Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo

- una breve sintesi -

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La questione della distribuzione delle ricchezze è oggi una delle più rilevanti e dibattute. Ma che cosa si sa, davvero, del suo sviluppo sul lungo termine? La dinamica dell’accumulazione del capitale privato comporta inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del potere in poche mani, come pensava Marx nel XIX secolo? Oppure le dinamiche equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico determinano, nelle fasi avanzate del processo economico, una riduzione spontanea delle disuguaglianze e un’armonica stabilizzazione dei beni, come pensava Kuznets nel XX secolo? Che cosa sappiamo realmente del processo di distribuzione dei redditi e dei patrimoni dal XVIII secolo in poi, e quali lezioni possiamo trarne per il XXI?

La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze, o quantomeno non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo che hanno accompagnato il secondo dopoguerra. Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito – come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche. Tuttavia, esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse generale riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati, senza peraltro fare ricorso a misure protezionistiche e nazionalistiche.

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Per Ricardo, il quale pubblica nel 1817 i suoi Principi dell’economia politica e dell’imposta, la principale preoccupazione riguarda la crescita a lungo termine del prezzo della terra e del livello della rendita fondiaria. Al pari di Malthus, Ricardo non dispone in pratica di alcuna fonte statistica degna di questo nome. Il che non gli impedisce di avere una profonda conoscenza del capitalismo del suo tempo. Nato in una famiglia di finanzieri ebrei di origine portoghese, Ricardo pare anche serbare meno pregiudizi politici di Malthus, Young e Smith. Pur influenzato dal modello di Malthus, spinge più lontano il proprio modo di ragionare. Ricardo è colpito in particolare dal seguente paradosso logico: a partire dal momento in cui la crescita della popolazione e del prodotto tendono stabilmente ad accentuarsi, la terra tende a divenire un bene sempre più raro tra gli altri beni. La legge della domanda e dell’offerta dovrebbe portare a un continuo rialzo del prezzo della terra e degli affitti versati ai proprietari terrieri. Questi ultimi, sia a breve sia a lungo termine, incamereranno una quota più cospicua del reddito nazionale, mentre il resto della popolazione ne riceverà una sempre meno rilevante, con conseguente distruzione dell’equilibrio sociale. Per Ricardo l’unica soluzione logicamente e politicamente soddisfacente è un’imposta progressiva, sempre più onerosa, sulla rendita fondiaria.

Vedremo come una tale cupa profezia non si sia realizzata: la rendita fondiaria è sicuramente rimasta, per lungo tempo, a livelli elevati, ma alla fine, con il calo progressivo del peso dell’agricoltura nel reddito nazionale, il valore dei terreni agricoli è calato inesorabilmente rispetto alle altre forme di ricchezza. Scrivendo nel periodo 1810-20, Ricardo non poteva certo prevedere l’ampiezza con la quale sia il progresso tecnico sia la crescita industriale si sarebbero affermati negli ottant’anni successivi. Così come, al pari di Malthus e di Young, non poteva immaginare un’umanità totalmente affrancata dalla logica della produzione terriera e agricola.

L’intuizione di Ricardo sul prezzo della terra resta nondimeno interessante: il “principio di rarità”, sul quale fa leva l’economista, può potenzialmente spingere determinati prezzi ad acquisire valori sproporzionati nel corso dei decenni. Il che è condizione più che sufficiente a destabilizzare dalle fondamenta intere società. Il sistema del prezzo svolge un ruolo insostituibile nella gestione del comportamento di milioni – o piuttosto di miliardi di individui – nel quadro della nuova economia globale. Il problema è che esso non conosce né limite né morale.

Sarebbe un grave errore trascurare l’importanza di tale principio nell’analisi della distribuzione mondiale della ricchezza nel XXI secolo e per convincersene basta sostituire, nel modello di Ricardo, i prezzi dei terreni agricoli con quello degli immobili urbani nelle grandi capitali, o con il prezzo del petrolio. In entrambi i casi, se si estende al periodo 2010-50 o 2010-2100 la tendenza osservata dal 1970 agli anni dieci del XXI secolo, si arrivano a ipotizzare squilibri economici, sociali e politici di vasta portata, sia tra un paese e l’altro, sia all’interno dello stesso paese, squilibri che potrebbero davvero far pensare all’apocalisse ricardiana.

Esiste certo, in linea di principio, un meccanismo economico molto semplice che consente di equilibrare il processo: il gioco della domanda e dell’offerta. Se l’offerta di un bene è insufficiente, e se il suo prezzo è troppo elevato, la domanda per il bene in questione deve per forza abbassarsi, il che permetterà di calmierare il mercato. In altri termini, se i prezzi immobiliari e petroliferi aumentano, basta andare ad abitare in campagna, oppure usare la bicicletta (o le due cose insieme). Ma, oltre a poter risultare in parte sgradevole e complicato, un tale mutamento può richiedere varie decine d’anni, nel corso dei quali i proprietari di immobili e i petrolieri potranno accumulare crediti talmente rilevanti rispetto al resto della popolazione da trovarsi comunque a possedere, per un tempo non calcolabile, tutto ciò che c’è da possedere, compresi la campagna e la bicicletta.

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Di fatto, tutti i dati storici di cui oggi disponiamo indicano che per registrare una crescita significativa del potere d’acquisto dei salari bisogna attendere la seconda metà se non l’ultimo terzo del XIX secolo. Tra il periodo 1800-10 e quello 1850-60 i salari sono fermi a livelli bassissimi – vicini a quelli del XVIII secolo e dei secoli precedenti – o, in alcuni casi, a livelli addirittura inferiori. Questa lunga fase di stagnazione salariale, riscontrabile sia nel Regno Unito sia in Francia, è tanto più impressionante in quanto il periodo coincide con un’accelerazione della crescita economica. La quota del capitale – profitti industriali, rendita fondiaria, affitti urbani – che concorre alla composizione del reddito nazionale, nella misura in cui è possibile valutarla con le fonti imperfette di cui oggi disponiamo, è destinata a crescere sensibilmente durante la prima metà del XIX secolo.5 Diminuirà, di poco, solo negli ultimi decenni del secolo, quando i salari recupereranno in parte il ritardo a lungo accumulato nella crescita. I dati che abbiamo raccolto indicano comunque che nessuna diminuzione strutturale delle disuguaglianze si produce prima della prima guerra mondiale. Tra il 1870 e il 1914 si assiste se mai a una stabilizzazione delle disuguaglianze, e a un livello alquanto elevato; anzi, per certi versi, a una perpetuazione della spirale senza fine della disuguaglianza con, in particolare, una concentrazione sempre più massiccia dei patrimoni. È molto difficile dire dove avrebbe portato quella curva in assenza delle gravi ripercussioni economiche e politiche prodotte dalla guerra del 1914-18, ripercussioni che, alla luce dell’analisi storica, e con il senno di poi di cui oggi disponiamo, appaiono come le uniche vere cause della riduzione delle disuguaglianze dopo la Rivoluzione industriale.

Fatto sta che la prosperità del capitale e dei profitti industriali, in contrasto con la stagnazione dei redditi da lavoro, è nel decennio tra il 1840 e il 1850 una realtà talmente evidente che tutti ne sono perfettamente consapevoli, anche se nessuno dispone al momento di statistiche nazionali significative.

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Marx muove dal modello ricardiano del valore del capitale e del principio di rarità, e spinge molto oltre l’analisi della dinamica del capitale stesso, considerando un mondo in cui il capitale è prima di tutto capitale industriale (macchine, attrezzature ecc.) e non terriero, e può dunque, in teoria, accumularsi illimitatamente. Di fatto la sua conclusione di fondo coincide con quello che possiamo chiamare “principio di accumulazione infinita”, vale a dire la tendenza inevitabile del capitale ad accumularsi e concentrarsi su scala illimitata, senza un termine naturale, da cui discende la soluzione apocalittica prevista da Marx: o si arriva a un calo tendenziale del tasso di profitto del capitale (il che manda in tilt il motore dell’accumulazione e può portare i capitalisti a sbranarsi a vicenda) o la quota di capitale del reddito nazionale si accresce indefinitamente (il che porterà i lavoratori, a più o meno breve scadenza, a unirsi e a ribellarsi). In ogni caso, non è ipotizzabile alcuno stabile equilibrio socioeconomico o politico.

Il fosco destino prefigurato da Marx non si è realizzato, così come non si sono realizzate le previsioni di Ricardo. A partire dall’ultimo terzo del XIX secolo, i salari fanno finalmente segnare un lieve progresso: il miglioramento del potere d’acquisto si generalizza, e il fenomeno cambia radicalmente la situazione, anche se le disuguaglianze restano estremamente forti e continuano per certi aspetti ad aggravarsi fino alla prima guerra mondiale. La Rivoluzione comunista ha sì avuto luogo, ma nel paese più arretrato d’Europa, quello in cui la Rivoluzione industriale era stata appena avviata (la Russia), mentre i paesi europei più avanzati hanno tentato altre vie, socialdemocratiche, a tutto beneficio dei loro popoli. Come gli autori a lui precedenti, Marx ha del tutto trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività, fattore che, come vedremo, consente in una certa misura di equilibrare il processo di accumulazione e di concentrazione del capitale privato.

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Malgrado tutti i limiti, l’analisi marxiana mantiene, su parecchi punti, una sua congruenza. Il principio di accumulazione infinita da cui Marx mette in guardia contiene un’intuizione fondamentale per l’analisi del XXI secolo come del XIX, un’intuizione ancor più inquietante, in qualche modo, del principio di rarità caro a Ricardo. Quando il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono per loro natura un valore considerevole, potenzialmente smisurato, e destabilizzante per le società interessate. In altri termini, una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione infinita: ne risulta uno squilibrio che, se non ha i connotati apocalittici sottolineati da Marx, ha comunque connotati assai inquietanti. L’accumulazione a un determinato punto si blocca, ma questo punto può essere estremamente elevato, e rivelarsi destabilizzante.

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I dati a disposizione permettono a Kuznets di calcolare, nella composizione del reddito nazionale americano, la quota di decili e centili superiori nella gerarchia dei redditi. E che cosa scopre? Scopre che negli Stati Uniti, tra il 1913 e il 1948, si è verificata una forte riduzione delle disuguaglianze di reddito. In concreto, negli anni dieci e venti, il decile superiore della distribuzione, vale a dire il 10% costituito dagli americani più ricchi, assorbiva ogni anno fino al 45-50% del reddito nazionale; alla fine degli anni quaranta, la quota del reddito nazionale riferibile al decile superiore è scesa a circa il 30-35% del reddito nazionale: un calo superiore a 10 punti del reddito nazionale, davvero considerevole, equivalente più o meno alla metà di quanto percepisce il 50% degli americani più poveri.13 La riduzione delle disuguaglianze è netta e incontestabile. E il dato, di notevole rilievo, avrà un impatto enorme nei dibattiti economici del dopoguerra, nelle università e negli organismi internazionali.

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A dire il vero, Kuznets è perfettamente conscio del carattere in larga misura congiunturale della compressione degli alti redditi americani tra il 1913 e il 1948. La quale non ha molto a che vedere con un processo naturale e spontaneo, e ha invece molte correlazioni con le molteplici ripercussioni della crisi degli anni trenta e della seconda guerra mondiale. Nel suo corposo volume pubblicato nel 1953, Kuznets analizza in dettaglio le classi di reddito e pone comunque in guardia il lettore contro il rischio di generalizzazioni affrettate. Tuttavia, nel dicembre 1954, nell’ambito della conferenza che tiene in qualità di presidente dell’American Economic Association riunita a congresso a Detroit, decide di proporre ai colleghi un’interpretazione molto più ottimistica rispetto ai risultati contenuti nel volume del 1953. Ed è tale conferenza, pubblicata nel 1955 con il titolo “Economic Growth and Income Inequality” (Crescita economica e disuguaglianza del reddito), che costituisce l’atto di nascita della teoria della “curva di Kuznets”.

Secondo questa teoria le disuguaglianze sarebbero ovunque destinate a seguire, nel corso del processo di industrializzazione e sviluppo economico, una “curva a U rovesciata”, vale a dire un arco caratterizzato dal binomio crescita-decrescita. Secondo Kuznets, a una fase di crescita naturale delle disuguaglianze, caratteristica delle prime tappe dell’industrializzazione e che negli Stati Uniti corrisponderebbe grosso modo al XIX secolo, seguirebbe una fase di forte diminuzione delle disuguaglianze stesse che, sempre negli Stati Uniti, sarebbe iniziata nella prima metà del XX secolo.

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Quali sono le nostre principali conclusioni, raggiunte grazie alla possibilità di attingere a fonti storiche finora inesplorate? La prima lezione è che occorre diffidare, in una materia del genere, di ogni determinismo economico: la storia della distribuzione delle ricchezze è sempre una storia profondamente politica, che non si esaurisce nell’individuazione dei meccanismi puramente economici. In particolare, la riduzione delle disuguaglianze osservata nei paesi sviluppati tra il 1900 e il 1910 e tra il 1950 e il 1960 è innanzitutto dovuta all’incidenza delle due guerre e delle politiche pubbliche messe in campo per superare le gravi crisi in atto. Così come la crescita delle disuguaglianze dal 1970 al 1980 e successivamente è soprattutto dovuta ai cambiamenti politici degli ultimi decenni, specie in materia fiscale e finanziaria. La storia delle disuguaglianze dipende dalla rappresentazione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è che si fanno gli attori economici, politici, sociali, dai rapporti di forza tra questi attori, e dalle scelte collettive che ne derivano; è ciò che viene determinato da tutti gli attori coinvolti.

La seconda lezione, nodo centrale del libro, è che la dinamica della distribuzione delle ricchezze si muove su fenomeni di grande portata, motori sia di convergenza che di divergenza in assenza di qualunque strumento naturale o spontaneo che controlli il prevalere di tendenze destabilizzanti che innescano la disuguaglianza.

Cominciamo con i meccanismi a favore della convergenza, vale a dire a favore della riduzione e della compressione delle disuguaglianze. Il principale fattore di convergenza sono i processi di diffusione delle conoscenze e di investimento sulle competenze e nella formazione. Il gioco della domanda e dell’offerta, così come la mobilità del capitale e del lavoro, che ne costituisce una variante, possono intervenire ugualmente in questa direzione, ma in misura meno intensa, e spesso in forma ambigua e contraddittoria. Il processo di diffusione delle conoscenze e delle competenze è l’elemento cruciale, il meccanismo che consente al tempo stesso la crescita generale della produttività e la riduzione delle disuguaglianze sia all’interno di ciascun paese sia a livello mondiale, come dimostra il riequilibrio economico attualmente raggiunto da molti paesi poveri ed emergenti, a cominciare dalla Cina, rispetto ai paesi ricchi. Adottando i modelli di produzione e raggiungendo i livelli di qualificazione dei paesi ricchi, i paesi meno sviluppati colmano i ritardi di produttività e accrescono il reddito nazionale. Tale processo di convergenza tecnologica può essere favorito dalle aperture commerciali, ma si tratta fondamentalmente di un processo di diffusione delle conoscenze e di condivisione del sapere – bene pubblico per eccellenza – più che di un meccanismo di mercato.

Da un punto di vista strettamente teorico, esistono potenzialmente altri elementi di forza finalizzati al raggiungimento di una maggiore uguaglianza. Per esempio si potrebbe pensare che nel corso della storia le tecniche di produzione assegnino un’importanza sempre maggiore al lavoro dell’uomo e alle sue competenze, di modo che la quota dei redditi da lavoro faccia registrare una crescita tendenziale (parallela a una decrescita dei redditi da capitale): ipotesi che potremmo chiamare “crescita o riscatto del capitale umano”. In altri termini, se così fosse, il progressivo adeguamento alla razionalità tecnica comporterebbe automaticamente la vittoria del capitale umano sul capitale finanziario e immobiliare, del personale dirigente meritevole sugli azionisti oziosi, della competenza sul nepotismo. In tal senso, le disuguaglianze diventerebbero di per sé più meritocratiche e meno immutabili (se non meno evidenti) nel corso della storia: in qualche modo, la razionalità economica si tradurrebbe meccanicamente, se così fosse, in razionalità democratica.

Un altro pensiero ottimistico, assai diffuso nelle società moderne, è quello secondo cui l’allungamento della durata della vita porterebbe automaticamente a sostituire la “lotta di classe” con il “conflitto generazionale” (forma di conflitto tutto sommato meno lacerante per una società, poiché ciascuno è prima giovane e poi vecchio). In altri termini, l’accumulazione e la distribuzione dei patrimoni sarebbero oggi dominate non più da uno scontro implacabile tra le dinastie di eredi e le dinastie che non possiedono altro che il proprio lavoro, ma da una logica del risparmio nel corso del ciclo della vita: nel senso che ciascuno accumula patrimonio per la propria vecchiaia. Il progresso della medicina e il miglioramento delle condizioni di vita avrebbero quindi trasformato totalmente la natura stessa del capitale.

Purtroppo vedremo che entrambe le idee, alquanto ottimistiche (la “crescita del capitale umano” e l’affermazione del “conflitto generazionale” sulla “lotta di classe”), sono in gran parte illusorie. Più esattamente tali trasformazioni, del tutto plausibili da un punto di vista strettamente logico, hanno certo avuto luogo, ma in proporzioni molto meno massicce di quanto a volte si pensi. Non è affatto sicuro che la quota lavoro nella composizione del reddito nazionale sia incrementata in modo significativo sul lungo periodo: il capitale (non umano) appare tuttora nel XXI secolo indispensabile pressoché nella stessa misura in cui lo era nel XVIII o nel XIX secolo, e non è da escludere che lo diventi ancora di più. Per cui, oggi come ieri, le disuguaglianze patrimoniali restano al primo posto nella scala delle disuguaglianze all’interno di ciascuna classe d’età. E vedremo come l’eredità oggi, all’inizio del XXI secolo, stia riacquistando la stessa importanza che aveva all’epoca di Papà Goriot. Sul lungo periodo, il fattore veramente propulsivo e in grado di determinare processi di eguaglianza delle condizioni, è la diffusione delle conoscenze e delle competenze.

Ora, la questione cruciale è che il fattore ugualitario, per quanto importante sia, in particolare per consentire la convergenza tra paesi diversi, possa essere a volte controbilanciato e dominato da potenti fattori di segno opposto, operanti nel senso della divergenza, vale a dire dell’allargamento e della moltiplicazione delle disuguaglianze. L’assenza di un investimento adeguato nella formazione può impedire a interi gruppi sociali di accedere ai benefici della crescita, o può determinarne la discesa nella scala sociale rispetto a nuovi soggetti entranti, com’è dimostrato dal riequilibrio mondiale attualmente in corso (gli operai cinesi prendono il posto degli operai americani e francesi, e così via). In altri termini, il principale fattore di convergenza – la diffusione delle conoscenze – è soltanto in parte un fattore naturale e spontaneo: esso dipende in larga parte dalle politiche condotte in materia di educazione e di accesso alla formazione e alle competenze adeguate, e dalle istituzioni preposte.

Nel contesto del libro, porremo inoltre l’accento su fattori di divergenza ancor più inquietanti, poiché possono determinarsi in un mondo in cui tutti gli investimenti adeguati per la maturazione delle competenze potrebbero essere già avvenuti, e in cui tutte le condizioni di efficienza dell’economia di mercato – nell’accezione data dagli economisti – appaiano realizzate. Questi fattori di divergenza sono principalmente due: il primo è il processo di allontanamento, scollamento, delle retribuzioni più elevate rispetto alle altre, un fenomeno che potrà essere molto rilevante, benché per il momento sia abbastanza localizzato; il secondo, ancora più grave, è l’affermazione di una serie di squilibri legati al processo di accumulazione e concentrazione dei patrimoni, in un mondo caratterizzato da una crescita debole e da un rendimento elevato del capitale. Il secondo può risultare anche più destabilizzante del primo, e costituisce senza dubbio la minaccia numero uno per la dinamica della distribuzione delle ricchezze a lunghissimo termine.

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Il primo indicatore  indica la curva seguita dalla quota del decile superiore della gerarchia dei redditi nella distribuzione del reddito nazionale americano durante il secolo successivo al 1910. Si tratta semplicemente dell’estensione delle classi storiche di reddito fissate da Kuznets negli anni cinquanta. E vi ritroviamo, di fatto, la forte compressione delle disuguaglianze osservata dallo stesso Kuznets tra il 1913 e il 1948, ossia un calo di 15 punti di reddito nazionale per quanto riguarda la quota compresa nel decile superiore, equivalente al 45-50% del reddito nazionale relativo al periodo dal 1910 al 1920, percentuale scesa poi al 30-35% alla fine degli anni quaranta. La disuguaglianza si stabilizzerà a tale livello tra il 1950 e il 1970. Dopodiché, a partire dagli anni settanta e ottanta, si osserva un rapidissimo processo in senso inverso, al punto che la parte compresa nel decile superiore torna, nel decennio tra il 2000 e il 2010, a un livello del 45-50% del reddito nazionale. L’ampiezza dell’inversione è notevolissima. Per cui viene naturale chiedersi fin dove possa spingersi una tendenza del genere.

Vedremo che un’evoluzione tanto spettacolare corrisponde in larga parte all’esplosione senza precedenti dei più alti redditi da lavoro, e che riflette innanzitutto un fenomeno oggi ben visibile: un numero crescente di alti dirigenti delle grandi imprese sta prendendo il sopravvento. Una prima possibile spiegazione può essere un’improvvisa ascesa dei livelli di qualificazione e di produttività degli alti dirigenti rispetto alla massa degli altri salariati. Una seconda spiegazione, a mio avviso più plausibile e più coerente con i fatti osservati, è che sono gli stessi alti dirigenti in larga misura a fissare le proprie retribuzioni, a volte senza alcun contegno, e spesso senza un chiaro rapporto con la produttività individuale, molto difficile da stimare nell’ambito di aziende di grandi dimensioni.

Il secondo indicatore rimanda a un fattore di divergenza che è in un certo modo più semplice e trasparente, e che è senza dubbio ancora più decisivo per la curva a lungo termine della distribuzione delle ricchezze. Il grafico I.2 indica la variazione, nel Regno Unito, in Francia e in Germania, del valore complessivo dei patrimoni privati (immobiliari, finanziari e di investimento, al netto dei debiti), espressa in annualità di reddito nazionale, dal 1870 a oggi. Si noterà in primo luogo l’altissimo grado di prosperità patrimoniale che ha caratterizzato l’Europa alla fine del XIX secolo e della belle époque: il valore dei patrimoni privati si fissa attorno alle sei-sette annualità di reddito nazionale, che è un fatto considerevole. Successivamente si può constatare un forte calo, determinato dagli eventi scioccanti intercorsi tra il 1914 e il 1945: il rapporto capitale/reddito cala a due-tre annualità di reddito nazionale. Dopodiché si nota una crescita continua a partire dagli anni cinquanta, al punto che i patrimoni privati sembrano quasi raggiungere, oggi, i livelli riscontrati alla vigilia della prima guerra mondiale: nei primi dieci anni del XXI secolo il rapporto capitale/reddito si colloca attorno a cinque-sei annualità di reddito nazionale sia nel Regno Unito sia in Francia (in Germania si colloca a un livello inferiore, nazione che però è partita da un livello più basso: la tendenza è comunque netta anche in questo paese).

Nel 1910, in Europa, il totale dei patrimoni privati vale attorno alle 6-7 annualità di reddito nazionale, nel 1950 vale attorno alle 2-3 annualità, nel 2010 vale attorno alle 4-6 annualità.

il ritorno dell’elevato rapporto tra lo stock di capitale e il flusso di reddito nazionale negli ultimi decenni si spiega in larga parte con il ritorno a un regime di crescita relativamente lenta. Nelle società a crescita debole i patrimoni ereditati dal passato assumono per loro natura un rilievo sproporzionato poiché, ad accrescere in modo continuativo e sostanziale l’ampiezza dello stock, basta anche un debole flusso di nuovo risparmio.

Se poi il tasso di rendimento da capitale raggiunge livelli consistenti e duraturi tali da superare il tasso di crescita (il che non è automatico, ma è tanto più probabile quanto più è debole il tasso di crescita) esiste allora un rischio molto forte di divergenza caratterizzata dalla distribuzione delle ricchezze.

Questa disuguaglianza fondamentale, che esprimeremo con la formula r > g – dove r indica il tasso annuo di rendimento da capitale (vale a dire quanto rende in media il capitale nel corso di un anno, sotto forma di profitti, dividendi, interessi, affitti e altri redditi da capitale in percentuale del suo valore) e g indica il tasso di crescita (vale a dire la crescita annua del reddito e del prodotto) – ricoprirà nel libro un ruolo essenziale. Anzi, in qualche modo, ne riassumerà la logica d’insieme.

Quando il tasso di rendimento del capitale supera in misura significativa il tasso di crescita – e vedremo che è il caso più frequente nel corso della storia, quantomeno fino al XIX secolo, destinato con ogni probabilità a essere la norma nel XXI, il fenomeno implica automaticamente che i patrimoni ereditati dal passato si ricapitalizzino più in fretta rispetto all’andamento del processo di produzione e dei redditi. Per cui, per chi eredita patrimoni dal passato, basta risparmiare una quota anche limitata di reddito del proprio capitale perché quest’ultimo si accresca più in fretta rispetto alla crescita economica nel suo complesso. In tali condizioni, è pressoché inevitabile che i patrimoni ricevuti in eredità prevalgano largamente sui patrimoni accumulati nel corso di una vita di lavoro, e che la concentrazione del capitale raggiunga livelli assai elevati, potenzialmente incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale che costituiscono il fondamento delle nostre moderne società democratiche.

Questo determinante fattore di divergenza può inoltre essere rafforzato da meccanismi aggiuntivi, per esempio quando il tasso di risparmio cresce in sintonia con la crescita del grado di ricchezza,37 e ancor più quando il tasso di rendimento medio effettivamente ottenuto è tanto più elevato quanto più è elevato il capitale iniziale (fenomeno che, come avremo modo di vedere, si avvia a prevalere). Il carattere imprevedibile e arbitrario dei rendimenti da capitale e delle forme di arricchimento che ne derivano diventano così ragione per rimettere in discussione l’ideale meritocratico. Infine, tali effetti, nel loro insieme, possono essere aggravati da un meccanismo di tipo ricardiano, di divergenza strutturale dei prezzi degli immobili e del petrolio.

Riassumendo. Il processo di accumulazione e di distribuzione dei patrimoni contiene in sé fattori talmente potenti da spingere verso la divergenza, o quantomeno verso un livello di disuguaglianza estremamente elevato. Esistono sì fattori di convergenza, tali da riuscire a prevalere in determinati paesi e in determinate epoche, ma i fattori di divergenza possono in ogni momento riprendere il sopravvento, come sembra accadere in questo inizio di XXI secolo, e come lascia prevedere il probabile calo della crescita demografica ed economica nei decenni a venire.

Le mie conclusioni sono meno apocalittiche di quelle implicite nel principio di accumulazione infinita e di divergenza perpetua espresso da Marx (la cui teoria si fonda, di fatto, su un’idea di crescita zero della produttività a lungo termine). Nello schema proposto la divergenza non è perpetua, è solo uno dei possibili scenari futuri. Tuttavia non sono, le mie, conclusioni molto rassicuranti. In particolare, è importante sottolineare che la disuguaglianza di fondo r > g, massimo fattore di divergenza nel nostro schema esplicativo, non ha niente a che vedere con una qualunque imperfezione di mercato. Anzi, si tratta piuttosto del contrario: più il mercato del capitale è “perfetto”, nel significato che gli economisti danno a questo aggettivo, più è probabile che la disuguaglianza si verifichi. È possibile immaginare istituzioni e politiche pubbliche che permettano di contrastare gli effetti di tale logica implacabile, come un’imposta mondiale progressiva sul capitale. Ma la loro concreta attuazione pone problemi notevoli in termini di coordinamento internazionale. È purtroppo probabile che le risposte che verranno date, nella pratica, siano molto più modeste e inefficaci – penso a manovre di varia natura a livello nazionale.