Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo
- una breve sintesi -
La questione della distribuzione delle ricchezze è oggi una delle più
rilevanti e dibattute. Ma che cosa si sa, davvero, del suo sviluppo sul lungo
termine? La dinamica dell’accumulazione del capitale privato comporta
inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del
potere in poche mani, come pensava Marx nel XIX secolo? Oppure le dinamiche
equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico
determinano, nelle fasi avanzate del processo economico, una riduzione
spontanea delle disuguaglianze e un’armonica stabilizzazione dei beni, come
pensava Kuznets nel XX secolo? Che cosa sappiamo realmente del processo di
distribuzione dei redditi e dei patrimoni dal XVIII secolo in poi, e quali
lezioni possiamo trarne per il XXI?
La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di
evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde
del capitale e delle disuguaglianze, o quantomeno non nella misura in cui si è
immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo che hanno accompagnato il
secondo dopoguerra. Quando il tasso di rendimento del capitale supera
regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito – come accadde
fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo
produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono
in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le
nostre società democratiche. Tuttavia, esistono strumenti in grado di far sì
che la democrazia e l’interesse generale riprendano il controllo del
capitalismo e degli interessi privati, senza peraltro fare ricorso a misure
protezionistiche e nazionalistiche.
[…]
Per Ricardo, il quale pubblica nel 1817 i suoi Principi dell’economia politica e dell’imposta, la principale
preoccupazione riguarda la crescita a lungo termine del prezzo della terra e
del livello della rendita fondiaria. Al pari di Malthus, Ricardo non dispone in
pratica di alcuna fonte statistica degna di questo nome. Il che non gli
impedisce di avere una profonda conoscenza del capitalismo del suo tempo. Nato
in una famiglia di finanzieri ebrei di origine portoghese, Ricardo pare anche
serbare meno pregiudizi politici di Malthus, Young e Smith. Pur influenzato dal
modello di Malthus, spinge più lontano il proprio modo di ragionare. Ricardo è
colpito in particolare dal seguente paradosso logico: a partire dal momento in
cui la crescita della popolazione e del prodotto tendono stabilmente ad
accentuarsi, la terra tende a divenire un bene sempre più raro tra gli altri
beni. La legge della domanda e dell’offerta dovrebbe portare a un continuo
rialzo del prezzo della terra e degli affitti versati ai proprietari terrieri.
Questi ultimi, sia a breve sia a lungo termine, incamereranno una quota più
cospicua del reddito nazionale, mentre il resto della popolazione ne riceverà
una sempre meno rilevante, con conseguente distruzione dell’equilibrio sociale.
Per Ricardo l’unica soluzione logicamente e politicamente soddisfacente è
un’imposta progressiva, sempre più onerosa, sulla rendita fondiaria.
Vedremo come una tale cupa profezia non si sia realizzata: la rendita
fondiaria è sicuramente rimasta, per lungo tempo, a livelli elevati, ma alla
fine, con il calo progressivo del peso dell’agricoltura nel reddito nazionale,
il valore dei terreni agricoli è calato inesorabilmente rispetto alle altre
forme di ricchezza. Scrivendo nel periodo 1810-20, Ricardo non poteva certo
prevedere l’ampiezza con la quale sia il progresso tecnico sia la crescita
industriale si sarebbero affermati negli ottant’anni successivi. Così come, al
pari di Malthus e di Young, non poteva immaginare un’umanità totalmente
affrancata dalla logica della produzione terriera e agricola.
L’intuizione di Ricardo sul prezzo della terra resta nondimeno
interessante: il “principio di rarità”, sul quale fa leva l’economista, può
potenzialmente spingere determinati prezzi ad acquisire valori sproporzionati
nel corso dei decenni. Il che è condizione più che sufficiente a destabilizzare
dalle fondamenta intere società. Il sistema del prezzo svolge un ruolo
insostituibile nella gestione del comportamento di milioni – o piuttosto di
miliardi di individui – nel quadro della nuova economia globale. Il problema è
che esso non conosce né limite né morale.
Sarebbe un grave errore trascurare l’importanza di tale principio
nell’analisi della distribuzione mondiale della ricchezza nel XXI secolo e per
convincersene basta sostituire, nel modello di Ricardo, i prezzi dei terreni
agricoli con quello degli immobili urbani nelle grandi capitali, o con il
prezzo del petrolio. In entrambi i casi, se si estende al periodo 2010-50 o
2010-2100 la tendenza osservata dal 1970 agli anni dieci del XXI secolo, si arrivano
a ipotizzare squilibri economici, sociali e politici di vasta portata, sia tra
un paese e l’altro, sia all’interno dello stesso paese, squilibri che
potrebbero davvero far pensare all’apocalisse ricardiana.
Esiste certo, in linea di principio, un meccanismo economico molto semplice
che consente di equilibrare il processo: il gioco della domanda e dell’offerta.
Se l’offerta di un bene è insufficiente, e se il suo prezzo è troppo elevato,
la domanda per il bene in questione deve per forza abbassarsi, il che
permetterà di calmierare il mercato. In altri termini, se i prezzi immobiliari
e petroliferi aumentano, basta andare ad abitare in campagna, oppure usare la
bicicletta (o le due cose insieme). Ma, oltre a poter risultare in parte
sgradevole e complicato, un tale mutamento può richiedere varie decine d’anni,
nel corso dei quali i proprietari di immobili e i petrolieri potranno
accumulare crediti talmente rilevanti rispetto al resto della popolazione da
trovarsi comunque a possedere, per un tempo non calcolabile, tutto ciò che c’è
da possedere, compresi la campagna e la bicicletta.
[…]
Di fatto, tutti i dati storici di cui oggi disponiamo indicano che per
registrare una crescita significativa del potere d’acquisto dei salari bisogna
attendere la seconda metà se non l’ultimo terzo del XIX secolo. Tra il periodo
1800-10 e quello 1850-60 i salari sono fermi a livelli bassissimi – vicini a
quelli del XVIII secolo e dei secoli precedenti – o, in alcuni casi, a livelli
addirittura inferiori. Questa lunga fase di stagnazione salariale,
riscontrabile sia nel Regno Unito sia in Francia, è tanto più impressionante in
quanto il periodo coincide con un’accelerazione della crescita economica. La
quota del capitale – profitti industriali, rendita fondiaria, affitti urbani –
che concorre alla composizione del reddito nazionale, nella misura in cui è
possibile valutarla con le fonti imperfette di cui oggi disponiamo, è destinata
a crescere sensibilmente durante la prima metà del XIX secolo.5
Diminuirà, di poco, solo negli ultimi decenni del secolo, quando i salari
recupereranno in parte il ritardo a lungo accumulato nella crescita. I dati che
abbiamo raccolto indicano comunque che nessuna diminuzione strutturale delle
disuguaglianze si produce prima della prima guerra mondiale. Tra il 1870 e il
1914 si assiste se mai a una stabilizzazione delle disuguaglianze, e a un
livello alquanto elevato; anzi, per certi versi, a una perpetuazione della
spirale senza fine della disuguaglianza con, in particolare, una concentrazione
sempre più massiccia dei patrimoni. È molto difficile dire dove avrebbe portato
quella curva in assenza delle gravi ripercussioni economiche e politiche
prodotte dalla guerra del 1914-18, ripercussioni che, alla luce dell’analisi
storica, e con il senno di poi di cui oggi disponiamo, appaiono come le uniche
vere cause della riduzione delle disuguaglianze dopo la Rivoluzione
industriale.
Fatto sta che la prosperità del capitale e dei profitti industriali, in
contrasto con la stagnazione dei redditi da lavoro, è nel decennio tra il 1840
e il 1850 una realtà talmente evidente che tutti ne sono perfettamente
consapevoli, anche se nessuno dispone al momento di statistiche nazionali
significative.
[…]
Marx muove dal modello ricardiano del valore del capitale e del principio
di rarità, e spinge molto oltre l’analisi della dinamica del capitale stesso,
considerando un mondo in cui il capitale è prima di tutto capitale industriale
(macchine, attrezzature ecc.) e non terriero, e può dunque, in teoria,
accumularsi illimitatamente. Di fatto la sua conclusione di fondo coincide con
quello che possiamo chiamare “principio di accumulazione infinita”, vale a dire
la tendenza inevitabile del capitale ad accumularsi e concentrarsi su scala
illimitata, senza un termine naturale, da cui discende la soluzione
apocalittica prevista da Marx: o si arriva a un calo tendenziale del tasso di
profitto del capitale (il che manda in tilt il motore dell’accumulazione e può
portare i capitalisti a sbranarsi a vicenda) o la quota di capitale del reddito
nazionale si accresce indefinitamente (il che porterà i lavoratori, a più o
meno breve scadenza, a unirsi e a ribellarsi). In ogni caso, non è ipotizzabile
alcuno stabile equilibrio socioeconomico o politico.
Il fosco destino prefigurato da Marx non si è realizzato, così come non si
sono realizzate le previsioni di Ricardo. A partire dall’ultimo terzo del XIX
secolo, i salari fanno finalmente segnare un lieve progresso: il miglioramento
del potere d’acquisto si generalizza, e il fenomeno cambia radicalmente la
situazione, anche se le disuguaglianze restano estremamente forti e continuano
per certi aspetti ad aggravarsi fino alla prima guerra mondiale. La Rivoluzione
comunista ha sì avuto luogo, ma nel paese più arretrato d’Europa, quello in cui
la Rivoluzione industriale era stata appena avviata (la Russia), mentre i paesi
europei più avanzati hanno tentato altre vie, socialdemocratiche, a tutto
beneficio dei loro popoli. Come gli autori a lui precedenti, Marx ha del tutto
trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante
aumento della produttività, fattore che, come vedremo, consente in una certa
misura di equilibrare il processo di accumulazione e di concentrazione del
capitale privato.
[…]
Malgrado tutti i limiti, l’analisi marxiana mantiene, su parecchi punti,
una sua congruenza. Il principio di accumulazione infinita da cui Marx mette in
guardia contiene un’intuizione fondamentale per l’analisi del XXI secolo come
del XIX, un’intuizione ancor più inquietante, in qualche modo, del principio di
rarità caro a Ricardo. Quando il tasso di crescita della popolazione e della
produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato
assumono per loro natura un valore considerevole, potenzialmente smisurato, e
destabilizzante per le società interessate. In altri termini, una crescita
debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di
accumulazione infinita: ne risulta uno squilibrio che, se non ha i connotati
apocalittici sottolineati da Marx, ha comunque connotati assai inquietanti.
L’accumulazione a un determinato punto si blocca, ma questo punto può essere
estremamente elevato, e rivelarsi destabilizzante.
[…]
I dati a disposizione permettono a Kuznets di calcolare, nella composizione
del reddito nazionale americano, la quota di decili e centili superiori nella
gerarchia dei redditi. E che cosa scopre? Scopre che negli Stati Uniti, tra il
1913 e il 1948, si è verificata una forte riduzione delle disuguaglianze di
reddito. In concreto, negli anni dieci e venti, il decile superiore della
distribuzione, vale a dire il 10% costituito dagli americani più ricchi,
assorbiva ogni anno fino al 45-50% del reddito nazionale; alla fine degli anni
quaranta, la quota del reddito nazionale riferibile al decile superiore è scesa
a circa il 30-35% del reddito nazionale: un calo superiore a 10 punti del
reddito nazionale, davvero considerevole, equivalente più o meno alla metà di quanto
percepisce il 50% degli americani più poveri.13 La riduzione delle
disuguaglianze è netta e incontestabile. E il dato, di notevole rilievo, avrà
un impatto enorme nei dibattiti economici del dopoguerra, nelle università e
negli organismi internazionali.
[…]
A dire il vero, Kuznets è perfettamente conscio del carattere in larga
misura congiunturale della compressione degli alti redditi americani tra il
1913 e il 1948. La quale non ha molto a che vedere con un processo naturale e
spontaneo, e ha invece molte correlazioni con le molteplici ripercussioni della
crisi degli anni trenta e della seconda guerra mondiale. Nel suo corposo volume
pubblicato nel 1953, Kuznets analizza in dettaglio le classi di reddito e pone
comunque in guardia il lettore contro il rischio di generalizzazioni
affrettate. Tuttavia, nel dicembre 1954, nell’ambito della conferenza che tiene
in qualità di presidente dell’American Economic Association riunita a congresso
a Detroit, decide di proporre ai colleghi un’interpretazione molto più
ottimistica rispetto ai risultati contenuti nel volume del 1953. Ed è tale
conferenza, pubblicata nel 1955 con il titolo “Economic Growth and Income
Inequality” (Crescita economica e disuguaglianza del reddito), che costituisce
l’atto di nascita della teoria della “curva di Kuznets”.
Secondo questa teoria le disuguaglianze sarebbero ovunque destinate a
seguire, nel corso del processo di industrializzazione e sviluppo economico,
una “curva a U rovesciata”, vale a dire un arco caratterizzato dal binomio crescita-decrescita.
Secondo Kuznets, a una fase di crescita naturale delle disuguaglianze,
caratteristica delle prime tappe dell’industrializzazione e che negli Stati
Uniti corrisponderebbe grosso modo al XIX secolo, seguirebbe una fase di forte
diminuzione delle disuguaglianze stesse che, sempre negli Stati Uniti, sarebbe
iniziata nella prima metà del XX secolo.
[…]
Quali sono le nostre principali conclusioni, raggiunte grazie alla
possibilità di attingere a fonti storiche finora inesplorate? La prima lezione
è che occorre diffidare, in una materia del genere, di ogni determinismo
economico: la storia della distribuzione delle ricchezze è sempre una storia
profondamente politica, che non si esaurisce nell’individuazione dei meccanismi
puramente economici. In particolare, la riduzione delle disuguaglianze
osservata nei paesi sviluppati tra il 1900 e il 1910 e tra il 1950 e il 1960 è
innanzitutto dovuta all’incidenza delle due guerre e delle politiche pubbliche
messe in campo per superare le gravi crisi in atto. Così come la crescita delle
disuguaglianze dal 1970 al 1980 e successivamente è soprattutto dovuta ai
cambiamenti politici degli ultimi decenni, specie in materia fiscale e
finanziaria. La storia delle disuguaglianze dipende dalla rappresentazione di ciò
che è giusto e di ciò che non lo è che si fanno gli attori economici, politici,
sociali, dai rapporti di forza tra questi attori, e dalle scelte collettive che
ne derivano; è ciò che viene determinato da tutti gli attori coinvolti.
La seconda lezione, nodo centrale del libro, è che la dinamica della
distribuzione delle ricchezze si muove su fenomeni di grande portata, motori
sia di convergenza che di divergenza in assenza di qualunque strumento naturale
o spontaneo che controlli il prevalere di tendenze destabilizzanti che
innescano la disuguaglianza.
Cominciamo con i meccanismi a favore della convergenza, vale a dire a
favore della riduzione e della compressione delle disuguaglianze. Il principale
fattore di convergenza sono i processi di diffusione delle conoscenze e di
investimento sulle competenze e nella formazione. Il gioco della domanda e
dell’offerta, così come la mobilità del capitale e del lavoro, che ne
costituisce una variante, possono intervenire ugualmente in questa direzione,
ma in misura meno intensa, e spesso in forma ambigua e contraddittoria. Il
processo di diffusione delle conoscenze e delle competenze è l’elemento
cruciale, il meccanismo che consente al tempo stesso la crescita generale della
produttività e la riduzione delle disuguaglianze sia all’interno di ciascun
paese sia a livello mondiale, come dimostra il riequilibrio economico
attualmente raggiunto da molti paesi poveri ed emergenti, a cominciare dalla
Cina, rispetto ai paesi ricchi. Adottando i modelli di produzione e raggiungendo
i livelli di qualificazione dei paesi ricchi, i paesi meno sviluppati colmano i
ritardi di produttività e accrescono il reddito nazionale. Tale processo di
convergenza tecnologica può essere favorito dalle aperture commerciali, ma si
tratta fondamentalmente di un processo di diffusione delle conoscenze e di
condivisione del sapere – bene pubblico per eccellenza – più che di un
meccanismo di mercato.
Da un punto di vista strettamente teorico, esistono potenzialmente altri elementi di forza finalizzati al raggiungimento
di una maggiore uguaglianza. Per esempio si potrebbe pensare che nel corso
della storia le tecniche di produzione assegnino un’importanza sempre maggiore
al lavoro dell’uomo e alle sue competenze, di modo che la quota dei redditi da
lavoro faccia registrare una crescita tendenziale (parallela a una decrescita
dei redditi da capitale): ipotesi che potremmo chiamare “crescita o riscatto
del capitale umano”. In altri termini, se così fosse, il progressivo
adeguamento alla razionalità tecnica comporterebbe automaticamente la vittoria
del capitale umano sul capitale finanziario e immobiliare, del personale
dirigente meritevole sugli azionisti oziosi, della competenza sul nepotismo. In
tal senso, le disuguaglianze diventerebbero di per sé più meritocratiche e meno
immutabili (se non meno evidenti) nel corso della storia: in qualche modo, la
razionalità economica si tradurrebbe meccanicamente, se così fosse, in
razionalità democratica.
Un altro pensiero ottimistico, assai diffuso nelle società moderne, è
quello secondo cui l’allungamento della durata della vita porterebbe
automaticamente a sostituire la “lotta di classe” con il “conflitto
generazionale” (forma di conflitto tutto sommato meno lacerante per una
società, poiché ciascuno è prima giovane e poi vecchio). In altri termini,
l’accumulazione e la distribuzione dei patrimoni sarebbero oggi dominate non
più da uno scontro implacabile tra le dinastie di eredi e le dinastie che non
possiedono altro che il proprio lavoro, ma da una logica del risparmio nel
corso del ciclo della vita: nel senso che ciascuno accumula patrimonio per la
propria vecchiaia. Il progresso della medicina e il miglioramento delle
condizioni di vita avrebbero quindi trasformato totalmente la natura stessa del
capitale.
Purtroppo vedremo che entrambe le idee, alquanto ottimistiche (la “crescita
del capitale umano” e l’affermazione del “conflitto generazionale” sulla “lotta
di classe”), sono in gran parte illusorie. Più esattamente tali trasformazioni,
del tutto plausibili da un punto di vista strettamente logico, hanno certo
avuto luogo, ma in proporzioni molto meno massicce di quanto a volte si pensi.
Non è affatto sicuro che la quota lavoro nella composizione del reddito
nazionale sia incrementata in modo significativo sul lungo periodo: il capitale
(non umano) appare tuttora nel XXI secolo indispensabile pressoché nella stessa
misura in cui lo era nel XVIII o nel XIX secolo, e non è da escludere che lo
diventi ancora di più. Per cui, oggi come ieri, le disuguaglianze patrimoniali restano
al primo posto nella scala delle disuguaglianze all’interno di ciascuna classe
d’età. E vedremo come l’eredità oggi, all’inizio del XXI secolo, stia
riacquistando la stessa importanza che aveva all’epoca di Papà Goriot. Sul lungo periodo, il fattore veramente propulsivo e
in grado di determinare processi di eguaglianza delle condizioni, è la
diffusione delle conoscenze e delle competenze.
Ora, la questione cruciale è che il fattore ugualitario, per quanto
importante sia, in particolare per consentire la convergenza tra paesi diversi,
possa essere a volte controbilanciato e dominato da potenti fattori di segno
opposto, operanti nel senso della divergenza, vale a dire dell’allargamento e
della moltiplicazione delle disuguaglianze. L’assenza di un investimento
adeguato nella formazione può impedire a interi gruppi sociali di accedere ai
benefici della crescita, o può determinarne la discesa nella scala sociale
rispetto a nuovi soggetti entranti, com’è dimostrato dal riequilibrio mondiale
attualmente in corso (gli operai cinesi prendono il posto degli operai
americani e francesi, e così via). In altri termini, il principale fattore di
convergenza – la diffusione delle conoscenze – è soltanto in parte un fattore
naturale e spontaneo: esso dipende in larga parte dalle politiche condotte in
materia di educazione e di accesso alla formazione e alle competenze adeguate,
e dalle istituzioni preposte.
Nel contesto del libro, porremo inoltre l’accento su fattori di divergenza
ancor più inquietanti, poiché possono determinarsi in un mondo in cui tutti gli
investimenti adeguati per la maturazione delle competenze potrebbero essere già
avvenuti, e in cui tutte le condizioni di efficienza dell’economia di mercato –
nell’accezione data dagli economisti – appaiano realizzate. Questi fattori di
divergenza sono principalmente due: il primo è il processo di allontanamento,
scollamento, delle retribuzioni più elevate rispetto alle altre, un fenomeno
che potrà essere molto rilevante, benché per il momento sia abbastanza
localizzato; il secondo, ancora più grave, è l’affermazione di una serie di
squilibri legati al processo di accumulazione e concentrazione dei patrimoni,
in un mondo caratterizzato da una crescita debole e da un rendimento elevato
del capitale. Il secondo può risultare anche più destabilizzante del primo, e
costituisce senza dubbio la minaccia numero uno per la dinamica della
distribuzione delle ricchezze a lunghissimo termine.
[…]
Il primo indicatore indica la curva
seguita dalla quota del decile superiore della gerarchia dei redditi nella
distribuzione del reddito nazionale americano durante il secolo successivo al
1910. Si tratta semplicemente dell’estensione delle classi storiche di reddito
fissate da Kuznets negli anni cinquanta. E vi ritroviamo, di fatto, la forte
compressione delle disuguaglianze osservata dallo stesso Kuznets tra il 1913 e
il 1948, ossia un calo di 15 punti di reddito nazionale per quanto riguarda la
quota compresa nel decile superiore, equivalente al 45-50% del reddito
nazionale relativo al periodo dal 1910 al 1920, percentuale scesa poi al 30-35%
alla fine degli anni quaranta. La disuguaglianza si stabilizzerà a tale livello
tra il 1950 e il 1970. Dopodiché, a partire dagli anni settanta e ottanta, si
osserva un rapidissimo processo in senso inverso, al punto che la parte
compresa nel decile superiore torna, nel decennio tra il 2000 e il 2010, a un
livello del 45-50% del reddito nazionale. L’ampiezza dell’inversione è
notevolissima. Per cui viene naturale chiedersi fin dove possa spingersi una
tendenza del genere.
Vedremo che un’evoluzione tanto spettacolare corrisponde in larga parte
all’esplosione senza precedenti dei più alti redditi da lavoro, e che riflette
innanzitutto un fenomeno oggi ben visibile: un numero crescente di alti
dirigenti delle grandi imprese sta prendendo il sopravvento. Una prima
possibile spiegazione può essere un’improvvisa ascesa dei livelli di qualificazione
e di produttività degli alti dirigenti rispetto alla massa degli altri
salariati. Una seconda spiegazione, a mio avviso più plausibile e più coerente
con i fatti osservati, è che sono gli stessi alti dirigenti in larga misura a
fissare le proprie retribuzioni, a volte senza alcun contegno, e spesso senza
un chiaro rapporto con la produttività individuale, molto difficile da stimare
nell’ambito di aziende di grandi dimensioni.
Il secondo indicatore rimanda a un fattore di divergenza che è in un certo
modo più semplice e trasparente, e che è senza dubbio ancora più decisivo per
la curva a lungo termine della distribuzione delle ricchezze. Il grafico I.2
indica la variazione, nel Regno Unito, in Francia e in Germania, del valore
complessivo dei patrimoni privati (immobiliari, finanziari e di investimento,
al netto dei debiti), espressa in annualità di reddito nazionale, dal 1870 a
oggi. Si noterà in primo luogo l’altissimo grado di prosperità patrimoniale che
ha caratterizzato l’Europa alla fine del XIX secolo e della belle époque: il
valore dei patrimoni privati si fissa attorno alle sei-sette annualità di
reddito nazionale, che è un fatto considerevole. Successivamente si può
constatare un forte calo, determinato dagli eventi scioccanti intercorsi tra il
1914 e il 1945: il rapporto capitale/reddito cala a due-tre annualità di
reddito nazionale. Dopodiché si nota una crescita continua a partire dagli anni
cinquanta, al punto che i patrimoni privati sembrano quasi raggiungere, oggi, i
livelli riscontrati alla vigilia della prima guerra mondiale: nei primi dieci
anni del XXI secolo il rapporto capitale/reddito si colloca attorno a
cinque-sei annualità di reddito nazionale sia nel Regno Unito sia in Francia
(in Germania si colloca a un livello inferiore, nazione che però è partita da
un livello più basso: la tendenza è comunque netta anche in questo paese).
Nel 1910, in Europa, il totale dei patrimoni privati vale attorno alle 6-7
annualità di reddito nazionale, nel 1950 vale attorno alle 2-3 annualità, nel
2010 vale attorno alle 4-6 annualità.
il ritorno dell’elevato rapporto tra lo stock di capitale e il flusso di
reddito nazionale negli ultimi decenni si spiega in larga parte con il ritorno
a un regime di crescita relativamente lenta. Nelle società a crescita debole i
patrimoni ereditati dal passato assumono per loro natura un rilievo
sproporzionato poiché, ad accrescere in modo continuativo e sostanziale
l’ampiezza dello stock, basta anche un debole flusso di nuovo risparmio.
Se poi il tasso di rendimento da capitale raggiunge livelli consistenti e
duraturi tali da superare il tasso di crescita (il che non è automatico, ma è
tanto più probabile quanto più è debole il tasso di crescita) esiste allora un
rischio molto forte di divergenza caratterizzata dalla distribuzione delle
ricchezze.
Questa disuguaglianza fondamentale, che esprimeremo con la formula r > g – dove r indica il
tasso annuo di rendimento da capitale (vale a dire quanto rende in media il
capitale nel corso di un anno, sotto forma di profitti, dividendi, interessi,
affitti e altri redditi da capitale in percentuale del suo valore) e g indica il tasso di crescita (vale a
dire la crescita annua del reddito e del prodotto) – ricoprirà nel libro un
ruolo essenziale. Anzi, in qualche modo, ne riassumerà la logica d’insieme.
Quando il tasso di rendimento del capitale supera in misura significativa
il tasso di crescita – e vedremo che è il caso più frequente nel corso della
storia, quantomeno fino al XIX secolo, destinato con ogni probabilità a essere
la norma nel XXI, il fenomeno implica automaticamente che i patrimoni ereditati
dal passato si ricapitalizzino più in fretta rispetto all’andamento del
processo di produzione e dei redditi. Per cui, per chi eredita patrimoni dal
passato, basta risparmiare una quota anche limitata di reddito del proprio
capitale perché quest’ultimo si accresca più in fretta rispetto alla crescita
economica nel suo complesso. In tali condizioni, è pressoché inevitabile che i
patrimoni ricevuti in eredità prevalgano largamente sui patrimoni accumulati
nel corso di una vita di lavoro, e che la concentrazione del capitale raggiunga
livelli assai elevati, potenzialmente incompatibili con i valori meritocratici
e i principi di giustizia sociale che costituiscono il fondamento delle nostre
moderne società democratiche.
Questo determinante fattore di divergenza può inoltre essere rafforzato da
meccanismi aggiuntivi, per esempio quando il tasso di risparmio cresce in
sintonia con la crescita del grado di ricchezza,37 e ancor più
quando il tasso di rendimento medio effettivamente ottenuto è tanto più elevato
quanto più è elevato il capitale iniziale (fenomeno che, come avremo modo di
vedere, si avvia a prevalere). Il carattere imprevedibile e arbitrario dei
rendimenti da capitale e delle forme di arricchimento che ne derivano diventano
così ragione per rimettere in discussione l’ideale meritocratico. Infine, tali
effetti, nel loro insieme, possono essere aggravati da un meccanismo di tipo
ricardiano, di divergenza strutturale dei prezzi degli immobili e del petrolio.
Riassumendo. Il processo di accumulazione e di distribuzione dei patrimoni
contiene in sé fattori talmente potenti da spingere verso la divergenza, o
quantomeno verso un livello di disuguaglianza estremamente elevato. Esistono sì
fattori di convergenza, tali da riuscire a prevalere in determinati paesi e in
determinate epoche, ma i fattori di divergenza possono in ogni momento
riprendere il sopravvento, come sembra accadere in questo inizio di XXI secolo,
e come lascia prevedere il probabile calo della crescita demografica ed
economica nei decenni a venire.
Le mie conclusioni sono meno apocalittiche di quelle implicite nel
principio di accumulazione infinita e di divergenza perpetua espresso da Marx
(la cui teoria si fonda, di fatto, su un’idea di crescita zero della
produttività a lungo termine). Nello schema proposto la divergenza non è
perpetua, è solo uno dei possibili scenari futuri. Tuttavia non sono, le mie,
conclusioni molto rassicuranti. In particolare, è importante sottolineare che
la disuguaglianza di fondo r > g, massimo fattore di divergenza nel
nostro schema esplicativo, non ha niente a che vedere con una qualunque
imperfezione di mercato. Anzi, si tratta piuttosto del contrario: più il
mercato del capitale è “perfetto”, nel significato che gli economisti danno a
questo aggettivo, più è probabile che la disuguaglianza si verifichi. È
possibile immaginare istituzioni e politiche pubbliche che permettano di
contrastare gli effetti di tale logica implacabile, come un’imposta mondiale
progressiva sul capitale. Ma la loro concreta attuazione pone problemi notevoli
in termini di coordinamento internazionale. È purtroppo probabile che le
risposte che verranno date, nella pratica, siano molto più modeste e inefficaci
– penso a manovre di varia natura a livello nazionale.