GLI ARCIERI CHE NON SAPEVANO TIRARE AL BUIO |
Questa
è una storia che risale a molto tempo fa. Un vecchio maestro aveva dieci
allievi cui insegnava l’arte del tiro con l’arco. Egli era molto anziano, e
spesso doveva rimanere a letto tutto il giorno, prostrato dai suoi acciacchi.
I dieci allievi erano giovani
impazienti. Da diversi mesi stavano presso di lui, e avevano l’impressione di
ripetere sempre gli stessi esercizi. Erano superbi tiratori, i migliori del
paese, e credevano di aver ormai appreso tutto quel che c’era da apprendere.
Meditavano di andarsene e di non pagare più inutilmente il vecchio arciere,
anzi, di diventare essi stessi maestri.
Una sera di inverno, mentre si
esercitavano a tirare a bersagli posti al fondo della grande palestra alla luce
di numerosi lumini ad olio, il maestro arrivò inaspettato, e cominciò a
spegnere i lumi ad uno ad uno. Dapprima i tiri continuarono, e si sentivano i
tonfi regolari delle frecce sui bersagli. Ma via via che le lampade venivano
spente i tonfi diminuivano, e alla fine cessarono. Era rimasto acceso un solo
lumino in un angolo lontano della grande sala, e si udiva solo il sibilo del
vento all’esterno. Era così buio che nessuno riusciva a vedere le proprie mani,
figurarsi tirare. Tutti erano ora immobili e scrutavano in direzione del
maestro.
Questi – poco più che un’ombra – prese
un arco, lo bilanciò, e tirò in rapidissima successione tre frecce.
Stranamente, non si udirono i colpi dell’impatto. Fu preso un lume e si
ispezionarono i bersagli. Nessuno di essi era stato raggiunto. Sghignazzando in
faccia a quel vecchio bizzarro, gli allievi andarono allora a dormire. La
decisione era presa: l’indomani avrebbero lasciato quel luogo ed abbandonato il
maestro.
La mattina dopo al sorgere del sole una
delle serve si recò, come d’abitudine, nella palestra. Notò che la luce
penetrava da un forellino quasi invisibile nella parete dietro ai bersagli –
fatta di pannelli di carta di riso. Curiosa, vi mise l’occhio. Sbattè le
palpebre, per sincerarsi che ciò che stava vedendo non era frutto della scarsa
luce, ma non c’era alcun dubbio.
Dietro la palestra si estendeva un
grande spiazzo. Lontano, in fondo allo spiazzo, un bersaglio era stato lasciato
insieme ad altro ciarpame. La prima delle tre frecce lo aveva colpito esattamente
nel centro. La seconda freccia aveva spaccato la prima e si era infissa nello
stesso punto. La terza freccia si era aperta la strada attraverso la seconda ed
aveva colpito anch’essa il cuore del bersaglio.
Tutte e tre erano passate per lo stesso
foro della parete e si erano infisse con tale violenza nel supporto di quercia
da averlo crepato per tutta la sua lunghezza.
Gli
allievi, quel giorno, cercarono invano il maestro. Era scomparso. Dopo qualche
mese arrivò ad uno di loro una lettera col timbro di un lontanissimo paese.
Il
maestro – scusandosi – diceva che, vecchio e malandato, aveva deciso di
prendersi una lunga, lunga vacanza. Che gli allievi non lo attendessero. “Del
resto, egli scriveva, chi ha bisogno di uno strano vecchio che tira al buio ad
un bersaglio che nessuno vede?”