Nobel per le sue ricerche, che richiedevano il tipo di
riflessione solitaria e di manualità che a lei procuravano il piacere più
profondo): «Quando avevo cinque anni, chiesi che mi regalassero degli attrezzi.
Mio padre mi comperò degli attrezzi adatti alle mie mani, non attrezzi da
adulti ... ma non erano quelli che volevo io. lo volevo attrezzi veri, non dei
giocattoli ».8
Anche Menuhin voleva cose che le
sue mani non erano in grado di adoperare. Il piccolo Yehudi, quando non aveva
ancora quattro anni, sentiva spesso, seduto con i genitori in galleria al
Curran Theatre, gli assolo del primo violino Louis Persinger. «Durante uno di
questi concerti, chiesi ai miei genitori di regalarmi per il mio compleanno un
violino e Louis Persinger come maestro». Convinto di esaudire così il suo
desiderio, un amico di famiglia gli regalò un violino giocattolo, di metallo,
con le corde di metallo. «lo scoppiai in singhiozzi, scaraventai l'oggetto per
terra e non lo volli vedere mai più».
Poiché il genio non è limitato
dall'età, dalla taglia, dall'istruzione o dall'esercizio, tutti i bambini nutrono
un'ambizione smodata, hanno gli occhi più grandi della bocca. E allora: il
bambino è narcisistico, vuole attirare l'attenzione, ha fantasie di
onnipotenza; per esempio, vuole attrezzi e strumenti che non è in grado di
maneggiare. Ma da dove viene l' onnipotenza infantile se non dalla grandiosità
della visione che accompagna l'anima in questo mondo? I romantici avevano capito
l'intrinseca grandiosità del bambino. Non hanno forse detto: « e veniamo al
mondo lasciandoci alle spalle una scia di gloria»?
Le mani di Barbara non erano capaci
di sollevare un pesante martello e le braccia di Yehudi erano troppo, corte e
le dita non avevano l' estensione sufficiente per un violino della misura
grande, ma la sua visione lo era, di misura grande, per poter contenere la musica
che aveva in testa. E doveva assolutamente avere Il violino immaginato, perché
Menuhin sapeva, « istintivamente, che suonare voleva dire essere ».
Notiamo, qui, che il daimon del
piccolo Yehudi rifiutava di essere trattato come un bambino, nonostante il
bambino in carne e ossa avesse solo quattro anni. Fu il daimon a fare il
capriccio, a pretendere la cosa vera, perché suonare il violino non è
divertirsi con un giocattolo. Il daimon non vuole essere trattato come un
bambino; non è un bambino, nemmeno un bambino interiore: anzi, può essere
molto insofferente di questa contaminazione, di questa incarcerazione dentro il
corpo Immaturo di un bambino, di questa identificazione tra la sua visione
perfetta e un imperfetto essere umano. L'insofferenza ribelle è, come dimostra
l'esempio di Yehudi Menuhin, una caratteristica primaria del comportamento
ispirato dalla ghianda.
Se esaminiamo l'infanzia della
scrittrice francese Colette, scopriamo che anch'essa era affascinata dagli
attrezzi del suo mestiere. A differenza del destino di Menuhin, che scattava
come una tigre, il suo, più simile a un gatto francese che sonnecchia sul
davanzale, stava in attesa sornione, procrastinando la propria necessità di
scrivere con l'osservazione dei tentativi paterni. Un po' come Manolete,
Colette si tirava indietro - per proteggersi, forse?
Come lei stessa racconta,
l'avversione nei confronti della scrittura la salvaguardò da un inizio troppo
precoce, quasi che il suo daimon non volesse che lei cominciasse prima di
essere pronta ad accogliere il suo dono, prima di avere letto, letto tanto, e
prima di avere vissuto e imparato ed esercitato tutti i sensi, l'odorato, il
tatto. La scrittura, con i suoi tormenti, non avrebbe comunque tardato, grazie
a Dio, ad affliggere la sua vita, ma Colette doveva prima assorbire la materia
sensuosa da immettere nei suoi scritti. Non soltanto gli eventi percepiti che
penetravano nella sua sensuosa memoria, ma la materia stessa, palpabilissima,
del mestiere di scrivere nella sua fisicità. Benché avesse ripudiato le parole,
infatti, Colette provava una vera avidità per i materiali della sua vocazione:
«Un sottomano di carta assorbente
vergine, un righello di ebano, una, due, quattro, sei matite di vari colori
appuntite col temperino; penne per il tondo e per il corsivo, penne da
contabile, penne da disegno non più grandi di una piuma di merlo; ceralacca per
sigillare, rossa, verde, viola, un tampone assorbente, una boccetta di colla
liquida, priva di quelle macchie color ambra che spesso ne guastano la
trasparenza; il minuscolo brandello di un cappotto militare, ridotto alle
dimensioni di un nettapenne coi bordi dentellati; un grande calamaio affiancato
da uno più piccolo, entrambi in bronzo, e una ciotola di lacca piena di polvere
d'oro per asciugare l'inchiostro; un'altra ciotola contenente ostie di tutti i
colori per sigillare (quelle bianche le mangiavo); sulla destra e sulla
sinistra del tavolo, risme di carta vergata, rigata, filigranata ... ».
Se Menuhin sapeva esattamente
quello che voleva: suonare il violino; Colette sapeva con altrettanta certezza
quello che non voleva: scrivere. A sei anni sapeva già leggere bene, ma non
volle assolutamente imparare a scrivere:
«No, scrivere no. Non volevo
scrivere. Quando si sa leggere, quando si può penetrare nel regno incantato dei
libri, che bisogno c'è di scrivere? ... da giovane, io non ho mai, mai, provato
il bisogno di scrivere. No, non mi alzavo la notte in gran segreto per
scribacchiare poesie sul coperchio di una scatola da scarpe! No, non ho mai
inviato parole ispirate al Vento dell'Ovest e neppure alla luna! No, tra i
dodici e i quindici anni non ho mai preso bei voti nei temi. Perché avevo la
sensazione, di giorno in giorno più intensa, di essere fatta, appunto, per non
scrivere. Ero l'unica della specie, l'unica creatura venuta al mondo allo scopo
di non scrivere »
Ricapitoliamo quello che abbiamo
appreso finora sul modo in cui il destino tocca l'infanzia. Nel caso di
Collingwood, come un'inattesa annunciazione; nel caso di Manolete e di Colette,
come un'inibizione che li induce a ritrarsi. In McClintock, Menuhin e Colette
si nota inoltre il desiderio ossessivo di possedere gli strumenti materiali che
rendono possibile il suo realizzarsi. E abbiamo visto la discrepanza che esiste
tra il bambino e il daimon. Soprattutto, abbiamo imparato che la chiamata si fa
sentire nei modi più strani e diversi da una persona all'altra. Non esiste un
modello generale, ma solo uno specifico per ciascun caso.
Tuttavia, il lettore con un
orecchio freudiano esercitato avrà individuato un fattore comune, la presenza
massiccia di padri - il padre di Collingwood, il padre di McClintock, di
Menuhin, di Colette! Come se le facilitazioni eventualmente offerte dal padre
influissero sulla vocazione del figlio. Questa «superstizione parentale », come
vedremo nel capitolo così intitolato, è difficile da evitare. La fantasia
dell'influenza dei genitori sull'infanzia ci segue per tutta la vita, anche
quando i genitori in carne e ossa si sono da un pezzo ridotti a fotografie
sbiadite, sicché gran parte del loro potere deriva dall' idea di tale potere.
Perché restiamo attaccati alla superstizione parentale? Come mai questa idea
continua a farci da padre e da madre, ci conforta? Abbiamo forse paura di
lasciare entrare il daimon nella nostra vita, paura che ci abbia chiamato, che
ci stia ancora chiamando, e per questo ci rifugiamo in cucina? Ci ritraiamo in
spiegazioni che coinvolgono i genitori, piuttosto che affrontare le pretese del
destino.
Se Colette ebbe l'agio di
procrastinare il proprio destino, o di riconoscerlo indirettamente, grazie
all'intensità della propria resistenza, Golda Meir, primo ministro di Israele
dal 1965 alla guerra del Kippur, fu spinta in prima linea dal proprio quando
faceva la quinta elementare a Milwaukee. Golda organizzò un gruppo di protesta
contro l'adozione nella scuola di libri di testo troppo costosi per i bambini
poveri, i quali si vedevano così negato di fatto il diritto allo studio. Quella
ragazzina di undici anni (!) affittò una sala per tenervi un'assemblea,
raccolse fondi, organizzò le compagne, addestrò la sorellina a recitare una
poesia socialista in yiddish e infine tenne un discorso all'assemblea. Non era
già allora un capo di stato laburista?
La madre aveva insistito perché si
scrivesse il discorso da leggere in pubblico, ma, ricorda Golda Meir, «a me
pareva che avesse più senso dire lì per lì quello che avevo da dire, parole di
testa mia»."
Non sempre il futuro arriva in
maniera così esplicita. Golda Meir, donna risoluta e portata al comando, uscì
direttamente allo scoperto. Più o meno alla stessa età, Eleanor Roosevelt,
anch'essa una donna risoluta e portata al comando, faceva il suo ingresso nel
mondo del suo futuro non con l'azione, bensì rifugiandosi in fantasticherie.
Eleanor Roosevelt definì se stessa
da piccola «una bambina infelice» e i suoi anni infantili «giornate grigie»: un
modo di esprimersi a dir poco minimizzante e ben educato, se pensiamo a quello
che aveva dovuto passare. «Vivevo con la paura costante della follia»."
Prima dei nove anni aveva già perduto la madre, che non le aveva mai voluto
bene, un fratello minore e il padre, un uomo frivolo e mondano. «È una bambina
così strana, sembra una vecchietta, noi la chiamiamo sempre "nonnina?».
Dai cinque anni, se non da prima, la naturale riservatezza si accentuò; Eleanor
diventò più cupa, ostinata, scontrosa, acida e inetta (a sette anni ancora non
sapeva leggere, e non era capace né di cucire né di cucinare, come ci si
aspettava dalle ragazze nel suo ambiente sociale). Diceva bugie, rubava; quando
era in compagnia, faceva scenate da bambina asociale. Le diedero un precettore,
che le dava lezioni e le imponeva la disciplina, e per il quale provò «un odio
che durò per anni ».
Intanto, «mi inventavo, giorno per
giorno, una storia, che era la cosa più reale di tutta la mia vita ». Nella sua
storia, Eleanor si immaginava di vivere con il padre, dirigendo per lui la sua
grande casa e accompagnandolo nei suoi viaggi. La storia andò avanti per anni,
anche dopo che il padre era morto.
Oggi, il suo caso richiederebbe una
terapia, diventerebbe «il caso di Eleanor R». Oggi, magari parallelamente a una
terapia sistemica della famiglia, Eleanor sarebbe quasi certamente trattata con
l'armamentario di psicofarmaci della biopsichiatria, confermandole così, con la
forza di un dato biologico, la sensazione di essere «una bambina cattiva». (La
cattiveria devo averla nelle cellule, come un peccato originale, o come una
malattia. Perché, altrimenti, mi darebbero queste pillole per farmi guarire,
come quando ho la febbre e il mal di pancia?).
Alle sue complesse fantasticherie
non verrebbe attribuito alcun valore intrinseco di manifestazione della
fantasia del suo daimon e della sua vocazione. Sarebbero ridotte a fughe
nell'irrealtà al limite del delirio. Diminuendo con gli psicofarmaci
l'intensità e la frequenza delle sue immagini, la psichiatria avrebbe agio di
curare una mente malata, con ciò stesso dimostrando, grazie a un ragionamento
circolare, come ciò che ha eliminato fosse davvero malattia.
Un altro tipo di specialista, se
chiamato a consulto sul caso di Eleanor R, coglierebbe un nesso tra il
fantasticare giorno dopo giorno degli anni infantili e la rubrica giornalistica
di commenti sulla realtà sociale che Eleanor tenne in seguito e che si
intitolava «My Day», la mia giornata. Il nostro specialista ridurrebbe il
talento di Eleanor nell'immedesimarsi nei problemi di tutti gli strati sociali,
il suo interesse per il benessere dell'umanità e la sua ottimistica visione a
tutto campo, a una «reazione di compensazione» alle fantasie solitarie e autistiche
delle giornate grigie della sua infanzia.
E anche qui, un padre. Anche qui,
l'appiglio per scivolare in un'interpretazione freudiana: la causa sia delle
grigie depressioni sia della fuga in velleitarie fantasie di onnipotenza era il
suo complesso di Elettra (amore per il padre e desiderio di sostituirsi alla
madre). Ma, poiché quel tipo di fantasie avrebbe potuto avere un contenuto
diverso - che so: fughe magiche, patti segreti, convegni romantici, animali
salvifici e nozze regali -, la teoria della ghianda propone una lettura molto
diversa delle fantasie della piccola Eleanor.
Il loro contenuto di accudimento e
di gestione organizzativa era finalizzato, era la preparazione alla vita di
doveri che Eleanor avrebbe vissuto in futuro. Quelle fantasie erano inventate
dalla sua vocazione e davvero erano più realistiche, da un punto di vista
progett_uale, della sua realtà quotidiana. L'immaginazione le faceva da
maestra, istruendo la bambina per i più vasti compiti di servizio che la
attendevano: occuparsi dei bisogni di una famiglia complicata, di un marito
paralizzato, dello Stato di New York come moglie del governatore, degli Stati
Uniti come moglie del presidente e addirittura delle Nazioni Unite. Le fantasie
di occuparsi del «Padre» erano un eserciziario propedeutico, in cui poter
inserire la sua vocazione, l'immensa devozione al benessere altrui.
La teoria della compensazione,
secondo la quale, per esempio, Eleanor Roosevelt compensava i suoi sentimenti
di disperazione con fantasie di assunzione di potere, ha una grande influenza
sul genere psicobiografico. Spiegata nel modo più semplice, la teoria afferma
che le future superiorità affondano le loro radici in inferiorità iniziali. I
bambini esili, malaticci e tristi sono indotti, per un principio di
compensazione, a diventare dei capi, eminenti per la loro capacità di
iniziativa e la loro forza.
La biografia del Generalissimo
Franco, dittatore della Spagna dal 1939 al 1973 (morirà due anni dopo), si
adatta a pennello a questo schema. Da bambino, Francisco Franco era
«penosamente timido», di «costituzione delicata», « basso di statura e
magrolino », Quando, «a quindici anni, gracile e con la faccia da bambino, si
iscrisse all'Accademia di Fanteria di Toledo, uno degli istruttori ... pensò di
dargli un moschetto a canna corta anziché la pesante carabina d'ordinanza». Il
giovane Franco, impettito, disse: «Quello che può fare il soldato più forte
della mia squadra lo posso fare anch'io ».16 Essendo un uomo per il quale la
dignità era la cosa più importante, Franco non dimenticò mai l'offesa. Oltre a
dover compensare la gracilità fisica, doveva anche competere con i suoi
fratelli («rivalità fraterna»), che erano gioviali, bravi in tutto ed
espansivi. Perciò Franco trascese le proprie inferiorità infantili con le
vittorie militari, l'oppressione politica e un autoritarismo spietato.
Si potrebbe elencare una serie
infinita di uomini eminenti per le loro imprese e la loro audacia che da
bambini lasciavano prevedere tutto il contrario. Erwin Johannes Eugen Rommel,
la Volpe del deserto, un combattente eroico, decorato con le più alte
onorificenze per il coraggio dimostrato in battaglia in due guerre mondiali,
feldmaresciallo, veterano di molte campagne, grande stratega e trascinatore
delle truppe nelle campagne di Belgio, Francia, Romania, Italia e Nordafrica,
da piccolo in famiglia era soprannominato «orso bianco» per il colorito
pallido, la tendenza a chiudersi in fantasticherie e la difficoltà
nell'esprimersi. Alle elementari era uno degli ultimi della classe ed era
considerato un fannullone disattento e svoglìato.
Robert Peary, che percorse le lande
ghiacciate dell'Artide fino a «scoprire» il Polo Nord, era figlio unico di
madre vedova. Se ne stava sempre rintanato nel cortile di casa, accanto alla
mamma, «per evitare gli altri ragazzi, che lo chiamavano "Pelle e
ossa" e lo prendevano in giro per le sue paure».
Vilhjalmur Stefansson, altro eroico
esploratore polare, era soprannominato «Pappamolle » dai compagni e trascorreva
giornate intere tutto solo, a far navigare una barchetta nella vasca da bagno.
Mohandas Karamchand Gandhi da
bambino era basso, magro, malaticcio, brutto. e timoroso; aveva paura
soprattutto dei serpenti, degli spiriti e del buio.
La teoria della compensazione, che
questi personaggi dovrebbero esemplificare, nasce con Alfred Adler, il terzo,
meno noto e meno longevo membro del grande triumvirato terapeutico formato da
Freud, Jung e, appunto, Adler. I suoi studi sulle personalità dotate hanno
universalizzato l'idea di compensazione facendone una legge fondamentale della
natura umana. Dalle sue ricerche condotte agli inizi del secolo, risultava che
nel settanta percento degli studenti di scuole d'arte si riscontrano anomalie
visive; e che grandi compositori, come Mozart, Beethoven e Bruckner,
presentavano tracce di degenerazione dell'udito.
Secondo la teoria di Adler, la
sfida posta in età giovanile dalla malattia, da difetti di nascita, dalla
povertà o da altre circostanze sfavorevoli costituirebbe lo stimolo a
realizzazioni superiori. Benché in maniera meno spettacolare dei personaggi
eminenti ed eccezionali, ciascun essere umano compensa le proprie debolezze
con la forza, e potenziando e controllando ogni inettitudine. La mente umana è
costituzionalmente fatta per pensare secondo i costrutti antitetici di forza/
debolezza, superiore/inferiore, e lotta per primeggiare.
L'aneddoto sul dittatore spagnolo
esemplifica l'accezione più semplicistica dell'idea adleriana di compensazione.
Ne esiste però una più sottile e più pericolosa, che la riconnette con la
teoria freudiana della sublimazione. La teoria freudiana sostiene che le debolezze
iniziali sono trasformate non semplicemente in punti di forza, bensì in
prodotti dell'arte e della cultura, al cui fondo rimarrebbero peraltro le
scorie di quelle offese infantili, che sono riconoscibili nei prodotti
artistici e ne costituiscono il vero germe originario.
Questa modalità interpretativa,
estremamente perniciosa, trova immediatamente la sua brava dimostrazione
pratica: ]ackson Pollock (1912-1956), l'artista che «inventò» la tecnica del
dripping ( «sgocciolamento ») tipica dell'astratta ed espressionistica action
paintingo Pollock dipingeva su grandi tele bianche distese a terra, sulle
quali camminava, facendo sgocciolare i colori dal pennello e creando con il
movimento archi incrociati, svirgolamenti, curve e chiazze, in un vasto traforo
di motivi ritmici. Pare che egli stesso abbia dichiarato: «Quando dipingo, non
sono cosciente di quello che sto facendo».
Ma gli psicologi la sanno più
lunga, e riescono subito a rintracciare l'origine delle tracce lasciate da Pollock
sulla tela bianca in una significativa inferiorità della sua infanzia!
L'artista era nato in una fattoria del Wyoming, ultimo di cinque fratelli, i
quali continuarono a parlare di lui «come del "piccolo" anche quando
era ormai un adolescente, cosa che naturalmente - gli bruciava»:
«Al pari di molti ragazzi di
campagna, i giovani Pollock non si prendevano la briga di usare il gabinetto,
ma preferivano, appena possibile, disegnare evanescenti ghirigori sulla più
vicina zolla di terra dura e polverosa o, in inverno, sulla candida neve. Il
piccolo ]ackson guardava spesso i fratelli orinare ... e giocare a chi arrivava
più lontano. Essendo troppo piccolo per gareggiare con loro, quando doveva
orinare si ritirava sempre nel gabinetto ... e continuò a fare così anche quando
fu abbastanza grande da riuscire a tracciare gli stessi lunghi archi gialli dei
suoi fratelli ».
L'artista non saprà quello che sta
facendo, ma lo psicobiografo di formazione psicoanalitica non è così
sprovveduto! Gli archi dell'artista sono sublimazioni delle tracce di pipì
sulla polvere, depositate nel suo umiliato inconscio. Il nostro psicobiografo,
insomma, arriva a negare quello che l'artista stesso dice (e se lo dice, forse
lo sa: e cioè che egli non conosce, perché forse è impossibile conoscerla,
l'invisibile sorgente delle sue opere). Non solo, l'interprete ignora il significato
della parola chiave di tutta la sua interpretazione: «inconscio », Se uno sa
ciò che l'inconscio contiene e ciò che sta facendo (nella fattispecie, sublimando
la competitività fallica e la rivalità tra fratelli con l' action painting),
allora vuoi dire che tale sorgente non è più inconscia, e Pollock sta solo
dando una dimostrazione pratica di un 'ipotesi di interpretazione
psicobiografica.
Una teoria che degrada a tal punto
l'ispirazione si merita il sarcasmo con il quale l'ho trattata. La teoria della
compensazione uccide lo spirito, derubando le persone
e le azioni eccezionali della loro precipua autenticità. Le superiorità sono
fatte emergere da una fonte inferiore, anziché essere viste come espressione
di un'immagine più pregnante. Perché, come dimostrano le vite eccezionali,
esiste una visione, un ideale che chiama, anche se rimane di solito vago, se
non completamente ignoto, a che cosa, nell'atto, esso chiami.
Se
tutte le superiorità non sono altro che inferiorità sovracompensate, e tutti i
talenti solo ferite curate e debolezze in panni più nobili, che l'acume
psicoanalitico può facilmente smascherare, allora Franco non è altro, in
realtà, che un uomo di bassa statura ancora occupato a competere con i
fratelli, e Pollock è soltanto il fratellino piccolo. Questi personaggi non
sono altro che la teoria stessa, e tale è ciascuno di noi: un «niente altro che
», Niente talenti, e niente daimones a donarli. Ognuno di noi è solo sul
pianeta, senza angelo, soggetto all'ereditarietà della carne e all'oppressione
di famiglia e condizioni di vita che solo la forza di volontà di un «lo forte»
può sconfiggere.
Chiarita,
e rifiutata, la teoria della compensazione, ricominciamo dal principio e
rivediamo dalla prospettiva della teoria della ghianda le caratteristiche
infantili di Gandhi, Stefansson, Peary e Rommel, rileggendole a ritroso come
abbiamo fatto con la timidezza del piccolo Manolete. Gandhi aveva paura di
presenze invisibili e del buio, perché il daimon che teneva in mano il
suo destino sapeva delle cariche coi manganelli della polizia indiana e dei
tentativi di linciaggio in Sudafrica, delle lunghe carcerazioni in celle buie,
e sapeva che la morte sarebbe stata la sua costante compagna di strada. Nella
sceneggiatura di Gandhi era scritto il suo assassinio, E Peary e Stefansson
non stavano forse facendo le prove, al modo bizzarro dei bambini, della nuda
solitudine dei ghiacci in capo al mondo? E Rommel (che disse al figlio: «Appena
nominato capitano, già sapevo come si comanda un esercito» ); forse quel
pallido, tardo, svogliato «orso bianco» d'un bambino stava fuggendo, in una
sorta di precognitivo shock da bombardamento, lo schiacciante fuoco nemico di
el-Alamein, le cannonate e le bombe che gli sarebbero esplose intorno in due
guerre mondiali, e anche le raffiche a bassa quota che gli fratturarono il
cranio in Normandia e il veleno che le SS gli consegnarono perché si suicidasse
a causa della sospetta partecipazione al complotto contro Hitler.
Anche
le pose tronfie di Franco possono essere rilette non tanto come una
compensazione adleriana, quanto come una affermazione della dignità del daimon:
« Non sono un giovincello dalla faccia di bambino. Sono il Caudillo di
tutta la Spagna e mi è dovuto il rispetto della mia vocazione», Quale che sia
la vocazione (perché rispetto è dovuto non solo ai caudillos, ma
perfino agli assassini, come apprenderemo nel capitolo sul Cattivo Seme), il daimon
mantiene una posizione di grande dignità. Ecco perché anche il bambino più
debole, alla più «tenera» età, rifiuta di sottostare alle cose che sente
ingiuste e non vere, e reagisce con tanta veemenza alle interpretazioni
distorte. Il concetto di violenza sui minori, infatti, andrebbe esteso al di
là dell'abuso sessuale, il quale è così atroce non tanto perché è sessuale, ma
perché offende quella dignità che è il cuore stesso della personalità, quel
nocciolo di mito.
Dopo avere duramente criticato la teoria della compensazione,
devo ammettere che la teoria della motivazione trova invece sostegno nei casi
che abbiamo riportato. I personaggi eminenti la cui vita mostra gli esempi più
notevoli di vocazione sono caratterizzati, secondo lo studio sulla creatività
condotto da Albert Rothenberg, professore di psichiatria a Harvard, da un
fattore sopra tutti gli altri. Dopo avere esaminato e scartato l'intelligenza,
il temperamento, il tipo di personalità, il grado di introversione,
l'ereditarietà, l'ambiente infantile, l'ispirazione, l'ossessione, il disturbo
mentale (tutti tratti che possono essere presenti o meno, dare il loro contributo, essere
magari dominanti), l'unico elemento «veramente
generale, presente in tutti», è la motivazione.
E non è appunto la «motivazione» la spinta della
quercia dentro la ghianda, o, per meglio dire, la «quercità» della ghianda? Le
querce portano le ghiande, ma le ghiande sono gravide di querce.
La motivazione si manifesta nei modi più bizzarri:
obliquamente, come nelle fantasie a occhi aperti di Eleanor Roosevelt, o in
modo dirompente, come in questo racconto dell'infanzia - aveva cinque anni - di
Elias Canetti, il pensatore e scrittore di lingua tedesca nato in Bulgaria,
premio Nobel per la letteratura nel 1981:
« ... mio padre leggeva ogni giorno la ''Neue Freie
Presse" ed era sempre un momento solenne quando spiegava lentamente il
giornale ... lo tentavo di scopri- , re che cosa lo avvincesse tanto in quel
giornale, da principio pensavo che fosse l'odore e quando ero solo
e nessuno mi vedeva, mi arrampicavo sulla sua poltrona e
annusavo avidamente le pagine ... [mio padre] mi spiegò che la cosa importante
erano le lettere, tutte quelle minuscole lettere stampate su cui puntava il ,
dito. Presto le avrei imparate anch'io, mi promise, e in quel modo risvegliò in
me una sete inestinguibile di lettere dell'alfabeto ...
«[Mia cugina Laurica] tornò a casa con un quaderno,
stava imparando a leggere e scrivere. Lo aprì solennemente davanti ai miei
occhi, il quaderno conteneva, in inchiostro blu, quelle lettere dell'alfabeto
che erano per me la cosa più affascinante che avessi mai " visto. Ma quando
feci per toccarlo, lei ... disse che non potevo ... tutto ciò che riuscii a
ottenere da lei supplicandola teneramente fu di poter puntare il dito su una
lettera, senza toccarla ...
« ... Giorno dopo giorno mi induceva a mendicare i
quaderni, e giorno dopo giorno me li rifiutava...
«Quel giorno, che poi nessuno della mia famiglia
avrebbe mai più dimenticato, me ne stavo come sempre davanti al cancello
ad aspettare Laurica. "Lasciami vedere la scrittura" la supplicai
non appena comparve. Lei non rispose ...
«Tentai di acchiapparla, le corsi dietro
dappertutto, scongiurandola di farmi vedere i quaderni ... con questo
intendendo i quaderni e quel che c'era scritto dentro, per me era tutt'uno. Lei
alzò le braccia sopra la testa, era molto più alta di me, e posò i quaderni sopra
il muretto. lo non ci arrivavo, ero troppo piccolo ... Improvvisamente la
piantai in asso e feci il lungo giro intorno alla casa fino al cortile della
cucina, per prendere la scure dell'armeno, con la quale volevo ucciderla ...
«… sollevai la scure e, tenendola dritta davanti a
me, rifeci a passo di marcia il lungo cammino che avevo appena percorso, con un
canto assassino sulle labbra che ripetevo incessantemente: "Agora vo matar
a Laudca! Agora vo matar a Laurica!" - "Adesso ucciderò Laurica!
Adesso ucciderò Laurical!».
Le persone eccezionali manifestano la propria vocazione
nel modo più lampante e forse da questo dipende il fascino che esse
esercitano. Forse, anzi, sono eccezionali perché la loro vocazione traspare
con tanta chiarezza e perché esse vi aderiscono con tanta fedeltà. Sono
modelli, esempi di vocazione e della sua lorza, e anche di lealtà verso i suoi
segnali.
È come se queste persone non avessero alternative.
Canetti doveva assolutamente impadronirsi di lettere (~ parole: come avrebbe
fatto, altrimenti, a diventare uno scrittore? A nessun costo Franco poteva
essere da meno degli altri cadetti dell'Accademia. Barbara McClintock
e Yehudi Menuhin pretendevano strumenti veri perché dovevano incominciare a
esercitare le maIli. Le persone fuori del comune costituiscono la prova più
efficace perché rendono visibile ciò che noi comuni mortali non possiamo vedere. È come se
noi fossimo meno motivati, più distratti. E tuttavia a muovere il nostro
destino è il medesimo motore universale. Non è che le persone fuori del comune
appartengano a una categoria diversa: solo, in loro il funzionamento del motore
è più trasparente.
Il nostro interesse, qui, dunque, non è rivolto
tanto a queste figure e alla loro «personalità», quanto a quel fattore
straordinario che è il destino: come sopraggiunge e si rivela, che cosa
pretende, quali effetti secondari provoca. In queste biografie noi cerchiamo le
manifestazioni del destino.
È chiaro pertanto che il nostro intento non è quello
di incensare; i ricchi e i famosi, e neppure quello di condurre uno studio
sulla creatività e sul genio, sulle ragioni per cui Mozart e Van Gogh furono
quello che furono. Tutti abbiamo un genio, ma nessuno è o sarà un genio, perché
il genio o daimon o angelo è un compagno invisibile, non umano, e non
già la persona che ne è vissuta.
Spesso, nei primi anni di vita, persona e daimon sembrano
essere un'unica e medesima cosa, con il bambino tutto preso dal genio, una
confusione abbastanza comprensibile, visto che il bambino ha così poche forze
sue e il daimon così tante. Allora il bambino viene additato come
eccezionale, speciale, un bambino prodigio ... ovvero, sull'altro versante,
come un ' piantagrane disfunzionale, un potenziale delinquente, da sottoporre
a test e diagnosi, e da estirpare come le erbacce.
Il collegamento fra patologia ed eccezionalità discende
in parte dalla tradizione romantica, che ama associare genio e follia, con ciò
giustificando tutta una . serie di idiozie: più matto appari, più è sicuro che
sei un genio. Ma il nostro gesto non è così irresponsabile, può anzi riuscire
di ispirazione. Esso immette nella vita assolutamente banale di tutti noi e
nei suoi incomprensibili momenti di devianza il sentimento di un'immagine
innata capace di conferire coerenza e significato ai pezzi sparsi della nostra
vita. Gli episodi tratti dall'infanzia di personaggi eccezionali che riporteremo
in queste pagine sono raccontati non soltanto per illustrare la loro infanzia,
ma per illuminare la nostra e quella dei bambini che ci sono affidati e che ci
destano preoccupazione. Ciascuno schizzo lascia intravedere, in mezzo alle
flagranti singolarità sintomatiche, il lampo della vocazione. E allora perché
non proviamo a guardare i bambini avendo presente questa visione? Potrebbe
limitare un po' l'accanimento del nostro approccio diagnostico al carattere e
alle abitudini infantili.
La «guerra contro i bambini», secondo il titolo scelto
da Peter e Ginger Breggin per il loro recente libro, minaccia di diffondere tra
i bambini americani un'epidemia di problemi causati proprio dal metodo che i loro
problemi vorrebbe curare. Mali già diffusi in altre epoche rispuntano oggi
sotto forma di programmi assistenzialì, prevenzione farmacologica e drastica segregazione.
Ci risiamo: eugenetica, razzismo bianco, sterilizzazione, mutilazioni forzate,
costrizione alla mendicìtà, punizioni, affamamento. Come in epoca roloniale,
coloro che provocano la sofferenza fominmno ai poveri coolies i farmaci per alleviarla e per renderli più insensibili al
dolore.
I bambini sono diventati le vittime sacrificali di
Saturno-Moloch, come nelle antiche civiltà del Mediterraneo. Sono anche i
capri espiatori per tutte le paure positivìstìche nei confronti dell'anomalo,
dell'eccessivo e dei moti divergenti dell'immaginazione al suo primo apparire
- nel bambino, appunto, Ciò che avviene nelle nostre «strutture per l'igiene
mentale», dove gli psicofarmaci vengono dispensati con minore ritegno dei profilattici,
sarebbe bastato a fare di tutte le persone di cui si parla in questo libro dei
poveri ebeti, durante la loro infanzia.
Lo Zohar, il testo canonico della letteratura qabbalistica, dice
chiaramente che la discesa è dura; l'anima è restia a discendere e a
contaminarsi col mondo. "Al tempo in cui il Santo, si abenedetto il suo
nome, era in procinto di creare il mondo, decise di foggiare tutte le anime da
assegnare, a tempo debito, ai figli degli uomini, e ciascuna anima era formata
decondo i contorni esatti del corpo che
era destinata ad abitare… Ecco, ora va', scendi nel tale luogo, entra nel tale
corpo. Ma il più delle volte l'anima obiettava: Signore del mondo, a me piace
restare qui in questo regno, e non ho alcun desiderio di andarmene in un altro,
dove sarò schiava e verrò contaminata. Al che il Santo, sia benedetto il suo
nome, rispondeva: Il tuo destino è, edè sempre stato fin dal giorno in cui tu
fosti formata, quello di andare in quel mondo. Allora l'anima, vedendo che non
poteva disubbidire, suo malgrado scendeva in questo mondo".
L'albero qabbalistico, nella forma
elaborata in Spagna nel XIII secolo, vede i rami discendenti come le condizioni
di vita dell'anima, vita che si fa più manifesta e visibile via via che l'anima
discende. Secondo la recente interpretazoine psicologica avanzata da charles
Ponce, tuttavia, più in bsso arriva l'anima,
più ci riesce difficile afferrare il
significato delle sue manifestazioni. Le sfere e i simboli superiori sarebbero
meno occulti di quelli relativi al mondo; "le gambe rimangono un
enigma". E' facile vedere le conseguenze sul piano etico di questa
immagine capovolta: l'immergersi dell'individuo nel mondo testimonia della
discesa dello spirito. La virtù consisterebbe nel rivolgersi verso il basso,
come nell'umiltà, nella carità , nell'insegnare, nel non essere superbi.
Il racconto platonico della discesa
è il mito di Er, che riassumo qui dall'ultimo libro della Repubblica.
Le anime, che provengono da vite
precedenti e soggiornano in una sorta di aldilà, hanno ciascuna un destino da
compiere, una parte assegnata (moira),
che corrisponde in un certo senso al carattere di quell'anima. Per esempio,
racconta il mito, l'anima di Aiace Telamonio, il valoroso e irruente guerriero,
scelse la vita di un leone, mentre quella di Atalanta, la vergine famosa per la
velocità nella corsa, scelse il destino di un'atleta e un'altra anima quello di
un abile artigiano. L'anima di Ulisse, memore delle prove e dei travagli
patiti, «e guarita di ogni ambizione, andò a lungo in giro alla ricerca di una
vita di uomo solitario senza occupazione, e la trovò a stento, gettata in un
canto e negletta dagli altri ...
«Quando tutte le anime si erano
scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano davanti a Lachesi
[lachos, "parte, porzione di
destino"]. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto,
perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei
scelto », Il daimon conduce l'anima
dalla seconda delle personificazioni del destino, Cloto [klotho, «filare, volgere il fuso.» ]. «Sotto la sua mano e il
volgere del suo fuso, il destino [moira]
prescelto è ratificato». (Gli viene impresso il suo particolare effetto?). «
... quindi il genio [daimon]
conduceva l'anima alla filatura di Atropo [atropos,
"che non si può volgere all'indietro, irreversibile"], per rendere
irreversibile la trama del suo destino.
«Di lì, senza voltarsi, l'anima
passava ai piedi del trono di Necessità» (Ananke),
o, come traducono alcuni, «del grembo» di Necessità.
Dal testo non risulta chiaro in che
cosa consista esattamente il kleros
lasciato cadere ai piedi delle anime affinché ciascuna scelga il proprio. Il
termine kleros può avere tre
significati strettamente connessi: a) pezzo di terra, come il nostro lotto di
terreno e, per estensione, b) lo spazio, la parte assegnata nell'ordine
generale delle cose e c) eredità, ciò che per diritto ci viene in quanto eredi.
Io interpreto i kleroi del mito come immagini. Poiché
ciascuno di essi è particolare e compendia lo stile di tutto un destino,
l'anima percepirà intuitivamente un'immagine che abbraccia l'insieme di una
vita tutto in una volta. E sceglierà l'immagine che la attrae: «Ecco quella che
voglio, che è la mia giusta eredità». La mia anima sceglie l'immagine che io
vivo.
Il testo platonico chiama questa
immagine della vita paradeigma,
«modello», come viene di solito tradotto. Dunque quella che ricevo è l'immagine
che è la mia eredità, la porzione assegnatami nell'ordine del mondo, il mio
posto sulla terra, condensata in un modello che è stato scelto dalla mia anima
o, per meglio dire, che viene sempre, di continuo, scelto dalla mia anima,
perché nelle equazioni del mito il tempo non entra. («Il mito» scrive
Sallustio, il filosofo latino del paganesimo, «non è mai accaduto, ma è sempre
»). La psicologia antica localizzava l'anima nella regione del cuore, dunque il
nostro cuore custodisce l'immagine del nostro destino e ci chiama a esso.
Per dipanare quell'immagine occorre
tutta la vita.
Se pure è percepita tutta in una
volta, la si comprende solo lentamente. Sicché l'anima possiede un'immagine del
proprio destino, che il tempo può rendere manifesta soltanto come «futuro». Che
«futuro» sia dunque un altro nome per indicare il destino, e le nostre
preoccupazioni circa «il futuro» fantasie del destino?
Prima di fare il loro ingresso
nella vita umana, però, le anime attraversano la pianura del Lete (oblio,
dimenticanza), sicché alloro arrivo sulla terra tutto ciò che è accaduto - la
scelta delle vite e la discesa dal grembo di Necessità - viene cancellato. È in
questa condizione di tabula rasa che noi veniamo al mondo. Abbiamo dimenticato
tutta la storia, anche se rimane con noi il modello ineludibile e necessario
del nostro destino e anche se il nostro compagno, il daimon, ricorda.
Plotino, il più grande dei filosofi
del neoplatonìsmo, cosi sintetizza il mito platonico: «Il fatto di venire al
mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e
nel tal luogo, e in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della
nostra vita ... tutti gli eventi formano una unità e sono per così dire
intessuti assieme ». Ciascuna anima è guidata da un daimon a quel particolare
corpo e luogo, a quei dati genitori e condizioni di vita, per la forza di
Necessità; ma noi non abbiamo il minimo sentore di tutto questo, perché il suo
ricordo è stato cancellato nella pianura dell'oblio.
Secondo un'altra leggenda ebraica,
la prova che abbiamo dimenticato la scelta prenatale dell'anima la portiamo
impressa sul nostro labbro superiore: il piccolo incavo sotto il naso è
l'impronta dell'indice che l'angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle,
tutto ciò che resta a rammentarci il pregresso sodalizio dell'anima con il
daimon; ed è per questo che, quando inseguiamo un'intuizione o un pensiero che
sfugge, ci portiamo automaticamente il dito a quella significativa
scannellatura.
Immagini come queste ci colmano la
mente di bellissime congetture, come hanno fatto per secoli. Perché il
passaggio davanti alla dea Necessità? e perché Dio si sofferma un intero giorno
su mostri marini ed esseri striscianti, prima di por mente al genere umano?
Siamo i migliori proprio perché gli ultimi? O siamo insignificanti, un
ripensamento?
I miti cosmogonici ci situano nel
mondo, ci coinvolgono nel mondo. Le cosmogonie moderne (big bang e buchi neri,
antimateria e spazio curvo in continua espansione senza meta) ci lasciano nel
terrore e nell'incomprensibilità priva di senso. Solo eventi casuali, niente
davvero necessario. Le cosmogonie della scienza non parlano dell'anima e dunque
non parlano all'anima, non le dicono nulla sulle ragioni della sua esistenza,
come sia posta in essere, e quale sia la sua destinazioe e quali i compiti da
adempiere. Le entità invisibili, che (noi questo sentiamo) intrecciano la
nostra vita con qualcos che va oltre la nostra vita, la scienza le ha rarefatte
nell'invisibilità letterale di remote galassie o di onde. Non si possono
conoscere né percepire perché la loro misura è il tempo e le nostre vite non
sono che nanosecondi nell'immenso arazzo del mito della scienza. Che scopo
possono avere?
Può esistere un angelo mediocre?
Una vocazione alla mediocrità? In fondo, la maggior parte di noi trascorre
1'esistenza al sicuro proprio sotto la curva della campana di Gauss. Accalcati
là sotto, intorno alla media, guardiamo con invidia e timore le rare eccezioni
che premono per sfuggire agli estremi. Noi della maggioranza, nella media vuoi
per talento, per opportunità, per ambiente, fortuna, intelligenza o bellezza,
né siamo nati grandi né saremo mai sfiorati dalla grandezza. Così almeno pare.
Intanto, incominciamo con
l'ammettere che intorno al termine «mediocre» si sono accumulati un mucchio di
pregiudizi snobistici. Quando applichiamo quel termine a una cosa, è sottinteso
che ne stiamo prendendo le distanze. Noi no, noi siamo diversi, non ci
riguarda, quindi a noi è lecito dare giudizi su qualsiasi cosa chiamiamo
mediocre.
« Mediocre» tende a significare
«senza tratti distintivi », mentre agli snob piacciono tanto le griffe che
distinguono il loro stile dalla massa: i vestiti che indossano e come li
indossano, le parole che usano, i posti che frequentano, con chi si ritrovano a
spettegolare.
A essere chamate non sono soltanto
le persone eminenti. Chi, qualsiasi lavoro faccia, non si è mai sentito
incalzato a farsi carico di troppe cose, a pretendere troppo da sé? E' di tutti l'angustia di non
avere fatto abbastanza: potevamo preparare un contorno in più peril pranzo di
Natale, fare una mezz'ora in più di esercizi al pianoforte o di ginnastica.
Sania di perfezione è un altro nome che viene dato alla chiamata dell'angelo.
La voce che ammonisce dice solo una parte del messaggio del daimon. Un'altr parte richiama
all'ideale. Le accuse che si muovono allo stress della vita moderna, ai soldi
che non bastano mai, alle ingiunzioni del Super-io, alle scadenze che ti
soffocano servono a ridimensionare la natura archetipica e le implacabili
pretese dell'angelo, che non è umano e non conosce la fatica. Benché dunque
tutti di tanto in tanto ci sentiamo incalzati dalla vocazione, ènella vita
esagerata delle celebrità che sono più evidenti e meglio documentate le sue
pretese. Ricchezze e plauso non riescono mai a colmare lo scarto; divi e dive
sembrano sempre profughi, sempre bisognosi, alienati, perseguitati da una
tragedia non detta dicui sono incolpati di volta in volta i genitori o i
tradimenti amorosi, le malattie o i ritmi disumani loro imposti. Ma la colpa è
dell'angelo, della difficoltà de non umano, che cerca di discendere nell'umano.
Le storie di droga che interompono una carriera, i tentati suicidi e le morti precoci potrebbero dipendere
dall'incommensurabilità esistente tra vocazione e vita In un mondo
minuziosamente calibrato di convenzioni umane, come possono vivere le esigenze
non umane di ciò che sono chiamato a fare?
A che cosa si rivolge l'anima che
non ha un terapeuta con cui fare le sedute? Porta le sue pena a un bosco, alla
riva di un fiume, a un animale amico, oppurein giro senza meta per le vie della città, a contemplare il
cielo notturno. Oppure guarda fuori della finestra o mette a bollire l'acqua
per farsi una trazza di tè. E' come respirare: espandiamo i polmoni, li
rilassiamo, e ci arriva qualcosa, da
fuori. Il daimon, nel cuore, dsmbra
contento, perché preferisce la malinconia alla disperazione. C'è contatto.
Poiché lascia fuori dai suoi
costrutti fondamentali il mondo concreto, la teoria psicologica immagina il
mondo là fuori come un luogo di oggetti, freddo, indifferente, addirittura
ostile (e la terapia come rifugio protettivo, lo studio del terapeuta come un
asilo senza estradizione). In questo modo, il mondo riceve la proiezione della
cattiva madre, la madre che uccide, inventata dalla "teoria materna".
Siamo riportati al mondo della nattura concepito quattro secoli fa da Cartesio,
la natura come mera res extensa, uno
sconfinato campo di materia vuota di anima, inospitale,meccanico, quando non
demoniaco. Certo che ci sono demoni là fuori, dapropizioare. Le calamità sono
in agguato ma le potenze dietro la porta e nella boscaglia sono anche antenati,
non semplicemente batteri, ragni, sabbie mobili. Come abbiamo spodestato i
genitori cosmologici, allo stesso modo abbiamo anche perduto gli antenati. Sono
stati inghiottiti dai genitori.
né natura né cultura: qualcos'altro
È ora di andare a vedere che cosa
dice la psicologia conservatrice a proposito dell'innamoramento, giacché quella
è la situazione in cui il fato sembra chiamare con voce più forte e in cui
sembra decidersi il destino di un individuo. Ma per prima cosa dobbiamo
studiare come la psicologia concepisce l'individualità. Come possiamo sostenere
che ciascuno di noi è, appunto, un «ciascuno »? Non siamo invece profondamente
uniformi, a causa dell'ereditarietà genetica e dell'ambiente iniziale? Gli
studi sui gemelli, che concentrano l'attenzione precisamente sul problema
dell'individualità, riscontrano differenze anche tra le biografie di gemelli
geneticamente identici e cresciuti nella medesima famiglia. Oltre alla natura e
alla cultura, sembrerebbe esserci qualcos'altro. Perciò, per approdare
all'innamoramento, partiremo dalla ricerca scientifica.
La psicologia scientifica taglia il
regno delle cause in due parti soltanto, natura e cultura. Ed elimina per
definizione la possibilità di un qualcos'altro. Dal momento che le scienze
comportamentali, compresa la biologia molecolare e la psichiatria
farmacologica, situano tutte le ragioni del nostro carattere in quelle due
categorie, e dal momento che noi ci stiamo immaginando una terza forza nella
nostra vita, questo tertium non puo che manifestarsi nascosto dentro gli altri due.
Perciò dovremo non soltanto guardare per così dire la facciata di quello che le
scienze comportamentali dicono, ma anche esaminare bene il come lo dicono.
Dovremo procedere come se fossimo dei detective alla ricerca di indizi che
rimandino all'invisibile persona scomparsa dentro le deposizioni rilasciate da
testimoni che dal canto loro non credono che sia scomparso alcunché.
Una cosa dobbiamo riconoscere
subito: che la divisione in due alternative è una comoda abitudine della mente
occidentale. Al livello più elementare la troviamo nella Bibbia: Noi o Loro.
Abele e Caino, Giacobbe ed Esaù - il bunno e il cattivo - personificano quella
divisione. Il ragionamento antagonistico non l'ha inventato la televisione nei
suoi dibattiti urlati, e il bipartitismo del nostro sistema politico non è
certo venuto dal nulla. Il numero due, con tutte le sue dicotomie e
sdoppiamenti e duplicità e accoppiamenti e contrapposizioni, alimenta la
«passione della mente occidentale », per citare il titolo della storia del
pensiero occidentale di Richard Tarnas.
La logica aristotelica è incapace
di pensare per triadi. Dal principio aristotelico di non contraddizione, detto
anche del terzo escluso, fino alla logica binaria - 0 o l - dei programmi del
computer, la nostra mente organizza i suoi sistemi per pro e contro, per
aut-aut. Cartesio a dire il vero un posticino a un tertium l'ha concesso, giusto nel mezzo del cervello. Ha collocato
l'anima nella ghiandola pineale, confermandone così l'irrisorio valore a fronte
dei due giganteschi contendenti del suo sistema, la mente pensante,
all'interno, e lo spazio esteso, all'esterno.
Perciò queste pagine si troveranno
a combattere con consolidati e tranquillizzanti abiti mentali del pensiero per
opposti, che dicono: se il comportamento non è del tutto il risultato
dell'eredità genetica, allora quel che rimane può essere spiegato solo da
influenze ambientali, o viceversa. L'introduzione di un «qualcos'altro» viola
la nostra modalità di pensiero e la convenienza delle sue operazioni abituali.
Un «qualcos'altro» turba le menti che confondono il pensare comodo con la
chiarezza di pensiero.
In fondo, a tutti noi risulta con
chiarezza, dall'evidenza dei nostri sentimenti e di personalissimi eventi
fatali, che nella vita umana interviene qualcos'altro che non può essere
contenuto entro i confini né della natura né della cultura. La straordinaria
singolarità degli individui, le differenze esistenti tra i miliardi di persone
sulla terra, perfino tra bambini appena nati, tra fratelli, tra gemelli
identici, così come tra persone allevate nelle medesime condizioni e sottoposte
alle medesime influenze, tutti questi dati di fatto propongono l'interrogativo
dell'unicità ed esigono una risposta.
Occupiamoci innanzi tutto
dell'ereditarietà. La prima grande ondata di ricerche genetiche, da Gregor
Mendel (1822-1884) a James Watson e Francis Crick, si è ormai ritirata, ma non
senza avere lasciato tracce indelebili. Quasi tutti, in fondo in fondo, siamo
convinti di essere costituiti dalla struttura genetica ereditata e iscritta nei
nostri cromosomi tanto quanto di essere creati da Dio (teologia), dall'economia
(Marx), dalle vite precedenti (induismo, buddhismo), dalla storia (Hegel),
dalla società (Durkheim e altri). Infatti è arrivata la prova incontestabile:
la doppia elica del DNA è la portatrice del codice che più di ogni altra cosa
governa la nostra vita, fisicamente, psicologicamente e anche spiritualmente.
Adesso siamo alla seconda ondata di
ricerche, più differenziata nei metodi e più raffinata nelle domande che si
pone. La ricerca adesso si interroga di sulle differenze, anche tra soggetti
geneticamente vicini. Come mai i gemelli hanno caratteri diversi, destini
diversi?
Gli studi sulla differenza trovano
il loro materiale ideale nei gemelli identici (monozigoti). Questi sono
individui che si sono sviluppati a partire da un ovulo fecondato, non da una
coppia di ovuli, come è il caso dei cosiddetti gemelli fraterni (una desìgnazione
dal sapore patriarcale, che insinua che quelli che contano nella covata sono i
maschi). I gemelli monozigoti hanno lo stesso DNA, geneticamente sono identici;
hanno iscritte dentro le stesse informazioni tiche. A parte i gemelli
monozigoti, ciascun individuo è geneticamente diverso da tutti gli altri.
Si potrebbe pertanto dedurre che i
gemelli identici siano esattamente uguali. Invece no. In dieci caratteristiche
fisiche, per esempio colore e attaccatura dei pelli, gruppo sanguigno, colore
degli occhi, posizione dei denti, conteggio delle creste cutanee nelle impronte
digitali, essi concordano soltanto al novanta percento. E la concordanza
incomincia a diminuire quando si arriva a fattori di ordine più psilcologico. Ma
nemmeno l'altezza e il peso e la carnagione giungono quel livello di
concordanza, il quale si riduce ulteriormente quando si considerano l'espressività
facciale e la suscettibilità a malattie come il diabete, l'ulcera, il tumore al
seno e l'ipertensione. Viene sempre più in primo piano l'individualità.
Come mai i gemelli «identici»
identici non sono? Da che cosa dipendono le differenze addirittura fisiche, tra
questi gemelli? «Una risposta semplice è: dall'ambìente ». «Con il termine
ambiente si intende qualsiasi influenza che non sia ereditaria». Insomma, se
non è la natura, sarà la cultura. Dell'ambiente ci occuperemo tra breve, per il
momento fermiamoci ancora sull' ereditarietà.
Quando si arriva alle abilità
cognitive, come il ragionamento astratto, la fluidità verbale e la memoria, le
differenze si fanno ancora più marcate. Per i fratelli e le sorelle normali,
cioè non gemelli né mono né eterozigoti, « le correlazioni sono molto basse in tutti
i tratti di personalità». Insomma pare che le persone siano individui a
dispetto del fatto di avere gli stessi genitori e un' educazione simile.
Perfino il morbo di Alzheimer (che è una malattia del cervello e non un
disturbo della personalità) presenta una differenza di incidenza tra fratelli
del novanta percento!
Negli ultimi cinquant'anni, le
ricerche sulla schizofrenia hanno assorbito enormi risorse di tempo e di
denaro, anche se la diagnosi differenziale di questo disturbo (ne esistono
forme diverse) rimane piuttosto incerta. Ciò nonostante, i risultati prevalenti
degli studi su gemelli identici e schizofrenia possono riassumersi in questa
chiara affermazione: «Più della metà delle coppie di gemelli geneticamente
identici presenta discordanza riguardo alla schizofrenia». Se un gemello
diventa schizofrenico, l'altro ha maggiori probabilità di non diventarlo che di
diventarlo a sua volta. Interviene qualcos'altro, a differenziare i gemelli.
Questo qualcos'altro non è certo
l'educazione, come potrebbe affrettatamente concludere qualcuno. Se in una
coppia di gemelli che sono stati adottati e allevati dalla medesima famiglia
uno dei due ha una diagnosi di schizofrenia, non è che l'altro abbia più
probabilità di ammalarsi degli altri membri della famiglia adottiva.
«L'ambiente familiare in comune non sembra avere peso ... Questo risultato»
scrivono Judy Dunn e Robert Plomin, due esperti ricercatori nel campo degli
studi sui gemelli, «implica che la ragione principale per cui una persona
riceve una diagnosi di schizofrenia e un'altra no deve trovarsi in inìluenze
ambientali che non sono quelle condivise
nell'ambito della famiglia» (il corsivo è mio). Dato che il fattore che
influisce sulla diagnosi di schizofrenia non è né un gene ereditato né
l'ambiente familiare in comune, vuol dire che c'è qualcos'altro, che non è in
comune, cioè è qualcosa di individuale e di unico, specifico di quella
particolare persona.
Altri tre risultati di questi studi ho trovato particolarmente
intriganti; essi hanno a che vedere con nostra teoria della ghianda. Vi invito
a dedicarci che voi un po' di pensiero immaginativo. I risultati
questione riguardano la creatività,
il tradizionalismo e il dato secondo il quale il fattore genetico sembra
rafforzarsi negli anni centrali dell'infanzia.
«Una dimensione della sfera
cognitiva [memoria, fluidità verbale, ragionamento astratto] nella quale sembra
scarsa l'influenza genetica è la creatività ». Non staremo a impelagarci nel
tentativo di definire questo vago e mitizzato termine, né ci metteremo, qui, a
criticare i metodi usati per la sua misurazione. Sappiamo però, dai dati
accumulati e dagli aneddoti biografici, che di solito le persone eminenti
spiccano isolate rispetto alla loro famiglia, i loro coetanei, il luogo di.
nascita, i loro stessi figli. Le persone eminenti di solito sono «diverse »,
dissimili dai parenti più prossimi (natura) e dal loro ambiente (cultura). In
altri termini, né i geni né l'ambiente possono dirsi con certezza tra le cause
dell'eminenza. La straordinaria individualità della persona eminente, che
comunemente presumiamo essere esempio o portatrice di «creatiità» (comunque la
si definisca), non è attribuita né alla natura né alla cultura. Che c'entri
qualcos'altro? Un fattore indipendente? .
I
Per evitare di dover analizzare
quel «qualcos' altro» e dichiararsi in favore di un fattore indipendente, le spiegazioni
comportamentistiche mescolano insieme natura e cultura. Ipotizzano un
misterioso intreccio di fili neri e bianchi, il cui risultato è così
sottilmente intessuto che ci si para davanti uno schermo grigio di incertezza e
si capisce meno di prima se la creatività sia prevalentemente genetica oppure
ambientale. Rispetto all'eterno mistero della creatività umana, questa spiegazione
«in grigio» riduce il rischio di scardinare il bipartitismo con l'introduzione
di una componente autenticamente diversa: la vocazione, come propone la teoria
della ghianda. Però riduce anche la soddisfazione per la mente immaginativa.
Se la creatività mostra di essere
scarsamente influenzata dalla genetica, il «tradizionalismo» parrebbe,
sorprendentemente, a forte componente ereditaria. Gli studi usano il termine
«tradizionalismo» per indicare la «tendenza a ubbidire alle regole e
all'autorità, e a invocare elevati standard morali e una disciplina rigorosa ».
I dati, come ama ripetere la
scienza, sono apolitici e quindi, il « tradizionalismo» genetico non viene
direttamente ricollegato con una precisa posizione politica (Partito
repubblicano) o religiosa (fondamentalismo, ortodossia). Eppure quella
descrizione del tradizionalismo non può non far pensare a un qualche messaggio
genetico al fondo di affiliazioni partitiche e confessionali di tipo
conservatore quando non reazionario. Gli studi di Jerome Kagan sul carattere
innato parleranno prudentemente di inclinazione temperamentale; l'astrologia si
immaginerà un'influenza di Saturno sui cromosomi; il femminismo prenderà
tristemente atto di quanto siano inestirpabili gli atteggiamenti patriarcali; i
marxisti capiranno come mai è così difficile risvegliare contadini e proletari
alla rivoluzione; e la Chiesa potrà rassicurarsi: ci sarà sempre una riserva
genica a cui il Vaticano possa attingere.
Già una settantina di anni fa,
l'antropologo Paul Radin spiegò la nascita del monoteismo dicendo che esso non
costituisce una naturale fase evolutiva delle religioni; al contrario, il
pensiero monoteistico è espressione delle caste sacerdotali e della loro
mentalità: il monoteismo trae origine da un particolare «temperamento». Radin
aveva intuito il ruolo determinante dell'atteggiamento tradizionalista presente
nel carattere molto prima che la genetica saltasse fuori con i suoi dati sul
tradizionalismo.
A questo punto si capisce meglio
perché è così difficile cambiare le cose. Forse il tradizionalismo è quella
vena conservatrice presente nella natura umana che si esprime in tutte le
culture come fondamentalismo e rigidità mentale ed è personificata nella figura
archetipica del Vecchio Re. Personalmente, trovo che sia un sollievo sapere che
l'insistenza su elevati standard morali e una disciplina rigorosa non viene
dall'angelo o dalla voce che chiama, ma fa parte della nostra struttura fisica,
come il cranio o le ossa.
Se consideriamo il fatto che il
tradizionalismo ha una forte componente genetica, questo dato ci aiuta a capire
perché il genio chiama lontano dalla vita tradizionale? Per molti secoli, dai
Problemata di Aristotele sulla follia melanconica (o furor, lo stato mentale fuori della norma delle persone
«creative»), giù giù fino a Cesare Lombroso nell'Ottocento, la vocazione è
sempre stata accostata o addirittura identificata con l'antitradizionale e
I'anormale. Nell'immaginazione popolare, novità e originalità sono il contrario
di tradizione, come se l'ispirazione dovesse per defìnizione opporsi
all'ordine, alla disciplina, alle regole, all'autorità, insomma al
«tradizionalismo». Dunque è lecito quanto meno azzardare la conclusione che tra
gli atteggiamenti conservatori, che sono genetici, e un qualcos'altro, che
chiama contro e lontano, può crearsi un forte conflitto.
Un terzo risultato molto curioso
dice che l'influenza dell'ereditarietà sull'intelligenza (quale è misurata dal
QI) aumenta via via dopo i primi mesi di vita, fino agli anni centrali
dell'infanzia." Anzi, «le prove sembrano indicare che l'ereditabilità del
QI aumenta con l'età, e continua a crescere dalla prima infanzia fino alla
tarda età adulta» .
Io avrei detto che il fattore
genetico dovesse essere più forte e più determinante per le nostre abilità, per
esempio l'intelligenza, al momento dell'arrivo sulla terra, prima che inizi il
bombardamento di stimoli dal mondo esterno, quando ancora non si è in grado di
operare una selezione. Avrei detto che fossero i primi mesi e i primi anni
quelli in cui i fattori genetici svolgono il ruolo più importante. Invece gli
studi sul QI dei bambini mostrano che è fra i tre e i sei, sette anni che
l'ereditabilità esplica il maggiore influsso. In seguito, dopo i sette anni
circa, incomincia a decrescere di nuovo. Non solo, «i valori del QI aumentano
in misura sostanziale durante l'infanzia, benché il QI sia fortemente correlato
con I'eredìtabìlità». (Al problema del Quoziente d'Intelligenza arriviamo fra
un attimo).
Perché il fattore ereditario è meno
potente all'età di due o tre anni che non a sette o otto anni? Forse che
l'individualità dell'intelligenza è più pronunciata alla nascita, per poi
affievolirsi gradualmente negli anni centrali dell'infanzia? Una congettura che
si potrebbe avanzare in base al risultato di questi studi è che il neonato sia
meno sottoposto all'influenza così della natura come della cultura di quanto lo
sia il bambino più grandicello, più debitore, almeno per ciò che riguarda
l'intelligenza innata, alla propria dotazione originaria. Questa lettura dei dati
confermerebbe il mito platonico, secondo il quale ciascuna persona nasce con un
innato paradigma, che non coincide con la dotazione genetica e che recede
gradualmente negli anni centrali dell'infanzia, quando entrano di prepotenza in
campo i fattori genetici. Inoltre, alla fine dell'età adulta, quando la
vocazione, il carattere e il destino sono diventati più ineludibili, ecco che
anche allora l'intelligenza, e tutto ciò a cui essa si dedica, torna ad
appartenere di più al codice dell'anima che non a quello genetico.
Anche «durante la prima adolescenza
l'ereditabilità sembra declinare. Questo conferma le. nostre aspettative: molte
biografie testimoniano dell'irrompere improvviso e inatteso della vocazione in
quegli anni. Riassumendo, la vocazione sembra più vicina nel periodo fra i tre
e gli otto anni e poi di nuovo nell'adolescenza: questo, cioè, se immaginiamo
che la vocazione sia più in evidenza quando le influenze genetiche recedono. E
infatti alcune delle biografie raccontate in questo libro mostrano il daimon
che emerge nei primi anni di vita e nell'adolescenza.
Riflessioni e congetture come
quelle esposte sono le bollicine di champagne degli studi sperimentali e
statistici; ne rendono divertente la lettura. Presi in sé, gli studi statistici
pietrificano la mente. Perciò io presento i loro risultati non come sono
presentati a me, come prove volte a consolidare il concreto: li offro per
accendere la scintilla del pensiero congetturale. Il quale diventa tanto più
importante quanto più le scienze della biologia mole colare e della statistica
si affinano e i loro campioni diventano più ampi. Per tenere dietro ai dati,
l'immaginazione deve espandersi. Ogni anno negli Stati Uniti nascono undicimila
coppie di gemelli identici. Diventa sempre più evidente dal loro studio come le
influenze genetiche siano estremamente complesse e varie, anche se noi vorremmo
tracciarne il grafico o rinchiuderle sotto la campana della curva di Gauss.
E con ciò siamo atterrati dritti
sopra il cespuglio spinoso del Quoziente d'Intelligenza. «Benché la questione
dell'influenza genetica sul QI sia tradizionalmente una delle zone più
controverse delle scienze comportamentali, un recente sondaggio condotto su un
migliaio di scienziati e educatori indica che la maggioranza degli intervistati
oggi è convinta che le differenze individuali
di QI siano almeno in parte ereditarie ».
Si noti la parola che ho voluto
sottolineare: individuali. Differenze non di genere, non di colore, non di
razza, non di classe, non di gruppo, bensì tra un individuo e l'altro.
Perciò adesso voglio muovere
quattro critiche generali a chi mette a confronto le misure del QI di bianchi e
neri (cosiddetti).
1. Chi, geneticamente, è nero e chi
bianco nella nostra cultura che viene da trecentocinquant'anni dì incroci, a
non voler contare le mescolanze genetiche precedenti all'invasione delle
Americhe da parte degli europei e all'importazione degli africani?
2. Che cosa misuriamo in realtà nei
test che misurano quello che poi chiamiamo «QI»?
3. Qual è il significato psicologico
di « test» nelle varie collettività sociali e quale relazione esiste fra il
test di intelligenza come rito e altri riti che sono dei test?
4. Accanto a queste domande, che si
ritrovano anche nel dibattito infinito sul Quoziente d'Intelligenza e la sua
misurazione e i suoi test, ce n'è un'altra che nasce direttamente da questo
libro. Se è vero che esiste una ghianda, un daimon, e se è vero che in molti
casi questo fattore oppone resistenza alla socializzazione, non vuole
collaborare, come mostrano spesso le storie delle persone eminenti, non
potrebbe tale resistenza abbattere il rendimento ai test che misurano il QI? Il
daimon non tenderebbe anzi a scegliere proprio quei test per il suo rifiuto,
visto che un punteggio elevato è di solito il passaporto giusto per essere
collocati in una zona più accettabile della curva a campana?"
L'identità individuale di ciascuna
persona è non solo un articolo di fede religiosa e un assioma della mente
occidentale: l'individualità umana è anche poco meno che una certezza
statistica.
«Ciascuno di noi ha la capacità di
generare dieci alla tremillesima ovuli o spermatozoi. Se pensiamo ai dieci alla
tremillesima possibili ovuli che vengono generati da una singola donna e allo
stesso numero di spermatozoi prodotti da un singolo uomo, le probabilità che
esista qualcun altro con il mio stesso genotipo, nel passato o nel futuro,
diventa infìnitesìmale»."
Inoltre, la ricerca genetica stessa
mette in guardia contro le spiegazioni troppo semplificatorie sulla natura dei
geni. La modalità del loro influsso è caratterizzata da improvvisi scatti
alternati a lunghi periodi di latenza, l'interazione con la situazione
ambientale è estremamente intricata. Perciò, dopo gli anni Ottanta, la ricerca
si è sempre più spesso rivolta alle vite singole, alle differenze
comportamentali, agli orientamenti non condivisi, insomma a ciò che io e voi
chiameremmo l'individualità.
A spiegazione dell'aspetto genetico
dell'individualità, tre sono le teorie, le idee esplicative che sono andate
acquistando preminenza. E anch'esse sono orientate verso un «qualcos'altro ».
La prima si chiama «emergenesi» e
si basa in parte sulla sorprendente scoperta che esistono tratti genetici che
non si trasmettono nelle famiglie e tuttavia compaiono nei gusti, negli stili,
nelle idiosincrasie di gemelli identici allevati in luoghi dìversì. Ecco alcuni
esempi di questa straordinaria concordanza tra gemelli allevati separatamente:
«Due gemelli monozigoti maschi,
quando si videro per la prima volta da adulti, scoprirono che usavano entrambi
il dentifricio Vademecum, il dopobarba Canoe, il tonico per capelli Vitalis e
che fumavano entrambi le sigarette Lucky Strike. Dopo quell'incontro, si
spedirono per posta il regalo per il compleanno; i pacchi si incrociarono e
risultarono contenere il medesimo regalo, scelto indipendentemente in due
diverse città.
«Nel gruppo dei gemelli c'erano due
uomini con l'hobby delle armi, due donne che indossavano d'abitudine sette
anelli, due persone con la mania ossessiva di contare le cose, due che si erano
sposate cinque volte, due vigili del fuoco volontari con il grado di capitano,
due disegnatrici di moda, due uomini con l'abitudine di lasciare in giro per
casa bigliettini d'amore per le rispettive mogli ... e si trattava in ciascun
caso di una coppia di gemelli monozigoti ...
«Al contrario i gemelli eterozigoti
separati nei primi mesi di vita e allevati in famiglie diverse che noi abbiamo
studiato presentavano raramente simili "coincidenze?».
La teoria dell'emergenesi spiega
questi fenomeni di convergenza dicendo che le similarità devono essere a) di
origine genetica (perché si manifestano in gemelli identici) e b) il risultato
di una configurazione di geni che emerge in modo unico in questa o quella
coppia. Se tali abitudini e gusti si manifestassero in persone singole, non
potremmo pensare a un'influenza genetica. Ma dal momento che essi compaiono in
gemelli identici allevati separatamente, la concordanza può essere dovuta
soltanto all'ereditarietà.
La teoria dice che la dotazione
genetica dà luogo a una configurazione assolutamente unica, ereditata dal
materiale genico di entrambe le linee genitoriali. «Io posso ricevere il dieci
e il re di picche da papà e il fante, la donna e l'asso di picche dalla mamma,
tutte carte che non hanno mai contato molto in nessuno dei due alberi
genealogici, ma la cui combinazione in me potrebbe produrre ... un nuovo record
olimpionico ». A determinare l'unicità non è tanto il mazzo di materiale
genico, la mano di carte che ho ricevuto, quanto il modo in cui le carte si
dispongono, formando una particolare, e vincente, configurazione.
La parola che avevamo usato per
«configurazione» era «disegno» o «immagine», il particolare paradeigma che ci è
toccato, secondo il mito platonico. L'emergenesi dà una spiegazione genetica,
e, presumo io, casualistica, del paradigma che ti appartiene. Chi può sapere,
infatti, che cosa ti ha indotto a pescare le carte vincenti? O meglio, lo sanno
le Moire: la tua configurazione è il destino che la tua anima ha scelto prima
ancora che tu vedessi la luce.
La seconda teoria è nota con il
nome di «epistasi» e si riferisce all'effetto inibitorio dei geni che
interagiscono gli uni con gli altri in una sbalorditiva varietà di
combinazioni.
«Le differenze comportamentali tra
gli individui coinvolgono molti geni, centinaia probabilmente. Ciascun gene può
dare il proprio piccolo e autonomo contributo alla variabilità esistente tra
gli individui ... L'epistasi ... è una sorta di lotteria genetica. Un sorteggio
fortunato al momento del concepimento dare luogo a certe combinazioni di geni
uniche, producono effetti straordinari non riscontrabili genitori o nei
fratelli».
Nel «chi siamo» gioca dunque la sua
parte un prevedibile «sorteggio fortunato », In Platone, questa
causa aleatoria aveva nome Ananke, la terribile dea della
necessità, che sfidava la ragione e, nel mito platonico, aveva il potere
supremo sul destino scelto dalla nostra anima. Altri suoi nomi erano Tyche e Moira, tutte personificazioni del fato; dall'epoca romana fino a
tutto il Rinascimento, questo principio era chiamato la dea Fortuna. E certo
sembra buffo che si ritorni, alla fine, a queste figure archetipiche per dare
conto dello specifico carattere e destino dell'individuo. come se l'avessimo
sempre saputo, solo che adesso abbiamo trovato un nuovo nome per indicarlo: la
teoria del caos, ed è appunto questa la terza idea che emerge oggi negli studi
sull'ereditarietà.
«Nei sistemi non lineari [e
indubbiamente la vita è un sistema non lineare], minuscole differenze,
apparentemente trascurabili, nell'input possono portare a enormi differenze
nell'output ... I sistemi caotici non sono prevedibili [e altrettanto
indubbiamente l'imprevedibilità è una caratteristica della vita] e tuttavia,
nelle loro configurazioni irregolari, sono stabili». Inoltre, la teoria del
caos attribuisce grande importanza alla «dipendenza significativa dalle
condizioni iniziali».
Insomma, siamo o non siamo
ritornati all'influenza dell'angelo, del genio, e alle situazioni apparentemente
trascurabili attraverso le quali esso opera, come il capriccio del piccolo
Yehudi Menuhin alla vista del violino giocattolo, come l'estemporaneo
cambiamento di programma di Ella Fìtzgerald al concorso per dilettanti? Vi
prego inoltre di notare l'espressione usata alI inizio del brano citato: «Nei
sistemi non lineari». Non possiamo più pensare alla nostra biografia come a un
sistema vincolato dal tempo, come a una progressione lungo una linea retta
dalla nascita alla morte; la dimensione temporale, la dimensione lineare, è
soltanto una delle dimensioni della nostra vita.
L'anima si muove in cerchi, dice Plotino.
Di conseguenza, le nostre vite non progrediscono in linea retta, bensì
indugiano, oscillano, tornano indietro, si rinnovano, si ripetono. I geni
operano per latenze e scatti. La sensazione di essere presenti, in contatto,
aperti, con la mente espansa, di vedere e di sapere va e viene in modo
assolutamente imprevedibile e tuttavia secondo configurazioni stabili.
Sono diverso da tutti gli altri e uguale a
tutti gli altri; sono diverso da quello che ero dieci anni fa e uguale a quello
che ero dieci anni fa; la mia vita è un caos dotato di stabilità, è caotica e
ripetitiva insieme, e io non posso sapere in anticipo quale minuscolo e
insignificante bit in input produrrà effetti enormi e significativi in output.
Devo rimanere sempre vivamente ricettivo verso le mie condizioni iniziali, cioè
verso l'essere che è venuto al mondo con me e ogni giorno mi accompagna nel
mondo. Da quell'essere rimango dipendente.
Nell'amore non siamo così unici
come ci piacerebbe credere. Pare che la gente abbia stili amorosi molto simili,
I gemelli identici adulti mostrano nel mo?o più evidente questa similarità,
tendono a concepire l'amore nello stesso modo.
Dicendo stili amorosi, mi richiamo
ai modelli usati nelle ricerche sull'amore. Il concetto generale di «amore»
viene distribuito in vari contenitori, come cura altruistica responsabile
(agape), solidarietà pratica (pragma), intimità erotica (eros).' e così via. I
ge~elli identici mostrano convergenze In queste categone. E tuttavia il motivo
di tale similarità non è di ordine genetico.
«I risultati di questa prima
analisi genetica del comportamento relativo agli stili amorosi adulti sono
degni di nota per due motivi. Primo, non esiste, a nostra conoscenza, altra
sfera della personalità [tolleranza delle tensioni, aggressività, controllo,
ecc.] in cui i fattori genetici svolgano un ruolo altrettanto insignificante
... Secondo, non conosciamo altri atteggiamenti [credenze religiose, pregiudizi
razziali, ecc.] in cui i 'I fattori genetici svolgano un ruolo altrettanto insignificante
».
E qui troviamo una felice
eccezione. I nostri gemelh convergono in tutti gli stili amorosi tranne uno:
l'aspetto di «mania», il sentimento ossessivo, tormentato che è tipico
dell'amore romantico. Dobbiamo assolutamente indagare sul perché di questa
eccezione. Nella mania amorosa, e solo in essa, sembra darsi come
un'indipendenza del cuore. Questo amore è qualcos'altro!
Stabilito che la spiegazione della
similarità di stili non è genetica, l'alternativa, per il modello concettuale
della ricerca, non può essere che una sola: l'ambiente. I gemelli identici, che
amano nell'identico modo, hanno scelto identiche mappe amorose.
La «mappa amorosa» è uno degli
espedienti con i quali la psicologia cerca di dare conto dei misteri
dell'invasamento amoroso. Ciascuno di noi cresce in un ambiente familiare in
cui determinati tratti danno piacere, soddisfano bisogni, accentuano la
vitalità. Tali tratti formano uno schema, una mappa, ed è di questa che ci
innamoriamo quando una persona che sembra possederne gli attributi attraversa
la nostra strada. « Crescendo, questa mappa inconscia prende forma e ne emerge
a poco a poco una proto-immagine dell'innamorato o innamorata ideali ...
Pertanto, molto prima che il nostro vero amore ci passi accanto a scuola, al
supermercato o in ufficio, noi ci siamo già costruiti alcuni elementi base del
nostro innamorato o innamorata ideale ».
La mappa amorosa è fatta a strati.
Le ricerche interculturali sostengono che esiste per la mappa amorosa un
livello collettivo: per esempio, l'attributo di un bell'incarnato sarebbe
collettivo. Nelle donne, è universalmente attraente un corpo formoso con i
fianchi larghi; negli uomini, lo sono i beni materiali, come l'automobile, o il
cammello. Poi vengono gli strati che riflettono la tradizione, la moda e le
norme della collettività locale. In ultima analisi, la teoria delle mappe
amorose sostiene che il condizionamento ambientale determina l'oggetto del
desiderio .
Altre correnti psicologiche
chiamano proiezione la scelta dell' oggetto del desiderio. Secondo la
psicologia junghiana, la proiezione nasce da una fonte archetipica che fa parte
dell'intima essenza di ciascuna anima. Per gli junghiani, la mappa amorosa
possiede tratti fortemente individualizzati, perché a provocare l'innamoramento
e la sensazione che si tratti di una chiamata del destino è una complessa
immagine che portiamo nel cuore. Quanto più l'immagine è ossessiva e
irresistibile, più ci innamoriamo pazzamente, il che intensifica la convinzione
che sia il destino a volerIo. Gli junghiani chiamano questo fattore
archetipico, che distorce la mappa in direzione di una particolare persona, con
il nome di Anima e Animus. Queste figure possono recare i tratti superficiali
della mappa amorosa, ma non sono riducibili a essa.
Anima e Animus sono le parole
latine che indicano l'anima e lo spirito; pertanto, anche ammesso che il nostro
cuore si innamori di un'immagine infantile composita, a strutturare la nostra
mappa, permeandola con l'esperienza del miracolo e del mistero, c'è sempre una
configurazione ignota.'? Ecco perché, direbbero gli junghiani, l'amore è così
travolgente. Ti stende al tappeto mentre ti solleva al settimo cielo, fuori da
questo mondo.
L'esperienza dell'amore romantico
trascende ogni condizionamento, pretende devozione al di là di ogni vincolo.
Per Platone, la «mania» era possessione da parte degli dèi, nella fattispecie
di Afrodite e di Eros. Poche cose nella vita danno questa impressione di essere
rivolte in modo così esclusivo e diretto a noi personalmente come l'invasamento
dell'amore romantico. L'amore romantico ha un sapore di fatalità, di destino,
di karma. «Sei quella/o che aspettavo», «Gli altri/le altre non contano», «Sei
l'unica/o», «Ho cercato tanto, e finalmente eccoti qua ... », «Sei la mia buona
stella». Questa attrazione fatale, detta impersonalmente reazione biochimica e
attribuita a feromoni subliminali, possiede una sua forza autonoma che
trascende genetica e ambiente.
Tale sensazione, non importa se sia
o non sia delirante, conferma in maniera convincente l'interpretazione
junghiana dell amore romantico. C'è attorno al fenomeno un qualcos'altro che ha
un fine e un senso e un alone di avventura e di mistero. Per forza
nell'innamoramento i gemelli identici perdono un po' della loro identicità!
Quelli che abbiamo preso in esame
sono due modi di immaginare la mappa amorosa, il modello junghiano di Anima/
Animus, e il modello natura-o-cultura. Secondo quest'ultimo, «gli stili
dell'amore romantico non sono significativamente influenzati da fattori
ereditari », e allora l'unica possibile alternativa è l'ambiente: abbiamo
appreso il nostro stile amoroso durante i primi anni di vita. Come? Attraverso
«esperienze uniche», da un lato, e, dall'altro, «forse vivendo con i medesimi
genitori e osservando insieme i loro stili relazionali». Forse. Questa tesi
presuppone che tu ti innamori se non direttamente dei tuoi genitori, come
sottintendono i freudiani, di loro sostituti o almeno seguendo i loro modelli.
Ecco che rispunta la superstizione parentale, rimessa in campo per spiegare ciò
che non comprendiamo. Sia che io voglia una ragazza uguale in tutto e per tutto
a quella che ha sposato il mio caro papà sia che ne cerchi una il più possibile
diversa da lei, è un insulto alla persona di cui il mio cuore si è innamorato
il credere che le mie fantasie e il mio stile amoroso ricopino mamma e papà, se
non allivello collettivo, sociale della mappa.
Per gli junghiani, mamma e papà sono
proiezioni di Anima e Animus. Se anche li imitiamo e imitiamo il loro stile
amoroso, non siamo fotocopie.
Le fantasie abbelliscono la mappa,
anzi diciamo pure che la disegnano. «L'amore romantico è inesorabilmente legato
alle fantasie »: sono gli studi empirici sull'amore a sostenerlo. Essenziale
per l'amore romantico è l'idealizzazione, non l'imitazione; non la replicazione
del noto, bensì l'aspettativa dell'ignoto. Ci sono particolari dello stile
relazionale dei genitori che mi vanno bene e allora li uso, altri che non
vengono mai riprodotti, mentre i fattori che fanno girare la fantasia e
scelgono i particolari adatti sono Anima e Animus. Sono le fantasie
archetipiche a integrare le mappe che possiamo aver imparato da mamma e papà, e
non il contrario.
Dunque, riguardo alle similarità
tra gemelli: possono esserci altre «cause» che non lo stile di famiglia. Per
esempio, i gemelli potrebbero cercare di riprodurre il tipo di rapporto che
hanno tra loro - quella stabilità, quell'amicizia, quella solidarietà pratica,
l'inconscia intimità fisica dell'ovulo - e di trasferire su un compagno o una
compagna quello che è stato fino a quel momento il loro stile di vita.
Nell'utero ci si bacia e si fa a botte. La pura replicazione darà ai gemelli
mappe amorose simili, ma oggetto d'ella nostra ricerca non è tanto il motivo
della loro similarità quanto della loro differenza di fronte alla mania
amorosa, a quello stato di tormento e di disperato bisogno, di alti e bassi, di
dipendenza ossessiva, da cui ci sembra che non riusciremo mai a guarire.
Un altro motivo della differenza di
stile amoroso tra gemelli è il bisogno di «uno specchio psicologico», fornito
dall'amore romantico." Nello specchio della somiglianza vediamo soltanto
la faccia del nostro gemello; nello specchio della mania amorosa qualcosa che è
radicalmente altro, la faccia che non riusciamo a trovare, che non conosciamo e
che sembra richiedere gli spasmi dell'amore romantico. Se l'identità
monozigotica è tutta scritta nel nostro DNA ed è rinforzata a ogni nostro
respiro nell'ambiente condiviso, per fare emergere la differenza occorre una
distorsione violenta.
La mappa amorosa può spiegare le
cose visibili, come i fianchi morbidi, le automobili e i cammelli, ma l'amore
si innamora anche di «qualcos'altro», che è invisibile. Diciamo: «Lui/lei ha un
non so che»; «Il mondo intero cambia, quando c'è lui/lei». Come pare abbia
detto Flaubert: «Lei era il punto di luce sul quale convergeva la totalità
delle cose».
Questo sulla mappa non c'è. Qui ci
troviamo nel territorio della trascendenza, dove le realtà normali sono meno
convincenti delle cose invisibili. Se mai volessimo la prova lampante
dell'esistenza del daimon che chiama, basta che ci innamoriamo una volta. Le
fonti razionali dell'ereditarietà e dell'ambiente non sono abbastanza ricche da
far scaturire il fiume in piena dello spasimo romantico. Lì ci sei tutto intero,
in nessun'altra occasione ti senti altrettanto sopraffatto dall'importanza del
tuo essere e dal destino; in nessun'altra occasione ogni tuo gesto si rivela
più chiaramente ispirato da un demone.
Questa ubriacatura di importanza
personale ci fa capire che l'amore romantico «ha di fatto promosso la crescita
dell'Indìvìdualìtà. D'accordo con Susan e Clyde Hendrick, si potrebbe sostenere
che il nostro senso della persona si sviluppa parallelamente allo spazio dato
nella nostra cultura all'amore romantico, dalle prime manifestazioni nel
romanzo cortese e nei trovatori e quindi nel Rinascimento. Gli ideali
dell'individualismo e del destino individuale hanno raggiunto il culmine
nell'Ottocento, insieme alle deliranti esagerazioni dell'amore romantico, sicché,
come dicono questi autori, l'amore romantico potrebbe essere «concepito come
una forza o un espediente per aiutare a creare o a potenziare il sé e
l'individualità». Le teorie psicodinamiche devono situare la chiamata
dell'amore dentro il «sé» personale. La mia teoria psicodaimonica immagina tale
chiamata più fenomenologicamente, usando il linguaggio che l'amore stesso usa:
mito, poesia, storie, canzoni; e questo situa la chiamata oltre il «sé», come
se venisse da un essere divino o demoniaco.
Ecco perché lo stile della mania
amorosa rimane escluso dalle altre mappe dell'amore. La chiamata si
cristallizza in quella persona la cui faccia ci chiama a ciò che ci sembra il
nostro destino. Quella persona diventa una divinità esteriorizzata, padrona del
mio fato, signora della mia anima, come dicono i romantici, demoniaca e
angelica insieme, alla quale devo aggrapparmi, dalla quale non posso
separarrni, non perché io sia troppo debole e_ fragile, ma perché lei, la
chiamata, è troppo forte. E ovvio allora che sono tormentato, possessivo,
dipendente, sofferente. Il daimon sta facendo a pezzi la mia mappa amorosa.
I gemelli identici sceglieranno
pure lo stesso dopobarba e lo stesso dentifricio, ma «la scelta più importante
di tutte, quella del partner, sembra costituire un'eccezione». «L'infatuazione
romantica ... si forma ... in modo quasi accidentale». «Il formarsi delle
coppie umane è intrinsecamente aleatorio» conclude il comportamentismo, questa
scienza. E si rifugia nel sorteggio statistico fortunato per spiegare la scelta
più importante di tutte, perché la psicologia come scienza non osa immaginare
ciò che non può misurare.
Noi, però, possiamo leggere le
ricerche più aggiornate come prove a conferma dell'autonomia del daimon. Il suo
fuoco illumina precisamente il compagno o la compagna che ci vogliono per me,
nel bene o nel male, a breve o a lungo termine, convincendomi che questa altra
persona è l'unica e la sola e che questo evento è unico e irripetibile. Gli
altri stili amorosi tracciati nelle ricerche (condivisione, cura, solidarietà,
intimità libidica) sono meno selettivi, meno personali. Non si ostinano su
questa particolare persona che incarna l'immagine che mi porto nel cuore. La
mania r amorosa vede ciò che è già contenuto nella ghianda prima di venire al
mondo.
Il filosofo spagnolo Ortega y
Gasset dice che gli innamoramenti sono rari, se pensiamo a come è lunga la
vita. L'innamoramento e un evento raro e fortuito, che colpisce a una
profondità incredibile. Quando accade, accade esclusivamente per la singolarità
dell'oggetto: quella persona, non un'altra. Non gli attributi e le virtù, non
la voce o i fianchi o il conto in banca, non proiezioni residue di precedenti
fiamme o modelli familiari trasmessi da una generazione all'altra:
semplicemente, l'unicità di questa persona che l'occhio del cuore ha veduto fra
tante. Se manca quel senso di scelta fatale, il romanticismo non scatta. Perché
questo tipo di amore non è un rapporto personale o una epistasi genica, ma più
probabilmente un'eredità demonica, insieme dono e maledizione degli antenati
invisibili.
Un analogo senso del destino, anche
se meno improvviso e meno ardente, e un'analoga devozione possono
caratterizzare l'innamoramento per un luogo e addirittura per un lavoro, oltre
che per una persona. Non riusciamo a lasciarlo, dobbiamo rimanerci finché
l'esperienza non è chiusa, e celebriamo riti devozionali per tenerlo vivo. Si
crea lo stesso incantesimo, mi viene la stessa sensazione di poter vivere con
te per tutta la vita, e il mio «te» può essere una persona, un luogo, un
lavoro. E c'è la stessa sensazione che qui sia chiamata in gioco non solo la
mia vita, ma la mia morte.
Morte è una parola troppo pesante e
incompatibile per associarla alle intense vibrazioni dell'amore romantico; ma
l'amore romantico più di tutti riverbera del senso dell'eterno e insieme della
brevità e fragilità della vita, come se sulla passione romantica fossero sempre
sospesi l'ombra e il respiro della morte, con il suo richiamo a un altrove che
è «oltre» e senza confini. Si affrontano rischi pazzeschi. E quando la
letteratura unisce gli amanti romantici, unisce anche il loro amore con la
morte.
L'occhio del cuore che «vede» è
anche l'occhio della morte che vede al di là dell'apparenza visibile fino a un
invisibile cuore. Michelangelo, quando scolpiva ritratti di personaggi del suo
tempo o statue di figure della religione o del mito, cercava di vedere quella
che chiamava l'«immagine del cuor», una prefigurazione di quello che stava
scolpendo, come se lo scalpello che intagliava la pietra seguisse l'occhio che
penetrava il soggetto fino al cuore. Il ritratto mirava a rivelare l'anima
intima del suo soggetto.
In ciascuno di noi è racchiusa
un'immagine del cuore. E la autentica rivelazione si ha quando cadiamo in preda
all'amore, perché allora siamo aperti a mostrare chi più autenticamente siamo,
lasciando intravedere il genio della nostra anima. Dice la gente: «Sembra un
altro: deve essere innamorato». «E innamorata: non sembra più lei». Quando
l'amore smuove il cuore, si percepisce un qualcos'altro, nell'oggetto
idoleggiato, che la lingua della poesia cerca di catturare. Michelangelo
cercava di esprimere quell'immagine nella forma scolpita. Le categorie di
natura e di cultura non arrivano fino al cuore né vedono attraverso il suo occhio.
Perciò al nostro esame della genetica e dell'ambiente abbiamo dovuto aggiungere
questa coda sull'amore.
L'incontro tra amante ed essere
amato avviene da cuore a cuore, come l'incontro tra scultore e modello, tra
mano e pietra. È un incontro di immagini, uno scambio di immaginazioni. Quando
ci innamoriamo, incominciamo a immaginare al modo romantico, veementemente,
sfrenatamente, follemente, gelosamente, con intensità possessiva, paranoide. E
quando immaginiamo intensamente, incominciamo a innamorarci delle immagini
evocate davanti all'occhio del cuore: come quando iniziamo un progetto di
lavoro, organizziamo una vacanza, prepariamo una nuova casa in un'altra città,
portiamo avanti una gravidanza ... Le nostre immagini ci attirano sempre più
totalmente dentro l'impresa awentata. Non riusciamo a venir via dal
laboratorio, non smettiamo più di comperare altro equipaggiamento, di farci
dare dépliant, di immaginare nomi. Siamo innamorati perché c'è l'immaginazione.
Liberando l'immaginazione, perfìno i gemelli identici si liberano della loro
identicità.
Prima di abbandonare questi
argomenti, dobbiamo ritornare sulla nostra particolare coppia di gemelli,
Natura e Cultura, alias Ambiente. Poiché ambiente è il concetto che i due temi
di fondo di questo capitolo, genetica e amore, usano per spiegare il terreno
oscuro della differenza, non possiamo certo lasciarlo correre senza sottoporlo
a esame.
Il verbo desueto to environ, da cui il sostantivo environment («ambiente »), significa
«circondare, includere, avviluppare»: letteralmente: «formare un cerchio
attorno». Environment, il sostantivo,
significa «un insieme di circostanze» (circum
= «intorno»): il contesto, il complesso di condizioni fisiche e culturali che «
circondano» la nostra persona e la nostra vita [cfr. l'italiano «ambiente »,
dal participio presente del latino ambire, letto «andare (ire) intorno (amb-)»].
Le ricerche sui gemelli dividono
l'ambiente in due tipi principali: condiviso e non condiviso. Avere un ambiente
condiviso significa, in generale, essere stati allevati nella medesima famiglia
ventiquattr'ore al giorno per un certo numero di anni, partecipando alle
attività, ai valori, alle conversazioni, alle abitudini della famiglia; avere
frequentato la stessa classe con gli stessi insegnanti; avere giocato nella
stessa squadra scontrandosi con lo stesso allenatore. L'immagine dell'ambiente
condiviso è, naturalmente, idealizzata e fa venire in mente quei film degli
anni Cinquanta sulle famigliole americane middle class e bianche.
L'espressione «ambiente non
condiviso» fa riferimento alle esperienze vissute per conto proprio da ciascuno
dei due gemelli. Il non condiviso dovrà per forza di cose includere gli eventi
accidentali e le malattie, nonché sentimenti, sogni, pensieri e rapporti pii!
strettamente privati e personali.
E possibile tracciare una linea di
demarcazione netta tra condiviso e non condiviso? Già l'ambiente condiviso vero
e proprio è pieno zeppo di differenze: come la madre differenzia i due figli
gemelli; come ciascuno dei due porta avanti la propria relazione con i
genitori; differenze nelle cure ricevute durante l'ospedalizzazione postnatale
(spesso necessaria nei parti gemellari); le sottili variazioni dello stato di
salute durante i primi mesi, il lato occupato nella culla e nel lettino nonché
al seno durante la poppata; e via elencando.
Particolarmente importante è la
differenza tra i due gemelli stessi nella loro relazione reciproca, che è
governata dalla logica archetipica della complementarità (debole/forte, più
sveglio/meno sveglio, primo/ultimo, estroverso/introverso, terrestre/ celeste,
mortale/immortale, ecc.). Inoltre i ricercatori hanno notato come tra gemelli
che crescono in un ambiente condiviso competitivo si crei una rivalità che
provoca in ciascuno dei due risposte individualizzate, non condivise.
La rivalità non è soltanto un
portato del carattere competitivo della nostra cultura. Riflette l'innata
spinta degli «uguali» a differenziare la propria identità. Ciascuna persona
cerca di essere un «ciascuno» in conformità con l'immagine del proprio cuore e
la strada del proprio destino, a dispetto della genetica, a dispetto
dell'ambiente. Ciascuna famiglia è un polo di similarità e insieme una forza
centrifuga che spinge ciascun membro ad affermare in modo competitivo la
propria differenza. Nel caso dei gemelli identici, l'attrazione verso la
vicinanza è ciò che li spinge a staccarsi. Come i magneti: si attirano a un
polo e all'altro si respingono. Noi preferiamo attribuire le differenze non
soltanto alla rivalità e alla competitività, ma anche all'angelo che chiama
ciascuno a un destino singolare. .
L'idea di ambiente merita .però
un'analisi più approfondita. L'ambiente non si ferma certo alle immagini della
rete familiare, a uno scenario semplificato da sceneggiato televisivo, fatto di
spiritosaggini e battibecchi più o meno uguali, di più o meno uguali spuntini tiratì
fuori dal frigo, di più o meno uguali ore di sonno .. L'ambiente è anche i
mobili e il giradischi, il gatto di casa e i vasi alla finestra. Si estende
oltre le pareti domestiche al cortile e ai vicini, alle scene dì strada, a ciò
che viene prodotto in posti lontani migliaia, di miglia e arriva attraverso la
televisione, Internet e il walkman. Deve includere anche il supermercato, che
inscatola ed espone il mondo: banane dall'Ecuador e pesce da Terranova -
compresi i conservanti nelle banane e le tracce di mercurio passato dagli
scarichi industriali alle cellule del pesce.
Una volta aperto l'occhio
ecologico, dove finisce l'ambiente, sia pure quello immediato, non condiviso
privato, individuale? .
Anzi, esiste davvero un «ambiente
non condiviso»? Davvero io posso abbassare la saracinesca e avere un momento
che è tutto mio, solo mio? Perfino il cuscino sul quale affondo il naso mentre
fluttuo nel mio privatissimo sogno nel cuore della notte reca tracce di piiuma
d'oca, di poliestere e cotone, e degli ambienti in cui e stato fabbncato -
nonché dell'andirivieni di parassiti che dividono il cuscino con me.
Ormai mi sono convinto che il
concetto di isolamento come giardino cintato non si riferisce ad alcu~a realtà
di fatto; è una fantasia necessaria per intensìfìcare la comunicazrone con
esseri invisibili di cui percepiamo solo confusamente presagi e segni. L'idea
«non condiviso» fornisce un varco per entrare nel giardino dell'individualità.
Abbiamo bisogno di quell'idea per confermarci il nostro personale senso di
unicità e per sentire la sua chiamata.
La categoria «ambiente non
condiviso» è un'invenzione delle scienze «forti» per localizzare la causa delle
differenze individuali. Viene usata per spiegare ciò che non può essere
spiegato con le loro altre categorie, l'ereditarietà e l'ambiente condiviso. Ma
l'idea di «non condiviso» poggia su un'immagine di spazio recintato, di un
paesaggio privato che tocca me soltanto in quel modo particolare. L'unico
possibile fenomeno non condiviso e non condivisibile, sempre presente a
invadere la mia vita, è l'unicità del daimon e l'individualità della mia
relazione con lui e di lui con me. Usando il linguaggio delle scienze
comportamentali, travestendosi nelle circonlocuzioni dell' «ambiente non
condiviso», il daimon si fa accettare come una determinante alla pari con
natura e cultura. Come altro, infatti, potrebbe penetrare le porte blindate
dellaboratorio, se non con il linguaggio del laboratorio e usando la sua parola
d'ordine: «non condiviso»?
Non condiviso non significa
isolato, perché dall'ambiente condiviso di questo pianeta non c'è via di
uscita. Non si dà isolamento, ma unicità sì. E l'uno non è necessario
all'altra.
Non occorre essere sigillati,
letteralmente, per essere diversi. La tua differenza da ogni altra persona,
quell'«esperienza non condivisa», ha luogo a ogni istante dentro il condiviso,
in virtù dell'unicità della tua identità individuale. La tua differenza non ha
bisogno di mura a sua garanzia; la garanzia è stata data all'inizio
dall'immagine che hai nel cuore e che ti accompagna lungo tutta la vita. Una
fantasia di isolamento, tuttavia, può essere utile per prendersi cura del
daimon. Perciò la gente partecipa a ritiri spirituali, va alla ricerca della
visione, digiuna e si purifica, o, più semplicemente, rimane un paio di giorni
a letto al buio per recuperare la propria particolare, non condivisa vocazione.
I risultati degli studi genetici
possono farci imboccare due (!) strade: una stretta e una larga. La strada
stretta muove verso cause monogenetiche, semplicistiche. Il suo desiderio è di
isolare pezzettini di tessuto da far corrispondere alla vasta complessità dei
significati psichici. La follia di ridurre la mente al cervello sembra in
estirpabile dalla scena occidentale. Non riusciamo a rinunciarvi, perché è alla
base stessa .' della nostra mentalità razionalistica e positivistica. Il ,
razionalista che abbiamo nella psiche vuole localizzare cause che si possano
toccare con mano, per raddrizzarle.
Le macchine forniscono il modello
ideale per soddisfare questo bisogno. Le smonti, trovi i meccanismi più
interni, poi metti a punto il loro funzionamento modificando qualche rotella,
arricchendo la miscela, lubrificando i giunti. Henry Ford, il padre della
salute mentale dell'America! Risultato: Ritalin, Prozac, Zolofit, e le decine
di altri efficaci prodotti per aggiustarci dentro che ingurgitiamo in massa,
due volte al dì. Alla fine, la logica semplificatoria delle cause monogenetiche
sfocia nel controllo del comportamento con le droghe, vale a dire in un
comportamento drogato.
Robert Plomin, ai cui numerosi e
penetranti scritti questo capitolo si è spesso richiamato, mette
appassionatamente in guardia dall'usare la genetica in modo semplificatorio.
Dice, per esempio: «Gli effetti del patrimonio genetico sul comportamento
dipendono da una molteplicità di geni e non da uno solo, e sono di tipo
probabilistico e non deterministico». Io ne traggo questo ammonimento alla
psichiatria: Non fate capovolgere il vostro nobile vascello per il troppo peso
dell'oro dell'industria farmaceutica, delle compagnie di assicurazione e dei
finanziamenti statali, e non orientate la bussola verso l'Isola di Chimera,
dove la genetica definirà «malattia le entità psichiatriche ». «Abbiamo appreso
poco sulla genetica dello sviluppo [come agiscono e interagiscono i geni in un
arco di tempo prolungato], ma quanto basta per apprezzarne la complessità».
Perciò non arriveremo mai alla desiderata equazione per cui a un singolo gene
difettoso corrisponde un singolo quadro clinico (fatta eccezione per le vere
anomalie, come la corea di Huntington).
Questi avvertimenti lasciano il
tempo che trovano: sono troppi i desideri che il pensiero semplificatorio
esaudisce. Nel Mount Rushmore della mente sono scolpite le teste di Henry Ford
e di Thomas Edison. Il mostro del meccanicismo rinasce in ogni secolo della
storia occidentale moderna e ciascuna generazione deve stare all' erta,
specialmente la nostra, oggi, quando sostenere l'esistenza di «qualcos'altro-
oltre a natura e cultura significa credere nei fantasmi o nella magia.
A partire dal razionalismo francese
dei secoli XVII (Marin Mersenne, Nicolas de Malebranche) e XVIII (Étienne de
Condillac, Julien Offroy de La Mettrie) giù giù fino al positivismo
ottocentesco (Antoine Destutt de Tracy, Auguste Comte), i quali hanno ridotto
tutti gli eventi mentali alla biologia, una porzione della mente occidentale è
stata aggiogata come uno stolido bue al ponderoso carro del materialismo
meccanicista francese. Sembra incredibile che un popolo dal gusto così fine e
dalla sensibilità erotica così sottile come quello francese possa continuare
all'infinito a fornire alla psicologia tutto quel rigor mortis razionalista.
Ogni merce importata dalla Francia va ispezionata caso mai sia infetta da
questo mal francese, nonostante le etichette alla moda, Lacanismo,
Strutturalismo, Decostruttivismo, e così via.
Oggi il razionalismo partecipa del
generale processo di globalizzazione, è computer compatibile dovunque; è lo
stile internazionale dell'architettura mentale. Non è possibile ricondurlo
sotto una particolare bandiera, se non forse sotto gli stendardi delle multinazionali
in grado di spendere un mare di quattrini per spingere la psichiatria, e a poco
a poco il pensiero psicologico, e dunque il controllo dell'anima, verso il
monoteismo genetico. Un gene, una malattia: ricopia il gene, insegnagli un
nuovo trucco, agita bene e, oplà!, la malattia è scomparsa - o, almeno, non sai
di averla. La strada stretta ci riporta agli anni Trenta e Quaranta della
storia della psichiatria, anche se in maniera più sofisticata e con comunicati
stampa più convincenti. Dagli anni Trenta fino agli anni Cinquanta, l'idea
della correlazione tra specifiche zone cerebrali e vasti concetti emozionali e
funzionali ha fornito una giustificazione teorica alla violenza della
psicochirurgia e alla lobotomizzazione di tante anime sofferenti, a disagio
nella propria situazione di vita.
Anzi, la strada stretta è ancora
più retrograda, risale allo studio della scatola cranica condotto dal dottor
Franz Joseph Gall, professore di Medicina a Vienna dal 1796, ma trasferitosi a
Parigi, dove, non occorre dirlo, fu molto apprezzato dai francesi. A lui
dobbiamo le «prove sperimentali» che le bozze e i seni del cranio possono
essere correlati con facoltà psicologiche (una dottrina poi chiamata
frenologia). Come usa anche oggi, a quelle facoltà vennero dati nomi importanti,
come memoria, giudizio, emotività, talento musicale e matematico, istinto
criminale, e via dicendo. L'affinarsi delle metodiche non conduce
necessariamente a un miglioramento della teoria; si sia nel 1796 o nel 1996, la
molla è la stessa: localizzazione fisica e riduzione della psiche alla
localizzazione.
La via opposta alla riduzione della
natura al semplicismo cerebrale consiste nell'espandere la nozione di cultura
fino a un'idea di ambiente molto più comprensiva. Se ambiente significa, letteralmente,
ciò che c'è intorno, allora si deve intendere tutto, ma proprio tutto, ciò che
c'è intorno. Infatti la psiche inconscia sceglie in modo arbitrario tra le cose
incontrate quotidianamente nell'ambiente. Informazioni minuscole e banali
possono avere effetti psichici subliminali giganteschi, come mostrano i residui
diurni nei nostri sogni. Perché diamine siamo andati a sognare proprio quella
cosa lì? Gran parte della nostra giornata passa inosservata e non sarà mai più
ricordata, ma ecco che la psiche pesca i rottami che galleggiano nell'ambiente
e li consegna al sogno. Il sogno, l'impianto di riciclaggio dell'ambiente,
trova nella spazzatura i valori dell'anima. Il sogno: un artista che si
appropria di immagini presenti nell'ambiente per richiamarle alla memoria più
tardi, in pace.
Poiché lo spazio in cui ci
aggiriamo è fatto di realtà psichiche che influiscono sulla nostra vita,
dovremo ampliare la nozione di ambiente nel senso di una «ecologia del
profondo», partendo dall'ipotesi che il nostro pianeta sia un organismo
vivente, che respira e si autoregola. Poiché qualunque cosa abbiamo intorno può
nutrire la nostra anima in quanto alimenta l'immaginazione, là fuori è pieno di
materia animica. E allora perché non ammettere, con l'ecologia del profondo,
che l'ambiente stesso è intriso di anima, animato, inestricabilmente fuso con
noi e non già sostanzialmente separato da noi?
La visione ecologica restituisce
all'ambiente anche l'idea classica di providentia: l'Idea che il mondo provvede
a noi, bada a noi, ci accudisce perfino. E ci vuole vedere intorno. Predatori,
tornado, tafani in giugno sono soltanto frammenti del quadro. Provate a pensare
a quante cose buone e profumate ci sono, invece. Credete che gli uçcelli
cantino solo per gli altri uccelli? Questo pianeta, respirabile, commestibile,
bello e piacevole, rifornito e tenuto in ordine invisibilmente, ci mantiene
tutti quanti grazie al suo sistema di sostegno alla vita. Questa sì è cultura.
L'« ambiente », allora, sarebbe
immaginato, ben al di là delle condizioni sociali ed economiche, al di là di
tutto l'impianto culturale, come comprendente ciascuna piccola cosa che si
prende cura di noi ogni giorno: i nostri pneumatici e le tazze di caffè e le
maniglie delle porte e il libro che ho in mano. Diventa impossibile escludere
come irrilevante questo pezzetto di ambiente a favore di quell'altro che invece
avrebbe senso, come se si potessero disporre in ordine di importanza i fenomeni
del mondo. Di importanza per chi? Anzi, dovrà cambiare la nostra stessa nozione
di importanza; invece di «importante per me», penseremo: «importante per altri
aspetti dell'ambiente». Ci domanderemo: Questa cosa fornisce nutrimento ad
altre cose che ci sono intorno o soltanto a me che sono intorno? Dà un suo
contributo alle intenzioni del campo di cui io sono soltanto una piccola,
effimera parte?
Via via che si trasforma la nozione
di ambiente, anche il nostro modo di vedere l'ambiente cambia. Diventa sempre
più difficile dividere con un taglio netto psiche e mondo, soggetto e oggetto,
qui dentro e là fuori. Non so più con certezza se la psiche è dentro di me o se
io sono nella psiche come sono nei miei sogni, nelle atmosfere del paesaggio e
nelle strade della città, come sono nella « musica sentita così intimamente /
da non sentirla affatto, ma finché essa dura, / tu sei la musica». Dove finisce
l'ambiente e dove incomincio io, e anzi come posso cominciare, senza essere in
un qualche luogo, coinvolto intimamente e nutrito dalla natura del mondo?
«Ma se l'anima sceglie il proprio daimon e sceglie la propria vita, quale
capacità di decisione ci rimane?» si chiede Plotino. Dov'è la nostra libertà?
Tutto ciò che viviamo e chiamiamo nostro, tutte le nostre faticate decisioni
devono essere, in verità, predeterminate. Siamo intrappolati dentro il velo
dell'illusione, convinti di essere gli autori della nostra vita, quando invece
la vita di ciascuno è già scritta nella ghianda e noi non facciamo altro che
realizzare il piano segreto inciso nel cuore. La nostra libertà, si direbbe,
consiste soltanto nello scegliere ciò che la ghianda si prefigge.
Per sgombrare il campo da questa erronea
conclusione, chiariamo meglio le prerogative del daimon, cerchiamo di essere
più precisi circa l'ampiezza dei poteri della ghianda. Su che cosa agisce e
quali sono i suoi limiti? Quando diciamo che èla causa di certi comportamenti
durante l'infanzia, che cosa intendiamo per «causa»? E per «intenzione», quando
diciamo che si propone una particolare forma di vita, per esempio, il teatro,
la matematica, la politica? Ha in mente un termine ultimo, magari addirittura
un'immagine della cosa già realizzata e una data per la morte? Se è così
potente da determinare fatalmente l'espulsione da scuola e le malattie infantili,
che cosa intendiamo per «determinismo»? E, infine, se è la ghianda a
trasmettere il senso che le cose non bero potute essere altrimenti, che anche
gli errori stati necessari, che cosa intendiamo per «necessità»?
Le risposte a queste domande stanno
al centro nostro libro. Perché, se questi temi non vengono formulati con
chiarezza e affrontati sino in fondo, finiremo o per abbandonarci al fatalismo
o per abbandonare questo libro alla pura fantasia.
Il fatalismo è l'altra faccia, la
grande seduzione, l'Io eroico, che in questa civiltà del fai da te, dove l'asso
piglia tutto, ha già un tale peso sulle proprie spalle. Più pesante è il
carico, più forte è la tentazione di deporlo o di trasferirlo su un portatore
più grosso e più forte, il Fato per esempio. L'Eroe è l'America personificata.
L'Io eroico è sbarcato con i Padri pellegrini dal Mayflower, si è spinto con Daniel Boone nelle terre selvagge, solo
con il suo fucile, la sua Bibbia e il suo cane, cavalca solitario con John
Wayne nei canyon dell'Arizona, protegge gli interessi della sua industria, e
alla malora il resto del mondo. Questo Io si è aperto la sua strada nella
foresta vergine e ce l'ha fatta a dispetto di tutti i concorrenti e i
predatori.
Anche al femminile, come
Cappuccetto Rosso, deve , far fronte alle molestie rapaci del lupo che incontra
sul suo sentiero solitario. Questo fardello, di trovarti sempre solo con il
destino che ti sei fatto con le tue mani, in un mondo pieno di figure in
agguato che cercano di imbrogliarti, rende la vita una battaglia continua. Se
non abbatti gli ostacoli e non ti fai avanti a gomitate, c'è il rischio di
«rimanere indietro» a scuola, o di avere un rendimento al di sotto delle tue
capacità, e allora ti spediscono dallo psicologo perché tu possa superare i
tuoi «blocchi» psicologici o le tue «fissazioni», Devo fare progressi, a
partire dall'asilo. Devo svilupparmi, arrampicarmi, difendermi; solo in questo
modo avrò la certezza di esistere, giacché quella è la definizione eroica di
esistenza. Certo, non è il massimo del divertimento, e infatti, quando
Cappucretto Rosso si ferma un attimo a cogliere fiori da mettere nel cestino
pieno di ogni ben di dio per la nonna, subito spunta il lupo tutto denti.
In questa definizione paranoide
della vita - la vita come lotta, come competizione per la sopravvivenza, con
l'altro o alleato o nemico -, il fatalismo offre una pausa di respiro. Sta
scritto nelle stelle; c'è un disegno divino; quello che accade, accade per il
meglio nel migliore dei mondi possibili (ricordate il Candido di Voltaire?). Il
mondo non pesa più sulle mie spalle, perché in realtà lo porta il Fato e io
sono in grembo agli dèi, proprio come dice Platone nel suo mito. lo vivo il
particolare destino che è uscito dal grembo di Necessità. Perciò non importa
ciò che scelgo. Del resto, la mia non è vera scelta; l'idea di scelta è
un'illusione. La vita è predeterminata.
Questo modo di ragionare è
fatalismo, e non c'entra niente con il fato. Riflette un sistema di credenze,
un'ideologia fatalista, non già le Moire, le Parche, che il mito platonico ci
mostra mentre suggellano il destino di ciascuno e avviano il daimon verso la
nostra nascita. Esse non prede terminano affatto i singoli eventi della vita,
come se la vita fosse una loro costruzione.
L'idea che la grecità aveva del
fato semmai è questa: gli eventi ci accadono, e gli uomini «non possono capire
perché una cosa è accaduta, ma, visto che è accaduta, evidentemente "doveva
essere"». Post hoc, ergo propter hoc.
Dopo l'evento (post hoc), diamo una
spiegazione di ciò che l'ha fatto accadere (ergo
propter hoc). Non stava scritto nelle stelle che nell'ottobre del 1987
dovesse verificarsi un crollo della Borsa, ma, dopo che il crollo c'è stato,
troviamo delle «ragioni» che dimostrano come fosse inevitabile che esso
avvenisse proprio in quel mese.
Per i greci, la causa di tali
infausti eventi sarebbe il fato. Ma il fato causa soltanto gli eventi insoliti,
che non rientrano nello schema. Non è che ogni singolo fatto sia chiaramente
delineato in un superiore disegno divino. Una siffatta spiegazione totalizzante
è fatalismo, primo passo verso la divinazione con i tavolini che ballano, verso
comportamenti passivo-aggressivi in cui si mescolano remissiva sottomissione e rancorosa
ribellione al destino.
Meglio dunque immaginare il fato.
come una momentanea «variabile che si interpone». C'è un termine, in tedesco, Augenblicksgott, che indica una divinità
minore che ci passa accanto rapida come un battito ciglio producendo effetti
momentanei. Le persone ligiose parlerebbero di un angelo che intercede noi.
Ecco, più che un compagno costante, che affianca i tuoi passi tenendoti per
mano durante tutte le crisi della giornata, il fato. interviene nei momenti più
inattesì e ti strizza l'occhio o ti dà una bella spinta.
Dopo esserti studiato ben bene il
mercato vendi le tue azioni; il giorno dopo, viene annunciata 1a fusione con
un'altra società e le azioni che hai appena venduto salgono del trenta
percento. Al traguardo, il vento cade e la barca avversaria ti supera di
abbrivo e vince per un secondo. Però, se ritiri tutti i tuoi investimenti e
nascondi il denaro dentro il materasso perché non è il tuo destino stare nel
mercato azionario, oppure se decidi che non eri destinato a vincere quella
regata, e forse nessun'altra, anzi non eri destinato a fare vela, e che. quel
vento caduto all'improvviso è un segno che indica come tu non sia in armonia
con gli elementi e vendì la tua barca e passi a fare roccia o ti lasci andare
alla depressione: queste sono scelte tue derivanti dal significato che tu leggi
nell'andamento della Borsa o del vento. Il fatto di scorgere la mano del
Destino in quegli eventi infausti ne eleva l'importanza e il senso, e consente
una pausa di riflessione. Invece, il credere che l'avere venduto nel momento
sbagliato e l'avere perso per un secondo decidono per te della tua vita: questo
è fatalismo. Il fatalismo scarica tutto sul destino. Non serve a niente andare
a votare, offrirsi come vigile del fuoco volontario, anzi non serve a niente
avere un corpo di vigili del fuoco, tanto se le disgrazie devono succedere,
succedono. I bastoncini dell' I Ching ti diranno che cosa il Fato vuole che tu
faccia. Questo è fatalismo.
Il cogliere la strizzatina d'occhio
del fato è un atto di riflessione. È un atto del pensiero; mentre il fatalismo
è uno stato del sentimento, un abbandonare la ponderazione, l'attenzione per i
particolari, il ragionamento rigoroso. Anziché riflettere a fondo sulle cose,
ci si abbandona all'umore più generico della fatalità. Il fatalismo spiega la
vita globalmente. Qualsiasi cosa accada può essere inserita dentro la capace
generalità dell'individuazione, del mio viaggio, della crescita. Il fatalismo
consola, perché non fa sorgere interrogativi. Non c'è bisogno di analizzare, se
davvero tutto combacia.
Il termine greco per indicare il
fato, moira, significa «parte
assegnata, porzione». Così come il fato ha solo una parte in ciò che succede,
allo stesso modo il daimon, l'aspetto personale, interiorizzato della moira,
occupa solo una porzione della nostra vita, la chiama, ma non la possiede.
Moira deriva dalla radice indoeuropea smer o mer, «ponderare, pensare, meditare, considerare, curare». E un
termine profondamente psicologico, in quanto ci chiede di analizzare da vicino
gli eventi per determinare quale porzione viene dall'esterno ed è inspiegabile,
e quale mi appartiene, attiene a ciò che ho fatto io, avrei potuto fare, posso
ancora fare. La moira non è in mano
mia, è vero, ma è solo una porzione. Non posso abbandonare le mie azioni, o le
mie capacità e la loro realizzazione, nonché la loro frustrazione o fallimento,
a loro, agli dèi e dee, o al volere della ghianda daimonica. Il fato non mi
solleva dalla responsabilità; anzi me ne richiede molta di più. In particolare,
richiede la responsabilità dell'analisi.
E non intendo una sorta di
psicoanalisi In formato ridotto. Non intendo l'affibbiare la colpa a una causa,
dicendo: «È stato il daimon a fare accadere questa cosa. È il mio destino. Non
posso evitare di commettere errori in Borsa: mio padre non mi ha mai seguito;
madre aveva le mani bucate; da piccolo non mi mai dato una somma fissa la
settimana e quindi ho mai imparato ad amministrare il denaro. Sono autodistruttivo
... », E via di questo passo, a dare la colpa a una catena di cause, per
ritornare alla fine alla superstizione parentale.
Quando i greci volevano analizzare
un evento infausto e oscuro, andavano dall'oracolo per domandare a quale dio o
dea dovessero offrire sacrifici in relazìoè ne al problema, al progetto o
all'affare in questione Questo, primo, per circoscrivere più esattamente
problema; secondo, per compiere con maggiore precisione le offerte
propiziatorie. In base a questo modello, l'analisi cerca di scoprire quale
Fato, o mano archetipica, chiede attenzione e commemorazione.
Noi commemoriamo la parte del fato
quando, dopo avere annunciato un progetto, anche il più banale, aggiungiamo:
«Deo concedente», «Se Dio vorrà», come dicono gli irlandesi. «Allora, ci troviamo
alla stazione, se Dio vorrà». lo ho intenzione di andare alla stazione e mi
organizzo di conseguenza. Ma può succedere qualcosa di contrario e allora
faccio cenno alla parte da attribuirsi al fato dicendo: «Deo concedente ».
Oppure tocco legno. I vecchi ebrei devoti quasi non pronunciavano frase senza
rammentare la possibilità che intervenisse una disgrazia imprevista a
contrastare le loro intenzioni.
Questi intercalari o il toccare
legno, per rammentarci degli imprevedibili interventi del fato, ci riportano al
daimon. Perché il daimon coglie di sorpresa, Con i suoi interventi contrasta le
mie intenzioni, a volte con un impercettibile moto di esitazione, altre con una
fulminea infatuazione per qualcuno o per qualcosa. Queste irruzioni improvvise
sembrano di poco conto e irrazionali; si può benissimo ignorarle; eppure
comunicano anche un senso di importanza, che può farci esclamare,
retrospettivamente: «Il destino».
Il fatalismo infonde l'impressione
che ciò che accade nella mia vita tenda verso un fine lontano e nebuloso. C'è
qualcosa in serbo per me. Sono destinato a diventare un cantante, o un torero.
Sono destinato ad avere successo, o a essere maledetto, offeso, sfortunato, o a
morire in un certo modo o in un certo giorno. L'immagine con la quale sono nato
non soltanto mi spinge dall'inizio, ma anche mi attira verso una/un fine.
«Teleologia» è il termine usato per indicare la convinzione che gli eventi
abbiano una finalità, siano attirati da uno scopo verso un preciso fine.
Telos significa «scopo, fine,
adempimento». Si contrappone a «causa» nella nostra accezione moderna. La
causalità domanda: «Chi ha dato il via a questo evento?», e immagina gli eventi
come sospinti da dietro, dal passato. La teleologia invece domanda: «Qual è il
fìne?», e concepisce gli eventi come indirizzati verso una meta.
Sinonimo di teleologia è finalismo,
la concezione secondo cui ciascuno di noi, e come noi l'universo stesso, muove
verso una meta finale. Questa può essere definita in molti modi: riunione con Dio
e redenzione di tutti i peccati; lenta entropia che porterà alla stasi;
l'evolversi inarrestabile della coscienza fino alla dissoluzione della materia
nello spirito; una vita migliore, o peggiore; catastrofe apocalittica o salvazione
divina.
La teleologia conferisce una logica
all esistenza. Fornisce un'interpretazione razionale dello scopo a lungo
termine della vita. E legge qualsiasi cosa accade nella vita come una conferma
di questa visione a lungo raggio: per esempio, come volontà di Dio, disegno
divino.
Se però lasciamo cadere il suffisso
«logia ». e ci atteniamo a «telos», possiamo ritornare al, suo sognificato
originale formulato da Aristotele: «ciò per cui». Vado al supermercato a
comperare un po' di pane e un litro di latte. Non perché mi sia venuta la
visìone di un'umanità migliore; non per una precisa filosofia che governa tutte
le azioni, compreso il fatto di essermi sposato e di avere avuto figli ed
essermi acquistato una macchina per poter andare al supermercato comperargli da
mangiare: questo darebbe a tutti «Perché?» un'unica e definitiva risposta
teleologica. No, telos fornisce una
ragione limitata, specifica cui compio la mia azione. Si immagina, sì, uno scopo
per ogni azione, ma non formula uno scopo dominante per tutto l'agire in
generale; quello sarebbe teleologia o finalismo.
Al telos basta dire che sono andato al supermercato per comperare la
colazione per la mia famiglia. Così ci vengono risparmiati tutti i massimi
sistemi circa il fare colazione: la teologia dell'accudimento, il simbolismo
del pasto del mattino, l'etica del dovere, la pseudopolitìca dei «valori della
famiglia», la psicologia dei bisogni e dei desideri, l'economia della spesa
alimentare, la fisiologia del metabolismo mattutino. Ci sono un mucchio di
ideologie sul fare colazione che possono soddisfare la nostra visione
teleologica della vita. Molti dèi siedono alla tavola della prima colazione. Ma
il telos, lo scopo, del pane e del
latte e della corsa al supermercato è soltanto quello di poter fare colazione.
Prima mangiamo, poi parleremo.
La ghianda sembra seguire appunto
questo schema circoscritto. Non indulge in filosofie di ampia portata. Ti fa
battere il cuore, esplode in un accesso di rabbia, come nel piccolo Menuhin.
Eccita, chiama, pretende; ma raramente offre uno scopo grandioso.
La forza di attrazione dello scopo
è intensa e improvvisa; ci si sente molto risoluti. Ma in che cosa consista
esattamente lo scopo e il come arrivarci rimangono nel vago. Il telos può
essere duplice a volte, o addirittura triplice, e non sapersi decidere se
cantare o ballare, se scrivere o dipingere. Lo scopo di solito non si presenta
come una meta nettamente inquadrata, bensì come un'urgenza indefinita, che
turba, unita a un senso di indubbia importanza.
Due episodi dell'infanzia del
regista cinematografico e teatrale svedese Ingmar Bergman mettono In nsalto il
determinismo indeterminato della ghianda. Da bambino, Bergman era portato a
dire bugie e spesso era incapace di distinguere tra fantasia e realtà, o, come
dice lui, «tra magia e pappa d'avena». A sette anni lo portarono al circo, un
avvenimento che lo precipitò «in uno stato di febbrile eccitazione». Il momento
cruciale fu quando vide «una fanciulla vestita di bianco che cavalcava intorno
alla pista su un gigantesco stallone nero.
«Fui preso da un amore travolgente per quella ragazza. L'avevo chiamata
Esmeralda e la inserivo in tutti i miei giochi di fantasia. Un giorno, dopo.
avergli fatto giurare di mantenere il segreto, confidai al mio compagno di
banco, di nome Nisse, che i miei genitori mi avevano venduto al circo Schumann
e che presto avrei lasciato famiglia e scuola per essere addestrato a diventare
acrobata in compagnia di Esmeralda, la quale era considerata la donna più bella
del mondo. Subito il giorno dopo, la mia fantasia fu smascherata e profanata.
«La mia maestra considerò
l'episodio così grave da scrivere a mia madre una lettera molto preoccupata.
Venni sottoposto a un tremendo processo; mi misero con le spalle al muro, e
venni umiliato e svergognato pubblicamente a casa, oltre che a scuola.
«Cinquant'anni dopo, domandai a mia
madre se ricordava la storia della mia vendita al circo... Possibile che
nessuno si fosse interrogato sulle ragioni profonde che potevano indurre un
ragazzino di sette anni a desiderare di andarsene da casa? Mia madre rispose
che non era la prima volta che li preoccupavo con le mie bugie e fantasie.
Angosciata, si era rivolta al pediatra, il quale aveva insistito
sull'importanza che 1 bambini imparino presto a distinguere tra fantasia e
realtà. La mia insolente e lampante bugia andava punita di conseguenza.
«Dell'amico traditore mi vendicai
inseguendolo per tutto il cortile della scuola con il coltello da scout di mio
fratello. E quando una maestra si buttò in mezzo per fermarmi, cercai di
ammazzare pure lei.
«Così rru espulsero da scuola e mi
presi una solenne battuta. Poi il falso amico si buscò la poliomielite morì,
con mia grande soddisfazione ...
«Ma non smisi di fantasticare su
Esmeralda, anzi le nostre avventure diventarono sempre più pericolose e il
nostro amore sempre più appassionato».
Questo episodio è così denso di
elementi: c'è la disperata importanza di trovare un luogo concreto (il circo) in
cui i due regni, magia e realtà, possano fondersi; c'è il primo incontro con
Anima la fanciulla bianca sul cavallo nero, e con la follia amorosa (la visione
romantica è fuori del tempo, sicché l'età di Ingmar non ha importanza rispetto
all'eternità dell'emozione archetipica); ci sono il rischio di vita e di morte
la sensazione di essere disposti a uccidere o a morire per la propria visione;
le contromisure disciplinari del mondo «reale» di insegnanti, dottori,
genitori; il valore del «segreto» e la tragedia cosmica del tradimento che
separa violentemente fantasia e realtà, cielo e terra, le Esmeralde e le pappe
di avena.
Benché l'episodio riverberi di cose
importanti e rechi tracce del carattere e della vocazione di Bergman, non
lascia intravedere preannunci della sua futura carriera, non contiene messaggi.
Insomma, non c'è teleologia, non c'è determinismo, non c'è fatalismo.
Il secondo racconto, più
direttamente connesso con la vocazione di Bergman, riguarda il cinema.
«Più di tutto, desideravo un
proiettore cinematografico. L'anno precedente, mi avevano portato al cinema per
la prima volta, a vedere un film intitolato Black
Beauty, mi pare ... Tutto è cominciato di lì. Mi prese una febbre, che non
mi ha più lasciato. Quelle ombre mute, con le loro facce pallide, guardavano me
e parlavano con voce inudibile ai miei
sentimenti più intimi. Sono passati sessant'anni, e nulla è cambiato: ho ancora
quella febbre».
Il Natale seguente:
«La distribuzione dei doni di
Natale si faceva davanti alla tavola imbandita. Furono portate le ceste piene
di regali, mio padre, sigaro in bocca, bicchierino di rosolio davanti, era
l'officiante; incominciò la distribuzione ...
«Fu allora che scoppiò il dramma
del proiettore. L'avevano regalato a mio fratello.
«Lanciai un urlo straziante. Come
una furia, mi gettai sotto il tavolo, dove continuai a imperversare, finché non
mi imposero di smetterla. Allora mi precipitai di sopra, in camera dei bambini,
bestemmiando e imprecando, meditando la fuga, finché, esausto per il dolore, mi
addormentai.
«Mi risvegliai verso sera ... Sul
tavolino bianco pieghevole, tra gli altri regali di mio fratello, stava il
proiettore, con lo sfiatatoio ricurvo, le bellissime lenti di ottone, la ruota
dentata per la pellicola.
«In un lampo, presi una decisione:
svegliai mio fratello e gli proposi un affare. Gli offersi i miei cento
soldatini di latta in cambio del proiettore. Poiché Dag possedeva un nutrito
esercito e giocava sempre alla guerra con i suoi amici, l'accordo fu presto
raggiunto con piena soddisfazione di entrambi.
«Il proiettore era mio ...
«L'apparecchio includeva anche una
scatola quadrata color viola contenente alcune lastre fotografiche di vetro e
una piccola bobina di pellicola da 35 mm color seppia ... La scritta sul
coperchio spiegava che il titolo del film era "La signora Holle", Chi
fosse questa signora Holle, nessuno lo sapeva, ma anni dopo scopersi che era un
personaggio del folklore nordico, l'equivalente della Dea dell'amore dei paesi
mediterranei. La mattina dopo, mi chiusi nello spazioso guardaroba dei bambini,
collocai il proiettore su una scatola dello zucchero, accesi la lampada a
petrolio e diressi il raggio di luce sulla parete imbiancata a calce ...
«Sul muro, apparve l'immagine di un
prato. In mezzo al prato, addormentata, giaceva una fanciulla con indosso una
specie di costume nazionale. Incominciai a girare la manovella! Impossibile
descrivere quello che seguì: non trovo le parole per esprimere la mia
eccitazione. Ma ancor oggi posso, in qualunque momento, rievocare il puzzo di
metallo surriscaldato, l'odore di naftalina e di polvere, la sensazione della
manovella nella mia mano. Rivedo il rettangolo tremolante sulla parete.
«Girai la manovella e la ragazza si
svegliò, si mise seduta, poi, lentamente, in piedi, stirò le braccia, mi volse
le spalle e scomparve sulla destra. Se avessi continuato a girare la manovella,
la ragazza sarebbe tornata a sdraiarsi sul prato, avrebbe rifatto gli stessi
gesti tutte le volte che volevo.
«Si muoveva».
La storia del proiettore di Bergman
chiarisce la differenza tra causalità (l'essere sospinti da dietro, dal
passato) e teleologia (l'essere attirati verso una meta). Alla domanda sul
perché quel ragazzino desiderasse così disperatamente il proiettore da essere
disposto a cedere un intero esercito pur di averlo, la causalità risponde: «Ne
aveva visto uno in precedenza ed era curioso. Quando suo fratello lo ricevette
in regalo, la ri- I valità fraterna, risalente alla prima infanzia e all'ordine
di nascita, fece esplodere l'invidia. Prima ancora, c'era stato l'episodio del
circo con il suo cavallo nero, poi riecheggiato nel puledro nero del primo film
che Bergman ricorda, in cui viene prefigurata la liberazione ("essere
venduto al circo" come forma passiva di "scappare di casa")
dall'atmosfera moralistica e oppressiva della famiglia di suo padre pastore.
Oppure il piccolo Bergman desiderava il potere sopra la madre, sopra la Donna,
da fare muovere quando voleva, semplicemente girando una manovella».
La causalità, ovvero ciò che la
filosofia classica (aristotelica) chiamava «causa efficiente», cerca di
rispondere alla domanda: «Che cosa ha dato inizio a quel movìmento?», risalendo
all'indietro attraverso una serie di nessi ipotetici, una catena di eventi che
si presumono collegati e messi in moto ciascuno da quello precedente. Ammettiamo
pure che tutti gli anelli siano davvero collegati, e che ciascuno spinga il
successivo come in una fantastica macchina di Rube Goldberg; il primissimo
anello è comunque sospeso a quella che rimane una pura congettura: perché
l'immagine di un cavallo nero e non un'altra, perché l'affascinante Esmeralda,
perché il circo? A che cosa è collegata quella prima, spontanea, indimenticata
passione? Risposta (per noi): chiediamolo al destino.
E il destino risponde così: Ingmar
Bergman, regista cinematografico in nuce, ha avuto la sua visione all'età di
sette anni, se non prima. Non lo sapeva, non poteva prevederlo, ma un daimon
aveva scelto gli eventi che resero Esmeralda così irresistibile e in seguito
così necessario il proiettore. Non che il destino avesse in mente un piano
teleologico o la meta finale di il settimo sigillo o Il flauto magico.
Tuttavia, è la visione destinale del daimon a infondere a quei particolari
eventi un senso di importanza emotiva; di lì la febbre, l'eccitazione, le
parolacce. Non il suggello definitivo del destino, ma un annuncio.
Lasciatemi chiarire ancora una
volta la distinzione tra l'idea circoscritta di telos e l'ampia categoria di teleologia; se non altro, perché
mentre la prima è utile, la seconda di solito non lo è. L'idea di telos
conferisce valore a ciò che accade, perché considera ciascun evento come dotato
di uno scopo. Le cose avvengono per un qualcosa. Hanno un'intenzionalità. Il
ragazzino Ingmar non inventava bugie per caso; le sue stone si indirizzavano
verso uno stile di vita e una carriera in cui le «bugie» non solo hanno senso,
ma sono necessarie all'illusione propria di quel lavoro. Prima ancora di avere
a disposizione un palcoscenico o una sceneggiatura, Bergman stava già facendo
teatro, nella vita. Il guardare gli eventi della sua infanzia attraverso le
lenti del telos li trasforma da mere
bugie e capricci e pensieri ossessivi in espressioni delle necessità della sua
anima. Telos conferisce un valore agli eventi.
Ma basta aggiungere il suffisso «logia»,
e subito valore acquista un nome. Viene detto qual è I'intenzione del capriccio
e dell'ossessione. La teleologia osa pronunciare il nome dello scopo. C'è una
grande presunzione in simili predizioni, perché le bugie di Bergman potrebbero
rientrare anche nel modello del falsario, del «creativo» della pubblicità. Il
cavallo avrebbe potuto portarlo in molte direzioni; Esmeralda, la signora Holle
e l'immagine in bianco e nero sul prato avrebbero potuto significare fare il
pittore o il lenone, il disegnatore di moda o il travestito. Il definire lo
scopo come se una precisa finalità teleologica attirasse Bergman a sé («Sei
destinato a fare teatro, le donne avranno un ruolo decisivo, la fantasia è il
mestiere, sarai tu a muovere le fìla») è pura presunzione. E una mutilazione,
anche. Perché, se sai già quale sia lo scopo di un sintomo, derubi il sintomo
delle sue peculiari intenzioni. Perdi rispetto per il suo autonomo scopo e in questo
modo ne sminuisci il valore.
Il sistema teorico di Freud era
perfettamente in grado di dichiarare che cosa ci fosse dietro alle ossessioni
infantili, eppure Freud diceva che la pratica della psicoanalisi richiede di
celare, astenersi, mantenere il riserbo. Freud non permise alla pratica della
psicoanali di diventare teleologica, benché pensasse che tutti i fenomeni in
atto nell'analisi avessero un telos.
La ghianda non si comporta tanto
come una guida personale, quanto piuttosto come uno stile mobile, una dinamica
interna che conferisce alle occasioni il sentimento che abbiano uno scopo; di
lì quel senso di importanza: questo momento, apparentemente banale, è
significativo, mentre quell'evento apparentemente importante, non conta poi
molto.
Ecco, diciamo che alla ghianda
interessa di più l'aspetto animico degli eventi, è più attenta a ciò che fa
bene all'anima che a ciò che noi pensiamo faccia bene a noi stessi. Si spiega,
allora, perché il daimon di Socrate
lo esortasse a non sottrarsi alla prigione e alla condanna a morte. Quella
morte faceva parte dell'integrità della sua immagine, della sua forma innata.
Una morte - nell'arena, al gabinetto, in un incidente d'auto, non importa - può
avere senso rispetto all'immagine e alla sua traiettoria, anche se non ne ha
per noi e per i nostri progetti.
Seguire la traiettoria con
dedizione è abbastanza facile. Il più delle volte lo sentiamo, quello che
dobbiamo fare. L'immagine del cuore può avanzare forti pretese e chiederci di
essere fedeli. Il difficile è dare un senso agli accidenti, a quelle banali folate
di vento che ci fanno deviare dalla rotta e sembrano ritardare il progettato
approdo nel porto teleologico. Le folate che ci trattengono sono diversivi? O
hanno, ciascuna, il proprio particolare scopo? Contribuiscono, prese tutte
insieme, a far avanzare la barca, magari verso un altro porto? Se la nostra
bussola è puntata troppo fissamente sul lontano orizzonte e se la nostra
visione teleologica sa esattamente dove dovremmo andare e come fare per
arrivarci e dove ci troviamo ora, non riusciremo a scoprire alcun senso negli
accidenti avversi.
Dirò di più: ciò che conta non è
tanto stabilire se un'interferenza abbia o no uno scopo; è importante,
piuttosto, guardare con occhio sensibile allo scopo e cercare il valore
nell'imprevisto. L'occhio sensibile allo scopo parte dal presupposto che gli
eventi possono effettivamente essere accidenti. Il mondo è governato dalla
follia non meno che dalla saggezza, dal caos non meno che dall'ordine. E
altrettanto fatalistico e teleologico il credere nella casualità del cosmo
quanto lo è il credere in un disegno cosmico. L'occhio sensibile allo scopo si
limita a scrutare ciascun «accidente », come vengono chiamati questi eventi,
per leggervi ciò che esso dice di sé. Perché l'anima vuole accomodarlo dentro
la sua forma.
Bette Davis in collegio, età sette
o otto anni, impersona Babbo Natale. Sull'albero ardono candeline vere, sotto
ci sono i regali. Mentre allunga la mano toccarli, la sua manica sfiora una
candela. In un attimo, il fuoco, attraverso il costume, arriva alla barba di bambagia.
«Di colpo, fui avvolta dalle
fiamme. Mi misi a strillare dal terrore. Udii delle voci, sentii delle mani che
mi, avvolgevano in una coperta ... Quando poi me la tolsero, decisi di tenere
gli occhi chiusi. Quando si è attrici! Avrei fatto credere di essere cieca.
"Gli occhi!". Mi sentii percorrere da un brivido di piacere. Ero
perfettamente padrona della situazione ».
La scena dell'incendio non era
stata allestita dalla ghianda, ma Bette Davis riuscì a trasformarla in un pezzo
di teatro. La forma innata di una persona incorpora in sé gli accidenti. Il
carattere è il destino.
Prendiamo adesso l'infanzia di due
grandi cuochi. Pierre Franey, nel paesino della Borgogna dove era i nato, era
solito catturare le trote a mani nude, poi se le mangiava appena scottate con
una maionese alle erbe aromatiche; allevava conigli, ammazzava lui stesso i
polli; esplorava i prati il mattino presto in cerca delle montagnole di terra
lasciate dalle talpe, perché le foglie del tarassaco, così imbianchite lì sotto,
erano più dolci. Crebbe, insomma, «in intimo rapporto con il cibo che
mangiavamo. Sono accidenti grezzi quali dovevano capitare a qualsiasi
ragazzotto del paese, ma l'immagine di Franey li cucina al modo raffinato del
cuoco di professione. James Beard, cuoco, consulente di cuochi, scrittore di
libri di cucina, supremo gourmet, era nato che pesava quasi sette chili (alla
madre quarantenne sarà venuto un accidente nel partorirlo!). E come se il corpo
natale di Beard fosse stato scelto dalla sua anima per incorporare appieno i
gusti e gli aromi che dovevano costituire il suo genere di vita. Il suo primo
«accidente» fu anche la scena della sua «prima avventura gastronomica. Mentre
andavo in giro gattoni, capitai vicino alla cesta delle verdure, scelsi una cipolla
gigante e me la mangiai, buccia e tutto. Credo che questo mi abbia segnato per
la vita». Franey e Beard: due esempi di come il daimon utilizza le situazioni accidentali.
A diciotto anni, Churchill,
giocando a fare l'eroe, si ferì alla testa e si lese un rene. «Durante la
convalescenza ... trovò se stesso, dal punto di vista intellettuale». La forma
non solo integra la caduta, ma se ne nutre.
Mentre era in collegio, il fratello
maggiore di James Barrie batté la testa pattinando sul ghiaccio e morì. La
madre si ammalò per il dolore e rimase chiusa in camera per anni a piangere la
perdita del figlio prediletto. Il piccolo Jamie. (aveva sei o sette anni
all'epoca) le teneva compagma e si sforzava. di farla ridere; madre e figlio si
raccontavano storie a vicenda, lei di tipo biografico, lui di fantasia. La
ghianda aveva dato forma all'incidente, al dolore e all'isolamento secondo
l'immagine di J.M, Barrie, scnttore di avventure fantastiche.
L'incidente che rese il disegnatore
e umorista james Thurber cieco da un occhio, e alla fine anche dall'altro,
quando era ancora ragazzino (il fratello l'aveva colpito con una freccia) non
stabilì la rotta della sua vita né la arrestò. La forma trova uno scopo e si
piega ad accomodarlo dentro di sé, come le. precoci doti di scrittore di
Thurber, come «il tratto ingenuo» delle sue vignette fuori misura, dalla strana
scala e prospettiva.
Il presidente Nixon aveva una particolare
passione per Tom Sawyer: Non è affatto
insolito trovare quel libro citato fra le letture infantili degh amencani, e
Nixon aveva fin da ragazzo una grande passione per la lettura e la scrittura.
«Gli piaceva soprattutto l'episodio in cui Tom convince Ben Rogers a dipingere
al posto suo lo steccato, al punto che l'aveva imparato a memoria. A distanza
di quasi cinquant'anni [alla Casa Bianca] ... sapeva recitare tutto il brano
senza un errore ». Piccole (?) cose accidentali, che ci portiamo dietro
dall'infanzia e che ricevono significato l'anima. La famosa stilista Coco
Chanel, che nel inventò il «piccolo abito nero» dalla forma essenziale,
trascorse l'adolescenza in un rigido orfanotrofio di monache. Fu una vera
prigione per lei, tanto che volle eliminare dai documenti e dalle sue memorie
ogni traccia di quel luogo e di quegli anni. «Non mi, chieda che cosa provo ...
Si può morire più volte, durante la vita» ebbe a dire in un'intervista. Ma l'austerità
classica dei suoi modelli, la loro simmetrica perfezione, l'uso costante di
neri, bianchi e grigi riproducono, nonostante la cancellazione dalle memorie,
gli «accidenti» rimossi. Ciò che le serve, l'anima lo usa. Sono strabilianti,
anzi, la saggezza e il senso pratico che essa dimostra nell'utilizzare
accidenti e disgrazie.
Saggezza in greco era sophia («filo-sofia» è dunque l'amore
per la saggezza) e aveva un significato molto pratico, riferito in origine alle
arti che richiedono destrezza manuale, in particolare all'arte del timoniere.
La saggezza del timoniere si manifesta nell'arte di compiere minimi
aggiustamenti con la barra del timone, in accordo con le variazioni accidentali
delle onde, del vento, del carico. Il daimon,
facendo costantemente la stima di eventi che sembrerebbero farci devi.are dalla
nostr~ rotta, insegna appunto questo tipo di saggezza. Che e anche filosofia:
amore per le piccole correzioni, per le minime integrazioni di cose che a prima
vista sembrerebbero non entrarci. Taluni filosofi chiamano tale attenzione al
singolo evento «salvare il fenomeno», salvarlo, cioè, dalle traiettorie
metafisiche delle teorie.
Questi movimenti accidentali né
ostacolano né promuovono il progetto principale. Piuttosto, ne correggono la
forma, come se la rotta e la barca stessa fossero ristrutturate dalle risposte
dell'anima agli eventi della vita. Esiste un'arte del crescere, cioè
discendere; è la saggezza di osservare le cose con un occhio ai loro effetti.
L'idea di continui aggiustamenti e
movimenti non è né nuova né strana. Già in Aristotele l'anima era concepita
insieme come la forma e il motore dei corpi. La forma, che è data dall'inizio
come immagine della parte assegnataci, si sposta via via che noi ci muoviamo.
Questa forma (alla quale stiamo dando molti nomi intercambiabili: immagine,
daimon, vocazione, angelo, cuore, ghianda, anima, modello, carattere) rimane
fedele alla sua forma.
Ci sono accidenti che travolgono la
barca, scompaginano la forma. Per esempio, gli shock da bombardamento, come
venivano chiamate le psicosi traumatiche rilevate durante la prima guerra
mondiale; gli stupri sotto minaccia fisica; gli scontri ad alta velocità; la
crudeltà ricorrente e violenta. Eppure, alcune anime sembrano assumerseli e
addirittura collaborare con essi, mentre altre vi rimangono fissate,
impastoiate, e si dibattono nel vano tentativo di trovarvi un senso, come si
osserva negli incubi ricorrenti dei veterani del Vietnam. Viene da chiedersi:
la ghianda è stata dunque così deteriorata da questi accidenti che la sua forma
rimane incurabilmente lesa, una Gestalt che non può chiudersi, un timone
irrimediabilmente spezzato, che non risponde più alle sterzate del timoniere?
Il fatalismo risponde: Tutto è
nelle mani degli dèi.
Il finalismo teleologico aggiunge:
Tutto ha un fine nascosto e fa parte del tuo sviluppo. L'Eroe dice: Occorre
integrare l'Ombra oppure ucciderla; làsciati alle spalle la tragedia, la vita
deve continuare. In ciascuna di queste risposte, l'accidentale, come categoria,
si dissolve, assorbito nella filosofia più vasta del fatalismo, del finalismo,
dell'eroismo.
Io dico che è meglio mantenerlo
come un'autentica categoria dell'esistenza, che obbliga a riflettere su di
essa. Un grave incidente esige risposte. Che cosa significa, perché è accaduto,
che cosa vuole? Questo aggiornare continuamente le nostre valutazioni è come le
scosse di assestamento dopo un terremoto. Può darsi che l'incidente non sarà
mai integrato, però potrebbe rafforzare l'integrità della forma dell'anima, aggiungendovi
perplessità, sensibilità, vulnerabilità, tessuto cicatriziale.
La teoria evolutiva considera gli
incidenti accaduti a Churchill, a Chanel, a Thurber, a Barrie come i tipici
traumi giovanili, che con l'andar del tempo possono essere sublimati, trasformati
e integrati. Il Tempo guarisce tutte le ferite.
La teoria della ghianda dice più
semplicemente che la caduta di Churchill, la perdita dell'occhio di Thurber, il
lutto della madre di Barrie e l'adolescenza monastica di Coco Chanel
appartengono coerentemente alla loro ghianda. Non nel senso che quegli
accidenti giovanili fossero predetti dalla ghianda come iscritti in un disegno
divino, né che siano stati determinanti per la successiva carriera,
incanalandola a forza in un percorso definito. Piuttosto, sono stati «accidenti
necessari », necessari e accidentali insieme. Sono stati gli strumenti per far
emergere la vocazione, modi in cui la ghianda ha espresso la propria forma e ha
dato forma alla loro vita. Nel caso di Churchill c'erano voluti un trauma improvviso
e una lenta convalescenza; in quelli di Barrie e di Chanel una lunga
segregazione. In quell'orfanotrofio, Chanel imparava la disciplina, e anche
Barrie, raccontando storie alla madre inferma, stava facendo il suo tirocinio;
mentre la forma interiore di Nixon aveva scelto l'esempio, per lei più utile,
dell'abilità di Tom Sawyer nel manipolare il prossimo.
E ora, l'ultimo pezzo grosso, il
personaggio che Platone colloca nel punto centrale del suo mito: Necessità,
colei che ruota il fuso sul quale è avvolto il filo della nostra vita.
Ricordate il racconto? La dea
Ananke, o Necessità, siede sul trono circondata dalle Moire, sue figlie,
compagne e aiutanti. Ma è lei, Ananke, a stabilire che la sorte scelta
dall'anima è necessaria: non un accidente, non buona o cattiva, non già nota né
garantita, semplicemente necessaria. Ciò che viviamo è necessario che lo viviamo.
Necessario per Chi? Per che cosa? Per lei la dea Necessità. E necessario perché
è necessario? Ma questa non è una risposta. Dovremo rifletterci sopra.
Chi e che cosa e Ananke? In pnmo
luogo, e tra le più potenti potenze del cosmo: Platone cita soltanto due grandi
forze cosmiche: Ragione (nous, la mente)
e Necessità (ananke). Ragione risponde
per ciò che possiamo comprendere, ciò che segue le leggi e gli schemi
dell'intelletto. Necessità opera come una causa «mutevole» o, come si traduce a
volte, come causa «errante» o «erratica».
Quando una cosa non combacia,
sembra fuori posto o strana, rompe lo schema consueto, allora più probabilmente
lì c'è la mano di Necessità. Pur determinando la sorte che viviamo, i modi in cui
esercita la sua influenza sono irrazionali. Ecco perché è così difficile
comprendere la vita, persino la propria. La sorte della mia anima deriva dal principio
irrazionale. La legge che l'anima segue è quella di Necessità, che è erratica.
Non stupisce che noi lettori si sia attratti dalle biografie e dalle
autobiografie: perche in esse si può intravedere come agisce nella vita umana l'irrazionale
Necessità. Ma benche il dominio di Necessità sia assoluto e irreversibile, il
suo determinismo è indeterminato. Imprevedibile.
Abbiamo già incontrato questa idea
di una causa lr:azlonale: le spiegazioni genetiche fondate sulla teoria del caos,
i ragazzini che svicolano nei territori fantastici dei fumetti e della
letteratura di appendice; il «qualcos'altro» che irrompe nelle intenzioni: come
quando di punto in bianco Ella Fitzgerald si mette a cantare benché fosse
salita sul palco per danzare, o come quando Barbara McClintock dimentica
proprio nome. E abbiamo visto la causa erratica all'opera in molti casi di
rifiuto della scuola e di espulsioni, e nell'improvvisa percezione da parte del
mentore della bellezza e delle potenzialità dell'allievo. Anzi, lungo tutte
questet pagine, non abbiamo fatto altro che seguire litinerario tortuoso di
Necessità, osservando il suo modo di operare e avvertendo il suo inesplicabile
e innegabile potere.
Tale innegabile potere è reso
visibile dalle immagini antiche e confermato ulteriormente dall'etimologia
della parola ananke. Essa deriva da
un'antica radice mitica riconoscibile nei termini usati, per esempio l'antico
egizio, nell'accadico, nell'aramaico e nell'ebraico per significare «angusto»,
«gola», «costringere», «strangolare», o per indicare il giogo dei buoi e
collare degli schiavi. Ananke ci stringe alla gola, ci tiene pngiomeri, ci
trascina come schiavi.
Esiste un rimando reciproco tra
immagini mitologiche e patologie. Lo ha detto chiaramente Jung: «Gli Dei sono
diventati malattie». In nessun altro caso il dio che è nella malattia si
manifesta con maggior forza e trasparenza che nella dolorosa costrizione al
petto dell'angina pectoris e negli
stati di angoscia che ci paralizzano. E anche «angina» e «angoscia» vengono da ananke.
Insomma, non si può sfuggire alla
necessità. Necessita non vuole cedere, non può sottomettersi: ne + cedere. Così Kant definisce
l'equivalente tedesco di necessità, Notwendigkeit:
«ciò che non potrebbe essere altnmentì». A questo punto, diventa
straordinariamente facile comprendere la nostra vita: comunque siamo, non
potevamo essere altrimenti. Niente rimpianti, niente strade sbagliate, niente
veri errori. L'occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò
che poteva essere. Dice T.S. Eliot: «"Ciò che poteva essere" è un
astrazione / Che resta una possibilità perpetua / Solo nel mondo delle ipotesi.
/ Ciò che poteva essere e ciò che è stato / Tendono a un solo fine, che è
sempre presente».
Mentre eseguiamo un'azione, mentre
compiamo una scelta, noi siamo convinti che vi siano delle opzioni. Opzioni,
Soggetto agente, Scelte, Decisioni: sono gli slogan di cui si nutre 1'Io. Ma se
alziamo per un attimo gli occhi dall'azione in cui siamo impegnati e ci
fermiamo a riflettere, ecco l'implacabile sorriso di Necessità a dirci che,
qualunque scelta compiamo, è esattamente la scelta richiesta da lei. Non poteva
essere altrimenti. Nell'istante in cui la decisione accade, essa è necessaria.
Prima della decisione, tutto è ancora aperto davanti a noi. Perciò,
assurdamente, Necessità si fa garante solo del rischio: in ciascuna decisione
rischiamo tutto, anche se poi ciò che alla fine viene deciso diventa
immediatamente necessario.
Sostenendo che Necessità ha messo
mano in tutti i momenti decisivi della mia vita, posso giustificare qualsiasi
cosa io faccio. Parrebbe che sia possibile sfilarci di dosso le briglie della
responsabilità: lo dicono le carte, sta scritto nelle stelle. Tuttavia, questa
inflessibile dea dominatrice riesce a farmi venire un tremito su ogni decisione
che prendo, perché non c'è prevedibilità nella sua erratica irrazionalità. Solo
con il senno di poi posso trovare la certezza e dire che era tutto necessario.
Che cosa curiosa: la vita può essere preordinata, ma non prevista.
E gli errori, allora, dove sono?
Com'è che possiamo sbagliarci, perché ci sentiamo in colpa? Se tutto ciò che
accade è necessario, come mai il rimorso?
Dal momento che la necessità
incorpora come necessaria qualsiasi decisione io prenda, allora la necessità va
immaginata come un principio inclusivo che riaggiusta l'immagine di ciascuna
vita in modo da ineludervi tutte le azioni di quella vita, una per volta, quali
che siano. Abbiamo sempre addosso il collare, ma il collare è adattabile. E il
giogo di Necessità che produce la familiare sensazione di essere comunque
incastrati, comunque vittime delle circostanze, anelanti alla liberazione. So
bene che ciò che doveva essere doveva essere, eppure, ciò nonostante, provo
rimorso. Necessità dice che anche il rimorso è ne cessario, come sentimento, fa
parte del mio giogo, ma non si rifensce a ciò che in pratica avrei potuto o
dovuto fare di diverso.
Interpretare in questa maniera la
necessità rende i nostri errori qualcosa di profondamente tragico invece che
peccati di cui pentirei o accidenti a cui rimediare. Le cose non possono, non
avrebbero potuto essere altrimenti. Inesorabilmente, tutto si tiene, errori
fatali compresi, e il corso della necessità prosegue sino in fondo, finché le
corna del toro trovano la tua pancia.
Occorre un cuore grande per accettare
il collare che strangola. Il più delle volte, noi rifiutiamo gli assurdi,
irrazionali eventi che ci capitano addosso. Il più delle volte, cerchiamo di
ignorare le interferenze; finché il cuore non attira la nostra attenzione su di
esse, suggerendo che forse sono importanti, forse sono necessarie.
L'intelle.tto è l'ultima facoltà ad arrendersi; di solito inizia un tiro alla
fune tra la chiamata del cuore e il piano della mente, si crea dentro ciascun
essere umano un conflitto che ripropone i due principi platonici, nous e
ananke, la ragione e l'irragionevole necessità.
Beninteso, la mente può
procrastinare la chiamata, reprimerla, tradirla. Non saremo necessariamente puniti
e dannati per questo. Il daimon non è
necessariamente un demonio che incalza, un segugio del paradiso cristiano.
Vendetta non è una delle figlie di Necessità. Anzi, la necessità si riferisce
soltanto a ciò che non poteva essere altrimenti; o a ciò da cui non potevamo
fuggire: E fuggire non e un peccato, perché Necessita non e una moralista. La
fuga potrebbe fare parte del destino della mia anima e della sua immagine tanto
quanto potrebbe farne parte l'affrontare il pericolo e offrire il petto alle
frecce.
Sulla fuga Harry Houdini costruì la
sua carriera. Era - la sua vocazione. «Inventava di continuo» la propria vita,
sfuggendo così alla prigione della «verità pedantesca». Riusciva a tirarsi
fuori da qualsiasi trappola gli ponessero davanti, comprese quelle dei dati
anagrafici - tipo: luogo di nascita (il Wisconsin o l'Ungheria?); data di
nascita (24 marzo o 6 aprile?); nome di battesimo (Ehrich o Erik?); e da ultimo
anche il cognome (Weiss), che cambiò in quello, inventato, di «Houdini» dopo
avere letto a diciassette anni la vita di Robert Houdin, un famoso mago
francese dell'Ottocento.
Houdini non fece che sconfiggere la
necessità, usando ogni possibile trucco mercuriale. Povertà, Disoccupazione,
Pregiudizio, Insuccesso: nessuna di queste meschine divinità poté trattenerlo.
Non c'era camicia di forza, cella di prigione, camera blindata da cui non
riuscisse a liberarsi; l'impresa che più esaltò il suo pubblico fu quando si
fece chiudere ermeticamente, legato e incatenato, in un baule di metallo calato
in acque ghiacciate, e poi si liberò e risalì in superficie.
Sfuggì a tutte le bare del mondo
esterno, per soccombere senza scampo alla morte che andava lentamente
preparandosi nel suo robusto corpo muscoloso sotto forma di appendicite
cronica, diventata un giorno peritonite.
Non assomiglia, la storia di Houdini,
a quella di Manolete, e di ciascuno di noi? L'occhio della ghianda legge la
storia a ritroso. Come c'era un toro in attesa per Manolete, così per Houdini
era in attesa l'infìammazione all'appendice, una necessità ineludibile, data a
lui insieme con la sua ghianda, un'ombra proiettata sopra gli sforzi fuori
della norma e le strabilianti imprese della sua lotta eroica: solo all'ultimo,
sul letto di morte, Houdini disse alla moglie: «Incomincio a essere stanco, non
ce la faccio più a lottare »,
Perfino l'artista della fuga si
scontra con la necessità. Le catene di Ananke sono al tempo stesso visibili e
invisibili. Quando il «ciò che non poteva essere altrimenti» accade, la
spiegazione più plausibile su come funziona la vita e sul perché le cose
accadono nel modo in cui accadono è la teoria della ghianda.
Più ti mantieni fedele al tuo
daimon, più sei vicino alla morte che appartiene al tuo destino. Ci aspettiamo
che il daimon abbia prescienza della morte, che la evochi prima di un viaggio
aereo o durante una malattia improvvisa. E questo il mio destino, la mia ora? E
quando le pretese della nostra vocazione sembrano innegabilmente necessarie, di
nuovo compare la morte: «Se faccio quello che assolutamente devo fare, ne
rimarrò ucciso; ma se non lo faccio, ne morirò». Essere o non essere la mia
vocazione: sempre e ogni volta, questa è la domanda.
Forse è appunto questa intimità fra
vocazione e destino la ragione per cui evitiamo il daimon e la teoria che ne
sostiene l'importanza. Preferiamo inventare e professare teorie che ci leghino
strettamente ai poteri dei genitori, che ci appesantiscano di condizionamenti
sociali e di determinanti genetiche; in tal modo possiamo eludere il dato di
fatto che queste profonde influenze sul destino sono niente di fronte al potere
della morte. La morte è l'unica necessità assoluta, la Necessità archetipica
che governa il disegno creato dal filo della vita che essa, insieme alle sue
figlie, le Parche, volge sul fuso. La lunghezza del filo e l'irreversibilità
del suo moto sono parte di un unico e medesi
mo disegno; e non potrebbe essere
altrimenti.
Ladri e assassini, poliziotti
sadici e maniaci sessuali, tutti gli abitatori, grandi e piccoli,. dei
bassifondi (il mondo infero): anche la loro anima e discesa dal grembo di
Necessità? Plotino, come sempre, si era posto il problema secoli fa: «Come può un
carattere malvagio essere dato dagli Dei?». Esiste una vocazione al delitto?
Può la ghianda albergare un cattivo seme? O forse il criminale psicopatico non
ha affatto un'anima?
Per rispondere a queste domande,
che si interrogano niente meno che sulla natura del male, indagheremo sulla
figura di colui che è stato il supremo criminale psicopatico dei tempi moderni,
se non di tutti i tempi: Adolf Hitler (1889-1945).
Lo studio della figura dì Hitler
offre diversi vantaggi rispetto all'analisi comparata di una serie di casi
sconcertanti di assassini e torturatori sadici. Innanzitutto, permette di
affinare il metodo applicato fin qui: l'analisi di ciò che è estremo per meglio
comprendere ciò che è normale, In secondo luogo, in un unico caso esemplare si
ha agio di osservare meglio come il daimon
si manifesti nei tratti del carattere e nelle azioni abituali. Terzo,
confrontandoci con l'enormità rappresentata da Hitler, ci confrontiamo con le
enormità che la nostra epoca ha ereditato da lui. Il fenomeno Hitler ha conseguenze
implicite che toccano direttamente la nostra vita di cittadini. A differenza
dei delitti commessi da Charles Manson, Jeffrey Dahmer, John Wayne Gacy e
altri, « i danni causati dalla violenza individuale ... sono di poco conto a
paragone degli olocausti prodotti dall'adesione sovrapersonale a un sistema di
credenze condiviso a livello collettivo ».
Per essere cittadini consapevoli
del mondo occidentale nell'era post-hitleriana, non soltanto non dobbiamo
dimenticare le immagini e la lezione della prima metà del nostro secolo,
l'epoca storica di Hitler, abbiamo anche il dovere di riflettere su Hitler come
possibilità demoniaca presente nel mondo occidentale stesso. La riflessione su
Hitler è qualcosa di più della presentazione di un caso clinico di psicopatia o
di un modello di totalitarismo politico, e qualcosa di più, anche, del tipo di
ri-creazione letteraria compiuta per esempio da Mailer, Capote e Sartre sui
loro soggetti psicopatici. E un atto rituale di esplorazione psicologica, un
atto altrettanto necessario, per poter rivendicare la nostra umanità
consapevole, del ricordare l'Olocausto e la seconda guerra mondiale. La
riflessione su Hitler è un atto di contrizione dovuto da parte di tutti coloro
che sono partecipi della psiche occidentale per la sua complicità inconscia
nelle azioni di Hitler; ed è un atto di propiziazione nei confronti del
particolare demone che scelse di abitare Hitler. Essendosi già una volta
manifestato in forma tanto virulenta, possa quel demone placarsi e non volerei nuovamente
accecare. La nostra indagine intende inoltre mettere in evidenza uno per uno i
vari modi in cui un daimon può rivelarsi un demonio e un genio rivelarsi
malvagio.
Uno svantaggio è che,
concentrandoci sui peggiori, delinquenti di minor calibro e assassini meno
efferati sfuggono tra le maglie. Guardando Hitler così da vicino, potremmo
lasciarci sfuggire il demonio che è accanto a noi. Ogni giorno, multinazionali
e apparati statali senza volto prendono decisioni che sconvolgono intere
collettività, rovinano centinaia di famiglie e distruggono la natura. Ci sono
psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni. Lo
schermo del televisore, con la sua camaleontica versatilità nel mostrare
qualsiasi cosa faccia audience, favorisce il distanziamento, l'indifferenza e
il fascino di facciata, e altrettanto fanno i luccicanti e ben oliati
meccanismi del successo propri della struttura politica, giuridica, religiosa e
finanziaria. Chiunque salga in alto in un mondo che venera il successo dovrebbe
riuscire sospetto, perché questa è l'età della psicopatia. Oggi lo psicopatico
non si aggira furtivo come un topo di fogna nei vicoli bui, come nei film di
gangster degli anni Trenta, ma sfila nelle macchine blindate durante le visite
di Stato, amministra intere nazioni, invia rappresentanti alle Nazioni Unite.
Hitler, in un certo senso, è vecchio stile e potrebbe distoglierci dal vedere
in trasparenza la maschera che il demoniaco indossa oggi, e indosserà domani.
Il demoniaco, che è fuori dal tempo, tuttavia entra nel mondo travestito da
contemporaneo, vestito per uccidere.
Le abitudini di Hitler, riferite da
informatori attendibili e verificate da storici e biografi degni di fede,
testimoniano di una sua identificazione con il daimon o di una possessione da
parte del daimon. La principale differenza tra la possessione di Hitler e
quella di altri personaggi citati in questo libro sta nella natura della sua
personalità e nella natura del suo daimon: un cattivo seme in una personalità
che non opponeva dubbi né resistenze.
Sul fenomeno Hitler sono state avanzate diverse teorie, che esporrò
brevemente alla fine del capitolo, e io intendo dimostrare che la teoria della
ghianda rappresenta un modo non peggiore di altri di immaginare tale fenomeno.
Anzi, l'idea di un demonio o genio malefico può forse meglio spiegare il
fascino esercitato da Hitler sul substrato di ombra presente nel Volk tedesco e
il formarsi di quell'ethos di gruppo che indusse tutto un popolo, accecato
dalle visioni demoniache del capo, a aderirvi e a metterle in atto. Vedendo
come il potere fascinatorio di Hitler, emanante da un unico seme, abbia
incantato milioni di persone in una demonizzazione collettiva, potremo forse
capire megho m che modo assassini psicopatici, come Jeffrey Dahmer, Andrej
Cikatilo, Dennis Nilsen, Peter Sutcliffe e Juan Corona, abbiano potuto
incantare una lunga serie di vittime arrendevoli. Forse il vero mistero non è
tanto il male, ma l'innocenza.
Nell'esposizione del carattere di
Hitler, che è diventato il destino della nostra civiltà, procederemo in due
fasi. Dapprima enumereremo talune caratteristiche particolari che nelle
descrizioni tradizionali simboleggiano Il male, la morte e la distruzione.
Quindi analizzeremo un numero più ristretto di caratteristiche, che rivelano in
maniera più cruda la presenza concreta dell'invisibile nella biografia di
Hitler.
Verso la fine, nell'ultimo discorso
ai suoi Gauleiter, Hitler disse: «Qualunque cosa succederà, il mio cuore
rimarrà di ghiaccio». A una riunione di capi di Stato Maggiore esprese il suo
apprezzamento per Göring dicendo: «Si e dimostrato freddo come il ghiaccio ...
Mi è stato vicino durante i giorni difficili, rimanendo sempre freddo come il
ghiaccio ... Quando le cose volgevano al peggio, diventava freddo come il
ghiaccio ».
Il fondo dell'inferno è, secondo
Dante, un regno di ghiaccio, il luogo di Caino, Giuda e Lucifero. Dal tardo
Medioevo al Rinascimento, leggende e superstizioni, nonché uno degli assiomi
dell'Inquisizione, sostengono che il pene del diavolo è ghiacciato e il suo
seme è freddo.
Il tratto psicologico che si
accompagna al cuore di ghiaccio è la rigidità, l'incapacità di cedere, di
fluire, di abbandonare la presa. Waite riporta testimonianze riguardanti
quattro diversi periodi della vita di Hitler, che concordano tutte nel dire che
«c'era nella sua natura un che di fermo, di inflessibile, irremovibile,
ostinatamente rigido ... Adolf non poteva assolutamente cambiare idea né
tantomeno cambiare la propria natura»,« Poco prima della morte, a Berlino, nel
1945, «quando un ufficiale provò a osservare che forse in certi casi si sarebbe
dovuto agire diversamente, Adolf Hitler esclamò in tono esasperato: "Ma
non capisce che non posso cambiare!"». Tutte le sue abitudini (i vestiti
che indossava finché cadevano a pezzi, la ritualìtà nel lavarsi i denti, la
musica e i film che sceglieva, gli orari) erano ripetitive. Quando portava
fuori il cane, come faceva tutti i giorni alla stessa ora, gli tirava sempre lo
stesso legno esattamente dal medesimo punto e nella medesima direzione."
Un'immagine dell'inferno più comune
è quella del fuoco. Il daimon stesso
è sempre stato tradizionalmente associato al fuoco. Per esempio, il genio di
una persona era descritto come un'aureola, un alone fiammeggiante intorno al
capo. Il daimon di Hitler fece largo impiego del fuoco nelle sue opere:
l'incendio del Reichstag che
predispose la scena della sua salita al potere; le metafore infuocate dei suoi
discorsi; le città d'Europa in fiamme; i forni crematori con il fumo che si
levava dai loro comignoli nei campi di sterminio; il suo corpo cosparso di
benzina e divorato dalle fiamme nel bunker a Berlino. Nel 1932, dunque anni
prima che scoppiasse la guerra, discorrendo con Hermann Rauschning, all'epoca
un importante dirigente nazista, che in seguito abbandonò il partito e pubblicò
le proprie annotazioni prima della guerra, Hitler dimostrò di sapere quale
sarebbe stata la propria fine e quella della Germania. Disse: «Forse ci
distrugge- I ranno, ma in tal caso trascineremo con noi il mondo, un mondo in
fiamme ». E si mise a canticchiare un tema da Il crepuscolo degli dèi di
Wagner.
Il fuoco ha molte valenze
simboliche: trasformazione, battesimo, iniziazione, calore, la conquista del
fuoco come inizio della cultura, la luce che illumina le tenebre. Per Hitler, le
potenzialità del fuoco erano circoscritte all'aspetto distruttivo, e il
bombardamento di Dresda rappresenta il momento culminante della discesa del
demone della morte sul popolo e sulla cultura che dalla sua chiamata si erano
lasciati infiammare.
Da giovane Hitler si faceva
chiamare Herr Wolf e costrinse anche la sorella ad assumere quel cognome.
Durante l'ultimo periodo, teneva nel bunker un cucciolo a cui aveva dato il
nome di Wolf e che curava personalmente, senza permettere a nessun altro di
toccarlo. Lo spirito-lupo aveva fatto la sua comparsa I quando Hitler,
ragazzino, si era inventato la derivazione del nome Adolf da A.thalwolf,
«nobile lupo». Il lupo ricorre nel nome che Hitler diede a tre dei suoi
quartieri generali: Wolfsschanze, Wolfsschlucht e Werwolf.
I suoi cani preferiti erano i wolfshunde, i cani lupo alsaziani.
«Chiamava le SS "il mio branco di lupi". Spesso fischiettava
soprappensiero la canzoncina Chi ha paura del lupo cattivo?»
Il potere archetipico di questa
identificazione con il lupo continua a influire sulla vita di ciascuno di noi.
E stato alla base della guerra fredda e della divisione dell'Europa in due
blocchi. I servizi segreti americani, infatti, si erano convinti che Hitler si
sarebbe asserragliato in un fortino sulle montagne della Baviera con un folto
gruppo dei suoi «lupi mannari» e una riserva di gas tossici e di armi segrete,
pronto a iniziare azioni di guerriglia, in cui avrebbe usato gli antichi
simboli runici del lupo per segnare le case su cui compiere la sua vendetta. Di
conseguenza, il generale Bradley spostò le truppe americane verso Sud, verso la
Baviera e l'Austria, lasciando che fosse Stalin, con sua stessa meraviglia, a
entrare a Berlino.
Senza voler condannare il lupo come
animale e senza dimenticare le virtù materne della lupa come nutrice e
protettrice di bambini smarriti, si potrebbe citare una lunga tradizione che,
in culture diversissime e lontane tra loro, non soltanto e non principalmente
di area germanica, colloca il lupo tra i feroci demoni di morte.
Hitler si faceva spesso il
clistere; era continuamente afflitto da flatulenza; aveva idee ossessive circa
i contatti fisici, le diete, la digestione e l'igiene personale. Si hanno
inoltre prove attendibili che il suo piacere sessuale comportasse l'essere
lordato dalle sue partner.
Di nuovo, associazioni con il
demoniaco: secondo una diffusa credenza, il diavolo sceglierebbe l'ano come sua
localizzazione particolare nel corpo umano, di qui la sodomia come peccato, la
pulizia come prossima alla santità, i miasmi sulfurei come odore dell'inferno e
i diavoli con la faccia riprodotta sul posteriore delle sculture lignee
medioevali. La prescrizione di purghe violente in medicina aveva una componente
teologica: serviva a ripulire dalle cose cattive. E il Marchese de Sade,
quell'Anticristo delle pratiche sessuali e altra faccia dell'amore cristiano,
concentrava le sue fantasie prevalentemente sull'erotismo anale. Le punizioni
corporali dirette alle natiche, dagli sculaccioni alle frustate, alla
marchiatura, all'impalatura e ad altre terribili torture comminate dai
cristiani a peccatori e malfattori, potevano essere giustificate come attacchi
sferrati al demonio nella sua tana dentro il corpo.
Vediamo, dunque, come sia ampia e
profonda la fantasia dell'analità; l'analità non è soltanto una fase evolutiva
del carattere di Hitler che ne spiega la rigidità e il sadismo. Se l'ano è la
zona erogena che alberga gli spiriti maligni, allora l'ossessione anale non
esprime semplicemente una fissazione sul controllo degli sfinteri, ma serve a
mantenere costantemente presente il demoniaco, con il dare al suo luogo
simbolico l'attenzione rituale che esso richiede.
Sei delle donne con le quali
risulta da fonte attendibile che Hitler abbia avuto una relazione o un legame o
un « amore» (e non è che in tutto fossero molte di più) si suicidarono o
tentarono il suicidio. Tra queste, Mimi Reiter, una ragazza molto giovane, di
cui Hitler si era invaghito a trentasette anni e che tentò di impiccarsi quando
lui da un momento all'altro la lasciò, e Geli Raubal, sua nipote, «l'amore
della sua vita». Eva Braun si era sparata un colpo al cuore nel 1932, ma
sopravvisse fino a morire con lui nel bunker secondo il loro patto suicida.
Da una prospettiva psicologica
tradizionale, possiamo teorizzare che Hitler era attratto da donne
psichicamente instabili, il che spiegherebbe il loro impulso autodistruttivo.
Si potrebbe anche teorizzare che le inclinazioni sessuali disfunzionali di
Hitler, con la probabile coprofilia, producessero in queste donne un tale
disgusto e odio per se stesse da preferire «la morte al disonore». O, invece,
possiamo usare l'immaginazione in modo più demonico e chiederci se l'intimità
con il lupo, con il fuoco dell'inferno e il cuore di ghiaccio' non renda
impossibile continuare a vivere. Che quelle donne avessero intuito di avere
amato un demonio?
Nell'atmosfera circense del Terzo
Reich, fatta di uniformi, parate militari, cerimonie e gestualità bizzarra
(passo dell'oca, saluto a braccio teso), non potevano mancare i fenomeni da
baraccone. L'autista personale di Hitler era così basso di statura che si
dovevano inserire zeppe sotto il sedile perché potesse arrivare al volante.
L'uomo che rimpiazzò Ernst Ròhm, che era stato fatto assassinare, come capo di
Stato maggiore delle SA era senza un occhio; Joseph Goebbels aveva il piede
caprino; il fotografo ufficiale del regime era gobbo e alcolizzato; Max Amann,
capo dell'ufficio stampa del Fùhrer, e il suo primo tesoriere erano privi di un
braccio, e Amann era inoltre una specie di nano; l'assistente del capo
dell'ufficio stampa era completamente sordo. Martin Bormann era alcolizzato,
Rudolf Hess paranoico, Hermann Göring morfinomane; Robert Ley, capo del Fronte
del lavoro, aveva un difetto di pronuncia.
L'Europa degli anni Venti e Trenta,
per effetto della Grande Guerra, era piena di gente sfigurata, di storpi e di
ciechi che mendicavano nelle piazze e agli angoli delle strade. L'arte
espressionista, la satira dei cabaret, la vita notturna dei bordelli esponevano
il deforme in piena vista. Con tutto ciò, l'entourage
di Hitler esibiva nelle sue alte sfere una concentrazione di aborti di natura
piuttosto insolita, e questo mentre altri portatori di difetti fisici venivano
sistematicamente eliminati nei campi di sterminio.
Ma forse la cosa non era così
insolita, giacché la storia della demonologia insegna che la figura semiumana
rappresenta l'inumano che minaccia il mondo della normalità, come, nei film e
nelle fantasie, il pirata con un occhio solo e l'uncino al posto della mano,
l'inseguitore zoppo, il nano, il gobbo. I due film preferiti da Hitler, che se
li faceva continuamente proiettare, avevano per protagonisti esseri deformi;
erano King Kong e Biancaneve e i sette nani.
E una meritoria conquista dello
spirito democratico americano l'avere giuridicamente integrato nella società i
disabili, sostenendone con vigore i diritti. L'integrazione del «mostro» non
solo arricchisce la società e dà risonanza a un gesto di pietas. Costituisce
anche un tentativo di togliere una maledizione simbolica dal capo delle persone
fisicamente menomate e inabili dove in molte culture esse sono ancora
portatrici della fantasia dì un mondo infero sinistro e demoniaco.
mancanza di senso dell'umorismo
Circo, uniformi, teatro, cortei
storici ma commedia mai. «Hitler non aveva il minimo senso dell'umorismo» disse
Albert Speer, il suo architetto e ministro degli Armamenti. Un'impiegata che
lavorava quotidianamente con lui disse: «Devo ammettere di non averlo mai visto
ridere di cuore», e un compagno di gioventù riferì: «Mancava totalmente di
autoironia ... Era incapace ... di passare sopra alle cose con un sorriso». Nelle
visite alle truppe al fronte, «non rideva né scherzava mai». Aveva il terrore
che si ridesse di lui; non pronunciava mai frasi scherzose che alludessero alla
persona e proibì simili allusioni in sua presenza.
Il diavolo può impersonare la
figura del Briccone, dire arguzie, fare il buffone, danzare la giga, giocare burle,
ma l'umiltà terragna dell'umorismo gli è totalmente estranea. L'umorismo, come
indica la parola, stessa, inumìdisce e ammorbidisce, conferendo alla vita un tocco
ordinario; poiché incoraggia l'autoriflessione e prende le distanze dal senso
di importanza personale, l'umorismo è fumo negli occhi per il delìrio di grandezza.
In quanto ci pone su un gradino più basso, è essenziale per crescere cioè
discendere. La risata che dà riconoscimento alla nostra assurdità di comparse
nella commedia umana è altrettanto efficace per scacciare il diavolo dell'aglio
e della croce per scacciare i vampiri. Lo aveva capito Chaplin, che nel suo
film n grande dittatore non si limita a ridicolizzare Hitler, ma rivela
l'assurdità la trivialità e la tragicità dell'inflazione demonica.
caratteristiche
generali del demoniaco
Voglio presentare ulteriori prove
della presenza del demoniaco in Hitler, per meglio mostrare come opera il
Cattivo Seme e come lo si può riconoscere.
August Kubizek, suo compagno di
scuola, disse che sua madre trovava inquietanti gli occhi di Hitler: azzurro
slavato ma sorprendentemente intensi, e privi di ciglia. Un professore di
Hitler li descrisse come «luccicanti». Kubizek dichiarò inoltre: «Se mi si
chiedesse dove, in gioventù, si potevano percepire le qualità fuori della norma
di quell'uomo, risponderei senza esitare: "Negli occhi"». Dal canto
suo, Hitler trovava di avere ereditato gli occhi della madre, che «a loro volta
gli ricordavano quelli di Medusa» nei quadri del suo pittore preferito, Franz
von Stuck. Si esercitava a lanciare «occhiate penetranti davanti allo specchio»
e gli piaceva fare «a chi abbassa per primo gli occhi» . Gli scrisse da vecchio
Houston Chamberlain, lo scrittore razzista genero di Wagner: «È come se i Suoi
occhi fossero dotati di mani, perché ti afferrano e ti tengono stretto .. , Lei
ha trasformato in un colpo solo la condizione della mia anima».
Verso il 1909, Hitler incontrò uno
dei suoi mentori, Georg Lanz, un antisemita delirante e prolifico che aveva
scritto trattati magicheggianti con titoli tipo: «Teozoologia, ovvero racconti
degli uomini-scimmia di Sodoma», e «I pericoli dell'emancipazione femminile e
la necessità di una virile etica del padrone », A Lanz si deve anche la
seguente osservazione: «La più importante e decisiva forza erotica per i popoli
delle razze superiori è l'occhio ... L'erotismo eroico è amore con gli
occhi»." E uno dei molti che furono catturati dall'« erotismo eroico» di
Hitler raccontò: «Ci guardammo negli occhi, e io provai un unico desiderio:
tomarmene a casa e restarmene solo con quella travolgente esperienza ».
Quando il drammaturgo tedesco
Gerhart Hauptmann ebbe finalmente l'occasione di conoscere Hitler, «il Fùhrer
gli strinse la mano e lo guardò negli occhi. Era il famoso sguardo che fa
tremare tutti ... In seguito Hauptmann riferì ai suoi amici: "È stato il
momento più grandioso della mia vìta!».
Se gli occhi sono lo specchio
dell'anima, come sostiene la tradizione, dobbiamo dedurne che il potere'
magnetico degli occhi di Hitler venisse dallo sguardo i del demonio? Che i suoi
occhi rivelassero il vuoto di dentro, l'abisso di ghiaccio, l'assenza totale di
anima? Benché nessuno possa rispondere a queste domande, di sicuro non possiamo
attribuire la stranezza di quegli occhi al condizionamento ambientale; e anche
se il loro colore è geneticamente determinato, il loro potere paralizzante,
come quello di Medusa, davvero può essere riconducibile ai cromosomi?
Come abbiamo osservato in molte biografie,
la pressante certezza conferita dalla ghianda sembra porre la vita del suo
portatore nelle mani di una potenza superiore. «Seguo la strada che la
Provvidenza mi detta con l'assoluta sicurezza di un sonnambulo» ebbe a dire
Hitler in un discorso del 1936. Sentirsi l'eletto, un predestinato, diverso da
tutti. In trincea, per tutta la durata della Grande Guerra (dove ricevette
l'unica ferita nella carne, e subì una lieve intossicazione da gas, con effetti
quasi esclusivamente sugli occhi) , i commilitoni lo consideravano una «mosca
bianca», un tipo isolato e inaccessibile, come se ci fosse un incantesimo su di
lui. «Il suo reggimento partecipò a trentasei grandi battaglie ... Per oltre
mille giorni, Hitler visse circondato dalla morte e il modo in cui la evitò
sempre aveva dell'arcano ». «In tutte le occasioni, Hitler sembrava corteggiare
la morte, ma i proiettili si portavano via il compagno, lasciando lui senza una
scalfittura. Dopo un attacco particolarmente violento, che lasciò il suo
reggimento decimato, un soldato esclamò, rivolto a Hitler: «Mensch; für dich gibt es keinen Kugel
(Amico, non dev' esserci nessuna pallottola con il tuo nome sopra)». Durante il
fallito «putsch della birreria» del '23, la sua guardia del corpo gli si buttò
davanti prendendosi la mezza dozzina di pallottole destinate a lui». Il
coraggioso attentato del luglio 1944, pur così accuratamente pianificato,
fallì; Hitler si salvò quasi per caso, grazie all'intervento della sicura
difettosa di una bomba a mano e di una robusta gamba di tavolo.
In una occasione, tuttavia, la
fortuna gli venne meno. Aveva diciassette anni, aveva comperato un biglietto
della lotteria e fatto grandi progetti su come utilizzare la vincita. Ma non
vinse ed ebbe una crisi di rabbia furibonda: la «provvidenza», o Moira o Dea
bendata, in cui riponeva una fede assoluta, l'aveva tradito. Moira, come
ricorderete, è uno dei nomi del daimon personale.
Hitler stesso parlava di dee del
fato, del destino e della storia. Mein
Kampf, lo scritto in cui espose la sua visione, si apre con la sua
personale versione del mito platonico: il suo luogo di nascita, Braunau, in
Austria, era stato scelto dal fato per il suo ingresso nel mondo.
Mosso dal suo senso di un destino
speciale, Hitler si arrogò il diritto di sconfinare in stato sonnambolico fuori
dal mondo umano. Fuori dal mondo umano significa anche in un mondo
trascendente, là dove abitano gli dèi. La certezza di essere chiamato gli
confermava inoltre il senso di essere sempre nel giusto, e tale assoluta
convinzione convinse a sua volta la nazione tedesca, spingendola sempre più
avanti nei suoi errori. Assoluta certezza, convinzione assoluta: ecco altri
segni del demoniaco.
Già all'età di sette anni, Hitler
«era imperioso e facile alla collera e non dava ascolto a nessuno» disse il suo
fratellastro Alois; da adulto non avrebbe dato ascolto ai suoi generali."
Così come a nessuna donna; perché Hitler ascoltava soltanto il suo daimon, suo unico compagno. Incominciamo
a vedere, qui, l'opera corruttrice del potere, via via che il sussurro che
guida diventa una voce demoniaca che copre tutte le altre. Il seme possiede
dall'inizio una conoscenza sicura e misteriosa. Ma dove un dio è onnisciente,
l'essere umano diventa saccente; perciò Hitler non aveva bisogno di scambi con
gli altri. Non c'era niente che gli altri potessero insegnargli.
Per dimostrare quella onniscienza,
Hitler memorizzava una massa incredibile di dati: localizzazione di reggimenti
e scorte, dislocazione e armamento delle navi, tipo di veicoli; e li usava per
sopraffare gli interlocutori e mettere in difficoltà i suoi ufficiali. La
conoscenza di tutti quei dati «dimostrava» la sua onniscienza, e copriva la
mancanza di pensieri e di riflessione e l'incapacità di sostenere un dialogo.
Il demoniaco non si lascia coinvolgere; soffoca sotto i particolari e il gergo
ogni possibilità di approfondimento.
La nostra democrazia dovrebbe
imparare dalla lezione di Hitler, perché esiste il rischio che si possa
eleggere un giorno al potere il vincitore di qualche Superquiz televisivo e che
si educhino i nostri figli a credere che le autostrade dell'informazione siano
la via della conoscenza. Se uno degli indizi della psicopatia è la mente banale
che si esprime con frasi altisonanti, allora stiamo attenti, perché
un'educazione che privilegia i fatti invece del pensiero e «valori»,
nazionalistici o confessionali, «politicamente corretti» invece del giudizio
critico può produrre una nazione di primi della classe che sono anche
psicopatici.
La sua trascendenza situa il daimon fuori dal tempo; e nel tempo il
daimon può entrare soltanto calandosi dentro il mondo. Per cogliere la
biografia del daimon a partire dalla cronologia di una vita umana, è necessario
leggere quella vita a ritroso mediante l'intuizione (si veda il capitolo IV).
L'i,ntuizione vede le cose tutte in una volta, come una Gestalt, mentre il
tempo inanella le cose in una catena di eventi che si succedono l'un l'altro
verso la linea del traguardo. Ma i progetti e il potere di Hitler non si sono
sviluppati via via nel tempo: erano già presenti durante l'infanzia, così come
era già presente la sua morte fra le rovine wagneriane.
Hitler stesso si sentiva
intrappolato dal tempo. Ripeteva sovente: «Mi manca il tempo», «Il tempo ...
lavora contro di noi». Non portava orologio al polso e le rare volte in cui ne
aveva uno da taschino trascurava di dargli la carica. Negava la divisione dei
giorni in luce e tenebra, tirando le tende di giorno e tenendo accesa la luce
tutta la notte. Il regno che voleva edificare sulla terra sarebbe durato mille
anni, diceva, e le figure con le quali si identificava appartenevano ad altre
epoche: Federico il Grande, Bismarck, Cristo. L'insonnia era uno dei suoi
sintomi più vistosi.
Per il disegno iscritto nel seme
tutto è presente nello stesso momento e spinge verso un articolarsi simultaneo.
Voglio tutto, tutto e subito, perché io lo sento e lo vedo tutto in una volta.
Questa è una forma di percezione trascendente, appropriata a un Dio
onnipresente. Come spiegò il vecchio rabbino: «Dio creò il tempo affinché le
cose non dovessero accadere tutte in una volta». Il tempo rallenta la vita; gli
eventi si dispiegano uno per volta, e noi, che aderiamo a una coscienza
condizionata dal tempo, crediamo che ciascuno di essi causi il successivo. Ma
per il daimon il tempo non può causare niente che non sia già presente
nell'immagine globale. Il tempo può solo rallentare e frenare la realizzazione,
favorendo così la nostra discesa, cioè la nostra crescita.
L'atemporalità della ghianda, con
la sua spinta a far succedere tutto subito, rimanda alla possessione da parte
del daimon, un daimon sul punto di diventare demoniaco. Il saper assaporare
come ogni cosa abbia la sua stagione, il saper dare tempo e avere tempo e
metterci tempo sono atteggiamenti estranei al Cattivo Seme, il quale predica e
impone l'inflazione maniacale che non tollera interruzioni (Hitler che inventa
la guerra lampo, che dà in escandescenze di fronte al minimo impedimento) ed
esige impulsività e fretta. Dicevano gli alchimisti: «Nella tua pazienza è la
tua anima» e «La precipitazione viene dal demonio».
Concluderò con la testimonianza di
un'intrusione diretta del daimon,
forse del demonio stesso.
«Ho ricevuto la seguente
testimonianza da un uomo che viveva in stretto contatto quotidiano con Hitler,
È notte, Hitler si sveglia urlando istericamente ...
E scosso da brividi di paura che
fanno vibrare tutto il letto ... Sta in piedi tutto tremante in mezzo alla
stanza e lancia intorno occhiate di panico. "Era lui! Era lui! E stato
qui!" dice ansimando. Aveva le labbra blu, il sudore gli colava lungo la
faccia. Di colpo si mise a pronunciare una sequela di numeri e di strane parole
e frasi smozzicate completamente prive di senso. Faceva un'impressione
terribile. Usava costruzioni e locuzioni completamente estranee alla lingua
tedesca. Poi si irrigidì, solo le labbra si muovevano. Gli fu fatto un
massaggio e gli fu dato da bere. A un tratto scoppiò a dire: "Laggiù,
laggiù! Nell'angolo! Chi è quello?".
«Incominciò a pestare i piedi e a
strillare nel solito modo. Gli fu fatto vedere che non c'era niente di fuori
del comune nella stanza e lui a poco a poco si
calmò ».
Alice Miller, nel riferire questo
episodio, immagina che Hitler stia rivivendo nella fantasia i rapporti con un
padre punitivo. Questa prospettiva convenzionale riduce il demone che Hitler
vede a un padre evocato. La Miller è convinta che anche le battaglie (indiani o
boeri contro gli inglesi oppressori) che Hitler inscenava per gioco con i
compagni esprimessero il conflitto con il padre oppressore. Oltre a opporsi al
padre, Hitler si identificava anche inconsciamente con lui in quanto
oppressore; per Alice Miller, dunque, la forza I motivante, il demone
persecutore dell'incubo notturno di Hitler non era affatto un daimon, bensì
un'immagine paterna introiettata." Così la superstizione
parentale esorcizza il male!
Anche le interpretazioni del caso
di Charles Manson, una figura orrifica che ha occupato l'immaginazione
occidentale degli ultimi trent'anni come fece Jack lo Squartatore nel secolo
scorso, attribuiscono la colpa in primo luogo ai genitori. Nel caso di Manson,
il seme del male è localizzato nella madre, che lo avrebbe «venduto a una
cameriera di bar per una caraffa di birra». Manson stesso aveva raccontato
quell'episodio al suo biografo, per spiegare come mai «si sentiva sempre un
isolato ». La nostra è una psicologia pop, che non riesce a spingersi al di là
dei genitori e dello sviluppo per spiegare la solitudine originaria e gli
effetti isolanti della chiamata del daimon, in Hitler come in qualsiasi altro
assassino nato.
Mickey, l'assassino psicopatico
interpretato nel film di Oliver Stone da Woody Harrelson, lo dice a chiare
lettere: lui è un «natural born killer», dando in questo modo una spiegazione
delle sue azioni e il titolo al film. Eppure Quentin Tarantino, autore della
sceneggiatura, e il regista, Oliver Stone, sembrano incapaci di trarre sino in
fondo le conseguenze della loro intuizione. Rendono omaggio a trite eritrite
«ragioni» psicologiche con flashback su scene di violenza sessuale. Questi
inserti marginali non solo propongono lo psicopatico a sua volta come vittima,
ma rendono confusa l'importante intuizione del film. Le vere ragioni di quel
«comportamento insensato» sono date dai temi di fondo del film in una triplice
combinazione di motivazioni irresistibili: il modo come in America l'esperienza
amorosa è vissuta inflazionisticamente con effetti isolanti e antisociali, la
delirante trascendenza del successo mediatico e, infine, l'innato Cattivo Seme,
che chiama a uccidere.
Quest'ultimo fattore si manifesta
in modo forse più trasparente che in altri nel caso di Mary Bell, una bambina
inglese di dieci anni, di Newcastle, che nel 1968 strangolò a due mesi di
distanza l'uno dall'altro i piccoli Martin, quattro anni, e Brian, tre anni.
Gitta Sereny analizzò in profondità i primi mesi di vita della bambina con una
madre schizoide estremamente distruttiva, che non l'aveva voluta e non la
voleva, e che anzi cercò ripetutamente di liberarsi di lei; sicché, nella
ricostruzione della Sereny, i due bambini assassinati diventano le vittime
dello stesso assassinio dell'anima di Mary Bell perpetrato dalla madre. La
disumanità I nasce da cure materne disumane. Il libro della Sereny vorrebbe
contribuire a una società migliore, liberando il campo dalla teoria della
ghianda: «Possibile che non si sia ancora andati oltre la mentalità che chiama
mostri i bambini malati e crede nel male innato?».
Vi sono tuttavia episodi, nella
prima infanzia di Mary Bell, che possono essere letti come indizi di un arcano
destino. Gli altri bambini avevano antipatia per lei e la tenevano a distanza:
«Nessuno vuole giocare con me », Le maestre delle elementari la giudicavano
furba, insolente e poco spontanea; raccontava frottole a getto continuo ed era
difficile nelle sue storie distinguere tra verità e bugie. Sul banco dei
testimoni, «suscitò un'automatica e inspiegabile repulsione, non solo nelle
persone che avevano a che fare con lei, ma anche in molti degli spettatori».
C'era qualcosa in lei che respingeva il contatto umano.
Questo le succedeva già da
piccolissima. Disse la sorella di suo padre, alla quale era stata affidata per
un certo periodo: «Era ancora in fasce, ma non si lasciava quasi toccare. Non
si poteva tenerla in braccio, baciarla; ed è sempre stata così, subito girava
la testa dall'altra parte». La Sereny stessa osserva che, come anche per la
madre, «c'era grande disponibilità di amore intorno a loro, ma né Mary né la
madre sembravano capaci di accettarlo».
E poi c'è l'attrazione per la
morte. In quattro diverse occasioni, prima dei quattro anni, Mary fu lì lì per
morire per avere ingerito del veleno e dei farmaci e per una caduta quasi
mortale dalla finestra. Quelle morti sfiorate erano forse opera della ghianda,
che già sapeva che non sarebbe dovuta entrare nel mondo? Una volta, dalla
nonna, «una donna molto responsabile», Mary (che non aveva ancora un anno d'età!)
si impossessò di certe medicine, e «per riuscirci dovette innanzitutto trovare
il ferro da calza [che serviva ad aprire il nascondiglio], arrampicarsi fino al
grammofono [il nascondiglio], aprirlo, scovare il flacone ben nascosto, svitare
il coperchio, togliere e inghiottire un numero di minuscole pillole dal cattivo
sapore sufficiente a riuscirle quasi fatale».
Venendo agli omicidi: «Concetti
come "morte", "assassinio", "uccisione" per Mary
avevano una connotazione diversa dalla nostra ... Per lei era stato tutto un
gioco ».
Con Mary BelI entriamo direttamente
nel rompicapo delle cause. Gitta Sereny è evidentemente convinta che, se la
madre avesse ricevuto le opportune cure psichiatriche, se a scuola ci fosse
stato un servizio psicologico efficiente, e in condizioni socìoeconomiche non
così deplorevoli, Brian e Martin non sarebbero stati assassinati.
Alice Miller concorderebbe con la
valutazione della Sereny; lo dichiara esplicitamente: «I comportamenti assurdi
affondano sempre le loro radici nella prima infanzia» e «Hitler di fatto
trasferì il trauma della sua vitafamiliare sull'intera nazione tedesca». Le fa
eco la «psicostoria» di Helm Stierlin, Adolf
Hitler. A Family Perspective, da cui si ricava l'impressione che l'intero
corso della storia mondiale sarebbe potuto essere modificato con un tempestivo
intervento terapeutico su quell'anonima famigliola austriaca. Venti milioni di
caduti in Russia e sei milioni di ebrei sterminati, per non parlare delle
vittime negli altri paesi nonché dei soldati tedeschi stessi, «causati» dalle
percosse ricevute dal piccolo Adolf e da ciò che sua madre aveva fatto o non
fatto!
Naturalmente dei punti di verità ci
sono, nelle tesi della Sereny e della Miller; tuttavia, rimane sempre la
domanda: Non si daranno anche fattori genetici, fattori ereditari, in questi e
in altri casi di criminali psicopatici? E possibile che certe persone siano
demòni per natura e inaccessibili ai sentimenti umani? Prospero, con il tono di
un terapeuta frustrato, dice di Calibano: « Un demonio, un demonio nato, sulla
cui natura / la cultura mai potrà fare presa; con lui le pene, / che per un
senso di umanità mi sono dato, sono andate tutte sprecate, tuttel » (La tempesta, IV, I, 189). Allora, quando
leggiamo della strana freddezza di Mary e di Hitler, di quell'impulso verso la
morte, abbiamo l'impressione che debba esserci qualcos'altro, al di là
dell'educazione e dell'eventuale ereditarietà, una qualche lacuna nella loro
anima, o addirittura una mancanza di anima.
Perciò adesso esporremo gli otto
più importanti modelli interpretativi usati per spiegare il Cattivo Seme.
Benché io li elenchi separatamente quasi in contrapposizione, non occorre dire
che essi si integrano a vicenda; ciascuno aggiunge ipotesi a ognuno degli altri
e nessuno, singolarmente, può pretendere di proporsi come l'unica verità.
Quella certa rigidità espositiva
che forse si noterà in questo capitolo dipende probabilmente dal materiale
trattato, la figura di Hitler. L'immagine è talmente tossica, talmente
esplosiva da richiedere di essere maneggiata con cautela. Ciascuna prova,
ciascuna accusa va numerata e contrassegnata separatamente. Ecco forse il
perché dei metodi faticosi, ossessivi usati in casi del genere,
dall'Inquisizione ai processi a Adolf Eichmann in Israele, a Klaus Barbie in
Francia e naturalmente nel processo di Norimberga. La minuziosità e la
pignoleria della ragione è una difesa contro la forza demoniaca a cui si
applica. Dunque, immaginiamo che sotto processo sia il Cattivo Seme stesso e
che gli otto modelli interpretativi delineati di seguito costituiscano
l'esposizione preliminare delle tesi della difesa.
condizionamento
dovuto a traumi infantili
Sei diventato quello che sei a
causa dell'ambiente violento, brutalizzante e privo di cure affettuose dei
primi mesi e dei primi anni di vita. Forse hai anche sofferto di complicazioni
perinatali, di denutrizione, di lesioni cerebrali precoci. Eri un figlio
indesiderato, sei dovuto sopravvivere già alla nascita in un clima di crudeltà
e di violenza. I messaggi che ricevevi erano contraddittori (doppio legame),
negavano la realtà dei fatti; eri in balia degli umori imprevedibili e dei
capricci arbitrari degli adulti. Ogni istante della tua vita sarebbe potuto
essere l'ultimo; inerme di fronte a un potere assoluto, derubato di ogni
dignità, hai acquisito uno schema di comportamento che, instauratosi
precocemente, è diventato continuativo e progressivo. Di male in peggio.
Sei portatore di una struttura
fisiologica disfunzionale: troppo testosterone; serotonina insufficiente;
squilibri ormonali; elettroencefalogramma irregolare; insensibilità autonomica;
anomalie geniche. L'idea delle tare ereditarie come determinanti del
comportamento ha avuto grande peso soprattutto nella psichiatria ottocentesca.
Alla base c'erano gli studi longitudinali di famiglie lungo diverse
generazioni, indicanti la presenza di segni di degenerazione nella forma delle
orecchie e nelle linee delle mani. I testi di psichiatria si presentavano come
una sorta di schedario della polizia con grotteschi individui «degenerati», la
cui «sostanza» aveva perduto vitalità a causa dei nonni ubriaconi o dediti a
pratiche sessuali innaturali. Il criminale psicopatico era l'effetto di forze
biofisiche e nasceva, come peraltro anche i geni e gli artisti, con una
dotazione fisiologica fortemente influenzata dalla libido sessuale." Tale condizione
è sostanzialmente immodificabile se non attraverso mezzi fisici, il che
giustifica «trattamenti» come la reclusione a vita in apposite istituzioni per
«pazzi criminali», la castrazione, l'elettroshock, la lobotomia e, sotto il
regime nazista, la vivisezione e lo sterminio. Oggi invece, il modello
fisiologico prescrive, con maggiore sottigliezza, tutto un armamentario
farmacologico capace di domare il comportamento: tante belle pilloline
colorate.
Benché la natura biologica e il
condizionamento sociale possano avere posto le basi del tuo comportamento
criminale, il fattore scatenante decisivo è il cosiddetto «gruppo dei pari»,
specialmente dall'inizio della pubertà a tutta la nostra lunga adolescenza. Le
abitudini della strada, il codice della banda, le leggi non scritte del
carcere, l'indottrinamento militare delle forze speciali, l'ideologia dei
vigilantes, il recinto del campo di concentramento, l'omertà delle «famiglie»
mafiose: le convenzioni del gruppo con il quale ti identifichi determinano il
sistema di valori che modella lo stile del tuo comportamento. Lo stile viene
interiorizzato e va a costituire una riserva di reazioni violente alla quale
attingi in situazioni in cui ti senti minacciato, come i marines nel villaggio
vietnamita di My Lai o qui, sotto casa, se qualcuno «vuole pestarti i piedi».
Criminalità e violenza fanno parte del costume di certi gruppi, come le ronde
di strada che prelusero alle SA di Hitler, mentre incendi, saccheggi e stupri
fanno parte del costume degli eserciti vittoriosi dopo la battaglia. Questi
comportamenti sono relativamente indipendenti da fattori fisiologici e dal
condizionamento ambientale infantile. Gruppo che vai, usanza (violenta) che
trovi - e che segui.
Un biografo di Al Capone, lo
spietato capo della malavita di Chicago, spiega la vocazione criminale del suo
soggetto al solito modo, richiamandosi all'infanzia a Brook1yn e ai costumi del
gruppo.
«Quale ragazzino si sarebbe fermato
un minuto più del necessario in un posto dove otto, dieci, dodici persone
mangiavano e dormivano, si lavavano e si vestivano in un paio di stanze umide e
squallide, con la puzza di escrementi proveniente dalle tubature marce che
riempiva gli androni e i topi che banchettavano nella spazzatura scaraventata
in cortile dalle finestre; dove o ti congelavi o morivi di caldo; dove gli
adulti, per la miseria e l'impotenza, non facevano che lanciarsi insulti e
urlarti dietro e ti riempivano di botte alla minima provocazione?
«La banda di strada era la salvezza
... Nella strada, i ragazzi si creavano la loro società indipendente dal mon~o
degli adulti e antagonistica a esso. Sotto la guida dì qualche ragazzo più
grande e più forte, inseguivano l'eccitazione di avventure condivise, degli
scherzi violenti, dell'esplorazione, del gioco d'azzardo, dei piccoli furti,
del vandalismo, della sigaretta o della sniffata o della sbronza di nascosto,
dei riti segreti, del turpiloquio e della pornografia, delle battaglie contro
bande rivali».
Ciò che fai è una tua scelta ed è
condizionato a ogni passo dalle tue scelte. Il fatto che esse siano a loro
volta condizionate dalla fisiologia, dall'educazione infantile, dai costumi del
gruppo durante l'adolescenza, non è realmente determinante per l'analisi dei
costi e dei benefici che intraprendi a ogni tua mossa criminosa. E chiaro che
devi trovarci il tuo tornaconto ", La scala dei pesi è elementare: il
rapporto dolore./piacere, proposto da Jeremy Bentham con il suo calcolo
utilitaristico dell'agire umano, e ripreso ancora di recente nel concetto di
punizione/ricompensa di James Q. Wilson e Richard Herrnstein. Se per il tuo
tipo di personalità la ricompensa che trai dalla violenza impulsiva o
dall'uccisione premeditata supera in valore la punizione prevista, ti ci butti,
automaticamente, meccanicisticamente. Non solo, se ciascuna scelta incontra
cumulativamente il successo, come è accaduto a Hitler per un intero decennio, allora
quei successi rinforzeranno in te la convinzione di essere sulla strada giusta
e di avere il destino dalla tua parte.
In questa vita si realizza una
porzione della tua vita precedente. La tara ereditaria sarà anche iscritta nei
tuoi cromosomi, ma a mettercela è stato il karma. Il Cattivo Seme è il riflesso
di qualcosa che devi patire personalmente e anche di .qu~cosa che ~ttiene alla
storia del mondo, al suo Zeitgezst. Che tu ti metta con la banda di ladruncoli
di Fagin o che venga iniziato alla setta dei Thughs in India o che il tuo corpo
sia predisposto a produrre reazioni fisiologiche anomale, tutto questo è il tuo
karma, risultante ~alle precede~ti incarnazioni. Siamo di fronte a un mistero
metafìsico che la ragione umana è troppo limitata per afferr~re: anche il più
cattivo dei Cattivi Semi fa parte del dI~ segno universale dello Zeitgeist. Il
karma personale di Hitler rientra in un progetto cosmico.
Indipendentemente dai fattori
biologico e ambientale, la propensione psicologica a distruggere esiste m tutti
gli esseri umani. Violenza, criminalità, omicidio, crudeltà appartengono
all'anima umana come sua ombra. La Bibbia rende il dovuto rispetto all'Ombra
con la proibizione diretta, in cinque dei Dieci comandamenti, del furto,
dell'omìcidio, dell'adulterio, della menzogna e dell'invidia. E stato a causa
di tali tendenze universali, latenti in ciascuno di noi, come protezione contro
di esse, che sono sorte le varie forme societarie, le organizzazioni politiche,
i freni della morale. Se l'anima umana non avesse un'ombra, che bisogno avremmo
di avvocati, criminologi e confessori. L'autonomia dell'ombra puo erompere m
qualsiasi momento, come Mr. Hyde dal dottor Jekyll, oppure emergere
gradualmente in condizioni estreme, come racconta Il signore delle mosche.
L'assassino nato è umano, troppo umano. Poiché gli esseri umani hanno ombre le
cui profondità attingono allivello collettivo do: ve si annida l'assassino, il
comportamento umano e mosso da questa forza archetipica. Hitler conosceva bene
l'Ombra, la assecondava, ne era ossessionato e voleva epurare il mondo da essa;
ma non poteva riconoscerla dentro di sé, ne vedeva solo la forma proiettata,
come ebrei, zingari, intellettuali, stranieri, deboli e malati.
Un qualche tratto umano
fondamentale è assente.
C'è un buco nel tuo carattere, nel
tuo inventario di personalità. I tuoi delitti non sono dovuti tanto alla
presenza dell'Ombra (tutti, infatti, siamo sottoposti a quell'archetipo
universale), quanto a una precisa assenza, la mancanza di sentimento umano.
Adolf Guggenbühl-Craig chiama eros
tale ingrediente essenziale mancante. La teologia cattolica chiama l'assenza privatio boni, mancanza di bontà; come
si dice colloquialmente: «Quel ragazzo è un poco di buono».
L'assenza può essere riempita da
altri tratti: impulsività (una miccia troppo corta), miopia (la gratificazione
immediata sembra più importante delle conseguenze a lungo termine), rigidità
ripetitive, povertà emotiva, intelligenza rattrappita, inaccessibilità al senso
di colpa e al rimorso (non attaccano, come il cibo ai tegami di Teflon),
meccanismi di proiezione e di negazione. Ma più importante, e più fondamentale
è quella lacuna erotica, quella fredda assenza, quell'incapacità a intenerirsi
e a immedesimarsi in un'altra creatura vivente.
Il serial killer Dennis Nilsen, che
tiene nel suo letto i ragazzi uccisi per dormirci, per coccolarli e farci
l'amore, e ]effrey Dahmer, che mangia le carni dei ragazzi che ha rimorchiato e
ucciso, assomigliano alle figure demoniache del mondo infero rappresentato nell'arte
cristiana, tibetana o giapponese. Forse stanno cercando il modo di uscire
dall'esilio nel loro vuoto, di ritornare a una comune umanità. La componente
sessuale dei loro delitti non è la causa, bensì un sintomo, il tentativo di
accendere un fuoco spento, di stimolare una forza di vita, di toccare, di
unire, di avere un rapporto con la carne umana.
Esiste una vocazione che è
ineludibilmente tua. In quale rapporto essa sia con le vite passate, con il
corpo attuale, o con il divenire dello Zeitgeist nella storia, non è a tua
conoscenza e nemmeno ha interesse per la nostra ricerca. La chiamata offre la trascendenza;
che ti diventa assolutamente necessaria per la vita su questa terra, come lo
erano le luci della ribalta per Judy Garland, il campo di battaglia per il
generale Patton, la pittura per Picasso. Come le potenzialità per l'arte e per
il pensiero sono date con la ghianda, così è anche delle potenzialità per il
delitto demoniaco.
«… la gente non capisce... A noi
gente di vita non ci frega niente di villette con il loro giardino e l'erba
tosata e stronzate del genere. Noi siamo gente di spettacolo. La bella gente.
Come arrivare sul set con la macchina più bella, avere le donne più belle, i
vini migliori. Senti la gente che parla di te. Come entri in un locale, senti
che si fa il silenzio. Fai esistere una cosa dal niente».
La trasgressione come trascendenza;
innalzato al di sopra della tua situazione, pieno di potere o di fascino, e in
contatto con l'origine trascendente dell'urgenza che ti chiama.
Nell'ultima scena dell' Otello,
quando si rivela come sia stato lago la causa malvagia di molte morti e il
corruttore del suo carattere nobile e ingenuo, Otello domanda: «Perché questo
demonio mi ha irretito l'anima e il corpo?», Shakespeare fa rispondere così a
lago: «Non chiedermi nulla; quel che sai, sai». Queste sono le ultime parole di
lago, che lasciano i commentatori nel dubbio circa le sue motivazioni. Eppure
non c'è niente di enigmatico nell'affermazione di questo che è tra i più
malvagi personaggi shakespeariani. Iago sta dicendo, in sostanza: «Lo sai già,
Otello. Per due volte, nelle battute precedenti, mi hai chiamato demonio », Iago
ha fatto esistere una tragedia dal niente: così, quasi per gioco.
Il Cattivo Seme trae piacere dalla
malvagità, dalla distruzione. Alla psichiatra che le chiedeva dell'assassinio
del piccolo Brian, Mary Bell disse: «Ho riso tanto quel giorno », L'unica
testimone, una ragazzina di quattordici anni, dichiarò: « Disse che le era
piaciutO».35 L'esecuzione in sé dell'atto demoniaco dà soddisfazione, una
gratificazione che, nei maschi postpuberi, può essere accompagnata da piacere
sessuale, ma questo non è un fattore determinante, non, per esempio, nel caso
di Mary Bell.
Il materialismo non sa spiegare
questa urgenza. Hitler non costruì una nazione fondata sull'assassinio per un
tornaconto economieo. Anzi, la spesa stanziata per le infrastrutture e la
gestione dei campi di sterminio, mentre stava perdendo la sua guerra, superava
di gran lunga il guadagno ottenuto con la confisca di beni e oro. Nemmeno la
povertà materiale costituisce una spiegazione sufficiente del Cattivo Seme,
ovvero, come lo chiama Jack Katz, da sociologo, della «pulsione verso la
devianza», anche se condizioni di vita oppressive possono certamente costituire
un importante fattore concomitante.
L'interpretazione di Katz poggia su
una serie di concetti filosofici (in parte mutuati dalla ricerca sul simbolismo
del male dell'epistemologo francese Paul Ricoeur), secondo i quali gli atti
«insensati» non sono semplicemente insani, ma acquistano senso, in quanto
colmano il divario tra l'umano e il divino. L'infrazione di tutti i
comandamenti ti libera dalle catene dell'umano, consentendo l'accesso a una
condizione trascendente, dove demonio e divinità sono indistinguibili.
Il misticismo radicale, quale si
esprime per esempio nelle messe nere, nel movimento ebraico del frankismo,
nell'antinomismo e nei culti satanici del cristianesimo e nelle pratiche
tantriche, spezza ritualisticamente i tabù che isolano il sacro nel recinto
della morale. L'elevazione del profano attraverso gli atti più profanatori
immaginabili aumenta la sua potenza fino a renderla indistinguibile dal sacro.
Gli omicidi psicopatici non sono
detti insensati solo perché sono a-razionali e arbitrari, perché la loro
motivazione è così oscura. Sono insensati perché presuppongono la «vertigine
della devianza», un tuffo o un'ascesa radicali per mezzo di un delitto che è
una trasformazione, un'«apoteosi». Katz lascia intendere che l'insensatezza ha
senso, se guardata dal suo lato oltremondano, non dalla persona che eri o sei,
ma da quella che potresti per suo mezzo diventare.
Tale sconvolgimento dei sensi è
presente durante l'atto. La conclusione di Brian Masters sull'assassino
psicopatico (si riferisce in particolare a Dennis Nilsen, che assassinò
quindici ragazzi adolescenti) è che, «nel momento dell'omicidio, la ragione
dell'assassino è obnubilata».
Jürgen Bartsch, il serial killer
tedesco che uccise alcuni bambini dopo averli torturati, dichiarò: «Da una
certa età in poi (verso i tredici, quattordici anni), ho sempre avuto la
sensazione di non possedere il controllo delle mie azioni ... Allora pregavo,
con la speranza che almeno questo servisse, invece non servì ». Quell'uomo si
rivolgeva all'intervento divino perché avvertiva che la causa era al di fuori
della sfera umana. Jeffrey Dahmer, che uccise a percosse una serie di
adolescenti facendoli a fette per poi mangiarne le carni, non sapeva dare
alcuna spiegazione del suo comportamento e decise di affrontare il processo,
anziché dichiararsi colpevole, appunto «per scoprire che cosa mi aveva fatto essere
così cattivo e malvagio ».
Nel corso del processo, nel 1992,
al padre, Lionel Dahmer, tornarono di colpo alla mente episodi e situazioni
della propria giovinezza molto simili a quelli riferiti dal figlio: il «gusto»
di dominare tutto e il desiderio di potere; esperimenti con materiali
distruttivi; distacco e freddezza emotiva; un tentativo di seduzione di una
bambina; e anche una serie di sogni ricorrenti, tra gli otto e i venti anni, in
cui commetteva orrendi omicidi. Al risveglio, il delitto sembrava reale:
«Oscillavo letteralmente tra fantasia e realtà, ero terrorizzato di averlo
fatto davvero. Mi sentivo smarrito, come se avessi perduto il controllo e in
quel momento avessi potuto commettere qualcosa di orribile ».
Lionel Dahmer si ritiene responsabile
per essere stato un cattivo padre, «elusivo e poco perspicace », E tuttavia
egli va oltre la superstizione parentale della Miller e di altri che incolpano
i genitori per i figli delinquenti. Questo padre mette in campo una componente
arcana. Si assume una sorta di participation mistique, un potenziale demoniaco
in comune con suo figlio. Lui pure conosceva la schiacciante realtà
dell'intervento demoniaco, del Cattivo Seme.
Il Cattivo Seme aveva manifestato
la sua violenza nel figlio già a quattro anni. La famiglia stava intagliando le
zucche per Halloween (la notte dedicata a rendere visibile l'invisibile
presenza in mezzo a noi di demòni, diavoli, streghe e morti). Mentre stavano
per scolpire un sorriso sulla zucca di]effrey, d'improvviso il bambino si mise
a strillare: «Voglio una faccia cattiva! », I genitori cercarono di convincerlo
ad accettare il sorriso, ma]effrey «incominciò a pestare pugni sul tavolo e a
urlare con veemenza: "No, voglio una faccia cattiva! "».
Quello che è forse, almeno numericamente,
il più feroce dei serial killer, Andrej Cikatilo, catturato nell'Ucraina
meridionale dopo che aveva ucciso una cinquantina di adolescenti, in
maggioranza ragazze, durante l'interrogatorio dichiarò: «Era come se qualcosa
me lo ordinasse, qualcosa fuori di me, qualcosa di soprannaturale. Non avevo il
controllo di me stesso quando commettevo quegli omicidi, quando le
accoltellavo, quando infierivo ». Nella sua confessione ricorrono di continuo
frasi come: «Ero in preda a una febbre animalesca, ricordo solo vagamente
quello che ho fatto ... In quel momento, avrei voluto distruggere tutto ... Non
so che cosa mi sia successo ... mi aveva preso un bisogno incontrollabile ...
mi sentivo spinto in maniera irresistibile Incominciai
a tremare ... tremavo violentemente incominciai
letteralmente a tremare ... ».
La ghianda si manifesta non
soltanto come angelo che guida, ammonisce, protegge, consiglia, esorta e
chiama. Si esprime anche con una violenza implacabile, come quando svegliò
Hitler nel cuore della notte e lo fece tremare dal terrore, un terrore che non
risulta in altre situazioni, in trincea, dopo l'attentato del luglio 1944,
negli ultimi giorni nel bunker. Le uniche reazioni in qualche modo paragonabili
sono le crisi isteriche che lo prendevano durante i comizi, quando si
contorceva come un ossesso ammaliando le folle, e le sfuriate che faceva quando
veniva contrastato.
Alla fine di tutto, sorge
inevitabile la domanda pratica: Se Hitler esemplifica nel modo più mostruoso il
Cattivo Seme, è possibile prevenire dei futuri Hitler?
Che il seme fosse presente già nell'infanzia pare evidente. L'incerta
ascendenza e le leggende apocrife sui suoi inizi sottolineano l'eredità
daimonica. Il fervente pangermanesimo esibito a dodici anni, benché Hitler
fosse austriaco, predice gli svolgimenti successivi. Già intorno ai dieci anni,
giocando alla guerra con i compagni, guidava attacchi di boeri contro gli
inglesi. A undici, era un « caporione», tiranneggiava i compagni più piccoli e
appariva riservato ma anche fanatico. Il suo romanticismo di adolescente
trovava appiglio nella spettacolarità del mito e dell'opera riassunti in
Wagner.
Ancora prima, a sette anni, con un
grembiule drappeggiato intorno alle spalle, «in piedi su una sedia in cucina,
arringava i presenti con lunghi e infervorati comizi». A quattordici, quindici
anni, era capace di farneticanti esibizioni di oratoria, sembrava che si
rivolgesse alle forze della natura, trascendendo la sua persona, la sua forma
visibile; « aveva un aspetto quasi sinistro », come se attraverso di lui
parlasse la voce di un altro essere. « Era come se non potesse esimersi dal
parlare» ebbe a dire un amico d'infanzia.
Mein
Kampf,
il libro che scrisse in carcere verso i trent'anni, espone il progetto
visionario che intendeva realizzare. Tutta la tragedia a venire è compendiata
lì, per chi la vuole leggere. Eppure gli statisti occidentali, gli
intellettuali, le forze democratiche, la Chiesa, gli stessi ebrei non seppero
cogliere il demoniaco. L'occhio tenebroso che sa vedere il male era stato
accecato dalle abbaglianti promesse di progresso e dalla fede nella pace e
nella buona volontà degli uomini.
Senza una profonda sensibilità per
la psicopatia e la forte convinzione che il demoniaco è sempre tra noi (e non
solo nelle sue forme più aberranti), finiamo per nascondere la testa nella
negazione e nell'innocenza dagli occhi sgranati, in quel tipo di apertura che
in realtà spalanca le porte al peggio. Si noti, poi, come la tirannide politica
si nutra della credulità della popolazione, e come una popolazione credulona si
lasci incantare dalla tirannide. L'innocenza, si direbbe, chiama il male.
Le biografie di Hitler ci offrono
alcuni suggerimenti sugli indizi diagnostici che bisogna cercare, nell'infanzia
e nella giovinezza: gli occhi freddi e il cuore di ghiaccio; la mancanza di
senso dell'umorismo; la certezza assoluta, l'arroganza, l'inflessibilità, la
purezza; la proiezione fanatica dell'Ombra; la sfasatura rispetto al tempo
presente; la fede mistica nella fortuna; la rabbia se si viene impediti,
ostacolati o contraddetti; la richiesta paranoide di fiducia e lealtà assolute;
la fascinazione nei confronti di miti e simboli del « male» (il lupo, il fuoco,
l'apocalisse); rapimenti estatici, crisi convulsive, momenti di assenza e/o
tensione alla trascendenza; desiderio di potenza per paura di essere ordinario,
ignorante, impotente.
A proposito di impotenza: è
importante mantenere nettamente distinte inadeguatezza e impotenza.
L'attribuzione della psicopatia di Hitler al suo presunto monorchismo (così
come l'attribuzione dei delitti di Cìkatìlo, Gilmore e Nilsen a disfunzioni
sessuali) mette il carro davanti ai buoi. L'animale trainante, qui, è la
terribile paura di essere inadeguati rispetto alla visione totalizzante del
daimon. E una paura che afIligge tutti noi quando entriamo in contatto con le
sue pretese fuori dell'ordinario. Il demonismo nasce non già a causa di
presunte o reali disfunzioni sessuali, bensì in seguito alla relazione
disfunzionale con il daimon. Cerchiamo di realizzare integralmente la sua
visione, rifiutando di lasciarci frenare dalle nostre umane limitazioni:
diventiamo, insomma, megalomani.
La sproporzione fra gli strumenti a
disposizione della persona e le pretese del daimon fa nascere sentimenti di
inadeguatezza, di inferiorità, che poi, in conformità con il tipico concretismo
di fondo della psicopatologia, vengono ridotti al senso di inadeguatezza
sessuale. (Concretismo è la definizione che meglio compendia l'atteggiamento
psicopatologico: il considerare letteralmente, concretamente reali eventi
psichici come i deliri, le allucinazioni, le fantasie, le proiezioni, i
sentimenti e i desideri. Per esempio, Hitler prese in modo letterale le
fantasie, dettate dal desiderio, di indurre la nazione tedesca a superare la
situazione di debolezza conseguente alla sconfitta nella prima guerra mondiale,
e si apprestò a eliminare «la debolezza» con misure concrete, come il riarmo e
i campi di sterminio. Il medesimo tipo di pensiero concretistico convince il
molestatore di bambini e il violentatore recidivo che l'unica cura sia la
castrazione, giacché si dà per scontato che ciò che si manifesta come sessuale
stia, letteralmente e soltanto, nell'organo sessuale).
Solo nelle teorie psicologiche
dell'Occidente troviamo che è la coda ad agitare il cane. Le nostre teorie,
infatti, tendono ad avere in comune con le patologie che vorrebbero spiegare la
medesima immaginazione concretistica. E sono, oltretutto, parimenti
ossessionate dalle fantasie sessuali che hanno sempre permeato la nostra
cultura, ben prima di Freud, forse sin dai tempi di san Paolo. Poiché le nostre
teorie sulle psicopatologie sono a loro volta pornografiche (pensiamo al
voyeurismo e alla libidinosità dei nostri casi clinici), per l'anima e per il
suo daimon esse sono certamente altrettanto degradanti della pornografia
commerciale su cui i puritani amano tanto gettare la colpa.
Riducendo il Cattivo Seme allo
scroto mezzo vuoto del monorchismo (un dato peraltro controverso, visto che
Hitler non si lasciava visitare al di sotto della vita), si ignorano i
profondissimi sentimenti di inadeguatezza, l'impressione di venir meno al
daimon, di non essere all'altezza della sua chiamata, della sua visione senza
limiti, della sua compulsione maniacale. La «cura», dunque, non consiste nel
recuperare potenza sessuale (cioè «palle più grosse » ), ma nel guarire dal
concretismo, che banalizza la potenza della ghianda riducendola a quella
«piccola borsa col suo contenuto », come Freud chiamava lo scroto.
È sempre difficile resistere alla
chiamata: era difficile per Judy Garland non cantare, anche quando la sua voce
non arrivava più alle note e la sua testa non teneva più le parole, difficile
per Manolete non scendere nell'arena, anche se quel giorno presentiva la
tragedia. Come il potenziale di Manolete o di Judy Garland, anche il potenziale
criminoso dello psicopatico è del daimon ed è dato con la ghianda. I suoi
delitti non sono tanto il risultato di una scelta, quanto una necessità, anche
se, come si raccontano a volte psichiatri e criminologi, la necessità può
essere dirottata, inibita, soffocata, sublimata. La chiamata, per lo
psicopatico, è quella a esercitare un potere con gli occhi, la voce, il
fascino, le bugie e uno scaltro tempismo, con il corpo, con tutto ciò che serve
a camuffare la fondamentale debolezza della persona. Poiché la potenza è del
seme, non della persona, ecco che la persona può essere, come Hitler, un
omarino, uno spostato, con appena un'infarinatura di cultura e un'occupazione
insignificante, non privo, magari, di un vago talento artistico e certamente
dotato di una immaginazione eccitabile (come hanno messo in luce Capote, Mailer
e Sartre nell'analisi dei criminali psicopatici di cui hanno scritto).
La sproporzione tra personalità
umana e seme daimonico è talmente grande che è come se il mondo umano fosse
prosciugato per nutrire il seme. L'essere umano, sempre più striminzito e
«inumano», ha bisogno allora di sangue, come le pallide ombre che Ulisse
incontra nell'Ade, bramose di bere il sangue del sacrificio. Il Cattivo Seme (e
forse, in misura minore, tutte le ghiande) si comporta come un parassita della
vita dell'ospite prescelto, il quale sovente ne rimane destrutturato, pieno di
sintomi, appiattito, svuotato di eros, incapace di tessere rapporti. Sono le
persone che chiamiamo asociali.
Ma questi tipi solitari non sono
soli. Sono in comunione con il daimon, attirati dall'invisibilmente inumano
lontano dall'umanità, e cercano di creare un mondo modellato sulla grandiosità
e il luccichio di un mondo non visto ma colto in una visione. Il solitario ha
commercio con un Dio solitario e trascendente, monomania e monoteismo
diventando indistinguibili, in una parodia del famoso passo delle Enneadi di
Plotino: «Questa è la vita degli dèi e degli uomini benedetti e simili agli dèi
... una vita che non trova più piacere nelle cose di questo mondo, che è fuga
di solo a solo».
La vera, grande passione di Hitler
non era il Reich tedesco, non era la guerra, o la vittoria, e neppure la sua
stessa persona. Era l'architettura. I despoti megalomani, da Nabucodonosor e
dai faraoni d'Egitto attraverso gli imperatori romani fino a Napoleone e a
Hitler, costruiscono materialmente la visione del daimon. Per questo motivo, la
megalomania perseguita il costruttore, l'architetto, come insegna la Bibbia con
il racconto della torre di Babele, che non parla soltanto dell'origine delle
lingue ma anche della megalomania insita in tutti i tentativi di rendere
concreta la grandiosità delle fantasie, specialmente nel campo
dell'architettura. Le società tribali di norma hanno cura che i loro altari
siano mobili, la loro architettura sia contingente, ma le loro visioni restino
oltremondane.
La prevenzione, pertanto, dovrebbe
essere imperniata sul tentativo di ripristinare un equilibrio tra la debolezza
della psiche e la potenza del daimon, tra la chiamata trascendente e la
personalità alla quale essa si rivolge. La costruzione della personalità è un
compito psicologico che va oltre il «rafforzamento dell'Io» e anche oltre la
Bildung, l'idea tedesca di formazione culturale e morale. Joseph Mengele, il
più efferato medico dei campi di concentramento, che condusse atroci
esperimenti sui detenuti, era colto, amava la musica e leggeva Dante."
Cìkatilo era un maestro di scuola; Hitler dipingeva e fino all'ultimo si dedicò
a disegnare tavole di architettura; Manson, in carcere, scrive musica e testi
di canzoni pop; Mary BelI scriveva poesie; Gary Gilmore era un pittore
abbastanza bravo e suo fratello Gaylen, che a sua volta ha una lunga storia di
comportamenti sociopatici e di condanne al carcere, ha letto i classici della
letteratura e ha scritto poesie.v' Come abbiamo appreso, il problema, il compito
psicologico, è di «crescere, cioè discendere».
Lo sforzo di discendere per
crescere fa slittare il punto focale della personalità dall'egocentricità
monomaniacale del daimon verso la comune umanità, distorcendo, per così dire,
la chiamata dalla trascende nza all'espansione dentro il mondo con le sue
esigenze, come abbiamo visto nella vita diJosephine Baker e anche in quelle di
Canetti e di Einstein, di Bernstein e di Menuhin.
Ma questo ai giovani non si può
imporre. Hitler andava su tutte le furie quando gli consigliavano la solita
carriera di impiegato statale. Il matematico francese Evariste Galois non
riusciva ad adattarsi alla routine ' scolastica. Più lo si obbligava, più
aumentavano la sua arroganza e la sua genialità, nonché il suo isolamento; morì
a vent'anni.
Prima che si possa non dico
realizzare, ma anche solo prendere in considerazione una discesa dentro il
mondo occorre il pieno e incondizionato riconoscimento del genio. Il
riconoscimento, cioè, del fatto che la ghianda, perfino come Cattivo Seme, è la
più profonda forza motivante della vita, soprattutto di una giovane vita. Nella
maggior parte dei casi, il riconoscimento viene da un amico (come, per Hitler,
Kubizek, che per anni stette ad ascoltare le sue tirate, o Izambard, che
accompagnava e ammirava Rimbaud), da un insegnante sensibile (come la Miss
Shank di Kazin) o da un istruttore (come Camara con Manolete). Il
riconoscimento viene da coloro che sono in grado di vedere il daimon e gli
rendono omaggio. A quel punto, il daimon sarà forse più disposto a lasciarsi
mettere le briglie.
Ciò che questi mentori hanno
percepito, deve essere riconosciuto anche a livello teoretico. Dunque, il primo
passo per togliere forza al Cattivo Seme è una teoria che gli dia pieno
riconoscimento. Che è ciò che questo capitolo, questo libro, vogliono fare.
Finché le nostre teorie negheranno il daimon come forza motivante della
personalità umana, insistendo invece sulla costituzione cerebrale, sulle
condizioni sociali, sui meccanismi comportamentali, sulla dotazione genetica,
il daimon non si ritirerà in silenzio nell' oscurità. Perché il daimon è
attratto dalla luce, vuole essere visto, vuole il posto che gli spetta al sole.
«Senti la gente che parla di te ... Noi, la gente di spettacolo». Dick
Hickcock, che sterminò la famiglia Cutter a sangue freddo, disse: «Credevo che
ti venisse un sacco di gloria, ammazzando la gente. Quella parola, gloria,
continuava a girarmi per la testa ... Quando fai fuori qualcuno sei sotto i
riflettori». E la televisione offre al daimon la luce, la celebrità che cerca.
Ammesso che si possa attribuirle una responsabilità per la criminalità
dilagante, questo non dipende tanto da ciò che la televisione mostra, quanto
dal fatto stesso che essa mette in mostra, consentendo istantaneo riconoscimento
in tutto il mondo, piena esposizione. Ma il seme, che desidera entrare nel
mondo, rimane pur sempre prigioniero di un delirio che trascende il mondo. La
televisione si limita a fornire un veloce simulacro della crescita dentro di
esso.
Al di sopra del mondo è il luogo in
cui M. Scott Peck situa quelli dei suoi pazienti che condividono una condizione
che Peck chiama « il male». Egli usa questo termine in senso diagnostico: il
male, in sostanza, consiste in un caparbio egoistico narcisismo, in un' arroganza
senza limiti.
Questa nozione di male non è poi
così nuova: i greci chiamavano hybris l'arroganza senza limiti, ed esso è
indicato come superbia, ossia orgoglio smisurato, nella tradizione cristiana.
L'idea che le persone malvagie scelgano la propria strada di propria volontà è
ciò che sposta l'interpretazione di Herrnstein del comportamento criminale (si
veda sopra) sul terreno della morale. E Peck, benché sia uno psichiatra, è
indubbiamente un moralista.
L'aspirazione del criminale alla
trascendenza e l'invocazione di potenze invisibili, come Fama e Fortuna («Noi
siamo gente di spettacolo ... la bella gente»), non sfiora neppure la mente di
Peck, secondo il quale il male rende le persone brutte, volgari, pacchiane,
impotenti e meschine, illudendole nel contempo con un'idea romantica di
superiorità. Tant'è vero che per lui «la versione aggiornata dell'inferno» è
una Las Vegas dantescheggiante, «affollata di gente dagli occhi appannati ...
condannata a strattonare macchine mangiasoldi per l'eternità ».
La rigida cornice in cui è
inquadrata la sua visione; gli impedisce di scorgere il daimon nel demoniaco.
Un radicato manicheismo divide il mondo di Peck in santi e peccatori, in eletti
e dannati, in sani e malati. «n male è la malattia estrema ... i malvagi sono i
malati più gravi di tutti », Ecco come, con l'ausilio della diagnosi
psichiatrica, il moralista può relegare il paziente tra i dannati.
Una logica che divide bene e male
in maniera così radicale può solo offrire il solito ripetitivo consiglio, tante
volte udito pronunciare nel nostro Occidente cristianizzato: scateniamo la
guerra giusta. «Corpo a corpo», lo chiama Peck: «Da ciò che sappiamo sulla
natura del male, la vittoria può solo venire dal combattimento corpo a corpo
con il male stesso». In questa guerra, i terapeuti saranno in prima linea
grazie al loro tirocinio nell'amore: «Si può studiare e curare il male senza
pericolo soltanto con gli strumenti dell'amore».
«Amore» è certamente la parola più
onnipotente in uso oggi, visto che il dio cristiano stesso è definito amore.
L'amore può tutto. lo, però, mi permetto di insistere che nei confronti del «
male» l' « amore» può fare ben poco, se prima non riconosce dentro il Cattivo
Seme la vocazione dell'anima. L'amore, è questo che vorrei far capire nel
presente capitolo, può essere non tanto un esercizio della volontà in un'azione
di guerra, quanto un esercizio di comprensione intellettuale nei confronti
della necessità daimonica che chiama alla trascendenza il peccatore come il
santo. Per assurdo, così come per certi santi il martirio può essere la strada
per discendere nel mondo, alla stessa stregua possono esserlo certi atti
atavici per colui che è chiamato dal Cattivo Seme - benché, sia chiaro, la
chiamata non giustifichi affatto il gesto criminoso né liberi il criminale
dalle sue responsabilità. lo sostengo semplicemente che la teoria della ghianda
consente una comprensione del Cattivo Seme di più ampio respiro che non la
categoria diagnostica del male.
La prevenzione, a mio modo di
vedere, non coincide necessariamente con la limitazione della libertà o
l'ammonimento moralistico. Deve invece rivolgersi al medesimo seme, alla
medesima vocazione, ai medesimi esseri invisibili che esigono il tributo della
vita umana. E l'entità invisibile più immediatamente pericolosa è la carica
esplosiva contenuta nel seme, la sua potenza ossessiva, irresistibile, come si
vede nella iraconda irremovibilità di Hitler. Prima di disinnescare la bomba o
di sotterrarla in un luogo isolato, può essere necessario prolungame la miccia.
Dobbiamo incoraggiare la lentezza, ed è questo in fondo il significato di frasi
come: «scontare la pena» e «passare un periodo al fresco ».
Pertanto, i rituali efficaci
dovranno avere dapprima un effetto sedativo, incominciare con il lutto. Anche
se non c'è rimorso per gli atti malvagi commessi, si può indurre una crescente
consapevolezza del demonio che li ha istigati. Hitler il demonio lo ha soltanto
seguito, senza mai metterlo in discussione, con la mente totalmente schiava
dell'immaginazione del suo daimon anziché applicata a ìnvestìgarla.
Dopo i sedativi verrà non già la
rimozione, variamente camuffata da conversione, emendamento, rinascita, bensì
la svolta in direzione del servizio alla collettività, come già viene fatto in
molti casi: ex detenuti che entrano nella scuola e si calano nel mondo dei
ragazzi, per spiegare come opera il Cattivo Seme, che cosa vuole, che prezzo
esige, e come aggirarlo. Fare da mentore ai giovani come esercizio quotidiano,
ripetitivo, di dedizione: anche questa è una forma di ritualità.
Infine, la prevenzione del
demoniaco deve poggiare sul terreno invisibile della trascendenza, deve
trascendere l'idea stessa di prevenzione. La prevenzione richiede non il corpo
a corpo, bensì la: seduzione: invitare il daimon che è nella ghianda a uscire
dai suoi confini coriacei di seme solo cattivo, in modo da recuperare una più
completa immagine della gloria. Ciò che rende demoniaco il seme, infatti, è la
sua ossessività monomaniacale, il suo letteralismo monoteistico che vede un
unico orizzonte, pervertendo la più ariosa immaginazione del seme verso la
ripetizione seriale del medesimo atto (e la ripetizione degli stessi gesti è
anche la forma del rito) .
La nostra idea di ritualità
suggerisce modi concreti per rispettare la potenza della vocazione. Suggerisce
discipline intrise di valori più che umani, i cui riti saranno toccati da
bellezza, trascendenza, avventura e senso della morte. Similia similibus
curantur: ancora l'antico adagio. Dobbiamo indirizzarci all'origine del seme e
cercare di seguire le sue intenzioni più profonde.
La società deve, è giusto, disporre
di riti esorcizzanti per proteggersi dal Cattivo Seme. Tuttavia, deve anche
disporre di riti di riconoscimento, che assegnino al demoniaco il suo spazio,
diverso dal carcere, così come Atena seppe trovare nella civile Atene un luogo
onorevole per le Erinni, le Furie distruttive rese irate dal sangue.
Quei riti, mentre proteggono la
società, integrano i demòni. Scorgono il daimon nel demonio. E contrastano nettamente
con le idee correnti di prevenzione, le quali, seguendo i metodi preferiti da
Hitler per epurare la società, vorrebbero estirpare radicalmente il Cattivo
Seme. Oggi, vengono proposte rilevazioni di massa per individuare la
«predisposizione genetica» dei bambini, per scoprire il potenziale di
criminalità e di violenza riferito ai tratti del carattere e al tipo di
personalità, e potere in tal modo «estirpare le male erbe», eliminare coloro
che presentano fattori come «una precoce irascibilità e atteggiamenti non
collaborativi».
Ma questi tratti, come abbiamo
visto negli esempi riportati nel nostro libro, non sono indicativi
precipuamente di criminalità, bensì dell'eccezionalità del genio, dalla quale
l'intera società trae le sue risorse in politica, nelle scienze, nelle arti. E
poi, una volta individuate le erbacce, dove le buttiamo? O ci limiteremo a
«rnìgliorarle», a rendere questi individui più malleabili somministrando loro
droghe senza diritto di opposizione; o li rinchiuderemo in penitenziari privatizzati,
rivolti al profitto, esenti da ogni regolamentazione del lavoro e dei salari?
Ai riti noi oggi sostituiamo
rigidità e formule di sbarramento, come: «Alla terza recidiva, dentro! », Senza
esorcismi rituali che cerchino di separare il Demonio dal daimon, rimane
soltanto un'eliminazione radicale che elimina entrambi. I riti non solo
proteggono la società dal demoniaco; la proteggono anche dalla sua stessa
paranoia, dal cadere preda della sue stesse ossessive e perverse misure di
purificazione, dall'inestirpabile mito americano: il ritorno all'innocenza in
un paradiso puritano.
L'innocenza è la nube mistica
dell'America: «Essi non sanno quello che fanno». Siamo perdonati in virtù del
fatto di non sapere quello che facciamo. Avvolgerci stretti nella bandiera
della Bontà: ecco il sogno americano, mentre l'incubo del male trova posto solo
nell'« altro », dove lo si può diagnosticare, trattare, prevenire e scriverei
intorno dei bei sermoni. La storia di questo vizio del cuore è delineata da
Elaine Pagels nel suo importante studio sulle origini di Satana,48 che lo mette
in luce come una esiziale, forse «diabolica» componente fondamentale, un
cattivo seme innato delle confessioni religiose dell'Occidente, che ha reso
indispensabile, come contromisura, l'implacabile insistenza sull'« amore »,
Una società la quale sostiene tanto
pervicacemente che l'innocenza è la virtù più nobile e la adora in templi
appositi, a Disney World e a Disneyland come in Sesame Street, non vedrà mai
nessun seme, a meno che non sia rivestito di zucchero. Come Forrest Gump, che
mangia cioccolatini e offre caramelle agli sconosciuti prima di guardarli negli
occhi, stupida è e stupida resta. L'idea del Cattivo Seme, l'idea
dell'esistenza di una vocazione demoniaca, dovrebbe dare una scossa alla nostra
intelligenza innata, risvegliarla dal torpore dell'innocenza delle nostre
teorie, in modo da vedere, tutti, come nazione, che il male è attratto
dall'innocenza, che essi vanno mano nella mano. E allora, finalmente,
ammetteremo che in America i Natural Born
Killers sono i compagni segreti di tutti i Forrest Gump e forse, addirittura,
uccidono per conto loro.