Bal
Macabre |
Lord Hopeless mi aveva pregato di prender posto al suo
tavolo per presentarmii gli altri.
Era trascorsa da molto la mezzanotte e non rammento più la
maggior parte dei nomi.
Il dottor Zitterbein lo conoscevo già da prima.
«È un peccato che se ne stia sempre seduto da solo», aveva
detto e mi una stretto la mano. «Perché se ne sta sempre solo?».
So che non avevamo bevuto molto, eppure in maniera lieve e
impercepibile eravamo in quello stato di ebbrezza tipico delle ore notturne,
quando si è avvolti da fumo, risate di donne, musica scialba e molte parole ci
giungono solo come da lontano.
Come mai da un' aria di cancan
come quella, da un'atmosfera di musica zigana, di cakewalk(1) e di champagne, poté nascere una
conversazione su temi fantastici?!
Lord Hopeless si mise a raccontare qualcosa: la storia di una
comunità di esseri, o per meglio dire, di morti, di morti apparenti, persone
della migliore società, che a dire dei viventi erano defuntee, sepolte da tempo
al cimitero sotto lapidi e cripte che recavano il loro nome e la data di morte.
In realtà, in stato di catalessi cronica, insensibili e imputrescibili, esse
erano racchiuse dentro casse custodire in una vecchia casa da un uomo che
chiamavano Arum Maculatum(2), un servitore gobbo con le scarpe a
fibbia e una parrucca incipriata. Si raccontava come, a volte la notte, sulle
loro labbra comparisse una luce opaca, fosforescente, e che a quel segnale il
gobbo potesse attivare un procedimento segreto sulle vertebre cervicali di quei
morti apparenti. Svincolati così per breve tempo dal corpo terreno, le loro
anime potevano vagare liberamente e darsi ai vizi della grande città con
un'intensità e un'avidità tali da far invidia ai più corrotti. Tra l'altro
aveva luogo un fenomeno vampirico: come zecche si attaccavano ai viventi che
precipitavano di vizio in vizio. Derubavano le masse delle loro sensazioni per
arricchirsene esse stesse.
Il Club, che portava il singolare nome di Amanita(3),
aveva regolamenti, statuti e severe disposizioni che disciplinavano
l'ammissione di nuovi membri. Ma tutto ciò era coperto da un impenetrabile velo
di mistero. Non compresi più la fine di quel discorso di Lord Hopeless, i
musicisti attaccarono in fortissimo la più recente canzonetta in voga:
Per me la
bion… da
è quella
ve… ra.
Trala,
trala, trala,
tra ...
lalala... la.
Eseguendo grottesche distorsioni, una coppia di mulatti vi
ballava una sorta di cancan negro. Tutto quanto serviva ad amplìfìcare il senso
d'irritazione che il racconto aveva suscitato in me.
In quel locale notturno in mezzo a prostitute imbellettate,
a camerieri ben pettinati, a protettori con i capelli brillantinati acconciati
a ferro di cavallo, ogni cosa contribuiva a creare l'impressione di un che di
lacunoso, di mutilato, che per i miei sensi si coagulava in una caricatura
orrenda, semiviva.
Come quando nei momenti in cui non prestiamo attenzione, il
tempo avanza a un tratto frettoloso e silenzioso, le ore - per noi presi da
ebbrezza - precipitano in secondi che luccicano come scintille illuminando
nell' anima un morboso intreccio di sogni curiosi e temerari, intessuti di
confuse idee, di passato e di futuro, così io, dal buio dei ricordi, odo
soltanto una voce dire: «Dovremmo
scrivere un biglietto al Club Amanita».
Da quanto posso desumere ora, il discorso deve essere
tornato di continuo sullo stesso tema.
Da tali ricordi balenano frammenti di minori percezioni: un
bicchierino che s'infrange, un fischio, una francese che mi si siede su un
ginocchio, che mi bacia, che mi soffia in bocca il fumo della sigaretta, che mi
mette la punta della lingua nell' orecchio, poi mi passano un biglietto pieno
di svolazzi da firmare, mi cade la matita di mano... ma la cosa non riesce,
perché la cocotte mi versa un bicchiere di champagne sul polsino della camicia.
Di certo ora so soltanto che a un tratto fummo tutti quanti
sobri e che ci mettemmo a cercare nelle nostre tasche, sotto e sopra il tavolo,
il biglietto che Lord Hopeless voleva riavere a ogni costo, ma che era sparito
senza lasciar traccia.
Per me la
bion… da
è quella
ve… ra.
I violini stridevano il ritornello e la nostra coscienza
continuava a scivolare nella notte profonda. Se chiudevo gli occhi, avevo
l'impressione di giacere su un folto tappeto di velluto nero da cui
risplendevano soltanto rari fiori color rubino.
«Vorrei qualcosa da mangiare», qualcuno gridava. «Cosa?
Caviale?
Ridicolo! Mi porti... mi porti funghi in conserva».
E tutti noi mangiammo funghi acidi che galleggiavano in un
liquido, chiaro, filamentoso con erbe aromatiche.
Per me la
bion… da È quella ve… ra
Trala,
trala, trala,
tra…
lalala… la.
All'improvviso mi accorsi che alla nostra tavola sedeva uno
strano acrobata con un tricot(4) penzolante, alla sua destra un
gobbo mascherato con una parrucca bianca del colore della stoppa, accanto a lui
una donna: tutti ridevano.
Come hanno fatto a
entrare... quelli lì? Mi voltai: oltre a noi non c'era più nessuno nella sala.
Ah! Che importa!... Che importa!
La tavola dove eravamo seduti era molto lunga e gran parte
della tovaglia scintillava bianca, senza né piatti né bicchieri.
«Monsieur Phalloides(5), ci balli qualcosa»,
disse uno dei presenti e batté un colpetto sulla spalla dell'acrobata.
Sono in confidenza fra loro, andavo fantasticando io: pro...
babilmente è qui già da tempo, il... il... tricot!
Poi guardai il gobbo seduto alla sua destra e il suo
sguardo incontrò il mio. Portava una maschera bianca laccata e un giustacuore
di un verde chiaro smorto, tutto cencioso e rappezzato.
Quando rideva, sembrava emettere un sibilo stridente.
«Crotalus!... Crotalus Horridus!(6)». Mi sovvenni di una parola dei
tempi di scuola; non ne sapevo più il significato, ma rabbrividii quando lo
bisbigliai fra me.
In quel momento sentii, sotto la tavola, sul mio ginocchio
il dito della giovane prostituta.
«Mi chiamo Albine Veratrine(7)», sussurrò
esitante, quando le presi la mano, quasi stesse rivelandomi un segreto. Mi si
accostò vicinissima e mi rammentai vagamente che una volta era stata lei a
versarmi un bicchiere di champagne sul polsino... I suoi abiti emanavano un
odore pungente che faceva starnutire ogni volta che si muoveva.
L'acrobata scoppiò in una breve risata, la guardò e fece
spallucce a mo' di scusa.
Mi nauseava: aveva sul collo dei bargigli larghi un palmo
simili a quelli dei tacchini, ma accartocciati tutt'attorno e di color pallido.
Data la magrezza e la scarsità di torace, il tricot dello stesso colore della
carne smorta gli ciondolava da tutte le parti; in testa portava un copricapo
verdastro piatto a pois e a bottoni bianchi. Si era alzato e ballava con una
che aveva attorno al collo una collana di bacche screziate.
Sono entrate delle altre donnine? Domandai con lo sguardo a
Lord Hopeless.
«È mia sorella Ignatia», disse Albine Veratrine e dicendo
la parola sorella sbirciò verso di me con la coda dell'occhio e scoppiò a
ridere istericamente.
Poi di colpo mi mostrò la lingua segnata da una lunga
striscia rossa e secca. Inorridii.
Presi a riflettere sul perché avesse una striscia rossa:
sembrava un segno di avvelenamento. Era un segno di avvelenamento.
Udii di nuovo quella musichetta giungere da lontano:
Per me la
bion… da
è quella
ve... ra.
Tenevo gli occhi chiusi, eppure sapevo che tutti ne
seguivano il tempo muovendo il capo.
Sognai che era un segno d'avvelenamento e mi risvegliai con
un brivido di freddo: il gobbo dal giustacuore verde macchiato tenen sulle
ginocchia una prostituta e le strappava gli abiti di dosso con le mani angolose
in preda a convulsioni, quasi avesse il ballo di San Vito e volesse
accompagnare il ritmo di una musica impercepibile. Il dottor Zirterbeìn s'alzò
faticosamente e le sciolse i lacci sulle spalle.
«Tra secondo e secondo c'è sempre un confine che non è nel
tempo, ma che esiste soltanto nella nostra mente. Sono come le maglie di una
rete». Era il gobbo a parlare. «E anche se questi confini vengono sommati non
formano alcun tempo, eppure noi li pensiamo una volta, una seconda, una terza,
una quarta volta... E se noi viviamo esclusivamente in questi confini e
dimentichiamo i minuti e i secondi e non sappiamo più... allora siamo morti e
viviamo la morte. Voi vivete cinquant'anni: di questi, dieci ve ne ruba la
scuola, ne restano quaranta.
«Venti li divora il sonno: ne restano venti.
«Dieci sono gli affanni: ne restano dieci
«Cinque son anni di pioggia: ne restano cinque.
«Di questi quattro li passare in pena per il domani, così
forse vivete un anno!
«Perché non volete morire?
«La morte è bella: c'è pace, sempre pace. E non ci sono
pene per il domani. Là c'è il tacito presente che voi non conoscete, là non c'è
né un prima né un dopo.
«Là giace il tacito presente che voi non conoscete! Sono le
maglie nascoste tra secondo e secondo nella rete del tempo».
Le parole del gobbo echeggiavano nel mio cuore, sollevai lo
sguardo e vidi che alla ragazza, che era ancora seduta sulle sue ginocchia, era
caduta per terra la camicia: non aveva né seno né corpo, dalla clavicola all'
anca c'era soltanto una nebbia fosforescente. Il gobbo conficcò le dita in
quegli umori: ci fu uno stridere come di corde di contrabbasso e pezzi di
scorze calcaree si staccarono e caddero con gran fracasso... Sentii che la
morte è questa: un pezzo di crosta.
In quell'istante il centro della bianca tovaglia si sollevò
pian piano, gonfiandosi come una grossa bolla, prese a spirare una corrente d'aria
gelida che disperse la nebbia. Vennero alla luce corde scintillanti che si
snodavano cblla clavicola all'anca della prostituta: un essere mezzo arpa e
mezzo donna!
Sognai che il gobbo vi suonava una lasciva canzone di morte
che si chiudeva con uno strano inno:
In dolore
si muta il piacere
non certo
in bene!
Colui che
brama il piacere,
colui che
sospira il piacere,
sospira
il dolore, brama il dolore:
Colui che
mai brama e mai sospira il piacere
mai
sospira e mai brama il dolore.
All'udire queste strofe, provai nostalgia della morte e
desiderai morire.
Ma la vita, un oscuro istinto, si ribellò nel mio cuore. E
la morte e la vita si fronteggiarono minacciose: sprofondai in uno stato di
catalessi.
I miei occhi erano fusi: l'acrobata si chinò su di me e io
vidi il suo tricot ciondolare, il copricapo verdastro in testa e il collo
accartocciato.
«Catalessi», avrei voluto balbettare e non potevo.
Mentre egli ci passava acanto e ci scrutava in viso
spiandoci, seppi che eravamo paraIizzati e che era lui a esercitare su di noi
l'effetto di un fungo velenoso.
Abbiamo mangiato funghi velenosi e con essi il veratrum album, l'erba del veratro
bianco.
Sono tutti volti della notte! Avrei voluto gridare e non
potevo.
Avrei voluto guardare di lato e non potevo.
Il gobbo con la maschera bianca laccata s'alzò
silenziosamente e gli altri lo seguirono ordinandosi tacitamente a coppie.
L'acrobata con la francese, il gobbo con l'arpa umana,
Ignatia con Albine Veratrine... A passo di cakewalk,
battendo i tacchi, a due a due, penetrarono nella parete.
Albine Veratrine si voltò ancora una volta a guardarmi e mi
fece un gesto osceno.
Avrei voluto volgere gli occhi di fianco o chiudere le
palpebre e non potevo... ero costretto a fissare 1'orologio che era appeso alla
parete e le lancette che scivolavano furtive sul quadrante come le dita di un
ladro.
Per tutto il tempo l'audace strofetta continuava a
risuonarmi nelle orecchie:
Per me la
bion… da
è quella ve… ra,
Trala,
trala; trala,
Tra…
lalala… la
e come un basso ostinato ci esortava nel profondo:
In dolore
si muta il piacere.
Colui che
mai brama e mai sospita il piacere
mai
sospira e mai brama il dolore.
Guarii da quell'avvelenamento dopo molto, molto tempo, ma
gli altri riposano sottoterra.
Mi dissero che non fu più possibile salvarli quando
giunsero gli aiuti. lo ritengo tuttavia che siano stati sepolti solo dei morti
apparenti, anche se il medico dice che i funghi velenosi non producono
catalessi e che l'intossicazione da muscarina è tutt'altra cosa; io penso che
siano stati sepolti apparentemente morti e non posso non rabbrividire al
pensiero del Club Amanita e del suo spettrale servitore gobbo, Arum Maculatum
dalla maschera bianca.
note al racconto
(1) Danza
popolare dei negri d'America sviluppatasi nelle piantagioni del sud degli Stati
Uniti durante l'epoca schiavista. Esplose a Parigi nel 1903 con un successo
strepitoso.
(2) Pianta del genere delle aracee, velenosa
con bacche rosse.
(3) Nome comune di funghi appartenenti alle
amanitacee. Alcune specie sono molto velenose.
(4) Giacca di maglia.
(5) Fungo velenoso delle amanitacee.
(6) Serpente velenoso.
(7) Il Veratro è una pianta velenosa delle
liliacee.