A M E N

di Marco Vichi

 

 

 

 

Imboccò a piedi viale Petrocchi, canticchiando una can­zone tra i denti. Le tre di notte. Faceva freddo e teneva le mani in tasca. Una sigaretta fra le labbra. A un tratto si bloccò sulle gambe e si voltò, guardò la strada alle sue spalle. Solo un gatto che correva lungo il muro. Riprese a camminare verso casa. Da qualche tempo gli sembrava di essere seguito, soprattutto di notte. Ma doveva essere per via di tutto l'alcol che beveva in giro per i locali. Non che si ubriacasse fino a vomitare, come i poveracci che dove­vano dimenticare le loro miserie, ma insomma ci dava dentro. Un po' di lucidità la perdeva. E per strada ogni ombra era un fantasma che lo seguiva, rimproverandogli qualcosa. Era certamente il senso di colpa per quella vita che sua madre avrebbe definito inutile. Ma lui che poteva farci? A vent' anni aveva ereditato una fortuna dai suoi ge­nitori, morti uno dopo l'altro. Non poteva mettersi a lavo­rare, sarebbe stata un'offesa al destino. Fare qualcosa per gli altri? Aiutare i più deboli? Non si sentiva portato per quelle cose. Ognuno doveva fare quello per cui era nato.

Un paio di volte al mese sognava suo padre che lo guar­dava con disprezzo. Da lui aveva ricevuto alti insegna­menti morali. Il lavoro, la fatica, l'impegno. Costruire la propria vita mattone su mattone. Ma lui aveva già tutto, non aveva nulla da costruire. Per farlo avrebbe dovuto prima distruggere le proprie ricchezze. Assurdo.

Un rumore dietro le sue spalle. Si voltò di nuovo, ma non vide nulla. Solo un' ombra vaga che si ritirava in un portone. Qualcuno che tornava a casa, probabilmente. Buttò la cicca e accelerò il passo. Non vedeva l'ora di esse­re a letto. Aveva la bocca impastata e la testa pesante. Mancava poco al suo attico di via della Torre. Aveva an­che altre case, qua e là per la Toscana. Ma la sua vera resi­denza era la grande villa sulle colline di Pistoia, a San Mi­chele. Duemila metri quadrati di lusso. Nel grande garage che aveva fatto costruire accanto alla villa c'erano un paio di Ferrari, tre Porsche, una Mercedes e altre berline di cui non sapeva nemmeno la marca. Però quando restava a dormire in centro preferiva lasciare la macchina nel picco­lo garage sotto casa e uscire a piedi.

Cosa doveva costruire? Forse un giorno gli sarebbe ve­nuta una grande idea e la sua vita sarebbe cambiata. Per­ché no. Per adesso aspettava. Faceva spesso dei viaggetti, con una ragazza sempre diversa. Non viaggi lunghi. Gli piaceva tornare a casa per riposarsi. Quando era a Pistoia, la notte andava quasi sempre in qualche locale a bere e a cercare una ragazza nuova da portarsi a letto. Non sempre ci riusciva, perché non sfoggiava la sua ricchezza. Sarebbe stato troppo facile. Invece così c'era più gusto. L'ultima che si era scopato si chiamava ... come si chiamava? Co­munque aveva i capelli biondi e le labbra belle grosse, ma a letto non valeva come quella prima di lei, la mora con le tettone che sbagliava i congiuntivi. La meglio di ottobre era stata la giapponese, anche se non si capivano per nien­te. Roba da matti. Per farla smettere di fare sesso ci sarebbe voluto il fucile. Aveva passato una bella nottata, ma il giorno dopo aveva dovuto spingere la ragazza fuori dalla porta. Una scena triste, che avrebbe voluto evitare.

Imboccò via della Torre e nella tasca preparò le chiavi di casa. C'era solo un lampione che funzionava, e fuori dal cono di luce ci si vedeva a malapena. Si fermò davanti al portone «Buonasera, signor Colonna» disse una voce dietro le sue spalle. Si voltò di scatto, e qualche metro più in là vide la sagoma scura di un ometto senza capelli, chiuso in un cappotto più grande di lui.

«Lei chi è?» disse, un po' in ansia.

«Mi faccia entrare, ho una pistola» disse l'ometto, e sfì­lò dalla tasca un'automatica bella grossa. Gliela puntò ad­dosso. Nel buio la canna tremava leggermente. Colonna alzò le mani. Non riusciva a vederlo bene in faccia, ma non aveva l'aria del duro. Anzi sembrava un povero di­sgraziato. Dalla voce doveva avere una certa età, ma pote­va anche essere il risultato di una vita di stenti.

«Mi dica quanto vuole e sistemiamo tutto» disse, cer­cando di sorridere. Sentiva freddo alla testa, e il sudore gli colava sulle guance.

«Apra la porta» sussurrò l'ometto.

«Cento euro? Trecento? Mille?»

«Apra ... »

« Facciamo così, le do cinq ... »

«Apra! » disse l'ometto con la voce incrinata dall'impa­zienza.

«Certo ... stia calmo ... apro subito.»

Cercò le chiavi in tasca. Cosa cazzo voleva quell'omuncolo? Con quelle ma­ni tremanti era capace che gli scappasse un colpo. Doveva farlo stare calmo. Si sentì il rumore di una finestra che si chiudeva, in alto. Colonna alzò gli occhi ma non vide nes­suno.

«Presto» disse l'ometto facendo un passo avanti.

«Il tempo di trovare la chiave ... »

Finalmente aprì il portone. Entrò, e l'ometto s'infilò dietro di lui.

«Non accenda la luce. Andiamo a piedi» disse l'ometto.

«Guardi che sono sei piani. »

« Vada su ... »

«Lo dicevo per lei. »

« Vada su e stia zitto» disse l'ometto, deciso.

Colonna annuì e cominciò a salire. In cima alle scale c'era una pic­cola lampada che non veniva mai spenta, e dopo un po' gli occhi si abituarono alla penombra. Colonna pensò di pro­vare a disarmarlo, ma con la coda dell' occhio vedeva che l'ometto lo seguiva a distanza, qualche gradino più in bas­so. Era impossibile sorprenderlo. Al quarto piano si fer­mò per riprendere fiato, e si voltò.

«Non si fermi» disse l'ometto, e con la canna della pi­stola indicò i piani superiori.

«Sono stanco ... »

«Avrà tutto il tempo per riposarsi.» In quel buio, Colonna ebbe l'impressione di vederlo sorridere.

«Cosa vuole da me?» si azzardò a chiedere.

«Raccontarle una storia triste ... »

«Che? »

«Ora salga o sparo.» La pistola ebbe un tremito più forte.

«Calma ... vado subito ... »

Un pazzo. Era un pazzo peri­coloso, porca puttana. Riprese a salire le scale, irrigidito dalla tensione. Un pazzo. Poteva sparare in qualsiasi momento. Boom. Amen. Forse il mondo non avrebbe perso molto, ma lui sì. Lui aveva tutto quello che voleva, perder­lo in quel modo sarebbe stata una bestemmia. Un pazzo con la pistola. Ogni scalino si sentiva sempre peggio. Il su­dore gli colava dietro il collo. Arrivò all'ultimo piano sen­za respiro. L'ometto invece non sembrava per niente affa­ticato. Si fermarono davanti alla porta.

«Apra e accenda la luce. »

«Sì ... »

Entrarono in casa, e Colonna pigiò l'interruttore.

«Chiuda la porta con il paletto. »

Colonna obbedì, poi guardò l'ometto e gli cascò la mascella. Doveva avere più di settant'anni. La faccia scavata, piena di macchie mar­roncine. Ai piedi aveva quelle scarpe con la cerniera che portano spesso i vecchi negli ospizi. Quella scoperta au­mentò la sua paura.

«Dov' è il salotto? »

«Che? »

«Il salotto ... Dov' è?»

«Per di qua.»

Il corridoio era lungo. Colonna arrivò quasi fino in fon­do, poi spinse una porta e accese la luce. La sala era gran­de, arredata con mobili moderni e quadri astratti.

«Si sieda là. » L'ometto indicò uno dei tre divani. Co­lonna si sedette. Non sentiva quasi più la paura, non sen­tiva più niente. Era come sospeso nel vuoto.

«Posso fumare?» riuscì a dire.

«No.»

L'ometto si guardò intorno per un po', scuoten­do appena il capo con aria disgustata. Poi andò a sedersi su un altro divano di fronte a Colonna, a due metri di di­stanza. La pistola era grande e nera. Rimasero in silenzio a guardarsi negli occhi. A un tratto sulle guance del vecchio scesero tre o quattro lacrime grosse come chicchi di caffè, che lui lasciò gocciolare dal mento. Colonna non sapeva cosa fare, non si azzardava a parlare. Il suo sguardo passa­va dalla faccia del vecchio alla canna della pistola, sempre puntata su di lui e sempre più tremolante.

«Il mio migliore amico si chiamava Giulio ... e adesso non c'è più» sussurrò il vecchio.

Un pazzo, porca troia.

«Com' è successo?» chiese Colonna, simulando inte­resse.

«La morte è una brutta cosa, dico io. Su questo siamo d'accordo? »

«Certo. »

Ora spara, cazzo.

«A volte la morte è inevitabile, dico io. Lei che dice? »

«Dico che è vero ... » Perché proprio lui doveva finire nelle mani di quello squilibrato?

«E quando è inevitabile ... be' ... alla fine ci si rassegna, dico io.»

«Ha perfettamente rag ... »

«Ma quando la morte arriva per una stupidaggine, quando anche soltanto un secondo di differenza avrebbe evitato quella morte ... » Rimase in sospeso.

«Be' ... » disse Colonna. Sentiva già nelle orecchie il ru­more dello sparo. Una palla di piombo rovente sarebbe partita da quel forellino nero e ... dove lo avrebbe colpito? Al viso? Alla testa? Al torace? E se invece avesse sbagliato mira? Sarebbe riuscito a saltargli addosso e a disarmarlo?

«Quando la morte si poteva evitare... allora che suc­cede? »

«Che succede?»

«Appunto. Nessuno sa cosa può succedere.»

«Mi vuol dire che il suo amico Giuseppe ... »

« Giulio! »

«Mi scusi ... Che il suo amico Giulio ... sì, insomma ... è così che è andata? »

«Schiacciato da una macchina. Rossa. »

«Mi dispiace ... »

« Uno di quei bolidi che costano più di una casa.»

«Mi associo al suo dolore.»

«Il suo dolore è questa pistola» disse l'ometto, con gli occhi a fessura.

«Io ... volevo solo ... »

«Voleva cosa? Cosa?» Ancora lacrime. Un pazzo, un minorato. Colonna sudava. Quel vecchio gli avrebbe fatto anche pena, se non avesse avuto fra le mani quel cannone tremante.

«Quanti anni aveva il suo amico Giulio?» Cercava di prendere tempo.

«Dodici ... ma era ancora in gamba» disse il vecchio con la voce rotta, grattandosi un orecchio con il calcio della pistola.

«Dodici? »

«Dodici e mezzo, a dire il vero. Ma chi lo vedeva gliene dava sì e no la metà.» Sembrava intenerito. Colonna era confuso. Sentiva il terrore salire su dai piedi.

«Era ... suo nipote?» borbottò.

«Era il mio migliore amico, e lei lo ha schiacciato con la sua maledetta macchina rossa» disse l'ometto alzandosi in piedi. Lacrime. Follia. Gli puntò addosso la pistola tenen­dola con tutte e due le mani.

«Non capisco ... » disse Colonna, smarrito. Non aveva mai investito nessuno, di questo era sicuro. Magari ogni tanto faceva paura a qualche vecchietta che camminava troppo lenta sulle strisce, sgommando fino a far fumare i copertoni. Niente più di questo. Ma poi cosa stava a cer­care spiegazioni? Quel maledetto vecchio era pazzo.

«Non capisco ... » disse di nuovo.

«Ah, il signorino non capisce ... ma bene ... »

«Non ho mai investito nessuno, glielo giuro.»

«Ah no, eh? »

«Forse si sta sbagliando ... con un' altra persona ... » Lo credeva veramente.

Il vecchietto scosse il capo. Sfilò di tasca un foglietto appallottolato e glielo lanciò. Colonna lo prese al volo. Lo aprì e lesse. Per un attimo gli mancò la vista. Era il nume­ro di targa della sua Ferrari Scaglietti. Rossa fuoco. Cazzo cazzo cazzo.

«Cos' è?» disse, facendo il finto tonto.

«Lo ha schiacciato come un verme e non si è nemmeno fermato.»

«Non so di cosa parla ... »

«Se almeno si fosse fermato... se avesse dimostrato che ... che ... »

«Le giuro su Dio che non so di cosa sta parlando. »

«Giulio era pieno di vita ... » Lacrime. Andava messo in manicomio.

«Perché non mette via quella pistola e parliamo un po' con calma?»

« Sarebbe vissuto almeno altri cinque o sei anni... »

«Cinque o sei anni? » Era sbalordito.

«Anche sette, dico io... e lei... con quella maledetta macchina rossa ... un cagnolino pieno di vita ... e lei ... »

«Eh? Un cane?» Si sentì sollevato.

«Lei me l'ha ammazzato ... » Lacrime.

«Oddio ... un cane ... » Sorrise.

« ... e non si è nemmeno fermato ... » Lacrime e rabbia.

«Metta via la pistola ... domani gliene compro dieci, di cani ... No, ma che fa? È impazzito? Noooo ... »

Boom.

Amen.